Quaderni della ginestra

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Rivista di appunti filosofici

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REDAZIONE

Direttore: Anna Maria Ricucci.

Vicedirettore: Corrado Piroddi.

Figure dell’individualismo: Ferruccio Andolfi, Elisa Bertolini, Simona Bertolini, Simona Del Bono, Antonio Freddi, Donatella

Gorreta, Nausicaa Milani, Giacomo Miranda.

Meditazioni filosofiche:Marco Anzalone, Elisa Bertolini, Valeria Bizzari (coordinatrice), Anna Pagliarini, Lavinia Pesci, Martino

Pesenti Gritti, Alberto Siclari, Timothy Tambassi, Roberto Venturini.

Cinema e filosofia: Marco Bigatti, Roberto Escobar, Pietro Parmeggiani, Corrado Piroddi (coordinatore).

Libri in discussione: Mara Fornari, Mirella Lucchini, Timothy Tambassi (coordinatore).

Esperienze didattiche: Teresa Paciariello (coordinatrice), Marina Savi, Chiara Tortora.

Letteratura e filosofia: Margherita Aiassa (coordinatrice), Alessandro Bonanini, Carlo Guareschi, Italo Testa.

Promozione: Marco Anzalone, Carlo Guareschi, Mirella Lucchini, Martino Pesenti Gritti, Anna Maria Ricucci.

Ricerca immagini, composizione, grafica e web: Margherita Aiassa, Marco Anzalone, Elisa Bertolini, Valeria Bizzari, Ales-

sandro Bonanini, Pietro Parmeggiani, Corrado Piroddi, Anna Maria Ricucci, Roberto Venturini.

Direttore responsabile: Ferruccio Andolfi.

SOMMARIO

Figure dell’individualismo................................................................................................................................................p. 6

Amore di sé e narcisismo nei filosofi individualisti dell’Ottocento di Ferruccio Andolfi............................................................................p. 7

Meditazioni filosofiche..................................................................................................................................................p. 22

La presenza dell’assenza. Forse di Antonio Freddi...............................................................................................................................p. 23

Il tempo e la pienezza della gioia:un confronto Nietzsche-Dostoevskij di Livio Rabboni.........................................................................p. 29

Cinema e filosofia............................................................................................................................................................p. 34

Un altro mito della caverna: la forza della legge in Batman di Federica Gregoratto...........................................................................p. 35

Letteratura e filosofia..................................................................................................................................................p. 40

George Perec e W o il ricordo dell’infanzia: l’inassumibile di Michael Archetti......................................................................................p. 41

La prova del fuoco. Sogno, rimozione e coscienza ne Le rovine circolari di J. L. Borges di Giovanni Consigli.........................................p. 48

Emendabile o incurabile? La figura del delinquente-selvaggio nella Colonia felice di Carlo Dossi di Alessio Berrè...................................p. 53

Didattica e filosofia......................................................................................................................................................p. 64

Dalla relazione tra soggetti all’intersoggettività: un percorso didattico di Marina Savi..............................................................................p. 65

Libri in discussione....................................................................................................................................................p. 70

Realmente liberi, realmente rivoluzionari di Giacomo Miranda…………..……...............................................................................p. 71

La peste tra colpa e destino di Daniele Foti…………………….......................................................................................................p. 74

Sentire e conoscere: l’uomo, “creatura emotiva” di Cristina Travanini......................................................................................................p. 76

Giorgia Zerbini, nata a Parma nel 1980. Si laurea in Architettura nel 2008,

studia e lavora a Madrid per diversi anni e dopo un’esperienza di alcuni mesi in

Australia torna a Parma dove attualmente vive. La fotografia non è un lavoro,

non è un hobby, ma è per Giorgia un modo di essere. Il mirino, il suo

personale e particolare sguardo sulla cose. L’obiettivo, tutto ciò che la

incuriosisce, che la meraviglia, che la turba: scene di strada, frammenti di città,

paesaggi sconfinati.

.

Figure dell’individualismo

7

AMORE DI SÉ E NARCISISMO NEI FILOSOFI INDIVIDUALISTI

DELL’OTTOCENTO1

filosofi hanno affrontato la questione del narcisismo nel quadro di

una diagnosi della modernità come epoca dell’individualismo. Essi

non hanno sempre una percezione precisa delle dinamiche psichiche in

gioco e si muovono piuttosto sul terreno dell’etica o della teoria sociale.

Di rado l’egoismo di cui parlano possiede la componente affettiva

presente nel narcisismo, per lo più indica un processo autoconservativo

dell’io. Tuttavia negli ultimi due secoli filosofi e teorici sociali hanno

fornito elementi utili per definire le condizioni di formazione di una

personalità supposta sana e indicato i rischi che corre in un ambiente

orientato verso una individualizzazione sempre più spinta e insieme,

paradossalmente, verso il conformismo sociale.

Il termine individualismo è stato utilizzato per designare quel-

l’insieme di fenomeni, di carattere sociale psicologico ed etico, che si

sono prodotti nell’età moderna, con il progressivo distacco di individui

emancipati da una matrice sociale comune, a volte indicata con il

termine forte «comunità». Più remotamente i fenomeni di quest’ordine

erano affrontati, a livello etico, ricorrendo ai concetti di «egoismo» o di

«amore di sé». Queste vecchie impostazioni sono ancora attive nella

mentalità comune e nella retorica religiosa o politica, che si limita a

condanne sommarie di ogni traccia di egoismo o di individualismo,

senza indagare le ragioni che hanno portato a riabilitare questi termini,

originariamente legati all’idea di una trasgressione colpevole dei vincoli

comunitari. Molti conflitti e malintesi nei rapporti di coppia trovano

giustificazione in un presunto mal definito «egoismo» imputato al

partner. La persistenza di questi luoghi comuni rappresenta di per sé già

una buona ragione per continuare a gettar luce sulla complessità e

ambivalenza del comportamento egoista.

Il secolo d’oro dell’individualismo è il secolo XIX. Simmel, che ha

scritto al termine di questo periodo, caratterizza l’individualismo

dell’800 come un individualismo della differenza o dell’unicità2. Vorrei

ripercorrere questo itinerario ricostruendo le posizioni di tre grandi

personalità. Un teologo luterano, Schleiermacher, esponente di rilievo

del Romanticismo, operante al principio del secolo – i suoi Monologhi

apparvero a Capodanno del 18003 – fornisce nel suo singolare

individualismo una sintesi quasi perfetta tra il raccoglimento in se stessi

e l’apertura altruistica. Un anarchico individualista, Max Stirner, a metà

secolo, radicalizza la critica della religione nell’L’unico e la sua proprietà

(1845)4, rivendicando per l’io, nella sua singolarità, l’autosufficienza

divina. A lui si deve l’esperimento più radicale di staccare l’individuo

I

Quaderni della Ginestra

8

dalla sua matrice sociale. L’unilateralità del suo punto di vista è ciò che

lo rende interessante ma insieme lo espone al fallimento. Il fallimento

discende dalla pretesa di eliminare dalla sfera dell’individualità qualsiasi

momento sacro. Qualche decade più tardi Nietzsche prende atto delle

difficoltà insuperabili che derivano dalla separazione del soggetto dal

processo storico-naturale che lo precede, e ricompone questi due

momenti nel sentimento cosmico dell’oltreuomo – che oscilla però

continuamente tra sentimento di appartenenza a una totalità più grande

e incorporazione dentro di sé di questa totalità5.

Schleiermacher e il doppio movimento dell’animo

Cominciamo dal pio Schleiermacher. Egli è un difensore della

religione dagli attacchi dei suoi detrattori illuministi. Ma la difesa

comporta una profonda reinterpretazione della religione stessa. Ogni

elemento mitico viene abbandonato, e persino dogmi che si presumono

irrinunciabili per il credente, l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima,

vengono ritenuti non essenziali e, per il loro carattere trasparentemente

utilitaristico (dio esiste per rendere possibile la nostra vita immortale),

non propriamente religiosi. Ogni sentimento dell’Assoluto di cui il

singolo individuo è portatore rappresenta una forma di religiosità

legittima. Sul piano etico si verifica la stessa cosa. L’etica kantiana delle

legge universale, uguale per tutti, viene abbandonata a favore di un

dover essere fortemente individualizzato.

Schleiermacher descrive la scoperta di questa vocazione a costruire

un proprio io incomparabile attraverso una mescolanza singolarissima

degli elementi della comune umanità come un evento cruciale, una sorta

di illuminazione, che gli ha permesso di riaggregare d’allora in avanti

tutte le sue successive esperienze a questo nucleo fondamentale. Questa

scoperta, egli afferma, «mi ha elevato e separato da tutto ciò che di

comune e di informe mi circonda, facendo di me un’opera della divinità

che può rallegrarsi di avere una figura e una conformazione del tutto

speciale». La capacità di conservarsi fedele a quest’immagine di sé è

rappresentata con un certo compiacimento: «In verità mi sembra di

essere lo stesso uomo di quando cominciò la mia vita migliore, ma di

esserlo in modo più saldo e determinato»6.

In questo modello la percezione e costruzione del proprio sé più

autentico e peculiare sta in equilibrio con il sentimento della comune

umanità e con il sentimento dell’Assoluto. L’Assoluto stesso si esprime

nella forma della individualità, e l’individuo d’altra parte guadagna la

propria stessa singolarità grazie a questa sua espansione religiosa. Messa

da parte come non religiosa la fede in una durata temporale illimitata

Figure dell’individualismo

9

oltre questa vita, l’accesso a una superiore dimensione spirituale è

contemplata come possibile ad ogni istante di questa vita. Questa

tensione conferisce valore alla vita ma senza produrre gli effetti alienanti

della credenza in una figura idealizzata e onnipotente. Caratteristica di

questo individualismo etico-religioso assai originale è la convinzione che

per essere se stessi occorra trascendersi. Gli altri non rappresentano un

ostacolo alla propria formazione, che anzi si compie grazie a una

sensibilità e un amore universale.

Il compiacimento di sé che accompagna il processo di scoperta e

realizzazione di sé non sembra avere particolari implicazioni

patologiche, e consiste piuttosto in un’autostima che conferma di

continuo l’agente nella strada che sta seguendo. L’immagine di sé

ritrovata al termine di un laborioso processo di osservazione interiore

funge da ideale dell’io. Uso quest’espressione perché Schleiermacher

dice espressamente, in tacita polemica con Kant, di non conoscere più

la coscienza come istanza giudicante e punitrice (Gewissen). «Non

conosco più quel che gli uomini chiamano coscienza, nessun sentimento

mi tormenta né ho bisogno di ammonimenti». La coscienza (Bewusstsein)

dell’umanità non genera una quantità di prescrizioni di ciò che deve e

soprattutto che non deve essere compiuto ma semplicemente ispira un

agire che sia degno dell’umanità7.

Schleiermacher presenta il percorso di ricerca della propria identità

come esemplare, come una meta cioè che tutti sono in grado e

dovrebbero perseguire. La varietà delle vocazioni è ridotta nei Monologhi

a due tipi principali. C’è chi orienta la propria vita, nell’otium, alla

formazione di sé – questa è la strada che Schleiermacher rivendica

anche come propria – e chi attende piuttosto alla produzione di opere.

Mentre quest’ultimo – Schleiermacher ha in mente gli artisti dei circoli

romantici – ha bisogno di solitudine, chi sceglie di attendere alla propria

formazione non può fare a meno di rapporti socievoli.

Altrove, nel primo discorso sulla religione8, ogni vita (e anima)

umana è vista come il prodotto di due tendenze opposte. La prima

tendenza porta il vivente ad «attrarre a sé tutto ciò che lo circonda,

intrecciandolo alla propria vita, assorbendolo completamente, per

quanto possibile, nella sua realtà interiore». L’altra aspirazione mira ad

«espandere sempre più il proprio io interiore, dall’interno all’esterno (ihr

eigenes Selbst von innen heraus immer weiter auszudehnen), in modo che tutto

sia compenetrato da esso, e tutto sia partecipato». La prima è rivolta al

godimento, la seconda invece lo disprezza e mira solo a un’attività

sempre più intensa ed elevata da cui si originano le costruzioni storiche

(«forza e legge, diritto e utilità»). Ogni anima partecipa di entrambe le

tendenze, anche se in essa può essere prevalente o quasi esclusiva una di

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esse. In questa rappresentazione ciascuna individualità comporta

sempre un bilanciamento tra due momenti opposti: quello centripeto o

autoaffermativo, per cui le cose vengono ricondotte (attratte,

incorporate) nell’ego che ne gode e si valorizza, e quello centrifugo,

orientato verso l’altro da sé, in un movimento infinito, per cui le cose

ricevono forma ad opera di un ego produttore. Schleiermacher scorge il

rischio di un isolamento sterile non solo nell’estremo del ripiegamento

passivo su di sé ma anche nel polo opposto di un vuoto darsi da fare

privo di obiettivi praticabili. Le combinazioni migliori corrispondono a

ciò che oggi chiameremmo un’identità ben riuscita: in essa l’impulso a

tener fermo il proprio sé come centro dell’esperienza si trova in perfetto

equilibrio con quello opposto ad esprimere il proprio sé all’esterno,

imprimendo una forma al mondo.

L’individualismo professato dal teologo berlinese corrisponde ben

poco all’immagine a cui esso è stato comunemente associato nelle

polemiche successive. Non ha i tratti dell’individualismo atomistico che

ritroviamo nelle teorie liberali. La condizione perché l’individuo

apprezzi la propria peculiarità è infatti una sensibilità universale che gli

permette di situarla nel contesto della infinita varietà possibile delle

espressioni di umanità. Né ha i tratti dell’individualismo possessivo: in

assenza di un atteggiamento di apertura e di donazione l’animo sarebbe

distrutto da un eccesso di passività nel ricevere.

A volte si ha l’impressione che Schleiermacher indulga a un certo

autocompiacimento dell’io che si osserva nella meditazione. Egli rico-

nosce la propria stessa vocazione in una «cultura dell’io» nello spazio

dell’otium che si oppone a quella del produttore di opere. Ma subito

precisa che l’efficacia di questa esplorazione interiore è subordinata a

una ricca frequentazione sociale, e che anzi la meditazione stessa ha una

destinazione sociale, quanto meno nel circuito dell’amicizia. Così

sarebbe errato vedere all’opera nelle pagine dei Monologhi un puro

ripiegamento narcisistico.

La matrice «religiosa» dell’individualismo di Schleiermacher pone un

interrogativo alla metapsicologia psicoanalitica, in genere piuttosto

scettica verso l’avvenire dell’illusione religiosa. Sembrerebbe che la

particolare evoluzione della religione indicata dal protestantesimo

liberale non comporti i rischi legati alla fede nell’onnipotenza del

pensiero né quelli dissolutivi del «sentimento oceanico».

Figure dell’individualismo

11

“AHORA HAY UN VACÍO...”, ESTACIÓN DE ATOCHA, MADRID, 2008

Quaderni della Ginestra

12

Stirner : un solitario nemico del sacro

A metà dell’Ottocento l’individualismo di Stirner, ne L’unico e la sua

proprietà, sottolinea di nuovo il carattere incomparabile di ogni

individualità. Anche per lui, come per Schleiermacher, l’uniformarsi a

una legge generale si risolve in un rinnegamento di sé e della propria

individualità. Ma questa nuova teoria individualistica muove da

presupposti assai diversi: si situa all’interno di una critica allargata della

religione (o del sacro), che investe ogni sua trasfigurazione umanistica,

in primo luogo l’etica dell’abnegazione storicamente dominante.

Il termine «individuo» non è ritenuto anzi in grado di esprimere la

differenza, perché indica comunque l’articolazione di un «genere», e ad

esso viene preferito il termine «unico», il quale si sottrae a qualunque

definizione e rimanda solo alla descrizione di ciò che ogni singolo

diventa. Lo «stato sociale,» cioè di appartenenza di un individuo a una

comunità, biologica o civile, è considerato uno stato di natura che

l’evoluzione maturativa del vivente, come quella complessiva della

civiltà, è destinata a superare. Il punto tendenziale di arrivo è dato da

una forma di egoismo consapevole o maturo, che consiste nell’onesto

riconoscimento che qualunque azione si compia, fosse pure in nome del

più puro disinteresse, è compiuta per amore di se stessi. Non si possono

pertanto distinguere azioni egoistiche e non egoistiche; l’unica

distinzione possibile passa tra comportamenti dettati da un egoismo

«rozzo» e altre dettate da un egoismo «maturo», capace anche di

momenti di «oblio di se stessi».

In nome dell’unico Stirner conduce una polemica contro il principio

di uguaglianza che vede rappresentato a livello di generalità filosofica

nella morale kantiana e in forma politica dai movimenti liberali.

L’istanza dell’individualità (Eigenheit), ovvero la determinazione a seguire

la propria strada, rappresenta qualcosa di diverso e di assai più radicale

della libertà (Freiheit), che è un semplice sbarazzarsi di vincoli

opprimenti.

Il frutto principale che Stirner trae dal confronto con la morale

kantiana è l’idea che ciascun individuo debba seguire il proprio interesse

o quanto meno ciò che è per lui interessante. La società viene

rappresentata come uno strumento che l’unico deve utilizzare per i

propri fini. Al di fuori di questa funzione utilitaria il sociale, l’essere

legati, coincide con la sfera del sacro che Stirner intende eliminare.

Ciò spiega come mai Stirner, che pure poteva trovare nelle posizioni

di Schleiermacher la prefigurazione del carattere incomparabile

dell’unico, si guardi bene dal richiamarsi alla costellazione di idee

romantico-religiose prima illustrato. Il rapporto con l’infinito immette il

Figure dell’individualismo

13

finito in un’atmosfera sacra. L’appropriazione del sacro auspicata

dall’«unico» suppone invece che esso venga «divorato» e così eliminato.

Con questa eliminazione viene meno ogni venerazione e forma di

dipendenza – da cose, pensieri e legami sociali – che implica servilità, e a

cui Stirner oppone la grandiosità dell’individualità ribelle o peccatrice.

Il delitto non è altro che l’atto (ogni atto) mediante cui il singolo si

sottrae al potere e alla potenza delle istituzioni. Il singolo può assumere

il delitto come propria parola d’ordine in quanto lo carichi di questo

significato fondamentale di disubbidienza di fronte al prepotere dello

Stato: che tende a coincidere d’altronde con lo stato di cose esistente9. Il

delitto nasce da idee fisse, esiste solo in rapporto alla credenza in valori

sacri e assoluti. Chi si spoglia di tale credenza è innocente. Se continua a

definire la sua azione delitto lo fa solo polemicamente10. Il peccato, o la

colpa, esiste solo in rapporto a una mancanza che la coscienza religiosa

ha proclamato universale («siamo tutti peccatori»). L’eliminazione del

peccato è resa possibile dalla coscienza che non ci manca niente e che

«siamo già perfetti». Basterebbe dunque raggiungere questa coscienza

«egoista» della propria perfezione perché il peccato perda ogni senso 11.

Il processo di liberazione dal senso di colpa è rappresentato in maniera

piuttosto semplicistica, come se il senso di colpa non avesse profonde

radici nella vita interiore degli individui e derivasse solo da istanze

esterne (lo Stato, la religione), ma la direzione della terapia è indicata

correttamente: conciliarsi con la propria figura di individui che hanno

operato un distacco dalla totalità a cui appartenevano. Meno persuasiva

è la convinzione che questo distacco debba essere operato in nome della

propria perfezione.

Lo sviluppo delle individualità non è più garantito dal fatto di attuarsi

nel quadro della realizzazione simultanea di una realtà assoluta. I limiti

spaziotemporali dell’esistenza finita vengono apertamente riconosciuti.

In questo Stirner non fa che trarre le ultime conseguenze del

riconoscimento della mondanità compiuto da Feuerbach. La sua

posizione rappresenta davvero, da un certo punto di vista, l’inizio di un

modo nuovo di rapportarsi al problema del l’individualità, in un

orizzonte di piena immanenza.

Tuttavia, come egli stesso ebbe a dire, «il sacro non si lascia mettere

da parte facilmente»12. Sarebbe azzardato considerare lo spostamento

avvenuto come un processo non reversibile. Stirner si trovò di fronte al

compito storicamente urgente di una liberazione dall’autorità del sacro.

Ma una volta che fu indebolita quest’autorità, furono gli stessi individui

emancipati a voler ripensare la loro autonomia in un contesto di

appartenenze e dipendenze. L’unico fu così messo in grado di

abbandonare anche l’idea fissa del proprio vantaggio e di assumersi

Quaderni della Ginestra

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nuove responsabilità sociali.

Questo accade un secolo più tardi in quel singolare continuatore di

Stirner che è Albert Camus, autore de L’homme revolté (1951). Il modo in

cui questi concepisce la rivolta, ancorandola a un valore umano

condiviso che si vuole proteggere, le imprime una svolta solidaristica.

L’origine della rivolta è squisitamente individuale, ma essa mette in

questione questa condizione solitaria dell’individuo e consente il

passaggio dalla tragedia individuale (l’assurdo) a una coscienza collettiva

della necessità di opporsi a condizioni inaccettabili di esistenza in nome

dei valori minacciati. Sono solo le moderne società individualistiche,

mettendo in campo questioni di diritti, con il contrasto tra l’uguaglianza

proclamata e le disuguaglianze di fatto sussistenti, ad attivare i

movimenti di rivolta, ma questi non fanno altro che mettere in risalto

una delle dimensioni essenziali dell’essere umano13.

Nietzsche: un ego che ricapitola il mondo

In Umano troppo umano Nietzsche ha mostrato come la rottura di

comunità tradizionali coese, la messa in discussione di tradizioni ritenute

sacre, ha aperto la strada a nuove possibilità di sviluppo di «spiriti liberi».

La prima condizione per il riconoscimento del valore della

individualità propria è una conciliazione con ciò che è stato sempre

vissuto con rimorso, in quanto si opponeva al valore morale centrale

dell’«essere legati» (Gebundensein). La buona coscienza con cui

l’individualità viene finalmente vissuta favorisce la formazione di

individualità forti e il compimento di grandi azioni. La moralità stessa,

opera di questo individuo cosciente di sé, si configura sempre più come

invenzione personale degli stessi criteri di valore. Attenersi a prescrizioni

morali uniformi per tutti ha senso solo per individui che «non si

riconoscono in modo rigorosamente individuale e debbono avere una

norma fuori di sé».

Questo tema di un individuo forte che si sottrae al peso della

tradizione, accentuato fortemente negli scritti del periodo intermedio

della produzione di Nietzsche (il cosiddetto periodo «illuministico»),

cede progressivamente al motivo, apparentemente opposto, secondo cui

l’individuo acquista grandezza attraverso un sentimento cosmico che gli

consente di riprendere in sé l’infinito corso degli eventi. A questa

apertura corrisponde una revisione dell’idea tradizionale del soggetto

come unità sovrana. L’io cosciente viene indebolito, dissolto in una serie

di istanze inconsce, concepito come uno strumento al servizio della

saggezza dell’organismo, che non attende questo sviluppo per svolgere

le sue funzioni autoconservative. È una finzione regolativa, che serve ad

Figure dell’individualismo

15

assicurare una certa stabilità e riconoscibilità. Nel Crepuscolo degli idoli

questo costrutto viene riportato al bisogno di indicare un responsabile

di ciò che accade, un centro di imputazione. Da questo assunto morale,

già esaminato nell’aforisma 107 di Umano troppo umano, sarà possibile

liberarsi con l’avvento della «saggezza», che rinuncia al giudizio e

riconosce l’«innocenza del divenire».

Nietzsche condivide l’obiettivo stirneriano di liberare gli individui dal

senso di colpa, e innanzitutto dalla colpa di essere se stessi. Ma per lui

questa colpa può essere superata solo a condizione di rinunciare alla

limitatezza del punto di vista dell’individuo.

Il concetto di sacro che affiora in questa ridefinizione nietzschiana

dell’individuo non implica tuttavia quel vissuto di dipendenza che

Schleiermacher aveva riconosciuto come elemento distintivo della

religione, ma che anche un critico della religione come Feuerbach aveva

riproposto in un orizzonte immanentistico come sua eredità

ineliminabile. Non è facile precisare infatti se il superamento della

prospettiva dell’individuo corrisponda a un riconoscimento di limiti o a

una più esaltata coscienza di sé, che rischia di compromettere la giusta

intuizione della necessità per l’individuo di «farsi parte». Se è vero che la

forza dell’individuo viene collegata alla sua capacità di aderire all’intero

processo del divenire, questa capacità è sempre sul punto di diventare

una capacità di appropriazione e di conseguenza il fondamento di un

sistema di differenze e preminenze gerarchiche14.

L’affermazione che l’ego rappresenta l’intera catena dell’essere fino a

lui potrebbe essere letta in senso solidaristico, come il riconoscimento di

un’affinità di fondo che unisce tutti gli esseri, malgrado le differenze, in

un destino comune. Ma Nietzsche fa valere questo carattere riassuntivo

dell’io esattamente per il motivo opposto, per rimarcare la differenza di

valore di ciascuno di questi percorsi, ciascun ego riepiloga a suo modo

l’intero cammino evolutivo che lo precede, attraverso un punto di vista

selettivo, che lo rende distante e incomparabile con qualsiasi altro. Il

generico attaccamento a sé dell’individuo non ha valore alcuno, né

merita alcuna speciale considerazione, solo l’egoismo dei grandi

individui ha interesse per l’umanità. Questo egoismo consiste nel volere

il destino del mondo, ovvero nell’inglobare in sé l’intero suo divenire. Il

senso di appartenenza, che la formula sembrava suggerire, slitta così

impercettibilmente verso l’incorporazione del mondo. Alcuni critici

hanno utilizzato, a proposito di questo «rospo gonfiato fino

all’inverosimile», proprio le metafore dell’«incorporare», del «divorare» o

del «fagocitare» il mondo15.

Quaderni della Ginestra

16

SENZA META, SIENA, 2010

Figure dell’individualismo

17

Conclusioni

Vorrei spendere qualche parola finale circa gli insegnamenti che si

possono trarre dalla tradizione etico-filosofica esaminata per quanto

concerne il senso che l’amore di sé riveste nella costituzione dell’identità

personale.

La categorie utilizzate per indicare l’io e le sue vicende sono varie.

Nel caso di Schleiermacher l’io è inteso in termini di «spirito», di

«anima» o di «animo», con una enfatizzazione della sua dimensione inte-

riore, autoriflessiva, e della sua libertà nel decidere del proprio destino.

Il «mondo esterno» riflette il nostro essere interiore. Ciò deve però

essere inteso piuttosto nel senso «ermeneutico» per cui

nell’apprendimento del mondo giocano un ruolo decisivo le nostre

interpretazioni che non in quello di uno spiritualismo assoluto e

sostanzialistico. La deduzione del mondo dall’io, al modo di Fichte, non

appartiene a Schleiermacher, che anzi lamenta in Fichte la separazione

di filosofia e vita. I momenti di necessità del mondo sono riportati al

fatto che in esso, come comunità degli spiriti, interagiscono una

molteplicità di attori e si producono quindi effetti non corrispondenti

alle azioni libere di ognuno di essi. Sembra quindi scongiurato il rischio

di un assorbimento del mondo nell’io, sebbene manchi indubbiamente

una coscienza adeguata dei condizionamenti che l’io subisce da parte del

mondo reale. Dal punto di vista relazionale la priorità del proprio punto

di vista, nella scoperta e costituzione del proprio sé come nel plasmare il

mondo, è sempre bilanciata dall’insistenza sulla necessità di scambi

socievoli, ritenuti essenziali per la propria stessa identificazione.

Il soggetto in questa concezione ha una figura coerente, forte,

persino grandiosa. Intuizione e sentimento sono le sue facoltà

costitutive. L’orientamento religioso e le scelte etiche ne sono gli

elementi costitutivi. L’etica, diversamente che in Kant, non mira a

garantire la convivenza sociale attraverso regole e divieti, ma aderisce ai

progetti di vita individuali, che si suppongono dotati di una

fondamentale positività, e, grazie al radicamento in una comune

«umanità», armonizzabili. La costruzione coerente del proprio piano di

vita è la norma fondamentale o unica di una siffatta morale, che quindi

non conosce neppure una molteplicità di virtù.

L’unico di Stirner ha caratteristiche meno forti e determinate. Come

ha osservato Simmel, per il suo carattere formale è «l’io dell’egoismo

svuotato di ogni contenuto, radicale, privo di legge e di contrasto»16. La

coerenza del percorso vitale sembrerebbe disperdersi nella varietà e

momentaneità del «godimento di se stessi». Tuttavia l’egoismo si

presenta a questo soggetto come una sorta di missione, capace di

Quaderni della Ginestra

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liberarlo dagli infiniti vincoli, istituzionali, religiosi ed etico-umanistici

che l’hanno finora condizionato. Si tratta di una via che dovrebbe

condurre all’«autenticità» e anche a rimodulare i rapporti sociali secondo

questa dimensione. Il contrasto tra individui, portato all’estremo, fino a

negare cioè gli stessi ruoli sociali che essi rivestono, dovrebbe metterli in

grado non solo di competere ma anche di avere relazioni positive faccia

a faccia. «Nella estrema separatezza si dissolve il contrasto».

La socialità viene recuperata nella forma esile del contratto, ovvero di

un’unione volontaria, che ha limitati scopi utilitaristici. Marx si

confrontò con questo modello, lamentando il carattere poco vitale di un

rapporto sociale di tipo strumentale. Egli ripropose a suo modo l’unicità

libera da ruoli sociali irrigiditi come meta dello sviluppo storico e della

stessa trasformazione rivoluzionaria. In questa critica resta dubbio però

se l’istanza dell’unicità ribelle possa essere guadagnata al termine di un

percorso di cui essa stessa non sia stata protagonista.

Preziosa appare la tesi stirneriana per cui l’altruismo può essere

ricondotto a una forma di egoismo maturo. Non esiste però alcuna

ragione per negare che un’azione da cui si ricava un senso di

soddisfazione di sé sia per ciò stesso non altruistica. Un analogo vizio di

ragionamento si può osservare nella stessa concezione antropologica di

Stirner, il quale, dopo aver giustamente affermato che gli elementi della

comune umanità acquistano una curvatura speciale in ogni singolo, non

sembra comprendere che essi, con tutta la loro peculiarità, restano

tuttavia comuni, creando quindi vincoli sociali17.

Nietzsche prospetta una concezione che lascia trasparire meglio di

quelle dei suoi precursori l’ambivalenza del soggetto e i pericoli a cui è

esposto. Permane l’ideale di un uomo grande, che si spinga anzi oltre i

limiti dell’umano, come suggerisce il termine Übermensch. Uno degli

aspetti di questa grandezza consiste nella invenzione o creazione dei

propri criteri morali di condotta. La scelta etica non ha principalmente

un orientamento sociale ma è volta all’incremento del proprio sé. Il

dovere è collegato al potere, al possesso di risorse, a un’espansione

vitale. L’individuo grande è quello che è capace di volere che la propria

vita sia ripetuta all’infinito. Resta indeterminato se l’espansione di sé sia

volta ad una auto affermazione sugli altri o possa assumere anche

l’aspetto dell’abnegazione.

L’ambivalenza di questa posizione, che alterna vissuti di superiorità e

di annullamento, può essere descritta in linguaggio religioso. Nietzsche,

come ha osservato Simmel, «vuole liberarsi dal tormento della

lontananza da Dio». Non può tollerare di non essere Dio, analogamente

ai mistici cristiani o a Spinoza. L’intollerabilità dell’opposizione tra Dio

e l’io nel caso della mistica si annulla per il fatto che cade l’io – questo è

Figure dell’individualismo

19

pure il senso dell’affermazione spinoziana omnis determinatio est negatio –,

mentre Nietzsche ottiene lo stesso risultato negando Dio. La soluzione

di Schleiermacher partiva viveversa da un presupposto di compatibilità

della particolarità con l’universalità divina. Per lui, è ancora Simmel a

notarlo, esse si escludono così poco che, al contrario, quella è soltanto la

forma in cui questa si mostra». «La personalità, l’unicità, è il modo in cui

vive l’universo». Se la scissione dei due termini decade, non c’è più

necessità di negare, in nome della sua insostenibilità, uno dei suoi lati18.

Se ci chiediamo conclusivamente per quali aspetti la linea di pensiero

che ho qui ricostruito possa contribuire, in maniera diretta o indiretta, a

illuminare la questione del narcisismo, l’attenzione può concentrarsi sui

seguenti punti:

1. il rapporto io-mondo. Nella tradizione considerata l’io ha una

sorta di priorità sul mondo. Quest’ultimo è un riflesso dell’io o dello

spirito (Schleiermacher), è uno strumento di cui l’io si serve per la

propria autoconservazione, utilità e godimento (Stirner), viene

incorporato da un io che la metapsicologia psicoanalitica definirebbe

megalomanico (Nietzsche). L’aspirazione dell’io alla grandezza è un

elemento comune, di per sé non patologico. Lo diventa quando si

realizza a spese dell’altro, asservito a strumento o addirittura inglobato

in sé.

2. l’etica. Qui la tendenza comune porta verso il superamento

dell’etica universalistica orientata alla salvaguardia della convivenza

sociale in nome di un’etica che aderisce alle specificità dell’agente

morale. Il movimento è da un’etica della prescrizione e della colpa verso

un’etica fondata su un’ideale positivo dell’io e sulla vergogna di non

corrispondere ad esso. Mentre la prima si presenta come un’etica delle

regole riferite a singole azioni da sottoporre a giudizio, l’altra assume

come referente ideale una certa immagine coerente del soggetto19. La

coscienza della propria identità, ovvero del possesso di determinate

risorse (poteri) crea la responsabilità di esercitarle, al di là di ogni

obbligo e sanzione20. La psicoanalisi, a partire da Freud, ha privilegiato il

modello superegoico di etica, la sua versione kantiana. Ora, che cosa

accadrebbe se essa assumesse un modello di etica non imperativo bensì

ottativo? E quali conseguenze ne deriverebbero per la pratica clinica?

Naturalmente il fatto solido e gravido di conseguenze del senso di

colpa non può essere accantonato con disinvoltura. Suppongo, ma qui

mi avventuro in un campo incognito, che la separazione, ogni

separazione dell’individuo dai suoi luoghi originari di appartenenza non

possa essere vissuta senza sentimento di colpa. La sua attenuazione, o

la capacità di convivere con esso, potrebbe essere favorita

dall’assunzione di un diverso modello, consapevolmente utopico, di

Quaderni della Ginestra

20

moralità come realizzazione del proprio singolare dover essere.

3. L’altruismo. Si assiste, almeno in Stirner e Nietzsche, a una

riduzione dell’altruismo a una forma di egoismo maturo. Si registra qui

qualche affinità con la posizione di Heinz Kohut, il quale contesta

anche lui l’opposizione tra quei due termini e ragiona sulla possibilità

che a partire dal narcisismo sia possibile seguire una sua linea evolutiva

per così dire autonoma che porta di in direzione dell’assunzione di cause

sovrapersonali e persino dell’eroismo.

4. La ribellione. Può essere interpretata come una dimensione

costitutiva dell’esistenza. Indicherebbe allora l’aspetto per cui ogni

individuo rifiuta le regole mortifere delle istituzioni sociali ed etiche per

assumersi, in quanto centro di iniziativa e di decisione, nuove

responsabilità proprie. Attraverso di essa l’individualismo passivo che la

società moderna induce e prescrive si trasforma in una risposta

innovativa al problema della scomparsa delle appartenenze, in un

tentativo di elaborare il lutto delle separazioni.

5. L’orizzonte religioso o postreligioso. Gli autori considerati sono i

protagonisti di una critica radicale della tradizione religiosa, da un fronte

interno ad essa (la teologia liberale di Schleiermacher) oppure esterno (la

critica di ogni varietà del sacro nel caso di Stirner, il conferimento di una

dimensione sacra a un ego grandioso nel caso di Nietzsche). Forse

l’interpretazione della religione come onnipotenza del pensiero e del

desiderio non ha tenuto nel debito conto la varietà delle espressioni

religiose e degli stessi modi d’intendere il desiderio d’immortalità.

Questo desiderio, reinterpretato in modo secolarizzato, indica una

possibilità aperta in ogni istante dell’esistenza terrena. A questo modo il

sacro perde la qualità originaria di un tremendum minaccioso per indicare,

in maniera più accogliente, quel trascendimento di sé che si richiede per

essere se stessi: una dimensione «spirituale» che elimina la piattezza del

richiamo alle rigide leggi della necessità naturale.

FERRUCCIO ANDOLFI

Figure dell’individualismo

21

1 Relazione presentata al XVI Congresso Nazionale della Società Psicoanalitica Italiana, Roma 25-27 maggio 2012. La relazione apparirà anche negli Atti del congresso. 2 G. Simmel, Forme dell’individualismo, Armando, Roma 2001. 3 F.D.E. Schleiermacher, Monologhi, Diabasis, Reggio Emilia 2011. 4 M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano 1979. 5 F. Nietzsche, Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1967 ss. 6 F.D.E. Schleiermacher, Monologhi, cit. p. 54. 7 Ivi, p. 50 s. È possibile che qui S. fosse memore di un osservazione simile di Goethe, che compare nelle righe conclusive delle Confessioni di un’anima bella, sesto capitolo del Wilhelm Meister: «A malapena mi ricordo di un solo comandamento; nulla mi appare sotto forma di legge; è un istinto quello che mi guida e mi conduce sempre sulla via giusta; seguo liberamente i miei sentimenti e ignoro tanto la costrizione quanto il pentimento» (trad. it. Adelphi, p. 376). 8 Sulla religione. Discorsi a quegli intellettuali che la disprezzano, Queriniana, Brescia 1989, p. 44. 9 L’unico, cit., p. 207. 10 Ivi, p. 215. 11 Ivi, pp. 373-375. 12 Ivi, p. 45. 13 A. Camus (2011), Nota sulla rivolta, in “La società degli individui”, n. 42, 2011, pp. 95-106. 14 F. Andolfi (1995) Nietzsche e i paradossi dell’individualismo. in “Segni e comprensione”, n. 25, anno IX, maggio-agosto 1995, pp. 16-31. 15 S. Giametta (1991), Nietzsche il poeta, il moralista, il filosofo, Garzanti, Milano, p. 114 s.. 16 G. Simmel, Forme dell’individualismo, cit., p. 44. 17 Per questo rilievo critico cfr. G. Simmel, La legge individuale, Armando, Roma 2001, p. 104 e F. Andolfi, Il non uomo non è un mostro. Saggi su Stirner, Guida, Napoli 2009, p. 120 s. 18G. Simmel , Friedrich Nietzsche filosofo morale, Diabasis, Reggio Emilia 2008, p. 96 s. 19 H. Merrell Lynd, On Shame and the Search for Identity, Routledge and Kegan Paul, London 1958, p. 49 s., pp. 207-209. 20 J.-M. Guyau (2009), Abbozzo di una morale senza obbligo né sanzione, Diabasis, Reggio Emilia.

Meditazioni filosofiche

Meditazioni filosofiche

23

“Questo libro nasce da un testo di Borges: dal riso che la sua lettura provoca scombussolando tutte le familiarità del pensiero – del nostro,

cioè: di quello che ha la nostra età e la nostra geografia – sconvolgendo tutte le superfici ordinate e tutti i piani che placano ai nostri occhi il

rigoglio degli esseri, facendo vacillare e rendendo a lungo inquieta la nostra pratica millenaria del Medesimo e dell’Altro. Questo testo

menziona «una certa enciclopedia cinese» in cui sta scritto che «gli animali si dividono in: a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c)

addomesticati, d) lattonzoli, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j)

innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano

sembrano mosche». Nello stupore di questa tassonomia, ciò che balza subito alla mente, ciò che, col favore dell’apologo, ci viene indicato

come il fascino esotico d’un altro pensiero, è il limite del nostro, l’impossibilità pura e semplice di pensare tutto questo.

[…] Questo testo di Borges mi ha fatto ridere a lungo, non senza un certo

malessere difficile da superare. Forse perché sulla sua scia spuntava il sospetto di un disordine peggiore che non l’incongruo e l’accostamento di

ciò che non concorda; sarebbe il disordine che fa scintillare i frammenti di un gran numero d’ordini possibili nella dimensione, senza legge e

geometria, dell’eteroclito; e occorre intendere questa parola il più vicino possibile alla sua etimologia: nell’eteroclito le cose sono ‘coricate’, ‘posate’,

‘disposte’ in luoghi tanto diversi che è impossibile trovare per essi uno spazio che li accolga, definire sotto sotto gli uni e gli altri un luogo comune.

Le utopie consolano: se infatti non hanno luogo reale si schiudono tuttavia in uno spazio meraviglioso e liscio; aprono città dai vasti viali,

giardini ben piantati, paesi facili, anche se il loro accesso è chimerico. Le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il

linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i nomi comuni, perché devastano anzitempo la ‘sintassi’

e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma anche quella meno manifesta che fa ‘tenere insieme’ (a fianco e di fronte le une alle altre) le

parole e le cose […]. Le eterotopie […] inaridiscono il discorso, bloccano le parole su se stesse, contestano fin dalla sua radice, ogni

possibilità di grammatica […]. […]

Quando instauriamo una classificazione consapevole, quando diciamo che il gatto e il cane si somigliano meno di due levrieri, […]

qual è dunque l’elemento di base a partire dal quale possiamo sostenere questa affermazione con piena certezza. Su quale ‘tavola’, in base a

quale spazio d’identità, di similitudini, d’analogie, abbiamo preso l’abitudine di distribuire tante cose diverse e uguali? Qual è questa

coerenza – di cui è facile capire che non è né determinata da una concatenazione a priori e necessaria, né imposta da contenuti

immediatamente sensibili?”

Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, RCS libri, Milano, 1998, pp. 5-8.

LA PRESENZA DELL’ASSENZA. FORSE.

Quaderni della Ginestra

24

uesta meditazione nasce da un testo di Foucault: dal riso amaro

che la sua lettura provoca scombussolando tutte le familiarità

della filosofia…

Quando ci si imbatte in Borges la tentazione di perdersi in molteplici

rimandi testuali e labirintiche auto-citazioni è davvero forte: piacevole

sarebbe cimentarsi in giochi di scatole cinesi, analoghi a quelli con cui

Calvino ci diletta in Se una notte d’inverno un viaggiatore, o in infiniti

“rimbalzi” tra spettacolo e spettatore, quali lo stesso Foucault riconosce

nel Velasquez di Las Meninas. Ma qui il testo “da meditare” è di Foucault

e io potrei al massimo compiacermi dell’idea di concepire una caotica

meta-meditazione sui “fantasmi filosofici” che esso evoca.

Il filosofo francese opta per un titolo terribilmente essenziale, Le

parole e le cose. Non gravitano forse attorno a questi due concetti tutto il

sapere umano e la sua filosofia? O meglio attorno alla ricerca dei relativi

ordini, quello in cui mettere le parole e quello che individua le cose,

nonché infine quello che lega le une alle altre? A sfidare tale ipotesi ecco

Borges con una peculiare enciclopedia di animali: come ogni tassonomia

che si rispetti essa dovrebbe mostrare un ordine delle cose attraverso

l’ordine di una serie di parole, ma in questo caso qualcosa non funziona.

Le parole falliscono il loro obiettivo e il pensiero s’arresta perplesso di

fronte ad una strana forma di impossibilità. Ciò che sembra impossibile

non è tanto pensare ciascuno di questi singoli gruppi di animali,

sebbene alcuni di essi creino, per esempio, paradossi

dell’autoreferenzialità; impossibile è pensarli come un tutto, immaginarsi

un locus dove possano incontrarsi, un ordine razionale di relazioni di

uguaglianza e differenza che li accomuni: la serie alfabetica fornisce

infatti solo un finto luogo della giustapposizione.

Eppure tutto ciò è dicibile! Il linguaggio nudo e crudo non sembra

infatti curarsi molto di certe difficoltà: lo scollamento, anzi la frequente

estraneità, tra verbum, intellectus e res non potrebbe essere più evidente. In

questo caso il linguaggio, oltre a donare presenza ad esseri fantastici

(come le sirene), fornisce uno spazio non-luogo in cui tali categorie

enciclopediche possono convivere e apparire, solo apparire, distinguibili:

le parole dividono l’indivisibile. Non diventa però lo spazio della

rappresentazione, della conoscibilità: relegato alla pagina e alla voce esso

non sembrerebbe in alcun modo collegabile alla realtà o al pensiero. Che

volesse avvertirci proprio di questo Borges collocando l’enciclopedia in

un luogo per noi alieno, l’esotico estremo oriente?

Non si può non notare come Foucault, insistendo sullo “spazio”,

sembri restare, almeno in parte, legato alla concezione visiva, platonica,

della conoscenza. Come egli suggerisce, siamo di fronte ad

un’eterotopia, il negativo inquietante delle consolatrici utopie, mostro

Q

Meditazioni filosofiche

25

linguistico che inaridisce le frasi e rende impossibili tutti i legami tra “(a

fianco e di fronte le une alle altre) le parole e le cose”. L’eterotopia non

consente discorsi, ma va ben oltre la falsità, ben oltre la classica colpa di

mal accordare le parole alla realtà di cui lo straniero accusa il sofista

nell’omonimo dialogo platonico. La scelte pseudo-sintattiche di Borges

impediscono l’auspicabile aggancio delle parole tanto con le cose

quanto soprattutto con il pensiero: neppure la fantasia riesce a gestire

tale classificazione.

Forse si potrebbe attribuire ad un ipotetico autore Foucault-Borges il

tentativo di ridicolizzare, evidenziandone la potenziale inefficacia, la

quasi maniacale ansia di trovare definizioni che pervade la filosofia

occidentale. Risulta infatti evidente come per possedere un oggetto con

il pensiero non sia sufficiente catalogare e specificare, come non basti

dare biblicamente un nome alle cose per renderle epistemologicamente

proprie. Ma ancor più interessante è notare come la sottolineatura

dell’eterotopia evidenzi una latitanza, illumini il vuoto lasciato in questa

turba di animali da un assente fondamentale, il principio d’ordine.

Ordinare significa, per Foucault, distinguere il “Medesimo” dall’“Altro”.

La classificazione di Borges rende però impossibile una simile cesura,

mostrandone al tempo stesso la necessità epistemologica. L’ovvio, il

consueto, paradossalmente si manifesta solo nel momento in cui è

sottratto alla vista: in questo caso non si scorge da nessuna parte

l’ordine in base al quale gli animali sono stati separati. È davvero

scomparso o piuttosto non c’è mai stato? Esattamente come accade nel

dipinto Las Meninas per l’oggetto-soggetto di rappresentazione, cioè i

sovrani di Spagna, il brano di Borges mette in risalto, non mostrandolo

o meglio mostrando gli effetti della sua mancanza, ciò di cui Foucault

andrà alla ricerca per le quattrocento e oltre pagine della sua opera. Sarà

“archeologia” proprio perché egli sembra voler disseppellire, far

emergere, ciò che il tempo e i sedimenti dell’abitudine, della cultura e

dell’inconscio hanno coperto: l’ordine o meglio gli ordini, le strutture

dell’episteme, del sapere, ciò senza il quale non potremmo pensare e

conoscere. La sua aspirazione è osservare l’ordine nel suo essere grezzo,

i suoi modi d’essere, i modi con cui la sua presenza si è manifestata nella

nostra cultura, in base a quali a-priori si è costituito il sapere.

Questo peculiare ruolo dell’ordine, o del principio d’ordine, richiama

almeno in parte la celebre allegoria della Repubblica: così come per

Platone non è possibile distinguere e conoscere gli oggetti del sapere

senza la “luce” del Bene, per Foucault pare essenziale la presenza

dell’ordine. L’analogia potrebbe estendersi anche a moralità ed estetica?

Forse no, ma più fondamentale mi pare chiedersi se l’ordine contenga

un barlume di valore ontologico. Pur essendo solo uno tra i possibili

Quaderni della Ginestra

26

CAMPO MAGNETICO, TOSCANA, 2010

Meditazioni filosofiche

27

ordini, non è casuale o arbitrario ma è “quello che ha la nostra età e

la nostra geografia”. Pare quindi qualcosa di più di un semplice schema

o categoria mentale. Non è forse la realtà in cui siamo costantemente

gettati e immersi fin dall’inizio? Non è qualcosa di paragonabile alle

aperture, alle radure dell’essere di cui parla Heidegger? Sulla scia di

quest’ultimo accostamento si potrebbe anche supporre non solo il

profondo legame dell’ordine con il linguaggio, ma addirittura la loro

fondamentale coincidenza.

Procedendo su questa via di “meditabondo travisamento” del

pensiero di Foucault posso forse azzardare anche una maggiore deriva

critica: forse il filosofo francese si inganna e la mancanza di un principio

d’ordine, che distingua differenza e uguaglianza, è solo apparente.

Possiamo noi realmente concepire discorsi senza una coerenza?

Potrebbe Borges averci trasmesso qualcosa senza un ordine? Perché ha

suddiviso gli animali in un certo modo e non altrimenti? In realtà

l’eterotopia dello scrittore argentino potrebbe essere solo il risultato di

una somma di principi d’ordine parzialmente sovrapposti,

indipendentemente dal fatto che egli ne sia stato consapevole. Forse

all’ordine non si sfugge.

Possiamo inoltre chiederci se possa esistere un discorso che non

corrisponda ad un pensiero, parole che creino l’impensabile.

Sicuramente possono creare qualcosa al di fuori del nostro attuale

concetto di razionalità, qualcosa di incommensurabile con i nostri

abituali schemi mentali, ma non credo impensabile. Siamo realmente di

fronte solo ad una relazione tra parole e parole anziché tra linguaggio e

pensiero? Ha forse Borges scritto tali definizioni a sua insaputa, senza

che il suo pensiero lucido ne costituisse il luogo comune? In ogni caso

se anche le sue parole fossero frutto dell’inconscio, ciò non

significherebbe che sono impossibili e impensabili. Chi non ha

sperimentato sogni nei quali gli abituali criteri di logica e

consequenzialità risultassero in crisi, nei quali fosse, almeno

all’apparenza, impossibile riconoscere un ordine? Credo sia riduttivo

limitare il pensiero alla razionalità accettata e condivisa, all ’ordinato o,

meglio, ordinabile. Probabilmente “ci sono più cose in cielo e in terra,

[Foucault], di quante ne sogni la tua filosofia”! Inoltre un qualche

elemento extra-testuale comune tra noi lettori, Borges e questa

enciclopedia deve pur esserci per giustificare la comunanza degli effetti,

cioè il riso o il disagio.

Proprio questi particolari “effetti” suscitano un ulteriore

interrogativo, benché forse marginale: da quale meccanismo interiore

deriva il disagio di cui parla Foucault? Dalla sorpresa o dalla necessità di

compensare una qualche profonda esigenza? Perché ne va della nostra

Quaderni della Ginestra

28

serenità se non riusciamo a scorgere l’ordine, se ci sfugge la possibilità

di distinguere il medesimo e l’altro? Perché questa anxietas definiendi

secondo un criterio preliminare? Perché risulta insopportabile il

paradosso di Menone riguardo alla ricerca della conoscenza ma non

l’altrettanto paradossale circolo ermeneutico che richiede sempre un già

compreso, un punto di partenza? Perché l’eterotopia ha effetto sulle

nostre emozioni? Mi affascina la valenza antropologica ed esistenziale di

una questione all’apparenza puramente epistemologica: ma su tutto ciò

non pare soffermarsi Foucault. Non saprei neppure decidere se questo

trapasso sia a sua volta una meta-struttura dell’episteme culturale

occidentale o caratterizzi ogni cultura.

Scusandomi per la brusca variatio mi concedo infine un ultimo

tentativo di riflessione, sollecitato da questo splendido caso di utilizzo

filosofico di opere d’arte che, nel caso di Foucault, diventa

“archeologia” culturale: le sue speculazioni procederanno infatti

attraverso Las Meninas di Velasquez e il Don Chisciotte di Cervantes. Mi

pare che tale approccio, comune anche a molti altri filosofi

contemporanei, possa essere letto come una modalità forse insolita di

avvicinare la filosofia alla scienza. Così come la scienza empirica

procede per singoli esperimenti, singoli eventi, l’arte e la letteratura

offrono alla speculazione filosofica aperture altrimenti impossibili su

vite particolari, realtà contingenti. A partire da queste individualità

filosofia e scienza possono, in un secondo momento, raggiungere il

livello teorico e generalizzante, sebbene con metodologie, almeno

all’apparenza, piuttosto differenti. Non so se questa possa essere una

strada per avvicinare o cogliere le analogie tra arte e scienza, ma

sicuramente lo è per diminuire la distanza tra la cosiddetta filosofia

ermeneutica e la filosofia analitica, così legata alla scienza. In tal modo si

spiegherebbe anche perché tale modalità speculativa, che parte da opere

d’arte, sia così cara a filosofi di formazione analitica, seppur

successivamente divenuti “eretici”, come R. Rorty o S. Cavell:

sopravvive in loro il legame con un metodo scientifico ancorché

rivisitato, dove l’arte è il laboratorio della filosofia.

ANTONIO FREDDI

Meditazioni filosofiche

29

“Davvero io cercai di aiutare in un modo o nell’altro i sofferenti: ma mi è sembrato di far cosa migliore, quando imparavo a meglio gioire. Da

quando vi sono uomini, l’uomo ha gioito troppo poco: solo questo, fra-telli, è il nostro peccato originale!”

(F. NIETZSCHE, Così parlo Zarathustra, Milano, Adelphi, 1992, p.97).

“Tutto dovrai sopportare, prima di ritornare qui. Ci sarà molto da lavo-rare. Ma io sono sicuro di te, ed è perciò che ti mando. Cristo è con te,

custodiscilo in te, ed Egli ti custodirà. Conoscerai un grande dolore e nel dolore sarai felice. Eccoti il mio testamento:nel dolore cerca la felici-

tà.”

(F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, Milano, Bompiani, 2005,

pp.169-171).

a domanda sulla felicità è, fra i temi indagati dalla riflessione filo-

sofica, una delle questioni più ricorrenti e determinanti. Non cre-

do possa essere diversamente: l'esperienza della felicità, di uno stato ori-

ginario e positivo della mente e del sentire è del resto un’ esperienza u-

niversale che, anche quando sfugge a tutti i tentativi di definizione lin-

guistica, è sempre presente ai nostri desideri, ne informa i contenuti e ne

rappresenta l' esito.

Per quanto scarna, insufficiente e pretenziosa possa essere la nostra

capacità di elaborare un sapere compiuto intorno alla felicità, e per

quanto siano diversi i beni e gli oggetti in cui crediamo di trovarla – A-

dorno, del resto, diceva che non si ha la felicità, ma ne si è immersi e

circondati- la storia del pensiero è ricca di immagini della felicità costrui-

te a partire da alcuni elementi costanti: il suo carattere transitorio, la sua

capacità – almeno nella sua forma piena ed espansiva, la gioia- di so-

spendere il fluire del tempo e la sua relazione con il sentimento oppo-

sto, il dolore.

Tra le immagini più suggestive a mio avviso rientrano quelle propo-

ste da Nietzsche e da Dostoevskiij perché, nella diversità dei contenuti,

mostrano come il tema della felicità, delle sue modalità e declinazioni

speculative sia inevitabilmente intrecciato con una presa di posizione di

fronte alla trascendenza e a alla fondazione dell'etica: mentre Nietzsche

L IL TEMPO E LA PIENEZZA DELLA GIOIA: UN CONFRONTO

NIETZSCHE-DOSTOEVSKIJ

Quaderni della Ginestra

30

tende ad affermare che la felicità sia sperimentabile solo in un orizzonte

di senso saldamente innestato nella finitezza in cui le concezioni del be-

ne e del male sono storicamente determinate, Dostoevskij, di fronte alla

presenza pervasiva del dolore, tende a risolvere la questione della felicità

nella dimensione metafisico-religiosa del rapporto con il divino. Il narra-

tore e il filosofo, con la forza del loro pensiero poetante, mettono in e-

videnza come la ricerca della felicità illumini la domanda sul significato

dell'esistenza ed offrono proposte che si impongono all'attenzione

dell'uomo contemporaneo, alla sua decisione di circoscrivere il senso del

vivere nello spazio del finito o di aprirsi ad un discorso di intonazione

religiosa. Per questo, pur tracciando direzioni opposte, le prospettive i-

naugurate da Nietzsche e Dostoevskij costituiscono una sorta di riferi-

mento obbligato per chiunque voglia seriamente interrogarsi sulla plura-

lità di significati che attribuiamo alla parola felicità e su come la nostra

idea della gioia determini le nostre convinzioni morali.

Secondo Nietzsche la beatitudine, la gioia compiuta e perfetta -die Se-

ligkeit- è qui, nello spazio del mondo vero e terreno, preparata per quanti

non pongono la vita sotto giudizio e non interrogano, né interpretano

l'esistenza secondo i criteri del bene e del male, ma si pongono in modo

attivo nei suoi confronti, ne accettano la radicale mancanza di senso e

orientano la propria ricerca della felicità nei territori finiti e disponibili

della corporeità e dell'istintualità. Un atteggiamento sano e generoso si

basa, dunque, su alcuni presupposti fondamentali:il riconoscimento del

carattere finito dell'esistenza, la capacità fondativa di creare valori basati

sulla forza e la consapevolezza che ogni attesa di compimento sia desti-

nata ad incontrare il proprio limite solo nella natura. Coloro che espri-

mono questo atteggiamento sono chiamati, nel testo, più esplicito e ri-

solutivo rispetto a Così parlò Zarathustra, della Genealogia della morale, gli

eletti, gli aristocratici: per loro la gioia è più originaria del dolore.

A tradirci, invece , a farci perdere la possibilità di conseguire una gio-

ia continua e perfetta è un'eccedenza del desiderio. Un'eccedenza che

non si esprime nei toni prevedibili dell'eccesso e della sovrabbondanza,

ma si mostra con i tratti della dismisura e del disorientamento. Un'ecce-

denza, in altri termini, che altera la direzione originaria e la destinazione

della nostra attività desiderante -naturalmente situata nel territorio della

contingenza e della finitezza- e che si rivela come tensione alla trascen-

denza o, secondo il linguaggio proprio di un sentire radicato nelle pro-

spettive e nei contenuti della teologia cristiana, come ricerca di un aldilà,

di una vita ulteriore in cui il compimento e la perfezione – altri termini

che definiscono la felicità come stato risolutivo del desiderio- sono fatti

spirituali, realizzati nelle dimensioni della contemplazione e dell'unione

con il divino. Questa declinazione del desiderio, giudicata in autentica

Meditazioni filosofiche

31

perché fondata sulla superiorità dello spirito sul corpo, del soprannatu-

rale sulla natura è considerata da Nietzsche l'espressione di un risenti-

mento e di un' impotenza nei confronti della vita che ritirano la nostra

ricerca della gioia dal contesto vitale della salute e la costringono a rifu-

giarsi nella dimensione fuorviante della salvezza. Tale patologia –dato

che i valori, gli orientamenti che definiscono il bene e il male, che rico-

noscono la gioia e il dolore sono produzioni culturali- ha una precisa o-

rigine storica nel conflitto che oppone la civiltà romana a quella ebraica

e al risultato del suo processo di universalizzazione, il cristianesimo.

Il sistema valoriale della civiltà romana consiste principalmente in un

ethos del coraggio, dell'affermazione di sé e dell'istinto di dominazione.

Il sistema valoriale ebraico insiste, invece, sulla passività, sulla quiete e

sulla compassione. Mentre l'organizzazione valoriale romana asseconda

la vita, affermandone con forza la ricchezza contraddittoria e conflittua-

le, l'organizzazione valoriale ebraica e cristiana esalta il dolore, risolven-

do le proprie istanze di realizzazione nelle prospettive di una vita ultra-

terrena.

Affermare dunque, come fa Nietzsche, che la gioia è più originaria

del dolore significa, in fondo, liberarsi della difficile eredità ebraica e cri-

stiana e riproporre un'esperienza del vivere in cui la gioia appare la tona-

lità emotiva di una istintualità in accordo con la natura.

Specularmente opposto è l'orientamento di Dostojevskij la cui narra-

zione, peraltro precedente di qualche anno rispetto alle riflessioni del fi-

losofo, si pone idealmente come voce contraria ai temi proposti da Nie-

tzsche.

E', in particolare, un dialogo dei Fratelli Karamazov sembra contrastare

le posizioni di Nietzsche: in una sorta di testamento spirituale lo starec

Zosima invita il giovane Alesa a compiere la sua opera nel mondo, a cercare,

custodito da Cristo, nel dolore la felicità.

Per Dostoevskij, che afferma un cristianesimo tragico la cui densità

PAESAGGIO DI LUCE, AUSTRALIA, 2011

Quaderni della Ginestra

32

speculativa è stata con merito indagata dalla riflessione ermeneutica del

secondo Novecento, la gioia e il dolore sono, se non cooriginari, com-

presenti e coabitano la realtà dell'uomo, riflessi di un bene e di un male

cui il narratore-filosofo assegna una dignità ontologica prioritaria.

Significativa, specie nel confronto con Nietzsche, è l'immagine che

Dostoevskij propone dell'istintualità, considerata non come luogo di li-

berazione, ma di distruzione, in cui la libertà dell'uomo è esposta al suo

precipitare, alla possibilità di scegliere il male che è, in ultima analisi, la

sofferenza inflitta ad altri. Si può dire, anzi, dei personaggi di Dostoe-

vskij – si pensi, ad esempio, a Stavrogin nei Demoni- che quanto più so-

no caratterizzati da una personalità orientata dal desiderio di autoaffer-

mazione, tanto più sono sensibili alla passione per la violenza e la cru-

deltà.

Rispetto al tema dell'istintualità, della parte naturale dell'uomo che si

esprime in via prioritaria come volontà incontrastata, appare evidente la

differenza di prospettive fra Nietzsche e Dostoevskij: per Nietzsche è

l'affermazione della vita, della sua forza rigogliosa; per Dostoevskij è

l'ambivalenza della vita che comprende lo sviluppo ipotetico della pro-

pria negazione.

Ma c'è ancora un'altra differenza, ancora più significativa, che riguar-

da le relazioni che intercorrono fra il bene e la gioia ed il male e la soffe-

renza. Se, come abbiamo visto, Nietzsche tende ad affermare l'inconsi-

stenza del bene e del male, Dostoevskij considera il male e il bene, la

gioia e il dolore come attraversati da una tensione dialettica: la sofferen-

za e il dolore che derivano dal male possono condurre al riconoscimen-

to del bene se riescono a mostrare il vincolo di solidarietà e di respon-

sabilità originaria che unisce tutti i viventi. In altri termini, all'interno di

un discorso narrativo che si svolge come approfondimento dell'espe-

rienza religiosa cristiana, Dostoevskij tende a individuare nella sofferen-

za, principalmente nella sofferenza accettata, la realizzazione di

un’esperienza di compassione e di corresponsabilità. In questo senso,

Dostoevskij articola la propria riflessione distinguendo fra la sofferenza

inutile –quella dei bambini, ad esempio- riscattabile solo in una prospet-

tiva di fede, e la sofferenza consapevole di chi vuole soffrire con altri e

al posto di altri: la gioia, in questo caso, è sperimentata nel soffrire in-

sieme e nel fare propria la sofferenza degli altri. Secondo Dostoevskij

non c’è, dunque, possibilità salvezza e di felicità che non passi attraverso

lo scontro con il male e con la sofferenza: la gioia è, comunque, come il

bene, originaria, ma è costretta, nella finitezza e nella contingenza, a mi-

surarsi con la presenza ineluttabile del male e del dolore.

Il rilievo attribuito alla trascendenza, l’adozione di un orizzonte di

senso esplicitamente cristiano –soffrire con altri è possibile nell’esempio

Meditazioni filosofiche

33

del Cristo sofferente- la coincidenza della gioia con la compassione

sembrano porre una distanza incolmabile fra la meditazione di Dostoe-

vskij e quella di Nietzsche, che,tuttavia, condividono un nucleo origina-

rio che le rende molto più vicine di quanto possa apparire superficial-

mente: la passione per l’uomo, l’attenzione alla sua costitutiva comples-

sità e la capacità di non trascurarne gli aspetti prerazionali. Ed è nel se-

gno di questa passione, che le riflessioni dei due autori si integrano reci-

procamente e stabiliscono un punto di riferimento comune sia per chi

vede esaurirsi nella natura il nostro essere persone, sia per chi colloca il

nostro abitare la terra negli spazi della trascendenza: il pensiero di Nie-

tzsche con la tematizzazione degli aspetti primitivi della nostra ricerca

della felicità, la narrazione di Dostoevskij con la rappresentazione della

dimensione relazionale in cui sperimentiamo la gioia.

LIVIO RABBONI

Cinema e filosofia

35

migliori blockbuster hollywoodiani sono quelli che contengono

pregnanti raffigurazioni e diagnosi del nostro tempo storico, sociale

e politico. La trilogia di Christopher Nolan dedicata alla leggenda di

Batman, e in particolare il suo capitolo conclusivo, può confermare di

certo questa tesi. Il momento centrale di The Dark Knight Rises, quando

tutti i prigionieri sono liberati e si apprestano a “prendersi la città”,

metterebbe addirittura in scena, secondo Zizek, potenzialità e debolezze

del movimento noto come Occupy Wall Street

(http://www.newstatesman.com/2012/08/people’s-republic-gotham).

Il suo leader, qui, è il terrorista Bane (caricatura di un black bloc

sadomaso, ma anche inguaribile romantico), che rende esplicita questa

idea di autodeterminazione democratica all’interno di uno stadio

sportivo gremito.

Come commenta giustamente Zizek, la rappresentazione di Nolan

serve a dare corpo e voce alla paura dei liberali di destra e di sinistra nei

confronti della possibilità che il tanto celebrato 99% s’impadronisca per

davvero di Manhattan. È interessante come in quest’ultima

riappropriazione del multi-rappresentato mito dell’uomo-pipistrello

l’iperbole distopica non si applichi più alle condizioni di vita di una

società ultra-capitalistica, bensì alla sua alternativa rappresentata dalla

democrazia radicale e dall’empowerment popolare. In un tratto innovativo

nella saga batmaniana, Gotham City non è più la capitale marcia fino al

midollo di un impero in piena decadenza, bensì una New York luminosa

e florida, che viene attaccata da un nemico esterno e degenera poi nel

caos anarcoide post-rivoluzionario. Ora il vero cattivo è, tra l’altro, una

donna: Miranda/Talia, la figlia del vecchio maestro di Batman Ra’s.

(Questi, come si ricorderà, era il prototipo del fanatico religioso

intellettualoide, prima legato ai cinesi e ora agli arabi.) Riappropriandosi

del progetto paterno votato alla purificazione dell’intera civiltà

occidentale, Talia si allea subdolamente sia agli emarginati del sistema sia

alle élite economiche.

OWS, terroristi mediorientali, New York come capitale

dell’Occidente, ma anche la minaccia nucleare: l’ultimo Batman non

potrebbe essere più radicato nel nostro tempo. Così radicato che, in

un’inquietante inversione tra realtà e finzione, molti osservatori hanno

paragonato la New York attuale devastata dall’uragano Sandy proprio

alla vecchia Gotham City (a quella in disfacimento del periodo pre-

nolaniano, però). Di quest’ultimo Cavaliere oscuro può essere fatta

emergere allora sia la sua funzione propagandistico-ideologica (in senso

I

UN ALTRO MITO DELLA CAVERNA: LA FORZA DELLA

LEGGE IN BATMAN

Quaderni della Ginestra

36

anti-anarchico e anti-socialista), sia il suo contenuto “realista” – lo

scenario macabro e fantastico, presente soprattutto nelle versioni di Tim

Burton (Batman, 1989, Batman Returns, 1992), ha dato il via libera alle

ansie e proiezioni del contemporaneo. Entrambi gli aspetti hanno reso

The Dark Knight Rises indigesto sia per chi è impegnato in qualche

battaglia sociale di emancipazione che per i bat-fan tradizionali. La

riflessione sulla “politica” di Batman ha però anche un altro aspetto, più

fondamentale. La questione centrale in questa saga è, infatti, quella del

fondamento del sistema socio-politico.

Una società sta in piedi e funziona in quanto ordine normativo, cioè

perché basata su un insieme di convenzioni, valori, leggi, più o meno

istituzionalizzate, che regolano e orientano la vita collettiva dicendo a

ciascuno cosa deve fare. Per svolgere la funzione normativa, l’ordine

deve essere accettato in buona parte come legittimo e giusto. Ma che

cosa legittima la legittimità? Sulla base di quale criterio, principio o

fondamento si può dire che un insieme più o meno istituzionalizzato di

norme e leggi è giusto e deve essere seguito? Risposte molto diverse

sono state date nella storia dell’umanità a tale questione. Mi sembra che

il mito di Batman si ponga in quella tradizione secondo la quale il

fondamento dell’autorità della legge è un fondamento, appunto, mitico,

o “mistico” (come direbbero Pascal o Montaigne). L’autorità dell’ordine

normativo si fonda cioè su qualcosa che non è del tutto razionale e

razionalizzabile, giustificato o giustificabile. L’ordine si regge in ultima

analisi sul credito che gli si accorda, sul fatto che vi sia una radicata

credenza nella giustizia di tale ordine, una credenza che giustifica, cioè

rende giusta, anche quella forza e quella violenza che serve a un ordine

normativo (per esempio all’ordine giuridico) per imporsi e far

funzionare la società. Significa questo forse affermare l’irrazionalità della

società, l’arbitrarietà dell’autorità, e infine il trionfo della cosiddetta

“legge del più forte”?

Secondo quanto sostenuto da Derrida nel breve saggio Force de loi

(1994), non è questa la conclusione da trarre. La “misticità” della

giustizia, ovvero il suo fondamento “senza fondamento”, deve essere

spiegato in altro modo. La giustizia è l’ordine basilare che, imponendosi,

pone i criteri stessi in base ai quali è possibile distinguere giusto da

ingiusto, legittimo da illegittimo. Di tale giustizia non si può dire se sia

giusta o meno, perché essa non è fondata su qualcos’altro, piuttosto è

fondante, fonda cioè l’ordine giusto.

Questa concezione del fondamento dell’ordine normativo in una

giustizia infondata potrebbe essere vista come una sorta di ribaltamento

del mito platonico della caverna: mentre in Platone le budella della terra

simboleggiavano l’errore e l’illusione, da illuminarsi attraverso la luce

Cinema e filosofia

37

veritiera proveniente dall’esterno, nella visione derridiana l’oscurità in

cui vero e falso, giusto e ingiusto sono indifferenziati e si confondono

assume la funzione normativa basilare. (La metafora dell’ombra come

base del politico compare esplicitamente anche nell’ultimo 007, Skyfall -

il regista Mendes si è del resto dichiaratamente ispirato a The Dark

Knight). Batman è l’allegoria di questa concezione anti-platonica, è un

altro mito della caverna. Il potere di Batman trova la sua origine

sottoterra, dove il male, la sua angoscia più profonda (i pipistrelli)

vengono fronteggiati e fatti diventare parte di sé. Tipica di Nolan la

curvatura soggettivo-psicanalitica di questo intreccio: la possibilità di

diventare un soggetto autonomo, che agisce bene per se stesso e per la

comunità ed è così capace di esercitare il suo potere, non risiede nella

rimozione del male, bensì nella sua assunzione piena e consapevole. La

“bontà” dell’eroe non è però separabile dal suo opposto. Importante

ricordare che, in Batman Begins (2005), è proprio Ra’s a insegnare come

“diventare un tutt’uno con l’oscurità” – ed è per questo che Batman

dovrà poi opporsi al suo maestro, che contrariamente all’intima essenza

dei suoi insegnamenti, crede in una “true justice” pura e incontaminata.

Batman può essere considerato come il pilastro dell’ordine sociale

cui appartiene. Un pilastro la cui ambiguità diventa evidente soprattutto

nel secondo film, The Dark Knight (2008). Si consideri soprattutto il suo

rapporto con Harvey Dent, il cavaliere speculare, biondo e idealista:

dopo un continuo e snervante scambio di ruoli tra i due, quest’ultimo

fallisce e viene ridotto alla rappresentazione corporalmente più esplicita

del doppio volto. Significativa è ovviamente anche la “fratellanza” tra

Batman e Joker, dove l’uno non sarebbe pensabile senza l’altro – anche

se Joker rappresenta l’impossibilità dell’ordine di giustizia, e Batman la

sua condizione.

È vero che, nell’ultimo film, i conflitti che hanno caratterizzato tutta

la saga si attenuano, e il confine tra bene e male appare più netto. Alla

fine, autosacrificandosi per il bene dell’umanità, Batman impone la sua

positività. Anche la polizia, ora schierata senza remore dalla sua parte,

può finalmente abbracciare il ruolo (ideologico) di difesa dell’ordine

giusto. Ma la doppiezza è ancora presente: innanzitutto, nel legame

erotico-sentimentale che lega l’uomo-pipistrello alle sue due nemiche, e

soprattutto nel fatto che non è solo Batman a mostrare un doppio volto,

ma anche Bruce Wayne. Bruce non è solo un filantropo che si allena per

diventare supereroe, è anche playboy maschilista e capitalista finanziario

a capo di una mega-corporation quotata in borsa e coinvolta nel traffico

d’armi. Il lato “oscuro” di Batman non sta dunque solo nella caverna

pullulante di pipistrelli, ma anche nelle alte vette dei suoi palazzi vetro; il

male contro cui combatte Batman è un male provocato da un sistema

Quaderni della Ginestra

38

cui lui stesso è a capo.

Ma consideriamo ancora il finale, da molti considerato un banale

happy end, in cui Batman si sacrifica per il bene dei suoi concittadini. O

forse questa è solo un’utile finzione per stabilizzare l’ordine di giustizia?

Mentre Batman, forse, si gode altrove la vita con la sua ragazza (ex

Catwoman), a Gotham City/New York viene eretta la sua statua – viene

istituita la leggenda – e contemporaneamente un nuovo giovane (ex

poliziotto) scende nelle sue caverne. È un buon finale, in effetti, perché

rimane ambiguo. Forse Batman è davvero morto, e il flash di

conciliazione romantica e individualista rimane un sogno del

maggiordomo: ma l’indecidibilità (sacrificio vero o fasullo?) è proprio

ciò che fa del fondamento dell’ordine un fondamento mistico, che si

sottrae a ogni fissazione definitiva. È un buon finale, inoltre, perché

rimane aperto: che Batman sia morto o meno, per la città e per ciascuno

dei suoi abitanti inizierà ora una nuova vita.

Ecco dunque il senso del vero happy end, cioè l’indecidibilità e

l’apertura. Come spiega Derrida in Force de loi, l’infondatezza del

fondamento è ciò che apre a un futuro imperscrutabile, dove tutto (o

quasi) è ancora possibile. L’oscurità da cui emerge l’ordine di giustizia

può avere un significato liberatorio: se ciò che vale come giusto e

legittimo non è, in fondo, fondato, esso non è neanche fissato in modo

definitivo. In questo modo si previene ogni dogmatismo, e la

mummificazione dell’ordine esistente: il futuro va verso scenari che non

sono prevedibili e immaginabili ma che racchiudono la premessa del

poter essere altrimenti.

FEDERICA GREGORATTO

Cinema e filosofia

39

Letteratura e filosofia

41

are opportuno annoverare Perec tra quegli scrittori ai quali risulta

difficile avvicinarsi prescindendo da un approccio biografico.

Quest’ultimo rivela quel fondo di continua interrogazione sull'esistenza

proprio del romanziere francese. Se le opere in quanto opere sono

tracce e, come tali, segni, nel momento in cui sono tracciate, segnate,

assumono un’esistenza autonoma e indipendente; nel nostro caso,

tuttavia, recano ancora l’impronta appassionata del loro artefice. Il tutto

si complica quando si riscontra che questi segni stanno non per una

presenza, ma per un’assenza, un vuoto che nell’arco di un’intera vita

non verrà mai colmato. La tematica del vuoto e della mancanza

appaiono fondamentali per la lettura delle opere perecchiane e

costituiscono la chiave di volta di una produzione eterogenea ma mai

totalmente altra dalla dimensione esistenziale e autobiografica.

La storia di Perec prende le mosse da uno dei drammi della storia più

struggenti e incomprensibili: la Shoah. Figlio di ebrei polacchi emigrati in

Francia, perde il padre nelle prime fasi del conflitto con la Germania e la

madre, deportata a Drancy e poi ad Auschwitz. Egli scampa al peggio: la

madre lo salva facendolo partire per la zona non occupata. Ad

aspettarlo gli zii, i convitti in cui nascondersi, lo smarrimento. E così la

perdita della memoria. Perec non ha ricordi d’infanzia. Vernichtung dei

genitori, dei nonni e di un’origine: perché i ricordi dell’infanzia sono la

sostanziazione di chi siamo. La scrittura di Perec non si allontana mai da

questo trauma infantile e muove in un cammino di ricerca identitaria in

cui ritrovare l’appartenenza, il ricordo, in cui conciliare un modo

d’essere forzatamente diasporico con un’esigenza di raccordo e di unità

destinata, tuttavia, a non trovare mai appagamento.

Con l’epilogo di una doppia sparizione, la vita di Georges Perec fu

segnata per sempre da un annientamento inutile che i cosiddetti “figli

del dopo”, gli orfani della Shoah, non furono mai in grado di superare.

Nessuno rivelò a Georges della morte del padre e dell’estrema

preoccupazione, poi tramutata in certezza, della morte della madre.

Nessuno si sentì di sottoporre il bambino all’ennesimo choc: Questo non

consentì alcuna elaborazione del lutto. I religiosi del convitto imposero

a Perec delle regole ferree: non chiedere notizie dei genitori o di parenti,

non lasciar trasparire qualsiasi riferimento all’ebraismo. In poche parole

un oblio totale, forse non necessario, comunque avvenuto. Georges

rimosse il ricordo del viso della madre. Al suo posto uno spazio vuoto.

I passi delle opere di Perec si allineano in una “contrada” di cui egli

ha cercato prima di trovare poi di depositare le tracce, la “via”. Il vuoto

P

GEORGES PEREC E W O IL RICORDO DELL’INFANZIA: L’INASSUMIBILE

Quaderni della Ginestra

42

memoriale è in questo caso la contrada del pensiero che non può

concretarsi in sistematicità e metodo ma nell'apertura in cui rispondere

affermativamente alla domanda sul linguaggio, in cui tentare di ritrovare

la via e in cui ritrovarsi attraverso la traccia, la scrittura.

A partire dalle riflessioni sull’identità all’interno del testo Soi-même

comme un autre di Paul Ricoeur, si può avanzare una proposta di categorie

interpretative, ovviamente in chiave ipotetica e problematica. Perec

manca, a causa della frattura originaria della propria biografia, della

dimensione che Ricoeur chiama medesimezza, cioè la possibilità di

individuazione di un “carattere” e di tratti riconoscibili che aprono

all’identità del sé nel senso di ripetibilità e riconoscibilità dello stesso

(même): Perec può compiere l’atto di ripetizione della ricerca di una

medesimezza, senza che l’operazione porti a qualcosa di compiuto. In

Perec vi è un ipse che promette di ri-trovare l’appartenenza e la

medesimezza ma, nel suo procedere, questo moto si risolve in una

frustrazione o in piccoli momenti di contatto subito fuggenti. Perec

interroga e si interroga in una situazione di interlocuzione (ipse) con i

propri personaggi e con l’altro uomo, che è per lui fonte di apertura nei

confronti del passato e del presente, per identificare e identificarsi (idem).

Se questa interrogazione non dà una possibilità di risposta, è comunque

un movimento etico dalla profondità salvifica in senso esistenziale: il

semplice porre una domanda sulla propria identità, unito allo sforzo

verso di essa, è un’azione “piena”; in quanto azione, è ascrivibile a un

agente. I personaggi di Perec sono un tentativo verso l’idem, la

riconoscibilità, l’appartenenza, il cogliersi come corpo tra i corpi, allo

scopo di identificare e re-identificare qualcosa di sé attraverso l’altro. In

questa prospettiva, si coglie il legame tra il sé e l’altro, tra il sé e l’identità

narrativa (il primo altro, per Perec, è il personaggio dei propri romanzi).

Nello spazio dell’identità, l’atteggiamento di Perec è consciamente più

tensivo che definitivo nei confronti della verità. L’identità narrativa è

stata una fonte di salvezza.

Silenzio… La creazione negativa di Perec scaturisce dalle ceneri di

Auschwitz e per questo fa appello a un non detto, all’indicibile

instancabilmente cercato ma inevitabilmente sfuggente. L’arte sottile di

Perec passa per questo dialogo tra il detto e l’indicibile, tra la memoria e

l’oblio, la vita e la morte, la fiducia e lo sconforto. Ci si sente coinvolti in

un percorso umano che si deve condividere.

La parola, il fare artistico non totalizzano, non esauriscono, ma

attingono a uno sfondo aperto nel quale si può per lo meno cercare di

porre delle domande; a volte un azzardo di risposta è donato. Perec

dona molto. In primo luogo, la sua Storia.

All’età di nove anni circa, a distanza quindi di tre anni dalla

Letteratura e filosofia

43

separazione della madre, la scoperta: il dramma della Shoah e la terribile

fine della madre gli sono disvelati attraverso una delle prime mostre

fotografiche sui campi di concentramento.

W o il ricordo d’infanzia rappresenta il testo più accurato e struggente

in relazione al tema della biografia, dell’infanzia e del vuoto di Perec. Il

carattere testimoniale è associato a una sorta di auto-analisi psicanalitica

che, a distanza di vent’anni dall’accaduto, offre a Perec una possibilità di

affrontare il rimosso, l’indicibile. Se da questo processo non si

otterranno grandi risultati – dalla cenere della memoria non si può

ottenere altro che cenere o poco più – ciò che conterà sarà quello

slancio in avanti, quel bisogno di fare i conti con i propri fantasmi, con

una verità celata ma presente, anche se in negativo. W lascia interdetti, il

dolore sotteso è comunicato con un distacco apparentemente

impersonale, ma è proprio questa distanza, più obbligata che frutto di

una scelta letteraria, a sottolineare il dramma, la tragedia, il naufragio

della Storia.

W o il ricordo d’infanzia è un piccolo libretto costituito da quattro parti.

La prima sezione della prima parte consiste in un romanzo di avventura:

narra di un disertore che, grazie a una sorta di società segreta, assume il

nome fittizio di Gaspard Winckler (il collegamento è al tema

dell’orfanità: il nome Gaspard è una sorta di alter ego di Perec e ricorre

più volte nelle sue opere. Il riferimento è a Kaspar Hauser, il ragazzo

selvaggio che aveva impressionato un’intera generazione di intellettuali,

in particolar modo Verlaine) e riceve l’incarico da parte di un certo Otto

von Apfelstahl di salvare il vero Gaspard Winckler, un bambino affetto

da mutismo elettivo che aveva fatto naufragio e del quale erano state

perse le tracce. Si noti come Gaspard Winckler-adulto debba salvare

Gaspard Winckler-bambino esattamente come Perec-adulto debba

salvare Perec-bambino dall’oblio e dal vuoto infantile. Inoltre si parla di

un naufragio, così come aveva fatto naufragio la storia personale di

Perec, assieme alla Storia vera e propria. Il Gaspard Winckler-bambino è

sordomuto, condizione che ricorda quella di Perec-bambino, distrutto

dalla separazione della madre, incapace e impossibilitato a comunicare

questo dolore.

La seconda sezione della prima parte si propone invece di ricostruire

l’infanzia di Perec dai primissimi ricordi o eventi fino al giorno della

partenza e della separazione definitiva dalla madre. Struggente l’incipit

di questa sezione «Non ho ricordi d’infanzia»1. La volontà

autobiografica appare dapprincipio destinata a una sconfitta. Il vuoto

non sarà colmato. Rimane tuttavia un’ostinata volontà a riempire questo

spazio. L’infanzia di Perec è un vuoto, una dimensione del tutto

sbriciolata della quale non rimangono che pochissime tracce indirette.

Quaderni della Ginestra

44

BLU, NUOVA ZELANDA, 2011

Letteratura e filosofia

45

Ne derivano solo ricordi lacunosi.

Nella prima e nella seconda parte, più articolata, i capitoli si

avvicendano alternandosi uno a uno a seconda dell’appartenenza alla

prima o alla seconda sezione.

Una pagina bianca solcata da tre puntini neri tra parentesi tonde

chiude la prima parte e proietta sulla seconda.

La prima sezione della seconda parte offre la cosiddetta distopia

dell’isola di W, isola retta dagli ideali olimpici che si scoprirà poi

metafora dell’universo concentrazionario nazista.

La seconda sezione della seconda parte ripercorre gli anni di Villard-

de-Lans, cioè gli anni successivi alla separazione della madre.

Il bambino scomparso nella prima parte non verrà più nominato

nella seconda: Gaspard Winckler sembra il narratore e osservatore delle

vicende che accadono sull’isola di W ma non viene mai nominato

esplicitamente. Già a questo livello riscontriamo la possibilità di una

lettura di secondo grado: la sparizione dalla narrazione del bambino

sordo-muto coincide con la sparizione del Perec-bambino e della madre

dalla sua vita.

Perec decide di aggiungere a una versione iniziale la citazione di

David Rousset che esplicita definitivamente l’associazione tra l’isola di

W e i campi di concentramento. Il processo di riesumazione di una

memoria cancellata porterà Perec a una crisi psicologica dolorosa.

L’analisi, che durò quattro anni, permise a Perec di affrontare il testo

abbandonato, il non detto, l’oblio. Si tratta più di una sottrazione di

senso che di un riempimento. È una sorta di creazione negativa.

Philippe Lejeune, esperto conoscitore dell'autobiografia e indagatore

dell'opera di Perec, insiste sull’analogia riscontrabile tra il movimento di

decostruzione che, nel corso dell’analisi, ha consentito di aver accesso

alla sua storia e alla sua voce e i gesti di semplificazione-soppressione

effettuati sul progetto complessivo di scrittura.

Leggere W può costare grandi fatiche: i rimandi tra le parti che si

alternano nelle sezioni sono sottesi e continuamente da ricostruire; nei

ricordi di infanzia sono introdotte variazioni a volte volontarie per

cifrare l’indicibile, infiltrato senza che ci si possa accorgere. È una sorta

di macchinazione orchestrata, in cui trova evidenza la difficoltà di

accesso all'insopportabile: con la spontanea fragilità del bambino e

dell’adulto, Perec rivive sensazioni ed emozioni del passato sotto forma

di cifrature volutamente disorientanti per il lettore. Il va e vieni delle due

serie sbriciola l’inerzia necessaria al piacere romanzesco, imponendo una

ginnastica mentale e psicologica. Ci si trova spaesati di fronte alla calma,

alla freddezza scientifica di questa voce narrativa apparentemente

impersonale, che descrive imperturbabilmente un sistema sempre più

Quaderni della Ginestra

46

abietto. W o il ricordo d’infanzia è una biografia psicanalitica: un

montaggio di sintomi, dovendo il lettore affrontare, da solo, il problema

dell’interpretazione. W è la parte emersa di un immenso lavorio

sotterraneo, protrattosi in silenzio per anni e ora rivendicante con

violenza la propria necessità. Perec rifiuta ogni lavoro di abbellimento o

di coloritura nei confronti dei propri ricordi. Un narratore ipercritico

bracca l’errore, l’inesattezza, l’affabulazione. Il linguaggio è comunque

indicato come il solo mezzo in grado di rivendicare l’assenza. Essa, così

evidentemente “presente” nelle pagine dedicate ai ricordi d’infanzia, fa

da contraltare al troppo-pieno della parte della fiction: in essa tutto è

sistematicamente descritto, organicamente rappresentato, strutturato nei

minimi particolari… Il movimento perpetuamente ostacolato della

memoria si oppone allo scivolamento irrefrenabile nell’incubo di W.

Nella prima parte, Perec corregge con un sistema di note e

completamenti, come se fossero redatti in un momento successivo, gli

errori più evidenti della memoria, i quali non possono essere colmati…

Appare chiaro nella redazione di due testi di apertura sulle figure dei

genitori e sulle fotografie che può solo descrivere, niente più:

Non so se non abbia niente da dire, ma so che non dico niente; non

so se quello che avrei da dire non venga detto perché indicibile

(l’indicibile non si annida nella scrittura, al contrario, è ciò che ne ha

innescato il processo); so che quanto dico è vuoto, neutro, è il segno

definitivo di un definitivo annientamento. […] Non scrivo per dire che

non dirò niente, non scrivo per dire che non ho niente da dire. Scrivo:

scrivo perché abbiamo vissuto assieme, perché sono stato uno di loro,

ombra tra le loro ombre, corpo vicino ai loro corpi; scrivo perché

hanno lasciato in me un’impronta indelebile e la scrittura ne è la traccia:

il loro ricordo muore nella scrittura; la scrittura è il ricordo della loro

morte e l’affermazione della mia vita»2.

Queste ultime parole sono la prova tangibile della possibilità di

scrivere ancora poesia dopo Auschwitz. Perché di poesia si tratta. Vi

sono passi in cui Perec sembra abbandonare la maschera, il pudore che

lo scrittore mantiene sempre nel proprio scritto. L’impossibilità di

scrivere qualcosa che non siano solo dettagli anodini sui genitori non

cancella la presenza dell’amore reciso nei primi anni di vita da una Storia

crudele, inspiegabile. Pochi récits d’enfance accumulano in maniera così

ripetitiva i segni di scrupolo e di soggettività: come una sorta di basso

continuo, Perec sfuma volutamente il senso e l’emozione in un sistema

di giustapposizione ambiguo, costringendo il lettore a farsi carico del

legame tra gli elementi, attraverso l'immaginazione.

Perec rinnova il genere autobiografico, il racconto d’infanzia nella

Letteratura e filosofia

47

fattispecie, introducendo due sostanziali novità: l’autobiografia critica e

l’integrazione di autobiografia e fiction. Nel primo caso si arresta e si

ostina sugli errori e sulle lacune per far scaturire un senso. Viene

esercitato un controllo critico non tanto sulla veridicità o meno degli

eventi descritti, quanto sulla capacità della memoria e della scrittura di

attaccare quel nucleo sottraentesi. Il secondo è evidente: la fiction è una

sorta di correttivo-integrazione per attingere, attraverso l’immaginazione

legittimata, a ciò che la memoria non può raggiungere.

Non si può prescindere nell’analisi di W o il ricordo d’infanzia da

almeno alcuni accenni al mondo di W, vero e proprio sistema

concentrazionario. Si pensi al fiero motto che domina l’entrata dei

villaggi “FORTIUS ALTIUS CITIUS” così paurosamente somigliante

ad “Arbeit macht frei”. L’ideale sportivo inoltre era davvero fondamentale

nell’universo nazista. La deviazione dello spirito sportivo, o megl io

un’accentuazione disumana del suo carattere agonistico appaiono da

numerosi segnali, lentamente e implacabilmente introdotti dall’autore. Si

pensi alla gara delle Atlantiadi: su W non esistono matrimoni o famiglie.

Gli individui non hanno nome ma soprannomi che si riferiscono alle

posizioni ottenute nelle gare sostenute. I bambini vivono fino ad una

certa età con il solo aiuto di novizi; le donne invece sono rinchiuse in un

gineceo. Nella gara delle Atlantiadi un gruppo di donne viene portato su

una pista da corsa e, sguinzagliate come prede, concesso loro un certo

vantaggio, vengono inseguite dagli uomini che fanno loro violenza.

Ogni tipo di atrocità è commesso in questo tipo di gara.

Incredibili appaiono “le piste di cenere, le camerate”. Perec si rende

conto dell’impossibilità di cambiare la Storia e di trovare conforto, pace.

Colui che entrerà un giorno nella Fortezza dapprima si troverà di

fronte a una successione di stanze vuote, lunghe, grigie. Il rumore dei

suoi passi che risuonano sotto le alte volte di cemento gli farà paura, ma

dovrà camminare a lungo prima di scoprire, nascoste nelle profondità

del sottosuolo, le vestigia di un mondo che crederà di avere dimenticato:

mucchi di denti d’oro, fedi nuziali, occhiali, migliaia e migliaia di vestiti

impilati, schedari polverosi, stock di sapone di cattiva qualità…3

Questi oggetti stanno ancora per un’assenza presente, per qualcosa di

annientato ma che continua a mormorare corrispondenze con il

presente.

La Shoah segna una rottura tra un prima e un dopo, diventando

pertanto germe di scrittura. Vi sono una storia personale e una storia

collettiva che costituiscono un tessuto di cui la scrittura cerca di

ricostruire la trama senza nessi. La memoria degli “orfani della Shoah”

non è in grado di relegare il passato nel passato, non supera il lutto e

Quaderni della Ginestra

48

non può rimuovere del tutto. La memoria non può dire la totalità, può

al più ripetere incessantemente la frantumazione di un’identità pur nella

direzione di un'integrazione. Si tratta di un’identità nomade che la

scrittura non può fissare, ma può tuttavia seguire nel suo incessante

movimento di ricerca. La Shoah è una figura in absentia, a cui

ricondurre la scissione dell’io; attraverso il linguaggio si dà avvio a

un’opera di configurazione e riconfigurazione, in cui spesso è il lettore-

fruitore ad essere coinvolto, riconoscendo l’origine della preoccupazione

identitaria degli autori. Il sé è stato offeso e minacciato dalla storia ma la

determinazione a sopravvivere, anche solo come valore di

testimonianza, rappresenta un appiglio contro un sicuro naufragio.

L’operazione-fiction può forse valicare i limiti di un realismo destinato a

lasciare vuoti insostenibili. Da testimone assente, Perec diviene

testimone scrittore.

Nei campi di concentramento si assiste alla logica di una temporalità

che sbriciola la successione di istanti: tutto è ricondotto a un unico

istante atemporale: non è passato perché non si esaurisce nel ricordo,

non è presente né futuro perché rinasce continuamente nel presente di

una memoria che non può dimenticare. La vicenda di W non è collocata

temporalmente e offre queste suggestioni; il percorso letterario e

narrativo di Perec attinge comunque all’autobiografico, in un dialogo tra

un io perduto che vuole dirigersi verso un io recuperato. Attraverso la

finzione o la narrativa si apre uno spazio, ben più vivibile, in cui l’io

perduto può finalmente muoversi ed esprimersi attraverso un io

ritrovantesi; Perec diventa un altro (le sue costruzioni immaginarie, i

suoi peripli narrativi) per ridivenire se stesso.

MICHAEL ARCHETTI

1 Perec Georges, W il ricordo d’infanzia, Torino, Einaudi, 2005, pag. 8. 2 Ibidem, pagg. 48-49 3 Ibidem, pag. 185.

Letteratura e filosofia

49

i sono numerosi aspetti, contenuti all’interno del testo, che

suggeriscono l’interpretazione del racconto Le rovine circolari,

apparso sulla rivista ‘Sur’ nel 1940 e poi definitivamente all’interno della

raccolta Ficciones del 1944, come un vero e proprio sogno, o sogno a

cornice. Il racconto potrebbe essere letto come un processo di

autoanalisi da parte del protagonista, il quale, partendo da un proposito

soprannaturale, giunge alla comprensione di sé. La narrazione presenta

essa stessa numerosi piani, concentrandosi sull’esperienza onirica del

protagonista, un mago capace di plasmare la materia dei sogni. Tuttavia,

credo, nemmeno la veglia può essere considerata tale, poiché l’uomo che

sogna è in realtà sognato a sua volta, ma senza saperlo; per questo più

sopra ho parlato di «autoanalisi», un’autoanalisi tuttavia «incosciente».

Lungo il progredire della narrazione, il mago attraversa svariati livelli di

sogno, o meta-sogno, addentrandosi sempre di più negli abissi del

proprio inconscio. Ad un occhio che ha familiarità con l’opera di Freud,

non sfuggiranno certamente alcuni evidenti caratteri fondamentali di

questo stato onirico: in primis, la descrizione del paesaggio che fa da

sfondo al racconto. Spesso nei sogni, ci dice l’inventore della

psicoanalisi, l’ambientazione presenta connotati confusi, spesso

decisamente indefiniti. È così in questo caso. L’ambientazione del

racconto è tratteggiata solo lievemente, e sfuma poi pian piano verso il

nulla: vengono menzionati due templi, uno situato a nord e un altro a

sud, entrambi in rovina, un fiume, alcune canne appena affioranti

dall’acqua, una selva; nessun elemento è delineato con nitidezza, al

contrario ogni cosa pare come avvolta da una sottile coltre di foschia.

Nemmeno il protagonista è presentato nel dettaglio. Viene descritto

come un uomo taciturno proveniente da Sud, un uomo grigio, un

forestiero, un mago. A mio parere, questa mancanza di definizione non

è soltanto in linea con l’atmosfera magica e misteriosa che pervade

l’intero racconto, ma è sintomatica di qualcosa di ancor più

straordinario. Le due vite del mago, quella della veglia e quella onirica,

sono entrambe un unico sogno, ed egli, entità di certo soprannaturale,

ha confuso il sogno con la realtà, poiché ha rimosso un evento

fondamentale della sua esistenza, ignoto a noi tutti: quello della

creazione di sé.

A questo stato prenatale egli cerca di ritornare costantemente, anche se

inconsapevolmente, tramite un proposito, cardine del racconto, attuabile

soltanto per mezzo del sonno:

V

LA PROVA DEL FUOCO. SOGNO, RIMOZIONE E COSCIENZA NE LE ROVINE

CIRCOLARI DI J. L. BORGES

Quaderni della Ginestra

50

chiuse gli occhi pallidi e dormì, non per debolezza della carne, ma

per determinazione della volontà1.

e ancora, poco più avanti:

Il proposito che lo guidava non era impossibile, anche se certamente

sovrannaturale. Voleva sognare un uomo: voleva sognarlo con minuzio-

sa completezza e imporlo alla realtà2.

Il mago, perciò, dorme per volontà propria, non per necessità o stan-

chezza, con lo scopo di plasmare un essere vivente concreto dalla mate-

ria dei sogni. Tuttavia il suo proposito, nei presupposti e nelle conse-

guenze, è colmo di richiami freudiani. Abbiamo già accennato al deside-

rio inconscio di un ritorno allo stato prenatale, il che significa in realtà

ritornare all’utero materno. Freud fa di questa affermazione un caposal-

do della propria teoria del sogno, come si può riscontrare

nell’Introduzione alla psicoanalisi del 1917:

Ci ritiriamo perciò di tanto in tanto nello stato prenatale, ossia

nell’esistenza endouterina. O almeno, ci creiamo condizioni del tutto

simili a quelle di allora: calore, oscurità e assenza di stimoli3.

In questo caso, però, il rapporto con l’utero risulta particolare e dicoto-

mico. Sembra infatti che il mago non desideri soltanto ritornare ad esse-

re inquilino dell’utero, ma diventarne anche, e soprattutto, il proprieta-

rio. Al primo aspetto fanno riferimento i primi sogni effettuati dal fore-

stiero: egli sogna se medesimo in un anfiteatro, si sogna perciò in terza e

prima persona, come oggetto e soggetto del sogno, poiché appare con-

temporaneamente come immagine dall’esterno e come «attore» princi-

pale:

Il forestiero si sognava al centro di un anfiteatro circolare che era in

qualche modo il tempio incendiato [...] L’uomo impartiva lezioni di ana-

tomia, di cosmografia, di magia4.

Il secondo aspetto, invece, riguarda i sogni avuti in seguito ad una sorta

di cesura – o censura –, frappostasi tra l’intenzionalità del sognatore e

l’incapacità da parte del sogno di creare qualcosa di conforme alle aspet-

tative. Infatti, dopo aver preso coscienza del fallimento della prima serie

di sogni, quelli aventi come oggetto il ragazzo/allievo «uscito» da quella

sorta di accademia onirica, l’uomo smette di sognare. Semplicemente

non riesce più a creare le condizioni necessarie al compimento del pro-

prio intento. Dopo un periodo di riposo il mago ricomincia a sognare, e

Letteratura e filosofia

51

sin dalla prima notte sogna un cuore fremente. Fa un sogno di cui non è

protagonista – non appare in prima persona – nel quale si comporta da

spettatore:

Quasi subito, sognò un cuore che palpitava. Lo sognò attivo, caldo,

segreto, della grandezza di un pugno chiuso, di color granata nella pe-

nombra di un corpo umano ancora senza faccia e senza sesso; con amo-

re minuzioso lo sognò, per quattordici lucide notti. Ogni notte lo per-

cepiva con maggiore evidenza. Non lo toccava; si limitava ad attestarlo,

forse a correggerlo con lo sguardo. Lo percepiva, lo viveva, da molte di-

stanze e da molte angolature5.

In questo secondo caso, il sognatore configura se stesso come «portato-

re» dell’utero materno, trascende perciò il ruolo di mero ricercatore

dell’obliterazione endouterina e la sublima, elevandosi al livello di vera e

propria ‘madre’. Freudianamente l’anfiteatro circolare della prima serie

onirica, essendo identificabile come contenitore, come stanza6, potrebbe

rappresentare appunto l’utero materno, al quale il mago ritorna da inqui-

lino. Nella seconda serie, come appena detto, l’utero materno è rappre-

sentato dal sognatore stesso, il quale vede dentro di sé il figlio, ancora

senza volto e senza sesso. È un ritorno agli abissi ancora più profondo.

Ma la discesa negli abissi non termina di certo qui. Anzi, si può dire che

prenda avvio proprio a partire da questo punto. Infatti d’ora in poi il

mago si concentrerà sulla costruzione della propria creatura, un Dr.

Frankenstein fuori dal tempo; ma la sua creatura, anche ad avvenuto

completamento, rimane inerte, priva di soffio vitale, proprio come il suo

alter-ego shelleyano. L’uomo supplica perciò un simulacro di pietra, il

quale gli si rivela in sogno come il dio del Fuoco e infonde finalmente la

vita all’essere creato dai sogni. Solamente il forestiero e il Fuoco stesso

sapranno della reale natura del figlio.

Il mago si appresta quindi ad iniziare il proprio figlio ai segreti della ma-

gia e al culto del Fuoco, inviandolo infine presso le rovine di un altro

tempio, del tutto uguale al primo. Trascorsi diversi anni, gli giungono

all’orecchio voci riguardanti un uomo che in un tempio a nord può

camminare tra le fiamme senza bruciarsi, e comincia a temere che que-

sta facoltà soprannaturale induca la sua creatura a riflettere sulla propria

natura, che, si ricordi, è di fantasma.

Il processo di autoanalisi va così dispiegandosi verso la conclusione. Il

mago, temendo per il figlio, riflette in realtà sulla propria condizione:

A volte lo inquietava l’impressione che tutto ciò fosse già accaduto7

Quaderni della Ginestra

52

Il narratore così aveva scritto poche righe più sopra, riferendosi al peri-

odo in cui l’uomo iniziava ancora il proprio figlio agli arcani della magia.

Qualcosa cominciava già a trapelare sempre più prepotentemente, fino

allo sconvolgente riconoscimento conclusivo.

In un’alba senza uccelli il mago vide abbattersi contro i muri

l’incendio concentrico. Per un istante, pensò di rifugiarsi nelle acque, ma

poi comprese che la morte veniva a coronare la sua vecchiaia e ad assol-

verlo dalle sue fatiche. Camminò contro le lingue di fuoco. Esse non

morsero la sua carne, esse lo accarezzarono e lo inondarono senza calo-

re e senza combustione. Con sollievo, con umiliazione, con terrore,

comprese che anche lui era un’apparenza, che un altro lo stava sognan-

do8.

Improvvisamente il rimosso irrompe alla coscienza. Nascostosi nelle

pieghe infinite dell’inconscio per chissà quanti anni, affiora infine pro-

prio grazie all’operato del mago – «creazione» e educazione del figlio –,

operato che potrebbe essere identificato come rimovente. Egli crede di

compiere un’azione dettata dalla propria volontà, in realtà non fa che

avvicinarsi inesorabilmente al rimosso. Ma i segni della pericolosità di

quest’intento sono disseminati lungo tutto il racconto. Freud ha teoriz-

zato una sorta di filtro, o sistema di allarme, che impedisce l’accesso alla

coscienza a ciò che è sgradito, e l’ha chiamato censura; ciò che sfugge

alla censura affiora alla coscienza, generando un’angoscia talmente in-

sopportabile – il campanello d’allarme – da svegliare il sognatore. Ora,

la censura onirica è qui rappresentata dalla prima serie di sogni, e il

campanello d’allarme (il sistema di sicurezza della censura) dal risveglio

del mago e dalla successiva incapacità di sognare. Nella prima serie di

sogni, si ricordi, il mago non aveva pieno controllo delle proprie facoltà,

non riusciva ad istruire l’allievo scelto tra tanti, e soprattutto non l’aveva

«creato»; tutto ciò aveva impedito il contatto con il dio del Fuoco, che

segna l’inizio del graduale cammino verso la coscienza. Evidentemente,

però, qualcosa era scattato: il solo proposito di plasmare un uomo dai

sogni era sufficiente per suscitare tensione, una tensione tanto grande da

suggerire alla censura il risveglio del sognatore. Tramite il risveglio e il

sonno senza sogni, il rimosso viene ancora tenuto lontano.

Il proposito, tuttavia, che in questo caso corrisponde al rimovente, con-

danna il sognatore all’intima scoperta della verità, al riaffiorare del ri-

mosso. È possibile leggere il procedere dell’impresa come processo di

disvelamento, come un’autoanalisi incosciente. L’uomo, nonostante la

censura lo metta in guardia dal procedere, persegue il proprio scopo,

supera le barriere dell’inconscio e riporta il rimosso alla coscienza.

Nemmeno la sensazione che tutto ciò fosse già accaduto riesce a frenare

Letteratura e filosofia

53

il protagonista, deciso ormai – anche se inconsciamente – a scoprire la

verità. Il rimosso riaffiora così per mezzo del rimovente. L’incendio del

tempio circolare si afferma come stato ultimo del riconoscimento; il

mago pensa in un primo tempo di cercare riparo nell’acqua, ma subito

muta il suo pensiero, non comprendendo di essere giunto alla fine della

sua vita, ma al termine della propria ricerca. Varca la soglia delle fiamme,

sicuro di andare incontro alla morte, finendo invece per comprendere

ciò che tanto tempo addietro aveva affidato all’oblio.

La sua stessa esistenza è effimera, il suo sognare non è altro che un so-

gno nel sogno.

GIOVANNI CONSIGLI

1 Borges, Jorge Luis, Las ruinas circulares, Sur, Buenos Aires 1940 in Ficciones, Editorial

Sur, Buenos Aires 1944; trad. it. di Franco Lucertini, Le rovine circolari, in Finzioni, Ei-naudi, Torino 1955, cit. p. 48. 2 Ivi, p. 49. 3 Freud, Sigmund, Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse, 1915-1917, trad. it. di Marilisa Tonin Dogana ed Ermanno Sagittario, Introduzione alla psicoanalisi, Einaudi, To-rino 2012, cit. p. 88. 4 Borges, Le rovine circolari, cit. p. 49. 5 Ivi, p. 51. 6 Freud, Introduzione alla psicoanalisi, cit. p. 148. 7 Borges, Le rovine circolari, cit. p. 52. 8 Ivi, p. 54. TROPPO UMANO, PARMA, 2012

Quaderni della Ginestra

54

ra i periodi storici in cui è possibile osservare lo svilupparsi di un

rapporto stringente tra letteratura e psichiatria in Italia, i decenni

successivi all’unificazione occupano senz’altro una posizione di rilievo.

Sin dalla pubblicazione delle prime opere di Cesare Lombroso, il fitto

dialogo tra scienze umanistiche e scienze medico-antropologiche (che di

lì a poco sottolineranno sempre più il loro carattere di scienze sociali)

appare particolarmente evidente. Si tratta, com’è noto, di un dialogo

avvenuto non solo sul versante della creazione artistica – e cioè sui

rapporti che legherebbero il genio e la follia1 – ma anche (e in misura

non certo minore) sullo studio della delinquenza. Basti pensare che

Enrico Ferri, illustre allievo dell’antropologo veronese e personalità

influente del Partito Socialista, dedicò un’intera opera allo studio de I

delinquenti nell’arte2; e che l’attenzione rivolta da Lombroso alla

letteratura, nella costruzione delle sue teorie sulla delinquenza, continua

tutt’oggi ad essere oggetto di interessanti ricerche3.

Ciò nonostante, resta piuttosto diffusa l’opinione secondo la quale

queste teorie sulla devianza siano state (loro stesse) un’anomalia,

verificatasi entro un arco cronologico piuttosto limitato, e scarsamente

influente – se non addirittura estranea – nella formazione della cultura e

dell’identità dello stato-nazione postunitario. Al contrario, si può

osservare come il processo di costruzione della figura del delinquente-

pericoloso abbia coinvolto i più diversi settori del sistema culturale; e

come esso abbia marcato con la sua presenza alcuni momenti esemplari

della storia d’Italia, come il dibattito attorno al Codice Penale unitario e

il primo colonialismo italiano nei territori del corno d’Africa. Si trattò,

inoltre, di un processo cui certamente Lombroso e i suoi allievi presero

parte, ma che non iniziò e non si esaurì con la loro ‘scuola’. Per

sostenere questa tesi si può ricorrere – inaspettatamente – anche

all’analisi di un romanzo, che si rivela particolarmente utile in questo

senso, date le sue caratteristiche testuali, il percorso editoriale e

l’entusiasmo con cui è stato recepito, anche all’interno degli ambienti

politici e diplomatici.

Nel 1883 l’editore milanese Angelo Sommaruga, che in quegli anni

andava consolidando la sua posizione all’interno del mercato editoriale

romano, diede alle stampe la quarta edizione de La Colonia felice dello

scapigliato milanese Carlo Dossi. Il romanzo, com’è noto, racconta di

come un gruppo di delinquenti, spediti su un’isola deserta, dopo

un’iniziale fase di disordini e crudeltà, si rendano conto che la legge

T

EMENDABILE O INCURABILE? LA FIGURA DEL DELINQUENTE-SELVAGGIO NELLA COLONIA FELICE DI CARLO DOSSI

Letteratura e filosofia

55

procede dall’utilità; che il rispetto del patto sociale è in ultima analisi

assai conveniente per l’individuo; che infine l’amore e la famiglia

possano trasformare il delinquente in onesto lavoratore ed emendarlo

così delle colpe commesse. «Con sei edizioni in un ventennio, La Colonia

felice è certamente l’opera del Dossi di maggior successo editoriale»4;

dopo una prima pubblicazione (di sole duecento copie stampate a spese

dell’autore nel 1874), il romanzo apparve a puntate sul quotidiano

romano la «Riforma» nel 1879 e ottenne un successo non trascurabile,

se è vero che «il rilancio romano dello scrittore prese avvio proprio da

La colonia Felice»5. Si trattò di un rilancio, allo stesso tempo, letterario e

politico6: «la Riforma» e lo «Stabilimento Tipografico Italiano» erano

infatti, rispettivamente, il quotidiano e la casa editrice del partito

crispino; e proprio quando Francesco Crispi sedette alla presidenza del

consiglio, il nostro romanziere si trovò a ricoprire rilevanti incarichi

politici e diplomatici.

L’edizione sommarughiana de La Colonia felice appare particolarmente

curata, esito di un lavoro di revisione condotto con grande precisione da

parte dell’autore. Il testo è infatti seguito da una Nota grammaticale in cui

il Dossi illustra i criteri ortografici adottati. «Sennonché, nel momento

stesso in cui veniva licenziata al pubblico, così attentamente ‘ricorretta’ e

provveduta, l’autore si premurava di sconfessare la sua opera (e non

certo per semplice umore di bizzarria contraddittoria)»7. A precedere il

testo è infatti, chiara e netta, una Diffida, che sconfessa l’immagine del

delinquente tracciata dalla narrazione romanzesca, dichiarandola ormai

insostenibile, stanti le ultime conquiste della scienza psichiatrica.

Con la Colonia felice io m’era dunque proposto […] di dimostrare

graficamente le seguenti anticipazioni delle cattedre, cioè:

1° che il male insegna il bene;

2° che la giustizia procede dall’utilità

3° che inùtile è la pena di morte, quindi ingiusta;

4° che, come rinnòvasi la materiale compàgine dell’uomo, può pa-

rimenti rifarsi quella morale; né il filo della memoria basta a congiunge-

re, in una sola, le varie individualità per cui una persona passa. Conse-

guentemente, potrebbe qualunque colpèvole riprincipiare, in tutta la vir-

tù della parola, la sua esistenza;

5° infine, che amore ha forza assai più della Forza.

Come si scorge, io era in perfetta regola con la filantropia conven-

zionale, non però con la scienza. La guancia de’ preventivi miei conti

non avrebbe potuto mostrarsi più rosata e piacente, ma avèa un piccolo

neo, quello di non segnare che un attivo ideale. Ben altre erano infatti le

cifre reali raccolte dalla psichiatria, dalla chimica organica, dalla statistica

criminale. L’uomo malvagio non è correggibile8.

Quaderni della Ginestra

56

Nel frattempo altre ‘cattedre’, non esattamente votate all’insegnamento

della filantropia, avevano iniziato a fornire le loro ‘anticipazioni’: in

particolare, da quella di medicina legale e igiene pubblica dell’Università

di Torino, l’ormai noto psichiatra e antropologo Cesare Lombroso

teneva il suo insegnamento sin dal 1876; e in quello stesso anno era stata

pubblicata per la prima volta una delle sue opere più prestigiose, L’uomo

delinquente studiato in rapporto alla antropologia, alla medicina legale ed alle

discipline carcerarie9. Dossi ebbe modo di leggere questo studio sin da

questa prima edizione, e subito pensò di spedire all’antropologo

veronese una copia della sua Colonia felice. Da quel momento iniziò tra i

due una serie di corrispondenze epistolari che proprio attorno al 1883

era andata infittendosi, in merito a un’altra pubblicazione che il Dossi

stava portando a termine, I mattoidi al primo concorso pel monumento in Roma

a Vittorio Emanuele II. Il termine ‘mattoidi’ fu suggerito all’autore

milanese proprio da Lombroso: a lui rivolse il Dossi la dedica dell’opera;

in cambio l’antropologo inserì parte del materiale raccolto all’interno del

suo Genio e Follia10.

Sarebbe certo un grave errore ridurre la figura del Dossi letterato a

una sorta di traduttore romanzesco delle teorie lombrosiane: anzi,

dovendo scegliere se tra i due fu il romanziere a ‘usare’ lo scienziato o

piuttosto lo scienziato a servirsi del romanziere, la scelta dovrebbe certo

cadere sulla prima ipotesi 11. Eppure la sincerità con la quale il Dossi

accolse in questi anni le conclusioni della «nuova scuola positiva» non

pare possa essere messa in discussione. La medicalizzazione del

delinquente; la fusione di delitto e follia, ottenuta dichiarandone la

comune origine epilettica; la definizione della tendenza criminosa come

natura morbosa, ereditaria e incurabile, almeno nelle sue manifestazioni

più «atavistiche»; tutto ciò convinse più d’uno dei letterati italiani, e tra

essi appunto Carlo Dossi, tanto da indurlo a sconfessare un suo

romanzo nel momento stesso in cui ne licenziava l’edizione più curata.

Su tale contraddizione vale davvero la pena di interrogarsi, anche perché

le due tesi (apparentemente) opposte che la compongono – quella del

testo e quella della Diffida – corrispondono a quelle che avrebbero

diviso i penalisti dell’epoca, secondo quel paradigma dello «scontro tra

le due opposte scuole penali» tramandato da buona parte della

storiografia del diritto. Sarebbere cioè esistite, compatte e ben

riconoscibili, da una parte la «scuola classica» del diritto penale, che

individuava le sue fondamenta attorno ai concetti cardine di reato, libero

arbitrio, responsabilità; e dall’altra parte (ma su questo non c’è alcun

dubbio) la «nuova scuola positiva», che affermava la necessità di studiare

il delinquente piuttosto che il delitto, e accusava la parte avversaria di

rimanere legata ad una concezione astratta e metafisica del diritto, del

Letteratura e filosofia

57

tutto sganciata dalle reali dinamiche sociali12.

Certamente tra alcuni penalisti si accese una polemica a tratti feroce,

che animò il dibattito attorno alla stesura del nuovo Codice Penale

unitario e che si svolse tanto tra i banchi dell’accademia quanto tra quelli

del parlamento13. Tuttavia, l’adozione eccessivamente rigida di questo

modello non è in grado di sciogliere una serie di contraddizioni, alcune

delle quali risultano evidenti anche nello studio del romanzo in oggetto:

l’approvazione del Codice Zanardelli (secondo questa prospettiva, il

massimo prodotto della «scuola classica», che segnò la sconfitta dei

positivisti) avvenne sotto il governo Crispi, proprio mentre l’organo di

stampa («La Riforma») dello stesso presidente del consiglio tentava di

smuovere l’opinione pubblica in senso, verrebbe da dire, lombrosiano,

attraverso le sue firme più note già convertite alle nuove dottrine

(compreso quel Carlo Alberto Pisani Dossi che del presidente del

consiglio sarà strettissimo collaboratore e consigliere). C’è inoltre il

rischio di non cogliere quegli elementi lombrosiani che hanno

continuato a caratterizzare la criminologia e la cultura italiana anche nel

corso del Novecento14, oppure di ipotizzare una genesi improvvisa di

quegli stessi elementi: una sorta di irruzione aliena in un’Italia

caratterizzata da una cultura «classica», metafisica e «filantropica», fino a

quel momento estranea ai principi e alle pratiche del controllo sociale.

Al contrario,

non c’era bisogno dei positivisti perché il legislatore penale pensasse

a sanzioni che oggi assimileremmo alle misure di sicurezza, perché esse

erano presenti da decenni nel sistema e da più di un secolo nella cultura

della prevenzione e della pena; non è necessario evocare i positivisti o-

gni volta che appare, sia pure in trasparenza, la ‘pericolosità’ dei sogget-

ti, perché questo era il senso comune, tra la gente e per gli scienziati, nel

secolo XIX: senso comune al punto di comparire, senza contraddizione

né scandalo, nelle sentenze dei giudici, in piena vigenza del codice del

1889 che avrebbe dovuto essere incompatibile con quella prospettiva15.

Né tali sanzioni furono di fatto affievolite nel Testo Unico delle leggi

di Pubblica Sicurezza, proposto dallo stesso Crispi e approvato nello

stesso anno del «classico» Codice Zanardelli; nel corso del decennio

successivo diventeranno anzi sempre più stringenti ed esplicitamente

applicate anche alla repressione del dissenso politico, prima con le «leggi

crispine» del 1894, poi coi provvedimenti del Gabinetto Pelloux, a

seguito dei disordini del 1898.

Dal canto suo anche la letteratura, verrebbe da pensare, non dovette

attendere la «nuova» antropologia criminale tardottocentesca per

costruire, tra i suoi personaggi, le figure dei delinquenti pericolosi, se ad

Quaderni della Ginestra

58

COMPARSE, SYDNEY, 2011

Letteratura e filosofia

59

esserne già abbondantemente provvisto era proprio quel «senso

comune» che essa per prima contribuiva a costruire, data la straordinaria

fortuna di cui godette in questo secolo il genere romanzesco – e in

particolare il romanzo d’appendice. Per vedere confermata tale ipotesi

basta aprire la prima pagina del romanzo-archetipo di questo genere

popolare, I misteri di Parigi di Eugène Sue, e osservare quanto a

quell’altezza (1842-43) fosse già cristallizzata la figura del delinquente

selvaggio (metropolitano): con tanto di esplicito riferimento ai

sanguinari selvaggi di James Fenimor Cooper, che agitavano il sonno dei

coloni (e la veglia dei lettori). Anche il testo de La Colonia felice, scritto

dal Dossi prima della ‘conversione’ alle scienze positive, costituisce

un’ulteriore conferma in questo senso. La delinquenza dei suoi

personaggi non è ancora morbosa, epilettica, medicalizzata, ma è già

evidentemente ‘selvaggia’:

Quand’ecco, si udì uno stampo di un piede, e una tìnnula voce di

donna echeggiò: vili! – Una giòvane snella, dal profilo tagliente e dalla

chioma nèrissima, svolazzante, s’era piantata spavalda su di una cassa, e

lampeggiando fùlmini neri da’ suoi occhi aquilini, squillava: vili! uomini

inutilmente maschi!... volete a marito noi donne?

- Brava – rispose una voce secca al pari di nàcchere e veniva da

un magro e lungo di uno, dal ghigno nudo di peli e giallastro, e dagli

occhi – due fili di luce – che apparivano e scomparivano a tratti,

quasi tementi di essere scorti […] Il quale, facèndosi innanzi: gente!

che si sta qui a dire il rosario?... Date ascolto alla Nera! […]

L’incanto era rotto. Da ogni parte, grida che volèvano èsser parole,

parole che volèvano èssere idee: idèe e parole, che accumulàtesi da

mesi e mesi in quelli angusti cervelli, irrompèvano ora alle labbra, vi

si stipàvano per sprigionarsi, pugnando a chi primo, e a vicenda im-

pedendosi. E parlàvano tutti a una volta. Parèa che il tempo stesse

lor per fallire. Erano laidità; erano orrende bestemmie.

E intanto si sconficcàvan le casse della carne salata e del pane, e

due, ondeggiando, barellavano in mezzo un botticello pesante, sul

quale era scritto branda.

[…] Due ore dopo, leggero il barile, greve la pancia. Dal cibo, la

bestialità avèa riavuto il consueto dominio16.

Certo questo carattere selvaggio, se anche già fosse in qualche misura

costitutivo, non è ancora a questa altezza una «natura» dell’individuo

delinquente; o per lo meno non presenta ancora il suo carattere

«morboso» e incurabile (infatti l’isolamento, la famiglia e il lavoro

possono ancora cambiarne il segno). Ma a ben vedere non è nemmeno

così necessario che lo diventi: in primo luogo perché anche la figura del

‘selvaggio emendabile’ ha saputo ispirare o corroborare misure

preventive di controllo sociale. In secondo luogo perché di essa, al netto

Quaderni della Ginestra

60

delle contraddizioni apparenti, hanno potuto continuare a servirsi anche

coloro che quell’emenda non credevano più possibile. Nel 1884

Alessandro Lioy, avvocato, «uno dei più strenui campioni ed apostoli

della nuova scuola penale»17,

esponendo a Napoli, presso la Società Africana d’Italia, la proposta

di una Colonia penitenziaria ad Assab, presentava l’utopia lirica dossiana

come un’anticipazione dell’arte sulla scienza, sicchè «Gualdo – l’eroe del

Dossi – l’assassino trasformato in onesto lavoratore mercè l’isolamento,

la colonia, la famiglia, rappresenterebbe il prototipo della scienza peni-

tenziaria». Quattro anni dopo (8 novembre 1888), in una seduta del se-

nato in cui si discuteva il progetto del nuovo codice penale, Tullio Mas-

sarani, intervenendo a sostegno della deportazione («unica eventualità di

redenzione, unico spiraglio di vita nuova» per i grandi malfattori), trovò

modo di citare ai suoi colleghi una pagina della Colonia felice e di elogiar-

ne l’autore: «un giovane – un giovane di ieri (gli anni corrono così pre-

sto!) – un uomo, al quale lo strenuo ingegno conquistò un posto rag-

guardevole presso il Signor Presidente del Consiglio»18.

Si mostrano così una serie di contraddizioni apparenti: un romanzo

di successo, nella sua edizione più curata e corretta, convive con la sua

Diffida, poiché giudicato dall’autore scientificamente inattendibile; la

filantropia (penitenziaria) convive con le teorie dell’atavismo e della

degenerazione positiviste; e i sostenitori di quelle stesse teorie

scientifiche elogeranno quel romanzo (filantropico) come anticipatore

delle nuove teorie, dalle quali dovrebbe invece essere confutato. Eppure,

se si guarda a tali contraddizioni, più che come punti di blocco

dell’analisi, come pista di ricerca da seguire, si ha modo di verificarne la

frequenza e la costanza anche attraverso i decenni. La storiografia del

diritto ha già mostrato la produttività di una ricerca in questa direzione:

nonostante lo «scontro tra le scuole», un tratto permanente ha attraversato

la cultura penale dell’Italia unita, la cui continuità si è data (almeno in

parte, ma è certo una parte non trascurabile) sul terreno della difesa del

corpo sociale, attraverso le politiche adottate in materia di pubblica

sicurezza19.

Verrebbe da chiedersi se anche la critica letteraria non debba tentare

la stessa operazione, sforzandosi quindi di tenere assieme ciò che si

dimostra sempre più difficile da separare. Una separazione di questo

tipo è quella che storicamente ha caratterizzato l’atteggiamento della

critica verso l’opera di Carlo Alberto Pisani Dossi e per cui si è spesso

sostenuto che il Carlo Dossi scrittore scapigliato e l’Alberto Pisani

Dossi diplomatico, «principale artefice della politica estera crispina»20

(quindi del primo colonialismo italiano), siano state quasi due persone

persone diverse, o addirittura inconciliabili. Anche in una prospettiva

Letteratura e filosofia

61

eminentemente letteraria, invece, leggere assieme lo scrittore e il politico

si mostra essere una linea di ricerca da praticare più a fondo, come

alcuni esperti hanno già avvertito in passato21 e come recenti ricerche

continuano a dimostrare22. Tenere assieme questi due aspetti, indagare la

profondità e la solidità dell’intreccio cui diedero luogo, sembrerebbe

dunque un’iniziativa più che legittima. Una legittimità che, se possibile,

aumenta ancora di più se ci si concentra sulla sola Colonia felice. Leggerla

assieme alle politiche penali e coloniali italiane non è un azzardo

ermeneutico, ma un fatto storico. Nella quarta edizione del romanzo

facevano il loro ingresso le nuove dottrine penal-positiviste; l’anno

successivo La Colonia felice (non ostante la Diffida) diveniva il progetto

(positivista) di una colonia penitenziaria eritrea; quattro anni più tardi, il

romanzo di Dossi faceva il suo ingresso nelle aule del Senato in cui si

discuteva il progetto del nuovo codice penale («classico»). Si aggiunga

infine, dato a questo punto molto significativo, che se le terre delle

colonie italiane nel corno d’Africa vennero chiamate «Eritrea», lo si deve

proprio all’autore della Colonia felice : più di dieci anni dopo aver scritto

quel romanzo «col quale vaticinava chiaramente all’Eritrea»23, fu infatti

Carlo Dossi a coniare e suggerire a Francesco Crispi quel «nome

rubricante di una sperata porpora coloniale»24, come alcune sue lettere

pubblicate di recente dimostrano ormai con certezza25.

Si vede così quanto, pur entro continue ambiguità e contraddizioni, la

figura del delinquente e del selvaggio (interno o esterno che sia al

territorio nazionale) abbia caratterizzato con una certa costanza la storia

e la cultura dell’Italia Unita; e come le teorie di Lombroso e dei suoi

allievi abbiano piuttosto integrato che sconfessato questo tipo di

rappresentazione. L’immagine testimoniata dal romanzo dossiano e le

conquiste della psichiatria che avrebbero dovuto sconfessarlo seppero

insomma convivere a lungo, ben oltre l’approvazione del codice

Zanardelli, mostrandosi in qualche caso particolarmente collaborative:

trattando il tema della deportazione e del possibile impiego delle terre

coloniali italiane, il fondatore della «nuova scola penale» Enrico Ferri

seppe riprendere – pur senza citarlo direttamente – la stessa

rappresentazione del delinquente e le stesse misure correttive proposte

nel romanzo dossiano, saldando su di esse le nuove conquiste della

scienza positiva. Vale la pena, per concludere, di citare un ampio stralcio

di questa Sociologia criminale, anche perché l’allievo del Lombroso non

manca di citare alcuni padri della cultura umanistica occidentale a

sostegno delle sue tesi: non saranno, questa volta, i classici della

letteratura ad essere chiamati in causa, come già avvenuto in un altro

suo studio già citato, ma classici della filosofia come Platone, Aristotele

e Plutarco. Come si vedrà, il loro utilizzo appare piuttosto estemporaneo

Quaderni della Ginestra

62

e frettoloso (come spesso già nel maestro Lombroso); ma rende (forse

proprio per questo) particolarmente evidente il portato politico

dell’operazione, che mirava ad incidere il più possibile nel processo di

formazione della cultura nazionale – e che in qualche caso, come si è

visto, non mancò di raggiungere il proprio obiettivo.

Deportazione, adunque, oppure reclusione perpetua indeterminata,

come spiegherò or ora, per i più temibili delinquenti, incorreggibili, au-

tori di una qualche forma di criminalità atavica.

Sulla deportazione si è scritto molto, anche in Italia, massime alcuni

anni fa, quando vi fu polemica vivace […]. Tuttavia nella deportazione

c’è un'anima di verità indiscutibile: che cioè quando essa sia perpetua e

quindi con minime probabilità di rimpatrio, è il mezzo migliore per

purgare la società da inquilini pericolosi e sollevarla dall' obbligo di

mantenerli. Ma allora non può essere che la deportazione semplice, cio-

è, come fece da principio l'Inghilterra, l'abbandono dei deportati in

un’isola o continente (con mezzi sufficienti per vivere lavorando) od

anche il loro trasporto in paesi barbari, dove essi, che nei paesi civili so-

no semi-selvaggi, rappresenterebbero invece una mezza civiltà e per le

stesse loro qualità organiche e psichiche mentre divengono grassatori

od assassini nei paesi civili, diverrebbero discreti capi tribù o militari nei

paesi selvaggi, dove si trovano poi gente che non ricorre ai tribunali per

rintuzzare le offese.

Ma per noi italiani credo che si possa, purtroppo, fare una deporta-

zione intema, mandando certe categorie di delinquenti a risanare i paesi

incolti per malaria. Se questa per essere domata esige un’ecatombe u-

mana, molto meglio che sia di delinquenti anziché di onesti agricoltori.

Un po’ meno di riguardi ai malfattori e un po’ più agli onesti contadini

ed operai! E che i delinquenti divenuti pionieri di civiltà, si redimano

colla morte di fronte all’umanità, ch’essi hanno così crudelmente offesa.

La vera deportazione oltremarina, fino a pochi anni fa non era per

noi di pratica attuabilità […]. Ma dacchè l’Italia possiede la Colonia Er i-

trea, l’idea della deportazione ha preso vigore. Io stesso, nel maggio

1890, proposi incidentalmente alla Camera dei deputati l’esperimento di

una colonia penale nei nostri possedimenti africani. […] Ad ogni modo,

anche ammessa la deportazione dei delinquenti nati e incorreggibili, o

all’interno od oltremare, rimane il problema della forma più adatta di lo-

ro segregazione.

E si presenta allora, dapprima l’idea dello «stabilimento per incor-

reggibili» […] perché si tratta di delinquenti pei quali non vi è speranza

di correzione. La natura congenita e la trasmissibilità ereditaria delle

tendenze criminose in questi individui giustificano pienamente queste

parole del Quetelet: «Le malattie morali sono come le malattie fisiche:

ve n’è di contagiose, ve n’è di epidemiche e ve n’è di ereditarie. Il vizio

si trasmette in certe famiglie come la scrofola o la tisi». […] Così Aristo-

tele narra di un uomo, che accusato di aver battuto il padre, rispose:

«Mio padre ha battuto mio avo; mio avo ha egualmente battuto mio bi-

savo nel modo più crudele e voi vedete mio figlio: questo fanciullo non

Letteratura e filosofia

63

avrà ancora l’età di un uomo, che non mi risparmierà le sevizio e le per-

cosse» (I). E Plutarco soggiunge: «I figli degli uomini viziosi e cattivi so-

no una derivazione della natura stessa dei loro padri» (II).

Così ci spieghiamo la intuizione di Platone che, pure «ammettendo

in principio che i figli niente dovessero soffrire pei delitti dei genitori,

suppose però il caso in cui il padre, l’avo ed il bisavo fossero stati con-

dannati a morte ed allora propose che i discendenti dovessero cacciarsi

dallo stato, come appartenenti ad una razza incorreggibile» (III)26.

ALESSIO BERRÈ

1 Cesare Lombroso, Genio e follia, Milano, Brigola, 1872; ora anche in Delia Frigessi, Ferruccio Giacannelli, Luisa Mangoni (a cura di), Cesare Lombroso, Delitto, genio, follia: scritti scelti, Torino, Bollati Boringhieri, 20002. 2 Enrico Ferri, I delinquenti nell’arte, Genova, Libreria editrice ligure, 1896. 3 Vedi Delia Frigessi, Cesare Lombroso, Torino, Einaudi 2003, pp. 327-352; Andrea Righini, Cose da pazzi: Cesare Lombroso e la letteratura, Pisa, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2001; e ora Lucia Rodler, Introduzione, in Cesare Lombroso, L’uomo delinquente studiato in rapporto all’antropologia, alla medicina legale e alle discipline carcerarie [1876], Bologna, Il Mulino, 2011. 4 Dante Isella, Note ai testi, in Carlo Dossi, Opere, Milano, Adelphi, 1995, p. 1458. 5 Ivi, p. 1459. 6 Vedi Francesco Lioce, Esperienza letteraria e ideologia politica: il caso Carlo Alberto Pisani Dossi (Da una lettera dell’inedita Vita di Carlo Dossi), in http://www.italianisti.it/FileServices/Lioce%20Francesco.pdf 7 Dante Isella, Note ai testi, cit., p. 1461. 8 Carlo Dossi, Opere, cit., p. 525. 9 Cesare Lombroso, L’uomo delinquente studiato in rapporto alla antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie, Milano, Hoepli, 1876.

10 Vedi Delia Frigessi, Un’amore corrisposto, in Id., Cesare Lombroso, Torino, Einaudi, 2003, pp. 327-352. 11 Ibidem. 12 Enrico Ferri, I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, Bologna, Zanichelli, 1884. 13 Mario Da Passano, Echi parlamentari di una polemica scientifica (e accademica), «Materiali per una storia della cultura giuridica», XXXII, 1 (2002). 14 Vedi Mary Gibson, La criminologia prima e dopo Lombroso, in Silvano Montaldo e Paolo Tappero (a cura di), Cesare Lombroso cento anni dopo, Torino, Utet, 2009. 15 Mario Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, in Luciano Violante (a cura di), Storia d’Italia. 14. Legge Diritto e Giustizia, Torino, Einaudi, 1997, pp. 486-551. 16 Carlo Dossi, La Colonia felice, cit., p. 541. 17 Cesare Lombroso, Palimsesti dal carcere, Torino, Bocca, 1888, p.109. 18 Dante Isella, Note ai testi, cit., p. 1459. 19 Mario Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti, cit. 20 Francesco Lioce, Esperienza letteraria e ideologia politica: il caso Carlo Alberto Pisani Dossi (Da una lettera dell’inedita Vita di Carlo Dossi), cit. 21 Luisa Avellini, La critica e Dossi, Bologna, Cappelli, 1978. 22 Francesco Lioce, Esperienza letteraria e ideologia politica: il caso Carlo Alberto Pisani Dossi (Da una lettera dell’inedita Vita di Carlo Dossi), cit. 23 Gian Pietro Lucini, L’ora topica di Carlo Dossi, Varese, A. Nicola & C., 1911. 24 Ibidem. 25 Francesco Lioce, Flussi migratori e politica africana: alcune lettere di Pisani Dossi a Luigi Bodio, «Rassegna Storica del Risorgimento», a. XCV, Fasc. III, Luglio-Settembre 2008, pp. 379-406. 26 Enrico Ferri, Sociologia criminale, Torino, Bocca, 19004, pp. 886-889. (I) Aristotele, Etica, VII [NdA]. (II) Plutarco, Opere, cap. 19. E così Lucas, Traité physiologique et philosophique de l’éredité naturelle, Paris 1847, I, 480 e 499: […] Lombroso, L’uomo delinquent, II e III ediz [NdA]. (III) Carrara, Programma, § 647, nota [NdA].

Didattica e filosofia

65

li argomenti didatticamente più efficaci sono quelli che

sollecitano negli studenti l’interesse culturale e li stimolano allo

stesso tempo a riflettere sulla propria esperienza, contribuendo

in tal modo alla loro formazione. L’intersoggettività è certamente uno di

quelli che meglio risponde a questi obiettivi. Nondimeno risulta difficile

trattarlo in modo incisivo, anche perché viene tematizzato

espressamente solo a partire dal Novecento, e in particolare con

Husserl, pensatore che solitamente si affronta verso la fine dell’ultimo

anno di studio della filosofia. Ma la difficoltà è soprattutto teoretica e

riguarda le grandi svolte del pensiero, di cui gli studenti devono

diventare consapevoli per assumere punti di riferimento

particolarmente significativi: in primo luogo essi dovranno riflettere

sulla svolta più importante, vale a dire il passaggio dalla concezione di

tipo “egologico” dell’ontologia moderna, per usare un’espressione di

Levinas, che tende a ricondurre l’esperienza della realtà e dunque anche

degli altri soggetti alla coscienza dell’Io - esemplificata in modo

emblematico dal Cogito cartesiano -, ad una concezione che riconosce

il carattere originario e costitutivo della relazione con l’altro. Ci riferiamo

non solo a Husserl, ma a tutta quella tradizione di pensiero che ha

riflettuto su questo argomento, da Merleau-Ponty a Edith Stein, a

Ricoeur, e che, pur declinandolo in termini molto diversi, ne

condividono l’assunto di base: la dimensione interelazionale della

soggettività. Ne consegue che l’esperienza che noi facciamo degli altri

non può essere intesa secondo il modello della conoscenza, che

presuppone un soggetto isolato che si rapporta ad un altro soggetto

isolato; il secondo importante cambiamento di paradigma deriva infatti

dalla considerazione che gli altri non ci sono dati come oggetti che

incontriamo cognitivamente. La possibilità di comprenderci dipende

piuttosto dal fatto che viviamo in un mondo condiviso.

Il tema dell’intersoggettività ha una grande rilevanza nella

formazione degli studenti, perché li mette in grado di comprendere la

cultura contemporanea e dunque di integrare i diversi saperi, in modo

specifico la filosofia con l’arte e la letteratura. Per favorirne una

comprensione efficace, è utile proporre un percorso che ricostruisca la

riflessione filosofica sulla relazione tra i soggetti secondo le differenti

modalità in cui è stata intesa dal pensiero antico e moderno fino al

Novecento, con particolare riferimento alla Fenomenologia e alle più

recenti ricerche delle neuroscienze. Ciò comporta naturalmente che il

tema venga riferito a diversi contesti: da quello morale, che riguarda il

G

DALLA RELAZIONE TRA SOGGETTI

ALL’INTERSOGGETTIVITÀ: UN PERCORSO DIDATTICO

Quaderni della Ginestra

66

nostro modo di comportarci con gli altri, a quello metafisico, che

riguarda l’esistenza degli altri soggetti, a quello cognitivo, che concerne

la nostra capacità di comprendere le loro emozioni e le loro azioni. In

queste pagine intendiamo proporre una prima fase del percorso che

sviluppa le premesse e si conclude con il riconoscimento dell’altro nella

filosofia hegeliana.

Un percorso di questo genere richiede che si chiarisca prima di tutto

che con l’espressione “intersoggettività” si indica quell’aspetto

specifico della relazione tra i soggetti, che il filosofo Husserl ha posto in

evidenza nella sua indagine sull’Io trascendentale e sul suo rischio di

caduta nel solipsismo. Nelle Idee per una fenomenologia pura e nelle

Meditazioni cartesiane egli fa dipendere l’intersoggettività dalla

consapevolezza del nostro corpo come soggetto esperienziale. Il corpo

vivo è il fondamento costitutivo di ogni percezione, inclusa quella

sociale: è il comune denominatore tra il nostro modo di intendere noi

stessi nella relazione col mondo e quello di rapportarci agli altri. Il

carattere incarnato della nostra soggettività è proprio anche delle altre

soggettività. Sulla base di un processo analogico nasce dunque un

sentire comune che diviene condivisione, a proposito del quale Husserl

parla di “enteropatia”, tradotto quasi sempre con empatia. Questa indica

senza dubbio uno stadio originario del fenomeno intersoggettivo, al

quale subentrano poi forme di intersoggettività che si strutturano a

livelli differenti, in particolare con la mediazione del linguaggio. E’

significativo però il fatto che alla luce dell’empatia, parlare di un singolo

che si pone in rapporto agli altri è un’astrazione, non presentandosi mai

secondo Husserl alcun soggetto al di fuori del contesto relazionale.

Il percorso su questo argomento non può naturalmente essere

proposto in astratto, senza il riferimento ad una situazione problematica;

d’altro canto proprio l’approccio iniziale alla filosofia, e in particolare il

suo statuto dialogico, può suggerire lo sviluppo del tema della relazione

con l’altro in un percorso monografico che segue il programma, per così

dire istituzionale, dell’insegnamento della filosofia. La

problematizzazione dell’intersoggettività può inoltre venire rinforzata

dal ricorso alla letteratura più recente; per esempio, uno dei libri più letti

dai ragazzi in questo momento è Io e te di Niccolò Ammaniti (Einaudi

2010), di cui è appena uscita la versione cinematografica di Bernardo

Bertolucci: un adolescente chiuso e introverso, al punto da rinchiudersi

in una cantina pur di sottrarsi al confronto con gli altri - mostrandosi

però agli occhi dei genitori simile a loro - , attraverso un’esperienza

drammatica si apre finalmente a una relazione che darà un impulso

decisivo al suo cambiamento. Anche l’impiego del linguaggio

cinematografico può aiutare ad impostare il problema: in questo caso

Didattica e filosofia

67

suggeriamo la visione di alcune sequenze di un film meno recente, Il

gusto degli altri di Agnès Jaoui (Francia 2000), in cui una serie di

personaggi intrecciano relazioni difficili di cui si intuisce in molti casi

l’inautenticità. Nello sviluppo del film però capita inaspettatamente ad

un personaggio di provare la motivazione a scoprire l’altro, a conoscerlo

nella sua diversità. Così, nel contesto di relazioni che si adattano al

“gusto degli altri”, si delinea un modo nuovo di rapportarsi, improntato

allo scambio e all’interazione. Ciò offre l’occasione per introdurre

l’opposizione di relazione autentica e relazione inautentica, di matrice

heideggeriana, che può fornire agli studenti una chiave di lettura per fare

ordine nella complessità del discorso.

La relazione con gli altri può essere affrontata inizialmente come

problema etico, certamente più vicino al patrimonio esistenziale degli

studenti e di più facile approccio nello studio della filosofia antica.

Come primo momento del percorso proponiamo la trattazione

aristotelica dell’amicizia. La classificazione delle diverse forme di

amicizia proposta da Aristotele nell’Etica Nicomachea prevede, come è

noto, la distinzione tra l’amicizia finalizzata all’utile, quella finalizzata al

piacere e infine l’amicizia finalizzata al bene dell’altro. Al di là

dell’intento sistematico, perseguito dal filosofo, riteniamo di particolare

interesse ai fini del nostro discorso l’indicazione di parametri per

caratterizzare le relazioni: il carattere disinteressato, la reciprocità e la

condivisione, che permettono di cogliere nell’amicizia finalizzata al bene

dell’altro un modello di rapporto con l’altro duraturo e fecondo.

Un nodo problematico che gli studenti sanno far emergere

suggerisce un ulteriore sviluppo: non persuade infatti come una

relazione per essere autentica debba essere assolutamente disinteressata,

dato che pare lecito nutrire un interesse, un’aspettativa verso l’altro,

quando lo si considera un amico. La lettura di alcuni frammenti di

Epicuro può essere utile a chiarire e completare il discorso: sebbene

LAVAPIÉS, MADRID, 2011 X

Quaderni della Ginestra

68

l’amicizia non abbia nulla a che fare con la ricerca dell’utile, è comunque

alimentata da un interesse, senza il quale non potrebbe sussistere alcuna

relazione, e contempla naturalmente anche la fiducia in un aiuto nei

momenti di maggiore difficoltà.

Disinteresse e reciprocità ritornano come componenti essenziali della

benevolenza agostiniana, che è accompagnata da carità e fratellanza.

Tutti elementi che concorrono a caratterizzare la relazione con l’altro

nei termini della misericordia, che l’uomo impara ad esercitare da Dio,

un sentimento di portata universale che vede nell’altro ‘il prossimo’ e

che si realizza a pieno solo nella condivisione della fede. La relazione

assume in primo luogo una direzione verticale - l’altro come Altro

rispetto all’uomo -, per poi consentire un modo nuovo di pensare la

relazione orizzontale con i propri simili, che si sostanzia di mutua caritas

per cui ogni uomo, sia questi uno sconosciuto o addirittura un nemico,

diventa ‘prossimo’. Il mutamento di prospettiva non potrebbe essere più

radicale rispetto alla concezione greca per la quale non solo l’eros

platonico ma, come abbiamo visto, anche l’amicizia aristotelica si

rivolgono a chi è riconosciuto come meritevole, come capace di

incarnare un valore che condividiamo e apprezziamo. Al contrario,

l’agape cristiana è spontanea; non riguarda i buoni e i meritevoli, ma

tutti. E’ un sentimento che deriva dall’amore di Dio per l’uomo e come

tale è ai nostri occhi gratuito, senza motivo.

Non meno interessante risulta mettere in evidenza il silenzio del

pensiero moderno riguardo la relazione con l’altro e guidare quindi gli

studenti a indagarne la ragione. In questa prospettiva, l’attività didattica

sarà finalizzata principalmente a rilevare come, a partire da Cartesio e

almeno fino a Kant, il soggetto costituisca l’asse centrale della filosofia,

nonché l’orizzonte trascendentale nel quale si dà accesso alla verità

Nella filosofia di Kant il tema della relazione è affrontato in ambito

etico, nella Metafisica dei costumi, dove dall’indagine fondativa dell’agire

morale si passa a esaminare l’applicazione della legge morale ai

comportamenti concreti. Qui il filosofo approfondisce due

fondamentali modalità di relazione con l’altro, parallele e

complementari: il rispetto e l’amore. Il rispetto è la massima che ci

impegna a riconoscere la dignità dell’umanità in noi stessi e negli altri.

Come tale lo dobbiamo universalmente a tutti a prescindere dai meriti.

Tanto il primo rientra nella sfera del dovere ed è universalmente

fondato, quanto il secondo non può essere comandato, né riguardare

tutti. L’amore naturalmente rifugge universalità e astrazione, sa parlare

solo il linguaggio della relazione tra singoli, ciascuno dei quali vede

nell’altro un’individualità insostituibile. La complementarietà tra amore e

rispetto delinea una relazione equilibrata tra attrazione e presa di

Didattica e filosofia

69

distanza che crea lo spazio intersoggettivo del dialogo e dello scambio.

Nella prospettiva kantiana tuttavia la modalità fondamentale di

relazione con se stessi e con gli altri è il rispetto; esso esprime il

riconoscimento di un’autorità indipendente, rintracciata nella libertà di

volere che consente a ciascuno di costituirsi come persona. La relazione

tra i soggetti viene intesa perciò sul modello del “regno dei fini” come

comunità ideale di carattere regolativo che raccoglie tutti gli esseri capaci

di agire moralmente in quanto depositari di una ragione universale, che

accomuna, conciliando le differenze. Sia in ambito etico che

cosmopolitico, il filosofo di Königsberg delinea il pluralismo dei

soggetti sullo sfondo di un’idea normativa di umanità che risponde

all’esigenza di individuare un valore incondizionato, alla luce del quale i

progetti individuali, in termini kantiani “i fini di ciascuno”, trovano la

loro condizione di validità nell’unico “fine in sé” che possiamo

universalmente accogliere.

L’idea del riconoscimento dell’altro in quanto tale invece viene

tematizzata dal pensiero hegeliano, in particolare nella celebre dialettica

servo-padrone della Fenomenologia dello Spirito, che rappresenta un

momento di svolta decisivo del nostro percorso perché mette in

discussione il carattere originario dell’autocoscienza, che presuppone

come sua condizione proprio il riconoscimento dell’altro. Prima che

questo si attivi, vi è infatti in ciascuna autocoscienza la pretesa di essere

unica. Rispetto alle modalità prese in considerazione finora dell’amicizia,

dell’amore o del rispetto, la dialettica servo-padrone insegna che

incontrare un altro individuo con la pretesa di conoscere il mondo,

soprattutto con lo stesso potere di libertà, apre uno scenario per nulla

conciliante, anzi nettamente conflittuale. Il riconoscimento reciproco

perciò, per quanto sia un’esperienza vitale, risulta tutt’altro che

rassicurante. La lotta si risolve positivamente quando il riconoscimento

si compie con l’inclusione dell’altro nella relazione e non con la sua

esclusione. Superata la conflittualità, che appartiene ancora allo stato di

natura, la dinamica del riconoscimento tra individui liberi è affidata da

Hegel al linguaggio e alla dimensione dialogica dell’intersoggettività.

Il tema hegeliano del riconoscimento è un punto di riferimento con

cui le riflessioni sull’intersoggettività si sono costantemente confrontate.

In particolare, l’eredità hegeliana raccolta sia dai pensatori

immediatamente successivi sia da quelli del Novecento, riguarda la

possibilità di pensare l’intersoggettività come un’esperienza originaria

anche rispetto alla stessa soggettività.

MARINA SAVI

Libri in discussione

71

ella realtà, l’ultimo libro di Gianni Vattimo edito da Garzanti,

riproduce le peculiari movenze speculative del ‘pensiero debole’

attraverso due momenti accademici: i corsi di Lovanio (1998), tenuti

all’ombra dell’allora recente riconoscimento degli esiti nichilistici

dell’ermeneutica, e le prestigiose Gifford Lectures di Glasgow (2010),

cornice di un confronto serrato con il ‘nuovo realismo’. La continuità

tra le due sezioni dell’opera, integrate da una terza con finalità di

approfondimento, deriva dal tema ricorrente del bisogno di realtà

contrapposto al nichilismo prospettivistico di Nietzsche, ovvero all’e-

nunciazione della tesi che nega l’esistenza dei fatti a favore delle

interpretazioni e, al contempo, attribuisce a se stessa una natura

interpretativa. Assumere che vi sia un’unica realtà, e che la dimensione

fattuale sia ontologicamente consistente e implichi una precisa nozione

di ordine, appare un’esigenza «nevrotica» e inconciliabile con

l’umanesimo vattimiano che, dalla metafisica obiettivistica, sposta il

fuoco sull’interpretante, sulla sua profondità storica, sul soggetto

heideggerianamente ‘interessato’ al commercio con il mondo.

Sottratto a una neutralità desoggettivante, l’uomo è un «punto di

vista finito e parziale» sulle cose, intreccia con esse rapporti

qualitativamente determinabili, e dunque è la sua prospettiva – o

interpretazione – finita a imporsi, non uno sguardo panoramico su

presunti fatti o su altre interpretazioni. Si tratterebbe, infatti, di una

generalizzazione al di sopra dell’interpretante che Vattimo considera

inaccettabile anche per il sapere scientifico. Il che, è evidente, finisce per

mettere in crisi il paradigma corrispondentista della verità. L’adaequatio

rei et intellectus viene respinta perché, come si desume dalle premesse, «la

realtà ‘stessa’ non parla da sé, ha bisogno di portavoce – cioè, appunto,

di interpreti motivati, che decidono come rappresentare su una mappa

un territorio a cui hanno avuto accesso attraverso mappe più antiche».

Al contempo si incrina il mito dell’oggettività, di una datità estranea e

indifferente che invece, secondo l’autore, soggiace costantemente a

interpretazione ed è perciò differente a seconda della mappatura, per

tornare all’immagine sopra evocata, del soggetto interessato. Una

mappatura storica la cui limitatezza prospettica, è bene precisare, non va

dissociata dall’idea heideggeriana, pienamente recuperata da Vattimo, del

nascondimento dell’Essere, di quel suo costitutivo rifiuto a rendersi

completamente disponibile in forme oggettivate e definitive.

Rivelato nella sua infondatezza mediante gli argomenti appena

esposti, il bisogno di realtà viene in un secondo tempo contrapposto al

bisogno di libertà, declinabile sul piano epistemologico, estetico e

D

REALMENTE LIBERI, REALMENTE RIVOLUZIONARI

Quaderni della Ginestra

72

politico. Il realismo descrittivo e rispecchiante, al riguardo, si pone agli

antipodi di una filosofia interessata (secondo il significato di ‘tesa a’, non

indifferente) e progettuale quale Vattimo intende proporre. Se da un

lato, infatti, detto realismo accoglie e legittima un ordine prestabilito, e

cioè «l’universo della organizzazione totale», dall’altro proprio per

questo è associabile alla condanna della metafisica come atto di

violenza, di prevaricazione che cristallizza il pluralismo, spegne qualsiasi

fermento rivoluzionario ed estingue la scintilla di ogni speranza di

cambiamento. Essere liberi, al contrario, «essere antirealisti», come

scrive Vattimo, «è oggi forse l’unico modo di essere, ancora,

‘rivoluzionari’», e questo non perché, rinviando allo sfociare

dell’ermeneutica nel nichilismo, si sia abdicato a qualunque criterio di

verità, bensì perché tali criteri sono stati sottratti all’estraneità della

metafisica e interiorizzati nella storicità del soggetto; sono stati resi

dinamici e malleabili, retorici, frutto di una condivisione in divenire e a

tratti conflittuale, non di un adeguamento chiuso e prestabilito. La

filosofia radicalmente depurata della metafisica, in sintesi, è quella che

«ha preso congedo da una concezione rigidamente oggettivistica della

verità, legandola invece sempre più esplicitamente al consenso di

comunità che condividono paradigmi, tradizioni, anche pregiudizi, ma

che sono consapevoli della loro storicità».

Si tratta di una filosofia ‘cristianizzatasi’, ossia discesa per effetto di

kénosis nell’umano perdendo la connotazione di ricerca impersonale di

una verità somma; essa altresì è, quasi per vocazione, apertura caritativa,

cura verso l’altro. Se quindi la verità non precede ma segue l’accordo

intersoggettivo su di essa, senza eccezione per l’episteme della scienza,

anche un absolutus tradizionale come il concetto di male è destinato a

cadere sotto i colpi della decostruzione della metafisica, in quanto

quest’ultima, secondo Vattimo, è il male: «È male il dominio scatenato

SALSEDINE, AUSTRALIA, 2011

Libri in discussione

73

della oggettività misurabile, l’ansia di non perdere questo dominio, in

tutti i molteplici sensi in cui ne facciamo esperienza, dalla pretesa di non

perdere la prestanza fisica, che ci consente di sedurre, godere, prevalere

sugli altri, alla volontà di potenza dei grandi soggetti storici, alle

molteplici forme in cui si dispiega il principio di prestazione a tutti i

livelli della nostra esistenza».

Ed è precisamente questa la nota caratterizzante della filosofia di

Vattimo quale emerge dal testo: un ricentramento dello sguardo sul

soggetto e sull’Essere, un invito al recupero dell’autenticità dell’uomo

quale essere interpretante chiamato, proprio in forza di questo statuto,

ad un esercizio di responsabilità verso i suoi simili e verso il mondo in

cui vive. Il percorso che in Della realtà giunge a siffatto esito è

consapevolmente un’interpretazione, nella quale Nietzsche, l’Heidegger

di Sein und Zeit e della controversa adesione al nazismo, Adorno, Dewey,

Tarski, Feyerabend e Rorty mescolano le loro voci generando risonanze

originali, non di rado meritevoli di essere discusse. Tuttavia l’alone

interpretativo che si estende sul testo, certamente pregevole per gli

scorci di dibattito che ancora può dischiudere, non può essere dissolto,

per esempio, invocando alla maniera girardiana un compromesso che

invalidi tanto un atteggiamento di mitizzazione del fatto quanto la

struttura portante del ‘pensiero debole’. Ammettiamo pure che queste

prese di posizione siano entrambe pseudo-radicalizzazioni, e che la

fiducia nella ragione debba evitare di trasformarsi in idolatria attraverso

un equilibrio virtuoso tra fatti e interpretazioni: semplicemente,

risponderebbe Vattimo a una tale obiezione che chiude il volume del

dialogo con Girard, anche questa è un’interpretazione.

GIACOMO MIRANDA

G. Vattimo, Della realtà, Garzanti, Milano 2012, pp. 231, € 18.

Quaderni della Ginestra

74

LA PESTE TRA COLPA E DESTINO

he cos'è la peste? E qual è il senso della vita umana di fronte a

essa? Che senso ha, in altre parole vivere in un mondo in cui

incombe la peste? Si interroga su queste (e su altre) domande Sergio

Givone ne La metafisica della peste: colpa e destino. Partendo dalla questione

ontologica della peste (che cosa è la peste) l'autore cerca di andare al

cuore della riflessione mettendo in luce quanto il terribile flagello viva e

si rifletta all'interno di una profonda dualità e, di conseguenza,

ambiguità: essa, la peste, è, allo stesso tempo, immanente e trascendente.

É immanente in quanto fatto di natura: è un'infezione del corpo, una

malattia, sia pure la più virulenta, ma non altro. Ma ha anche un lato

trascendente, perché nell'eccedenza della sua portata, nello sterminio

straordinario che compie, riaccende nell'uomo domande sul destino, il

fato e la colpa.

La peste reca in sé, qualcosa di fatale: è nella natura ma sembra

incombere esternamente (trascendenza) sul mondo come vendetta per

una colpa da espiare per mezzo della morte. Come non vedere allora

nella peste il senso di una colpa, una tanatodicea? La peste come vendetta

divina causata da un'offesa da redimere, come le frecce avvelenate che il

dio Apollo lancia nel campo degli Achei per punire una profanazione (il

rapimento del sacerdote Criseide). Se la peste è cosa di natura, la sua

virulenza straordinaria che rende impensabile il senso stesso del suo

catastrofismo (come può esistere qualcosa di così orrorifico?), vuol dire

che la natura, da sola, non basta a spiegarla. Essa è, in sensu stricto, il male

o, meglio, lo sfondo del Male in cui si staglia l'esistenza stessa dell'uomo.

Che la peste non sia solo peste ma sia il Male è facile a capirsi: essa reca,

ovunque scoppia, dolore morte e desolazione. Si abbatte

immotivatamente. Uccide i giusti quanto gli ingiusti. La sua “condotta”

non segue un senso, un disegno. La peste non ha senso. Certo, si dirà

che è solo un virus, un fatto di natura. Eppure la sua portata risulta

troppo grandiosa per risolversi in una chiave naturalistica, tanto da

domandarsi, in forma traslata, “Se Dio esiste, perché la peste?”.

Si scopre allora che tutta la riflessione di Givone sulla peste non è

altro che un pretesto per parlare dell'uomo e del senso della sua vita di

fronte al male e a una morte incolpevole e incombente. Non già la

peste, il morbo-peste, la malattia dei ratti, ma il male che affligge l'uomo,

il male verso l'uomo e il male dell'uomo, il destino che si abbatte

immotivatamente nell'uomo e la colpa che ogni uomo porta in sé in

quanto peste, in quanto male di cui ognuno fa le veci. Responsabilità

verso il destino direbbero i drammaturghi greci, peccato originale i

cristiani. Destino ed elezione direbbero i primi, caduta e salvezza i

C

Libri in discussione

75

secondi. Non dunque meditatio pestis, meditatio naturae,

quanto meditatio mortis, meditatio mali, meditatio hominis. Perché la peste,

prima di essere un fatto di natura, ordinario o straordinario che sia, è un

fatto umano, troppo umano. Basti leggere per capirlo Lucrezio, Boccaccio,

Berni, Leopardi, Manzoni, ma anche gli stranieri Defoe, Blake, Poe,

Dostoevskij, Camus, tutti autori che Givone prende in prestito per

parlare di quanto il senso, o i diversi sensi, della vita umana, ruotino

intorno al fatto più spiacevole della vita stessa: il male, la morte. Perché

non c'è vita e non c'è significato che non parta partendo dal male.

Curioso fatto: «non mortis, sed vitae meditatio», direbbe Spinoza. Ecco allora

la peste parlare della caduta nella barbarie (Cormac Mc Carthy), ma

anche della possibilità di resistere al male attraverso una nuova etica

(Camus); parlare del male come entità psichica, spirituale, quasi una

colpa essenziale alla vita (Artaud), ma anche come strumento di

misericordia divina (Manzoni); come un fatto che riduce l'umanità allo

stato di natura capace, allo stesso, tempo di aprire alla solidarietà umana

(Leopardi); la peste che tutto appesta, persino il linguaggio preparando

l'avvento di Hitler e del nazismo (Kemplerer). E se quest'ultimo male,

banale o, meglio, banalissimo, si è abbattuto sull'Europa come un

orribile destino, non di meno si è potuto parlare di una colpa di cui

l'umanità intera si trova responsabile e che va affermando: «noi siamo

vivi, è questa la nostra colpa» (Jaspers).

Colpa incolpevole dunque, colpa di destino, ciò non di meno colpa.

Perché il destino e la colpa lungi dall'escludersi a vicenda in realtà

cadono insieme. E se questa colpa, e se questo destino, in quanto banali

risultano senza senso, non sarà allora una metafisica della peste a dirci

che forse la stessa insensatezza è, in ultima analisi, il senso dell'essere?

DANIELE FOTI

Sergio Givone, Metafisica della peste: colpa e destino, Einaudi, Torino 2012,

pp. 206, € 22

Quaderni della Ginestra

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SENTIRE E CONOSCERE: L’UOMO, “CREATURA

EMOTIVA”

ebbene inizialmente concepito come traduzione inglese de Qu’est-ce

qu’une emotion, breve saggio introduttivo sulla natura dell’emozione

apparso presso Vrin nel 2008, il testo di Deonna e Teroni in esame si

presenta essenzialmente come un testo nuovo: ampliato e modificato

rispetto all’originale, intende offrire un’introduzione alla filosofia delle

emozioni in una prosa estremamente chiara e scorrevole.

Ma in che senso l’emozione può diventare oggetto di una riflessione

filosofica? Per Deonna e Teroni si tratta innanzitutto di chiarire cosa si

debba intendere per ‘emozione’, per poi proporre una teoria originale

che renda giustizia al ruolo fondamentale delle emozioni nel nostro

valutare quotidiano.

I primi due capitoli del testo sono dedicati a rispondere alla

domanda: cos’è un’emozione? Sono presentate e valutate le principali

teorie sulla natura delle emozioni, di cui sono esposti pregi e difficoltà.

È possibile individuare tre caratteristiche essenziali delle emozioni:

hanno una certa fenomenologia, sono legate cioè a un ‘sentire’

corporeo; sono dirette verso un oggetto – godono di intenzionalità;

sono soggette a standard di correttezza (le emozioni possono essere

appropriate o inappropriate) e a standard epistemologici (le emozioni

possono essere giustificate o non-giustificate). Nel primo capitolo, in

particolare, l’emozione è distinta da altre tipologie di fenomeno

affettivo, come desideri e stati d’animo [moods]. Desideri ed emozioni si

differenziano per ‘direzione di adattamento’: mentre l’emozione ha una

direzione mente-mondo, è cioè giustificata nel momento in cui un

oggetto istanzia effettivamente la qualità presentata dall’emozione – per

esempio, la mia paura risulta legittima se l’oggetto nel mondo è di fatto

S

LE PORTE DELL’EDEN, AUSTRALIA, 2011

Libri in discussione

77

‘pericoloso’ –, il desiderio ha invece una direzione mondo-mente, ossia

tende a modificare il mondo per renderlo conforme alle aspirazioni

dell’individuo. Infine, diversamente dall’emozione, uno stato d’animo

(come ‘scontroso’) non è affatto intenzionale, non riferendosi ad alcun

oggetto specifico. Una volta differenziata l’emozione da altri fenomeni

affettivi, gli autori difendono, nel secondo capitolo, l’unità della

categoria di ‘emozione’, mettendo in luce la dipendenza di ogni

emozione, anche le più complesse (il senso di colpa, per esempio) da

stati cognitivi di base.

Tra il terzo e il sesto capitolo vengono analizzate le principali

posizioni contemporanee sulla natura delle emozioni. Nel terzo capitolo

viene confutata la teoria secondo cui le emozioni sono combinazioni di

desideri e stati cognitivi, e si difende la connessione tra emozione e

valutazione. Nel quarto e nel quinto capitolo viene invece

problematizzata la connessione tra provare un’emozione e attribuire una

certa proprietà valutativa a un oggetto, confrontando le opzioni realista-

oggettivista e disposizionalistico-soggettivista sul valore. Nel quinto

capitolo, in particolare, si confuta la ‘teoria del giudizio valutativo’,

secondo cui le emozioni vanno ridotte ai giudizi valutativi su cui si

fondano. Ma se emozione e credenza/stato cognitivo coincidono, come

spiegare che si possano attribuire emozioni anche a bambini e animali,

chiaramente estranei alla formulazione di giudizi? La sovrapposizione di

emozione e giudizio elimina erroneamente il versante fenomenologico,

del ‘provare’ fisicamente l’emozione, del ‘sentirla’ a prescindere dal

nostro padroneggiare concetti. D’altro canto, gli autori prendono

ugualmente le distanze da teorie che disconoscono la funzione

informativa dell’emozione (il suo essere diretta verso un certo oggetto),

e che si concentrano esclusivamente sul coinvolgimento corporeo che

l’emozione implica, o definiscono le emozioni in termini di percezione

di proprietà valutative. Nel sesto capitolo, inoltre, si evidenzia la natura

fuorviante dell’analogia tra percezione ed emozione, la cui

interpretazione in senso letterale è evidentemente esclusa dall’assenza di

specifici ‘organi dell’emozione’ che svolgano una funzione analoga a

quella svolta dagli organi di senso in campo percettivo. Gli autori

delineano quindi la propria proposta di una teoria ‘attitudinale’ delle

emozioni, in cui trovano conciliazione la funzione informativa

dell’emozione, il suo dirigersi verso un oggetto, e il versante

fenomenologico di un coinvolgimento corporeo. L’emozione è definita

come «attitudine verso un oggetto, appropriata quando l’oggetto

esemplifica una certa proprietà valutativa», dove per ‘attitudine’ si

intende la reazione del nostro corpo di fronte a un determinato oggetto

e alle sue proprietà.

Quaderni della Ginestra

78

Negli ultimi tre capitoli, infine, si approfondisce la questione della

giustificazione di un’emozione, indagando a quali condizioni essa possa

essere dichiarata ‘giustificata’ e sottolineando l’importanza degli stati

cognitivi di base. Si ritorna quindi sul rapporto tra emozioni, sentimenti,

stati d’animo e desideri, evidenziando il ruolo fondamentale

dell’emozione nel nostro quotidiano acquisire conoscenza del valore.

Pur presentato come introduzione alla filosofia delle emozioni, il testo

di Deonna e Teroni va al di là della semplice illustrazione del dibattito

contemporaneo sulla nozione di emozione: gli autori prendono

esplicitamente posizione contro o a favore delle teorie esposte,

avanzando una teoria originale sulla natura dell’emozione. Altro

importante pregio del testo è il suo non limitarsi all’analisi della sola

nozione di emozione, dando conto della complessità della vita affettiva,

costituita anche da stati d’animo, desideri e sentimenti. Particolarmente

utile per ottenere una visione d’insieme dello stato attuale del dibattito

sull’emozione, il testo in esame vi contribuisce in modo del tutto

originale.

CRISTINA TRAVANINI

J.A. Deonna, F. Teroni, The Emotions. A philosophical introduction, Routledge, London-New York 2012, pp. xiii+137, € 22