Quaderni della Pergola n.5

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4. Enrico Magrelli Il mestiere dell’attore5. Giancarlo Giannini Un gioco serio8. Ottavia Piccolo Un abito sempre diverso10. Elio Germano Dentro l’emozione13. Valeria Golino Non temo più le parole16. Silvio Orlando Un’avventura affettiva19. Federica Di Martino Scritto nel destino21. Anna Ferzetti La responsabilità di essere attrice23. Lucia Lavia La gioia di essere attrice28. La riproduzione vietata30. Sull’essere lo stuntman di Gabriele Lavia32. Eduardo e Pirandello, cantata dei giorni gelidi34. L’autore come padre36. La parola al pubblico37. Dal palcoscenico della Pergola Gabriele Lavia parla agli attori43. La Storia racconta...45. I mestieri del cinema Francesco Piccolo Giuseppe Tornatore50. Firenze Contemporanea Museo Novecento William Kentridge56. Dai Quaderni di Orazio Costa

Il numero 5 dei Quaderni della Pergola inaugura, insieme allo spettacolo Sei personaggi in cerca d’autore per la regia di Gabriele Lavia, questa nuova stagione di prosa. E lo fa rinnovando il proprio aspetto, decidendo di vestirsi con gli elementi di stile che caratterizzano l’attuale immagine grafica della Fondazione Teatro della Pergola.È un Quaderno che si rinnova e si arricchisce di più elementi: tra innovazione e tradizione, tra arte e storia, con immagini e visioni. Continuando a dare voce agli artisti e alle maestranze, a chi brilla sul palcoscenico e a chi lavora dietro le quinte. Fino ad accogliere e dare spazio a chi sapientemente offre il proprio punto di vista critico su questo variegato mondo culturale e di spettacolo.Un Quaderno che abbraccia nuove visioni di pensiero ma che non vuole tradire la sua anima poetica e libera, accettando il rischio ed il compromesso; nella consapevolezza e responsabilità di non deludere i lettori affezionati e pronto ad aprirsi a nuovi curiosi lettori.Il Quaderno numero 5 inaugura dedicandosi alla vita degli attori: uomini e donne fatti di anima e corpo che ogni sera donano un pezzo di vita, di speranza, di sogno, di riflessione e di amore a tutti noi.Le luci si abbassano, si alza il sipario, la musica inizia, appare l’attore…Che lo spettacolo abbia inizio!

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Ci piacciono, ci coinvolgono e ci emozionano il lavoro concreto e faticoso

di chi regala la vita ai personaggi, l’impegno e la determinazione nel tro-

vare la temperatura emotiva di un ruolo, l’empatia e l’intelligenza di un

interprete che si allontana da se stesso e si immerge, in apnea, nelle pa-

role e nei pensieri di qualcun altro per poi riaffiorare avendo scoperto un reperto

dimenticato, un frammento di verità, un momento di irriducibile vitalità.

Un attore è un esploratore e un viaggiatore - e molto altro - per conto terzi. E

quei ‘terzi’ siamo tutti noi. Spettatori di storie di oggi e di ieri, prossime alla nostra

quotidianità e lontane storicamente dal brusio dell’oggi.

Molti attori attraversano la scena e ci accompagnano nella narrazione con

un’idea o una scintilla di ribellione. Talvolta i loro personaggi sono come rosi da

una febbre, da un’ansia, da un dolore, da domande profonde che cercano risposte

non semplici. Risposte che l’attore vuole trovare insieme a tutti noi.

Il mestieredell’attore

diEnrico Magrelli

IMMAGINE DALILA CHESSA

Dal Premio Gian Maria Volonté a Elio Germano,

(Festival La Valigia dell’Attore a cura di

Giovanna Gravina)

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Giancarlo GianniniUN GIOCO

SERIOChe posto occupa il caso nella sua scelta di diventare attore?Io nella vita volevo costruire gli

aerei. Da piccolo avevo seguito una

scuola di aeromodellismo che è stata

molto importante perché mi ha inse-

gnato il valore del tempo: un aspetto

che ha contribuito alla formazione del

mio pensiero su tante cose, anche sul

mestiere di attore. Nell’elettrotecni-

ca si parte da un disegno su carta per

arrivare, montando tanti piccoli ele-

menti con precisione e senza fretta, a

costruire l’oggetto finale. Se ci si pensa

bene, la stessa cura e la stesso tipo di

attenzione, servono per la messinsce-

na di uno spettacolo o la realizzazione

di un film. Direi che il caso è stato fon-

damentale nel mio percorso di attore.

In realtà il mio destino era di andare

in Brasile come elettronico, ma su sug-

gerimento di un mio amico libraio ten-

tai il provino in Accademia. Neanche

sapevo dell’esistenza dell’Accademia

di Arte Drammatica, la parola Accade-

mia mi aveva fatto pensare alla scuola

per cadetti… Per gioco feci il provino,

l’ultimo su novecento allievi, e lo supe-

rai. Ho cominciato a lavorare nel Sogno

di una notte di mezza estate diretto da

Beppe Menegatti e con Carla Fracci

che ballava nello spettacolo, recitavo

con Gian Maria Volonté, la gente ap-

plaudiva e tutto mi sembrava così fa-

cile… Questo mestiere per me non ha

mai smesso di essere un gioco, un gio-

co serio, che ancora continua e non so

quando finirà.

La passione per l’elettrotecnica e per l’invenzione non ha mai smesso di accompagnare la sua vita di attore?Durante i miei tempi di solitudine

nell’arco della giornata, momenti che

io trovo bellissimi, ho sempre cercato di

inventare delle cose. Mi piace pensare

di poter realizzare quello che non c’è.

L’idea della giacca elettronica usata da

Robin Williams nel film Toys, da me

realizzata, nasce da questo piacere di

curiosare nella materia che più mi piace,

l’elettronica. Non è una materia fredda,

come a prima vista si potrebbe pensare,

piuttosto necessita di un gioco di

pensiero e di una fantasia notevoli. Alla

fine sono le stesse qualità che occorrono

per interpretare un personaggio.

Giancarlo Giannini è uno dei docenti del Centro Sperimentale di Cinematografia. Insegnare a recitare bene è possibile?È divertente il dialogo che si in-

staura con gli allievi, ricevo molto dai

giovani… Insegnare a recitare in realtà

è impossibile, ma esistono dei piccoli

trucchi che possono essere trasmessi.

Al Centro Sperimentale, oltre allo stu-

dio dei monologhi, ho voluto fortemen-

te che i ragazzi imparassero almeno

una poesia a memoria. Nella poesia si

racchiude una capacità comunicativa

talmente inespressa che, imparando-

la a leggere, l’attore può sperimenta-

re con forza e coraggio la sua via di

espressione. Bisogna scavare nel pro-

diAngela Consagra

“Bisogna scavare nel profondo della propria individualità per scoprire quello che si vuole comunicare”

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fondo della propria individualità per

scoprire quello che si vuole comunica-

re. Il mio amico Vittorio Gassman, per

esempio, diceva di conoscere almeno

trentasette ore di poesia a memoria… I

metodi di insegnamento a cui mi rife-

risco sono sistemi di analisi su se stessi,

raccolte di reminiscenze personali che

provengono da Stanisvlaskij, ma an-

che da Freud e Brecht. Lo studio che

propongo agli allievi si basa sul Meto-

do che ho imparato in Italia dal grande

Maestro Orazio Costa, partendo dalla

capacità mimetica, dall’abilità nell’e-

sprimere ed imitare le cose tipica dei

bambini. Dico sempre ai miei studen-

ti che non sono loro a recitare ma è il

pubblico che recita per loro. Credo in-

fatti che l’attore sia un segno nello spa-

zio e quando racconta qualcosa, anche

di doloroso, non ne soffra veramente.

Recitare interpretando i personaggi fa

parte del gioco del teatro: le scene sono

finte e gli attori dei maghi che invitano

il pubblico ad una favola. Ed il pubblico

è disposto a crederci, recitando così la

parte per cui è chiamato in causa.

Ha affermato di vivere molto di solitudine. Come si concilia questa sua vocazione al silenzio con il mestiere di attore?Io quando studio un ruolo esagero

molto, proprio fisicamente: magari mi

metto a imitare gli animali per entrare

meglio in certe dinamiche del personag-

gio da interpretare. Per prepararmi ho

bisogno della solitudine. Chi fa l’attore e

vive continuamente il gioco della fanta-

sia, è come se sperimentasse una nuova

esistenza ogni volta che si apre il sipa-

rio. È una sensazione molto bella, che

cambia il senso della realtà e della nor-

malità. Una felicità in più da vivere, che

appartiene solo all’attore. Io, per esempio,

credo nella vita di essere stato un timi-

do ma, grazie al mio mestiere, di avere

imparato a rompere quello specchio

che mi divide dagli altri riuscendo così a

rappresentare qualsiasi cosa. Molti studi

hanno rivelato che una delle più grandi

paure dell’uomo sia quella di mostrarsi e

parlare davanti ad un pubblico. L’attore

è chiamato quotidianamente a combat-

tere e vincere questa paura.

Ad un certo punto della sua carriera, per ragioni burocratiche non legate strettamente al palcoscenico, ha deciso di abbandonare il teatro. C’è qualcosa che il teatro le ha insegnato rispetto al cinema?Teatro e cinema sono due tecniche

completamente diverse. Quello che lega

queste due cose è il mestiere dell’atto-

re. Una bellissima espressione di Jean

Louis Barrault definisce perfettamente

questa figura: “L’attore è colui che con il

suo movimento incide uno spazio e con

la sua voce incide il silenzio”. Movimen-

to del corpo e capacità vocale: questa è

l’essenza dell’attore, soprattutto dell’at-

tore teatrale che deve sapere come far

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arrivare la voce ed essere visto fino

all’ultima fila. Il cinema rappresenta

un’altra forma di racconto: con la mac-

china da presa si fanno dei salti enormi,

si passa dall’inquadratura degli occhi

ad un dettaglio delle mani.

Lei è anche uno dei più grandi doppiatori italiani.Se dovessi descrivere con un agget-

tivo il lavoro del doppiatore sicuramen-

te direi ‘mostruoso’, un po’ pensando

alla costruzione di Frankenstein: il

corpo di una persona, con la voce di un

altro… Noi italiani siamo bravissimi nel

doppiaggio. È un dono saper doppiare

gli altri attori, come quando sei intonato

o stonato. A me è sempre riuscito facile

farlo, fin dai tempi dell’Accademia d’Ar-

te Drammatica in cui per guadagnare

qualche soldo andavo a fare il brusio di

sottofondo al doppiaggio pronunciando

la parola ‘rabarbaro’ mentre i protago-

nisti sullo schermo dialogavano tra di

loro. La cosa difficile nel doppiaggio è

riuscire a far dimenticare la caratte-

ristica della tua voce originale e farla

sembrare, senza

finzioni, proprio

quella del perso-

naggio nel film. In

uno dei miei pri-

mi doppiaggi di Al

Pacino, per esem-

pio, per tentare di

rendere ancora

maggiore l’effetto

di verità, decisi di

doppiarlo senza

vedere prima il

film, in maniera

istintiva.

Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi): è il titolo della sua biografia, un libro ricco di

aneddoti e personaggi legati al suo mestiere di attore… Nel corso degli anni ho lavorato con

tutti i migliori. Nel libro parlo delle per-

sone che hanno lasciato un segno nella

mia anima: Vittorio Gassman, di cui

ricordo la forza sullo spazio del palco-

scenico e al contrario la timidezza che si

portava dietro nella vita di tutti i giorni;

Marcello Mastroianni, così diverso da

Vittorio nella quotidianità, e così uguale

a lui nel gioco della recitazione. Il cine-

ma insieme a Mariangela Melato, il suo

magico senso dell’improvvisazione, la

capacità di cogliere la freschezza di un

momento all’interno di uno schema pre-

ciso come quello di un film. Sono stato

fortunato. Se, grazie al mio mestiere di

attore, non avessi fatto tutti questi in-

contri forse oggi sarei un uomo diverso.

“Credo nella vita di essere stato un timido ma, grazie al mio mestiere, di avere imparato a rompere quello specchio che mi divide dagli altri riuscendo così a rappresentare qualsiasi cosa”

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

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Ottavia PiccoloUN ABITO

SEMPRE DIVERSODopo aver fatto tanto cinema, tanta TV e soprattutto tanto teatro, che idea si è fatta del pubblico?Fra attori e pubblico si crea una cor-

rente sempre. Quando la storia che si

racconta è forte si instaura una parte-

cipazione emotiva, qualsiasi sia il mezzo

di comunicazione: televisione, cinema,

teatro. Essere un’attrice significa anche

questo: confrontarsi con un pubblico di-

verso e che, nel corso del tempo, cambia.

Le luci si spengono e gli spettatori ascol-

tano. Andando in giro per la penisola, mi

sono accorta che ultimamente la parte-

cipazione del pubblico è attiva. Ci devi

mettere il cuore e il cervello per ascol-

tare le cose, c’è sempre più voglia di cul-

tura: siamo un Paese pieno di Festival, la

gente paga e fa la fila per andare a sen-

tire magari la conferenza di un filosofo.

Questa è una cosa meravigliosa: vuol

dire che c’è voglia di teatro, di capire, di

approfondimento. È vero che il pubblico

con gli anni è cambiato, nel senso che è

distratto dai telefonini o scrive le mail,

ma ogni spettatore rimane il punto foca-

le del lavoro dell’attore.

Ha iniziato la sua carriera di attrice da molto giovane…Avevo dieci anni e non ho mai smes-

so. Recitare è diventato il mio mestiere,

la cosa che mi ha dato da vivere per tutti

questi anni. Dico mestiere ma in realtà

è qualcosa in più: quando smetti di sta-

re sul palco e torni alla normalità non

smetti mai di pensarci. Nel momento

in cui leggi e approfondisci degli argo-

menti, quando incontri le persone, sei

sempre tu, con tutto quello che rappre-

senti. Diciamo che dopo un po’ il lavoro

di attrice diventa il tuo abito, un modo di

essere, un altro te stesso. Con il tempo ho

trovato una mia ‘nicchia’ di espressione,

alcuni spettacoli che mi piace fare, non

mi imbarco in qualsiasi tipo di progetto.

Negli ultimi anni, per esempio, collabo-

ro molto con Stefano Massini, un autore

teatrale bravissimo: io e la sua scrittura

siamo in sintonia.

Quindi è riuscita a trovare quello che più le appartiene, l’abito giusto.Sì, ed è bello perché si tratta di un

abito sempre diverso.

Lei non ha frequentato particolari corsi di recitazione; si può dire che la sua vera scuola è stata il palcoscenico?Non ho fatto nessuna scuola, è vero.

Dico sempre che sono una figlia d’arte

adottiva, nel senso che i figli d’arte, per

via del mestiere dei genitori, nascono sul

palcoscenico. Io non avevo parenti nel

mondo dello spettacolo ma sono cresciu-

ta stando in scena. Sono andata a bottega,

come si diceva una volta, con i grandissi-

mi: da attrici come Rina Morelli a registi

come Luca Ronconi, Giorgio Strehler e

Luigi Squarzina. Questi incontri hanno

fatto sì che potessi migliorare professio-

nalmente, ma anche umanamente.

Un ricordo tra tutti di questi intensi bellissimi anni…Forse la prima volta che ho ringra-

ziato il pubblico in teatro. Non so se si

“Il buio della platea e il calore del

pubblico: mi sembra di ricordarli o

forse è solo un sogno...”

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tratta di un’immagine vera o di qualcosa

che mi sono ricreata nel ricordo, come

spesso accade… Eravamo a Modena e

dopo i primi applausi si è riaperto il si-

pario, così mi hanno fatto entrare a rin-

graziare da sola il pubblico, senza il resto

della compagnia. Mi hanno detto che ho

salutato come se lo avessi sempre fatto,

chiamando anche gli altri sul palcosce-

nico. Il buio della platea e il calore del

pubblico: mi sembra di ricordarli o forse

è solo un sogno…

Un’attrice in scena quali sentimenti porta sempre con sé?Non chiudi il

cervello e il cuore

fuori dalla porta,

anzi emozione

e ragione sono

sempre dentro di

te. Il tentativo è

di depurare i pen-

sieri dalle cose ne-

gative della vita:

non voglio che mi

influenzino quan-

do sono sul palco.

Bisogna affronta-

re l’incognita, anche la paura, che ogni

spettacolo, sera dopo sera, ti dà. Mi con-

centro tecnicamente su ciò che devo fare,

seguendo più Diderot che Stanisvlaskij:

non vado in trance per interpretare un

ruolo e sono sempre molto cosciente che

sto facendo un lavoro, senza astrarmi

mai completamente dalla realtà.

Forse è proprio questa l’essenza dell’attore: sapere bilanciare bene la quotidianità con il tempo legato al palcoscenico…Bisogna rendersi conto che essere at-

tori è un lavoro. Ci sono delle cose mate-

riali che si ripetono: i passi per raggiun-

gere la luce in un determinato punto, i

colleghi che ti stanno accanto nello spa-

zio della scena e che devi raggiungere…

Si deve essere coscienti di quello che suc-

cede intorno. Non fare come certi attori

che sembrano dormire e poi quando toc-

ca a loro si svegliano, recitano quello che

devono per tornare subito nel loro mon-

do… A me piace il confronto e cambiare

la recitazione anche in base a quello che

sta accadendo in quel momento sulla

scena. Se si ascoltano gli altri, l’istante

cambia ed è sempre tutto diverso.

Che cosa c’è nella sua valigia di attrice?Metaforicamente tutta la mia vita.

Realmente ci sono le foto della mia fa-

miglia, del mio cane, una macchina per

fare il caffè o il tè, tanti pasticcini per

tutti i miei compagni di scena… In ge-

nere nel mio camerino staziona sem-

pre molta gente perché mi piace fare

confusione: non sono come quelle at-

trici che si devono concentrare stando

in silenzio, piuttosto faccio casino fino

all’ultimo momento che mi separa dal

mio ingresso sul palco… Passo tanto

tempo in camerino che diventa così la

mia casa.

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

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10 | Quaderni della Pergola

Come vive un attore il momento del provino? Quando affronti un provino, all’ini-

zio di fatto per il regista sei solo una fac-

cia e non ancora una persona. Ci si con-

fronta subito con il peggio del nostro

lavoro, legato alle problematiche del

mercato… Spesso l’esito dei provini non

dipende dal valore dell’attore ma dalla

faccia che stanno cercando in quel mo-

mento. Il tentativo è quello di riappro-

priarsi di un’umanità, nonostante tutto.

Il nostro è un mestiere in cui l’oggetto

del lavoro va ritrovato all’interno del

proprio corpo, ognuno dentro se stessi.

È questa tensione profonda che io cerco

sempre di inseguire, tentando di far ac-

cadere qualcosa di fronte alla macchina

da presa, ogni volta mirando a cattura-

re una possibilità in più.

La fase dei provini non finisce mai?Anche con registi che conosci già

molto bene non termini mai di metterti

alla prova e questo aiuta a comprende-

re se la dinamica del lavoro potrà di-

ventare comune. Il mestiere dell’attore

è veramente artigianale, la dimensio-

ne che si intraprende in un progetto si

capisce lavorando e sudando insieme.

Fare un provino è sempre un modo per

conoscersi.

Quali sono i suoi grandi maestri di riferimento?Per me non esistono maestri ideali,

piuttosto si continua sempre ad impara-

re grazie al valore umano degli incon-

tri che si fanno. L’attore può soltanto

affrontare il suo mestiere umilmente:

è importante

rapportarsi con i

colleghi, non di-

menticandosi mai

che l’umanità che

ci circonda è mol-

to più complessa

e interessante

di quello che la

recitazione cer-

ca di riprodurre.

La possibilità di

fare incontri è la

vera ricchezza

dell’attore perché

incroci persone

incredibili, molto

diverse da quello

che sei, appartenenti a ceti sociali ete-

rogenei. Questi scambi umani ti arric-

chiscono emotivamente e diventano

fondamentali per riuscire a raccontare

il viaggio compiuto dai personaggi da

interpretare. L’attore deve essere pron-

to ad aprirsi agli altri, con coraggio e

disponibilità, cercando di tirare fuori

quegli stati d’animo che nella vita in-

Elio GermanoDENTRO

L’EMOZIONE

Elio Germano nei panni di Giacomo

Leopardi sul set del film di Mario Martone

Il Giovane Favoloso

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vece siamo costretti ad ingoiare per ne-

cessità o per convenienza. Nella realtà

dobbiamo nascondere quello che pro-

viamo, invece l’attore, grazie alla con-

sapevolezza del gioco della recitazione,

compie il movimento opposto: fa emer-

gere e vivere fino in fondo le emozioni.

Finalmente puoi sperimentare quello

che nella vita non ti capita mai: cedere

ai sentimenti in maniera totale, dall’o-

dio all’amore.

Girare più film con lo stesso regista – come, nel suo caso, con Daniele Luchetti – aiuta a sviluppare un certo modo di lavorare?Luchetti è un regista che induce l’at-

tore a ‘dire’ naturalmente una battuta.

Perseguiamo la stessa modalità inter-

pretativa: l’idea è quella di buttarsi con

verità nelle storie, senza tentare sem-

plicemente di imitarle. L’importante è

riuscire ad abbattere la macchina cine-

matografica per immergersi nella real-

tà. Nel film La nostra vita, per esempio,

la scena in cui io e mia moglie incinta

ci precipitiamo verso l’ospedale è stata

girata sul raccordo di Roma, correndo

davvero fino al pronto soccorso con la

macchina da presa messa in macchina

dietro di noi e con i dottori che quan-

do siamo arrivati non sapevano che si

trattava di un film. In Italia il cinema,

pur non avendo tanti mezzi, ha trovato

la maniera di essere ugualmente ricco:

prendendo la vita che già esiste, senza

la necessità di doverla ricostruire in

studio. È un modo di fare cinema che si

avvicina al mondo anglosassone, dove

si aiuta l’attore ad essere ‘più persona’

possibile e l’approccio al cinema diven-

ta di tipo documentaristico. Il regista

filma un’azione che accade realmente.

La carriera di un attore si costruisce sul coraggio delle sue scelte: sui

tanti ‘sì’, ma anche sui tanti ‘no’…Credo che le scelte non abbiano tanto a

che fare con il coraggio, anzi io mi sento

sempre molto vigliacco. Le mie decisioni

sono egoistiche, nel senso che se giro un

film come Diaz piuttosto che la pubblici-

tà per una marca di pannolini, si tratta

di puro egoismo: per la pubblicità mi pa-

gherebbero tanti soldi, ma non mi piace-

rebbe essere riconosciuto dalla gente per

strada essenzialmente per quel motivo.

Preferisco rinunciare a dei soldi e lavo-

rare con soddisfazione. Non si tratta di

coraggio ma di egoismo verso se stessi.

E poi la maggior parte delle volte non è

che l’attore dice ‘no’: è il progetto del film

a non partire…

Cinema e teatro: quali sono le differenze, proprio dal punto di vista della preparazione dell’attore?Io dico sempre che cinema e teatro

sono due cose che partono diverse ma

poi sono uguali. Spero di non essere

frainteso ma, secondo me, dal punto

di vista dell’interpretazione dell’attore,

il teatro forse è più ‘uomo’ e il cinema

invece più ‘donna’. Durante una rap-

presentazione l’attore compie un movi-

mento in costruzione, con coscienza e

consapevolezza guida lo spettacolo in

una certa direzione, ne tiene le redini,

mentre in un film deve essere comple-

tamente disponibile alle esigenze del

regista, del montatore, del direttore del-

la fotografia: sono gli altri a governare

le immagini. L’aspetto che accomuna

“Penso che l’uomo contemporaneo sia un essere umano scisso, un individuo fatto di tante personalità e che spesso ne emerga il lato meno autentico”

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il cinema con il teatro è che entrambi

partono dalla stessa esigenza, quella di

tentare di ricomporre ciò che accade in

quel dato momento all’interno dell’atto-

re. Si vive una condizione di abbandono

in entrambi i casi: in teatro il corpo agi-

sce automaticamente, mentre al cinema

l’abbandono è forse meno fisico, legato a

dinamiche più intime ed emotive. Non

esiste un modo solo di fare l’attore: il

modo migliore è di essere più liberi pos-

sibile in scena. Fondamentale è riuscire

comunque a dare qualcosa agli altri,

donare un’emozione allo spettatore rac-

contando qualcosa.

Come avviene la costruzione di un personaggio? La preparazione è la parte più bella

del lavoro, è il momento in cui cerchi

la tua interpretazione personale per la

storia che si va a raccontare. Nel film

di Mario Martone, Il giovane favoloso,

ho avuto la possibilità di avere dei mesi

per studiare Leopardi, confrontandomi

con tutti i più grandi studiosi di questo

autore, e andavo cercando nelle sue pa-

role certe caratteristiche che via via mi

aiutavano a raccontarlo. È stato un viag-

gio emozionante ed un grande onore.

Dopo la fase di preparazione, in genere

il mio lavoro prosegue in direzione di

una comunicazione inconsapevole: sono

convinto che ciascuno di noi comunichi

certi sentimenti, nonostante la propria

volontà, ed è questo che mi interessa

indagare, proprio dal punto di vista

professionale. La mia intenzione è di

mettermi nei panni del personaggio af-

ferrandone l’emotività nascosta. Penso

che l’uomo contemporaneo sia un essere

umano scisso, un individuo fatto di tan-

te personalità e che spesso ne emerga il

lato meno autentico. I miei personaggi,

infatti, sono sempre tesi tra due fuochi,

ed è una caratteristica che ho imparato

a riconoscere a scuola, quando studiavo

i grandi drammi shakespeariani: storie

in cui i protagonisti vivono una neces-

sità di interpretazione a cui la vita li

sottopone. Però c’è sempre un punto in

cui smettono di fingere che corrisponde

al momento della liberazione, in cui si

aprono all’emotività decidendo di pian-

gere o di ridere senza freni. Questo mi

attrae: quando alla fine il personaggio si

riprende la propria umanità.

“Preferisco rinunciare a dei soldi e lavorare con soddisfazione. Non si

tratta di coraggio ma di egoismo verso se stessi”

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Lei ha detto che non ha cominciato il mestiere di attrice seguendo una scuola, piuttosto il suo approccio alla recitazione è stato molto istintivo…Non partivo da una base vera di

attrice, ma ho cercato di mantenere co-

stanti quel senso di libertà e di coraggio

iniziali: nei miei primi film sentivo di

non avere niente da perdere, mi muo-

vevo con una certa impertinenza e mi

facevo anche un po’ ‘strapazzare’ dai

registi italiani che ho incontrato, tutti

con personalità molto forti. Per esem-

pio, in uno dei miei primi film durante

una scena non riuscivo a piangere, ave-

vo solo diciotto anni, e il regista mi di-

ceva: “Ti do uno schiaffo!”, proprio per

indurmi all’umiliazione e infine alla

lacrima. Penso che durante la tensione

creativa di un film tutto sia accettabile,

soprattutto se nel sottofondo di questi

rapporti esistono il rispetto e la volontà

di realizzare insieme qualcosa di bello.

Quando è arrivata a recitare in America la sua impostazione attoriale è cambiata? Sì, mi sono accorta che una certa di-

sciplina e un certo rigore erano neces-

sari. L’America è il mondo dei metodi

di recitazione e i registi sono allo stesso

tempo anche dei tecnici che lavorano

negli Studios, così ho imparato tanto sul

mestiere del cinema, anche se è stato un

periodo strano per me: ufficialmente la

mia carriera andava benissimo, guada-

gnavo un sacco di soldi, ma io so che in-

vece artisticamente non attraversavo

una fase positiva. Direi che il termine

‘opaco’ potrebbe essere la parola giusta

per riassumere quel periodo.

Lei è una delle poche attrici italiane che hanno avuto la possibilità di lavorare negli Stati Uniti…Per gli italiani diventa difficile reci-

tare all’estero perché la nostra industria

cinematografica non ha più una forza

esportatrice; in Francia, per esempio,

l’industria è molto forte e gli attori sono

delle vere star nel loro Paese, così è più

facile lavorare anche in altri contesti.

Io ho vissuto dieci anni in America e

ho avuto l’opportunità di partecipare

ai vari casting, anche importantissimi:

ai tempi di Rain Man, il potere contrat-

tuale di Dustin Hoffman era davvero

enorme. Per le scene che non gli era-

no piaciute nel film il cast al completo

è tornato a girare per la seconda volta

fino all’Illinois… Pensa al potere di un

attore che fa spostare tutti perché, ri-

guardandosi, non si è piaciuto; alla fine,

credo che lui abbia avuto ragione: il

film infatti ha vinto l’Oscar!

Valeria GolinoNON TEMO PIÙ

LE PAROLE

FOTO ALICE NIDITO

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14 | Quaderni della Pergola

Con il film Miele ha debuttato nella regia; da attrice, come si vive questo passaggio dietro la macchina da presa?E’ bello guardare gli altri senza es-

sere guardati. Per una volta è stato ri-

posante dimenticarsi di sé. Facendo io

stessa l’attrice, amo gli attori. Dirigere

Jasmine Trinca e Carlo Cecchi, due figu-

re agli antipodi: il mio è stato un lavoro

fisico, cercavo il contatto per riuscire a

trarre il meglio dalla loro recitazione.

Jasmine ha affrontato con profondità

e serietà il film, a volte non importava

neanche più che le parlassi: lei c’era

sempre, comprendeva immediatamen-

te tutto. Carlo Cecchi ha un tempera-

mento diverso. Adoro la sua reticenza

e la leggerezza profonda che lo contrad-

distingue, la sua tensione ad annoiarsi

subito: è stato come dirigere un cavallo

imbizzarrito. Per me è stata una scuola

incredibile, ho imparato tanto da tutti

gli attori e non escludo di tornare pre-

sto alla regia.

Dal punto di vista della recitazione, come si riesce a dare sempre credibilità alle parole di una sceneggiatura pensata da un autore?Le parole hanno sempre un peso e

io sono stata la prima a doverlo impa-

rare. Una volta la regista Margarethe

Von Trotta mi apostrofò: “Smettila di

avere paura delle parole”. L’attore deve

sentire e comprendere il significato

profondo di quello che sta dicendo, sen-

za rendere tutto puramente colloquia-

le o fintamente naturale, abbassando-

ne il tono, come accade nelle fiction. A

volte può capitare che la mancanza di

intensità e di naturalezza derivi dalla

sceneggiatura stessa, non dagli attori.

Ricordo che nel suo primo film da re-

gista, Lupo solitario, Sean Penn decise

di riscrivere una scena vedendoci reci-

tare. Era il contenuto a non funzionare,

non l’interpretazione. In questi casi gli

attori possono diventare molto utili al

regista.

Il rapporto che si instaura tra attori e regista, come si può descrivere?Ogni regista ha il suo modo di con-

frontarsi con gli attori. Ci sono gli in-

transigenti, che lavorano sulla distan-

za e non sull’intimità, oppure c’è chi si

immerge in una fase quasi di innamo-

ramento con i suoi attori. Sono tutte

possibilità e, per arrivare al risultato

finale del film, io mi metto al servizio

di qualsiasi tipo di comportamento.

Anche se l’attore alla fine ha un’unica

necessità: deve sentirsi amato.

“L’attore alla fine ha un’unica necessità: deve sentirsi amato”

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

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Quaderni della Pergola | 15

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16 | Quaderni della Pergola

Silvio OrlandoUN’AVVENTURA

AFFETTIVA

In questa stagione teatrale sta interpretando Shylock, un personaggio shakespeariano davvero sfaccettato: è il ruolo di un cattivo, un uomo che provoca repulsione ma verso cui, allo stesso tempo, si prova anche una certa pietà. Un attore come riesce a rappresentare le parti più

nascoste dell’essere umano?Tutti noi, nella vita vera, veniamo

spesso incuriositi e attratti dalle per-

sone che non vogliono piacere agli altri

per forza. Individui sgradevoli, che non

hanno sorrisi e ‘rotondità’ di carattere,

non smussano gli angoli per convenien-

za: anche per questo motivo ne rimania-

mo affascinati. L’attore lavora anche su

questi personaggi, figure straordinarie

da indagare. Al cinema non mi è capita-

to tante volte il ruolo del cattivo, invece

in teatro la finzione ti consente, anche

tramite l’esagerazione del trucco e del

costume, di trovare qualche appoggio

in più per la trasformazione del per-

sonaggio. Quello che ricerco sempre, e

spero che traspaia sia nei miei film che

nei miei spettacoli, è di riuscire a mo-

strare la mia umanità al pubblico, così

da indurli all’emozione. La scommessa

è di riuscire a coinvolgere gli spettatori

in una storia, portandoli dalla tua parte.

Quando un attore così popolare si trova a recitare davanti ad un teatro che applaude, qual è la differenza di sensazione rispetto alle manifestazioni di affetto dei fan del cinema?Il pubblico, per definizione, è un’en-

tità astratta. I fan del cinema sono un

mondo sotterraneo, in realtà un attore

non li vede. Però anche gli spettatori

teatrali li senti solo in quel momento,

magari porti in scena tanti spettacoli

ma l’impressione è che si sedimenti tut-

to nell’attimo della rappresentazione;

invece un film che prende il cuore della

gente rimane nell’immaginario per tan-

ti anni. È vero che in teatro ti trovi fisi-

camente davanti ad un pubblico diver-

so ogni sera e, malgrado l’esperienza, si

combatte sempre per arrivare a domi-

narlo. Lo spettacolo non è mai un’opera

finita, rimane perfettibile, anche per

Page 17: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 17

questo le prove non mi bastano mai. Lo

dico sempre ai registi: mi ci vuole tem-

po per arrivare a comprendere davvero,

con coscienza e naturalità, il mio ruolo

sulla scena.

Ma un personaggio famoso come affronta il pubblico teatrale?Bisogna vedere come hai abituato

il pubblico: se sei stato capace nell’im-

postare la carriera cambiando, facendo

delle scelte coraggiose, allora la gente ti

segue. Però se abitui gli spettatori a ve-

dere solo un unico tipo di spettacolo, poi

raccogli pigrizia mentale.

All’attore cinematografico manca di sperimentare il momento diretto dell’applauso del pubblico…L’applauso a fine replica è un mo-

mento liberatorio. E anche quando ne

arriva uno a scena aperta, nel bel mez-

zo dello spettacolo, non ti basta mai. Noi

attori vorremmo che il mondo si fer-

masse per guardare quello che faccia-

mo: ci sono le guerre, i problemi, la crisi,

e noi pensiamo che la gente dimenti-

chi tutto per andare a vedere il nostro

film. A pensarci bene è anche una cosa

piuttosto infantile, ma alla fine l’attore

“I fan del cinema sono un mondo sotterraneo, in realtà un attore non li vede. È vero che in teatro ti trovi fisicamente davanti ad un pubblico diverso ogni sera e, malgrado l’esperienza, si combatte sempre per arrivare a dominarlo”

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Page 18: Quaderni della Pergola n.5

18 | Quaderni della Pergola

vive anche per questo. Del resto il no-

stro lavoro si regge sull’insicurezza: si

attraversano tante fasi e non c’è mai

una parola definitiva. I risultati che si

raggiungono non bastano mai, si è tal-

mente soggetti al giudizio di chi guarda

che poi si finisce per avere la tendenza

a definirsi attraverso quello che dicono

gli altri.

Si parla spesso di egocentrismo a proposito degli attori…Sì, è vero. Ma è una caratteristi-

ca che ci appartiene non tanto per la

voglia di essere guardati e ammirati,

piuttosto per il nostro grande desiderio

d’amore. Il sentimento amoroso è uno

stato d’animo complicato, difficile da de-

finire, e con il pubblico accade lo stesso:

non si smette mai di ricercare l’affetto

della gente.

Un attore cinematografico è spesso riconosciuto e fermato per strada. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi della popolarità?Mi sono accorto che esiste un pizzi-

co di follia nel rapporto tra il pubblico

e il personaggio noto. La gente non sa

come sei in realtà e diventa rigorosa

nell’osservarti: basta una parola fuori

posto e sei subito giudicato. Comunque

solo poche persone hanno questo tipo

di preconcetti e in genere la notorietà

è essenzialmente fatta di aspetti piace-

voli. La popolarità si misura anche in

base alle scelte che si compiono.

Che cosa pensa della situazione del teatro e del cinema in Italia?

Nel sistema teatrale la differenza di

reazione se uno spettacolo piace oppure

no è minima: ciò conduce ad una caren-

za di progettualità. Si ha l’impressione

di scavalcare una fascia di pubblico che

compra la poltrona d’abbonamento a

prescindere dal gusto personale. Io ho

sempre l’impressione di andarmene dai

teatri senza essere riuscito ad esaurire

l’attesa del pubblico, mentre il cinema è

una macchina più costosa e quello che

dicono gli spettatori paradossalmente è

più importante.

Quale strada l’ha condotto verso questo mestiere? Io ho cominciato nei teatrini under-

ground napoletani degli anni Settanta, è

quello il mio punto di partenza. Il senso

di benessere che ho ricevuto immedia-

tamente dalla recitazione è una cosa

che mi ha aiutato ad andare avanti, no-

nostante le difficoltà che questo tipo di

vita comporta. Il palcoscenico è un buco

nero in cui devi buttarti e ritrovarti, in

qualche modo… Ogni sera stai in came-

rino, aspetti il pubblico e senti che devi

vincere il panico della diretta, diciamo

così. Al cinema, sotto certi aspetti, la

concentrazione è ancora più difficile

perché ti capita di girare una scena re-

citando davanti a decine di persone che

pensano a tutt’altro e non a quello che

stai facendo tu.

E con che cosa ha riempito la sua valigia di attore nel corso del tempo? Di tante cose. Forse anche di routine,

un elemento della recitazione contro cui

non si deve mai smettere di combattere.

Negli ultimi tempi dentro alla valigia ci

sta di tutto, perfino mia moglie che mi

segue in tournée. Condividiamo questa

vita, la produzione degli spettacoli, l’inte-

ra nostra avventura affettiva.

“Negli ultimi tempi dentro la mia valigia di attore ci sta di tutto,

perfino mia moglie che mi segue in tournée”

Page 19: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 19

Federica Di MartinoSCRITTO

NEL DESTINOCome si diventa attrici?Nel mio caso devo chiamare in cau-

sa il destino. Vengo da un piccolo paese

dell’Abruzzo e faccio teatro amatoriale

da quando avevo quindici anni. Era

una passione e non avrei mai pensato

che potesse diventare la mia profes-

sione. L’Accademia d’Arte Drammatica

Silvio d’Amico, di cui avevo visto un

servizio in televisione, mi sembrava

un miraggio… All’università così mi

iscrissi a Giurisprudenza. Un giorno a

Roma sono passata per caso davanti al

Palazzetto di via Bellini, ho visto tutti

gli allievi fuori e ho preso il bando di

concorso. Una delle gioie più grandi del-

la mia vita è stata proprio l’ammissione

in Accademia. Non mi ero decisa prima

perché in realtà, intimamente, mi sen-

tivo incapace e ancora oggi, nonostante

questo sia il mio mestiere, mi sento così.

Provo una sensazione di grande inade-

guatezza. Il mio desiderio, quando sono

in scena, è quello di scappare via…

Qual è l’aspetto più difficile di questo mestiere?Non esiste una cosa in particola-

re, è tutto difficile. E non soltanto per

l’aspetto tecnico o per il fatto di dover

imparare una parte a memoria. Per me

il difficile sta nel riuscire a dare ad ogni

personaggio una sua autenticità, ricer-

candone la verità. In teatro diventa più

problematico ottenere questo risultato

perché devi far sentire la voce in un

certo modo, invece al cinema o in te-

levisione sei estremamente facilitato:

hai un microfono addosso e puoi per-

metterti di parlare utilizzando i fiati. In

questo modo è più semplice trasmettere

le emozioni.

La sua preparazione alla scena: riti e superstizioni.Assolutamente nessuna ritualità o

superstizione. Alla prima di uno spet-

tacolo i momenti che ti allontano dalla

scena si vivono con maggiore tensione,

ma da questo punto di vista ho dovuto

affrontare subito le mie paure: mi è capi-

tato di sostituire la protagonista in uno

spettacolo al Teatro Greco di Taormina

con più di duemila spettatori. Avevo

ventitré anni ed era una delle mie pri-

FOTO FILIPPO MANZINI

Page 20: Quaderni della Pergola n.5

20 | Quaderni della Pergola

me volte davanti ad un pubblico. Aspet-

tavo di entrare e sentivo la platea urlare

“Voce!” ai miei colleghi che, come da co-

pione, recitavano in una scena fatta di

brusii. L’attore dietro le quinte vive co-

munque una sua dicotomia e, a pensarci

bene, è una sensazione pazzesca: da un

lato mette tutto se stesso ed è presente

nel personaggio che va a rappresenta-

re, dall’altro è legato alla quotidianità e

magari pensa a cosa deve fare una volta

uscito dal teatro, dove andare a man-

giare… Però in un attimo accade che sei

dentro alla rappresentazione. Vai sul

palcoscenico e cerchi di essere ‘altro da

te’.

E si incontra il pubblico…Che è l’altro attore dello spettacolo.

Nella società in cui viviamo il teatro

ha perso parte della sua rilevanza e

nel corso del tempo anche il pubblico

è cambiato. C’è la televisione, ci sono i

reality show e tutti possono recitare.

Fino a qualche anno fa quando il

pubblico era chiamato ad interagire con

gli attori durante uno spettacolo, magari

rispondendo a qualche domanda, c’era

sempre un certo imbarazzo in sala.

Oggi non è più così perché la gente è

abituata a sentirsi protagonista. L’attore

è svestito dunque della sua sacralità.

È ottimista per il futuro?Malgrado il momento drammatico

che stiamo vivendo, credo fermamente

nella forza del teatro come forma d’arte

immortale. Il teatro muore subito dopo

la rappresentazione: visivamente non

permane, però ti resta dentro, e questa

è un’emozione insostituibile. Nonostan-

te tutto, la gente ha di nuovo voglia di

teatro. Gli attori sullo schermo oggi si

possono vedere anche sui tablet e i cel-

lullari, non importa andare al cinema.

Qual è l’unico vero motore che ti spinge

ad uscire di casa? L’attore vivo, che sta

sul palcoscenico a pochi passi da te. Il

teatro è la forma espressiva più antica

dell’uomo e non può scomparire.

“In un attimo accade che sei dentro alla rappresentazione.

Vai sul palcoscenico e cerchi di essere altro da te”

FOTO FILIPPO MANZINI

Page 21: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 21

Com’è nata la passione per questo mestiere di attrice?Fin da piccola, seguendo le orme di

mio padre (Gabriele Ferzetti ndr). Ricor-

do che quando sono nata mio padre fa-

ceva soprattutto molto teatro e andavo

spesso a trovarlo, amavo molto stare

dietro le quinte, vedere tutta questa

macchina in funzione. La parola ‘teatro’

per me è uguale a infanzia, papà Lallo,

tante emozioni, impegno, rispetto e ri-

gore.

Si è sentita predestinata verso questo mestiere?Mi sono dedicata anche a tante altre

cose, ma la passione per il teatro e per

questo mestiere è stata sempre troppo

forte. Per me fare l’attrice significa vi-

vere questo mestiere a trecentosessan-

ta gradi, non si finisce mai di imparare.

Rendere credibile dei ruoli anche molto

lontani da quello che si è realmente nel-

la vita è una sfida per me. E’ una con-

tinua ricerca. Quindi dirti se mi sono

sentita predestinata non saprei, ma si-

curamente adesso sto lavorando per far

sì che il mio lavoro diventi sempre più

valido.

Condividere la scena con un attore (Pierfrancesco Favino ndr) che

è anche il suo compagno nella vita, che tipo di corto circuito emozionale crea?Non è la prima volta che lavoriamo

insieme ma nello spettacolo Servo per

due è la prima volta che ci guardiamo

negli occhi. Era capitato in una serie

televisiva ma io entravo e lui usciva.

Sul lavoro sono una persona molto

determinata e riesco a scindere la vita

privata da quella lavorativa. Sul palco

mi nascondo dietro quel ruolo, anche

se può capitare che certi sorrisi che ci

scambiamo sul palcoscenico siano quel-

li di Anna e Pierfrancesco. Non posso

negare che ci sia una familiarità, un’in-

tesa diversa quando una coppia lavora

insieme, ma anche un grande senso di

responsabilità.

Zaira, il ruolo che interpreta in Servo per due, viene rappresentata come una figura femminile forte e indipendente.Quando abbiamo iniziato le prove,

Pierfrancesco ha detto a tutti l’animale

sul quale ognuno di noi avrebbe lavo-

rato. Lì per lì eravamo tutti molto per-

plessi nonostante avessimo già fatto in

passato esperienze simili. Poi è successo

qualcosa di molto interessante, perché

senza cominciare a lavorare sulle bat-

tute, i nostri personaggi prendevano

forma, le relazioni tra di noi, il modo di

rapportarsi era molto chiaro e ben defi-

nito. Quando abbiamo aggiunto il testo

è stato tutto molto più semplice. Nel

mio caso mi si richiedeva forza, femmi-

nilità e indipendenza. Sarai curiosa di

sapere il mio animale? Non posso dirlo,

è un segreto!

Quali sono gli aspetti più complicati della vita dell’attore?Sono la precarietà, gli orari impossi-

bili, la difficoltà di far coincidere questi

Anna FerzettiLA RESPONSABILITÀ

DI ESSERE ATTRICE

“Teatro per me è uguale a infanzia, papà Lallo, tante emozioni, impegno, rispetto e rigore”

Page 22: Quaderni della Pergola n.5

22 | Quaderni della Pergola

orari con quelli della famiglia e il coin-

volgimento psicofisico dei ruoli che si

interpretano. Penso che siano problemi

che accomunano molti altri lavoratori

al giorno d’oggi.

Il primo ricordo che ha di suo padre sul palcoscenico?E’ difficile ricordarne solo uno ma

sicuramente quello più forte è stato

quando abbiamo lavorato insieme.

Avevo ventuno anni, ero terrorizzata

dal giudizio; questa figura imponente

che seguivo sempre e solo da dietro le

quinte ad un tratto era lì con me, che

mi guardava. Sicuramente è stato molto

difficile, visto il carattere forte e chiuso

che ci accomuna ma allo stesso tempo

avere la fortuna di poterci condividere

il palco (soprattutto essendo mio padre)

è stata una grande gioia. Grazie a lui ho

avuto il privilegio di crescere in questo

ambiente, con i suoi lati positivi e quelli

più difficili, e adesso non potrei più far-

ne a meno. Parlerei ore di mio padre e di

tutte le cose che mi ha sempre detto, ma

sarebbe un racconto molto lungo…

Mi parli della serie Una mamma imperfetta.Recentemente ho avuto la fortuna

di lavorare nella serie web Una mam-

ma imperfetta, una storia tutta al fem-

minile scritta e diretta da Ivan Cotro-

neo. È stata un’esperienza rara e molto

bella. Una storia così attuale, quella di

raccontare un gruppo di donne sposate,

con figli, che lavorano ma allo stesso

tempo si imbattono in difficoltà, incom-

prensioni di coppia, insicurezze perso-

nali… Che dire, penso che ogni donna o

coppia si sia identificata in una di que-

ste storie. Ivan Cotroneo, grazie anche

alla produttrice Francesca Cima che ha

fortemente creduto in questo progetto,

ha avuto la possibilità di entrare nelle

nostre vite quotidiane raccontandoci

con grande semplicità ed ironia.

FOTO FILIPPO MANZINI

Page 23: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 23

Com’è nato il desiderio di dedicarsi al mestiere di attrice?Non ho mai desiderato di fare altro.

Infatti è strano per me vedere le mie

amiche, che non sono attrici, indecise

sulla strada da scegliere… È molto diffi-

cile trovare qualcosa che invece deside-

ri fare ma io non mi sono mai interroga-

ta su questo punto: ho sempre pensato

di vivere sul palcoscenico. I miei primi

ricordi legati al teatro risalgono a quan-

do avevo sei anni: un Edipo Re che mio

padre (Gabriele Lavia ndr) fece a Siracu-

sa, con un teatro gremito di spettatori e

mio fratello Lorenzo che recitava. Face-

va il messaggero, all’interno del coro: mi

ricordo il suo pezzo che pronunciava a

voce piena, senza microfono… Quello

che mi colpisce di più del teatro, da sem-

pre, è il suo odore: è unico, proviene dal

legno e da un misto di tante cose che

appartengono solo a questo luogo. Ogni

volta che entro in un teatro, fin da pic-

cola, mi sento a casa.

Quando è in palcoscenico si sente in pace con se stessa?Durante il periodo intenso delle

prove no, penso sempre: “Perché sono

qua? Voglio andare a casa!”. Infatti un

aspetto del mestiere che mi fa un po’

paura è il fatto di essere così nomadi,

mentre io cerco sempre di mantenere

un contatto con la mia casa e i miei ami-

ci che non fanno questo lavoro. Appena

ho un giorno di riposo corro a Roma. Mi

piace il teatro, sento che non potrei fare

a meno di farlo, ma sono attratta anche

dalla vita normale: quella cosa in cui

uno alle otto di sera torna a casa e ma-

gari guarda il telegiornale…

Da attrice così giovane, come si affronta la scena?Il difficile, a causa della mia timi-

dezza, è stato proprio imparare a guar-

dare qualcuno negli occhi recitando

una battuta. Sento molto la responsa-

bilità di andare in scena, soprattutto in

questo spettacolo. In Sei personaggi in

cerca d’autore di Pirandello interpreto

la Figliastra ed è il ruolo più grande e

difficile che mi sia mai stato affidato.

Ho sempre avuto delle belle parti da

interpretare ma non da protagonista

come questa volta. In questo spetta-

colo tutto è difficile. Le corse veloci da

fare in spazi brevi, per esempio: è un

meccanismo fatto di scatti e di frena-

te, sono movimenti artefatti ma che

devono apparire naturali… L’aspetto

Lucia LaviaLA GIOIA

DI ESSERE ATTRICE

FOTO FILIPPO MANZINI

Page 24: Quaderni della Pergola n.5

24 | Quaderni della Pergola

più difficile del mio mestiere non è

tanto il fatto di dover imparare una

parte a memoria, ma è proprio stare

sulla scena, e far sì che quello che stai

immaginando sia vero. Ogni giorno

sei contenta sempre per qualcosa in

più, però mai pienamente soddisfatta

e pensi: “Domani farò ancora meglio…”

Questo è molto motivante, secondo me.

Ho sempre desiderato di interpretare

il ruolo della Figliastra e ora spero di

farlo bene.

Quali sono gli insegnamenti della sua famiglia legati a questo mestiere?Ce ne sono tanti, ma credo che l’in-

segnamento più grande di mio padre

sia stato quello di dirmi che il teatro,

se non sei tu il primo a tradirlo, non ti

tradisce mai. Bisogna avere rispetto ed

amore verso il teatro, farlo con dedizio-

ne mettendoci tutto te stesso, soltanto

così riesci a continuare il mestiere: una

parte più piccola, una parte più gran-

de, senza smettere mai. E poi ci sono

tanti altri piccoli insegnamenti tecnici

come, per esempio, evitare le contro-

parti quando si recita per lasciare spa-

zio e concentrazione ai colleghi: se un

attore dice una battuta non bisogna

annuire per far sembrare che ascolti

oppure non ci si deve mettere gli uni

davanti agli altri perché il pubblico

non vede… Anche mia mamma (Moni-

ca Guerritore ndr) mi dà sempre tanti

consigli. Sono contenta quando viene a

vedermi alle prove perché è una perso-

na schietta, mi dice quello che pensa:

oltre ad avere un occhio da spettatri-

ce, è prima di tutto un’attrice, con una

grandissima esperienza e dunque può

aiutarmi.

La sua prima volta in scena. Lo spettacolo era L’avaro, messo

in scena da mio padre. Tra i suoi alle-

stimenti questo è il mio preferito, l’ho

visto talmente tante volte... Un giorno

dietro le quinte mi hanno preparata

con un cappello e dei trucchi, così sono

entrata insieme al gruppo con le cande-

le che andava verso mio padre che fin-

geva di dormire. Avevo circa otto anni

ed ero emozionatissima. Stare sul palco

è una sensazione assurda, una dimen-

sione ‘altra’ ed è una caratteristica del

mestiere che mi piace guardare anche

in chi mi sta vicino: gli altri attori en-

trano in scena e il loro sguardo cambia,

come se avessero varcato una linea in-

visibile. In scena io, Lucia, sono sempre

me stessa ma sono anche qualcun altro.

È il personaggio che vince.

Un’attrice come vede il pubblico?Credo, con il tempo, di avere cam-

biato opinione nei confronti del pub-

blico. Ho avvertito il peso di essere

una figlia d’arte: hai l’impressione

che le persone ti giudichino e pensino

che non te lo meriti di stare in teatro…

All’inizio entravo in scena con l’ango-

scia di sentire un pubblico critico nei

miei confronti, invece mia madre mi

ha detto di pensare che il pubblico mi

è amico e sta dalla mia parte. Sto la-

vorando molto su questo punto e pian

piano ci sto riuscendo. Ci sono sempre

state le famiglie d’arte, e non soltanto

nel mondo dello spettacolo. Spesso i fi-

gli fanno il mestiere dei genitori – per

esempio, esistono famiglie di tassisti o

di panettieri – e credo che sia una cosa

bella: se avessi un figlio e scegliesse il

mio lavoro ne sarei onorata e felice.

“Ogni giorno sei contentama non soddisfatta e pensi che

domani farai ancora meglio”

Page 25: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 25

Page 26: Quaderni della Pergola n.5

Una notte di giugno

caddi come una lucciola

sotto un pino solitario

in una campagna

d’olivi saraceni

affacciata agli orli

d’un altipiano

d’argille azzurre

su un mare africano.

Luigi Pirandello

Page 27: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 27

« “Tutto ciò che accade, tu lo scrivi”, disse.“Tutto ciò che io scrivo accade”, fu la risposta.»(Michael Ende, La storia infinita)

FUORIL’AUTORE?Tra spettacoli in scena e anniversari che passano una riflessione sullo status dell’Autore oggi: realtà o fantasma, corpo vivo o doppione, creatore di realtà o creato dalla realtà? Al lettore ogni sentenza

Page 28: Quaderni della Pergola n.5

28 | Quaderni della Pergola

C’è nel libro La storia infinita di Michael Ende un passaggio cruciale, sag-

giamente collocato nel punto in cui il complesso volume più si dipana

tra immaginari e intricati viaggi, un passaggio che potrebbe essere

sommariamente sintetizzato così: l’Infanta Imperatrice rimane pri-

gioniera della dimora del Vecchio della Montagna Vagante, un simpatico signore

che non fa che leggere il libro narrante la storia dell’Infanta Imperatrice, del Vec-

chio della Montagna Vagante e di Bastiano, intraprendente ragazzo che sta leg-

gendo lo stesso libro del Vecchio della Montagna Vagante. Questo loop letterario si

interrompe unicamente nel momento in cui Bastiano capisce di dover assegnare

un nuovo nome all’Infanta Imperatrice: una volta resa personaggio, ecco che l’in-

cantesimo si rompe. Fuori dalla straordinaria complessità narrativa della Storia in-

finita, testo metaletterario ancor prima che romanzo per ragazzi, che cosa insegna

questo passaggio: che è il gesto autoriale a rompere l’inerzia di una narrazione sen-

za senso e senza via di uscita, o addirittura a salvare un universo come avviene nel

film tratto non senza palesi infedeltà da

questo libro.

Il dramma dei sei personaggi, ciò

che li rende particolarmente inquietan-

ti, è proprio questo: sono alla ricerca di

un gesto autoriale che li renda veri, e li

sottragga al circolo vizioso di una vita mai vissuta. Sono alla ricerca, si potrebbe

dire, di una conferma dell’esistenza in vita dell’Autore. Scaturisce dalla loro ansia un

doppio interrogativo che riguarda tanto il loro status esistenziale (sono viventi nel

nostro medesimo universo o creature di puro spirito?) quanto la cartella clinica

dell’Autore (sarà o meno in grado di estrarli dalla categoria del puro spirito?). Ora,

che l’Autore non stesse molto bene in salute ce l’hanno insegnato Barthes e Fou-

cault. Sottratto alla mitica collocazione divina e demiurgica, di Creatore indiscusso,

viene ridotto dalla critica strutturalista a un modo di produzione del discorso: non

c’è più un Testo Unico, ma uno spazio a più dimensioni nel quale confluisce un

numero a volte elevato di testi, senza nessuna marca di vera originalità. È il lettore

qui ad essere centrale, in quanto luogo privilegiato di costruzione di senso.

I cinquant’anni che passano tra i Sei Personaggi e l’elaborazione delle teorie

strutturaliste sono serviti a sgretolare quella figura dell’autore che Pirandello

mette in crisi da un altro punto di vista, maggiormente etico e psicologico. Nella

La riproduzionevietataC’è vita per l’autoreoltre l’incantesimo?

“L’uomo non si riflettema si raddoppia, non si

riproduce ma si duplica. È solo il testo che si specchia correttamente”

diRiccardo Ventrella

Page 29: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 29

sua scrittura sono i personaggi a chiedere udienza (e vita) all’autore, che è co-

munque chiamato ad un gesto di creazione senza però sapere se questo gesto sarà

fautore di una qualche realtà comunicabile o semplicemente scrivibile, senza che

ciò generi l’infinito senza uscita della Storia infinita. In mezzo è passata la fase

acuta della crisi del romanzo classico, già in nuce quando Pirandello metteva in

scena i Personaggi al Teatro Valle mercé Proust e Joyce, e l’irrompere della narra-

zione audiovisiva con la sua frammentazione e inversione di ruoli; per tacere, è

ovvio, della riproducibilità tecnica che ha sottratto all’Autore vecchio stile altre

competenze.

Insomma, è come se si fosse pe-

rennemente nel celeberrimo quadro

di Magritte La riproduzione vietata:

l’uomo non si riflette ma si raddoppia,

non si riproduce ma si duplica. È solo

il libro che si specchia correttamente,

e non a caso il libro è il Gordon Pym

di Poe, romanzo sospeso tra diversi li-

velli di indefinibile realtà, narrazione

autobiografica e quindi per definizione

infedele. Il testo si riflette, non l’uo-

mo: ciò che il testo vive, dunque, non

è ciò che vive il personaggio che vi è

contenuto, e con ogni probabilità l’au-

tore che lo ha ispirato. Il dramma che

ne consegue è irrisolvibile, come senza

priva di speranze e soluzioni la secon-

da parte dei Sei personaggi.

Da questa fase acuta della sua

malattia l’autorialità non si è più

veramente riavuta. Certo, abbiamo

oggi una genia infinita di scrittori e

creatori. Ma al tempo dei testi infiniti

depositati in quell’enorme magazzino

che è la Rete cosa possiamo dire degli

Autori? Che manca a loro sempre

qualcosa, quel quid che li sospende

nel limbo tra Attori e Personaggi che

Pirandello sa estrinsecare così bene.

Sono come l’Infanta Imperatrice,

gli Autori, preda del Vecchio della

Montagna Vagante e alla ricerca di

un Bastiano che pronunci un nome, e

rompa l’incantesimo della creazione

fantastica.

“Il dramma dei Sei personaggi, ciò che li rende particolarmente inquietanti, è proprio questo: sono alla ricerca di un gesto autoriale che li renda veri”

Sotto:La riproduzione vietata di R. Magritte.

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30 | Quaderni della Pergola

Al momento di stilare un curriculum vitae, si sa, l’abitudine è mentire.

Millantare dietro formule anonime e sintetiche impieghi in realtà insi-

gnificanti che lo scorrere del tempo ed una memoria fragile renderan-

no invece sforzi lavorativi titanici. Talvolta però accade il contrario, che

una formula come ad esempio ‘assistente alla regia’ non dica nulla della realtà, di

ciò che è successo durante lo svolgimento di quell’incarico.

Assistere ad una regia può voler dire una vasta gamma di cose: dall’archetipico

vettore di caffeina per la concentrazione del maestro di turno alla registrazione

maniacale di tutto ciò che occorre sulla scena in fase di prova. Tra questi, una delle

figure sicuramente meno note è quella del ‘doppio’. Ci sono molte strade per la co-

struzione di uno spettacolo; una di queste, molto affine con il disegno, è quella di

scorrere nei primi giorni di prova l’intero copione, di costruirne tutti i movimenti

realizzando così una vera e propria bozza che successivamente altri cicli di prove

provvederanno a raffinare e a precisare. Secondo questa strategia, nei casi in cui il

regista dello spettacolo è anche previsto in scena come attore è necessario durante

tutto il periodo di prove qualcuno che lo sostituisca al momento della costruzione

dei movimenti in modo che egli possa osservarli e valutarli dall’esterno. Il ‘doppio’

è questo: un sostituto del regista in scena, chiamato a compiere tutte le sue azioni e

a dirne occasionalmente le battute.

Da più di tre anni sono il doppio di

Gabriele Lavia, ultimo di una schiera

di coraggiosi predecessori che hanno

svolto questo particolarissimo ruolo in

tanti altri allestimenti del passato. Alla

eterna domanda “che lavoro fa tuo fi-

glio?” Mia madre può serenamente ri-

spondere: interpreta Gabriele Lavia nei

suoi spettacoli. E il moto di sorpresa che questa risposta suscita è facile intuirlo.

Essere il ‘doppio’ significa anzitutto scriversi un’intera partitura di movimenti nel

corpo; non c’è tempo per scrivere o appuntarsi nulla quando si è in scena. La me-

moria di tutto ciò che si è costruito la devo serbare nella muscolatura.

Sono lo strumento di tutte le indecisioni della costruzione; usando ancora l’ana-

logia col disegno, sono l’equivalente di un tratto che viene ripetutamente corretto

Sull’essere lo stuntmandi Gabriele Lavia Il mestieredel doppio a teatro

diGiacomo Bisordi

“Nell’arco di poche prove il palco e la scena diventano un reticolato

fittissimo di passi da tenere sempre presente per rispondere

istantaneamente a comandi gridati dal mezzo della platea”

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Quaderni della Pergola | 31

al momento di essere apposto sul foglio. Cancellato e riscritto. Cancellato e riscritto.

Per ore. Nell’arco di poche prove il palco e la scena diventano un reticolato fittissi-

mo di passi da tenere sempre presente per rispondere istantaneamente a comandi

gridati dal mezzo della platea.

– Mezzo passo a destra! Girati in senso orario! No, antiorario! Piegati in due!

Prendilo a pugni! Di profilo! Di tre quarti! Troppo! Lentooooooo! No! –

E l’esecuzione degli ordini del regista-sergente maggiore Hartman deve essere

eseguita col ritmo e il respiro il più possibile prossimi a come poi saranno in sce-

na nello spettacolo definitivo. O memorizzo tutto al millimetro, imparo in fretta

l’intero spettacolo, come ogni singola scena sta in piedi col suo precisissimo ritmo

oppure sono condannato al peggio.

Solitamente è

nella prima fase

delle prove che

raccolgo lo sguar-

do dei compagni

di scena. C’è un

momento straor-

dinario nel fare il

‘doppio’ che è quel-

lo in cui posso stu-

diare per lunghis-

simi momenti lo

sguardo degli at-

tori con cui deve

interagire, attori

che lo percepisco-

no come un corpo estraneo, diverso ma col quale necessariamente devono sfor-

zarsi di interagire. Il ‘doppio’ ama poter godere della loro determinazione e del loro

sforzo mostruoso nel vedere in lui qualcos’altro, ciò che poi sarà al posto suo.

Dopo che la prima bozza di movimenti è stata fatta, progressivamente il suo

ruolo muta: partecipa sempre meno direttamente all’azione. Il regista mi sostitui-

sce e il mio compito diventa quello di ricordargli direttamente in scena come deve

essere fatto quel dato movimento.

Se sbaglia, ho modo di rifarmi finalmente delle urla che ha ricevuto in fase di

prima costruzione. Il maledetto problema è che quasi mai lui incappa in un errore.

Prova dopo prova il mio ruolo si esaurisce e si dedica solo a momenti di pronto in-

tervento, davanti alle ultime indecisioni delle giornate finali di allestimento. E così,

al debutto dello spettacolo guardo finalmente da fuori per la prima volta la traccia

di ciò che sono stato in scena e con la fine di quella prima recita inizio finalmente a

rilassare i muscoli e a dimenticare tutto.

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Da Il Giornale della Pergola (giornale.teatrodellapergola.com)

Page 32: Quaderni della Pergola n.5

32 | Quaderni della Pergola

“Fare teatro sul serio significa sacrificare una vita.” Eduardo De Filippo

parla dal palco del Teatro Antico di Taormina. Ha un abito blu, occhiali

‘corsari’ dalle lenti spesse, una vistosa sciarpa scozzese intorno al collo.

È il 15 settembre 1984 e sta ritirando il premio della Festa del Teatro per

“essere Eduardo, in Italia e nel mondo”. Il figlio Luca lo accompagna. Quella serata

di trent’anni fa, che la Rai trasmise in diretta, fu il suo ultimo saluto al pubblico.

Un ringraziamento guardato da lontano, da un’antica genealogia teatrale di per-

sonaggi che hanno trovato il loro autore nel palcoscenico. Autori e Capocomici.

Come Luigi Pirandello.

C’è stato un tempo, infatti, in

cui esisteva la funzione, ma non la

parola “regista”. Di fronte all’anarchia

del Grande Attore, ancora presente

in Italia a inizio Novecento, quando

all’estero erano già nati metteur en

scene come Stanislavskij, Craig e

Copeau, alcuni autori drammatici, tra

cui Pirandello, decisero di diventare

Capocomici per dirigere in proprio le

loro opere. Nel 1929 fu Silvio D’Amico, funzionario ministeriale e critico militante,

a stigmatizzare per primo, nel libro Il tramonto del grande attore, l’assenza tutta

italiana di un “maestro di scena”, come lo chiamò inizialmente: è il battesimo

del teatro di regia. Sul nome da dare alla nuova figura professionale Pirandello

propose “demiurgo”, ma la spuntò il filologo Bruno Migliorini che, negli anni

dell’autarchia linguista imposta dal Fascismo, propose al Convegno Volta del 1934

(voluto, anche se non diretto, da D’Amico) il termine “regista”, italianizzazione del

francese “regisseur”.

Proprio a quella stagione risale il primo incontro di Eduardo De Filippo con

Pirandello. Il 26 aprile ’33, al Sannazzaro di Napoli, Eduardo gli dedica un omag-

gio semiserio, proponendo il suo atto unico L’imbecille (tradotto in napoletano da

Eduardo), la vecchia parodia Sei comici in cerca d’autore e Sik-Sik. La vicinanza

artistica si rinnova con la messinscena di Liolà (traduzione napoletana di Peppi-

no) e con la stesura, completata nel gennaio 1936, della commedia L’abito nuovo,

dialoghi di Eduardo su scenario di Pirandello. Eduardo traduce anche Il berretto

a sonagli di cui interpreta il personaggio di Ciampa. Il successo è tale che a pochi

giorni dal debutto gli scrive Pirandello in persona: “Ciampa era un personaggio

Eduardo e Pirandello,cantata dei giornigelidi

diMatteo Brighenti

“Il cuore ha tremato sempre, tutte le sere, tutte le prime

rappresentazioni. Anche stasera mi batte il cuore. E continuerà,

continuerà a battere. Anche quando si sarà fermato...”

Eduardo De Filippo

Page 33: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 33

che attendeva da vent’anni il suo vero interprete.” Nella stagione successiva

Eduardo ha in programma di mettere in scena L’abito nuovo, che ancora non è

stato rappresentato.

Pirandello assiste alla prima prova, ma muore improvvisamente il 10 dicem-

bre ’36. Il lavoro verrà rappresentato al Manzoni di Milano il 1° aprile 1937, nell’al-

lestimento di Mario Pompei. Eduardo e Pirandello si sono incontrati e riconosciuti

perché entrambi hanno dato all’opera

della vita la concretezza della scena,

precisandone, battuta dopo battuta,

le pause, le concitazioni, le vibrazioni

drammatiche e le note comiche. En-

trambi registi cioè traduttori di se stes-

si sulle assi del mondo. A ogni costo.

Quella sera di trent’anni fa, infatti, Eduardo si congeda da Taormina e dal suo

passato parlando ancora di sacrificio: “è stata tutta una vita di sacrifici e di gelo.

Così si fa il teatro. Così ho fatto.” Il cuore di Eduardo che batte ancora oggi è l’inse-

gnamento a vivere ogni replica come la prima. Allora il calore dell’applauso scioglie

il gelo del sipario tirato. Qualunque sia il palcoscenico. “Il cuore ha tremato sempre,

tutte le sere, tutte le prime rappresentazioni. Anche stasera mi batte il cuore. E

continuerà, continuerà a battere. Anche quando si sarà fermato...”

“È stata tutta una vita di sacrifici e di gelo. Così si fa il teatro. Così ho fatto”Eduardo De Filippo

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Page 34: Quaderni della Pergola n.5

34 | Quaderni della Pergola

Morto così, a soli cinquantadue anni, un giorno di fine ottobre. Ucciso

da un male che gli aveva consumato quel cervello che così tanto

aveva impiegato, in diretta connessione col cuore, per fare un ci-

nema che non si può non amare a prima vista, tanto è identificato

con la vita. François Truffaut ha fatto dello schermo la tela sulla quale dipingere

il proprio autoritratto, senza mai sottrarsi per un giorno al fuoco che sentiva ar-

dere dentro, lo stesso che lo aveva portato da ragazzo di strada ad amare i film nel

ventre buio di un cinema. Lo stesso che continuava a crepitare flebile quando si

presentò dinanzi alle telecamere di Apostrophes, la mitica trasmissione condotta

da Bernard Pivot sul canale francese Antenne 2: già malato, con pochi mesi anco-

ra da vivere, Truffaut parlò in maniera appassionata del suo rapporto con Alfred

Hitchcock consacrato dal celebre libro-intervista.

Ecco, in un certo senso abbiamo evocato François Truffaut non già per ripercorre-

re la sua filmografia, ma per ragionare sulla sua (e non solo sua) relazione con l’Au-

tore. È noto che prima di sedere dietro la macchina da presa, tutta la generazione

di Truffaut, la Nouvelle Vague, tenne in mano la penna della critica. E da quelle

pagine iniziò un rivoluzionario processo di considerazione del cinema, da mero

campo della riproducibilità tecnica, da arte industriale, a strumento di rappresen-

tazione in mano a una intenzionalità

autoriale. Pochi allora (siamo all’inizio

degli anni Cinquanta), consideravano il

regista di un film come un Autore, que-

sta etichetta essendo talora riservata al

massimo agli sceneggiatori. Non si con-

cepiva che un meccanismo di creazione così parcellizzato in competenze diverse e

affidato a un dispositivo meccanico di riproduzione della realtà potesse in qualche

modo essere legato a una istanza così demiurgica.

La Nouvelle Vague disse proprio questo, e lo disse andando a cercare le proprie

esemplificazioni non nel cinema d’arte, ma proprio là dove l’industria raggiun-

geva il massimo grado d’influenza, a Hollywood. Dire che John Ford, Howard

Hawks, Alfred Hitchcock o William Wyler erano Autori, e non semplici arti-

giani mestieranti, rappresentava un’affermazione scandalosa, in un certo senso.

Non solo: ogni film di un regista, prima di appartenere a un genere, è un film di

quel regista e fa riferimento a un’opera, a un corpus, all’insieme di una produzio-

ne non diversamente che se si parlasse di uno scrittore, o di un pittore. Ciò che

L’autore come padreFrançois Truffaut, e la politique des auteurs?

“Negli anni Cinquanta il regista di un film era considerato un semplice

mestierante, non certo un Autore”

Page 35: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 35

oggi pare normale, allora non lo era affatto, e da quel momento in poi si chiamò

politique des auteurs.

In fondo, altro non era che la propaggine (o meglio, l’estensione) di una teorizza-

zione che il teatro aveva già abbracciato fin dall’inizio del Novecento, e che aveva

portato all’introduzione del concetto prima sconosciuto di regia: tanto sconosciuto

che determinò persino una diatriba linguistica, dalla quale si uscì adottando per

definire il regista l’italianizzazione del francese régisseur. Si introduceva una figu-

ra ulteriore rispetto allo scrittore, un diverso genere di autore che operava come

“creatore secondo”,

applicando il pro-

prio sguardo ad

una materia già

data. Un po’ quel-

lo che il regista

cinematografico

fa osservando il

mondo, materia-

le primigenio che

a lui è stato dato

per poter essere

rappresentato.

C’è un aspetto

della politique

piuttosto partico-

lare, che ci riporta

vicini ai Sei perso-

naggi. La costru-

zione di un auto-

re è un processo

non solo critico:

investe anche la

sfera personale. È

simile alla ricerca

di un padre perduto nel quale si finisce per identificarsi. Il cinephile, il cinefilo, di-

venta un cine-fils, un cine-figlio: per chi come Truffaut non aveva mai conosciuto

il proprio vero genitore il transfert è indubbiamente notevole. È lo stesso afflato

col quale i sei personaggi vanno alla ricerca di un loro autore, di un padre in

buona sostanza che dia genitorialità al loro essere creature di spirito, di fantasia.

Un moto di insoddisfatta figliolanza che cerca nell’arte un proprio riscatto. Non

c’è matriarcato, è un affare tipicamente maschile che si risolve, per Pirandello,

nella sostanziale impotenza del capocomico (regista, si sarebbe detto poi) a farsi

Autore. Mentre per Truffaut è la capacità dell’artigiano di farsi Autore che lo fa

riconoscere come un padre. Sarà che il cinema è sempre scritto nell’anima.

“Il cinefilo si trasforma in un cine-figlio, che cerca nell’Autore e nelle sue opere una sorta di figura paterna”

R.V.

Page 36: Quaderni della Pergola n.5

Come sospesi

La parola al pubblico

Nella parte più bassa di me

ritrovo la luce della Verità.

In quel Silenzio infinito

le parole si perdono,

la lingua si secca.

Ascolto il battito del mio Cuore;

sono presente

ma non sono più Io.

Cado all’indietro,

divento Suono,

divento Parola.

Altro da me

Specchio di me

Gioco con me

A.

diAlice Nidito

Page 37: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 37

“In scena l’attore espone non se stesso ma un mondo. Nel testo di Pirandello i

Sei personaggi in cerca d’autore è il mondo di quei personaggi che irrompono

nel teatro esprimendo dolore, incomprensione, lutto, vendetta e rimorso. E il

pubblico si riconosce in questi sentimenti, nel mondo esposto dagli attori, e

ritrova la verità. Poetare vuol dire mettere in opera ed è questo che compie l’attore:

la poetazione del personaggio. Con la sua corporeità, vocalità e gestualità diventa

sul palcoscenico il personaggio. Per questo io dico che il teatro è fare corpo. Il testo è

indispensabile perché, installandosi nella corporeità dell’attore, nutre e fa sorgere

il corpo dell’attore. Il testo ‘accade’ nel corpo dell’attore ed è un accadimento che

avviene di fronte allo spettatore che si specchia così nella verità dell’Essere Umano.

Gabriele Laviaparla agli attori

Dal primo giorno di prova dei Sei personaggi in cerca d’autore.

Dal palcoscenico della Pergola

Page 38: Quaderni della Pergola n.5

38 | Quaderni della Pergola

In qualunque scenografia, l’attore si trova sempre in uno stato d’animo, pronto

a comunicare qualcosa. È l’animo dell’attore che crea il sentimento. Dunque l’attore

non è altro che una tensione ontologica: l’attore dice il proprio ruolo, mira all’Essen-

za, attraverso le parole del testo che è stato a lui donato dall’autore.

Page 39: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 39

Il corpo dell’attore è qualcosa di naturale? No. La corporeità dell’attore, come

quella di ogni essere umano, è fin da principio diversa dalla mera natura. L’uomo

combatte contro la natura. Dunque il corpo dell’attore non è naturale: né per il

modo immediato in cui si dà allo sguardo, né per il suo modo di essere se stesso.

Page 40: Quaderni della Pergola n.5

40 | Quaderni della Pergola

Il corpo dell’attore è un corpo so-

speso fra il suo culmine e l’abisso. Il cul-

mine è rappresentato dalla parte che

si va a recitare: è il visibile, l’udibile, la

migliore esecuzione possibile del ruolo

da interpretare. L’abisso appartiene a se

stessi. Il lavoro dell’attore è sempre un

lavoro su se stessi. E l’attore è se stesso

solo nel personaggio. Che cosa unifica

l’attore e questo se stesso? La sua ani-

ma, intesa in senso greco come “respiro,

alito, soffio”. Il respiro dell’attore cor-

risponde al respiro del personaggio. Il

corpo dell’attore vibra con la natura, con

il suo modo di essere in scena. E ogni

scena è un mondo.

Pirandello racconta di avere scritto

il testo dei Sei personaggi per liberarsi

da un incubo. I personaggi irrompono

sulla scena ma sono eterni, fissati in

una verità. Entrano in una realtà per-

ché si attui nel presente la loro eternità.

Sappiamo dallo stesso Pirandello che ci

Page 41: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 41

troviamo di fronte ad una commedia di

fantasia “nera, beffarda e bizzarra”. Vi

si racconta la storia di un mito. Il mito,

sotto qualunque veste venga rappre-

sentato, è sempre il racconto di un’ori-

gine.

Nel caso di Pirandello l’origine del-

la commedia presenta i sei personaggi

mossi da una volontà: questi personag-

gi desiderano vivere. Tutto il loro sforzo,

tutta la loro recitazione, non è altro che

un tentativo di sedurre il capocomico

per far sì che il loro dramma venga

messo in scena. Ognuno il suo dramma.

È anche la tragica storia dell’impossibi-

lità di una società borghese – gli attori

di una compagnia teatrale – di prestare

la loro corporeità per rappresentare un

mito.

Page 42: Quaderni della Pergola n.5

42 | Quaderni della Pergola

...ogni scena è un mondo

La storia di una società che ha perduto ogni rapporto con

la propria Storia e quindi incapace di incarnarla. Una società

che non incarna la propria storia non è una società di uomini

ma di fantocci. Per questo Pirandello definisce la vita come

una Grande pupazzata.”

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Quaderni della Pergola | 43

Protagonista indiscusso dell’evento spettacolare l’attore è stato quasi sempre

mezzo e fine del teatro: se nell’Antica Grecia era artefice della catarsi che

doveva purificare l’animo dello spettatore, nella prima metà del XX seco-

lo il drammaturgo e regista tedesco Bertolt Brecht gli delegava la missione

utopistica di cambiare il mondo e le sue leggi per mezzo di un’operazione tutta ra-

zionale. La facoltà di fascinazione è insita nella radice etimologica del verbo attore

che significa prioritariamente “colui che conduce” (dal latino ago-actum-agere) prima

ancora di “colui che agisce”. Potremmo farci un’idea della sua

fortuna percorrendo l’evoluzione terminologica nei secoli. Le

origini dell’odierno attore o performer vanno cercate nel greco

hypocritès (letteralmente “colui che interpreta”) e nel latino hi-

strio (parola di origine probabilmente etrusca che godrà di tan-

ta ambigua fortuna nei secoli a venire) o mimo (al quale erano

diretti gli anatemi dei Padri della Chiesa nel Medioevo), che

divenne successivamente comico, termine, quest’ultimo, che

rimane in voga fino al XX secolo e che, contrariamente a quel

che allude, connotava gli interpreti di tutti i generi dramma-

turgici codificati. L’arte dell’attore conobbe il primo periodo au-

reo nel Cinquecento con la nascita della Commedia dell’Arte e

del professionismo teatrale, fenomeno che segnò il ritorno del

teatro come istituzione della vita civile in gran parte dell’Euro-

pa occidentale. Isabella e Giovan Battista Andreini, Pier Maria

Cecchini detto Frittellino, l’Arlecchino Tristano Martinelli o lo

Scaramouche Tiberio Fiorilli, per fare qualche nome tra i più

celebri, rappresentano l’ideale dell’attore completo che sintetiz-

za in un’unica persona diverse specializzazioni. Un precedente

magistrale i Comici d’Arte l’avevano avuto nel giullare del tardo Medioevo: giocolie-

re e acrobata, suonatore e cantante, ballerino e declamatore, narratore e mimo, que-

sto «professionista del divertimento» – come li definisce Cesare Molinari – mantenne

in vita nel millennio che va dal 476 alla fine del secolo XV non solo il teatro come

istituzione, ma il suo linguaggio e soprattutto l’arte dell’attore. La seconda fioritura

del mito dell’attore va cercata nel secolo del Romanticismo col fenomeno del grande

attore: Eleonora Duse e soprattutto la conturbante Sarah Bernhardt tracciarono la

via del divismo che servì a sua volta da modello allo star system hollywoodiano e

agli one man show della spettacolarità odierna. Persino nell’epoca del teatro di re-

gia l’arte drammatica si è rivolta all’uomo-attore e alla sua educazione psicofisica. I

registi-pedagoghi del Novecento hanno cercato costantemente la formazione di un

diAdela Gjata

Appunti sull’attoree il suo gioco

La Storia racconta...

FOTO NADAR

Sopra:Sarah Bernhardt in Fedora di V.Sardou

Page 44: Quaderni della Pergola n.5

44 | Quaderni della Pergola

interprete artigiano che impari il mestiere con lo studio e l’applicazione: dall’attore

introspettivo di Stanislavskij a quello biomeccanico di Mejerchol’d, dall’«atleta affet-

tivo» del visionario Artaud all’attore politico di Brecht e Piscator, dall’«attore sacro»

di Grotowski al performer antropologo di Eugenio Barba, all’attore sincero di Cope-

au e Costa. Il minimo comune denominatore di tutte le speculazioni filosofiche del

Novecento teatrale si potrebbe trovare nella nascita dell’attore rinnovato in quanto

modello di una nuova umanità. Nonostante le gravose e talvolta utopiche missioni

conferitegli nei secoli, non va dimenticato che l’essenza dell’arte attoriale risiede nel

gioco. L’attore gioca, come si suol dire in buona parte delle lingue europee: basti ricor-

dare il francese jeu o il tedesco Spiel. Il riduttivo recitare italiano se connota l’antico

parallelismo fra l’attore e l’oratore, limitando il compito dell’attore nel dire, non coglie

quel peculiare senso del gioco dove il divertimento e la riflessione sono facce della

stessa medaglia. Il potere evocativo del gioco teatrale ha indotto poeti, scrittori e so-

ciologi ad usare la metafora del teatro per raffigurare la nostra immagine nella vita

di tutti i giorni. La vicinanza sostanziale tra l’arte dell’attore e quella di vivere nel

mondo l’aveva già espresso in termini generali Shakespeare quando metteva in boc-

ca ad Antonio la famosa battuta: «I hold the world but as the world, Gratiano,/ A stage

where every man must play a part,/ And

mine a sad one.». (Merchant of Venice). Nel

Siglo de Oro spagnolo l’esempio più alto

del confronto tra la vita e il mondo con lo

spettacolo e l’edificio teatrale si trova ne

El gran teatro del mundo di Calderón de

la Barca, dove oltre all’autore, che è Dio

stesso, e agli attori, che sono gli uomini,

ci sono anche una specie di regista-sce-

nografo (il Mondo che funge anche da

pubblico e da teatro), e un suggeritore (la

Legge). In epoche più vicine alla nostra

la metafora teatrale della vita ritorna

nei romanzi di Balzac (basti pensare alla

Comédie humaine), nell’opera dello scrittore e patriota Ippolito Nievo e soprattutto nel

fortunato saggio di Erving Goffman, The Presentation of Self in Everyday Life (1959),

reso noto in Italia dieci anni dopo con il titolo La vita quotidiana come rappresenta-

zione, dove il sociologo canadese dimostra come ognuno di noi, nella quotidianità, è

chiamato a interpretare un ruolo preciso, e spesso nell’arco di una stessa giornata

ruoli diversi. Come l’attore di una compagnia all’antica italiana al quale è assegnato

il ruolo del ‘caratterista’, piuttosto che del ‘brillante’, così una persona che a casa so-

stiene il ruolo della madre di famiglia, al lavoro può interpretare quello del medico

o della bibliotecaria. Sebbene un’attività vicina al vissuto umano, quella dell’attore è

spesso considerata una categoria poco aderente alla comune realtà. Talvolta ai mar-

gini, altrove venerato, l’anomalia dell’attore risiede, forse, nella distanza tra un’esi-

stenza segnata da elementi di precarietà interiore (oltre che economica) e la capacità

quasi sciamanica di penetrare l’animo umano e trasportare il suo interlocutore in

un mondo altro, parallelo a quello reale, facendolo di volta in volta ridere o piangere,

interrogarsi e sognare.

Sopra:Claude Gillot,

Arlequin soldat gormand

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Quaderni della Pergola | 45

Lei è un autore che scrive tanto per il cinema, collaborando spesso alla sceneggiatura con gli stessi registi: dai film di Nanni Moretti a quelli di Paolo Virzì. Quali sono le differenze, proprio dal punto di vista della scrittura, tra un romanzo e una sceneggiatura?La scrittura di un romanzo è defini-

tiva, invece la scrittura cinematografi-

ca non lo è mai per definizione perché

costituisce il punto di partenza di un

film. E questo anche se tu, sceneggiato-

re, devi scrivere pensando sempre che

si tratti di un prodotto finito, cercando

di restituire un testo al massimo della

qualità. Solo così l’attore potrà muoversi

dentro quel personaggio. Lo sceneggia-

tore deve mantenere questa sentimen-

to di compiutezza nella sua testa ma con

la coscienza di avere in mano un’opera

non terminata, un’opera che servirà a

qualcun altro. Il fatto che le parole che

hai scritto servano a terzi, che vengano

prese fisicamente per essere incarnate

da attori in carne ed ossa, è una sensa-

zione davvero bella.

Lo scrittore si sente più libero in un romanzo rispetto al linguaggio, forse più codificato, del cinema? Credo che la libertà non sia una

condizione esclusivamente positiva.

Tante volte, mi è capitato di scrivere

delle buone cose sotto costrizione; al

contrario, magari ho scritto peggio

pensando di essere la persona più li-

bera del mondo. Ovviamente quan-

do scrivi un libro scegli di raccontare

quello che vuoi, mentre la sceneggia-

tura si muove all’interno delle esigen-

ze di un racconto. È la vera, reale, dif-

ferenza. Il romanzo presuppone un

lavoro solitario, la scrittura cinema-

tografica invece si mette al servizio di

un gruppo di persone che dovranno la-

vorare utilizzando le tue parole. Sono

istanze diverse ma non c’è conflitto;

anzi, per quanto mi riguarda, i due

linguaggi convivono e si compensano

proprio grazie alla loro differenza.

Francesco PiccoloI MILLE VOLTI

DELLA SCRITTURA

“In fondo scrivere è anche questo: ingigantire i tuoi fantasmi

fino a renderli terribili”

I mestieri del cinema lo Sceneggiatore

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Page 46: Quaderni della Pergola n.5

46 | Quaderni della Pergola

Da quali ritmi è scandita la giornata tipo di uno scrittore?Scrivere è un mestiere bellissimo

ed è anche un divertimento, però la

sostanza della giornata di uno scrittore

è infinitamente triste: si lavora da soli

con se stessi. Anche per questo ho co-

minciato a scrivere per il cinema e la te-

levisione: con l’obiettivo di trovare degli

elementi esterni. Il rapporto con se stes-

si è necessario ma anche lievemente

tragico perché stando da soli i fantasmi

crescono. È un meccanismo che tutti gli

insonni conoscono: ad un certo punto

della notte tutto sembra mostruoso, gi-

gantesco e terribile. E in fondo scrivere

è anche questo: ingigantire i tuoi fanta-

smi fino a renderli terribili.

Cinema e scrittura: una definizione per queste sue passioni.La scrittura è proprio un modo

di stare al mondo: non saprei vivere

senza scrivere, ed è una cosa che ho

scoperto presto nella mia vita. Sono

diventato uno scrittore e ho scritto an-

che per il cinema, che per me significa

concretezza. Chi scrive libri di solito

si muove in un’astrazione dell’imma-

ginario perché la pagina si costruisce

nella testa dell’autore, ma non è visibi-

le. Il cinema dà realtà a ciò che scrivi.

Tutti i suoi libri sembrano essere autobiografici…Sì, in sostanza nei miei libri lavoro

sempre su me stesso. Una delle questio-

ni fondamentali nell’autobiografismo

è la responsabilità del racconto. Ecco

perché ho preferito raccontare le mie

storie in prima persona: mi sembra che

dire ‘io’ possa accumulare un maggio-

re senso di responsabilità verso quello

che sto asserendo. Con l’uso della pri-

ma persona sono ‘io’, non qualcun al-

tro, a compiere un’azione, anche la più

sbagliata. Mi piace molto raccontare la

parte contraddittoria che è in ognuno

di noi e il fatto di utilizzare la prima

persona come soggetto del racconto mi

mette, come autore, al centro di queste

contraddizioni. Ed ecco che il lettore,

abituato ad identificarsi con il narrato-

re, ne rimane spiazzato. Detto questo,

non si può mai chiedere ad uno scritto-

re se tutto quello che racconta sia vero:

non importa che accada veramente, ma

che si tratti di una bella storia.

Con il romanzo Il desiderio di essere come tutti ha vinto il Premio Strega; qual è il suo prossimo desiderio?In questo libro uso un ‘io’ narrante,

la mia vita, in corrispondenza della sto-

ria della nostra nazione. Sicuramente

l’idea per il futuro è quella di riuscire

a vedere l’Italia finalmente come un

luogo vivo. Cercare un Paese migliore,

questo è il vero desiderio.

“Non si può mai chiedere ad uno scrittore se tutto quello che racconta

sia vero: non importa che accada veramente, ma che si tratti di

una bella storia”

Page 47: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 47

Giuseppe TornatoreUN MESTIERE

BELLISSIMONel suo modo di intendere la regia ha affermato di essere stato folgorato da Roberto Rossellini…Sì, tanti anni fa ho letto un’intervista

dove parlava della sua visione della

figura del regista che ho recepito subito

come una lezione. Secondo Rossellini

è un mestiere in cui bisogna conoscere

tutto quello che è necessario per

realizzare un film: oltre ad occuparsi

di regia e sceneggiatura, il regista deve

intendersi anche di costumi, chiodi,

colori, legno, fil di ferro, effetti speciali…

Soltanto così il regista può tenere in

pugno la complessità della situazione. Un

film è come una nave, talvolta difficile

da dirigere, e sapere fare di tutto dà la

possibilità di evitare che possa andare

a finire sugli scogli. Questa convinzione

nasce anche a causa del mio periodo da

documentarista: all’inizio della carriera

giravo da solo e senza mezzi i primi video,

quindi sono abituato a confrontarmi con

i vari aspetti necessari alla realizzazione

di un racconto.

È vero che prima di fare un film, dopo l’idea iniziale, ha bisogno di un lungo periodo di tempo per riflettere e decidere se la storia originale valga la pena di essere raccontata?In genere mi piace portarmi dietro

un’idea per tanto tempo, covarla den-

tro me stesso, per essere sicuro sulla

distanza che si tratti di una vera pas-

sione. La sconosciuta è un’idea che mi

sono portato dietro per più di quindici

anni, La Migliore Offerta ancora di più,

lo stesso Nuovo Cinema Paradiso – il

film che poi ha vinto l’Oscar – è stato

pensato e immaginato per almeno dieci

anni... Penso che più lunga sia l’incuba-

zione e più rapida sia dopo la realizza-

zione del film, a partire proprio dalla

scrittura. Il tempo ti porta a conoscere,

profondamente, tutti gli aspetti della

storia che vuoi raccontare: i vari punti

I mestieri del cinema il Regista

Sotto:Tornatore con il Premio Fiesole ai Maestri del Cinema 2014

FOTO CHIARA ZILIOLI

Page 48: Quaderni della Pergola n.5
Page 49: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 49

deboli o tutte quelle possibilità narrati-

ve che invece si offrono nelle pieghe del

racconto. Alla fine il film diventa una

trascrizione automatica di tutto quello

che hai raccolto nella testa. E questo

dà maggiore sicurezza e la possibilità

di procedere con determinazione nel-

la fase lavorativa successiva. Anche

se credo che si debba stare attenti alla

troppa sicurezza: il sentimento della

paura è il migliore amico di un regista.

Se hai timore di sbagliare o che quello

che stai raccontando non sia chiaro, se-

condo me hai più chances di realizzare

qualcosa di efficace. La sicurezza e la

spavalderia sono le peggiori compagne

di viaggio di un regista.

E come avviene, dopo l’idea originale, il passaggio alla fase successiva della realizzazione di un film?Dopo che hai covato una storia a

lungo e finalmente arrivi a metterla su

carta, il mestiere di regista ti costringe

all’ennesima riscrittura. Ecco che inizia

la preparazione del film: scegli i ruoli,

cerchi gli attori che devono dare corpo

alla scrittura. Gli ambienti in cui giri

non sono mai come li avevi pensati e

allora continui a modificare il soggetto:

talvolta gli attori possono non corri-

spondere esattamente alla fisicità che

avevi in mente, talvolta devi inventare

qualcosa di nuovo ed affrontare ciò che

non era previsto. Finalmente comincia-

no le riprese e le cose si complicano an-

cora di più. Mille elementi impondera-

bili ti portano a chiarire ulteriormente

alcuni elementi: i dialoghi che si fissano

in maniera ancora più precisa, la fase

della post produzione con il montaggio e

il doppiaggio… È un’ottimizzazione con-

tinua, una fase di revisione instancabile

ed è come ricominciare sempre da capo.

Quando finalmente il film è finito, allora

si verifica un nuovo processo di riscrit-

tura da parte dei critici e degli spettatori

che trovano aspetti nel film che magari

a te per primo erano sfuggiti. Penso che

il bello del mio mestiere risieda proprio

in questa inesattezza. Un film è sempre

una sorpresa ed un’avventura, come se

dovessi affrontare un campo minato e

riuscire ad arrivare dall’altra parte sen-

za saltare in aria portando con te soltan-

to un bambino: il tuo film, appunto, che

devi proteggere e fare in modo che non

venga ferito da nessuno. E a pensarci

bene anche quando tu, spettatore, rive-

di un film non vivi la stessa emozione:

cambiano l’umore e le circostanze, non

è mai la stessa esperienza. Questo è l’a-

spetto misterioso, a volte perfino sfug-

gente, di questo mestiere che è bellissi-

mo.

“Un film è sempre una sorpresa ed un’avventura, come se dovessi affrontare un campo minato portando con te soltanto un bambino: il tuo film”

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Page 50: Quaderni della Pergola n.5

50 | Quaderni della Pergola

L’idea di un museo dedicato al Novecento è un’idea innovativa per Firenze, la città culla del Rinascimento che appare da sempre poco incline all’apertura verso l’arte contemporanea…Il Museo Novecento era atteso a

Firenze da oltre cinquant’anni. Le col-

lezioni d’arte contemporanea appar-

tenenti al Comune sono confluite, fin

dal 1914, alla Galleria d’Arte Moderna

di Palazzo Pitti che nel corso del tempo,

nonostante i molti sforzi dei diversi di-

rettori che si sono succeduti, non ha mai

trovato la possibilità di allestire spazi

dedicati al Novecento. Tanto che negli

anni Sessanta si decise, dopo la terribile

alluvione, di fare un appello per rilan-

ciare l’idea di un Museo di Arte Con-

temporanea. La risposta di artisti e arti-

ste fu generosa: il risultato nel ’67 portò

alla Mostra Gli Artisti per Firenze nel

Salone dei Duecento a Palazzo Vecchio.

È questo il nucleo del MIAC, il Museo

Internazionale di Arte Contemporanea

di Firenze, voluto fortemente a partire

già da quegli anni dal critico e storico

dell’arte Carlo Ludovico Ragghianti.

Si aggiunsero così altre donazioni di

singoli artisti – penso a Mirko e a Ma-

Valentina Gensini“EVERYTHING

MIGHT BEDIFFERENT”

Firenze contemporanea Museo Novecento

FOTO LORENZO VALLORIANI

Page 51: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 51

gnelli – e di tutte le opere straordinarie

appartenenti ad Alberto Della Ragione.

Il dramma dell’alluvione fece sì che da

allora non si decise mai di firmare per

un museo che raccogliesse tutte queste

opere, con un grave danno per Firenze

che avrebbe avuto da tempo un museo

dedicato al Novecento e che ha visto di-

mezzata la propria potenzialità.

Dalle opere di De Chirico a Morandi, da Emilio Vedova a Renato Guttuso, fino alla sezione fiorentina della Biennale di Venezia: il Museo Novecento è dunque legato alla città ma con una sua dimensione nazionale?Il Museo Novecento appartiene alla

città in quanto museo civico, con una

vocazione di attenzione al territorio, ma

è un museo con opere di artisti nazio-

nali. Ci sono più di mille e cinquecento

opere ancora depositate negli spazi del

Comune a disposizione del museo. È un

patrimonio che va risvegliato e portato

alla luce: ogni mercoledì, per tutto l’anno,

ci sono conferenze e spesso le opere più

importanti, non ancora esposte, vengo-

no tirate fuori per un’occasione di rilet-

tura critica.

Lo spazio in cui si trova il Museo Novecento - il Complesso dello Spedale delle Leopoldine in piazza Santa Maria Novella - si collega ad un’idea di fiorentinità rinascimentale aperta al multimediale e al futuro?Credo che un museo ideato oggi

non avrebbe senso se non si avvalesse

di tutti gli strumenti a disposizione, da

quelli più tradizionali ai supporti multi-

mediali che sono ormai disposti in tutto

il mondo. Devo dire che i musei italiani

tendono ancora a farne poco uso, forse

pensando di contaminare l’arte con la

strumentazione multimediale. Nel Mu-

seo Novecento l’impostazione è ancora

tradizionale, quindi la priorità assoluta

è data all’opera che viene contestualiz-

zata. Ma un lavoro importante è stato

quello di mettere a disposizione del

pubblico delle piattaforme multime-

diali, sia sonore che visive, lungo tutto

il percorso espositivo. Si segue la logica

dell’interdisciplinarità: le opere si rela-

zionano con la produzione musicale del

tempo a cui afferiscono tramite le cosid-

dette ‘docce sonore’ oppure si accede ai

documenti originali, come le corrispon-

denze cartacee o i telegiornali d’epoca,

con i tablet. Abbiamo tentato di ridare

voce ai protagonisti dell’epoca tramite

una collaborazione con la Rai, l’Istituto

Luce, la Mediateca Regionale Toscana,

la Biblioteca Nazionale Centrale, il Ga-

binetto Vieusseux e molti altri. Grazie

FOTO LORENZO VALLORIANI

Page 52: Quaderni della Pergola n.5

52 | Quaderni della Pergola

ad un pool di studiosi interdisciplinari

e di storici dell’arte si sviluppano temi

che vanno dalla storia nazionale a quel-

la locale: si possono ascoltare, per esem-

pio, le voci di Ungaretti e Luzi che leggo-

no le loro poesie, guardare le copertine

delle riviste più importanti della prima

metà del Novecento oppure approfon-

dire il discorso sul teatro, la moda e la

letteratura dei vari periodi esposti.

Al termine del percorso il visitatore può ammirare un video appositamente creato per il museo con tutti gli spezzoni di film ambientati a Firenze…Tutto il museo è concepito come una

sorta di time machine, una macchina

del tempo all’indietro che ci riporta dal

passato prossimo a quello più remoto di

inizio secolo. A conclusione il visitatore

si ferma. Come la museologia insegna,

alla fine di un percorso faticoso occorre

sempre un momento di soddisfazione

in cui si deposita quello che si è visto. Si

arriva all’altana e si assiste a questo vi-

deo su Firenze. È un omaggio alla città

che diventa il pretesto per dimostrare

come il cinema non solo racconti ma co-

struisca l’identità del luogo. Il genius loci

fiorentino, tanto decantato dalla lette-

ratura e dall’arte, viene testimoniato da

cut up di un intero secolo di film. Dopo

la visita al Museo Novecento siamo così

restituiti ad un presente, memori di in-

tere generazioni che si sono succedute

in un luogo che è stato filmato dai più

grandi registi del mondo. Lo sguardo in-

ternazionale si posa su questa icona che

è Firenze: torna il mito del Rinascimen-

to, a volte glorificato, a volte usurato e

perfino interrotto nei film di matrice

neorealista che presentano una Firen-

ze distrutta dalla guerra.

Il teatro occupa un posto particolare nel Museo Novecento?Sì, nella cesura tra il primo e il se-

condo piano si introduce il tema del

Maggio Musicale Fiorentino, sia in

un’ottica interdisciplinare e sia perché

il Teatro del Maggio rappresenta nello

specifico un unicum: al di là degli sce-

nografi professionisti, molti artisti vi-

sivi contemporanei hanno lavorato al

servizio di opere liriche e balletti. De

Chirico, Savinio, Sironi, Casorati, Se-

verini: sono alcuni dei nomi presenti,

a testimonianza del teatro come luogo

in cui si mescolano le arti e si ricorre

ad un tipo di visualità autonoma, non

semplice ancella della performance, se

così si può dire. E poi il teatro è presen-

te anche nella cultura alternativa degli

anni Ottanta: i Magazzini Criminali

di Federico Tiezzi e Sandro Lombar-

di costituiscono la punta di diamante

di questa ricerca. Molti artisti hanno

messo a disposizione i loro archivi, gra-

zie anche a Fabbrica Europa, Kinkaleri,

Virgilio Sieni, per documentare la viva-

cità della scena artistica fiorentina. Si

dice sempre che Firenze sia imperme-

abile alla contemporaneità, ma non è

vero: piuttosto la cultura ufficiale non

ha lasciato lo spazio dovuto alla ricer-

ca artistica. Ma la ricerca, la voglia di

sperimentare, non si sono mai fermate.

Che cosa trova affascinante di

“L’arte ci regala degli sprazzi di bellezza ma, come ci insegna

appunto il Novecento, anche di non-bellezza. L’arte diventa allora

consapevolezza di una potente esperienza ‘altra’ che innalza

ogni uomo al di sopra del quotidiano vivere”

Page 53: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 53

questo secolo, il Novecento?Direi tutto. Mi attrae il fatto che

sia un secolo che restituisce la gran-

de complessità dell’integrazione tra le

arti: nel Novecento, ancora più che nel

passato, non c’è stata musica senza arti

visive, non c’è stato teatro senza colle-

gamento con le ricerche di design o di

architettura. Questi continui rimandi

tra diversi campi d’espressione per me

hanno un fascino incredibile: la conta-

minazione, una dimensione ibrida tra

le arti, trovo che siano tutti aspetti di

una ricchezza straordinaria.

Secondo Mimmo Paladino, uno dei più importanti artisti contemporanei italiani, l’arte è “un viaggio in grado di rendere visibile ciò che gli altri non vedono”. Una sua personale definizione di arte.L’arte è il surplus della nostra esi-

stenza. Arte vuol dire tecnica, emozio-

ne, sguardo sulla natura, attenzione al

paesaggio e a tutte le punte più alte di

espressione toccate dall’essere umano.

È la musica che accompagna le no-

stre giornate e, più in generale, l’arte

è ciò che aggiunge un valore ‘alto’ alla

nostra esistenza, al di là della contin-

genze e delle corse che spesso siamo

costretti a fare nel quotidiano. L’arte

ci regala degli sprazzi di bellezza ma,

come ci insegna appunto il Novecento,

anche di non-bellezza, criticità. L’arte

diventa allora consapevolezza di una

potente esperienza ‘altra’ che innalza

ogni uomo al di sopra del quotidiano

vivere.

“Arte vuol dire tecnica, emozione,sguardo sulla natura, attenzione al paesaggio e a tutte le punte più alte di espressione toccate dall’essere umano”

FOTO LORENZO VALLORIANI

Page 54: Quaderni della Pergola n.5

54 | Quaderni della Pergola

William KentridgeQUANDO L’ARTE

SI ANIMAA Firenze al Teatro della Pergola arriva in prima nazionale il suo spettacolo Ubu and the truth commission, il capolavoro sull’apartheid. In scena convivono gli attori, il teatro di figura e l’elemento multimediale; questi differenti aspetti come si uniscono insieme nella messinscena? Nella

sua visione dello spettacolo i pupazzi interagiscono con gli attori? I pupazzi, che accompagnano gli at-

tori in scena, sono considerati come pura

animazione. Lo spettatore è cosciente di

trovarsi davanti a qualcosa di costruito

e immaginato, sa che non sta guardan-

do una fotografia o un documentario. Le

proiezioni agiscono in modi diversi. A

volte gli attori guardano dei disegni su

un foglio di carta: le immagini che loro

vedono in quel momento sono identiche

a quello che gli spettatori osservano sul-

lo schermo; il loro stato d’animo, il perso-

nale punto di vista, viene così amplifica-

to e condiviso nel teatro. Altre volte lo

spettacolo racconta dei momenti più de-

scrittivi e vengono proiettate immagini

storiche, come per esempio Fidel Castro

o Nelson Mandela, oppure le proiezioni

diventano parte del viaggio narrativo e

commentano le scene con le parole.

Il suo lavoro di artista visivo presenta sempre degli elementi teatrali. La sua fascinazione per il teatro da dove ha origine?Non lo so. In realtà, fin da quando ero

piccolo, sono sempre stato interessato al

teatro. Volevo diventare un attore. L’uni-

versità per me è stata un misto di poli-

tica, arte e teatro; in particolare, la reci-

tazione faceva parte del programma di

studi. Quindi ho frequentato una scuola

di teatro per diventare un attore profes-

sionista e per un breve periodo l’ho an-

che fatto. Fino a quando ho incontrato a

Parigi Jacques Lecoq, ho seguito un cor-

so con lui e ho scoperto rapidamente che

io, in sostanza, non ero un attore. Ma le

Firenze contemporanea L’artista visivo

IMMAGINE DALILA CHESSA

Page 55: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 55

strategie del lavoro che appartengono ai

movimenti del corpo umano, unitamen-

te al disegno, sono rimasti sempre fonda-

mentali nella mia concezione artistica.

Quindi l’arte e il teatro…Vanno di pari passo, per quanto mi

riguarda; l’arte e il teatro acquistano di

significato soltanto attraverso l’uso del

corpo.

I suoi spettacoli, in collaborazione con la Handspring Puppet Company di Joahannesburg, hanno acquistato una fama mondiale. Come cambia la perce-zione dell’arte nei diversi Paesi?

Cambia molto, in relazione alle va-

rie nazioni. In Colombia, per esempio,

ultimamente si assiste ad un desiderio

più diretto di impegnarsi nella poli-

tica e nelle questioni etiche; l’India è

profondamente tradizionalista, dav-

“L’arte e il teatro acquistano di significato soltanto attraverso l’uso del corpo. Ogni essere umano guarda al fatto artistico inscrivendolo nella propria intima collezione di sogni e di paure. E l’arte deve aprirsi per accogliere tutte queste differenze”

vero intransigente verso certi aspetti

del lavoro che in America, per esem-

pio, non sono assolutamente presi in

considerazione. Più in generale, ogni

essere umano guarda al fatto artisti-

co inscrivendolo nella propria intima

collezione di sogni e di paure. E l’arte

deve aprirsi per accogliere tutte queste

differenze.

FOTO MARC SHOUL

Page 56: Quaderni della Pergola n.5

56 | Quaderni della Pergola

Page 57: Quaderni della Pergola n.5

Quaderni della Pergola | 57

“Quando mi sembra di esser vicino all’intuizione di qualche acuta verità

sul mio mestiere ecco che mi par subito dopo di ricadere nell’ovvio. O

vuol dire, come è purtroppo possibile che l’illusione di essere superio-

re all’ovvio banale ti porta ad illuderti d’un’acutezza che poi è inutile

oppure, che sarebbe certo preferibile e sembrerebbe più verosimile, che la verità

sta proprio accanto alla banalità. Sembrerebbe giusto che vedendole così vicine si

preferisca la grossolana e più facile banalità senza tentare di definire la forse in-

definibile verità. Tutto questo per dire che arrabattandomi, una volta di più a cer-

care la verità dell’intima ragione del recitare l’avevo colta, e forse dicevo bene, in

una specie di effetto di “diffrazione”. Ma il vero è che volevo dire semplicemente

“doppia rifrazione” che viene a dire “sdoppiamento” cioè un banalissimo concetto.

Se non che prima di tutto è da studiare attentamente il fenomeno della “diffra-

zione” per vedere se se ne possa trarre qualche chiara ana-

logia e poi si può cercare se non ci sia una parola più efficace

dell’abiurato “sdoppiamento” a rendere questa abitudine allo

“sfaldamento” che avrebbe la psiche dell’attore: una tendenza

a dicotomizzarsi; una specie non patologica di sdoppiamenti

della personalità, una predisposizione a vedere accanto alla

propria personalità fissa un’altra capace di infinite variazio-

ni. Ma si ricade in concetti abbastanza banali. Mi pareva un

tempo vi esser molto più vi-cino con “l’istinto mimico” co-

mune naturalmente a tutti ma esaltato nell’attore e quindi

una attitudine a plasmarsi secondo i più vari suggerimenti

senza fondamentalmente variare. Però l’evidenza del “senti-

mento generale, dell’animus” entro il quale questo fenomeno

avviene mi è parso per un momento un fattore importante

come se questo sentimento generale fosse lui a cercare lo

sfaldamento (dicevo la “diffrazione” e mi piaceva), poi invece

questo “sentimento generale” è proprio quel carattere della

personalità invariabile vicino alla quale varia quella del per-

sonaggio. Siamo di nuovo e ancora al buio, anche se faremo

credere il contrario. Ricorda il dubbio, le due - vie = teatro.

E di seguito a ciò pensavo: una ragione una certezza non è teatro. Il teatro na-

sce nell’animo dell’attore o dal fatto di essere attore (doppia personalità) o (come

è più bello e affascinante) dallo scoprirsi attore. Per esempio. Io gioco (cioè credo

di essere io a “fare a”) e d’improvviso (ecco davvero il dubbio e lo sfaldamento e il

diventare tri-vio. Volevo dire d’improvviso mi occupo di giocare e invece dico no.

C’è prima un altro fatto e scrivo:) Io gioco e d’improvviso m’esalto e credo al gioco

(conservando o no una sensazione di “star giocando” ? forse no) e mi sento “inva-

sato” “ispirato” (il nume, l’apparizione del Nume - gli altri che continuano a giocare

si stupiscono. Ecco un germe di spettacolo iniziale [...]”.

Dai Quaderni di Orazio Costa

Sopra e nella pagina accanto:

l’originale del Quaderno n°8 scritto

dal Maestro Costa

Page 58: Quaderni della Pergola n.5

58 | Quaderni della Pergola

Quaderni della Pergola

A cura diAngela Consagra e Alice Nidito

La parte monografica dedicata all’Autore e Regista è a cura di Matteo Brighenti e Riccardo Ventrella

Le interviste sono di Angela Consagra

Progetto Grafico Walter Sardonini/SocialDesign

Impaginazione ed elaborazione grafica Chiara Zilioli

La copertina; la fotografia dell’editoriale; l’album fotografico della rubrica Dal palcoscenico della Pergola; le foto a pag. 15; pag. 25; pag. 56; pag. 57; la fotografia della lavagna di Eduardo De Filippo sono di Filippo Manzini

Hanno collaborato a questo numero: Elisabetta De Fazio, Claudia Filippeschi, Gabriele Guagni, Orsola Lejeune, Simona Mammoli

La parte dedicata a Giancarlo Giannini prende spunto dalla conferenza stampa e dall’incontro con l’attore organizzato dal Festival Pordenonelegge in occasione dell’uscita in prima nazionale del libro di Giancarlo Giannini Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi)

Le interviste a Elio Germano e Valeria Golino sono state ispirate dagli incontri con i due artisti durante il Festival La Valigia dell’Attore e il Bif&st di Bari 2014

Per l’intervista a Francesco Piccolo si ringrazia il Festival delle Generazioni di Firenze

L’intervista a Giuseppe Tornatore è frutto dell’incontro con il regista in occasione del Premio Fiesole ai Maestri del Cinema 2014.

Via della Pergola 12/32 - 50121 FirenzeCentralino 055.22641www.teatrodellapergola.com

Info e contatti [email protected]

Teatro della Pergola Fondazione

Presidente Dario NardellaConsiglio di Amministrazione Raffaello Napoleone, Duccio Traina, Stefania Ippoliti, Maurizio Frittelli

Collegio Revisore dei Conti Giuseppe Urso Presidente, Adriano Moracci, Roberto LariDirettore Generale Marco Giorgetti

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La lavagna con la scritta EDUARDO viene conservata nei locali del teatro e fa riferimento al corso di drammaturgia che Eduardo De Filippo realizzò nei primi anni Ottanta al Teatro della Pergola. Questa citazione ha ispirato la copertina dei Quaderni della Pergola.

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William Shakespeare

Ogni uomo è un attoree tutto il mondoè un palcoscenico