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Astrid Valeck Educazione e dintorni: dialoghi a distanza Numero III - Anno MMXII I Quaderni della Libera Officina

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Astrid Valeck

Educazione e dintorni: dialoghi a distanza

Numero I I I - Anno MMXII I Quaderni della Libera Officina

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I Quaderni della Libera Officina

La Libera Officina per la Crescita Umana e Sociale “LOCUS” è un la-

boratorio culturale nato a Brisighella con lo scopo di promuovere i valori umani e la crescita della persona e della società.

E’ stata fondata da Daniele Callini e da Giuliana Morini per realizzare diverse iniziative, servizi ed attività culturali, formative e scientifiche a favore di persone e istituzioni, senza alcuna finalità di lucro. Le entrate economiche e i proventi delle attività della Libera Officina sono infatti utilizzati per la realizzazione delle sue attività istituzionali di ricerca e formazione.

I “Quaderni della Libera Officina” si propongono quindi di dare vita a una vera e propria collana di eBook fruibili gratuitamente, quale strumento di studio, condivisione e diffusione della conoscenza.

Visita il sito www.liberaofficina.net dove potrai consultare e scaricare gli altri eBook della collana

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I diritti relativi al testo, pubblicato in rete il 15 gennaio 2011, sono di pro-prietà degli autori. È vietata la riproduzione non autorizzata, con qualsiasi mezzo effettuata, anche se parziale, a uso interno o didattico.

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INDICE

Presentazione pag. 4 Dialoghi a distanza pag. 6 Brevi note biografiche sulla curatrice pag. 54

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Presentazione

Cosa succede quando una maestra di scuola dell'infanzia interroga un professore universitario? E se l'oggetto dell'interrogazione è un libro del professore? E se poi, Lui vuole la rivincita e le parti si ribaltano? E se Lui, non contento, chiede alla maestra di raccogliere i loro dialoghi epistolari in un “Quaderno”, per renderli ac-cessibili a tutti? E se Lui insiste, chiedendo alla maestra di scriverne la pre-sentazione, ben sapendo, che per lei è difficilissimo fare sintesi? E se Lui, non contento vuole pure una biografia? Della maestra?! E se...niente. Basta con le domande! Peggio per la maestra che si è messa in un'impresa più grande di lei. Che pensava, di farla franca? Di avere la stessa riuscita di Davide contro Golia? Non ha neppure una fionda, oltre che essere contraria ad ogni forma di vio-lenza. E dire, che questi due, si sono scambiati solo 34 mail. A dire il vero, la maestra è stata un po’ dispettosa, perché ha pensato bene, prendendola alla lontana con le sue do-mande, di farsi gli affari personali del professore: e chi si sarebbe perso un'occasione simile! Come vive un profes-sore? Quali sono i suoi interessi? Quali sono le sue espe-rienze di vita?

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Ne è nato un bel confronto capace, attraverso un dialogo informale, ma non superficiale, leggero, ma profondo al tempo stesso, di passare per tanti temi: la comunicazione, il senso dell'esistenza, il coraggio, l'umorismo, la tecnolo-gia, il ruolo del tempo e la crisi della memoria, l'autentici-tà, la libertà, la ricerca, la conversazione filosofica, il ni-chilismo e l'educazione, la scuola, la responsabilità, ecc ...

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Dialoghi a distanza Il giorno domenica 14 febbraio 2010, ore 16.16, A-

strid Valeck ha scritto: Ciao Daniele

non immaginavo che la posta fosse così veloce ad arrivare, altrimenti avrei aperto la mail con più sollecitudine. Questi giorni sono stata piuttosto presa dal romanzo che sto scrivendo per mio figlio. La prima stesura è finalmente arrivata in fondo, anche se temo che il mio committente avrà da ridire su alcuni punti: non ho previsto quattro ca-valieri per altrettanti draghi, ma solo uno (per di più fem-mina); e per i draghi non ho previsto "evoluzioni", "fusio-ni", come richiesto e a dire il vero, anche sul piano degli "attacchi" sono piuttosto carente. Che vuoi farci, un po' di libertà come scrittore me la vorrei prendere! La piccola cosa a cui pensavo è questa: mi sarebbe piaciu-to mettere nella rubrica "Malintesi" della rivista1 di cui so-no redattrice e che ti ho inviato un'intervista a te, prenden-do come spunto alcuni passaggi del testo2 che mi hai la-sciato. La rubrica malintesi è nata come contenitore teori-co, ma anche come spazio di discussione. In passato io mi sono occupata di valutazione e autovalutazione intervi-stando Paolo Senni e Paolo Zanelli3. Questa volta mi inte-

1 La rivista è “Paesaggi Educativi” edita a Cesena da Il Ponte Vecchio 2 D. Callini, Lezioni Veneziane, Franco Angeli, Milano, 2008 3 A.Valeck, “Autovalutazione e dintorni” in “Paesaggi Educativi” n°6/2002 e

n°7/2002, Il Ponte Vecchio, Cesena

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ressano alcune parole chiave del tuo testo, che rimandano a molto altro: tempo, umorismo, cura. Potrebbe essere u-n'intervista costruita in itinere, una domanda per volta -via mail- quasi un dialogo a due voci, ma con le domande che nascono dalle relative risposte. Ti può piacere? Credi che si possa fare?

Ciao Astrid Il giorno 14 febbraio 2010, ore 23.10, Daniele Callini

ha scritto: Cara Astrid hai energia da vendere!!!

Naturalmente ci sono per l'intervista. Trovo divertente ed originale anche il metodo. Quando vuoi sono pronto.

Il giorno lunedì 15 febbraio 2010, ore 19.55, Astrid

Valeck ha scritto: Ciao Daniele

speriamo che l'originalità del metodo sia una buna idea... non mi riesce di pianificare la scrittura, sono consapevole solo del punto di partenza, ma non di dove potrò arrivare. Vediamo se ciò che ne viene fuori ci piace. Prenderei l'ar-gomento un po' alla lontana e anche se molte risposte già le conosco attraverso ciò che di tuo ho letto, vorrei iniziare con il domandarti: della tua biografia mi ha colpita la for-mazione in giurisprudenza, come sei approdato alla socio-logia? O forse farei meglio a chiederti, cosa ti ha attratto della giurisprudenza?

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Il giorno martedì 16 febbraio 2010, ore 9.14, Daniele Callini ha scritto:

Ciao Astrid il metodo mi piace proprio per questo. Non si pianifica un dialogo. Scrivere a distanza non è propria-mente un dialogo vero e proprio, ma alcuni tratti gli appar-tengono.

I percorsi di evoluzione professionale, come quelli della vita, sono talvolta imprevedibili. Le scelte non sempre si fanno inseguendo i propri sogni o desideri. Ma piuttosto ci si accontenta o si cercano scorciatoie, o ancora ci si ancora al pragmatismo. Io ho sempre amato la filosofia, eppure ho scelto la giurisprudenza, ed oggi sono sociologo. Peraltro sono un sociologo esogamico, imbastardito cioè da più di-scipline e scuole di pensiero. Evidentemente questo è il mio destino, su più fronti: non appartenere rigidamente ed esclusivamente ad alcun sistema.

Tornando alla giurisprudenza, negli anni della scelta u-niversitaria, avevo la necessità di essere pragmatico, di guadagnare, di lavorare al più presto. Non potevo permet-termi gli studi filosofici: mi avrebbero allontanato dalla mia priorità funzionale. Poi la filosofia avrei potuto conti-nuare a coltivarla, come poi ho fatto. Non amavo gli studi giuridici. Peraltro sono molto più vicino al diritto oggi, di quanto lo sia stato allora. Alla base del diritto trovo oggi quella dimensione antropologica che non si studiava sui libri. Non esisteva allora nel piano di studi l'antropologia giuridica.

Durante l'università lavoravo. Appena concluso quel percorso di studi mi iscrissi ad un concorso per commissa-rio di polizia. Il tema della giustizia è sempre stato dentro di me. Non conosco il mio padre naturale e non so nulla della sua vita, ma sento che egli ha subito una grave ingiu-

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stizia, e io porto dentro di me questo sentimento, che mi radica nella ricerca costante di equità.

Contestualmente al concorso vinsi una borsa di studio triennale per una specializzazione. Fu una grande opportu-nità. Mi spostai quindi in quella direzione. Fu allora che mi avvicinai per la prima volta alla sociologia e agli studi organizzativistici. Entrai nel mondo della consulenza e della formazione dove ancora oggi navigo e fui chiamato per una collaborazione alla Facoltà di Scienze Politiche di Bologna. Dopo un po' diventai cultore della materia e poi professore a contratto in Sociologia del Lavoro. Passai a Scienze della Formazione, sempre a Bologna. Lì ho inse-gnato per 12 anni, come secondo lavoro. In prima istanza mi sono sempre occupato, infatti, di consulenza e forma-zione a organizzazioni pubbliche, sociali, private. Ed oggi sono all'Università Sisf di Venezia, stabilizzato. Già da 4 anni. Questo è l'itinerario.

Come ti dicevo, però, la giurisprudenza è ancora dentro di me. Per due motivi: 1) quel bisogno latente di giustizia che porto sempre con me; 2) la passione per la compren-sione delle dinamiche complesse del dare e ricevere, di in-nocenza e colpa, che regolano tutte le relazioni umane.

Il percorso non è stato ortodosso, ma a zig zag. La cosa mi piace così.

Il giorno martedì 16 febbraio 2010, ore 21.29, Astrid

Valeck ha scritto: Ho lavorato in polizia municipale per diversi anni. Il bi-

sogno di giustizia e legalità attraversa anche me. Non sono mai stata capace di restare relegata nel ruolo della compi-latrice di preavvisi di accertata violazione alla sosta e mandatrice manuale di apparecchiature semaforiche: mi

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avevano fatto studiare codici e testi unici e li avrei applica-ti al meglio. I miei colleghi ancora ricordano le mie chia-mate alla Centrale con le richieste più anomale.

Domanda: Non appartenere rigidamente ad alcun siste-ma, o non essere “specialista”, quali ricadute ha avuto od ha a sul piano professionale?

E poi: quali le caratteristiche salienti della società odier-na?

Il giorno martedì 16 febbraio 2010, ore 23.30 Daniele

Callini ha scritto: È proprio divertente! Non avevo mai fatto questa tipo di esperienza. E mi pare

un'ottima modalità di riflessione (e perché no! - anche di ricerca).

Allora anche tu conosci le spinte interne alla ricerca di equità. E sai bene quanto è difficile controllarle e tenerle buone nei processi di consulenza/aiuto. A volte si vorrebbe cambiare il mondo, migliorarlo a nostra immagine e somi-glianza. In quei momenti ho sperimentato l'arroganza. È un'esperienza di apprendimento formidabile! Ma non sto rispondendo alle domande. Vedi il tema mi sta proprio a cuore.

Non appartenere rigidamente ad alcun sistema, o non es-sere “specialista”, ha ricadute profonde sul piano non solo professionale, ma pure esistenziale. Essere sociologo e leggere i fenomeni macro e micro sociali con più lenti di osservazione (metafisiche, economiche, antropologiche, psicologiche, giuridiche, pedagogiche, ecc.) ti avvicina al-la realtà, ma ti allontana dal villaggio. Si diventa ricercato-ri di strada, e si è anche apprezzati sul terreno della consu-lenza, ma si fatica ad essere parte di istituzioni - in questo

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caso scientifiche o professionali. Nella dicotomia tra rigore scientifico e pertinenza diagnotica forse sono più sbilan-ciato verso la seconda dimensione. Ma da quando ho in-contrato e studiato il pensiero di Popper una grande conso-lazione e conforto mi hanno assistito nel mio restare ai margini. Non per caso mi sono avvicinato a teorie trasver-sali a più ambiti disciplinari: per esempio alla teoria dei sistemi, o alla fenomenologia, all'interazionismo simboli-co, ecc.

Sul piano esistenziale tutto ciò è un compimento della mia natura.

La domanda successiva richiederebbe ore di riflessione, un vero corso di sociologia post-industriale. Di recente ho scritto un volume "Lezioni veneziane4" dove descrivo le evoluzioni culturali e sociali in atto, legandole al pensiero di grandi sociologi e pensatori attuali e del passato. Mi pa-re che vi siano alcuni temi "critici" centrali per compren-dere la società contemporanea. In estrema sintesi questi riguardano: 1) l'insicurezza ontologica; 2) il narcisismo; 3) la rimozione delle radici; 4) il conformismo solidale; 5) la crisi di senso.

Rispetto a questi nodi vi sono controtendenze, movimen-ti di pensiero e di azione, forme diverse di rigetto, che però ne sottolineano la portata e il peso.

Notte! Il giorno mercoledì 17 febbraio 2010, ore 20.26 A-

strid Valeck ha scritto: Ho sempre pensato che quando si sta ai margini si ha modo di poter osservare con calma, di potersi muovere tra ambiti e discipline trasversalmente senza doversi

4 D. Callini, Lezioni Veneziane, Franco Angeli, Milano, 2008

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giustificare o chiedere il permesso, di possedere più prospettive. Si evita, anche, di essere chiusi dentro una cornice: con i suoi vantaggi, con le sue esclusioni. Sono curiosa per natura, cercare costantemente e sempre è la mia seconda pelle. Mi occupo, così, di tanti temi differenti, non con superficialità, ma come se rappresentassero tanti punti di vista per conoscere. Vivo questo mio modo alquanto personale di studiare il mondo dai margini anche nella scelta dell'ordine scolastico in cui lavoro (la scuola dell'infanzia è “fuori” dalla cosiddetta scuola). Essere specialisti significa poter essere riconoscibili e quindi, facilmente collocabili, anche a livello istituzionale. Possedere così tanti interessi me lo si vuole imporre come un mio limite (dopo tutto di cosa mi occupo veramente?), credo, al contrario, che il vero limite sia essere facilmente collocabili. Una cornice, per quanto ampia, è pur sempre un confine. Ho formulato una domanda in modo scorretto e te ne chiedo scusa. Il cercare di non dare nulla per scontato, mi ha fatto scegliere un argomento troppo vasto. È un altro il quesito che cerca riflessione. Quale il senso dell'esistenza umana in un panorama sociale sempre più affidato alla tecnica? Buona notte e buona scrittura.

Il giorno mercoledì 17 febbraio 2010, ore 22.36 Da-

niele Callini ha scritto: A volte la tecnologia mi spaventa. Spesso mi trovo im-

pacciato nell'utilizzo degli strumenti informatici o di qual-siasi altro mezzo elettronico. I miei figli mi osservano di-vertiti e stupiti. E io mi sento di un'altra generazione. Ep-

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pure la tecnologia è anche meravigliosa. Guarda solamente quello che stiamo facendo. Un'intervista a distanza, con botta e risposta, informale, ma non superficiale, leggera, ma profonda al tempo stesso.

E questo grazie alla tecnologia. La posta elettronica ha rivoluzionato la comunicazione. E così altri infiniti dispo-sitivi hanno reso più semplice e comodo compiti che prima richiedevano enorme dispendio di energia. Ciò che sta na-scendo dal nostro uso delle mail mi pare una buona cosa, ricca di senso e al servizio della vita. Dunque la tecnologia non è buona o cattiva in sè, tutto dipende dall'uso che se ne fa. Avremo potuto decidere di non fare questa intervista a distanza, grazie all'uso della posta elettronica. Allora pace. Non sarebbe nato nulla. Invece abbiamo utilizzato questa opportunità e sta nascendo una buona comunicazione. Qualcosa di vivo e dunque di utile. Ho detto qualcosa di vivo. Perché talvolta la tecnologia può anche essere al ser-vizio della distruzione. Si distrugge non solo con gli stru-menti bellici, ma anche con altri mezzi più sottili, mediati-ci, simbolici, percettivi. anzi ti dirò di più. Quello che stiamo facendo, grazie all'uso di questa tecnologia, mi fa amare di più la comunicazione umana e quindi anche lo strumento. In questo momento sto provando un sentimento che siamo gratitudine. Sono grato alla posta elettronica. Naturalmente sono grato in primo luogo a te che mi dai questa opportunità, e faciliti la mia riflessione, ma senza strumento non se ne farebbe nulla, almeno in questi termi-ni.

Il senso dell'esistenza è indipendente dalla tecnologia. Quest'ultima non si occupa di questioni etiche. La tecnolo-gia è come è: come viene progettata e utilizzata. Le scelte di significato dipendono solo dagli esseri umani, che un

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tempo usavano le clave e oggi il personal computer. La caduta di senso dipende, a mio avviso, da altri fattori: in primo luogo dall'esasperazione dell'economia capitalistica, dal consumo coatto, dal conformismo solidale, dal capo-volgimento tra fini e mezzi, dalla crisi della democrazia, dal relativismo etico a fronte del dogmatismo mediatico. E da tante altre cose ancora.

Il giorno giovedì 18 febbraio, 2010, ore 11.48 Astrid

Valeck ha scritto: Apprezzo alcune qualità della ricerca scientifica e della tecnologia che hanno portato alla lavatrice o ai pannolini, tanto per fare un esempio. Sul versante della scrittura continuo preferire la penna. Ho bisogno di restare da sola, con il mio pezzo di carta e il mio inchiostro e una mano che segue i pensieri e li trasforma in ghirigori. Quando scrivo con il mio portatile mi sento incompleta, mi disturba la luce del monitor e il rumore di fondo della batteria. Ha l'indubbio privilegio di avvicinare ogni luogo del mondo. Con un click posso sentire vicini coloro che abitano al di là del globo. Anche a me piace questa comunicazione a distanza, ma rapida allo stesso tempo. Un dialogo con scadenza giornaliera, come una pagina di diario. Unisce il tempo veloce della comunicazione faccia a faccia con il tempo lento della riflessione della scrittura. Leggo quasi subito le tue risposte, ma mi lascio il tempo per pensare con calma a come rilanciare. Ci sono tanti aspetti del mio vivere di oggi (forse del vivere di tanti) che mi fanno sentire “fuori posto”, quasi non allineata con regole sociali che non comprendo e a cui non so uniformarmi. Mi domando spesso che fine abbiamo fatto valori quali la solidarietà. Prima però ho bisogno di un

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chiarimento, perché molti concetti mi sfuggono ancora: Che cos'è il conformismo solidale?

Il giorno giovedì 18 febbraio 2010, ore 22.19 Daniele Callini ha scritto:

Nella società agro-pastorale così come in quella indu-striale la solidarietà sui fini è stata sostituita dal conformi-smo solidale. Si è assistito progressivamente all'adegua-mento degli attori sociali a modelli unificanti, coatti, come il consumare e l'apparire. Gli individui sempre più diversi e differenziati nei valori, nei principi etici, nelle tensioni spirituali, negli stili di vita, sono invece accomunati dai comportamenti economici. L'etica divide ciò che l'econo-mia unisce. Si pensi ai modelli di acquisto. Insomma, il nuovo collante sociale non sono più i fini, ma i mezzi. I mezzi hanno preso il posto dei fini e i fini si sono posti al servizio dei mezzi. Anche per questo motivo - ma non solo - sono morte le ideologie. Il consumo e il mercato control-lano i valori, dunque la stessa politica, così come gli stru-menti di comunicazione di massa. Si tratta di un fenomeno non circoscritto al nostro paese, ma di ordine globale. Tutti siamo dentro l'ingranaggio, anche chi crede o si illude di esserne svincolato. Infatti il prezzo da pagare per starne fuori è talmente alto - l'esclusione dal sistema - che si fini-sce con l'adeguarsi. È possibile opporre forme variegate di resistenza, e così nascono movimenti alternativi, ma in gradi diversi e in forme diverse tutti si adeguano, si adat-tano. Ma la malafede alimenta la rabbia, il risentimento, il conflitto, la schizofrenia sociale. La società in questo mo-do vive cadute di senso e di gratitudine, e l'invidia diviene risorsa della stessa economia. Grazie all'invidia aumentano la competizione, la produttività, le performances economi-

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che. Grazie all'invidia aumenta il debito. Bauman scrive che la nostra società è vittima del debito. L'imperativo è "consumare oggi e pagare domani".

Il giorno venerdì 19 febbraio 2010, ore 9.35 Astrid

Valeck ha scritto: Daniele, per cortesia, se la faccenda in qualche modo diventa noiosa o insulsa o non ti piace più, dimmelo! Dici della gratitudine. Anche Melanie Klein affronta lo stesso tema nel suo saggio “Invidia e gratitudine5” e proprio alla gratitudine assegna una di quelle che io ritengo le sue pagine più belle. Ti conosco come una persona cordiale, paziente e molto disponibile (anche nei miei confronti, che mi pare di essere invadente e rompiscatole con tutte le mie richieste/proposte) eppure, ti sento dire spesso che sei grato – che provi gratitudine - per le possibilità e gli incontri che la vita ti offre. Non ti arrabbi mai? C'è qualcosa che è proprio incompatibile con il tuo “essere persona unica e irripetibile”, qualcosa che ogni tanto si ribella? Forse sono io che non sono capace di equilibrio. Le emozioni mi attraversano e si manifestano all'esterno con estrema chiarezza, è come se mi ribollissero nella parte più profonda di me, tutte miscelate, attendendo solo di poter schizzare fuori. Se dovessi tentare un'immagine visiva ...ecco, mi sento come una pentola a pressione in costante bollore cui, ogni tanto, dalla valvola di sicurezza qualcosa deve assolutamente uscire. Non è detto che sia rabbia, anzi: può essere gioia, come tristezza, come... Nell'ingranaggio globale cui tutti, volenti o nolenti, siamo coinvolti, quale dimensione assume il tempo? (Anche se

5 M. Klein, Invidia e gratitudine, Giunti, Milano, 1998

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comprendo di adoperare il termine “dimensione” con un'accezione non idonea. Secondo la fisica il tempo è già una dimensione, ma non me ne viene in mente un altro!).

Il giorno venerdì 19 febbraio 2010, ore 13.03 Daniele

Callini ha scritto: Ciao Astrid questo dialogo - che poi sta anche assumen-

do una valenza di ricerca riflessiva- non mi annoia affatto, anzi.

Mi pare ricco di spunti e di stimoli. Per me di sicuro. Spero anche per te. Mi pare un buon modo di cercare. Di produrre interrogativi, di formulare ipotesi provvisorie, di confutarle. Immagino che per il tuo articolo occorrerà "ta-gliare" e selezionare. Ma una versione più integrale e più ricca potrebbe diventare un quaderno on line della Libera Officina, se sei d'accordo.

Mi aspettavo altre domande. Avevo in mente anche le ri-sposte. Ma evidentemente in un dialogo autentico non so-no possibili certi trucchi.

Mi arrabbio, eccome, non sai quanto. E neanche imma-gini quanto abbia lavorato e quanto stia lavorando ancora sulla mia aggressività. Ho tanti buoni motivi per essere aggressivo. Lo sono stato durante la mia adolescenza. È stato uno dei periodi più bui della mia vita. Ma a forza di esperienze distruttive sono approdato al desiderio di vita. Ho trovato, sentito i piaceri dell'esistenza, anche dentro la sofferenza. Non sono approdato alla pace assoluta, perché questa non esiste. Ma quanto meno ci ho guadagnato in consapevolezza, senso del limite e temperanza. Ero accani-to verso qualsiasi forma di ingiustizia personale o sociale. Oggi al massimo sono triste, rammaricato nel guardare la realtà così come è. Non sempre mi piace quello che vedo,

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ma la vita mi piace a prescindere e la prendo così come si offre. Per questo ringrazio. Tutto quello che sono e che ho è un dono misterioso che invoca tutta la mia gratitudine. Ogni tanto poi regredisco anch'io. Me lo concedo. E sorri-do.

Ma tu Astrid mi hai fatto anche un'altra domanda. Il tempo. Qual è il suo ruolo nella società post-industriale. Su questo tema scrissi proprio un articolo qualche anno fa. E ogni anno dedico almeno una lezione a questo argomen-to nel mio corso di sociologia. Lo scandire fisico del tem-po, il tempo della natura viaggia per suo conto. Ciò che muta in modo radicale sono la percezione soggettiva e so-ciale del tempo e l'atteggiamento verso di esso. Nella so-cietà agro-pastorale le persone erano antropologicamente radicate nel passato. Un passato ciclico, quindi rassicuran-te. Nella società moderna sono proiettate verso il futuro. Un futuro incerto, inquietante. Il tempo oggi genera paura, insicurezza, ansia. Il tempo ieri offriva invece stabilità, in-tegrazione sociale, radicamento. Per questo oggi è in crisi la memoria. La tensione verso l'innovazione permanente distrae tutta l'attenzione e l'energia verso il Nuovo. E il Vecchio viene dimenticato.

Il giorno sabato 20 febbraio 2010, ore 12.16 Astrid

Valeck ha scritto: Bravo?! E così cerchi scappatoie. ...anch'io volevo fare la furba, ma la piega che sta prendendo questo esperimento, me lo impedisce. Diverte pure me. Vediamo che succede e poi valuterai se c'è qualcosa di buono per racchiudere questa intervista (non so più se chiamarla tale), un po' anomala, in un quaderno.

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Mi piace ascoltare gli scrittori, soprattutto i giallisti, sul modo che hanno di lavorare e quindi di scrivere. Tutti coloro che ho incontrato, indistintamente, possiedono un “piano” di scrittura fatto di scalettone o post-it appiccicati sopra una parete o una porta e costruiscono - a priori - la loro narrazione. Penso a Vincenzo Cerami o a Carlo Lucarelli. A lungo è stata una modalità che adoperavo anche io, ad essere precisa io lavoravo per ragnatele. Scrivere diventava una fatica terribile. Quando finalmente terminavo la scrittura il risultato non sempre mi restituiva quanto avrei desiderato. Provavo un senso di fallimento molto alto. Attesa e risultato non combaciavano. Poi ho incontrato Duccio Demetrio. La ricerca autobiografica è divenuta la mia scuola di scrittura. Un gesto, che adesso mi pare semplicissimo, ha trovato la via per permettere alla mia interiorità di uscire allo scoperto. Senza sovrastrutture. Appoggio la penna sul foglio e la lascio andare. Per questo non so dove andremo a parare con questo dialogo a due voci e quattro mani. Ho smesso di preoccuparmi per ciò che la scrittura mi restituirà. Mi affido alle suggestioni. Poche, iniziali, che mi chiedono di indagare un poco di più. Mi pongo in ascolto. La scrittura va avanti e indietro, tra pagine terse e pagine già scritte, a volte porta nuovi fili per gli intrecci altre volte si libera del superfluo. Ogni giorno diviene per me, una scoperta. Con stupore rileggo ciò che ho deposto sulla carta. Attraverso i romanzi che scrivo metto in luce un'interiorità veramente ricca e variopinta che domanda solo di essere presa in considerazione. È una sensazione meravigliosa sapere di possedere tanto.

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Sempre a proposito di tempo, un “pensatore” - sia esso filosofo, sociologo o antropologo - come vive? Per esempio, com'è una tua settimana tipo?

Il giorno domenica 21 febbraio, ore 2010 21.18, A-

strid Valeck ha scritto: Ciao Daniele credo, al solito, di essermi espressa in maniera poco chiara (e dirai tu: ma pensa meglio prima di scrivere! E c'hai ragione) e la mia domanda risulta non rispondente al quesito che ti volevo porre. Mi interessa sapere, proprio a partire da te, come si conciliano il tempo interiore e il tempo di vita. L'uomo contemporaneo cerca equilibrio tra questi due aspetti? Può essere questo un “tempo” che ha a che fare con quel senso di insicurezza ontologica della propria esistenza di cui abbiamo discusso? Il disagio esistenziale che l'uomo subisce (o vive) è perché non si interroga, cioè non è più capace/interessato al bisogno di ricerca filosofica dell'esistere, o è perché ha perso la strada, quella dell'interrogarsi appunto, attratto da altri lumi in apparenza più semplici da seguire e più facili da raggiungere? Quando l'uomo, nel corso della propria vita, perde quel faro in cui è celata la ricerca del senso dell'esistenza? Se penso ai bambini della scuola dell'infanzia con cui lavoro, il bisogno di interrogarsi sul senso di ciò che li circonda è molto alto, e anche i loro pensieri sono profondi. Chi direbbe che un bambini di 4 o 5 anni è capace di pensiero filosofico? Eppure è così. Quando avviene questo scollamento con il proprio sé?

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Il giorno lunedì 22 febbraio 2010, ore 15.25 Daniele Callini ha scritto:

Assiologia del tempo: il tempo non appartiene solo ad una dimensione biologica, o sociologica, ma pure etica.

"Dimmi come usi il tuo tempo e non solo ti dirò chi sei, ma pure in che cosa credi!"

Fino a qualche anno fa usavo gran parte del mio tempo per amministrare una società di consulenza e formazione. L'esperienza era economicamente gratificante. Ma non nu-triva la mia anima sino in fondo. Più raggiungevo obiettivi e più mi sentivo insoddisfatto. Occorreva alzare continua-mente l'asticella, come nel salto in alto. Il tempo era esclu-sivamente un investimento. E come tale doveva produrre profitto. In fondo un consulente vende giornate, quindi tempo. Lo stress aveva raggiunto limiti insopportabili. Al-lora ho cambiato strategia. Anche oggi vendo il mio tem-po, ma con dei limiti. Occorre guadagnare quanto basta e il tempo restante deve servire non a produrre danaro ma un altro tipo di benessere, esistenziale. Di cosa si tratta? Non esiste una risposta uguale per tutti. Per quanto mi riguarda le principali fonti di benessere personale sono la famiglia, lo studio e la ricerca, l'utilità sociale, la speculazione meta-fisica. Mi piace scrivere e leggere. Mi piace il cinema. La natura. Mi piacciono gli altri. Mi piace la vita.

La scuola di oggi (ma anche quella di ieri) non insegna a riflettere, decodificare, progettare il tempo in una prospet-tiva di benessere, di crescita, di senso. È un vero peccato. Ho visto i bei lavori che hai fatto con i tuoi bambini sul tempo6. Quei bambini sono fortunati perché non capita spesso una tale opportunità. Per interrogarsi (sul tempo o

6 A. Valeck, “Sulla conversazione” in “Paesaggi Educativi n°25/2008, Il Ponte Vec-

chio, Cesena

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su qualsiasi altro tema) occorre competenza. Bisogna saper formulare le domande giuste, servono chiavi di lettura dif-ferenziate, è necessario mettersi in ascolto e osservazione paziente, occorrono più linguaggi (disciplinari, emoziona-li, corporei, espressivi, artistici, ecc.). È più semplice tuf-farsi nel "paese dei balocchi", salvo, quando si fa sera, ac-corgersi che ci si è persi, o si è perso tempo. Dunque è im-portante la filosofia per i bambini. Perché li abitua ad an-dare oltre le attrazioni effimere della società post-industriali, per immaginare con loro un mondo diverso. Questo è il seme. Altrimenti non resterebbe che la rasse-gnazione. Perché il realismo non diventi pessimismo biso-gna non dilungarsi in troppe diagnosi. La realtà è quella che è, e la vede anche un bambino. Allora bisogna agire, ma senza pensare di cambiare il mondo o gli altri. Partia-mo da ciò che dipende solo da noi. Siamo dei lavapiatti? Allora prendiamoci cura dei piatti. Siamo degli agricolto-ri? Amiamo la terra. Siamo degli educatori? Trasmettiamo il nostro entusiasmo e la passione dell'apprendimento.

Purtroppo nel sistema educativo sono in aumento i pro-fessionisti tristi, rasseganti, senza entusiasmo. Sono una vera calamità. Bastano pochi di questi esemplari per rovi-nare tutto. Le istituzioni hanno, in questo ambito, grandi responsabilità e di fronte a tanta complessità si difendono con atteggiamenti autoreferenziali, non costruttivi. Poi la scuola non può fare tutto. Non può competere con le forze massmediatiche. Non sostituirsi ad una famiglia anch'essa in crisi. Non può sopperire alla mancanza di buoni esempi istituzionali (si pensi alla nostra classe politica). Dunque bisogna partire dal basso, dal micro: che ognuno resti al proprio posto e faccia la sua parte. Con responsabilità, ri-fuggendo dalle insidie dell'arroganza. Non vedo altre vie.

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Il giorno martedì 23 febbraio 2010, ore 9.24 Astrid

Valeck ha scritto: Oggi ero a casa di Stefania7, parlavamo proprio di que-

sto: del nostro compito di educatori e di quello che ci sta sfuggendo nel nostro modo di fare scuola. Ci stiamo per-dendo, il fare o meglio le discipline (l'essere ognuno preso dal suo risicato pezzettino di orto) ci porta a perdere di vi-sta l'essenziale.

Al contrario di te, io il mio tempo, l'ho sempre donato. Consapevole che mi basta il giusto per vivere e far vivere la mia famiglia onorevolmente. Se mi facessi pagare per tutto ciò in cui mi impegno, sarei economicamente ricchis-sima. Seguo un istinto (indomito devo dire) che mi porta a cercare là dove individuo qualcosa che può essere interes-sante per un mio arricchimento interiore e permetta di tes-sere reti di relazione tra persone, e di solito non mi sba-glio. Ecco perché spazio tra tanti interessi differenti e a volte divergenti. In una prospettiva sociale come quella attuale, tutta incentrata sul valore economico attribuito alle azioni oltre che alle cosa materiali, la mia scelta sul tempo porta come conseguenza che ciò che faccio non ha valore e di conseguenza neppure io. Quanto valgo sul mercato? Nulla di economicamente valutabile, perché perseguo un fine diverso, incomprensibile ai più.

La scuola sta attraversando una crisi che non so se abbia termini di raffronto con il passato. Sono le persone ad es-sere in crisi, per le tante richieste provenienti da ogni parte e la consapevolezza dei propri limiti. Ma c'è qualcosa di più, qualcosa che mi spaventa: un senso di demotivazione latente a volte, più spesso manifesto anche da parte di co-

7 Stefania Severi, redattrice della rivista già menzionata nonché amica.

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loro che entrano nella scuola, in qualità di docenti, per la prima volta. Quando il livello di passione dovrebbe essere al massimo, in attesa solo di potersi arricchire con l'espe-rienza.

D'altra parte quale futuro si prospetta a coloro che so-gnano e si formano per divenire educatori (nell'accezione più ampia del termine)? Se l'educazione è speranza, questa è la prima cosa che i docenti non trovano più. Come si può educare coloro che saranno gli uomini e le donne di doma-ni alla speranza, se non ci crede nemmeno chi ha il compi-to di educare? Rimane un senso di solitudine troppo alto per poter essere sopportato. Eppure è un sentimento con-diviso, ma non partecipato. Ognuno vive la propria solitu-dine chiuso in una sorta di egocentrismo che pare non con-siderare che pure il vicino si trova nella sua stessa identica situazione.

Ho seguito un reportage in televisione dal titolo “La scuola fallita8”. Di solito, di fronte a palesi ingiustizie, mi arrabbio. Questa volta ho pianto. Per me, per i miei figli, per tutti i figli, per i bambini che mi sono affidati ogni giorno, per la “cosa pubblica”. Per un sogno che ci stanno frantumando. Se muore la speranza non resta nulla. Questo stanno facendo, ci tolgono la speranza, un poco per volta, ogni giorno di più, lasciando che diventi “normale” quanto sta accadendo. Avremmo il coraggio di resistere? Non a-vrei mai creduto di trovarmi in una situazione simile. “Fa-re la maestra” era il mio sogno. Ciò che mi crolla sulla te-sta è qualcosa più grande di me, che va oltre le strategie pedagogiche, oltre la didattica e investe un campo sociale per il quale le mie conoscenze e le mie capacità di lettura

8 R. Iacona con il reportage “La scuola fallita” all'interno del programma “Presa di-

retta” del 14/2/10 si occupa dei tagli alla scuola pubblica

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non sono sufficienti. Provo dolore e disperazione. La scuo-la pubblica, quella aperta a tutti, quella che cerca di equili-brare le differenze, ha sempre meno risorse. La cultura e la preparazione non sono più un punto di riferimento, conta solo la forza del denaro. Il nuovo mito. A cosa serve stu-diare? Se sono furbo faccio i soldi e mi compro pure la scuola.

Possono le scuole paritarie, quelle scuole che accolgono solo un certo tipo di utenza e dovrebbero preparare le nuo-ve classi dirigenti riuscire nel loro compito, se escludono una parte della società? Mi sai spiegare come questi futuri dirigenti, ma anche uomini di domani, ignorando o rifiu-tando l'esistenza del vicino di casa, potranno scegliere be-ne? Ogni realtà locale, piccola o grande che sia, deve fare i conti con un panorama umano e culturale ben più ampio di quello messo a fuoco con i paraocchi familiari o educativi che gli sono imposti, perché è bene mantenere certe diffe-renze (!). Immagino che solo chi avrà la visione globale, chi saprà fare sua questa molteplicità di esperienze di vita, di culture, di saperi che sono diversi dai nostri, ma ugual-mente importanti e portatori di idee e valori, maturerà la capacità di scegliere bene.

Volevo chiederti: Nel nostro compito di educatori, come possiamo guidare le nuove generazioni a convivere con questo senso di insicurezza ontologica, superando un ni-chilismo che pare fare sempre più proseliti?

Ma in realtà mi hai anticipata. Così passo ad altro. C'è un passaggio nel tuo testo in cui

citi Victor Frankl e affronti due termini che mi paiono fondamentali: umorismo ed eroismo. Vuoi approfondire?

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Il giorno martedì 23 febbraio 2010, ore 21.58 Daniele Callini ha scritto:

Ho visto anch'io quella terribile inchiesta di Iacona. An-ch'io penso che occorra agire sulla speranza.

Però occorre anche riconoscere il valore della professio-nalità. Poi si può decidere di donare parte del proprio tem-po agli altri. Ma questo non deve togliere nulla al ricono-scimento economico. Invece in Italia abbiamo assistito all'appiattimento più totale. Credo invece che una società civile debba saper coniugare solidarietà e meritocrazia. Ma anche questo è un capitolo immenso.

Invece ti chiedo un chiarimento rispetto alla citazione di Frankl. Per risponderti in modo pertinente circa umorismo ed eroismo mi dici il testo? E la pagina? Altrimenti rischio di fare una riflessione generale - libera - sui due concetti. Fa un po' ridere! Non ricordo "cosa/dove" ho scritto sul tema....

Il giorno mercoledì 24 febbraio 2010, ore 14.08 A-

strid Valeck ha scritto: Al solito mi dai modo di ripensare a come agisco. Hai

ragione bisogna riconoscere il giusto valore alla professio-nalità. Vedrò di tenerlo bene a mente per il futuro, ma do-vrò anche imparare come si fa.

Se ti può consolare capita pure a me che mi domandino precisazioni su cose che manco mi ricordavo di aver scrit-to. Credo succeda quando si scrive molto. E poi, io do troppo per scontato, ragiono per i fatti miei e pretendo che mi si segua senza esternare i passaggi che faccio in silen-ziosa solitudine...una bella impresa per chiunque!

Il testo è "Lezioni veneziane" pag. 58 "La libertà dell'uomo non è libertà da condizionamenti, ma piuttosto

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libertà per prendere un atteggiamento in qualunque con-dizione ci si possa trovare...l'esclusiva capacità umana di distanziarsi da qualunque situazione sia necessario affron-tare, non si manifesta solo attraverso l'eroismo, così come è avvenuto nei campi di concentramento, ma anche attra-verso l'umorismo...L'umorismo e l'eroismo si riferiscono alla capacità, prettamente umana, di autodistanziamento. In virtù di tale capacità, l'uomo può distanziarsi non solo da una situazione, ma anche da se stesso. Egli è capace di scegliere il suo atteggiamento nei confronti di se stesso”. (V.Frankl, Senso e valori per l'esistenza, Città Nuova, Roma, 1994).

Ti lascio libero di vagare per i sentieri che vuoi prendere (teorici-personali: umorismo, eroismo, educazione), per-ché, in questo caso, è per me che l'argomento è troppo va-sto, soprattutto per quanto attiene l'umorismo. A me piace di più il termine "riso", perché l'"umorismo" tende ad esse-re opposto all'"ironia" (e la stessa viene vestita di una va-lenza negativa che non le appartiene, appartiene invece al sarcasmo), mentre secondo me, l'autodistanziamento ha più a che fare con l'autoironia che con l'umorismo.

Va beh, la pianto lì, perché se no vado troppo lontano. Credo di non averti ancora ringraziato per l'opportunità

di dialogo e riflessione che mi concedi e permetti. Lo fac-cio adesso.

Il giorno mercoledì 24 febbraio 2010, ore 18.20 Da-

niele Callini ha scritto: Il ringraziamento è reciproco. Il nostro dialogo sta du-

rando grazie a questa reciprocità. Reciprocità=equilibrio tra dare e ricevere. Entrambi diamo. Entrambi riceviamo. Quando in qualsiasi tipo di rapporto (lavorativo, sociale,

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amicale, affettivo) qualcuno sente che ciò che è stato dato o ricevuto è abbastanza, questo rapporto sta per concluder-si. E va bene così. Possono subentrare diversi stati d'ani-mo: la colpa, la tristezza, la paura, e altro ancora. È un ve-ro peccato, perché il sentimento positivo che si dovrebbe provare è la gratitudine, per ciò che si è potuto dare o rice-vere.

Ho capito la citazione di Frankl a cui facevi riferimento. Le parole di Frankl mi sono piaciute molto. E allora le ho richiamate in quel passaggio del testo. In certi momenti tutti abbiamo il bisogno di autodistanziamento dalla realtà che viviamo. I motivi possono essere i più diversi: per ca-pire, per diventare più forti, per sopportare meglio i pesi della vita, per riscattarci, per dare o ridare un senso alla nostra esistenza.

Come può avvenire questo autodistanziamento? Frankl ci ha proposto due forme: l'eroismo e l'umorismo. Sono due strumenti importanti. Ma esistono anche altre modali-tà: la rappresentazione drammatica, l'autobiografia, la ca-tarsi, la meditazione, l'arte.

Umorismo deriva dalla radice humor, humus. Significa-to: terra, umidità, fluido. Umiltà e umorismo derivano dal-la stessa famiglia. Cosa unisce l'umiltà all'umorismo? Il limite. Il limite ci rende piccoli e nel farci tali possiamo inginocchiarci per terra, vicino all'humus, oppure riderci sopra. Non prenderci sul serio. Trasformare il dramma in aneddoto. E l'ironia? In greco EIRONEIA: esprimere in modo palese il contrario di quello che si pensa. Dissimula-re. Si tratta di una forma retorica grazie alla quale le parole assumono un senso opposto a quello apparente. Questa di-stanza che si crea fra parola e significato è comunque di-vertente. È, in fondo, una forma di umorismo.

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Anche l'eroismo è un modo per distanziarsi dalla realtà. Frankl considera eroi i detenuti sopravvissuti ai campi di concentramento. In effetti per sopravvivere in simili circo-stanze serve qualcosa di eroico. Una forza di sopportazio-ne, di sopravvivenza, di speranza, di coraggio, di resisten-za, fuori dal comune. Una risorsa non ordinaria, bensì straordinaria. Se analizzassimo gli eroi reali e fantasiosi dei diversi periodi storici, e di varie civiltà, potremmo ri-levare che gli eroi: 1) hanno ricevuto una forza, un dono sovraumano; 2) sono spesso orfani, senza padre e senza madre; 3) hanno condotto una vita semplice e poi un qual-che evento scatenante li ha resi straordinari. In tutti questi casi gli eroi si distanziano da se stessi, dal loro lato umano, ancora una volta dai loro "limiti" per andare oltre. Come potrai immaginare sono affascinato dagli eroi orfani. Sono i miei rappresentanti esistenziali. In fondo tutti abbiamo bisogno di miti che ci rappresentino. Una proiezione posi-tiva di noi stessi e soprattutto delle nostre carenze.

Il giorno giovedì 25 febbraio 2010, ore 10.03 Astrid

Valeck ha scritto: “Forse il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità. FARE RIDERE LA VERITÀ”9 Non conosco il greco e, spesso, la radice etimologica delle parole mi sfugge. Cerco di sopperire a questo mio limite con lo studio degli autori e delle loro opere. Non avevo mai preso in considerazione la radice etimologica dei termini umiltà ed umorismo. Interessante la lettura sul “limite” per avvicinarsi all'humus o riderci sopra. Io, credo per deformazione professionale, di essere indirizzata più sul versante psicopedagogico e della letteratura per

9 U. Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 1980

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l'infanzia. Nelle mie ricerche non ho trovato congruenza terminologica e laddove per alcuni la parola umorismo diviene un grande contenitore10 per altri è affiancato al comico11 e pare assumere più le caratteristiche proprie dell'ironia, mentre in altri ancora (Pirandello) comico e umorismo si connotano diversamente, e alcuni studiosi di letteratura per l'infanzia12, ad esempio, preferiscono come grande contenitore il termine comico. Umorismo, parodia, ironia, satira, ecc. sono una delle tante categorie del comico. Per questo ho sempre preferito utilizzare il termine RISO, è più generale e dà luogo, almeno per me, a minor fraintendimenti. Mi interessano le potenzialità pedagogiche del riso rivolte all'infanzia e le sue applicazioni in campo lavorativo con gli adulti. Mi piace l'ipotesi di Forabosco di considerare l'umorismo come settimo senso, come un senso creativo capace di aiutare i processi di problem solving, ad esempio. Saper ridere è uno degli aspetti della personalità che andrebbe coltivata con attenzione sin dall'infanzia (e fino al Rinascimento è stato così) perché il riso cambia la prospettiva e rende accessibile la verità. La potenza pedagogica del riso risiede proprio in questo: costringe a pensare e, conseguentemente, può aiutare a sviluppare una personalità autonoma, individuale e flessibile. Anche l'ironia, proprio per l'uso che fa del ribaltamento (di significato) è una forma arguta e sottile di pensiero richiede a chi la pratica e a chi la percepisce una capacità notevole di astrazione ed è socialmente molto apprezzata

10 G. Forabosco, Il settimo senso. L'UMORISMO psicologia e istruzioni pratiche per

l'uso, Franco Muzzio ed., Padova, 1984 11 S. Freud, L'umorismo, Boringhieri, Torino,1978; S. Freud, Il motto di spirito, Bo-

ringhieri, Torino,1980 12 A. Faeti, o E. Beseghy in La scienza gaia. Saggi sul riso, Mondadori, Milano, 1998

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quando chi ne fa uso, la rivolge verso se stesso (autoironia). È interessante cercare l'ironia nella letteratura per l'infanzia, perché si manifesta con le forme dell'allusione, dell'astuzia, del travestimento, della duttilità, della duplicità e dell'imprevisto, imponendo a che legge di far uso di grande attenzione. L'autodistanziamento da se stessi, dalle proprie sventure è molto difficile da ottenere senza cadere nel patetico, riuscire a muovere gli altri al riso invitandoli, nel contempo, a pensare e a pensarsi. Per questo credo che l'autoironia (come l'ironia) sia una forma sottile di intelligenza e sia importante riuscire a distaccarsi da sé e da ciò che ci riguarda utilizzando un occhio leggero, pronto a cogliere le incongruità che ci riguardano e imparando a riderci sopra. Vivere con leggerezza. Per me è difficilissimo renderla opera quotidiana. Se andare oltre i propri limiti - umanamente parlando e siano questi richieste straordinarie poste dalla vita o più piccole azioni quotidiane - significa acquisire un po' della dimensione di eroi, credo, che sia una possibilità aperta a tutti. Siamo abituati a considerare Eroi coloro che compiono grandi imprese, ma anche sapersi opporre alle più piccole ingiustizie, quelle ormai ritenute normali tanto da non vederle più come tali, richiede una buona dose di eroismo. Così mi piace cercare i “piccoli” eroi di tutti i giorni, coloro che sanno resistere nonostante tutto. Non penso alla resistenza come forza attiva che si contrappone combattendo, ma alla resistenza che ci hanno insegnato coloro che sono sopravvissuti ai campi di concentramento: esistere per resistere. Che letta oggi, significa quanto hai già sottolineato, continuare nel proprio ruolo con tutta la professionalità che si possiede e dicendo “no” quando serve. A tutti i livelli, in tutti i ruoli.

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Si apre un altro scenario: cosa significa obbedienza e quali implicazioni porta con sé l'obbedienza passiva, senza responsabilità?

Il giorno giovedì 25 febbraio 2010, ore 17.53 Daniele

Callini ha scritto: Anch'io non ho studiato il greco, ma per me è una gran-

de passione comprendere l'origine delle parole. A volte si scoprono delle dimensioni davvero interessanti. Per questo consulto sistematicamente il dizionario etimologico.

Mi piace molto l'immagine che dai dell'eroe comune. Ma anche l'eroe comune, per dirla con Frankl, deve uscire dal comune, dall'ordinario, dall'abitudine o dall'obbedienza passiva, per poter essere percepito come tale. E per potersi sentire lui stesso, eroe. Ma eroe non è colui che si getta contro il pericolo senza corazza. In fondo essere coraggiosi significa essere corazzati, dunque preparati. Altrimenti si parlerebbe di spericolatezza. Quindi può essere eroe anche colui che silenziosamente obbedisce. In apparenza pare passivo. Ma la passività o la generatività sono frutto della sua consapevolezza della realtà, dei vincoli, dei sogni in-timi, dei limiti, dei sacrifici. E’ più eroe chi dice Sì o chi dice No? Dipende naturalmente dall'eticità della domanda. Ma ammesso che ci muoviamo comunque nel campo del lecito chi è più eroe? Il mite o il ribelle? In questa dualità si giocano e si sfumano i confini. È eroe il mite che si tra-sforma consapevolmente in ribelle quando certi confini vengono violati e quando la sua ribellione non è un gesto narcisistico, ma di solidarietà. Così come può essere eroe il ribelle che riesce per una volta a mettere da parte il suo risentimento per obbedire, per evitare un male più grande ad altre persone. In entrambi i casi vi è un movente nobile

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che sono gli altri. La ricerca del loro bene. Si è eroi mai per se stessi, ma sempre per gli altri. Questo mi pare il confine concettuale. Qualsiasi cosa facciamo, per chi la facciamo? Per noi o per gli altri? Un gesto eroico fatto e-sclusivamente per se stessi perde tutta la sua eroicità. In effetti viene meno lo stesso autodistanziamento.

Il giorno venerdì 26 febbraio 2010, ore 17.58 Astrid

Valeck ha scritto: É arrivata l'ora che mi compri anch'io un dizionario eti-

mologico, era così semplice da pensare! Per adesso sono andata a ritirare il tuo libro "Nessi di realtà13" finalmente consegnato. Devono essere stati i 15 km più lunghi da per-correre, nemmeno a piedi ci avrei impiegato tanto. Sono dell'idea che i libri debbano circolare attraverso i canali a loro preposti: le librerie, per questo l'ho ordinato.

Quando frequentavo le scuole medie avevo un'insegnante di lettere che teneva molto alla distinzione tra eroi e uomini coraggiosi. Sosteneva che gli eroi non valutano il pericolo e si lanciano nelle imprese con leggerezza, spronati da un destino che deve compiersi. Non sanno cosa sia la paura e questo li rende incoscienti. Gli uomini coraggiosi, al contrario, sono coloro che consapevoli del pericolo non si tirano indietro, ma hanno paura. Sono uomini che scelgono e sanno che il risultato non è poi così scontato. Comunque agiscono distanziandosi da sé e mettendosi al servizio del bene di qualcun altro. Agiscono, cioè, la solidarietà. È qualcosa che deve avermi colpita molto se me ne rammento a distanza di così tanti anni. Secondo quanto hai sottolineato fino ad ora l'autodistanziamento, inteso come capacità di

13 D. Callini, Nessi di realtà, Tempo al Libro, Faenza, 2009

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andare oltre se stessi, si può concretizzare nell'umiltà, nell'umorismo (auto-umorismo?) e nella solidarietà. Ci sono esempi in letteratura (intesa come ricerche o studi) dove ciò sia diventata operatività educativa? Mi piace molto l'eroe (con la “e” minuscola proprio perché “comune”, come tu hai detto) che è mite o ribelle. Quando però ho affrontato il tema dell'obbedienza passiva pensavo ad altro. Vedo l'obbedienza strettamente intrecciata con la scelta e con la responsabilità. Continua a presentarmisi alla mente l'immagine di un uomo che ha sempre obbedito e sempre svolto con estrema precisione gli ordini evitando di porsi domande sulle conseguenze del proprio fare o, eventualmente, non fare, arrivando a far coniare (non so se qualcuno prima di lei ne aveva già parlato) ad H. Arendth un concetto come quello della banalità del male: mi riferisco ad A. Heichmann. I confini dell'etica sfumano e sono così strettamente intrecciati ad altro che non è immediatamente visibile. Secondo questo indirizzo dire “Non sono responsabile (per questa scelta o questa pratica,) perché me lo ha detto il dirigente” suona piuttosto inquietante. Fare senza pensare o fare senza scegliere non esula dalla responsabilità materiale o morale delle conseguenze che possono derivare.

Il giorno sabato 27 febbraio 2010, ore 22.13 Daniele

Callini ha scritto: Proprio in questi giorni ho ripetutamente affrontato que-

sti stessi temi con persone diverse: il coraggio, i confini etici, la responsabilità. Ed ho rivisto un film "Le crocia-te14" dove si pone un dilemma di scelta a un vero e nobile cavaliere templare. È lecito contraddire l'etica per un bene

14 Anno 2005, regia di Ridley Scott

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superiore? Non è poi così diverso dal violare l'etica per obbedire a un'autorità. Sono tutti esempi in cui arrivano in soccorso degli alibi. Il mio pensiero è che non ci può mai giustificare. Il diritto ha inventato le condizioni attenuanti ai reati. Ci possono essere situazioni attenuanti, ma in ogni caso la responsabilità resta. E proprio per questo non si possono superare i limiti etici. Il tema è piuttosto un altro quali sono questi limiti? Quelli previsti dal diritto? Dalla religione? Dalle abitudini sociali?

Tutto il diritto e tutti i principi morali possono però rias-sumersi in una norma molto semplice, che comprende an-che un bambino: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso. Quando si viola questa regola, anche per un motivo apparentemente giustificabile, si è sempre responsabili (o corresponsabili) dell'azione.

Il giorno lunedì 01 marzo 2010, ore 20.47 Astrid

Valeck ha scritto: Entriamo in un campo – quello del diritto – che

appartiene più a te che a me. Sicuramente, su un piano eticamente “alto” (ad esempio: non uccidere), chiunque è in grado di dare una risposta, di saper scegliere. Chiunque non sia soggetto a depravazioni o a scompensi mentali. Ma lì, l'etica o il diritto, possono poco, occorre un aiuto diverso. Se il “bene superiore” sono gli altri e si attua la solidarietà di cui dicevamo, chi sceglie di agire contro una norma che in quel momento è considerata etica si avvicina all'Eroe. Può darsi che la norma, in seguito a questo gesto, cambi (mi sembra possa trovare esplicitazione in norme religiose). Saltando un po' di palo in frasca e tornando ad un argomento che per radici familiari mi sta a cuore, chi si è opposto al nazifascismo ed ha salvato molte vite

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mettendo a repentaglio la propria stessa vita non è considerato eroe, ma giusto.

Quello che invece mi preoccupa di più è l'etica legata alle abitudini sociali. Perché, la parola abitudine (ancora non possiedo quel famoso dizionario etimologico!) la vedo espressione di un comportamento che appartiene ai più e con una dimensione di normalità tale che è riconosciuta (non voglio dire giusto) e accettata. Quando dico che mi sento “sfasata” mi colloco proprio qui, nel campo di queste abitudini sociali. Non c'è bisogno di arrancare tanto per cercare esempi che ci sono palesati da trasmissioni televisive, quotidiani, denunce,... molto diventa parziale e il concetto stesso di etica è talmente flessibile da far apparire stupido chi non si adegua. Onestà e furbizia come si conciliano? Affrontiamo argomenti che aprono scenari sempre troppo vasti. Io so solo che ho avuto un'educazione morale estremamente rigorosa, tale che mi è impossibile – tanto per farti un esempio – utilizzare la strumentazione della scuola per stampare un mio file personale (mi vergognerei troppo), e ne porto traccia non solo in me stessa, non solo con i miei figli, ma anche con i bambini che mi sono affidati. Chi ha ragione? A fronte di questo panorama diviene normale chi è furbo, perché se le norme esistono sono nate per ostacolare il singolo, mica per tutelare l'insieme di individui che compongono la società!? Per questo esistono eroi comuni, perché c'è un'etica (non certo minore), ma fatta di piccoli gesti e valori che operano dal basso e c'è un comportamento malato che tenta di sfumare il limite tra ciò che è etico e ciò che non lo è mostrando illusioni (modificando il diritto) e allargando la colpa fino a che nessuno sia salvo.

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Una persona a cui voglio molto bene una volta mi ha scritto “Il paese in cui sono nata è una sorta di Gomorra, è difficile spiegarlo, ma tutto quello che respiri è una melma. Ho sempre saputo di essere una sopravvissuta. Sono tornata dopo anni, qui non conosco o non riconosco più nessuno, ma la cosa buffa è che le persone mi salutano e mi fermano e mi dicono che la mia faccia non è cambiata. Mi viene quasi da sorridere per tutti quei cambiamenti che ho affrontato nella mia vita, tenuti segreti e lontani da questi posti. Non credo che non abbiamo lasciato traccia sul mio viso”. Mentre leggevo le sue parole avevo chiaro il suo coraggio e nel contempo l'assurdità della mia posizione: quanto è facile giudicare (tu parlavi di arroganza) quando la vita non ti mette in condizione non tanto di non sapere cosa è eticamente giusto e cosa no, ma di poter scegliere. Io sono stata una persona fortunata, perché certe prove la vita non me le ha mai presentate, ma mi domando quanto coraggio sia necessario per lasciare una terra che si ama, quanto coraggio sia necessario per vedere la gorgone e provare a non affogare. Perché, accidenti, ci deve essere un'altra possibilità. E poi, quanto coraggio ancora per tornare e con la sola presenza testimoniare che non tutto è perduto. Come vedi una costante a me cara è la speranza.

Il giorno lunedì 01 marzo 2010, ore 21.47 Daniele

Callini ha scritto: Siamo entrati nel tema del coraggio. Io non sono di certo

un eroe. Neanche un eroe comune. Nella vita sono infatti sceso a numerosi compromessi. E forse neppure sempre per un bene superiore. Forse per questo affronto il tema del coraggio. Perché sino a questo momento non ne ho a-

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vuto abbastanza. Lo trovo un tema affascinante perché ta-glia tutte le sfere della vita, sociale, politica, affettiva, pro-fessionale.

In questi giorni ho realizzato un laboratorio all'Universi-tà sulla complessità nelle relazioni di aiuto e il ragiona-mento è scivolato naturalmente sul coraggio. Abbiamo vi-sto nelle rappresentazioni sistemiche svolte sui casi con-creti dei partecipanti quanto sia necessario il coraggio. Un coraggio capace di convivere con temperanza, tolleranza, pazienza.

Il giorno mercoledì 30 marzo 2010, ore 00.14 Daniele

Callini ha scritto: Ne approfitto per lanciare la prima domanda dell'intervi-

sta rovesciata. Cosa hai appreso durante la tua esperienza professionale

ed educativa con i bambini? Cosa pensi di poter ancora ricevere da questa esperien-

za? A presto. Il giorno mercoledì 30 marzo 2010, ore 16.25 Astrid

Valeck ha scritto: Comincio dalla seconda domanda. Non lo so. Ho bisogno di lasciarmi sorprendere dalla

quotidianità. Se perdessi questo, ipotizzando il futuro e sapendo già cosa aspettarmi o quali risposte avrò, l'Educare (cioè la mia professione) non avrebbe, per me, più alcun senso. Direi che sarebbe giunto il momento di cambiare lavoro.

Quest'ultimo gruppo, per esempio, mi ha mostrato che i bambini sentono e sanno comunicare la gratitudine. È la

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prima volta che mi capita in tanti anni (o forse, io non sono mai stata abbastanza attenta per accorgermene). Dimostrano la loro gratitudine in modo molto spontaneo, senza sovrastrutture, e per motivi che farebbero sorridere un adulto.

Ti riporto quanto ho appuntato sul mio diario il 16 marzo di quest'anno.

“Per la prima volta, dopo mesi, sono riuscita a tenere i bambini in giardino tutta la giornata. C'era ancora fango per terra, così ho chiesto loro di restare sulla “pista”. Quella che chiamiamo pista è parte del campo di atletica della scuola media, quello destinato alla corsa, che è racchiuso nel nostro giardino.

L'attrazione verso l'erba e la terra era veramente troppo forte, così ho dato loro il permesso di accedere all'area esterna alla sabbiera. Moua15 (che comincia adesso ad esprimersi nella nostra lingua) mi ha detto: ”Grazie malestra, sei brava. Grazie malestra, va proprio bene”. Non mi aspettavo un gesto così dolce, gli occhi gli brillavano e mi ha abbracciato forte, piccino com'è, poco sopra le ginocchia. Anche Alej e Otello si sono aggiunti ad esprimere la loro felicità”. Così io mi rendo conto di essere una maestra fortunata a potermi occupare di questi bambini.

Cosa ho appreso? Che i bambini sono immediati e semplici nelle loro

richieste, non hanno e non vogliono sovrastrutture. “Sentono” prima di comprendere e ti “sentono” al di là delle parole o dei gesti. Con loro non puoi bluffare e non puoi porti in modo diverso da come sei. Se ne accorgono

15 I nomi dei bambini sono inventati

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subito e non sei credibile ai loro occhi. Credo sia per questo che mi piace tanto stare con i bambini di questa età. Ti chiedono tantissimo e poco allo stesso tempo. Pretendono ogni tua energia e attenzione, ma in compenso ti donano se stessi. Ti domandano solo di essere rispettati e amati per quello che sono: delle piccole vite che stanno crescendo.

È necessario prestare molta attenzione alle nostre reazioni di adulti, perchè rischiamo di scatenare risposte negative. Sono disponibili ad accettare i rimbrotti se giustamente motivati (hanno uno spirito di giustizia molto elevato) e non bisogna assolutamente ridere di loro.

Ti chiedono di accogliere la loro gioia come la loro rabbia o paura o preoccupazione. Cercano la tua attenzione e il tuo ascolto, attraverso le loro azioni comunicano le loro emozioni e ciò che li tormenta. Hanno pensieri profondi e domande bisognose di risposte non superficiali che li aiutino a comprendere ciò che li circonda e che spesso non capiscono (la morte di un familiare, la separazione dei genitori, un genitore in ospedale per un intervento chirurgico,...).

Vogliono che tu sia veramente interessato a quanto hanno da dirti o da mostrarti e che tu sia pronto a cogliere e a gioire delle loro più piccole conquiste. Credo che, in sostanza, mi insegnino ogni giorno a mantenere viva e vigile la mia attenzione per cogliere le meraviglie che la vita ci dona. Spero di esserti stata utile.

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Il giorno giovedì 31 marzo, ore 9.39 Daniele Callini ha scritto:

Quello che scrivi è toccante. Mi riguarda molto da vici-no. E sai perché? Perché io da bambino ho dovuto creare sin da subito delle sovrastrutture. Per difendermi, per non soccombere, per non farmi schiacciare da adulti egoisti. Anche le sovrastrutture sono necessarie, talvolta. Il fatto è che poi queste si incrostano, si radicano, si calcificano. Poi riconoscerle e liberarsene non è affatto semplice. È bello incontrare bambini ancora liberi da queste pesanti "coraz-ze". Quando mi capita mi stupisco anch'io! E mi incanto, sempre e comunque. Sino a non molto tempo fa quando invece incontravo bambini "cinici", "tattici" mi infastidivo. Io ho dovuto essere così, nella mia infanzia: vigile, all'erta, invisibile, diffidente. Oggi guardo questo con meno arro-ganza e più distacco. Ma un sentimento di malinconia mi attraversa sempre e comunque. Allora con tutta la dignità di cui sono capace accolgo questa emozione e la metto vi-cina alle esperienze della mia fanciullezza. E ringrazio la vita, e gli stessi adulti che mi hanno donato l'opportunità di vivere e che si sono presi cura di me, come hanno potuto. E ringrazio anche i loro errori. Perché in tutto ciò c'è il germe del mio apprendimento. E ringrazio anche la mia rabbia, perché anche lei può essere ascoltata e può inse-gnarmi molte cose.

È bello leggere la tua passione per i bambini. Il giorno giovedì 31 marzo 2010, ore 20.45 Astrid Va-

leck ha scritto: Mi capita, a dire il vero non di frequente, di incontrare

bambini che le esperienze hanno già reso "duri". Di norma

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sono bambini piuttosto grandicelli come età, quelli dell'ul-timo anno, provenienti da altre realtà o scuole. A volte non mi è sufficiente un intero anno per fargli anche solo perce-pire la possibilità che si possa essere altro e ci sia spazio per non essere giudicati. Questo non vuol dire che mi vada bene tutto, anzi. Ma che non c'è bisogno di nascondersi dietro falsità o bugie pur di non essere sgridati. Ci sono cose che si possono fare e altre che non sono permesse: non si picchiano i compagni, non si sottraggono le loro co-se personali, non si strappano i loro disegni, per farti un esempio. Sono veramente dispiaciuta se al termine della scuola dell'infanzia non sono riuscita a strappargli un po' di leggerezza, però succede. Ci sono cose troppo grandi perché un bambino possa farsene carico da solo, ma non sempre gli adulti possono essere in grado di aiutarli con-venientemente. Sono limiti che accetto, anche se non mi piacciono.

Mi consola sapere che diventati adulti abbiano trovato una strada per riconciliarsi con se stessi e con coloro che li hanno cresciuti, come sei riuscito a fare tu. Temo che il mestiere di genitore e di educatore sia il più difficile che esista. Sarebbe comodo possedere un manuale di istruzio-ne, si eviterebbero tanti errori.

Prima che mi scordi di nuovo: sul prossimo numero del-la rivista Paesaggi Educativi esce l'intervista-diario16 che abbiamo fatto. I tempi sono sconosciuti: dipende dai fondi dell'Amministrazione cesenate.

Visto che non hai conosciuto Beatrice Carmellini17 ti al-lego una foto che ho scattato. Sullo sfondo ci sono due no-

16 A.Valeck, Quindici giorni. Intervista a Daniele Callini, in “Paesaggi Educativi”

n°30/2010, Il Ponte Vecchio, Cesena 17 Qualche informazione su chi è Beatrice e di cosa si occupa è reperibile all'indirizzo

www.mnemoteca-bs.it/

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stri amici e mio marito Ermes. Io al solito sono dietro la macchina fotografica, qualcuno che si occupi degli scatti ci vuole! Siamo a casa sua, alle spalle dei fotografati vi sono gli scaffali con tutte le storie di vita che ha raccolto negli anni. Domani andiamo a Firenze dove abita una nostra ca-ra amica e staremo con lei qualche giorno.

Buona Pasqua Il giorno venerdì 9 aprile 2010, ore 8.26 Daniele Cal-

lini ha scritto: Ciao Astrid riprendo con le altre domande, non ti spa-

ventare, non sono molte!!! Spesso mi domando come i bambini di oggi percepisco-

no la vita degli adulti, soprattutto attraverso la TV, la vita di comunità, la famiglia, la scuola, le istituzioni. La tua professione educativa rappresenta un micro-osservatorio privilegiato per affrontare questo tema. Insomma i tuoi bambini come vedono il mondo adulto? Le loro rappresen-tazioni dell'adultità confermano sempre le tue ipotesi op-pure ti è capitato di doverle rivedere? Di scoprire qualcosa di nuovo?

A presto. Il giorno venerdì 9 aprile 2010, ore 13.37 Astrid Va-

leck ha scritto: Non sono spaventata per il numero delle domande, anzi

mi diverto proprio, però, devo dirti che mi tranquillizza il fatto che non si tratti di "un compito in classe": con do-mande simili mi sarei giocata l'anno.

Mi hai messo in buca, non posso risponderti subito. Mi occorre qualche giorno e l'ausilio dei miei validi collabora-

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tori (i miei bambini), credo occorra un confronto serio con loro sull'argomento.

Bella maestra eh? Non solo casinista, pure disattenta. Mentre strolghi qualcosa di più facile (per me) io mi

metto all'opera. Credo ne verrà fuori una ricerca interes-sante. Grazie per l'opportunità e il suggerimento.

Ti contatto tra qualche giorno, perché prima di lunedì non torno a scuola...e mi tocca di restare con la curiosità!

Il giorno lunedì 12 aprile, ore 22.04 Astrid Valeck ha

scritto: Eccoti quanto è accaduto oggi. Buona lettura. Siamo in giardino sedute a terra. Lina18 è in braccio a

me. Intorno a noi i bambini corrono e giocano. I loro strilli si perdono nel vento e non disturbano la registrazione. An-drà ben diversamente quando rientriamo in sezione e l'am-biente angusto renderà difficoltoso l'ascolto. Dovrò più volte ripetere i discorsi dei bambini per poterli riascoltare. È una modalità che ho appreso nel tempo; il registratore è un ottimo strumento per poter essere costantemente parte-cipe alla conversazione (se ascolto e scrivo interrompo i bambini con il mio gesto), ma le voci dei bambini -molto spesso flebili- non si sentono in fase di riascolto, quindi devo ripetere ogni loro frase. Con questo gruppo di bam-bini – che hanno 4 anni - è la prima volta che adopero il registratore e alcuni non si fidano e mi chiedono di non partecipare. Assecondo questo loro desiderio, mi sembra giusto rispettare i loro tempi di fiducia e conoscenza, vi saranno altre occasioni. In effetti, rispetto ai cicli scorsi ho aspettato a lungo ad utilizzare il registratore, ma l'eteroge-

18 I nomi delle bambine e dei bambini sono inventati

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neità linguistica del gruppo rende veramente difficoltoso potersi confrontare: l'italiano continua a rappresentare un grosso scoglio e non so immaginare un altro modo per fare conversazione. Molti bambini non capiscono quanto chie-do loro.

Le interviste che seguono non sono, quindi, rappresenta-tive e non posso tentare di fare sintesi, credo, comunque, valga la pena di proseguire in questa direzione, magari con una ricerca più accurata e ampliata alla scuola Primaria, oltre che all'ultimo anno della scuola dell'Infanzia.

Della prima intervista ti ho trascritto tutta la conversa-zione tra me e Carolina, con le domande che le ho posto e le sue risposte, per gli altri bambini ho trascritto solo le lo-ro risposte, ma il senso delle domande emerge ugualmente.

Cosa mi ha sorpresa? Che il tempo dei “grandi” sia de-dicato al lavoro, e che i bambini nel loro futuro vedano studio e impegno; che è bello essere bambini, perché quel-lo che conta è che l'infanzia è dedicata al gioco. Interes-sante la percezione del lavoro della maestra: da colei che supervisiona il comportamento dei bambini (una sorta di contenitore?) a colei che somministra il pasto. Per fortuna ogni tanto giochiamo con i bambini, pitturiamo, facciamo attività manuali... Che dire poi di ciò che ci attende quando ce ne torniamo a casa? Dormiamo, ce ne stiamo tranquille, ci occupiamo dei nostri figli... Astrid: Mi provi a raccontare com'è il mondo delle persone grandi? Lina: Sì (ride). Astrid: Ti fa ridere questa domanda? Lina: Sì molto. (Ride ancora. Provo a porle la domanda in un altro modo.)

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Astrid: Secondo te, come vivono i grandi? Che cosa fanno? Lina: Fanno il lavoro, vanno a comprare le cose da mangiare, anche i dolci e mi raccontano le cose da fare...e raccontano le cose di quando erano piccoli...una volta mia mamma ...erano andati con la loro classe e lei si è persa, perché gli si era slacciata una scarpa e allora si doveva riallacciare la scarpa e poi dopo lei...era un casino, perché la classe era andata avanti e lei era lì ad allacciarsi la scarpa e lei non vedeva più la sua classe. Allora sono venuti dei signori a portarla dalla sua classe e le hanno detto: ”Ti sei persa?” e lei: “Sì, non ho più visto la mia classe” e poi dopo ha detto una bugia...e quei signori dopo l'hanno portata a scuola e dopo la maestra l'ha sgridata, perché era rimasta indietro. Poi dopo lei non gli piaceva più la pasta al pomodoro, perché gliela davano sempre e poi dopo ha detto una bugia: “Maestra...ehmm...la mia mamma ha detto che devo solo mangiare la pasta in bianco”. Astrid: Secondo te, Carolina, è più facile essere un bambino o essere una persona grande? Lina: Un bambino, perché puoi giocare sempre. I grandi, invece, devono sempre lavorare. Astrid: Secondo te, una maestra che cosa fa quando è qui a scuola? Lina: Urla. Astrid (rido): Carolina mi fai proprio ridere. Ma scusa, io urlo? Lina: A volte urli. Astrid: E poi, a parte urlare, cos'altro fa una maestra? Lina: E poi la maestra delle volte sgrida.

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Astrid (rido di nuovo): Bene, adesso che mi hai sistemata per benino, secondo te, quando io non sono a scuola, ma sono a casa mia, che cosa faccio? Lina: Stai a letto. Prepari la cena. Astrid: Lina, il tuo papà che è una persona grande, cosa fa? Lina: Sgrida. Stamattina, cioè...ha sgridato la Bea che si doveva pulire le scarpe e poi dopo ieri sera...e poi dopo stamattina lei si è pulita le scarpe che gli dice sempre: “Al mattino pulisciti le scarpe, pulisciti le scarpe” e poi dopo, lei l'ha fatto una mattina e lui l'ha sgridata, perché lo doveva fare la sera. E perché c'era attaccata tutta la cacca. Astrid: Grazie Lina sei stata molto gentile. Dunjia: Le maestre quando vanno a scuola, già a volte, che quando i bambini fanno i birichini li sgridano e quando le mamme...a parte che le mamme lavorano sempre, quando lavorano , e vanno... e poi lavorano e tornano a casa. A casa lavorano, poi fanno le pappe pei bambini, dormono, si svegliano, fanno la colazione. E dopo, quando vanno a lavoro, stanno con la nonna i bambini e gli piacciono a essere nel sole. A parte che le mamme vanno al lavoro, al lavoro si stancano, lavorano tanto e tornano a casa poi. Per mangiare, il nonno con la bambina, raccoglie l'erba che è così buona. Io c'ho l'erba a casa, c'ho l'erba da mangiare. Non si chiama insalata, è proprio erba. L'erba che si mangia direttamente, perché...a parte che l'erba non va...c'ha quei punti vicino che noi l'abbiamo raccolta e poi, noi, nella parte differenziata noi abbiamo raccolto dell'erba da mangiare e la dobbiamo dividere ancora perché è già cotta, fritta e quando la mangiamo noi, nella vita delle persone grandi, nel nostro cuore tutte le mamme vivono. È più facile essere una persona grande, perché le mamme lavorano. E poi è più facile fare i bambini che fare i

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grandi, perché i bambini chiedono delle cose, i bambini sono bravi, corrono e giocano. I grandi lavorano e basta, direttamente fanno la pappa e tornano. Tutte le mamme stanno nel cuore dei bambini, sai? Franco: Il mondo delle persone grandi è un mondo simpatico. I grandi studiano, fanno i compiti, fanno i giochi tipo... i colori...le costruzioni. Il papà e la mamma fuori di casa, quando facciamo i bravi noi e...ci fanno stare fuori in giardino. I miei genitori vivono bene: scrivono, ci fanno imparare noi, mi fanno imparare a leggere, scrivere. La maestra a scuola studia e fa i compiti, tu fai ...boh. Quando non stai a scuola tu stai a casa e fai da mangiare e poi basta. È più facile essere un bimbo che uno grande perché i bimbi fanno le costruzioni, scrivono, delle volte tagliano, delle volte fanno...io leggio , scrivo, disegno, taglio e basta! Dunjia: La maestra a scuola dà da mangiare e quando il cuoco Angelo prepara la pappa i bambini chiedono: “Maestra! eh...mi dai un po' di “citriolo”? Un po' di carota?” e le maestre dicono: “Sì”. Le maestre lavorano e poi dopo vanno con la macchina a casa, guidano e poi danno da mangiare ai suoi bimbi. Alej: Il mondo dei grandi è un po' brutto, un po' bello e un po' simpatico. Di bello fanno dei disegni belli, fanno sempre i lavori...di brutto fanno che non studiano, non vogliono dormire e neanche non studiano. Di simpatico...quando “qualcuni” uomini o donne ci salutano e dicono che sei bello! Mio papà lavora, dorme. La mamma invece si fa bella quando è ora di andare fuori e quando ai bambini fa coccole è bello e quando tutte persone fanno quello che...quello che è bello. La maestra dà da mangiare ai bimbi e quando i bimbi chiedono

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qualcosa, ai bimbi dà. E poi la maestra fa gli uccellini, fa le lumache, fa i bruchi e noi facciamo i lavori per attaccare su (Alessandro si riferisce agli addobbi sul tema della primavera che abbiamo preparato per allestire la scuola). A casa le maestre si riposano e stanno un po' tranquille. È facile fare il bambino, perché la cicogna deve fare molto tempo. Fare le persone grandi ...è facile anche loro, perché prima sono bambini e poi sono grandi. E poi quando sono grandi diventano persone. Io da grande divento un ragazzo che voglio studiare, voglio fare dei disegni belli. Dunjia: Io quando sono grande divento una ragazza...studio un problema...disegno bene, studio matematica e poi vado ...che mi piace suonare il violino, mi piace suonare la chitarra, mi piace fare ginnastica artistica, mi piace andare a pallavolo, mi piace andare anche a basket... Moreno: Il papà e la mamma vivono bene. Loro lavorano tutti i giorni. Tutti, tutti. Quando sono a riposo, però io non lo so cosa fanno. Quando hanno finito di lavorare stanno con il loro bimbo, no!? Insieme fanno le cose che vogliono loro. È facile essere un bambino, perché puoi giocare e fare tante altre cose. Invece se sei un grande puoi fare poche cose, perché bisogna fare il lavoro tante volte. La maestra a scuola lavora: bada i bimbi che non fanno niente di brutto, se no lo dicono alle mamme e ai papà o alle nonne. Insieme a te noi giochiamo e facciamo altre cose ancora come andare fuori in giardino come siamo adesso. A casa tu stai con i tuoi figli, no?! Mirna: Le persone grandi lavorano, preparano da mangiare, mettono a letto i bambini. Il mio papà va a giocare ad allenamento, quando arriva a casa fa da mangiare e poi si sdraia sul divano. La mamma si mette un

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po' nel divano e poi ci svegliamo. Insieme compriamo il gelato, andiamo al mercato...è più facile fare la persona grande, perché i grandi stanno senza giubbotto e invece i bambini devono tenerlo. Fare il bambino è difficile, perché dopo le mamme gli danno le sculacciate perché fa il birichino. Io vorrei fare delle cose che non mi sgridano...vorrei fare la bimba piccola. Io da grande voglio essere una mamma, una mamma che lavora con i bimbi piccoli (la maestra). La maestra a scuola sgrida i bambini, mette a posto i fogli, ci fate pitturare...a casa le maestre fanno da mangiare, vanno a letto, fanno colazione e mangiano il latte con i biscotti e fumano (l'unica sigaretta che ho provato avevo 15 anni, mai ripetuto l'esperimento. Nemmeno le mie colleghe fumano). Simone: Le persone grandi fanno i padroni di casa, e dopo lavorano e dopo guardano i cartoni animati e dopo lavorano molto e dopo vanno a vedere il fiume. Il mio papà quando non lavora guarda i cartoni animati e la mia mamma è a lavorare e quando torna si lava la mani, si cava le scarpe e dopo gioca con me e dopo andiamo giù a giocare nel campetto e dopo quando arriva la sera io vado a letto e il papà e la mamma mi leggono un libro. È più facile fare il bambino, perché è difficile fare i grandi, è difficile perché io mi stanco a lavorare. Io da grande divento come il mio nonno: un po' vecchio, che lavora tutti i giorni. Io da grande io voglio lavorare...voglio piantare i chiodi, voglio costruire dei robots difficilissimi, dopo voglio incollare e dopo quando arriva la neve, dato che io sono grande, che ho sette anni e ho iniziato a bere il latte, io spalo la neve. La maestra lavora...che te fai delle cose belle e dopo te fai l'appello e dopo quando siamo seduti sul tappeto te ci scegli per fare il gioco. A casa fai da

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mangiare al fratellino...quando è poi lunedì e martedì si ritorna a scuola, e dopo quando arriva sabato e domenica te stai a casa, e quando sei a casa puoi fare...eee...non lo so! Sasha: I grandi vanno in giro a compare il pane buono, prendono le patate al Mac Donalds, fanno giocare col pongo i bambini e giocano nei parchi. Le mamme vanno nel parco dei giardini dove ci sono i giochi e le mamme e i babbi vanno col bambino al giardino. Io quando sono grande e sono un papà aggiusto il libro di topolino. È più facile fare la persona grande, perché apri una bottiglia. Ramos: I grandi fanno i compiti. Il babbo mi sgrida sempre, perché faccio delle cose sciocche, anche la mamma mi sgrida. Io a casa guardo la tv, la mamma prepara la cena e il mio babbo va a stirare. Poi andiamo a mangiare tutti e dopo andiamo a fare un giro con la bici che ha due ruote e poi andiamo a comprare la spesa. È più facile essere grandi, perché hanno la bici con due ruote e i piccoli invece hanno le bici con quattro ruote. A me piacerebbe essere grande, perché i grandi possono litigare e i bambini no. Le maestre a scuola mangiano...quando qualcuno fa i dispetti lo mette seduto a pensare. Zara: Le persone grandi vivono nelle case. Vanno al lavoro. Vanno a comprare il cibo. La mia mamma va al lavoro, lava i piatti. Il mio papà va al lavoro anche lui e va a comprare il cibo e quando arriva a casa fa il cibo e quando abbiamo mangiato arriva la mamma. Le maestre fanno le cose per i bambini e quando fanno i birichini li mettono seduti, qualcuno beve il caffè, quando siamo seduti sul tappeto ci contate, pitturiamo. A casa le maestre dormono! Io da grande...la mia dice sempre che sono...uffa non mi ricordo la parola. Quando sono grande mi voglio

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truccare come la mamma. Sara (la sorella) mi dà il rossetto e quella cosa rosa sulle guance. La Sara mi fa le coccole e mi trucca anche. È più facile essere una persona grande, perché le persone grandi possono fare delle cose che i piccoli non possono fare (la registrazione è disturbata e non capisco quale sia questa cosa), noi non siamo più tanti piccoli perché abbiamo 4 anni, alcuni già 5 anni, e poi ci abbiamo che arriviamo ad avere 7 anni e poi 8 anni e poi 9 anni e poi 10 anni, come la Viola la sorella dell'Asia.

Il giorno mercoledì 14 aprile 2010 ore 8.08 Daniele

Callini ha scritto: ... molto interessante!!!! Invece tu, da bambina, come vedevi il mondo adulto?

Il giorno mercoledì 14 aprile 2010, ore 21. 21 Astrid Valeck ha scritto:

Credo di non aver mai riso tanto! Come vedi ho la stessa reazione di alcuni bambini. Sorpresa? Imbarazzo? La prima immagine che mi viene in mente, così di getto, è la favola di Cenerentola che durante la mia infanzia ho amato molto.

Un'altra immagine sono io che aiuto mia madre a rimettere in ordine e a pulire la nostra casa: un'impresa titanica. Ho passato con lei molti fine settimana, non consecutivi, a pulire, mentre mio padre e i miei fratelli si recavano a Berleta, in un campeggio annuale. Loro in vacanza per il week end e noi a pulire. La vocazione all'aiuto è qualcosa che alleno da lungo tempo. Non so se sia corretto chiamarla vocazione o apprendimento (con tutte le possibilità di aver appreso in modo errato), necessità o indole. Mi è stato chiesto di essere subito

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grande, cioè responsabile e matura, più matura della reale età anagrafica, cosa che mi riusciva particolarmente bene. Se il tempo dell'infanzia è il tempo per essere piccoli (in tutti i sensi), io questo tempo l'ho rifiutato, mi rendevo conto che i miei genitori, e soprattutto mia mamma, erano già molto presi, occupati e preoccupati per i miei fratelli (tra noi primi tre ci sono solo tre anni di differenza, poi ne sono giunti altri due). Comprendevo che il mio posto era accanto a mia mamma (cioè adulta) e non di fianco a fratelli quasi coetanei.

Ero una bambina seria, “musona” e pensierosa e non andavo per niente volentieri alla scuola materna!

Ciao Astrid

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Brevi note biografiche sulla curatrice Astrid Valeck è nata a Genova nel 1968 e vive a Meldo-

la. Si è laureata in Pedagogia e si sta specializzando in me-todologie autobiografiche presso la Libera Università del-l'Autobiografia di Anghiari. In gioventù, ha lavorato in Polizia Municipale, dove si è occupata di Educazione stradale, prima di passare definitivamente all'insegnamento. È docente presso la Scuola dell'Infanzia Statale ormai da parecchi anni. Dal 2000 collabora ed è redattrice della rivista di pedagogia e didattica “Paesaggi Educativi” edita da Il Ponte Vecchio. È stata recentemente eletta presidente dell'Associazione per la formazione del personale scolastico “Proteo Fare Sapere”, sezione di Forlì. È autrice e/o coautrice di romanzi e di diversi volumi a contenuto educativo, nonché di articoli di pedagogia e didattica. Ha una particolare passione per la scrittura e la documentazione.

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I Quaderni della Libera Officina I. D. Callini, I Frammenti Ricomposti, giugno 2010.

II. D. Callini, Il Coraggio, novembre 2010.

III. A. Valeck, Educazione e dintorni: dialoghi a distan-

za, gennaio 2011.