PROVOCAZIONI ETICHE TRA CRISTIANESIMO E FILOSOFIA … · Il telos non solo determina inizio e fine...

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1 DANIELE FAZIO PROVOCAZIONI ETICHE TRA CRISTIANESIMO E FILOSOFIA IN ROBERT SPAEMANN 1. Cristianesimo e filosofia per l’Occidente hanno costituito i pilastri dell’orizzonte culturale, etico e politico entro cui può essere inscritta la storia di un’intera civiltà. Dall’incontro tra l’istanza cristiana e la filosofia greca è sorta una costellazione concettuale che anche ai nostri giorni, nonostante le mutazioni culturali, risulta imprescindibile nei vari ambiti dell’esperienza umana. Le nozioni di persona, di natura, di ragione, di verità, di amore, di libertà sono solo alcuni esempi che possono essere adotti a testimonianza del fecondo apporto che le due istanze incontrandosi hanno potuto offrire. Nel corso del tempo varie sono state le modalità di incontro e confronto tra il cristianesimo e la cultura filosofica fino al punto che dopo la grande stagione della Modernità, la nostra epoca non solo è stata definita post-moderna, ma anche post-cristiana. Si segna così, un abbandono dell’orizzonte sia religioso sia filosofico che per due millenni ha caratterizzato la cultura occidentale. Se nichilismo e relativismo sono le cause che possono decostruire l’idea di una ragione capace di cogliere nella realtà la verità, il cristianesimo nell’epoca della globalizzazione risulta una istanza religiosa tra le altre e sicuramente non garantisce più in Occidente una omogeneità religiosa latrice di riflessi etici e culturali condivisi da tutti. La riflessione del filosofo Robert Spaemann ci sembra possa essere in maniera feconda analizzata attraverso questo particolare angolo visuale che non solo alimenta la riflessione esplicita 1 su questa tematica del filosofo tedesco, che ha offerto peraltro, anche un originale definizione di filosofia cristiana diversa, ovvero alternativa, alla prospettiva heideggeriana 2 , ma ancora di più, cristianesimo e filosofia, a partire dall’analisi della crisi della Modernità, possono essere considerati due fuochi attraverso cui l’orizzonte di pensiero di Spaemann – e quindi anche le sue proposte etiche – si espande, costituendo presupposto implicito delle sue svariate considerazioni in una sovrapposizione ovviamente non sempre scindibile 3 . Al compimento del suo ottantesimo genetliaco, Robert Spaemann fu salutato dalla stampa tedesca come il “difensore della dignità umana” si lasciava alle spalle circa quaranta anni di 1 Cfr. R. SPAEMANN, Cristianesimo e filosofia dell’epoca moderna, in ID., La diceria Immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità, a cura di L. Cappelletti e S. Kritzenberg, Cantagalli, Siena 2008. 2 Cfr. M. HEIDEGGER, Che cos’è la filosofia?, Il Melangolo, Genova 1997. 3 Ad un intervistatore che gli chiedeva quale fosse la relazione tra il suo esercizio filosofico e il suo impegno in campo cattolico ha risposto: «trova davvero che sia così impegnato? Io mi sento piuttosto semplicemente uno che a volte si trova a dire pubblicamente quel che di “cristiano” crede debba essere detto. Lei mi chiede se lo faccio nella mia qualità di filosofo o di cristiano credente. Quando rifletto ad alta voce sul cristianesimo, naturalmente lo faccio nella mia qualità di cristiano. Non potrebbe essere altrimenti. Il mio modo di essere cristiano, però, è sicuramente contrassegnato dalle mie idee filosofiche, e probabilmente vale anche il contrario». Sullo stato attuale del Cristianesimo. Un colloquio con Robert Spaemann dell’Aprile 1998, in R. SPAEMANN, La diceria immortale, op. cit. p. 189.

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DANIELE FAZIO

PROVOCAZIONI ETICHE TRA CRISTIANESIMO E FILOSOFIA IN ROBERT SPAEMANN

1. Cristianesimo e filosofia per l’Occidente hanno costituito i pilastri dell’orizzonte

culturale, etico e politico entro cui può essere inscritta la storia di un’intera civiltà. Dall’incontro

tra l’istanza cristiana e la filosofia greca è sorta una costellazione concettuale che anche ai nostri

giorni, nonostante le mutazioni culturali, risulta imprescindibile nei vari ambiti dell’esperienza

umana. Le nozioni di persona, di natura, di ragione, di verità, di amore, di libertà sono solo alcuni

esempi che possono essere adotti a testimonianza del fecondo apporto che le due istanze

incontrandosi hanno potuto offrire. Nel corso del tempo varie sono state le modalità di incontro

e confronto tra il cristianesimo e la cultura filosofica fino al punto che dopo la grande stagione

della Modernità, la nostra epoca non solo è stata definita post-moderna, ma anche post-cristiana.

Si segna così, un abbandono dell’orizzonte sia religioso sia filosofico che per due millenni ha

caratterizzato la cultura occidentale. Se nichilismo e relativismo sono le cause che possono

decostruire l’idea di una ragione capace di cogliere nella realtà la verità, il cristianesimo nell’epoca

della globalizzazione risulta una istanza religiosa tra le altre e sicuramente non garantisce più in

Occidente una omogeneità religiosa latrice di riflessi etici e culturali condivisi da tutti.

La riflessione del filosofo Robert Spaemann ci sembra possa essere in maniera feconda

analizzata attraverso questo particolare angolo visuale che non solo alimenta la riflessione

esplicita1 su questa tematica del filosofo tedesco, che ha offerto peraltro, anche un originale

definizione di filosofia cristiana diversa, ovvero alternativa, alla prospettiva heideggeriana2, ma

ancora di più, cristianesimo e filosofia, a partire dall’analisi della crisi della Modernità, possono

essere considerati due fuochi attraverso cui l’orizzonte di pensiero di Spaemann – e quindi anche

le sue proposte etiche – si espande, costituendo presupposto implicito delle sue svariate

considerazioni in una sovrapposizione ovviamente non sempre scindibile3.

Al compimento del suo ottantesimo genetliaco, Robert Spaemann fu salutato dalla stampa

tedesca come il “difensore della dignità umana”;; si lasciava alle spalle circa quaranta anni di

1 Cfr. R. SPAEMANN, Cristianesimo e filosofia dell’epoca moderna, in ID., La diceria Immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità, a cura di L. Cappelletti e S. Kritzenberg, Cantagalli, Siena 2008. 2 Cfr. M. HEIDEGGER, Che cos’è la filosofia?, Il Melangolo, Genova 1997. 3 Ad un intervistatore che gli chiedeva quale fosse la relazione tra il suo esercizio filosofico e il suo impegno in campo cattolico ha risposto: «trova davvero che sia così impegnato? Io mi sento piuttosto semplicemente uno che a volte si trova a dire pubblicamente quel che di “cristiano” crede debba essere detto. Lei mi chiede se lo faccio nella mia qualità di filosofo o di cristiano credente. Quando rifletto ad alta voce sul cristianesimo, naturalmente lo faccio nella mia qualità di cristiano. Non potrebbe essere altrimenti. Il mio modo di essere cristiano, però, è sicuramente contrassegnato dalle mie idee filosofiche, e probabilmente vale anche il contrario». Sullo stato attuale del Cristianesimo. Un colloquio con Robert Spaemann dell’Aprile 1998, in R. SPAEMANN, La diceria immortale, op. cit. p. 189.

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attività accademica nelle più importanti Università tedesche e rilevanti incarichi nelle Università di

Friburgo, di Rio de Janerio, di Salisburgo, di Parigi (Sorbona). E’ stato membro della Pontifica

Accademia per la Vita ed è attualmente membro dell’Accademia delle Scienze Sociali cinese. Ad

Heidelberg toccò a lui succedere alla cattedra di Hans Georg Gadamer. Nacque a Berlino il 5

Maggio 1927, in una famiglia che compì il passaggio dal luteranesimo al cattolicesimo. Rimase

immune dall’ubriacatura nazionalsocialista principalmente per tre motivi: l’educazione ricevuta in

famiglia, il catechismo e la letteratura tedesca4. Si formò alla scuola di Joachim Ritter in cui si è

cercato di elaborare una originale interpretazione della Modernità e della sua crisi che gioca sulla

dialettica di “scissione” e “conciliazione” e che risulta diversa e per certi versi opposta

all’elaborazione che ne darà la Scuola di Francoforte a partire dalla riflessione sulla dialettica

dell’Illuminismo. Tale scuola che tiene qualitativamente a riferimento il pensiero aristotelico e

quello hegeliano, può essere inserita nel movimento all’interno della filosofia tedesca del ‘900 di

riabilitazione della filosofia pratica aristotelica quale risposta meditata e aggiornata alle varie

problematiche che la Modernità stessa aveva posto e che da sola non avrebbe potuto assolvere,

decretando appunto la sua crisi. In questo ambito accademico, è possibile apprendere anche un

metodo di ricerca filosofico. Secondo l’attestazione di Odo Marquard5 alla scuola di Ritter

s’impara che comprendere è più importante di spiegare e che in tale cammino non si parte mai da

zero, ovvero si sottolinea la significativa importanza della dimensione storica;; che è meglio

sopportare la contraddizione piuttosto che giungere a vacue soluzioni conciliazionistiche e

dunque su questa scia l’idea che la costellazione filosofica migliore è quella che accolga un ricco

ventaglio di posizioni. E infine, il valore dell’esperienza della vita in ambito filosofico che

salverebbe la stessa filosofia dalla cecità.

Il pensiero di Robert Spaemann si dipana nell’ottica di una compensation di ciò che al

pensiero moderno manca per raggiungere gli obiettivi prefissati. La coscienza moderna non è in

grado di comprendere se stessa e quindi finisce per non valorizzare le sue conquiste. Uscire da

questo circolo significa cercare di introdurre un qualcosa di Incondizionato, un orizzonte metafisico

che compensi i punti deboli moderni. Proprio in questo senso Spaemann predilige seppur con

metodologia critica e scettica lo sguardo metafisico sulla realtà a cui ancora le sue prospettive

etiche, antropologiche e politiche6. La concezione di filosofia come “ingenuità istituzionalizzata”

rimarca il fatto che Spaemann si trova a dover ribadire ciò che di “ovvio” il pensiero moderno ha 4 Cfr. S. SATTLER, Intervista a R. Spaemann, “Focus”, n.47, 20 Novembre 1995, p. 142-148. 5 Cfr. O. MARQUARD, Apologia del caso, a cura di G. Carchia, Bologna, il Mulino, 1991. 6 «Da anni Robert Spaemann ha intrapreso i più interessanti e fruttuosi sforzi per un ritorno diretto alla metafisica». J. HABERMAS Il pensiero post-metafisico, a cura di M. Calloni, Laterza Roma-Bari 2006, p. 265. Tuttavia, l’affermazione di Habermas credo vada precisata in quanto il ritorno alla metafisica non avviene, sic et simpliciter, ovvero in maniera diretta, ma tiene conto del percorso storico di critica e abbandono della metafisica da parte della filosofia occidentale e viene arricchito da molte prospettive moderne.

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obliato7. Per questo motivo l’analisi spaemanniana della Modernità diventa critica non in un’ottica

meramente apologetica, ma ha la capacità di cogliere in dialogo con i grandi pensatori antichi e

medievali – Platone, Aristotele, Agostino e Tommaso – e con i pensatori moderni dell’area

francese e tedesca, i punti discriminanti che hanno condotto la Modernità alla “scissione” dalla

tradizione cercandone anche i punti di conciliazione senza sfuggire dalla presentazione dei suoi

esiti nichilistici. Tuttavia, la Modernità deve trovare la soluzione in se stessa per risolvere la

questione che manca. L’Illuminismo quale massima espressione della mentalità moderna pur

essendo un momento di rottura, non determina un definitivo disancoraggio dalla razionalità

filosofica occidentale, cosa che avverrà, paradossalmente, a partire dal pensiero

controrivoluzionario. Per “l’inattualità” di molte sue tesi, Spaemann, è stato anche appellato come

“un intellettuale conservatore illuminato” di cui si è scoperta anche la rarità ai nostri giorni e poi

ancora “un umanista cristiano” e allo stesso tempo “un radicale e un conservatore”8.

Al di là, però, delle varie etichette di critici e studiosi del suo pensiero – che se da un lato

tentano di definirlo riducendo a sintesi il suo orientamento filosofico, dall’altro ci fanno

comprendere la quasi impossibilità di inquadramento, oseremmo dire “ideologico”, del nostro

Autore – lo si può considerare come un pensatore poliedrico attento alla tradizione, ma anche

aperto a nuove proposizioni. Non si limita, dunque, al campo filosofico, ma nel procedere delle

sue argomentazioni non teme di fare incursioni nel campo storico, in quelle teologico, sociologico

e scientifico. La sua filosofia, allora, si riveste da un lato di un atteggiamento dialogico e dall’altro

contempla anche una sfida ben precisa nei confronti della scienza che, declinata sotto la

prospettiva ideologica dello scientismo9, tende ai nostri giorni ad impalcarsi quale risposta ultima

ed esaustiva delle questioni di fondo che riguardano la vita umana e che anche se poste con

termini nuovi sempre fanno cenno a quelle domande che animano l’essere razionale ovvero chi

sono? Da dove vengo? Dove vado? Perché la sofferenza? E che oggi si amplificano in che cosa è

la vita? Quando effettivamente inizia? Coincide l’inizio del flusso vitale con la vita personale?

Quando finisce? E così via… Siamo, dunque, concordi con Karl Adam che vedrebbe in

Spaemann “un pensatore costitutivamente indipendente”10.

7 «Di fronte alla modernità il filosofo si trova nella curiosa posizione di uno che dice cose che di per sé dovrebbero essere ovvie, ma che sono state così spesso e così profondamente dimenticate da apparire nuove se non addirittura provocatorie» L. F. TUNINETTI, Presentazione, in R. SPAEMANN, Natura e ragione. Saggi di antropologia, Edusc, Roma 2006, p. 8 8 cfr. L. ALLODI, Destra e sinistra dopo la modernità, in «Ideazione», 2, 2003. 9 «Lo scientismo si presenta quindi con la pretesa di dire anche a noi che cosa noi stessi siamo, ovvero che noi siamo parti di quella natura cui in precedenza abbiamo sottratto ogni somiglianza con l’umano e che abbiamo ridotto alla pura oggettività». R. SPAEMANN, Natura e ragione. Saggi di antropologia,op. cit. , p. 17. 10 Crediamo, in altri termini, che possa piacere a Robert Spaemann ciò che il pensatore realista cristiano, Gustave Thibon, scrive rispetto alle decantate posizioni ideologiche:«Spesso mi è stato chiesto: “siete di destra o di sinistra?” In questi casi rispondo immediatamente al mio interlocutore: “Che cosa intendete per destra e per

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Il percorso intellettuale del filosofo compendia la riflessione storico-filosofica che precede

e accompagna la riflessione teoretica annoverando considerazioni antropologiche, etiche e

metafisiche. Spaemann inizia a confrontarsi con pensatori-chiave della Modernità. I suoi primi

scritti di carattere storiografico analizzano i nuclei fondamentali del pensiero di Louis de

Bonald11, di Fènelon12 e di Jean Jacques Rousseau13. Misurandosi con tali pensatori scopre quello

che secondo la sua prospettiva è stato l’errore fatale, il “vizio” di fondo e la “malattia mortale”

del pensiero moderno: l’ “inversione” della teleologia alla mera conservazione. Tale inversione si

declinerà soprattutto come una riduzione alla dimensione esclusivamente immanente delle cose.

Da Platone a Tommaso d’Aquino, gli enti erano pensati e descritti considerando la loro causa

finalis, ovvero secondo un orientamento finalistico. Questa impronta sia che provenisse dal divino

come nel caso di Platone, sia che fosse intrinseca alle cose come per Aristotele, determinava il

telos presente nella natura e in particolare nella natura dell’uomo. Il telos non solo determina inizio

e fine degli enti, ma anche i loro limiti e li orienta verso uno specifico bonum14. La perdita di

questo orientamento viene rintracciato particolarmente nel pensiero controrivoluzionario e nel

suo ispiratore de Bonald, che spende le sue forze nel tentativo di contestare e confutare

l’espressione culmine della modernità: Illuminismo e Rivoluzione francese. Non è trascurabile

l’apprezzamento nei confronti di Bonald da parte di Spaemann, anche sull’onda degli studi

“riabilitativi” del suo maestro Ritter, tuttavia, proprio nel tentativo del pensatore francese di

trovare una visione alternativa al soggettivismo razionalistico moderno, egli scorge l’annidarsi di

quella tendenza non-teleologica che conduce alla funzionalizzazione dell’esistenza umana e della

religione. Rifiutando, infatti, come Spinoza e Hobbes la visione teleologica della natura, il fine

della esistenza diverrà la mera autoconservazione, le condizioni dell’esistenza, dunque, vengono

assoggettate a quelle della conservazione: «le leggi di conservazione di un essere sono in pari

tempo le leggi di realizzazione della sua esistenza, in quanto questa realizzazione non è altro che

sinistra?”. Le risposte che ottengo mi confermano nell’opinione che le nozioni di destra e di sinistra sono avviluppate, nello spirito della maggior parte dei mortali, in una verosimile nuvola di pregiudizi e di illusioni. Personalmente ricordo di essermi fatto trattare, nello stesso giorno, da odioso reazionario, perché affermavo che troveremmo la salvezza soltanto nella creazione di una nuova aristocrazia e da terribile socialista perché esprimevo qualche dubbio sulla legittimità della proprietà puramente capitalistica» E conclude in una posizione tutt’altro che relativista, ma superando questi parametri che forse alla mentalità di tale pensatore così come pure di Spaemann, sembrano, volendo parafrasare Nietzsche, umani troppo umani: «A coloro che ci accusassero di relativismo e di opportunismo, e ci rimproverassero di non prendere nettamente partito per questo o per quel movimento di destra o di sinistra, noi risponderemo che da sempre abbiamo preso partito per il centro di gravità dell’edificio» G. THIBON, Ritorno al Reale, Effedieffe, Milano 1998, pp. 13-15 11 R. SPAEMANN, L’origine della sociologia dallo spirito della restaurazione. Studi su de Bonald, a cura di L. Allodi, Laterza Bari 2002. 12 R. SPAEMANN, Reflexion und Spontanität. Studien über Fénelon. Klett-Cotta, Stuttgart 1990. 13 R. SPAEMANN, Rousseau. Cittadino senza patria, Ares, Milano 2009. 14 «ogni ente è tale in relazione alla sua attività, l’attività e il compimento più alto di una cosa, tutto agisce in relazione ad un fine» L. ALLODI., La modernità controversa. Analisi storico-sociologica e prospettive epistemologiche, Studium, Roma 2000, p. 119.

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autoconservazione»15. La prospettiva classica dell’eu zen – cioè di una vita riuscita – si appiattisce

sul semplice vivere. L’anelito alla perfezione è ridotto al desiderio biologico di autoconservazione.

Il compimento assoluto di tale concezione, in Bonald, avviene all’interno della sua teoria sulla

società, nel momento in cui la ragione del singolo viene quasi negata nel suo valore gnoseologico

ed etico a favore della società, luogo in cui si manifesta la volonté générale in cui è espressa la stessa

volontà di Dio. La lingua diventa il fattore principale con cui si può esprimere la ragione

oggettiva. La società, forma della conservazione, produrrà anche l’idea di Dio e della fede quali

funzioni della sua stessa conservazione. La profondità intellettuale di questo scritto – in cui si

trovano tutti i successivi sviluppi del pensiero di Spaemann – sta nello svelare che più che

nell’Illuminismo è nel pensiero controrivoluzionario che è stata abbandonata definitivamente la

metafisica tradizionale a favore di una metafisica della società e di un ontologismo sociologico

che fa di Bonald il padre della sociologia concepita come una sorta di philosophia prima.

Si apre così una direttrice di pensiero che attraverso Charles Maurras e l’Action il

cosiddetto “partito di Bonald”, malgrado Bonald stesso, giungerà alla sociologia di Auguste

Comte approdando ai nostri giorni nelle prospettive estreme di Niklas Luhmann che propone di

soppiantare la filosofia – o meglio l’idea della filosofia così come la tradizione l’ha trasmessa –

con il pensiero funzionalista sistemico. Stessa prospettiva viene utilizzata nell’accostare il pensiero

di Fènelon e di Rousseau. Per quanto riguarda il primo l’attenzione viene rivolta alla sua polemica

con Bossuet e al concetto di amour pur. A Fènelon va senza dubbio riconosciuto il merito di aver

posto tra i primi la questione della vita cristiana in un contesto “secolarizzato”. Tuttavia, la

risposta a tale problema prende la via, attraverso una particolare forma di teologia negativa, di un

ritorno alla tradizione mistica in cui la contemplazione, però, viene ridotta ad amour pur e in cui si

oscilla tra condanna ed esaltazione della riflessione e della spontaneità. Nasce così il quietismo,

una forma di libertinismo cristiano che nel tentativo di voler combattere il processo di

appiattimento dell’esistenza all’autoconservazione rimane ingabbiato in queste dinamiche, a causa

del disconoscimento del concetto aristotelico di natura, giungendo ad una forma di pessimistica

disperazione e assumendo a quadro teologico di riferimento solamente il grido di Gesù sulla

croce: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”(Mt 27,46). Infine, chiude il trittico il

“padrino” della Modernità, Rousseau. Il problema qui oscilla tra i concetti di natura e polis. La

lettura di Rousseau è data secondo quest’ottica:

«laddove viene abbandonato ogni concetto platonico-teleologico dell’essenza dell’uomo e laddove anche

l’immagine del Figlio dell’uomo non viene più accettata come risposta irrinunciabile alla domanda. “che cosa è

15 R. SPAEMANN, L’origine della sociologia dallo spirito della restaurazione. Studi su de Bonald, op. cit. p. 43.

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l’uomo?”, subentra una nuova versione dell’Ecce homo, la versione di Rousseau, la versione di Nietzsche […] la via che qui si apre è infinita»16.

Il pensatore ginevrino è all’origine della scissione tra l’uomo e il cittadino. Tale visione

affonda le sue radici nel rifiuto dell’essere sociale dell’uomo, visto allo stato di natura come una

“semibestia” che grazie o a causa del peccato originale si emancipa dal suo stato di minorità per

entrare nella società e divenire cittadino. Qui sembra che l’aut-aut sia netto: o si è homme naturel o si

è citoyen. Tuttavia, la riflessione di Rousseau si muove a stabilire l’impossibilità nelle condizioni

moderne di essere pienamente cittadino – il modello è quello spartano – a causa della visione

escatologica cristiana e quindi ripiega verso una prospettiva di emarginazione sociale in cui

l’uomo nelle condizioni del mondo borghese può tornare ad uno stato di natura superiore,

rispetto a quello primigenio. In queste oscillazioni ed antinomie Spaemann giudica Rousseau

come «il padre di tutti i moderni “modernismi” e “antimodernismi”: la Rivoluzione e la

Restaurazione, lo stato di diritto liberale e la dittatura popolare, la pedagogia antiautoritaria e il

totalitarismo, il cristianesimo romantico e l’etnologia strutturalista»17.

Studi significativi e di “raccordo” tra le analisi storiografiche e la riflessione teoretica sono

raccolti nel testo del 1977, Per la critica dell’utopia politica18, in cui si analizzano e criticano le

prospettive ideologiche ed utopistiche in relazione alla società e alla politica in diretta polemica

con la Scuola di Francoforte, con il pensiero di Habermas, con gli orientamenti delle cosiddette

teologie della speranza e della liberazione. Se da un lato l’obiettivo è polemico dall’altro il testo ha

una sua conformazione teoretica consistente che verte sulla ripresentazione del diritto naturale

nella consapevolezza che agire nella Modernità significa agire in un contesto in cui il sapere su ciò

che è giusto è stato smarrito e quindi la proposta interminabile di emancipazione mette la politica

in una condizione di non poter più soddisfare alle richieste che le vengono poste. Si evince la

pericolosità dell’utopia che porta su sentieri in cui l’uomo tragicamente non avrebbe nulla da

guadagnarci in quanto negatori della realtà. I vari saggi hanno un filo conduttore: «si tratta sempre

di obiezioni razionali contro l’utopia astratta di un domino radical-emancipatorio della ragione»19.

In un altro rilevante volume, scritto con un suo allievo, sulla storia della teleologia20, viene

analizzato il concetto di natura a partire dalla prospettiva teleologica antica e medievale fino a

giungere al confronto con il paradigma evoluzionista considerato un “finalismo senza fini”. Viene 16 R. SPAEMANN, Rousseau. Cittadino senza patria, op. cit. p. 20. 17 Ivi, p. 22. 18 R. SPAEMANN, Per una critica dell’utopia politica, a cura di Sergio Belardinelli, Franco Angeli, Milano 1995. Il volume italiano ha il pregio di raccogliere due saggi inediti rispetto all’originale tedesco nonché la prefazione per la pubblicazione italiana dello stesso autore. 19 Ivi, p. 17. 20 R. SPAEMANN- R. LÖW, Die Frage Wozu? Geschichte und Wiederentdeckung des teleologischen Denkens, Piper, München-Zürich 1981, tr.it. Fini naturali. Storia & riscoperta del pensiero teleologico, tr. it. e cura di L. Allodi e G. Miranda, ed. Ares, Milano 2013.

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assunto così il diritto naturale aristotelico quale elemento ermeneutico critico. Con questo si apre

l’orizzonte di riflessione più marcatamente teoretico che possiamo suddividere secondo una mera

classificazione didattica in scritti di natura etica21, antropologica22 e metafisica23.

Per Spaemann «l’etica e l’ontologia si costituiscono uno actu, nell’intuizione dell’essere come

esser-sé, del proprio come dell’altro»24. In questo senso è improbabile pensare ad una etica senza

metafisica. L’essere è Selbstsein – esser-sé, ciò significa che l’essere sta al di là di ogni oggettualità e

la persona umana ne rappresenta un paradigma. La teoria è l’ambito in cui l’oggettualità viene a

prendere corpo, invece l’esser-sé si manifesta nella prassi che è la vita della persona. Non si può

parlare di essere se non a partire da contesti pratici. Solo nell’esperienza originaria – precedente

alla strutturazione di ogni speculazione – l’uomo può aver chiaro il mostrarsi dell’essere che è “al

di là” e quindi non ha un “al di là” come indicherebbe Emmanuel Lévinas. In prospettiva etica,

quindi, Spaemann riattualizza il concetto aristotelico di eudaimonia, di vita riuscita o di felicità

ponendola come fine della persona. Il discorso sulla vita riuscita più che un termine da

raggiungere, appare quel luogo di mediazione tra l’antropologia e l’etica che segna un

trascendentale dell’agire umano. Proprio l’esito ultimo del paradigma scientifico moderno ha

negato tale possibilità insita nell’orientamento dell’agire umano e che riguarda

l’autocomprensione che l’uomo ha di se stesso, orientando le sue azioni ad un bene, costituendo

di per sé, già tale direzione un incondizionato che non sopporta la riduzione al funzionale.

L’etica spaemanniana, allora, può essere definita un’etica eudaimonistica e come tale

concepita come risposta positiva alle questioni poste della Modernità. Aristotele registra una certa

frizione tra le necessità della natura e l’aspirazione alla contemplazione e all’incondizionato, cosa

che viene superata nell’ottica platonica e cristiana in cui v’è il tentativo di armonizzare in ciò che

motiva l’azione morale come soddisfazione e felicità unificati nell’amore del bene come tale. La

felicità, infatti, ha da realizzarsi nell’amor benevolentiae ovvero in una condizione in cui l’uomo

comprendendo il suo fine riesce ad ergersi al di sopra del suo essere istintuale e grazie alla

ragione, concepita forma della vita, destarsi alla realtà. In questo senso viene rinnovata la

prospettiva tomista secondo cui la carità è la forma della virtù. Questo è possibile solamente se,

superando il dualismo moderno di natura e spirito, la ragione viene messa in continuità con la

natura. Essendo l’uomo il solo ente in cui l’istinto è interpretato dalla ragione, può assumere uno

sguardo benevolente non solo diretto ai suoi simili, ma anche sulla realtà non cosciente ed

21 R. SPAEMANN, Concetti morali fondamentali, a cura di L. F. Tuninetti, Piemme, Casale Monferrato 1993; ID. Felicità e Benevolenza, a cura di M. Amori, Vita e Pensiero, Milano 1998. 22 R. SPAEMANN, Natura e ragione. Saggi di antropologia, op. cit.; ID. Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, a cura di L. Allodi, Laterza, Roma – Bari 2007. 23 R. SPAEMANN, La diceria Immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità, op. cit. 24 R. SPAEMANN, Felicità e benevolenza, op. cit. p. 7.

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inanimata che lo circonda, considerando, attraverso una visione antropomorfica, ogni ente quale

soggetto con una finalità realizzante intrinseca. Sta proprio qua il fondo del pensiero ecologico

spaemanniano25 e le sue posizioni bioetiche. L’amor benevolentiae, considerata la finalità di ciascun

ente, ci dice che bisogna innanzitutto lasciar essere ciò che è. Questa prospettiva coglie in sé una

funzione ontologica, una funzione di fondamento morale e una funzione felicitante, che avremo

modo di approfondire nel proseguo del nostro studio. Due sono i grandi “capitoli” se così

possiamo esprimerci della riflessione etica di Spamann26, da un lato una sorta di “morale vivente”,

che riguarda le regole di comportamento riconosciute e dal’altro la capacità dell’uomo di

interrogare tali regole propria dell’etica filosofica.

L’ultimo sforzo di Spaemann – al momento attuale – è stato quello di riuscire a dare una

dimostrazione dell’esistenza di Dio. La sua speculazione è interessante perché si appella alla realtà

dell’esistenza della persona e alla memoria delle esperienze. Se noi infatti, siamo capaci di dire il

futuro anteriore – futurum exactum – parlando di una esperienza vissuta affermiamo sì il passato,

ma anche il nostro “ora”. Allora s’impone la domanda: chi ricorderà ogni gioia e ogni dolore

quando neanche l’uomo più ricorderà? Si dà così la necessità dell’esistenza di un Essere Cosciente

Assoluto che tutto conservi. Anche in questo caso l’idea di Dio è legata alla realtà della vita

dell’uomo tanto che è possibile dire: o Dio esiste o la nostra esistenza è un auto illusione. Anche

questo aspetto troverà più avanti il suo luogo esplicativo.

2. In alcuni scritti si può trovare l’originale analisi che il pensatore tedesco svolge rispetto al

rapporto tra cristianesimo e filosofia, ponendo particolare attenzione all’intreccio delle due

istanze nella Modernità. È indispensabile a questo proposito anche segnalare come attraverso il

rapporto tra Cristianesimo e filosofia, Spaemann consideri la storia di concetti fondamentali

nell’orizzonte culturale occidentale che in questo ambito hanno visto la loro nascita, i loro

sviluppi e i loro mutamenti. Se la riflessione del filosofo tedesco, infatti, – come scrive Sergio

Belardinelli – ruota attorno a due ordini di problemi di cui «il primo riguarda la coscienza

25 Cfr. D. Fazio, Robert Spaemann; teleologia ed ecologia, in AA.VV., Ma dì soltanto una parola, ...economia, ecologia, speranza per i nostri giorni, a cura di E. Garlaschelli, G.Salmeri, Paolo Trianni, EDUCatt, Milano 2013, pp. 345 -357 26 È interessante notare che i maggiori studiosi del pensiero di Robert Spaemann abbiano concepito il suo pensiero come connotato di una forte valenza etica. Il pensatore tedesco, pur non concependosi di per sé un filosofo morale – in quanto ontologia ed etica si costituiscono per lui uno actu – in qualche modo ha accettato questa comprensione. La motivazione plausibile di questa percezione è così spiegata: «l’etica gioca un ruolo quantitativamente molto rilevante in ciò che ho scritto. Si tratta di qualcosa che in verità non ho mai voluto. Io ho sempre avuto l’idea della filosofia come della dottrina di ciò che sempre è. E la forma suprema di filosofia mi è parsa la metafisica[…]. I contributi di tema etico in realtà sono tutti originati da provocazioni. Mi sono sempre sentito sfidato». R. Spaemann – H. G. Nissing, Die Natur des Lebendigen und das Ende des Denkens. Entwicklungen und Entfaltungen eines philosophischen Werks – Ein Gespräch, in H. G. Nissing, Grindwollzüge der Person. Dimensionen des Menscheseins bei Robert Spaemann, Institut zur Fördeung der Glaubenslehre, München 2008, pp. 125- 126.

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moderna, i suoi limiti e la sua crisi;; il secondo la riproposizione della teleologia e del diritto

naturale come criteri, alla luce dei quali affrontare i problemi più scottanti dell’etica e della politica

contemporanea»27, in essa emerge come il concetto di natura è colto in tutta la sua profondità e

analizzato attraverso il percorso del pensiero europeo nelle sue “metamorfosi”, quale

“segnalatore” di un mutato approccio alla realtà in generale ed alla realtà umana in particolare. Di

notevole interesse è il concetto di filosofia cristiana che emerge dalle argomentazioni

spaemanniane, da intendersi quale il risultato della complessa opera di riduzione a concetti

filosofici dei dogmi cristiani, tanto che sarebbe meglio parlare di cristianesimo filosofico. A

questo si aggiunga l’attenta analisi delle tre modalità con cui il cristianesimo e la filosofia in tal

periodo si sono confrontati. Alla luce di questo rapporto simbiotico e problematico che in tutta la

storia dell’Occidente si è realizzato tra le due istanze, l’Autore, attento osservatore del panorama

odierno che tenta di inglobare in un orizzonte funzionalistico sia la religione che la filosofia,

propone una base di possibile incontro tra le due istanze. Secondo Spaemann la società moderna

visse di presupposti pre-moderni e se la società post-moderna non vuole ridursi a barbarie deve

considerare questi presupposti come irrinunciabili. È la proposta di una via alternativa al

“secolarismo radicale” di cui Nietzsche è l’antesignano.

Prima di esporre la triplice rappresentazione storiografica e concettuale che Robert

Spaemann offre circa il rapporto tra il cristianesimo e la filosofia nel contesto della Modernità

sono doverose alcune premesse che riguardano il cammino compiuto dalle due istanze

nell’Antichità o per meglio dire nella Tardo Antichità e nel Medioevo. La storia della cultura

europea e occidentale è segnata non secondariamente dall’incontro tra una religione storica: il

cristianesimo e un particolare tipo di sapere sviluppatosi in Grecia che è la filosofia. Tra

l’orizzonte greco e quello semitico da cui il cristianesimo deriva, vi erano stati, già ancor prima

della predicazione apostolica ed in particolare di quella paolina, degli incontri. Uno tra tutti – ci

sembra importante ricordarlo – consiste nella cosiddetta traduzione dei Settanta, ovvero nella

traduzione dei testi biblici veterotestamentari dall’aramaico in greco, circa due secoli prima della

nascita di Cristo. Tale traduzione ancora viene usata nella divina liturgia da parte della Chiese

ortodosse. Da questo si può desumere che in qualche maniera i due orizzonti, pur nella loro

irriducibilità non erano poi così nettamente separati. La dominazione romana ulteriormente

favorì un notevole abbattimento di “confini culturali” favorendo una certa conoscenza reciproca.

Il cristianesimo sin da subito si presentò nello scenario dell’Antichità con una vocazione

fortemente universale e quindi come una religione a cui tutti gli uomini dovevano volgersi per

ottenere la salvezza. Esso annuncia che il Logos divino è divenuto carne ed è una determinata 27 S. BELARDINELLI, Presentazione, in R. SPAEMANN, Per una critica dell’utopia politica, op. cit., p. 7.

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persona: Gesù di Nazareth. L’aspirazione di ogni uomo alla verità troverebbe il suo compimento

in questa Rivelazione, in quanto colui che è rivelato di sé ha detto: «Io sono la via, la verità e la

vita»(Gv 14,6).

Il rapporto del cristianesimo con la filosofia così come analizzato da Robert Spaemann,

all’inizio fu «ambivalente»28. Ciò dipese anche dalla particolare declinazione che la filosofia aveva

preso nel contesto culturale antico. Essa, infatti, non era semplicemente l’insegnamento di una

disciplina, bensì designava un universo morale e vitale, a cui gli adepti avrebbero dovuto aderire,

scegliendo, ovviamente, tra le varie proposte. Se da un lato, il cristianesimo, non trovando alcuna

possibilità di intesa con il politeismo greco-romano, era chiaro che dovesse optare per un dialogo

con la filosofia antica – che da parte sua svolgeva per certi versi una critica, anche serrata, nei

confronti delle religioni pagane – dall’altro, pur trovando delle affinità notevolissime con il

pensiero filosofico, - si pensi, ad esempio, al presunto scambio epistolare tra San Paolo e Seneca

– nessun cristiano avrebbe potuto aderire ad una “scuola” filosofica antica e ciò sancì un iniziale

atteggiamento emulativo e di competizione29. Agostino d’Ippona notò, acutamente, che platonici

e cristiani su molti punti insegnavano le stesse cose. «Perché allora proprio se insegnano le stesse

cose, i cristiani non sono platonici? Perché philosophia nella tardo antichità, non significa puramente

e semplicemente una disciplina scientifica o un insegnamento, ma sempre anche un bios, un way of

life, una scuola intesa come comunità di vita e di pensiero»30. Tuttavia, il cristianesimo, senza farsi

assorbire dalle scuole filosofiche, usò molto bene le armi concettuali che provenivano da questo

orizzonte per presentare alla cultura greco-romana la sua dottrina. I concetti di sostanza, di

natura, di persona, di relazione costituirono gli strumenti per spiegare il dogma trinitario, la

duplice natura di Cristo e l’unità della sua persona e allo stesso tempo tale incontro arricchì e

trasfigurò gli stessi concetti filosofici, aprendo, ad esempio, la strada per una nuova antropologia.

È ragionevole, ad esempio, allora, pensare con Spaemann che

«la storia del concetto di persona è la lunga storia di un cammino che, se richiamato alla mente ci porta per un

momento nel cuore della teologia cristiana. senza la teologia cristiana ciò che noi oggi chiamiamo “persona” sarebbe rimasto qualcosa di non definibile e il fatto che le persone non sono avvenimenti semplicemente naturali non sarebbe riconosciuto. Questo non significa che il suo impiego sia significativo soltanto a partire da determinati

28 R. SPAEMANN, La diceria immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità, op. cit., p. 62. 29 A tal proposito una testimonianza ci può venire da interessanti ritrovamenti archeologici. Verso la fine del III secolo a Roma sulle tombe dei cristiani è possibile trovare la raffigurazione di Cristo oltre che come pastore anche come “filosofo” con il Vangelo in una mano e il bastone nell’altra. Ciò rivela il fatto che in un contesto dove la filosofia veniva concepita come l’arte essenziale dell’essere uomo, l’arte di saper vivere e di saper morire, i cristiani “in polemica” con i filosofi presentavano Cristo come il “vero filosofo” ovvero colui che veramente ha il potere di svelare il senso della vita all’uomo. Il contesto funebre in cui tale raffigurazione è impiegata indica che solo Cristo apre all’uomo le porte della vita vera. Con il Vangelo egli insegna la verità che i filosofi pagani vanamente ricercavano e con il bastone vince la morte. Cristo, perciò, è il vero maestro di vita che supera i filosofi presentando la via della verità che è Egli stesso e schiudendo oltre la morte la vita eterna, compimento della felicità umana. 30 R. SPAEMANN, La diceria immortale, op. cit. 62.

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presupposti teologici, per quanto sia ipotizzabile che la scomparsa della dimensione teologica alla lunga potrebbe implicare anche la scomparsa del concetto di persona»31.

Solo dopo lo scioglimento delle scuole filosofiche e la chiusura dell’Accademia di Atene

con l’editto di Giustiniano del 529 ha fine il rapporto concorrenziale tra cristianesimo e filosofia,

ma già qua la Tardo Antichità stava cedendo il posto ad una nuova era, quella medioevale.

Nel Medioevo il rapporto tra filosofia e cristianesimo fu di subordinazione. La filosofia

veniva pensata nell’alveo degli studi quale ancilla theologiae. Questo, secondo Spaemann ha avuto

anche effetti positivi. Innanzitutto, quale effetto del Cristianesimo si è potuta compiere la «de-

ideologizzazione»32 della filosofia. Avendo condotto, poi, nell’alveo della teologia il senso ultimo

delle cose, la filosofia si avvalse di un ampio spazio di libertà nell’affrontare le più svariate ipotesi

di lavoro, tanto che «l’insegnamento della filosofia verte sul possibile e sul necessario. Sulla realtà

di tipo contingente sono soltanto l’esperienza, da una parte, e dall’altra la Rivelazione ad

insegnare»33. In quest’ottica, l’etica nei suoi fondamenti viene ricondotta alla dottrina della lex

naturae stoica e alla dottrina delle virtù aristotelica, quindi su un terreno che la sola ragione umana

può cogliere;; la novità della Rivelazione cristiana, però, sta nell’aver reso possibile, grazie

all’evento dell’Incarnazione, un amor amicitiae tra Dio e l’uomo, impensabile dalla semplice

ragione. Quindi, se da un lato è Dio ad aver scritto nel cuore dell’uomo la legge morale, dall’altro

l’uomo può soddisfare pienamente alle esigenze del suo essere nell’accoglienza della grazia,

attraverso cui si ottiene la salvezza: Gratia supponit naturam, non solo ma anche Gratia perficit

naturam. La cifra della grazia è la caritas, motivo per cui Tommaso d’Aquino, come già accennato,

presenta la caritas come forma virtutum. Se la filosofia può, dunque, esercitarsi su ciò che è possibile

e necessario, non può offrire, però, alcuna visione del mondo ed un orientamento di vita, come

facevano le scuole filosofiche antiche. Ecco perché Spaemann è convinto che il Medioevo, cioè,

«la grande epoca cristiana non fosse a conoscenza del concetto di filosofia cristiana;; San

Tommaso d’Aquino non ha preteso che la sua fosse una filosofia cristiana. Gli elementi essenziali

della sua filosofia sono mutuati da Aristotele e precedentemente i Padri della Chiesa avevano

preso molti spunti dalla filosofia di Platone. Entrambe, sia la filosofia aristotelica che la filosofia

platonica sono non cristiane»34 e quindi, «si potrebbe dire addirittura che la filosofia medievale si

guardava bene dal voler essere filosofia cristiana»35.

31 R. SPAEMANN, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, op. cit., p. 20. 32 R. SPAEMANN, La diceria immortale, op. cit. p. 63. 33 Ivi, p. 64. 34 Dall’uomo a Dio, tra cristianesimo e filosofia. Un colloquio con Robert Spaemann, a cura di Daniele Fazio, in Cultura & Identità. Rivista di studi conservatori, Anno II, n° 7, sett.-ott. 2010, p. 17. 35 R. SPAEMANN, La diceria immortale, op. cit. p. 66.

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E così giungiamo alla Modernità. Il rapporto tra il cristianesimo e la filosofia può essere

colto in un duplice movimento da un lato l’emancipazione della filosofia da un contesto teologico

e dall’altro il tentativo di integrazione del cristianesimo nell’alveo della filosofia, nella convinzione

che la sua espressione religiosa non riuscisse a comprenderlo abbastanza. Se, dunque, per il

Medioevo il concetto di filosofia cristiana risultava estraneo, nell’epoca moderna si può pensare a

qualcosa che possa chiamarsi filosofia cristiana o forse meglio cristianesimo filosofico. Tale

tendenza fu preparata dal nominalismo tardo medievale che allarga quasi all’infinito il raggio di

ciò che è contingente, preparando così il terreno per lo sviluppo delle scienze sperimentali e

riconduce la morale nell’ambito delle convenzioni. Adesso tutto deve essere provato, anche che

Dio sia in tre persone. La religione cristiana in definitiva non viene creduta in forza della sua

verità universale, ma perché per gli europei rappresenta una sorta di “religione nazionale”, di

costume di popolo. Tale orientamento genererà dopo la frattura religiosa protestante il principio

del cuius regio eius religio e le affermazioni di Hobbes, antesignane in qualche modo della statolatria

ideologica del Novecento, secondo cui è l’autorità a fare la legge e non la verità36. Commenta

Spaemann: «la filosofia si concepisce ora come l’unico luogo della verità che oltrepassa spazio e

tempo»37. Su questa scia si comprende anche come nel XVIII secolo il termine filosofia e filosofi

designeranno per l’Illuminismo «la bandiera di un partito»38, che in nome della ragione, concetto

giocato in qualche modo in maniera ideologica, raccoglierà coloro che mettono in questione la

pretesa della religione cristiana di avere validità universale.

Prima, però, di vedere più precisamente che modalità assume il rapporto tra il cristianesimo

e la filosofia, vale la pena, seppur brevemente, di enunciare l’interpretazione della Modernità che

scaturisce dal pensiero di Spaemann sulla scia degli studi della Ritter-Schule. L’ermeneutica del

moderno è determinata dalle categoria della “scissione”. La Modernità è all’origine di interessanti

conquiste, quali ad esempio l’emancipazione dell’uomo, ma a causa della negazione o

dell’inversione della teleologia, ha gradualmente eliminato i presupposti su cui poter fondare e

mantenere le sue conquiste. Il centro di tale percorso per Spaemann è legato per molti versi al

mutamento del concetto di natura. Grazie alla dottrina biblica della creazione fu possibile

compiere una grande sintesi del pensiero teleologico che ebbe il suo compimento nel Medioevo,

l’idea della natura era caratterizzata dalla prospettiva teleologica, dall’analogia e dal riferimento

all’azione dell’uomo. L’ottica in cui si muoveva era antropomorfica. Agli albori della Modernità il

rifiuto della teleologia, la separazione tra il naturale e il soprannaturale e l’idea di uno status naturae

purae autosufficiente permettono lo spostamento da una visione antropomorfica ad una visione

36 Cfr. T. HOBBES, Leviatano, a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma 2005. 37 R. SPAEMANN, La diceria immortale, op. cit., p. 67. 38 Ivi, p. 68.

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antropocentrica, la separazione tra l’essere personale e l’essere naturale dell’uomo e

l’incommensurabilità tra natura e storia39. La conservazione diventerà tra tutti il bene più

grande40.

Spaemann, analizzata l’inversione della teleologia a mera conservazione che genera un

sistema in cui le condizioni di esistenza degli enti sono soggette alle condizioni della loro

conservazione, individua alcuni punti deboli41 della struttura moderna: l’idea di libertà come

emancipazione, ovvero una concezione della libertà che recide i legami con il passato e presenta

tutta la sua cecità circa il futuro, il mito del progresso necessario e indefinito, l’aspirazione ad un

totale dominio della natura attraverso la tecnica e la conseguente riduzione della ragione a ragione

strumentale, ovvero l’espressione di una scienza che comprende la qualità attraverso la quantità

svolgendo un’opera di “matematizzazione” del sapere, la separazione rigida tra oggetto e

soggetto, per cui il reale viene appiattito sull’oggettività, il cui risultato è «un inevitabile

impoverimento dell’esperienza di vita e l’accantonamento di ciò che è proprio della vita come

non significativo»42 e l’ “ipotesizzazione” della vita43, cioè la prospettiva secondo cui si debba

vivere senza certezze ultime e definitive cosicché la sfera morale e l’elemento religioso vengono

liquidati in una struttura ipotetico – funzionale. Spaemann non nega che la morale e la religione,

così come Dio e la fede in Lui possano essere anche utili per la struttura sociale, ma questo non

deve indurre minimamente ad assorbire tali termini in un orizzonte funzionalistico, in quanto la

loro verità è altra rispetto alla loro possibile funzione44, perché l’ assoluto non può essere pensato

per equivalenti. Tale orizzonte di pensiero ha generato una forma di razionalismo critico, che in

nessuna maniera può esser considerato baluardo contro le tendenze totalitarie, solo la

riproposizione di un Incondizionato che possa segnare il ritorno ad un’ottica teleologica potrà

39 «In precedenza l’uomo si sapeva in mezzo alle altre creature e con il privilegio, unico, di decifrare il resto del senso delle cose così come quello della propria vita, anch’essa protesa verso una partecipazione all’eternità di Dio. Si sapeva altrettanto bisognoso della comunità politica, della società in cui il rapporto amicale con gli altri era una condizione indispensabile per la vita felice. Più ancora, grazie alla Rivelazione, si sapeva invitato all’amicizia con Dio, che rendeva possibile una vita eternamente felice nella Visione. Ma se ora l’uomo deve trovare la sua perfezione nella sua natura pura, cioè se da una parte non si tiene più conto del suo carattere “aperto” e, dall’altra, si rifiuta il soprannaturale, egli perde allo stesso tempo il posto preminente che gli facilitava la contemplazione dell’essere e del senso delle cose, alla luce – in analogia – di ciò che egli stesso è» P. SABUY SABUNGU, Persona, Natura e Ragione. Robert Spaemann e la dialettica del naturalismo e dello spiritualismo, Armando Editore, Roma 2005, p. 80. 40 Cfr. R. SPAEMANN – R. LÖW, Die Frage Wozu? Geschichte und Wiederentdeckung des teleologischen Denkes, Piper, München – Zürich 1985. 41 Cfr. R. SPAEMANN, Philosophische Essay, Reclam, Stoccarda, 1983. 42 L. ALLODI., La modernità controversa. Analisi storico-sociologica e prospettive epistemologiche, op.cit., p. 131. 43 Cfr. R. SPAEMANN, Per una critica dell’utopia politica, op. cit. 44 Questo è il nucleo fondamentale della critica che Spaemann rivolge al pensiero del Visconte Louis de Bonald nella cui direzione si pongono successivamente Charles Maurras e Auguste Comte che daranno il via al funzionalismo moderno, la cui espressione fondamentale è lo scientismo: cfr. R. SPAEMANN, L’origine della sociologia dallo spirito della restaurazione. Studi su de Bonald, op. cit..

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invertire l’orientamento in definitiva nichilistico della Modernità che notevolmente si complica

nel passaggio d’epoca che si suole definire come post-modernità.

Riprendendo, ora, il nostro itinerario circa il rapporto che questa filosofia “emancipata”

assume nei confronti del Cristianesimo nel contesto moderno precedentemente descritto,

possono essere individuate tre forme. La prima, tipica dell’Illuminismo francese e della

speculazione di David Hume, concepisce la filosofia quale Weltanschauung esplicitamente opposta

al cristianesimo ecclesiale. La filosofia torna ad essere secondo questa visione un modo di vita,

che si declina come scettico e chiuso al trascendente ben espresso dalla frase di Hume: «we never

really advance a step beyond ourselves»45, sovente ricordata nei testi di Spaemann, come prospettiva che

«conduce alla lunga all’esaurirsi dell’avventura della filosofia»46. Acutamente, servendosi anche del

pensiero nietzschiano, il nostro Autore fa notare che la «dialettica dell’Illuminismo è fondata nella

sua fede nella verità, sulla cui radice teologica lo stesso illuminismo affonda la scure»47.

La seconda forma, più complessa della semplice alternativa rappresentata dal radicalismo

illuminista, ci presenta il tentativo di una integrazione del cristianesimo all’interno della filosofia.

Perché ciò possa avvenire occorrerà che il cristianesimo sia depurato dal suo carattere di religione

rivelata e soprannaturale, i suoi dogmi dovranno essere ricondotti nei limiti della ragione e il suo

fondatore più che manifestazione dell’Incondizionato, dovrà esser considerato niente di più che un

grande e sublime maestro di morale. Dio viene nel suo ruolo positivo estromesso dal mondo: «la

filosofia razionalista cerca ora […] di comprendere Dio come il luogo dell’eterna necessità della

ragione. Egli è il creatore delle leggi della natura, ma non interviene mai nella natura. Egli non si

rivela come Signore della natura in avvenimenti contingenti: non ci sono miracoli. Si trasforma,

per così dire, in un monarca costituzionale che governa solo attraverso leggi generali»48.

Paradossalmente, questo percorso secolarizzante per Spaemann è quasi un effetto collaterale

della dottrina morale cristiana, che non annoverava niente di specificamente cristiano, anzi

prevedeva che indipendentemente dalla Rivelazione dei “Dieci Comandamenti”, la lex divina e

quindi la lex naturae fosse inscritta nel cuore di tutti gli uomini. Adesso, perciò, il diritto naturale

viene sottratto alla fede e viene usato contro di essa:

«l’identificazione di un Cristianesimo non confessionale con una religione razionale e naturale fu resa

possibile dalla tradizione cristiana stessa, la quale non ha mai insegnato una morale cristiana particolare ma ha considerato l’etica cristiana come teoria della lex naturae in quanto forma dell’applicazione della lex aeterna: Dio non ha comandato nulla all’uomo – scrive Tommaso d’Aquino – che non possa essere comunque riconosciuto dalla ragione come qualcosa di conveniente per l’uomo. Come afferma Paolo nei pagani la lex divina è inscritta nel cuore 45 D. HUME, Opere filosofiche I, Trattato sulla natura umana, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 80. 46 Intervista a Robert Spaemann, a cura di Matteo Amori, in Philosophical News. Rivista di filosofia, n. 1 settembre 2010, p. 14, consultabile al sito: www.philosophicalnews.com. 47 R. SPAEMANN, Società post-secolare? in AA.VV., Verso una società post-secolare?, a cura di S. Belardinelli, L. Allodi, L. Gattamorta, Rubettino, Soveria Mannelli 2009, p. 100. 48 R. SPAEMANN, La diceria immortale, op. cit. p. 69.

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indipendentemente dai Dieci Comandamenti. La dottrina cristiana della legge morale naturale è una forma di sintesi della dottrina aristotelica delle virtù e della morale razionale stoica. Ora essa viene di nuovo sottratta all’ambito della fede nella Rivelazione e posta alla base di una teoria morale razionale, alla quale, se prescindiamo dai materialisti francesi, appartiene anche la fede in Dio»49.

La pretesa universale del cristianesimo viene fatta coincidere perciò con la pretesa

universale della ragione filosofica. Si riduce così il cristianesimo al suo messaggio morale,

togliendo da esso ogni elemento salvifico. Il peccato e la redenzione, i miracoli, la divinità di

Cristo e la sua resurrezione sono semplicemente considerati elementi mitici e il cristianesimo così

svuotato diventa il paradigma della comune ragione umana, per cui è naturale che tutti gli uomini

nel loro processo di umanizzazione debbano divenire naturaliter christiani. Così la filosofia,

emancipatasi dal contesto teologico cristiano si occupa della motivazione ultima dell’uomo. Da

religione rivelata il cristianesimo viene concepito come “religione naturale” espressione della

ragione: «tutto ciò che puramente “positivo” – “statuario”, come Kant dice, è in fondo

indifferente. Serve, come anche il culto, solo ad una certa preparazione dell’animo per le eterne

verità della ragione»50. Per Rousseau il Vangelo non insegna altro che le verità che il cuore

potrebbe insegnarci da sé e quindi presenta necessarie verità di ragione. Chi meglio di tutti è

riuscito a esprimere i misteri o dogmi cristiani sub specie philosophiae è indubbiamente Hegel.

Secondo Spaemann, «l’intera filosofia di Hegel è il tentativo di formulare un cristianesimo

filosofico. In Rousseau, nella sua filosofia non tutti i misteri della fede avevano trovato posto.

Hegel tenta di compiere questo passo […]. Egli vuole far sparire la distinzione tra dogmatica

teologica e filosofia»51. E, tuttavia, i dogmi del peccato originale e della redenzione sono quelli che

più hanno resistito a questa riduzione razionalistica. La colpa originale fu compresa come una

teoria storico-culturale, che si poté strutturare in quanto il concetto di natura umana nella

Modernità venne privato del suo carattere teleologico, aprendo così infinite possibilità nella

definizione dell’humanum. Perciò, ad esempio, Rousseau ci rappresenta una nuova antropologia

storica, tutta giocata nel paradosso, in cui l’uomo è chiamato alla emancipazione dallo stato di

natura e «la voce che richiama l’uomo da l’etàt naturel è la voce di Dio e del male insieme»52.

Nell’idealismo tedesco il diventare uomo dell’uomo, così come spiega Spaemann, coincide con la

colpa originale e i concetti di alienazione e rivoluzione in Marx ci richiamano la colpa e la

redenzione storica e terrena che riguardano l’uomo. Non è un caso che le ideologie moderne si

presentino come dei veri e propri messianismi secolarizzati che si sono serviti di suggestioni

pseudo-religiose. «Non si parla, perciò, più di una condizione di peccato (che sta prima di ogni

49 R. SPAEMANN, Società post-secolare? , op. cit. p. 98. 50 R. SPAEMANN, La diceria immortale, op. cit. p. 71. 51Dall’uomo a Dio, tra cristianesimo e filosofia. Un colloquio con Robert Spaemann, a cura di Daniele Fazio, in Cultura & Identità. Rivista di studi conservatori, op. cit., p. 18. 52 R. SPAEMANN, Rousseau, cittadino senza patria. Dalla «polis» alla natura, op. cit., p. 97.

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tempo storico) dell’uomo nei confronti di Dio, ma di un avvenimento empiricamente ricostruibile

al principio della storia umana»53. È bene, dunque, far notare che «il testo biblico dice tutt’altra

cosa e che quindi conduce a conseguenze diverse»54 e perciò questi vari tentativi tesi alla

subordinazione dell’esperienza religiosa, elaborata in un sapere, alla filosofia, non possono non

rivelare la loro “opacità”55. Il tentativo di Hegel di risolvere la teologia in logica, in Marx si è

realizzato nel suo contrario cioè, «nel progetto di una terrena storia della salvezza rivoluzionaria

che concepisce l’intero contenuto della filosofia occidentale solo come funzione auto-

fraintendente e sovrastruttura del processo storico-sociale»56. In altri termini, questo cammino

inteso come secolarizzazione si è sviluppato nel tentativo di ristabilire le esigenze della ragione e

di ciò che è ragionevole, sganciandosi dalla fonte della Rivelazione e quindi definire la natura e ciò

che è naturale nel solo riferimento alla dialettica con il razionale. Si deve tuttavia comprendere,

secondo Spaemann, che «l’antitesi tra ragione e fede disconosce il fatto che la fiducia nella

ragione stessa è una fede e di certo una fede carica di presupposti ultimi»57.

Il terzo polo che caratterizza il rapporto tra il cristianesimo e la filosofia nella Modernità,

scaturisce dall’opposizione alla risoluzione delle teologia cristiana nella logica filosofica

dell’orizzonte hegeliano, operata in particolar modo da Friedrich Schelling. Ad Hegel viene

obiettato che in fondo non ha inteso adeguatamente la realtà fattuale della Rivelazione cristiana

per cui gli fu possibile ri-comprendere il cristianesimo in un contesto logico. Nel tentativo di

confronto con le tesi hegeliane, Schelling fonda una nuova attitudine filosofica, una filosofia «che

pretende di diventare positiva nel senso che la realtà contingente stessa deve essere pensata dalla

53 R. SPAEMANN, La diceria immortale, op. cit., p. 74. 54Dall’uomo a Dio, tra cristianesimo e filosofia. Un colloquio con Robert Spaemann, a cura di Daniele Fazio, in Cultura & Identità. Rivista di studi conservatori, op. cit., p. 18. Un interessante saggio di Spaemann mette a confronto il naturalismo, lo spiritualismo e l’individualismo con la dottrina cattolica del peccato originale. Alla fine ne desume nell’ottica di una rinnovata comprensione del dogma che la spiegazione di questo nella sua genuinità e senza alcun tentativo di riduzione razionalistica debba muoversi per prima cosa nell’ottica del «superamento di un concetto di persona che interpreti la natura in modo naturalistico e la soggettività in modo spiritualistico e la metta in un radicale reciproco contrasto. Solo se diventa chiaro che la persona ha una dimensione naturale e la natura ne ha una spirituale, il pensiero di un’ “ereditarietà” della colpa diventa realizzabile». In seconda istanza, tale dogma può essere compreso se viene concepita l’umanità come una comunità solidale. Ciò «non consiste nel fatto che l’umanità è per così dire una comunità solidale nella colpa, ma al contrario, che essa in base ad una originaria colpa, ha cessato di essere una comunità solidale» e quindi il peccato originale non è «una qualità positiva che ognuno eredità dai progenitori ma la mancanza di qualcosa che avrebbe dovuto avere, cioè la perdita dell’appartenenza ad una comunità di santi, perché l’umanità non lo è più». Per converso se la colpa si è persa come popolo si pone la necessità della mediazione di un popolo per averne riscatto: questo è la Chiesa come popolo di Dio che attraverso la fede e i sacramenti cancella tale colpa. Cfr. R. SPAEMANN, Alcuni problemi riguardanti la dottrina del peccato originale, in R. SPAEMANN, C. SCHÖNBORN, A. GÖRRES, Tutta colpa loro? Un filosofo, un teologo e uno psicanalista a confronto sul peccato originale, tr. it. A. Leopold, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2008, p. 51. 55 Cfr. A. FABRIS, Filosofia del peccato originale, Edizioni Albo Versorio, Milano 2008. 56 R. SPAEMANN, La diceria immortale, op. cit. p. 77. 57 R. SPAEMANN, Società post-secolare?, op. cit. p. 99.

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filosofia»58. La filosofia smette di essere pura scienza della ragione e va incontro al contingente

diventando una sorta di empirismo filosofico. Tale direzione ha avuto fortuna nell’ambito della

filosofia della religione russa e il pensiero di Vladimir Solov’ev, che si muove cercando di

superare sia la prospettiva della teologia sia quella della filosofia della religione in un tertium più

alto, può esserne una testimonianza59. Il tentativo di opporsi alla risoluzione della teologia in

logica è meglio illustrato dal pensiero di Søren Kierkegaard attraverso la presentazione della fede

come paradosso irraggiungibile per la ragione umana e quindi quale orizzonte inarrivabile da

parte della filosofia. L’autenticità dell’umano sta nel saper stare davanti a Dio e tale modo

richiama la figura di Abramo, come uomo di fede in antitesi a Socrate, come maestro di una

verità immanente e rinchiusa nell’io. La religione ritrova se stessa al di là della riduzione alla

morale, il filosofo danese «ha inaugurato un processo che ha costretto la teologia a concentrarsi di

nuovo su ciò che le è proprio»60.

Anche la teologia però, ha ricevuto da questi movimenti delle nuove direzioni: come

l’attenzione del teologo Water Kasper verso la filosofia di Schelling, l’elaborazione di un

approccio trascendentale alla teologia di Karl Rahner e l’abbozzo di un’estetica teologica da parte

di Hans Urs von Balthasar. Nel Novecento, inoltre, si sono sviluppate forme teologiche

influenzate soprattutto dal marxismo su cui verte la critica del filosofo tedesco in quanto ritiene

che «non sia possibile dedurre massime politiche da principi teologici»61 perché è proprio «nel

carattere apolitico della teologia che si produce […] un benefico effetto politico antitotalitario»62. In

definitiva, l’errore della teologia della liberazione e della teologia della speranza politica sta nel

gioco ambiguo circa il contenuto dell’annuncio salvifico considerato in un ottica meramente

terrena e nel voler dare alla politica rivoluzionaria una fondazione teologica senza che questa di

suo ne necessiti. Nonostante ciò o anche per tal ragione, la simbiosi tra filosofia e cristianesimo

non può essere negata e Spaemann pensa che con l’oblio dell’orizzonte cristiano, molti concetti

filosofici quali quello di persona63, di contingenza, di libertà che si sono potuti elaborare a partire

dal confronto delle due istanze, possano scomparire.

58R. SPAEMANN, La diceria immortale, op. cit. p. 76. 59 «Solov’ev dialoga con la filosofia europea, in specie con l’idealismo tedesco dal quale soprattutto agli inizi, prende a prestito schemi e lessico, ma lo fa con una libertà e una creatività, sconosciute agli altri. Ad esempio, mettendo la dialettica hegeliana al servizio della filosofia schellinghiana dell’Essente, riconosciuta come l’elaborazione filosofica moderna della Rivelazione cristiana, così come la patristica greco-bizantina ne era stata l’elaborazione antica». N. BOSCO, Vladimir Solov’ev. Cristianesimo e modernità, Ed. Messaggero di Sant’Antonio, Padova 2005, p. 6. 60 R. SPAEMANN, La diceria immortale, op. cit., p. 77. 61 S. BELARDINELLI, Presentazione, in R. SPAEMANN, Per una critica dell’utopia politica, op. cit. p. 12. 62 Ibidem. 63 Sul versante antropologico, considerando lo scenario del rapporto simbiotico tra filosofia e cristianesimo, per cui se si obliasse quest’ultimo anche la prospettiva filosofica in qualche maniera ne subirebbe i contraccolpi, è interessante segnalare il confronto che Spaemann mette in campo tra due tipi di azione: quella che definisce il

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Quale futuro, dunque, si può pensare per i rapporti tra filosofia e cristianesimo, in un

contesto in fieri e liquido quale quello post-secolare? Per prima cosa si deve registrare che

l’impresa di rinchiudere la teologia cristiana in un apriorismo filosofico è fallita. Poi occorre

rendersi conto che il cristianesimo, nel mondo globale, è una religione tra tante, misconosciuta

nel suo aspetto universale, e quindi la filosofia che cerca motivi di ragione comune a tutti gli

uomini non ha più nessun interesse nel coincidere con esso. Secondo il filosofo tedesco, allora, «il

futuro […] dovrà essere segnato da una coesistenza, uno sforzo di teologia e filosofia intorno a

temi comuni, senza che questi sforzi siano coordinati attraverso una previa decisione metodica»64.

In altri termini, nel postmoderno, epoca segnata da sforzi contingenti non può scomparire il

riferimento alla verità, anche se viene detta con linguaggi diversi, pena la degradazione a barbarie.

La fede cristiana si presenta come verità ultima, certamente, ma non spiega tutti i paradigmi del

mondo e d’altro canto la filosofia non può interpretare ed integrare con autenticità questa fede,

ma rinunciando ad un sistema chiuso di interpretazione del mondo può rimanere aperta ad essa

che si offre come “luce” nelle tenebre e “lucerna” per i passi dell’uomo.

Da questo itinerario si può anche ricavare l’identità ultima che in Spaemann hanno

religione e filosofia, la prima «è il rapporto dell’uomo con l’assoluto, con il divino. Non l’identità

con sé stesso di ciò che è finito, ma l’adeguatezza a ciò che è assoluto, e per questo l’unico

criterio di questo rapporto deve essere la verità»65. La filosofia è riflessione sulle domande ultime

e non può essere ingabbiata in metodi pre-ordinati e previamente decisi;; essa non solo può essere

riflessione su ciò che accade, ma anche sulla comprensione di ciò che accade, in quanto anch’essa

è accadimento. Un sole che sorge, dice Spaemann, non è semplicemente un fatto naturale, ma

anche un fatto singolare per ogni uomo che lo ammira e per questo diventa anche motivo di

gratitudine: «l’universo è un singulare tantum»66 e proprio «la fede esige la prospettiva – potremmo

dire etica – del singulare tantum»67.

“tipo tecnico-razional-utilitaristico” e quella che definisce il “tipo liturgico”. Ora mentre la prima si occupa di raggiungere qualcosa al di fuori di essa, la seconda si preoccupa della giustezza e della bellezza dell’azione. In questo Spaemann vede l’alternativa tra l’orizzonte antropologico personalista designato dall’incontro tra filosofia e cristianesimo e l’oblio di esso rappresentato dall’ultimo uomo o dall’uomo nuovo nietzschiano a cui lo scientismo, considerato con Habermas una cattiva filosofia, cerca di condurre. Cfr. R. SPAEMANN, L’ «ultimo uomo» e l’uomo nuovo: modernità e cristianesimo, in AA. VV., Il futuro dell’uomo. Fede cristiana e antropologia, a cura del Servizio Nazionale per il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, Ed. Dehoniane, Bologna 2002, pp. 41 – 54. La fede cristiana in una “civiltà ipotetica”, cioè funzionale, per il nostro Autore, rappresenta «la forma più alta della razionalità» e «il dogma cristiano potrebbe […]diventare il rifugio dell’umanità dell’uomo». R. SPAEMANN, La diceria immortale, op. cit., p. 212 e p. 215. Concezioni simili a queste possono essere rintracciati in pensatori dell’area tedesca quali Romano Guardini e Josef Pieper. 64 R. SPAEMANN, La diceria immortale, op. cit. p. 80. 65 Ivi, op. cit., p. 122. 66 Intervista a Robert Spaemann, a cura di Matteo Amori, op. cit. p. 14. 67 Ibidem.

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3. Il modo di essere cristiano di Spaemann è contrassegnato dalla sue idee filosofiche e

viceversa. Il filosofo tedesco ci ha messo su questa strada per poter penetrare in qualche maniera

i fondamenti della sua prospettiva. Certo è difficile allora, data la sovrapposizione delle due

istanze che concorre alla sua forma mentis fare un’operazione di netta separazione tra ciò che è

tipicamente cristiano e ciò che è tipicamente filosofico. Non solo sarebbe quasi impossibile, ma

anche svilirebbe in qualche modo l’originalità della proposta del filosofo tedesco. Certo queste

due istanze sono i due fuochi, i due termini da cui si procede, ma il cammino che si compie vede

l’intrecciarsi e il provocarsi dell’una e dell’altra. Non sembra ci sia un metodo predefinito della

loro presenza, ma solo lo sforzo da un lato di allargare la ragione conclusiva moderna e dall’altro

di vedere nel cristianesimo più che un punto di partenza un ragionevole punto di arrivo di molte

questioni. Cercheremo, dunque, in questa parte conclusiva del nostro studio, di enucleare

all’interno della prospettiva antropologica, etica e metafisica di Spaemann gli aspetti che più ci

sembrano esser il risultato di un fecondo rapporto tra l’esercizio della ragione e l’indicazione della

fede cristiana, che non pochi studiosi hanno indicato avere una coloritura spiccatamente etica.

Se la questione centrale su cui si attira l’attenzione è la riconsiderazione della teleologia, essa

non può che trovare nello sfondo teologico cristiano creazionista il suo maggiore sostegno. È il

Dio Creatore, infatti, che infonde alle cose un fine, creandole secondo una ben precisa e distinta

natura. Aristotele aveva intuito in parte questa dinamica quando con il termine methexis andava ad

indicare la partecipazione dell’essere, della sostanzialità al divino. Questa tracciava una tendenza

degli enti verso una causa finale che è Dio, in quanto motore che muove verso un fine. La

tradizione ebraico-cristiana, rafforza e supera questa concezione, infatti, non solo Dio è causa

finale, ma è anche causa efficiente di tutte le cose. Il significato ultimo dell’apporto del

cristianesimo sta nel fatto che adesso il mondo con i suoi esseri è rapraesentatio del divino, anche

se con una sostanziale distinzione: «gli esseri non razionali aspirano per natura, physei, e

incoscientemente alla rapraesentatio del divino, nella misura del possibile attraverso

l’autoconservazione e la riproduzione. L’essere dotato di logos, l’uomo gli assomiglia anch’egli

physei, eppure può ugualmente tematizzare immediatamente questo telos del bello e del divino»68.

In altri termini possiamo dire che questa condizione per quanto riguarda l’essere dotato di

ragione ha ovviamente da essere riconosciuta e non può espletarsi in maniera automatica.

3.1. La persona è un nucleo primario da cui possiamo partire. Persona è termine che ci

richiama l’incontro tra cristianesimo e filosofia di cui sopra abbiamo analizzato le connessioni.

Questa di per sé nell’ottica di Spaemann richiama una caratteristica imprescindibilmente legata al

68 R. SPAEMANN- R. LÖW, Die Frage Wozu? Geschichte und Wiederentdeckung des teleologischen Denkens, op. cit., p. 74.

20

proprio statuto che definiamo dignità. Quest’altra parola, però, può essere solamente compresa

nella sua profondità solo se il corredo antropologico a cui si fa riferimento vede nell’uomo e cerca

in lui una armonizzazione tra la natura e lo spirito. Il paradigma dell’essere è la persona e la

dignità è termine che ne garantisce l’incondizionatezza, ovvero la sua dimensione metafisica: «la

dignità dell’uomo non ha una “ragione” biologica. Ma avere dignità è una conseguenza

dell’appartenenza biologica alla famiglia degli esseri liberi»69. La polemica che intraprende

Spaemann contro la prospettiva di Derek Parfit e di Peter Singer, secondo cui è persona solo chi

risponde a determinati requisiti e qualità, è incentrata sul fatto che nell’essere personale non vi

sono salti, ovvero l’apparizione dell’essere personale è un tutt’uno con la dimensione naturale -

biologica dell’uomo. Non vi si può installare perciò alcuna distinzione tra diritti umani e diritti

della persona, anzi è molto pericoloso tentare di farlo, in quanto la possibilità di decisione sulla

dignità dei singoli uomini si affiderebbe così alle convenzioni umane:

«se parlare di diritti dell’uomo in generale deve avere un senso è necessario che la pretesa a tale diritto non sia

attribuita da altri uomini, ma appartenga da sé all’essenza dell’essere che fa valere tale diritto. ‘Da sé’, tuttavia, può significare soltanto per natura. Se per una fondazione della dignità questa umana, oltre alla semplice appartenenza al genere umano, fosse necessaria qualche altra specifica qualità empirica allora il riconoscimento di un uomo come tale si troverebbe a dipendere da altri uomini, cioè da quelli che definiscono queste qualità e che, nel caso specifico, decidono della loro presenza. Ma ciò implicherebbe senza dubbio la rinuncia dell’essenza propria dei diritti dell’uomo, ossia all’indipendenza dalle definizioni e dai giudizi degli altri»70.

Se vogliamo scoprire il fondamento e la pregnanza del termine persona, occorre per

Spaemann, volgerci necessariamente all’orizzonte ebraico-cristiano e concentrarsi sulla parola

“cuore”. L’essere personale che ha una ragione, non può essere identificato totalmente con essa,

né tanto meno può essere identificato con il suo trend istintivo. Il cuore non è la ragione che

conosce, ma non governa la persona, esso è il luogo delle decisioni più profonde quelle che

permettono alla persona di accogliere o meno le determinazioni che vengono dall’esterno e più

ancora il luogo in cui si decide di aderire o meno alla verità che nell’orizzonte cristiano non è

principalmente una dottrina, ma l’accettazione o il rifiuto della Rivelazione di Dio, in Gesù

Cristo71. In altri termini è l’incontro con una persona, con un volto concreto, con cui si può, se si

vuole, instaurare una relazione autentica, un “atto di fede”. Il male è mancare questo

riconoscimento e chiudersi in stessi. Il male, dunque, genera la mancata conoscenza, l’ignoranza,

diversamente alla prospettiva socratico-platonica in cui è l’ignoranza a generare il male. Pascal in

relazione alle facoltà dell’uomo così afferma: «noi conosciamo la verità non soltanto con la

69 R. SPAEMANN, Tre lezioni sulla dignità della vita umana, Lindau Torino 2011, pp.48-49. 70 R. SPAEMANN, Felicità e benevolenza, op. cit., pp. 150 – 151. 71 Su questa accoglienza si gioca tutta la fede cristiana, infatti del Logos che s’incarna si dice: “venne tra la sua gente ma i suoi non l’hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio” (Gv 1, 11-12).

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ragione, ma altresì col cuore;; ed è in questa seconda maniera che conosciamo i principi primi, ed

invano il ragionamento, che non vi ha affatto parte, s’ingegna di combatterli»72. Per Spaemann:

«questo concetto del cuore è lo stesso che si trova alla base di quello successivo di persona. Esso significa

qualcosa come la scoperta della persona. Questo viene sottolineato ancora dal fatto che la decisione tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre non è una decisione rispetto a un’idea, ma rispetto a una persona che è considerata la Rivelazione autentica della verità, cosicché il Cristo giovanneo vede il peccato vero e proprio nel momento in cui dice “essi non mi credono” e in un altro passo può dire “Se io non fossi venuto […] essi non avrebbero alcuna colpa. La conoscenza della verità viene pensata come atto personale di “fede”. La verità stessa non appare come il generale sovraindividuabile, ma come concreto volto di un altro individuo»73.

Persona, così, è sempre un qualcuno, un soggetto individuabile, un volto concreto, e mai

un qualcosa, perché non è una istantaneizzazione di un’essenza. È nel potere dell’uomo quindi

prendere una posizione rispetto alla sua natura. Questo prendere posizione, rispetto

all’accettazione o meno di ciò che sono, per gli uomini si declina come libertà. Questi hanno una

natura, che non determinano loro, ma allo stesso tempo possono arrestarsi innanzi ad essa e non

riconoscerla: «possono liberamente far proprie le leggi essenziali di questa oppure infrangerle e

“degenerare”»74.

Nella prospettiva religiosa cristiana, il Nostro Autore, vede la possibilità e il richiamo di

sottrarre alla dimensione meramente naturalistica la vita dell’uomo. Se l’uomo coincidesse, sic et

simpliciter, con la sua biologia, sarebbe semplicemente un individuo della sua specie e l’apertura

che determina il concetto di persona si annullerebbe. Oltre l’esperienza fenomenologica che ci

testimonia la ristrettezza di una visione meramente naturalistica e allo stesso tempo ci allontana

da una dimensione meramente idealistica, anche la prospettiva cristiana ci porta su un’altra via:

«se la soggettività viene intesa religiosamente, la si può concepire come persona, dunque come essente, che

viene “pensato” originariamente in quanto soggettività e che si deve a un tale essere pensato. Il carattere immemorabile dell’essere non distrugge il pensiero nella sua intenzione di verità, di svelamento dell’essere, a partire dal presupposto che l’immemorabile stesso sia pensato come soggettività, dunque personalmente»75.

Sia l’idealismo che il materialismo appaiono come utopie irrealizzabili, lontani dalla realtà

umana e la loro dialettica si può svolgere solo nell’ambito del puro pensiero. Entrambi se

diventassero fattuali sancirebbero l’abolizione dell’uomo e la scomparsa della persona. L’ultimo

baluardo di difesa antropologica, sembra proprio essere la religione. Afferma Spaemann: «è un

errore che perdura nel nostro tempo credere che si possa abbandonare una visione religiosa della

72 B. PASCAL, Pensieri, a cura di B. Segre, Biblioteca Ideale Tascabile, Milano, P. 231. 73 R. SPAEMANN, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, op. cit. p. 23 74 Ivi, op. cit. p. 34. 75 Ivi, op. cit., p. 92.

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realtà senza perdere anche qualcos’altro, qualcosa a cui non saremmo molto disposti a

rinunciare»76.

Il cristianesimo, per l’espressione antropologica cui rimanda, rappresenta il superamento

della dialettica idealismo – materialismo, in quanto riconosce che l’uomo ha una natura, ma essa

non lo possiede, anzi lui stesso ne è il possessore. L’atto creativo che ne determina la struttura

teleologica è l’indicazione – e non la costrizione – della volontà del Creatore. In questa volontà

personale, e non nella forza della mera natura, si origina il cosiddetto “diritto naturale”. Rispetto a

questa natura resta sempre, altresì, la libertà di adesione o meno della stessa persona, in quanto

nessuna gerarchia di valori di per sé, anche riconosciuta eminente, può costringere un soggetto a

sottomettervisi. Qui, però, subentra un altro concetto: quello di responsabilità, che scaturisce

dalla domanda: perché è preferibile comportarsi in un determinato modo rispetto ad un altro? E

implica sempre la comprensione sul “di che cosa” essere responsabili e soprattutto nei confronti

di chi esserlo. La responsabilità deve porsi sempre davanti ad un’istanza non mutabile, non

manipolabile dallo stesso individuo. E anche su questo versante la prospettiva religiosa ci

permette l’allargamento di sguardo necessario per scendere nel mistero della persona. La

responsabilità verso se stessi se contempla la prospettiva religiosa non diventa un riferimento

vuoto ed arbitrario, né tantomeno si allarga a dismisura fino alla dimensione universale. La

responsabilità dell’azione morale dell’uomo ha necessità di essere sgravata dall’universale e solo la

religione può consegnarle la giusta dimensione, intercettando il compito del Creatore e il compito

dei viventi creati. La Modernità a questo proposito ha caricato sull’uomo – basti pensare alle

prospettive consequenzialiste – la responsabilità “totale” dell’andamento del mondo. La persona,

pensata al di là o senza la sua natura, perde la sua essenzialità. La natura, allora, per l’uomo è

qualcosa che ne protegge la sua integrità e di conseguenza proprio per la riuscita della persona

stessa, non può essere obliata o violata. Chi non considera la natura dell’uomo, in termini

metafisici, finisce per trattare l’uomo semplicemente in maniera naturalistica: «l’idea di disporre a

piacere e senza limiti della natura trasforma l’uomo stesso in un essere puramente naturale,

perché appunto questa è una caratteristica di ogni essere vivente: tutto ciò che incontra diventa

per esso una pura funzione della sua autoconservazione»77. Di conseguenza il limite dell’uomo,

posto perché egli stesso non venga considerato alla stregua di un mero oggetto è dato dal limite

che la sua natura rappresenta.

La natura di per sé non ha intrinseca forza per imporre al soggetto questo e quindi occorre

che questo suo status sia riconosciuto dalla persona. La natura diventa la misura, il limite alla sua

naturale espansività, al suo debordante desiderio di superare ogni misura. Questi limiti, tuttavia, se 76 R. SPAEMANN, Tre lezioni sulla dignità della vita umana, op. cit., p. 66. 77 R. SPAEMANN, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, op. cit., p. 94.

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semplicemente naturali non possono vincolare l’uomo, ma rappresentano un vincolo solo se

considerati religiosi. Limiti naturali e limiti religiosi coinciderebbero nel senso che la natura in

quanto esprimente la prospettiva teleologica, e questo è visibile solo nei viventi, diventa un

medium tra noi e la volontà creatrice di Dio. Non è la natura di per sé che è normativa, ma lo

diventa nel momento in cui, considerata espressione della volontà creatrice e quindi indicazione

di una determinata struttura teleologica, sancisce rispetto a determinate azioni morali il fallimento

o la riuscita di uno scopo prefissato. Solo rispetto alla teleologia subentrano le categorie di verità

e falsità, di bene e male. Secondo Spaemann, questa inclinazione dell’uomo, indipendentemente

dal suo assenso al cristianesimo o meno, è chiaramente disegnata nell’orizzonte cristiano che

«consente all’uomo di intendersi come essere naturale, senza doversi annullare come persona,

ovvero di intendersi come soggetto, senza dover sconfessare la sua condizione naturale come

adiaphoron»78.

Persona, come sopra accennato, in quanto rappresentazione dell’assoluto nel concreto, e

non simbolo assoluto, è un nome che va a designare più che un valore, una precisa connotazione

morale: la dignità intangibile ed incommensurabile del soggetto cui si riferisce. I diritti della

persona appaiono come questo limite intangibile all’azione dell’uomo che protegge dalla

violazione, dall’usurpazione, dal degrado della persona stessa. Ecco perché rispettare i diritti della

persona significa per prima cosa rispettare le leggi proprie della sua natura. E questa attenzione si

dipana su due livelli uno minimale caratterizzato da rispetto e giustizia, e l’altro nella sua forma

eminente di amore che si esplicita nell’ amor benevolentiae.

L’appello agli scopi della persona è lo sgravio della responsabilità universale. Come essere

razionale sicuramente l’uomo può acquisire una visione universale, ma non è certamente nelle sue

possibilità conoscere tutti i criteri e le conseguenze incidentali delle sue azioni. La natura gli dice

solo ciò che Dio vuole da lui nelle primarie inclinazioni che ancor prima del destarsi della ragione

avverte. La fede in un governo divino del mondo, come ha anticipato Fichte, è proprio la

garanzia che la nostra azione morale non è vana, però a reggere il mondo e il suo corso è sempre

Dio. Se così non fosse ci sostituiremmo a Dio: «nessuno può assumere la posizione di Dio e

nessuno deve provarci perché la negazione della finitezza porterebbe di fatto, ad assolutizzarla:

non volere ciò che Dio vuole ma ciò che Dio vuole che vogliamo, questo è l’ordo amoris, l’ordine

della moralità»79. La responsabilità morale dell’uomo – che significa rapporto di rispetto e

assistenza, è diretta solo nei confronti degli esseri che presentano una struttura teleologica e si

esprime nel dovere di far raggiungere ad ogni vivente il suo fine. Per comprendere di cosa siamo

responsabili è necessario stabilire nei confronti di chi innanzitutto lo siamo. Dice Spaemann: «noi 78 Ivi, op. cit., p. 95. 79 R. SPAEMANN, Felicità e benevolenza, op. cit., pp. 147-148.

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rispondiamo con la nostra responsabilità a tutto ciò che può possedere una familiarità riguardo ad

un “esser-sè”, cioè ad ogni realtà»80, che si sa come tale e che può chiedere conto di ogni nostra

azione contro o a favore di essa, che può chiederci perché stiamo agendo in quel modo o con che

diritto. Nel momento in cui sappiamo di fronte a chi agiamo – di fronte a noi stessi e di fronte ai

nostri simili – diveniamo responsabili di tutto ciò che ha un qualche valore. Se la responsabilità,

nel senso di risposta a chi è nei confronti dell’esser-sé, il “di che cosa” designa tutto il resto che

non può chiederci, per condizione naturale, conto del nostro agire, ma che ne diventa l’oggetto.

La ragione dell’uomo allora, più che mezzo di dominio si esplicita anche come apertura e rispetto

verso il mondo animale, vegetale e minerale. Il loro impiego deve essere sempre commisurato e

bilanciato in relazione allo scopo da ottenere, senza prolungare inutilmente e ingiustificatamente

dolore all’animale o produrre un’inutile deturpazione all’ambiente.

La responsabilità dell’uomo è grave e propria nei confronti della dignità della persona: non

vi può essere nessuna relativizzazione dell’azione quando si è in presenza di lesioni della dignità

umana. La responsabilità è intimamente legata al riconoscimento dell’esser-sé, mio e degli altri,

quale manifestazione concreta dell’assoluto. Da ciò può scaturire quella visione benevolente con

cui l’uomo, destatosi alla realtà, può guardare al mondo come una totalità concreta con cui

entrare in familiarità e di cui sentirsi, partecipe all’azione di Dio, responsabile.

Tuttavia, questo discorso ancora una volta ha bisogno di un alleggerimento che riguarda

l’esistenza del soggetto e che troviamo profondamente legato alla dimensione religiosa. Essa,

infatti, è la sola che permette e rende possibile il perdono del male compiuto dall’uomo. Questo

male imbriglia la capacità di volgere al positivo l’azione dell’uomo. Solo nella certezza della

remissione della colpa l’uomo viene riabilitato all’azione senza che il passato, il suo essere in quel

determinato modo, possa ergersi ad ostacolo e quindi paralizzarlo. Questa è un’esigenza propria

dell’esser persona dell’uomo:

«la certezza di una tale remissione può esser trasmessa solo attraverso una determinata tradizione religiosa.

Ma l’idea della possibilità del religioso e dunque la possibilità della religione è essenziale per le persone, in quanto questa possibilità coincide con quella di potersi affermare come persone attraverso il tempo. Il perdono è l’opposto dell’entropia. La religione è la speranza che il secondo principio della termodinamica non sia l’ultima parola sulla realtà»81.

Il perdono insieme alla promessa nella dimensione antropologica di Spaemann sono due

segni importanti in cui la vita delle persone si dipana. Promessa è la persona stessa, il suo sapersi

superare, esprimersi in rapporti di fiducia, essere all’altezza della sua dignità. Questa naturalmente

ha una sua fenomenologia che si esprime in promesse. Non è importante analizzarle, ma

comprendere come nell’esplicitazione di ciò che la persona è, nel suo essere naturalmente 80 Ivi, op. cit., p. 228. 81 R. SPAEMANN, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, op. cit., p. 97.

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declinata al plurale, quindi nel suo vivere in comunità, non è possibile, per i limiti della stessa

natura, sempre tener fede a ciò che si è e quindi si è sempre esposti alla violazione della promessa.

Qui subentra il perdono che ancor prima che morale è pensato da Spaemann come “ontologico”.

Ciò significa la consapevolezza che tra ciò che la persona è e le sue concretizzazione nel tempo

c’è sempre un divario. Il suo esser-così nel tempo non sempre illustra la sua natura. E allora, non

si può non riconoscere la finitezza nostra e degli altri, in ragione della quale non possiamo

essenzialmente renderci giustizia. Dunque le persone necessitano sempre di indulgenza. A nostro

parere l’idea del “perdono ontologico” ha per Spaemann, ancora una volta, un influsso

chiaramente proveniente dalla dottrina cristiana ed in particolare dalla dottrina del peccato

originale. Esso designa un’umanità fatta sì per la felicità, per la beatitudine, ma comunque segnata

da una ferita che si porta dietro e che va combattuta nell’inclinazione al male che ci ha lasciato in

eredità. Quando in questa lotta non prevale il selbstsein, l’esser-sé dell’uomo, ma il suo esser-così,

allora la sua identità propria viene occultata dal male commesso e quindi occorre una

riabilitazione. Un qualcuno che offra perdono, cioè che dica la tua identità non coincide con il

tuo esser-così. Il peccato originale ci indica, secondo Spaemann, «la normalità della conditio humana

come un’anomalia ontologica»82. Il perdono “ontologico”, pre-morale e necessario almeno come

consapevolezza di fondo nella persona perché possa offrire il perdono morale;; con questo

perdono concediamo all’altro «di non mantenere quella promessa che egli, in quanto essere razionale, è. Gli concediamo la prospettiva di un

ordo amoris finito, nel quale siamo per lui meno reali di quanto facciamo esperienza di essere noi stessi, e che perciò coincide con il nostro solo per il fatto che egli sa della propria finitezza e prospetticità, che a esse riconosce e accetta per sé le condizioni della coesistenza con altre regole della benevolenza»83.

3.2. A questo punto non possiamo rimandare oltre la discussione sul nucleo principale

dell’etica spaemanniana. Essa, come accennato, è legata inscindibilmente alla metafisica, da essa

discende e si costituisce in un solo atto con l’ontologia, ovvero l’intuizione dell’essere e del bene

avvengono simultaneamente, quale intuizione dell’esser-sé proprio e degli altri. Questa visione

deriva sicuramente dalla prospettiva tomista, considerata dal Nostro come etica cristiana classica,

ed ha come suo culmine e conseguenza l’amor benevolentiae. Questo discorso è inscindibilmente

legato ancora una volta alla visione creazionista cristiana che ha in Dio l’origine di tutte le cose, in

cui ha effuso il suo essere per dirigerle verso il loro fine, la loro realizzazione. Questo avviene

naturaliter se così possiamo dire per gli animali e per le cose, ma per gli esseri dotati di logos, per le

persone, occorre che questa realtà sia riconosciuta.

82 R. SPAEMANN, Felicità e benevolenza, op. cit., p. 244. 83 Ivi, op. cit. p. 245.

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L’amore per Kant, in quanto “patologico” non può essere il fondamento del sentimento

morale, per il cristianesimo, invece, per quanto l’amore non sia in potere dell’uomo, ma è un

dono della grazia divina, che discende direttamente da Dio come fonte dell’amore, è

caratterizzante dell’essere dell’uomo. L’amore, cui qui si afferisce, è inteso quale capacità da parte

dell’uomo, cioè dell’essere razionale, di benevolenza. I presupposti della benevolenza sono due:

essa può manifestarsi solo quando si riconosce la struttura teleologica dell’essere vivente al quale

interessano le cose giudicate buone, utili e piacevoli e quando quell’essere il cui bene è da volere è

visibile come è in se stesso. Questo processo ha bisogno che si punti l’attenzione sul fine ultimo

dell’uomo e delle cose, solo nella misura in cui si fanno i conti con questa realtà si potrà compiere

quel cammino che dal sonno o dal dormiveglia possa destare l’essere razionale alla autenticità, o

meglio possa destarlo alla realtà. Il fine ultimo si configura come il riconoscimento della realtà

come assolutamente reale: «soltanto il fine ultimo con il quale non possediamo alcuna familiarità

è l’assolutamente reale;; esso non è fine ultimo nel senso che è lo scopo da realizzare, ma è quello

‘scopo finale’, quella realtà che deve essere sempre presupposta perché possa apparirci come

degno di valore»84. Quindi è facile comprendere come il darsi di questo fine ultimo è il diventare

reale della realtà per me, ovvero per ogni essere razionale che ha in sé la possibilità di questo

schiarimento, di questa scoperta dell’essere e del bene. L’uomo, allora, deve superare la sua

dimensione semplicemente istintuale, un ragionamento che semplicemente resti nell’ambito

dell’istinto, può condurci solo ad argomentazioni che rimandino all’autoconservazione e la vita

cosciente sarebbe fagocitata dalla mera vita. La vita desta, la vita cosciente, oscilla sempre

nell’ambiguità di fondo che è costituita dalla presenza dell’istinto. Esso, infatti, è parte non

eliminabile della persona, il suo strapotere però de-realizzerebbe l’io. Sul piano dell’istinto e della

mera conservazione di sé non potrebbe esistere alcuna argomentazione valida, ad esempio,

contro l’omicidio, né per rispettare l’esistenza dell’altro. Il riconoscimento, pertanto, vero della

realtà dell’essere umano può avvenire solo quando si intercetta il suo io, la sua irriducibilità. Ora

questo che attiva lo sguardo di benevolenza, è possibile, secondo Spaemann, in presenza di una

visione religiosa, di un visione sacrale che non guarda alla vita come una funzione di

qualcos’altro, ma la vede come un bene in sé, che chiama dignità. L’essere personale in sé ha

questa dignità e per questo implica rispetto incondizionato. Una cosa simile l’avevano già intuita

Horkheimer ed Adorno, quando scrivevano che in ultima analisi contro l’omicidio si dà solo un

argomento religioso85. La benevolenza permette, che al di là del suo essere istintuale, l’uomo non

venga oggettivizzato, ma che, nonostante tutto, appaia di principio in uno splendore che lo

84 Ivi, op. cit. p. 122-123. 85 Cfr. M. HORKHEIMER – T. W. ADORNO, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1997.

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supera. Questo splendore non è suo proprio, ma rappresenta una dimensione radicalmente

assoluta e intangibile in quanto immagine di un assoluto.

Questo carattere esula dall’oggettività, l’essere, infatti, non è oggettività, ma sostanzialità nel

senso aristotelico del termine per cui tutto è predicato di essa, ma essa non è predicato di nulla.

L’esser-sé sta alla base dell’oggettualità, ma paradigmaticamente si dà nella soggettività che è

l’assoluto secondo la modalità dell’immagine. Il modo diretto per poter fare esperienza di questo

assoluto, del sacro è l’atto della preghiera, presente nella tradizione ebraico-cristiana e in quella

islamica. In essa, tramite la mediazione del linguaggio, si esprime l’adesione senza condizioni al

fondamento incondizionato della realtà, da cui scaturisce il ringraziamento per ciò che si mostra

nella sua integra e genuina assolutezza. L’esempio più calzante di questo discorso è l’atto di

preghiera pubblico e ufficiale che nel cattolicesimo è l’Eucaristia, che significa appunto

rendimento di grazie. Ora secondo Spaemann, l’ente che è capace con la sua vita cosciente di

pensare l’essere dell’assoluto fondendolo con il ringraziamento ha in sé quell’assolutezza che

intuisce e che adora e ne diviene immagine. Questa immagine, oltre che in se stesso, la riconosce

nei propri simili, in quanto esseri razionali, a cui si rivolge con rispetto e riverenza. Queste due

modalità si esprimono, innanzitutto nel «lasciar-essere l’altro nel suo irriducibile esser-altro […] e

di considerare il proprio io come rappresentazione dell’incondizionato e perciò come qualcosa di

definitivamente sottratto al proprio arbitrio»86. Ciò, sottolinea Spaemann, è ugualmente valido

anche per gli uomini che non manifestano empiricamente una vita pienamente cosciente, in

quanto non è in potere degli uomini stabilire se ed in quale misura loro vivono la loro personalità

e la relazione con se stessi87.

Prima di proseguire il discorso sulla benevolenza, come in questa visione, anche se non

esplicitati, vi siano due riferimenti fondamentali alla visione antropologica cristiana. Quando si

dice che la soggettività umana è immagine, rappresentazione dell’assoluto, il pensiero non può

non andare ai primi passi del Libro della Genesi in cui l’uomo è presentato come “immagine e

somiglianza” di Dio (Gn 1,26), così come quando Spaemann insiste sulla necessità che il singolo

riconosca, innanzitutto, per sé questo suo essere incondizionato, il pensiero non può non andare

all’invito evangelico: «ama il prossimo tuo come te stesso»(Mt 19,19), ovvero la misura dell’amore

per altri c’è solo se amiamo innanzitutto noi stessi. La benevolenza di cui parla Spaemann, allora,

difficilmente può essere ridotta a sinonimo di “altruismo” o “disinteresse” per se stessi. Con tale

termine si indica, invece, «la tensione verso ciò che è vantaggioso per gli altri, vale a dire ciò che

86 R. SPAEMANN, Felicità e benevolenza, op. cit., p. 126-127. 87 Nell’ultimo capitolo del volume Persone, Spaemann tratta i casi dei diversi casi in cui la vita cosciente non appare e per ogni situazione afferma che comunque si davanti ad una persona con una dignità incondizionata.

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ne soddisfa la tensione»88. Amare l’altro per se stesso, sulla scia di Aristotele, è la definizione del

rapporto di amicizia, che emerge quale concretizzazione della benevolenza: «l’altro mi appare

come portatore di un significato non in virtù di ciò che egli è per me, ma in se stesso»89. In questo

senso, avvicinarsi all’altro, esserne amico, significa collaborare alla sua struttura teleologica nel

senso di favorire, aiutare il compimento del suo essere nell’ottica del fine ultimo e questo a partire

dal riconoscimento della sua realtà. In questa collaborazione l’altro diviene reale per noi.

Per Spaemann, diversamente da Kant, non è l’esigenza dell’imparzialità a determinare il

fondamento di ogni decisione morale, bensì la percezione della realtà dell’altro in modo analogo

alla mia stessa realtà. Questo si basa su un’evidenza metafisica, ovvero l’evidenza che la realtà mia e

dell’altro ci sono, esistono, ci stanno davanti. Su questa evidenza Nietzsche ha dimostrato esser

possibile dubitare, ma se questo è possibile farlo non ne segue che sia bene farlo. Ecco perché

senza questo sguardo metafisico non si possa dare discorso etico: «la necessità di affermare la

realtà dei viventi non deriva da una cogenza teoretica, ma è dello stesso genere dell’evidenza

morale»90. Risulterebbe fuor di logica, infatti, costringersi a pensare che la persona che si ama, con

cui si ha un rapporto di amicizia o che semplicemente si conosce, possa essere messa in

discussione nella sua realtà. Se così fosse non metto tra parentesi il rapporto che ho con l’altro,

ma distruggo del tutto l’altro. Afferma Spaemann:

«l’autentico riconoscimento della realtà non è revocabile e inseparabile dalla fedeltà. Non a caso nella lingua

ebraica la parola che indica la verità è la stessa che designa la fedeltà. L’affermazione della realtà dell’esser-sé è un atto libero e si identifica con la benevolenza. Quando Platone scrive che il bene è il fondamento della realtà e dell’intelligibilità delle cose, quando egli definisce l’affermazione teoretica dell’idea del bene come indivisibile dalla volontà del bene»91.

La benevolenza, secondo Spaemann, va allargata a tutta la realtà, compreso il mondo

animale e la natura in genere. Non per il fatto che questi siano consapevoli della propria realtà –

gli animali infatti, non vedono la loro vita come una totalità, in quanto non hanno coscienza di

questo, ma semmai hanno avvertenza solo di singoli momenti – ma perché l’intera realtà non va

ridotta semplicemente ad oggetto e strumento. Bisogna guardare alla realtà, in qualche modo

seguendo un’analogia con la vita cosciente, propria degli esseri umani. L’ottica antropocentrica

tipica della modernità ha bisogno di essere sostituita con uno sguardo antropomorfico:

«chi non è disposto a scegliere la vita cosciente come paradigma dell’interpretazione della vita in generale è

costretto a disconoscere all’essere vivente il suo carattere di vivente e a ridurlo ad una struttura ‘oggettiva’ di un

88 R. SPAEMANN, Felicità e benevolenza, op. cit., p. 127. 89 Ibidem. 90 Ivi, op. cit., p. 131. 91 Ivi, op. cit. pp. 131-132.

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essere materiale, senza accorgersi che è soltanto a partire dall’essere vivente che è possibile capire che cosa significhi ‘essere’ quando lo si applica alla materia»92.

L’uccisione dell’animale così come l’utilizzo dei beni del creato deve sempre essere

giustificata da un buon motivo e tuttavia non costituisce sempre un’azione in sé condannabile,

come accade nei confronti dell’uccisione di un uomo innocente. Differentemente, però, bisogna

considerare il caso dell’esistenza delle species. In esse, infatti, deve essere valutato un aspetto

fondamentale della realtà che vicina o lontana da noi, costituisce quel tutto che noi abbiamo

ricevuto con quella ricchezza che, responsabilmente, dobbiamo donare ai posteri. La natura e gli

animali hanno anche un loro posto nell’ordo amoris solo se l’uomo riesce a guardare loro nel posto

gerarchico che ricoprono, con benevolenza: «amare qualcosa in virtù di se stesso costituisce

proprio la modalità specifica di autorealizzazione dell’uomo»93. In questo senso Spaemann allarga

l’imperativo kantiano oltre i confini dell’uomo: «in verità vale il fatto che noi dobbiamo impiegare

tutto ciò che ha il carattere dell’esser in sé, che dunque viene afferrato teleologicamente, non solo

come mezzo, ma sempre anche come fine»94

Benevolenza, allora, vuol dire aderire all’essere. Questa adesione presuppone che l’istinto

ormai si sia liberato dal suo dominio in quanto l’esperienza da cui esso parte è la realtà, depurata

dalle ambiguità per cui nell’amore l’altro può divenire reale per me quanto io – in questo processo

del destarmi – sono divenuto per me. Così può apparire la soggettività, mia e dell’altro, come

l’immagine dell’assoluto e incondizionato. L’uomo è il luogo dell’apparizione dell’essere e quindi

come tale il rispetto incondizionato per lui è l’adesione alla realtà. La vita riuscita è la vita desta,

che si raggiunge quando la ragione non è più uno strumento sottoposto all’istinto, ma quando

diventa forma della vita: «essa, allora, cessa di contrapporsi astrattamente alla vita, diviene

concreta, si riempie di forze vive, si trasforma in fantasie creative e volere deciso: bene-volenza.

In essa la realtà si mostra per come è in se stessa, cioè come luce amabile»95.

Questo si configura come un cammino che considera la realtà non come un nemico, un

limite negativo per l’uomo, ma ciò che egli incondizionatamente desidera e questo desiderio lo

porta oltre, rispetto ad una soddisfazione meramente animale, perché ciò che lo muove, il suo

esser-sé, è ancora più profondo e decisivo del suo istinto. Per scoprire questa realtà ogni uomo ha

bisogno di aiuto. L’aiuto in Spaemann è, se così possiamo esprimerci, una categoria etica. Il

paradigma di ogni azione benevolente è venire in soccorso della vita umana che urge aiuto.

Questo si declina, innanzitutto, come aiuto a noi stessi, attraverso la riflessione veniamo in aiuto

del nostro vero volere e cominciamo a trattarci responsabilmente, tuttavia, «solo chi ha ricevuto

92 Ivi, op. cit., p. 132. 93 Ivi, op. cit., p. 154. 94 R. SPAEMANN – R. LÖW, Fini naturali. Storia & riscoperta del pensiero teleologico, op. cit., p. 356. 95 R. SPAEMANN, Felicità e benevolenza, op. cit., p. 135.

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aiuto impara ad aiutare se stesso;; egli entra così in quella relazione indiretta con sé che è

costitutiva di ogni razionalità non puramente strumentale, cioè della prassi morale»96.

Il destarsi alla realtà, dunque, significa che l’essere vivente razionale è uscito dal domino del

suo istinto e non vede la sua vita in maniera funzionalista, secondo il fine dell’autoconservazione.

La benevolenza spalanca un orizzonte universale in cui ogni ente ha una sua unicità e

incommensurabilità. Questa universalità, avverte Spaemann, è però di tipo contemplativo e non

operativo. Occorre, dunque, ricercare le modalità con cui questa aspirazione universale che è

diretta a Dio e a tutta l’umanità, possa apparire nella sua versione concreta. E’ ancora nel

cristianesimo che troviamo un’intuizione, quando l’apostolo Giovanni nella sua Prima Lettera,

chiarisce che non si può amare Dio che non si vede se non si ama il fratello che si vede. In questo

sta appunto la concretezza dell’amor benevolentiae, riuscire ad individuare quell’immagine

dell’assoluto, quel suo simbolo reale per poter dirigere il nostro aiuto. Entrare in relazione con

Dio, eccetto le forme rituali di adorazione in cui viene messo a tema direttamente il divino, è

possibile ma solo nelle condizioni della finitezza in cui l’uomo vive.

L’uomo diventa simbolo dell’assoluto, e non il sostituto di esso, se così fosse sarebbe solo

uno sfogo della spontaneità istintiva e l’altro verrebbe colto solo nella misura in cui vi sia un

ritorno di soddisfazione in sé medesimo. Ogni agire morale, invece, improntato a benevolenza

tende a non lasciare questa nella sua astrattezza ma a esprimersi nella sua concretezza, attraverso

precise forme quali l’affetto, l’amicizia, la gratitudine. Questa articolazione è la modalità con cui la

benevolenza da universale si struttura concretamente e questo moto, agostinianamente, può

essere definito ordo amoris. Esso «significa una gerarchia graduata all’interno della benevolenza

universale. E riferendoci ad essa noi parliamo di giustizia»97.

Se la ragione è il modo con cui l’essere vivente perviene a se stesso in maniera cosciente, la

ragion pratica è la forma di questo esser desto alla realtà. All’interno della gerarchia dell’ordo amoris

una prima modalità di orientamento pratico può essere la considerazione della relazione di

prossimità e lontananza. La benevolenza universale vuole che tutti gli uomini siano trattati secondo

la propria dignità, il singolo tuttavia, non vede davanti a sé per prima cosa tutti gli uomini, ma i

suoi più prossimi, allora, questo dovere è innanzitutto nei confronti dei più vicini. Questo ordine

è moralmente rilevante in quanto l’uomo è pur sempre un individuo finito. Questo non significa

rifuggire dalle questioni a noi più lontane, perché in qualche modo anche la lontananza è un

rapporto di prossimità, ma è pur vero che a lunga distanza l’unico modo di aiutare l’altro consiste

nel desiderio di farlo. Resta sempre vero e valido che ogni persona umana è nella contingenza

dell’incontro, nell’incrocio dei due sguardi in cui l’altro diventa reale per me. Appare questo il 96 Ivi, op. cit., p. 138. 97 Ivi, op. cit., p. 144.

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significato che si deduce dalla Parabola del Buon Samaritano, in cui un estraneo, che per caso si trova

nella relazione di prossimità con uno sconosciuto in difficoltà offre il suo aiuto. Questo è un caso

di applicazione dell’ordo amoris che non ne indebolisce la validità. In altri termini, la relazione di

prossimità e lontananza non può essere rinchiusa in una casistica moralistica, ma sta al singolo far

diventare, in base alla propria conoscenza e informazione, anche parte della realtà lontana reale

per lui e quindi modificare la propria esperienza. Ma questo è solo in poter del singolo. Da questo

punto di vista si richiama la dottrina delle virtù aristotelica in cui non si fa una casistica delle virtù

in astratto, ma lo Stagirita descrive l’habitus dell’uomo virtuoso, che in ogni situazione cerca di

comportarsi appunto secondo le relative virtù con moderazione. Forma delle virtù, secondo la

lezione di Tommaso d’Aquino, è proprio l’amore, la cui misura è infinita: «per l’essere che si è

destato alla ragione, la trasformazione della vita a opera del logos e il riempire di vita la razionalità

sono un processo senza fine. Il comprendere che tutto questo è un compito, rappresenta già in se

stesso un dono, il dono di incominciare a destarsi»98. 3.3. Spesso in questo studio si è fatto riferimento a Dio come creatore. La relazione del

creato e dell’uomo con Lui in qualche modo ha costituito l’asserzione iniziale delle varie

argomentazioni. La stessa prospettiva teleologica ha un fondamento in un discorso teologico.

Che Dio esista è, nonostante tutto, quella “diceria immortale” che l’uomo sin dalla sua esistenza

si porta dietro. Sappiamo che sin dagli albori della filosofia tante e svariate sono stati i tentativi di

dimostrare la sua esistenza, di capire il suo essere, di conoscere i suoi attributi. Dio è quella pietra

d’inciampo del pensiero filosofico che nonostante le rassicurazioni kantiane, le tumultuose

argomentazioni nietzschiane, il dominio della prospettiva scientista che ha ridotto la ragione a

strumento di conservazione della specie depurandola dal suo essere facoltà di trascendenza,

ancora ai nostri giorni, si pone come problema e sfida. Spaemann è sicuramente un credente. Ha

fede nel Dio cristiano che si è rivelato in Gesù Cristo. Tuttavia, questa dimensione non lo vincola

nella ricerca e nell’offrire alla riflessione dell’uomo postmoderno vie di ragione che permettano di

individuare l’esistenza di Dio. Questo sforzo al tempo stesso si alimenta di quell’intreccio tra

l’esercizio della ragione e la luce della Rivelazione cristiana di cui si nutre il suo pensiero.

Una prima via d’accesso ragionevole a Dio è desunta a partire dalle pieghe della teoria

evoluzionistica. Rispetto alla descrizione scientifica aristotelica che considerava il mondo e le

varie specie in esso contenute eterne, la scienza dell’evoluzione riconosce che esso e tutte le

specie che vi si trovano abbiano avuto un’origine. Si pone, dunque, la questione dell’inizio e se c’è

un inizio si può ricostruire anche una storia della natura. In questi termini la scienza

98 Ivi, op. cit., p. 147.

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dell’evoluzione sembra più vicina al dettato creazionistico della Rivelazione cristiana. Il problema,

tuttavia, insorge perché gli evoluzionisti moderni pensano più al modo della selezione delle specie

che alla mutazione qualitativa di esse. Affermano, altresì, che sia il caso l’artefice dei salti

qualitativi che si verificano nel cammino evolutivo. Ora l’affermazione della casualità ha bisogno

di un atto di fede, più potente rispetto alla fede nel Creatore stesso, perché non riuscirebbe a

giustificare come mai in queste presenze poi ci sia una tendenza verso un fine ben preciso. Quale

potrebbe essere il fondamento di questo finalismo? Gli uccelli ogni anno migrano sempre nella

stessa direzione. Loro non sanno il perché, ma l’uomo sa che loro migrano per cercare cibo, ma

questa tendenza, questo finalismo ha sicuramente un’origine, un fondamento che non si può

spiegare con il semplice caso, ma ragione vuole che richiami un’intelligenza ordinatrice. Allora,

certi processi «non possono spiegare come si giunga ad una “tendenza” che sperimentiamo in noi

stessi e che dobbiamo almeno attribuire a tutti gli esseri viventi superiori»99. Le parole

“folgorazione” ed “emergenza” sono messe in gioco ad indicare una diversificazione qualitativa

che il fisico di suo non può spiegare con le armi delle scienze. Il salto più interessante,

naturalmente, è quello compiuto dalla nuda vita alla consapevolezza di sé, dalla vita, alla vita

cosciente e cioè il caso dell’uomo. L’interiorità che lo caratterizza non è in potere delle scienze

sperimentali e nella misura in cui l’interiorità viene ridotta a mero procedere materiale non è più

la scienza ad operare, bensì una visione ideologica, lo scientismo, che pretende la spiegazione

totale del reale, attraverso una reductio ad matheriam: «le scienze fino ad ora non hanno formulato

un solo serio argomento contro la diceria intorno a Dio, soltanto la cosiddetta visione scientifica

del mondo […] ha tentato di fare questo»100. In questo salto di qualità che si pone su un piano

diverso da quello della materia, il filosofo tedesco non fatica a vedere la precisa azione di una

volontà creatrice, di Dio stesso: «questa argomentazione può essere considerata una variante delle

argomentazioni classiche della teologia circa l’esistenza di Dio»101.

La domanda, inoltre, che sta alla base della riflessione che Spaemann svolge su Dio e sulla

possibilità di individuarne per vie razionali l’esistenza può essere così sintetizzata: “è ragionevole

credere in Dio?” Chi crede in Dio, alla fine, crede che il fondamento di questo mondo esiste ed è

extramondano, ma nel mondo stesso possono essere trovate tracce consistenti e convergenti per

pensare che un fondamento, una ragione ultima realmente esista. L’argomentazione del filosofo

tedesco tiene a riferimento critico da un lato la prospettiva kantiana, cioè la concezione di una

99 R. SPAEMANN. La ragionevolezza della fede in Dio, in AA. VV. Dio oggi. Con Lui o senza Lui cambia tutto, a cura del Comitato per il Progetto Culturale della Conferenza Episcopale Italiana, con un Messaggio di Papa Benedetto XVI, Cantagalli, Siena, p. 68 100 Ivi, op. cit., p. 59. 101 Dall’uomo a Dio, tra cristianesimo e filosofia. Un colloquio con Robert Spaemann, a cura di Daniele Fazio, op. cit., p. 20.

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ragione che si è dichiarata a livello teoretico incapace di risalire dagli effetti alla Causa prima e

dall’altro della riflessione di Nietzsche nelle cui pieghe nichiliste, sembra farsi spazio la

confessione secondo cui fin quando non ci libereremo della grammatica, non ci libereremo di

Dio.

Procediamo con ordine. Chi crede in Dio – indica Spaemann – sa che la realtà ha un

“senso” e un “significato”, essa è in qualche modo ordinata, non solo, ma l’esser persona

dell’uomo ha riferimento diretto a Dio. Se Dio c’è la realtà non è in balia del nulla e del caso, ma

l’esistenza ha un senso e il mio comportamento in base a questo può cambiare. Chi pensa a Dio

vede la sintesi di due predicati “potente” e “buono”, perché in Lui si riscontra il medesimo luogo

di origine. Questi due predicati non possono essere disgiunti, ma vanno tenuti ben saldi,

nonostante nel percorso occidentale si è optato ora per l’uno ora per l’altro, in quanto sono la

dimostrazione che l’essere e il bene in ultima istanza sono la stessa cosa: «Dio c’è significa che il

potere assoluto e ciò che è buono per eccellenza, nella loro causa e origine sono una sola cosa, un

eccesso di armonizzazione, dal punto di vista dell’empiria quotidiana, un eccesso di speranza»102.

Su questa scia la fede in Dio ci garantisce quel superamento del contingente nel senso che nulla è

dato al caso e la rassegnazione non è l’ultima parola come nel caso della visione ateistica del

contingente che lo supera eliminandolo. Chi crede in Dio come conseguenza morale di questa sua

fede cambia costume: «se Dio c’è gli uomini devono fare ciò che Dio vuole che essi vogliono e

non devono cercare di svolgere il ruolo di Dio quasi da padroni di ciò che accade»103,

diversamente con Dostoevsvkij si può affermare che se Dio non esiste tutto è permesso.

Fino a Hume il mondo veniva considerato leggibile, intelligibile, ovvero la persona come

essere razionale era considerata capace della verità, ovvero la sua ragione – che è anche l’organo

della conoscenza di Dio – veniva concepita come aderente e corrispondente alla struttura del

mondo. Nietzsche, nonostante la sua carica dissacrante, intuiva che anche gli spiriti liberi del

XIX, gli illuministi ancora si abbeveravano alla fede cristiana che era anche la fede di Platone,

ovvero alla convinzione che Dio sia la verità e che quest’ultima sia d’origine divina. Negare Dio

quindi significa negare la capacità di verità della persona, il suo essere razionale. Ecco perché

Nietzsche ha la necessità di inventare un uomo nuovo, staccato da questi criteri, un Oltreuomo,

che non abbia bisogno di Dio, perché è dio egli stesso. In questa situazione di una ragione

debole, rinunciataria rispetto alla profondità della conoscenza della realtà,

«gli argomenti per pensare l’assoluto come Dio possono essere soltanto argomenti ad hominem. Non partono

da premesse indiscutibili per giungere a conclusioni altrettanto indiscutibili. Sono olistici. Mostrano la mutua

102 R. SPAEMANN, La diceria immortale, in ID., La diceria Immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità, op.cit., pp. 20-21. 103 Ivi, op. cit., p. 29.

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interdipendenza della convinzione dell’esistenza di Dio e della capacità di verità, cioè l’esser persona dell’uomo, e cercano, al contempo, la conferma per entrambe»104.

Dunque, se noi non ci riteniamo persone, se noi non vogliamo chiudere gli occhi e fingere

che la realtà della nostra vita, dei nostri incontri, delle nostre amicizie, delle nostre gioie e dei

nostri dolori, sia un assurdo, ovvero non esista, non vi può esser alcun argomento consistente che

possa spingerci ad affermare l’esistenza di Dio.

Se il nostro adesso è vero, cioè reale questo lo sarà sempre, così come una cosa che non c’è

mai stata, mai ci sarà stata. Il futurum exactum, futuro anteriore, è inseparabile dal presente. A

partire da questo tempo verbale, Spaemann struttura la sua “prova” di Dio, detta anche

Nietzsche-resistente. Se, infatti, noi viviamo qui e ora un’esperienza, questa sarà vera anche

domani e vera per l’eternità, indipendentemente dal fatto che il suo ricordo dilati sempre più nel

tempo. Negare questo significa negare la nostra stessa realtà, in quanto il passato è sempre

passato di un presente e il futuro anteriore non si può strutturare senza un presente. Tuttavia, lo

status ontologico di questo passato non può essere obliato. Quando il presente non ci sarà più,

che ne sarà del passato? Spaemann risponde: «l’inevitabilità del futurum exactum implica

l’inevitabilità di pensare un “luogo” dove tutto ciò che accade è sempre custodito»105. In altri

termini, si deve dare necessariamente una Coscienza assoluta che tutto ricordi e tutto conservi,

ogni gioia e ogni dolore e che sia garante del nostro presente e della nostra realtà. L’alternativa è

la rassegnazione all’assurdo che il nostro adesso non sia reale. E quindi se vogliamo pensare il

reale come tale e la nostra esistenza come persone, esseri razionali, non possiamo non affermare

simultaneamente l’esistenza di Dio. Ricorda Spaemann che Nietzsche scriveva: “non ci

libereremo di Dio fintantoché crederemo nella grammatica” Questo si può specificare meglio

affermando che fintantoché continueremo a pensarci come reali, Dio sarà la garanzia di questa

nostra realtà.

La Rivelazione cristiana, in questo orientamento, in cui gli argumenta a favore dell’esistenza

di Dio sono interdipendenti ed olistici, può essere considerata come un grande sfondo che

sorregge lo sforzo razionale dell’uomo alla ricerca di Dio. In altri tempi la fede, soprattutto nella

prospettiva scolastica, era lo sbocco di un cammino razionale a partire dai cosiddetti praeambula

fidei, oggi invece, ha da giocare un ruolo di sostegno nei confronti della stessa ragione. È solo,

infatti, in presenza di una ragione veramente allargata, che sonda tutte le possibilità del reale, che

si può giungere alla fede in Dio. Kant ha riconosciuto che il razionalismo moderno aveva

dimezzato la ragione riducendola a strumentale e quindi gli risultò impossibile passare dal Dio

pensato al Dio vero. Per lo scientismo la ragione è prodotto casuale di un processo 104 Ivi, op. cit., p. 32. 105 Ivi, op. cit., p. 34.

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evoluzionistico che è diretto all’autoconservazione. Secondo Spaemann, in questa situazione è la

fede cristiana che difende la pretesa elementare della ragione di essere aperta a ciò che è “in

verità”, ovvero la pretesa di una conoscenza dell’assoluto e di Dio. La fede cristiana si presenta

non come un’attitudine cieca, ma un rationabile obsequium (Rm 12,1) quindi la vita cristiana è una

intelligente obbedienza.

In definitiva, la filosofia di Spaemann può essere considerata come il frutto dello spontaneo

esercizio di dialogo tra una fonte religiosa che è la Rivelazione cristiana, che non viene giudicata

come un inevitabile sbocco in un fanatismo e la ragione. La via di questo percorso intellettuale

può essere da un lato rintracciata nella filosofia classica greca attraverso il recupero della

prospettiva teleologica, in cui si può fare un discorso rigoroso sulla verità, ma dall’altro è

sostenuta e “provocata” dal cristianesimo che nella sua diffusione non ha mai abolito la natura,

ma l’ha voluta elevare facendola incontrare con la grazia. Ancora una volta la tensione etica,

anche se non esplicita, è il presupposto del movimento che dalla mente dell’uomo raggiunge Dio

e che Spaemann tra l’altro ci offre in maniera suggestiva, attraverso la metafora ricavata da una

scoperta in campo musicologico:

«Herta Thöne alcuni anni fa ha scoperto il seguente doppio codice nella sonata per violino in sol minore di

Bach: se si segue un determinato schema formale influenzato dalla Kabbala, fatto di lettere e numeri, che era conosciuto come geomanzia, si affaccia all’improvviso l’antico detto dei Rosacroce: “Ex Deo nascimur, in Christo morimur, per Spiritum Sanctum reviviscimus”. La sonata è meravigliosa. La musicalità del suo apparato di note è sufficiente per arrivare ad essere certi di aver capito perché Bach l’abbia scritta così e non in un altro modo. Chi però, seguendo una diceria, suppone che vi si potrebbe nascondere qualcos’altro prova a cercarvi un altro messaggio, si troverà davanti a un’altra impensabile dimensione di questa musica. A chi ha familiarità con la dimensione dell’assoluto, a chi l’antica diceria di un Dio creatore non dà tregua, non farà paura il fatto che le scienze naturali sperino di trovare, e in parte abbiano già trovato nella funzione di sopravvivenza la causa sufficiente per la formazione delle specie naturali, compresa quella umana. Dove incontra ciò che è buono, bello, santo, o dove incontra la pretesa di verità di una teoria scientifica, costui scoprirà un messaggio in codice del tutto diverso, che non si lascia ricondurre in nessun modo al primo, nonostante il primo abbia già una sua bellezza. Ma da dove proviene il bello e che cosa significa che qualcosa è bello costui lo capirà soltanto con l’aiuto del secondo messaggio»106.

106 R. SPAEMANN, La diceria immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità, op. cit., pp. 58-59.