Profughi e richiedenti protezione internazionale e...

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Profughi e richiedentiprotezione internazionalee disastri ambientali1

Capitolo 4 /

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1 A cura di Caritas Italiana.

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di persone sfollate per motivi legati a disastriambientali, intendendo in essi compresi sia i di-sastri climatici, che quelli di natura geofisica,come le alluvioni, le tempeste, i terremoti, leeruzioni vulcaniche, gli incendi. Dalla suddettastima sono invece escluse alcune tipologie di di-sastri, come quelli di natura tecnologica (inci-denti industriali o nucleari), o biologica (es. epi-demie), ovvero i disastri ad insorgenza lenta,come la siccità. Il trend degli ultimi 6 anni attestaun andamento altalenante, con picchi partico-larmente elevati nel 2010 (42,4 milioni di sfol-lati), nel 2008 (36,5 mln) e nel 2012 (32,4 mln)e una decrescita invece nel 2011 (15 mln) e nel2009 (16,7 mln). Tornando al 2014, Il continen-te in assoluto più coinvolto è l’Asia (19 mln), inparticolare le Filippine, la Cina, l’India, l’Indo-nesia, e, a seguire, gli uSa.Diverse altre stime sono state prodotte sui nu-meri dei possibili “migranti del clima”: Myers2

stima questi migranti in circa 200 mln al 2050.L’unep valuta che solo in Africa questo numerodovrebbe attestarsi a 50 milioni entro il 2060.Graeme Pearman prevede invece che con un au-mento della temperatura di 2 gradi, ben 100 mi-lioni di persone saranno esposte entro il 2100ad un serio rischio di inondazione delle coste.

Cambiamento climatico e migrazioni: quali connessioni?I movimenti migratori tradizionalmente e anchenell’attuale fase storica sono caratterizzati del-l’estrema eterogeneità di cause che li determi-nano, e sono una complessa combinazione difattori oggettivi e soggettivi, che influenzano ladecisione o la necessità di spostarsi dal propriopaese o da quello in cui si risiede. Oltre all’influenza di guerre, conflitti civili, com-pressione delle libertà fondamentali, gravi crisipolitiche ed economiche, sempre più, nel pano-rama delle migrazioni forzate si sta cercando diapprofondire il ruolo dei disastri ambientali. Ecomunque sebbene non ci sia un rapporto di cau-salità unico 0 univoco fra il cambiamento clima-tico, i disastri, gli spostamenti e la migrazione,l’esistenza di un chiaro collegamento fra i feno-

Negli ultimi 20 anni il numero (ufficiale) regi-strato dei disastri naturali è raddoppiato. pas-sando da circa 200 a oltre 400. La maggior partedi questi avvengono in relazione ai cambiamenticlimatici, ovvero si tratta di disastri influenzatidai cambiamenti climatici in termini di frequen-za e di gravità degli episodi. Ci si riferisce dun-que a disastri meteorologici (tempeste, uragani),idrogeologici (alluvioni) e climatici (siccità) che,secondo l’un Emergency Relief Coordinator, puòessere definita come “la nuova normalità”.Il monitoraggio sistematico degli eventi cata-strofici è iniziato nei primi anni ’70 da parte delCreD (Centre for Research on the Epidemiologyof Disaster), che a partire dal 1988 ha attivatouna raccolta delle informazioni attraverso unaapposita banca dati, che registra informazionisui disastri ambientali accaduti nel mondo a par-tire dal 1900. Da questa banca dati risulta chein effetti il numero degli eventi catastrofici na-turali è aumentato, così come il numero dellepersone coinvolte; mentre le vittime sono dimi-nuite.Il CreD ha poi registrato negli anni un incremen-to delle inondazioni e delle tempeste e a livelloglobale, un maggiore interessamento rispetto aidisastri naturali dell’Asia e dell’Area del Pacifico,sia per numero di eventi che per la popolazionecoinvolta.Tuttavia i dati più attendibili per stimare la con-sistenti di questi flussi migratori sono quelli del-l’iDmC, disponibili fino all’ottobre 2014, a partiredai 6 anni precedenti. Questa stima parla, per il 2014, di 22,4 milioni

Lo scenario

2 N. Myers, Environmentalrefugees: a growing phe-nomenon of the 21 st centu-ry, in Phylosophical trans-actions of the royal society,vol. 357, n. 1420, 2002,609-13.

2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014

30,0

35,0

40,0

0,0

10,0

15,0

5,0

20,0

25,0

Figura 4.1

Persone sfollate perdisastri ambientali. Anni dal 2008 al 2014.Valori in milioni

Fonte: Internal DisplacementMonitoring Centre (IDMC)

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Il Burundi è un caso ulteriore di coesi-stenza di una serie di fattori che causa-no movimenti forzati di persone. Nono-stante la recente fine della guerra civile,la siccità e il degrado ambientale hannoportato il paese ad esacerbare conflittilegati alla proprietà terriera. In questasituazione è proliferato il commerciodelle piccole armi. Sistematicamente sisente di episodi in cui individui, anchefratelli, si sparano per il possesso dellaterra. Questi violenti e costanti conflittiforzeranno sicuramente altre personein futuro a lasciare il territorio.

In Somalia è stato anche difficile perle ONG portare aiuti umanitari ad unapopolazione già in grave sofferenza peri conflitti armati. Aree che sono statebersaglio di piogge pesanti in un deter-minato periodo sono state oggetto dimassiccio stanziamento di altre popo-lazioni locali, che per sfruttare i pascoli,hanno significativamente ridotto l’areadel pascolo di chi già abitava quelle zo-ne, causando conflitti e altri spostamen-ti forzati di persone. Anche l’improvvisoabbandono di parti di territorio per mo-

tivi di conflitto, siccità, alluvioni, arrivaa causare una deprivazione, una perditatotale di risorse in quelle zone. La siccitàa sua volta può contribuire ad un’altraforma di spostamento secondaria e apiù lungo raggio: alcuni somali arrivatiin Kenya, all’inizio dichiararono alleong di essere scappati dal conflitto aMogadiscio per dirigersi verso zone dicampagna; da un successivo approfon-dimento dell’intervista è tuttavia venutofuori che a causa della siccità in corsoe del degrado ambientale delle suddettearee di primo insediamento, erano staticostretti a spostarsi nuovamente e sta-volta più lontano, in Kenya, appunto.

Il Kenya ha aderito alla Convenzionedi Ginevra, seppure con delle limitazio-ni (relative soprattutto al diritto al la-voro e alla libertà di movimento dei ri-fugiati) e consente all’unhCr di svolgerele procedure per il riconoscimento e l’at-tribuzione dello status di rifugiato a chiinvoca la protezione. Tuttavia, le causedegli esodi delle persone che arrivanoin Kenya sono varie e uno staff seniordell’unhCr ha espressamente dichiara-

to, rispetto alle interviste dei richieden-ti, che “se la siccità e il conflitto coesi-stono, non stiamo lì a spaccare il capel-lo”. Il campo profughi di Dadaab è unodei più grandi al mondo e ciononostan-te, la situazione ambientale non è mi-gliore di quella dei paesi da cui gli ospitifuggono. Nel 2009 il Kenya ha sperimentato unaterribile siccità; nei campi la disponibi-lità di acqua e legna da ardere è limitatae la competizione fra la popolazione lo-cale e gli sfollati è grande: le donne cheraccolgono la legna da ardere fuori daicampi sono a grosso rischio di stupro.Le denunce di violenze sessuali o di ge-nere sono aumentate del 30% nel2009. Quando poi, sempre nel 2009, èvenuta la pioggia, è caduta in quantitàcosì abnorme che ha causato alluvionie devastato case, cibo, inquinato l’acquae portato una serie di malattie come ilcolera.Perciò coloro che sono sfollati a causadi disastri ambientali e che sono riuscitiad avere accesso ad una qualche formadi protezione, sono ancora lontani dalricevere una protezione effettiva.

La complessa interazionetra conflitto, disastri espostamenti di persone

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3 R. C. Di Toma, Environ-mental or Climate Refugees,Tesi di Master Universita-rio in Diritti Umani e Inter-vento Umanitario, Univ. DiRavenna, a/a. 2011/2012,p. 8.

4 Cfr. F. Cristaldi, Le migra-zioni ambientali: prime ri-f lessioni geografiche, inwww.lettere.uniroma1.it,pp- 44-45

risposte più o meno adeguate alle esigenze dellapopolazione o in grado di prevenire/limitare leconseguenze disastrose dell’evento climatico. Pensiamo poi anche all’influenza delle disugua-glianze nello sviluppo: un conto sono stati glieffetti dell’uragano Katrina negli Usa o dello Tsu-nami in Giappone, un altro quelli del terremotoad Haiti. Scendendo ancora nell’analisi dei fat-tori, si possono distinguere eventi catastroficidi lungo periodo ed eventi catastrofici di breveperiodo e poi all’interno di questa classificazioneoccorre ancora distinguere fra cause geofisiche,meteorologiche, idrologiche, climatologiche,biologiche. Alla luce degli esempi illustrati, sipuò dedurre quanto possano essere complessesia le dinamiche di un disastro che della mobilitàumana e che i fattori ambientali hanno un ruoloimportante ma sono sempre collegati ad un’am-pia gamma di determinanti politiche, socio de-mografiche ed economiche3.Mentre alcune persone possono essere costrettea muoversi, altre sono costrette a rimanere ancheperché non hanno risorse per spostarsi. il mu-tamento climatico può infatti anche avere l’ef-fetto di moltiplicare i fattori di stress e le vulne-rabilità preesistenti piuttosto che a causarne dasolo il movimento.

Come si definiscono le vittime di disastriambientali? In ambito internazionale non esiste una defi-nizione univoca in grado di indicare un migrantespinto o costretto da motivazioni ambientali enonostante molte agende nazionali o di organi-smi intergovernativi dedichino spazio e interesseai temi dell’ambiente, delle migrazioni e dellosviluppo, poca attenzione viene ancora riservataalla relazione esistente fra queste tre tematiche.Questi fenomeni sono stati analizzati per lo piùseparatamente4. Alcune definizioni adottate. La prima volta cheè comparsa l’espressione “rifugiato ambientale”è stato nel 1976, ed è stata proposta dal noto ri-

meni è sempre più evidente e riconosciuto.Due tesi principali si contrappongono nel mondoscientifico: quella massimalista e quella mini-malista. La prima, più popolare fra organizza-zioni ed esperti in studi ambientali, è caratte-rizzata da un approccio che prefigura esodi dimassa direttamente conseguenti ai disastri cau-sati da cambiamenti climatici. Si tratta di unatesi che collega in un rapporto diretto, di causa-effetto, il disastro ambientale all’esodo di per-sone, e ha alimentato pertanto l’idea che i mo-vimenti legati a questi cambiamenti rappresen-tino una minaccia per la sicurezza internazio-nale. Questo approccio massimalista di Myers èstato spesso criticato perché basato su stime trop-po semplicistiche e che non tengono in conto lavariabile più complessa da calcolare: la capacitàdi resilienza e di adattamento dell’uomo rispettoal disastro. L’altra tesi, quella minimalista, trovamaggiore consenso fra coloro che lavorano nelcampo della migrazione e della protezione deiprofughi, sia a livello accademico che istituzio-nale, in quanto, sottolineando proprio la com-plessità delle determinanti coinvolte nella deci-sione di trasferirsi, e l’importanza di tenere contodella capacità di resilienza/resistenza delle per-sone coinvolte, prevede un numero senza dubbiominore di casi di sfollamento di persone in con-seguenza di un mutamento climatico.La scelta della migrazione è in relazione con lacapacità degli individui di utilizzare strategie diadattamento alternative, con il loro grado di vul-nerabilità, con l’entità della risposta istituzionale,tanto preventiva quanto ex post rispetto a deter-minati impatti climatici.Anche le cause genericamente definite comeambientali o climatiche possono sottendere in-vece un’importante azione antropica, così comegli effetti degli eventi naturali possono investireuna scala temporale molto diversa, con conse-guenze necessariamente differenti. Un conto èla devastazione di un terremoto, un’altra cosale implicazioni dell’innalzamento del livello delmare, che coinvolgono molte popolazioni ma suuna scala diacronica molto ampia, tale da per-mettere ai governi dei paesi coinvolti di trovare

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cercatore del Worldwatch Institute, LesterBrown. La definizione è stata poi ripresa nel Rap-porto unep del 1985, ma la letteratura interna-zionale, nel riferirsi a questa categoria di mi-granti, parla anche di:� L’OIM definisce migranti ambientali le “per-

sone o gruppi di persone che, a causa di improv-visi o graduali cambiamenti dell’ambiente cheinfluenzano negativamente le loro condizioni divita, sono obbligati a lasciare le proprie case, oscelgono di farlo, temporaneamente o perma-nentemente, e che si muovono all’interno del pro-prio paese o oltrepassando i confini nazionali”.

Sempre l’oim individua tre tipologie di migranteambientale:

� Environmental emergency migrant: personache migra temporaneamente a causa di undisastro ambientale come tsunami, terre-moto, uragano, ecc…

� Environmental forced migrant: persona co-stretta a partire a causa del deterioramentodelle condizioni ambientali, quali deforesta-zione, salinizzazione delle acque dolci,..

� Environmental motivated migrant; chi sce-glie di migrare in risposta a problemi chesi vanno intensificando, ovvero in rispostaalla diminuzione della produttività agricolacausata dalla desertificazione.

� Il Parlamento Europeo, in uno studio del2011, ha proposto di utilizzare due definizio-ni, l’Environmentally induced migration, perriferirsi all’intero fenomeno e l’Environmen-tally induced displacement per indicare le for-me di migrazione forzata causata primaria-mente dagli stress ambientali, raccomandan-do al contempo di tenere ben distinte le formedi stress temporaneo legate ad eventi improv-visi e le forme permanenti, dovute a catastrofidi lunga durata, in quanto sono richiesti in-terventi e forme di protezione diverse fra loro.

� L’European Migration Network, nel suoGlossario Migrazione e Asilo, utilizza varie de-finizioni: “sfollato per motivi ambientali”; “ri-fugiato per motivi ambientali” e “migranteper motivi ambientali”, senza addentrarsi inuna definizione univoca.

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nel novembre 2007 alcune regio-ni del Bangladesh sono state col-pite da un violento ciclone chia-mato Sidr che ha provocato seried ingenti danni a persone e cose.

La crisi provocata dal ciclone è statatale e di così vasta portata da indurreil Governo italiano ad adottare, con laCircolare del Ministero dell’interno -Dipartimento della Pubblica Sicurezza- Direzione Centrale dell’Immigrazionee della Polizia delle Frontiere - ServizioPolizia delle Frontiere e degli Stranieridel 9 gennaio 2008, la decisione di so-spendere temporaneamente i provve-dimenti di espulsione nei confronti deicittadini provenienti da questo Paesenonché di accelerare ed agevolare lepratiche di ricongiungimento familiarependenti. Per espressa previsione, lacircolare del 9 gennaio c.a. ha carattereesclusivamente temporaneo e non pre-vede ulteriori conseguenze, quali, adesempio, la possibilità di regolarizzarela posizione giuridica di coloro che sisono visti interessati da tale provvedi-mento. Successivamente alla sua ado-zione si sono tuttavia registrate miglia-ia di richieste di asilo presentate pressoalcune questure d’Italia. Roma, in par-ticolare, ha registrato più di 6.000 do-mande alle quali è stata riservata unaprocedura differente, per non rallen-tare le ordinarie richieste di asilo edimpedire di mandare in tilt il sistema.Temendo che “qualcuno, con intentostrumentale, stia alimentando aspet-tative infondate che non possono es-sere soddisfatte”, così come ribadito inuna recente comunicazione del 23 feb-braio 2008 , il Ministero dell’internofa presente che la concessione di qual-siasi forma di protezione internazio-

nale deve essere subordinata alla sus-sistenza di fondati motivi di persecu-zione nel Paese di origine, e l’uso stru-mentale della domanda di asilo potreb-be causare ritardi nell’espletamentodelle procedure già in corso, così comedi quelle che verranno presentate suc-cessivamente da coloro che fuggonodal proprio Paese per gravi e compro-vati motivi.Successivamente, sempre con Circolaredel Ministero dell’interno, Dipartimen-to della pubblica sicurezza, Direzionecentrale dell’immigrazione e della po-lizia delle frontiere, Servizio poliziadelle frontiere e degli stranieri del 13marzo 2008, venne disposta la cessa-zione delle misure di favore adottatenei confronti dei cittadini bengalesi,contenute nella circolare del 9 gennaio,ponendo così fine alla efficacia delleagevolazioni che l’Italia riconobbe aimigranti di quel paese. Si è trattatodunque di un provvedimento che è daun lato intervenuto a favore dei ben-galesi giù presenti sul territorio italia-no, ma in condizione di irregolarità edestinatari di un provvedimento di al-lontanamento, rispetto ai quali si è sta-bilito di sospendere il rientro in patriaa causa delle condizioni del paese, chenon avrebbero garantito una protezio-ne alla incolumità della persona; masi è trattato anche di una misura a fa-vore dei bengalesi rimasti in patria macon familiari già in Italia, accelerandole pratiche del loro ingresso sul terri-torio nazionale.Sostanzialmente non sembra vi sianoostacoli, nel nostro ordinamento, al ri-conoscimento di una forma di prote-zione alle vittime di disastri ambientali.Altro è tuttavia discutere della “consi-stenza/solidità/saldezza” della sud-detta protezione.

Ecco perché Il dibattito prevalente frai giuristi della materia, sia a livello na-zionale che internazionale, è volto acercare soluzioni che porterebbero afavorire il riconoscimento delle vittimedei suddetti disastri nella categoria deirifugiati, ovvero alla creazione dellaqualifica di rifugiati per motivi ambien-tali. I principali argomenti addetti a favoredell’esclusione del riconoscimento del-lo status di rifugiato ai profughi am-bientali sono da individuare ne:La mancanza del requisito del movi-mento oltre i confini del Paese (comegià detto, la maggior parte sfollano in-fatti all’interno dei confini nazionali);L’assenza dell’elemento individualedella persecuzione (le persone che fug-gono da disastri ambientali possonosempre rivolgersi ai loro governi perun aiuto, in linea di massima) e la pos-sibilità del ripristino della situazioneex ante nei territori oggetto di sconvol-gimenti ambientali.

Il Bangladesh e la soluzionegiuridica applicata dall’Italia.Un tipico caso di migrazione forzataper motivi ambientali

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� Fra i risultatidella Nansen Conference di Oslodel 2011, nella sezione dedicata alla prote-zione e all’assistenza delle persone sfollate,vi è l’indicazione secondo cui Le espressioni“rifugiati climatici” e “rifugiati ambientali”dovrebbero essere evitate, in quanto sono giu-ridicamente inesatte e fuorvianti. È tuttaviariconosciuta la necessità di chiarire la termi-nologia per i movimenti legati ai cambiamenticlimatici e ad altri rischi naturali. Un sugge-rimento è stato quello di utilizzare l’espres-sione “environmentally displaced persons”.

La tutela giuridica dellevittime dei disastriambientali: una stradaancora in salitaNonostante la comunità scientifica sia da anniconsapevole del ruolo del disastro ambientalenelle migrazioni, sotto il profilo della tutela giu-ridica da riconoscere alle persone, la strada èancora lontana, ed è in parte ostacolata/rallen-tata dalla circostanza che la maggior parte dellepersone che migrano per motivi ambientali ri-mangono dentro i confini della loro nazione.Come proteggere i migranti che scappando dadisastri si spostano in altri Stati è invece unaquestione tuttora aperta.Una problematica di tipo giuridico da non sot-tovalutare consiste nella difficoltà di determinareil nesso di causalità esistente fra il cambiamentoclimatico e il flusso migratorio, dal momentoche la mobilità geografica rappresenta solo unadelle possibili strategie di adattamento ai cam-biamenti del clima.Sotto questo profilo, sono già note alcune vicen-de giudiziarie che hanno riguardato sia gli abi-tanti di Kivalina, una piccola isola situata tra lacalotta polare artica e l’Alaska, sia gli abitanti/proprietari terrieri nella costa del Mississippidevastata dall’uragano Katrina5. Entrambi questicasi sono sfociati in azioni legali contro le indu-strie ritenute responsabili dei gas serra che co-stituirebbero un’interferenza sostanziale rispettoal diritto allo sfruttamento della proprietà pub-blica/privata di quei territori.La causa di Kivalina si è conclusa a sfavore dellasuddetta comunità, non essendo stato provatoil nesso di causalità fra le emissioni rilasciate daiconvenuti e i danni subiti dagli attori, nei con-fronti dei quali è stato rilevato peraltro un difettodi legittimazione attiva, ovvero non è stato ri-conosciuto un diritto sussistente ad agire in giu-dizio in relazione al danno lamentato. La causapromossa dalle vittime dell’uragano Katrina hainvece riportato una vittoria a favore degli attori,

sotto il profilo del riconoscimento della loro le-gittimazione attiva nella causa, e ciò sembra im-portante ai fini di un implicito riconoscimentodella categoria dei rifugiati climatici. Sebbene,dunque, molte evidenze empiriche porterebberoa favorire il riconoscimento della categoria deirifugiati per motivi ambientali, la costruzionedi un quadro di riferimento giuridico non è unapriorità per i governi, anche se il dibattito a li-vello internazionale è esteso.Peraltro è recentemente intervenuta una pro-nuncia negativa rispetto alla istanza di ricono-scimento dello status di rifugiato ambientale, dicui ha dato notizia Le Monde del 21 luglio 2015.Da quanto si evince nella notizia, un cittadinodi Kiribati aveva richiesto lo status di rifugiatoalla Nuova Zelanda sulla base dell’argomenta-zione secondo cui lui, sua moglie e i loro tre figli,tutti nati in Nuova Zelanda fossero in pericolomortale a Kiribati, in quanto intere zone dell'ar-cipelago, una trentina di atolli corallini, ormaia stento superassero il livello dell'acqua, venendoregolarmente invasi dal mare, rendendo inser-vibili le risorse di acqua dolce e rovinando i cam-pi coltivati.Confermando sentenze pronunciate in primogrado e in appello, la Corte Suprema della NuovaZelanda ha stabilito che il ricorrente non integrai criteri per i riconoscimento dello status di ri-fugiato. In particolare, per la Corte pur sottoli-neando che Kiribati “debba senz’altro affrontarele sfide del clima”, non ha ritenuto che il ricor-rente fosse in serio pericolo di persecuzione daparte della sua nazione.

5 Cfr. M.E. Grasso, Il muta-mento climatico e il dirittoalla salute, F. Angeli, 2012,pp. 74 e ss.

6 Cfr. M.E. Grasso, Cambia-menti climatici e rifugiatiambientali, in Ambiente &Sviluppo, 3/2012. Nell’ar-ticolo sono presenti variedefinizioni della categoriadel rifugiato ambientale,compresa quella adottatadall’OIM ovvero dall’OC-SE, ovvero diverse fontinormative, convenzioni inparticolare, che riconosco-no tale categoria (anche sepoi tali Convenzioni sonostate ratificate solo da unnumero molto esiguo diStati, per lo più africani).

7 L’art. 2 del Manuale recitache “Ciò che si deve inten-dere per giustificato moti-vo di persecuzione dipen-de dalle circostanze parti-colari di ciascun singolocaso. Possono essere con-siderati persecuzione tantola grave violazione di dirit-ti umani, compresa unaminaccia alla vita o alla li-bertà, quanto altri tipi digravi offese tenendo pre-senti le particolari circo-stanze del caso, compresele opinioni, i sentimenti ola condizione psicologicadel richiedente asilo”.

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Nella nostra ricognizione non può mancare il ri-ferimento ad alcune legislazioni che hanno uf-ficialmente introdotto una forma di protezionetemporanea anche alle vittime di disastri am-bientali6. Così hanno fatto gli Usa, ad esempio,che con il Temporary Protected Status, ricono-scono e tutelano gli individui che “temporanea-mente non possono ritornare nel proprio paesea causa di un conflitto armato in corso, di un di-sastro ambientale o di altre situazioni straordi-narie temporanee”. In caso di disastro naturale(tra questi vengono annoverati terremoti, allu-vioni, epidemie), lo Stato d’origine deve richie-dere il tpS per i propri cittadini presenti sul ter-ritorio uSa e il Secretary of Homeland Security loconcede/riconosce su base discrezionale. Nelcaso in cui tale disastro divenga permanente, iltpS viene revocato. Nel 2010 hanno beneficiatodel tpS Honduras, El Salvador e Nicaragua.Anche in Europa qualche Stato si è mosso versoil riconoscimento della categoria delle vittimedei disastri ambientali: si tratta della Svezia edella Finlandia, che hanno inserito la categoriadei rifugiati ambientali nelle rispettive politichemigratorie nazionali.Non pare azzardato tuttavia rilevare come la so-luzione individuata dagli Usa per assicurare pro-tezione alle vittime (e forse anche dalla Sveziae dalla Finlandia), non sia così lontana da quellache anche l’ordinamento giuridico italiano am-metterebbe già in casi analoghi.Anche nel nostro ordinamento, all’art. 20 delTesto Unico sull’immigrazione, è presente unadisposizione, intitolata “Misure straordinarie di

accoglienza per eventi eccezionali”, in cui si faesplicito riferimento alla protezione temporaneada adottarsi, “per rilevanti esigenze umanitarie,in occasione di conflitti, disastri naturali o altrieventi di particolare gravità in Paesi non appar-tenenti all’Unione Europea”. Si cita dunqueespressamente il disastro naturale come una del-le cause che renda necessario tutelare i cittadinidi Paesi non ue che si trovino o siano in procintodi giungere sul territorio nazionale.Collegata a questa previsione è la misura con-tenuta nell’art. 5, comma 6, del Testo Unico sul-l’immigrazione, che riconosce l’attribuzione diun permesso di soggiorno al ricorrere di seri mo-tivi, in particolare di carattere umanitario. Chiamando in causa la posizione dell’Alto Com-missariato delle Nazioni Unite per i rifugiati –unhCr, a partire dalle caratteristiche dei rifu-giati, si rinviene l’adozione di questa definizione:“I rifugiati si distinguono per la mancanza diprotezione da parte del loro Stato e perciò spettaalla Comunità internazionale di prendersi curadella loro sicurezza. Le persone fuggite per mo-tivi ambientali, d’altro canto, possono solita-mente contare sulla protezione da parte del loroStato, anche se limitata dalla stessa capacità diprovvedere a loro con aiuti emergenziali o conl’assistenza per soluzioni di più lunga durata”.Come si vede, non c’è in questa definizione unaesclusione chiara dell’idea che si possa essereperseguitati per danni ambientali.La stessa definizione di persecuzione che non èpresente nella Convenzione di Ginevra, ma chesi rinviene, a livello internazionale, in un “Ma-nuale sulle procedure e i criteri per la determi-nazione dello Status di rifugiati”, redatto dal-l’unhCr nel 1992, contiene una definizione am-pia7, che lascia aperta una vasta casistica, im-possibile da elencare anche per la difficoltà degliStati di trovare un accordo su questo punto. In questa apertura non è mancato chi ha vistola possibilità di riconoscere lo status a colui chelascia la propria terra per motivi legati all’am-biente, individuando il nesso tra fuga e perse-cuzione nella incapacità dello Stato di interve-nire per tutelare/garantire un ambiente digni-

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Come CittaDini Di una nazione - Delta, i bengalesi sono abituatia convivere con le inondazioni e a beneficiarne, ma ora il cam-biamento climatico ha sensibilmente aumentato i fenomeni diinondazione, erosione degli argini, cicloni e altri disastri.

Il paese si trova ad affrontare l’aumento del livello del mare da un lato elo scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya che interessano i fiumi sull’altrolato. Un innalzamento del livello del mare di un metro farebbe finire il50% del paese sotto il livello delle acque.Un elevato numero di bengalesi ha già perso i propri mezzi di sussistenzaa causa dei disastri naturali, ed è stato costretto a cercare lavoro altrove.Oggi, la maggior parte della migrazione dei bengalesi è interna ed avvieneprevalentemente dalle aree rurali a quelle urbane. In alcuni casi è il ca-pofamiglia a migrare temporaneamente per cercare lavoro; in altri, sonointere famiglie a spostarsi e stabilirsi altrove in modo permanente.Molte persone si stabiliscono illegalmente in India alla ricerca di una vitamigliore. Spesso però finiscono per prostituirsi o a lavorare in laboratoriclandestini in condizioni di semi-schiavitù. I movimenti di massa che potrebbero verificarsi in 20 o 30 anni potrebberorappresentare anche una minaccia per la sicurezza regionale. Altri, invece,non hanno neppure i mezzi per migrare. Il traffico, in particolare di donnee i bambini, è stato aggravato dalle recenti catastrofi ed ha portato mag-giore vulnerabilità.Il Bangladesh è spesso messo in evidenza come un paese che è riuscito aridurre le vittime e le perdite economiche attraverso una buona gestionedel rischio delle catastrofi. I costi in termini di vite perse a causa di cata-strofi sono, di recente, inferiori a quelli precedenti. Un’ importante misuraè stata la costruzione di rifugi dalle tempeste nei villaggi a rischio. Questoha consentito di risparmiare vite umane, il bestiame e altri tipi di risorse.Come risultato, le persone che vivono in questi villaggi si sentono menominacciati dal rischio ambientale e sono meno propensi a muoversi.

Fonte: Poncelet, A., 2009. Bangladesh. EACH-FOR.

Il Bangladesh tra l’innalzamento del livellodel mare e lo scioglimento dei ghiacciai

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toso in cui vivere. Non è mancato tuttavia chi ha elencato una seriedi situazioni in cui può trovare applicazione laConvenzione di Ginevra, in quanto l’esposizionea impatti climatici o degrado ambientale puòequivalere a persecuzione per una ragione dellaConvenzione.Molto interessante a questo proposito la casisticadi applicabilità della Convenzione di Ginevra,secondo J. Mac Adam8: 1. Vittime di disastri naturali che fuggono per-

ché il loro governo ha consapevolmente rifiu-tato o ostacolato assistenza al fine di punirlio marginalizzarli sulla base di uno dei 5 campidella convenzione;

2. Le politiche di governo puntano a gruppiparticolari la cui sopravvivenza dipende dalladall’agricoltura in casi in cui il cambiamentoclimatico sta già compromettendo la loro sus-sistenza;

3. Un governo provoca la siccità distruggendoo avvelenando l’acqua, o contribuisce alla di-struzione ambientale inquinando terra/ma-re/fiumi..;

4. Un governo rifiuta di accettare aiuto da altriStati quando è nel bisogno, come all’indomanidi un disastro;

5. Un governo non stabiliscemisure appro-priate per la prevenzione di un disastro.

Fra le varie soluzioni giuridiche proposte vi èanche quella di spingere per l’adozione di unaspecifica Convenzione9 che tuteli la suddetta ca-tegoria. Lo strumento potrebbe teoricamente di-ventare un protocollo alla Convenzione sui ri-fugiati o alla Convenzione quadro delle NazioniUnite sui cambiamenti climatici (unfCCC). En-trambi i regimi hanno vantaggi, ma, come rile-vato dagli autori in nota, non consentono un’ade-guata protezione alle vittime dei cambiamenticlimatici. Una convenzione specifica, invece, in-tegrerebbe il diritto esistente, fornendo un forumflessibile per affrontare un problema emergente.Gli autori continuano sottolineando che il pro-blema delle migrazioni indotte dal clima è suf-ficientemente nuovo e sostanziale per giustificareil proprio regime giuridico, invece di essere ri-stretto entro un quadro giuridico che non è statoprogettato per gestire la problematica. Una con-venzione indipendente diventerebbe anche unostrumento su misura per inquadrare la comples-sità del problema e ad adottare un approccio am-pio e integrato. Infine, i negoziati per una nuovaconvenzione potrebbero uscire dal tradizionaleschema di Stato a Stato e coinvolgere le comunitàe la società civile; questi gruppi potrebbero a lorovolta aiutare ad aumentare l’attenzione sulle di-sposizioni umanitarie e a spingere gli Stati ad ac-celerare il processo negoziale.

I particolari bisogni di protezione di coloro chesono coinvolti in questi problemi e quelli chesfollano devono essere approfonditi e le rispostedevono essere maggiormente attagliate alle di-verse situazioni. Trovare però nuove soluzionigiuridiche richiederà molto tempo, e per nonsprecare quello esistente, è importante anchemigliorare e rendere più certa/solida l’applica-zione delle leggi già esistenti.Al di là della, pur fondamentale, tutela giuridica,come è possibile intervenire sulle cause di questidisastri e limitarne gli effetti? Diversi biologi/agronomi stanno studiando pos-sibili strategie di adattamento al cambiamentoclimatico per arginarne gli effetti, mutando latipologia delle coltivazioni (preferendo quelledi prodotti meno sensibili a cicloni, ad esempio),ovvero le tecniche di coltivazione, i sistemi didrenaggio. È evidente che se fossero attuate po-litiche efficienti tese alla salvaguardia della terra,gli abitanti delle zone interessate preferirebberoqueste soluzioni piuttosto che il riconoscimentodella condizione di rifugiato ambientale.In occasione dell’annuale “Dialogo internazio-nale sulle Migrazioni” organizzato dall’oim a Gi-nevra, nel 2011 si è tenuta una conferenza daltitolo “Cambiamenti climatici, degrado ambien-tale e migrazioni”, nella quale sono state indi-viduate tre aree di intervento nelle quali le isti-tuzioni sono chiamate a rafforzare le proprie ca-pacità di gestione sul fenomeno:1. Miglioramento della conoscenza della materia

e di raccolta di dati, attraverso analisi che stu-dino le relazioni fra i fattori che incidono sullemigrazioni;

2. Consolidamento del quadro giuridico, politico,istituzionale, attraverso l’armonizzazione ela flessibilità delle normative già esistentinonché il miglioramento della cooperazionefra i diversi livelli (locale, nazionale e sovra-nazionale);

3. Sviluppo delle capacità tecniche e politiche,comprese quelle di gestione e di prevenzio-ne.

Infine, si cita la raccomandazione della Confe-renza Nansen sul Climate Change and Displace-ment in the 21st Century, tenutasi a Oslo, Nor-vegia, il 5-7 giugno 2011: “La comunità inter-nazionale dovrebbe intervenire per frenare ilcambiamento climatico, migliorare radicalmentela prevenzione dei disastri, la capacità nell’in-tervenire e dare risposte efficaci, supportarel’aiuto finanziario, che è più efficace su largascala, e rafforzare la protezione per le personesfollate, sia all’interno che all’esterno del propriopaese. Dovrebbe inoltre esserci una migliore at-tenzione verso i bisogni di protezione nelle si-tuazioni di disastro ambientale”.

8 R. C. Di Toma, Environ-mental or Climate Refuge-es, Tesi di Master Univer-sitario in Diritti Umani eIntervento Umanitario,Univ. Di Ravenna, a/a.2011/2012, p. 8.

9 B. Docherty – T. Giannini,Confronting a rising tide:a proposal for a Conven-tion on climate changerefugees, in Harvard Envi-ronmental Law Review,2009, pp. 349-393.

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4. profughi ambientali

il gruppo Dei piCColi Stati inSulari invia di sviluppo, più noto come SIDS (SmallIsland Developing States) raccoglie 52Stati dei 193 che compongono le NazioniUnite ed è stato riconosciuto a livello in-ternazionale nel corso del Summit dellaTerra tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992.Alla costituzione del gruppo diedero il lo-ro assenso 179 Paesi, poiché i SIDS rap-presentano “un caso unico, sia per que-stioni ambientali che per questioni riguar-danti lo sviluppo”. Pur comprendendo infatti nazioni appar-tenenti ad aree geograficamente e cultu-ralmente diverse (Caraibi, Pacifico, Africa,Oceano Indiano e Mar della Cina), il grup-po dei SIDS si misura, oggi come allora,con questioni e problemi comuni: risorselimitate, suscettibilità alle catastrofi na-turali, elevato livello di dipendenza dalcommercio internazionale, propensionea crisi dovute a shock esterni, vulnerabilitàal cambiamento climatico e all’innalza-mento del livello del mare. L’evoluzionedi questo ultimo fattore, che nel tempo havisto un interesse crescente da parte del-l’opinione pubblica del mondo globaliz-zato, è monitorata dalle Nazioni Unite at-traverso il Gruppo Intergovernativo diesperti sul Cambiamento Climatico (piùconosciuto come IPCC, acronimo inglesedi Intergovernmental Panel on ClimateChange). In maniera periodica l’IPCC dif-fonde un rapporto di valutazione, costrui-to attraverso i risultati dei più importanti

studi scientifici prodotti in merito. Nel-l’ultimo rapporto all’analisi della situazio-ne delle Piccole Isole è dedicato un capi-tolo a parte e al suo interno il tema del-l’impatto del cambiamento climatico sullemigrazioni è trattato con una sezione spe-cifica: nell’ambito di questa valutazionele migrazioni sono state generalmentepresentate come una probabile, futura ri-sposta di adattamento ai cambiamenti cli-matici, ma la consistenza e la portata delleconseguenze di questi movimenti riman-gono poco chiare. Questa stima così cauta è dovuta al fattoche, a oggi, stabilire in quale modo e so-prattutto in quale grado gli effetti del cam-biamento climatico incideranno sui pos-sibili movimenti umani nel mondo rimaneun compito molto difficile. Del resto, comeesplicitamente affermato nella sezionedel capitolo 29: “a oggi, testimonianze dimigrazioni dovute inequivocabilmenteagli effetti del cambiamento climatico nonesistono”. Questo dato è in netto contrastocon le prime stime teoriche elaborate sullemigrazioni climatiche (Myers 2002) emolti studiosi, tra i quali Colette Mortreuxe Jon Barnett del Dipartimento di Geo-grafia alla University of Melbourne hannocriticato tali stime per la loro mancanzadi empirismo, sottolineando che “Questoinutile sensazionalismo attorno al temadelle migrazioni climatiche nel Pacifico èfiorito in assenza di prove concrete […]incentivato da organizzazioni non gover-

native che desiderano sensibilizzare l’opi-nione pubblica rispetto ai rischi del cam-biamento climatico”. Questa intepretazio-ne coincide con quella di altre importantistudiose, Carol Farbotko e Heather Lazrus,che nelle loro ricerche svolte a Tuvalu han-no rilevato un forte distacco tra la perce-zione della grande maggioranza degli iso-lani – che vede la migrazione come un fe-nomeno motivato da ragioni socio-econo-miche – e quella dei volontari internazio-nali, incentrata sugli effetti del cambia-mento climatico. Alla luce di questo tipo di resoconti, il cli-matologo britannico Mike Hulme invita aprendere le distanze da quello che egli de-finisce un sempre più diffuso “riduzioni-smo climatico”, che soffermandosi unica-mente sugli effetti del cambiamento cli-matico di fatto li eleva ad unico arbitro difenomeni sociali complessi, quali ad esem-pio le migrazioni. Questo tipo di discorsosminuisce le capacità di adattamento dellecomunità locali e nel limitarne i marginidecisionali a questioni inerenti il clima ri-schia di prestarsi a una retorica che inqua-drando le migrazioni come un fenomenoinevitabile e intrinsecamente problema-tico, oscura tradizioni di mobilità e altrecause di vulnerabilità, dovute in massimaparte ai cambiamenti socio-culturali in-nescati dalla globalizzazione.

* A cura di Fondazione Migrantese Osservatorio Vie di Fuga

Cambiamento climatico e migrazione nei Piccoli StatiInsulari in via di sviluppo*

Focus /

BibliografiaFarbotko, C., Lazrus, H., Thefirst climate refugees? Contest-ing global narratives of climatechange in Tuvalu, Global Envi-ronmental Change, Vol. 22,pp. 382-390, 2012.Hulme, M., Reducing the futureto climate. A story of climate de-terminism and reductionism,Osiris, Vol. 26, pp. 245-266,2011.

Mortreux, C., Barnett, J., Cli-mate change, migration andadaptation in Funafuti, Tuvalu,Global EnvironmentalChange, Vol. 19, pp. 105-112,2009.Myers, N., “Environmentalrefugees: a growing phenom-enon of the 21st century”, inPhilosophical Transactions ofthe Royal Society B, 357(1420), pp. 609-613, 2002.

Nurse, L.A., McLean, R.F.,Agard, J., Briguglio, L.P., Du-vat-Magnan, V., Pelesikoti, N.,Tompkins, E., e A. Webb,“Small islands”, in ClimateChange 2014: Impacts, Adap-tation, and Vulnerability. PartB: Regional Aspects. Contribu-tion of Working Group II to theFifth Assessment Report of theIntergovernmental Panel on Cli-mate Change (a cura di) Bar-

ros, V.R., Field, C.B., Dokken,D.J., Mastrandrea, M.D.,Mach, K.J., Bilir, T.E., Chat-terjee, M., Ebi, K.L., Estrada,Y.O., Genova, R.C., Girma, B.,Kissel, E.S., Levy, A.N., Mac-Cracken, S., Mastrandrea,P.R., e L.L. White. CambridgeUniversity Press, Cambridge,UK e New York, NY, USA, pp.1613-1654.