PROBLEMI DELLA STORIA DEL PARTITO POPOLARE · Il partito popolare e la questione romana, Firenze...
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PROBLEMI D ELLA STO RIA D EL PA R T IT O POPOLARE
Al suo sorgere e poi nei brevi anni della sua azione sulla scena politica italiana il Partito popolare aveva attirato il più vivo interesse, non solo di commentatori politici, ma di uomini di studio. La sua ampia affermazione poneva delicati problemi di valutazione e di interpretazione. Pagine sul popolarismo come quelle di Gaetano Salvemini \ di Piero Gobetti2 o di Mario Fer- rara 3, per non ricordare che alcuni nomi, appaiono ancora oggi penetranti e ricche di senso storico. Ma è naturale che le contiti- genti preoccupazioni politiche avessero il sopravvento in quegli scrittori; mancava per giunta quel minimo di prospettiva, neces- sario per una valutazione storica.
Quando alla fine del 1926 il Partito fu sciolto, e si ebbe così il quadro completo della sua vicenda, ogni possibilità di discorso critico sulla vita politica del primo dopoguerra era venuta meno in Italia. Il tema del popolarismo era, per così dire, esiliato con i suoi protagonisti, oggetto delle loro acute, appassionate e talvolta amare riflessioni. In Italia per molti anni la memoria del Partito popolare, come ha scritto Jacini, fu « di continuo svisata e insudiciata dalla postuma denigrazione di coloro che lo avevano soppresso »\
La Storia del Partito popolare di Jacini, pubblicata nel 19 5 1 , ma scritta fra il ’39 e il ’40, voleva proprio offrire una immagine non deformata di quella vicenda e, attraverso la memoria del passato, preparare la nuova stagione politica della quale già gli antifascisti sentivano prossimo l’avvento.
In una prospettiva diversa dedicava nel 1948 alcune pagine
(*> Questo scritto riproduce, con qualche ritocco di forma e l ’aggiunta di alcune note, il testo di una conversazione tenuta il 13 dicembre 1963 alla Scuola Normale Superiore di Pisa nel quadro di una serie di conferenze sui partiti politici italiani. Di quella conferenza il presente scritto conserva, naturalmente, il carattere introduttivo ed orientativo.
1 C fr .: Il partito popolare in «Rivoluzione liberale», 12 marzo 1922; e il saggio Il partito popolare e la questione romana, Firenze 1922.
2 P. Gobetti, Rivoluzione liberale, Torino 1950, pp. 73 e ss.3 M. Ferrara, L u ig i Sturzo, Roma 1925.* S. Jacini, Storia del partito popolare, Milano 1951, p. X IV .
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al Partito popolare Arturo Carlo Jemolo 5. Il tema non poteva avere molto spazio in un’opera rivolta essenzialmente a far luce sul rapporto di vertice fra Chiesa e Stato, ma }emolo formulava già acute osservazioni sul carattere e sui limiti del nuovo partito, inquadrandolo in un ampio sfondo di storia religiosa e politica.
Le premesse per una più approfondita valutazione ed anche per un ampliamento di ricerche sul piano documentario ed archivistico dovevano essere poste dalle nuove correnti storiografiche sviluppatesi in questo dopoguerra: nel quadro di un interesse crescente per la ricerca sulle forze profonde della società, numerosi studiosi hanno rivolto la loro attenzione alla posizione dei cattolici nella società italiana del post-Risorgimento. La posizione preminente del partito dei cattolici in questo dopoguerra ha contribuito ad accentuare questo interesse 6.
D ’altra parte le ricerche avviate nell’ultimo dopoguerra sulla crisi della democrazia italiana nel 1922 e sulle origini del fascismo non potevano non individuare nel partito popolare uno dei principali protagonisti della vicenda. Così erano poste le condizioni per uno studio approfondito ed organico del popolarismo sotto un duplice profilo: anzitutto come punto- di arrivo del complesso sviluppo del movimento cattolico; in secondo luogo come uno dei protagonisti della vicenda che ha condotto alla crisi della democrazia italiana.
Accenniamo qui ad alcuni aspetti o momenti della sua storia che sono stati particolarmente posti a fuoco negli studi di questi anni o che dovrebbero, a nostro avviso, essere più approfonditi per inquadrare il significato della esperienza popolare.
E anzitutto va posto l’accento sul fatto stesso del partito che sorge: i cattolici italiani, che nella grande maggioranza ne sono i promotori, accettano la categoria « partito », e non solo- la accettano ma addirittura la esaltano. La riforma elettorale in senso proporzionale, voluta dai popolari alla vigilia delle elezioni del ’ 19, è la premessa di una valorizzazione della funzione del partito,
5 A . C. Jemolo, Chiesa e Stato m Italia negli ultim i cento anni, Torino 1948, pp. 573 e ss.
6 Per gli studi comparsi in questo dopoguerra sul « movimento cattolico » cfr. fra le molte rassegne : F. Fonzi, I cattolici e l’ Italia m oderna, « Itinerari » dicembre 1956; Idem , I cattolici italiani nel ’900, « Cultura e scuola », n. 5, settembre-novembre 1962; L . VlLLARl, Recenti studi cattolici sulla storia d ell’ Italia contemporanea, « Studi storici », IV (1963), n. 1 , pp. 123-141.
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quello stesso partito contro il quale, nel corso dell’8oo, molti ana- temi erano stati pronunciati da parte cattolica: si pensi alle pagine della Filosofia della politica di Rosmini, nelle quali i partiti erano condannati come espressione delle « passioni » umane; si pensi al Gioberti che nel Rinnovamento li definiva ancora « residuo di antica barbarie ».
Bisognerebbe studiare più a fondo il problema del partito nel- P800 proprio sul piano delle idee, della storia delle dottrine. Abbiamo molti studi ormai sui singoli partiti, pochissimi sul contrastato sviluppo dell’ idea di partito 7 *.
La posizione dei cattolici di fronte all’ idea di partito nel corso dell’800 si potrebbe riassumere brevemente e schematicamente nelle seguenti linee essenziali. Da parte dei cattolici liberali, anche quando esplicitamente non si accetta l’ idea di partito si preparano però le condizioni teoriche per accettarla perchè si affermano valori di tolleranza, di libertà civili, di spontaneo convincimento che son tutte premesse di un sistema di partiti; Balbo, come è noto, giunge ad accettare e teorizzare la funzione dei partiti politici, come strumento necessario perchè si formi la volontà dello Stato. Nella seconda metà del secolo poi i conciliatoristi si muovono di fatto sulla linea tracciata da Balbo e cercano ripetutamente di attuare l’esigenza, che sentono assai viva, di un partito conservatore nazionale; ma il partito da essi auspicato non giunge mai a realizzarsi perchè manca, in sostanza, di una effettiva base.
Da parte dei cattolici intransigenti avviene all’ incirca l’opposto; si respingono tutte le premesse liberali essenziali per un sistema di partiti; di fatto però si prepara il partito sul piano organizzativo come strumento di lotta contro il liberalismo e il nuovo ordine che esso ha instaurato.
Già nel 18 2 1, ad esempio, l ’« Enciclopedia ecclesiastica » afferma la necessità di adoperare « per far rientrare nel sentiero del dovere gli spiriti, i medesimi mezzi che furono impiegati per farneli traviare »s e ancor prima erano nate le Amicizie cristiane, organizzazioni dei « buoni » contro i « malvagi ».
7 Sulle origini dell’idea di partito: S . Cotta, La nascita della idea di partito nel secolo X V III, « Il Mulino », giugno 1959.Cit. da G. V erucci, Per una storia del cattolicesimo intransigente in Italia dal 18 15 al 1848, in : Atti dell'X I convegno storico toscano, «Rassegna storica toscana », a. IV , fase. III-IV, luglio-dicembre 1958, p. 253.
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Molto di più nella seconda metà del secolo si avverte la ne- cessità della lotta contro il liberalismo con i mezzi stessi che esso ha fornito. Il Sacchetti, per fare un altro esempio, un esponente assai significativo del movimento intransigente, al Congresso di Firenze del 1875 afferma: « Noi diremo a chi comanda: seri- veste voi nelle vostre leggi la libertà della stampa? e noi di que- sta libertà ci gioveremo. Proclamaste voi la libertà del pensiero? e della parola e del pensiero noi useremo. Riconosceste voi il libero diritto d’associazione e di riunione? ed eccoci qui riuniti e consociati... Noi oggi vogliamo sfidarvi a duello con le sole armi della stretta legalità » 9.
Occorre attendere la fine del secolo perchè in alcune pagine di Filippo Meda si annunzi per la prima volta nelle file intransigenti l’idea del partito in un senso nuovo: come mezzo cioè di partecipazione alla vita dello Stato e di formazione della volontà politica 10 11.
Il Partito popolare ha dunque alle spalle un lungo e complesso processo di avvicinamento e di scoperta dell’ idea di partito.
Ma invano si cercherebbero fra i protagonisti del nuovo partito trattazioni teoriche del tema. Alla sua base vi è una scelta politica, che resta però, per molti dei suoi aderenti, non motivata culturalmente. Torneremo su questo punto del rapporto tra politica e cultura nel popolarismo, ma possiamo dire subito che gli orientamenti culturali del cattolicesimo italiano del primo novecento ben poco offrivano per una giustificazione teorica delle libertà moderne e del sistema dei partiti che ne è in fondo una logica conseguenza.
In sostanza, come ha notato Sergio Cotta u, perchè il pensiero cattolico accolga l’idea di partito occorre che esso giunga a rovesciare il rapporto tradizionale fra bene comune e libertà: occorre cioè che dal concetto di libertà discenda quello di bene comune e non viceversa; si tratta, in altre parole, di storicizzare, dialettizzare la nozione di bene comune. Compito questo ancor
9 Secondo congresso cattolico italiano tenutosi in Firenze dal 22 al 26 settembre 1 8 7 5 , vol. I, Atti, B o lo g n a 1 8 7 5 , p . 9 6 .
10 F. Meda, L ’Azione politica dei cattolici italiani, « S c u o la c a tto lic a » , g iu g n o 18 9 6 , o ra in Scritti scelti, R o m a 19 5 9 , p p . 9 1 -9 6 .
11 I n : / partiti politici nello Stato democratico, q u a d e rn i d i Iu s t it ia , n . 1 1 , R o m a 19 5 9 , p p . 5 4 -5 5 .
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arduo oggi, ma assai più, forse, per il mondo cattolico del primo novecento.
Del resto c’è qualche voce che ci mette in allarme. Quella, per esempio, del deputato popolare Egilberto Martire per il quale il partito si pone sul piano della ipotesi derivante dalla constata- zione della divisione religiosa come avvio alla tesi dello Stato cristiano « che — egli scrive — riconosce la pienezza del diritto positivo divino, che confessa, protegge, difende l’unica fede vera e l’unica Chiesa vera, la Chiesa»12 13 14. Si potrà dire che Egilberto Martire non rappresenta il pensiero popolare, ma indubbiamente il suo è un modo di vedere che ha radici e seguito nel mondo cat- tolico.
Con queste osservazioni siamo già entrati in pieno in un altro aspetto del nostro tema: quello delle origini del partito e del suo rapporto con le precedenti esperienze dei cattolici italiani.
Controversa questione! Già dibattuta dai protagonisti stessi del popolarismo dei quali alcuni, come il Crispolti, ponevano in luce la continuità del nuovo partito rispetto ai tentativi dell’ultimo ’800 rivolti a dare vita ad un partito conservatore nazionale, altri amavano riallacciarsi alla prima democrazia cristiana, altri ancora, come il Meda, accennavano a una linea se non di continuità ah meno di non profonda rottura con la esperienza clerico moderata; e non mancò neppure chi pensò di poter indicare un precedente del popolarismo nel neoguelfismo giobertiano 13.
Ma già nei commenti dei contemporanei si affaccia anche un’ab tra idea: legami, sì, con la esperienza del passato, ma anche e so- prattutto estrema novità del Partito* popolare; novità che si riassume nella impronta che ad esso ha data il suo fondatore, Luigi Sturzo, figura assolutamente preminente nel partito, come ha notato il Morandi u, « il risolutore — è stato scritto — di tutte le antitesi esistenti in seno al cattolicesimo italiano »15.
E certo Sturzo ha avuto una grande coscienza di questa novità; in una lettera al Cavazzoni, che di poco precede la nascita
12 Discorsi politici, Roma 1921, pp. 47 e ss.13 Cfr. per questi accenni il mio scritto P er una valutazione del popolarism o, in :
« Quaderni di cultura e storia sociale », a. II, n. 5, màggio 1953.14 C. Morandi, I partiti politici in Italia, Firenze 1963, p. 91.15 M. D ipiero, Storia critica dei partiti italiani, Roma 1946, p. 170.
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del partito, egli scrive: « Fin dal 1905, nel noto discorso sulla condizione dei cattolici in Italia, ultima mia affermazione del vec- chio movimento democratico cristiano, sostenevo all’ indomani del' l ’attenuazione del non expedit che un Partito cattolico, come tale, non può esistere, e che gli organismi dell’azione cattolica non poS' sono tramutarsi1 in organi di partito politico. Dopo tante prove e tanti rifacimenti di organizzazioni e di unioni, resto del medesimo parere, non ostante l ’avvento di un gruppo di nostri amici al Parlamento e perfino al Ministero. Abbiamo bisogno di una differenziazione che non può essere quella religiosa nella quale convergeranno, per convinzione o per opportunità, liberali e moderati, cattolici praticanti e soci delle nostre organizzazioni e dei nostri Gruppi parrocchiali; e la differenziazione, intravista e sentita nel 1896, anno del battesimo della democrazia cristiana, ritorna oggi viva e pulsante dopo la guerra e nella rivalutazione di tutti i valori politici in Italia » “ .
Qui c’è già, in breve, la sostanza di quello che Luigi Sturzo dirà al Congresso di Bologna nella sua notissima relazione, in cui afferma la aconfessionalità e la autonomia politica del partito dalla gerarchia ecclesiastica.
Gli studi più recenti hanno confermato e chiarito molto bene che, come forza organizzativa, come massa elettorale, il partito discende dal movimento intransigente, è il punto di arrivo di un lungo e spesso nascosto lavoro alla base della società italiana, che era sfuggito alla storiografia tradizionale e sul quale ora si va facendo la luce dovuta. Ma hanno anche sottolineato la validità di quelle parole di Sturzo: il Partito popolare è su una linea di continuità con il passato, ma lo supera, lo trascende qualitativamente.
Le rivendicazioni tradizionali del mondo cattolico di tipo religioso e sociale sono tutte da esso accolte, ma sono per la prima volta chiaramente inserite in un disegno politico di riforma, di profondo rinnovamento dello Stato, di superamento della base individualistica e borghese dello Stato liberale sorto nel Risorgimento. Basta un confronto fra i punti del Patto Gentiioni del 19 13 e quelli del programma popolare. Lì, nel patto Gentiioni, c’è solo una preoccupazione di difesa della libertà della Chiesa, deH’inse- 16
16 Si veda il testo della lettera in G. De Rossi, Il Partito popolare italiano dalle ongin i al Congresso d i N apoli, Roma 1920, pp. 47-50 (ora inserita nella raccolta Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana. Antologia di docum enti a cura di Pietro Scoppola, Roma 1963, pp. 155-157).
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gnamento privato, delle associazioni sindacali bianche; qui, nel programma del Partito, quelle richieste si inquadrano nella visione di un rapporto nuovo fra la società e lo Stato, in un concetto nuovo dello Stato stesso. Non è un caso che il punto relativo alla libertà e indipendenza della Chiesa non apra il programma ma appaia come punto ottavo dopo quelli che rivendicano le libertà degli enti intermedi di fronte allo Stato.
E ’ significativo in proposito il colloquio ricordato da Carlo Sforza fra Sturzo e Gasparri alla vigilia della fondazione del nuovo partito: « Sturzo domandò al cardinale se il Papa sopprimerebbe completamente il non expedit. Gasparri rispose: ’ Am mettendo che il Papa consenta, quale politica fareste voi verso la Chiesa? ’. E Sturzo: ’ Nessuna politica contraria, ciò va da se, ma nessuna politica speciale in quanto partito; la questione romana è una questione nazionale \ Gasparri si mostrò soddisfatto della risposta »
E ’ stato merito particolare di Gabriele De Rosa, nei molti studi che ha dedicato alla formazione del pensiero politico di Luigi Sturzo e al partito popolare, aver messo in luce tutto ciò, talvolta forse spingendosi troppo oltre nel sottolineare il distacco fra il popolarismo di Sturzo e l'esperienza della prima democrazia cristiana, ma certamente con sostanziale e felice intuito di quello che, politicamente Sturzo ha rappresentato nella storia del movimento civile e politico dei cattolici italiani 1S. In effetti la polemica di Sturzo contro lo Stato liberale si fonda su una eccezionale conoscenza delle sue leggi e della sua vita interna, su una esperienza di vita amministrativa e su una consapevolezza dei problemi del Mezzogiorno, non soddisfatti dallo Stato unitario, che danno al suo discorso un tono assolutamente nuovo, concreto ed aderente alla realtà: il meridionalismo è di fatto una componente essenziale nel pensiero politico di Sturzo e nella ideologia popolare “ . 17 18 19
17 C . Sforza, L ’ Italia dal 1 9 1 4 al 19 4 4 quale io la vidi, R o m a 19 4 4 , p . 6 3 .18 D i G . D e R o s a v a s o p ra ttu tto se g n a la ta la Storia del partito popolare, B a r i 19 5 8
(la m ig lio re o p e ra c r it ic a su lla s to r ia d e l p a r t ito ) ; m a si c o n fro n t in o a n c h e g li s tu d i su lle p o s iz io n i d i S tu r z o n e l p e r io d o p r e p a ra to r io d e l p a r t ito e s p e c ia lm e n te : Storia politica dell’Azione cattolica in Italia, dall’ enciclica « Il fermo proposito » alla fondazione del partito popolare ( 1 9 0 5 - 19 19 ) , B a r i 19 5 4 ; L . S t u r z o , « La Croce di Costantino », Primi scritti politici e pagine inedite sull’Azione cattolica e sulle autonomie comunali, a c u ra d i G . D e R o s a , R o m a 19 5 8 .
19 C f r . : F. Rizzo, Luigi SturZo e la questione meridionale nella crisi del primo dopoguerra ( 19 19 - 19 2 4 ) , R o m a 19 5 7 .
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Sul tema delle origini del partito e del suo rapporto con le precedenti esperienze dei cattolici italiani non si può fare a meno di ricordare gli scritti comparsi sullo « Spettatore italiano » fra la fine del ’53 e l’ inizio del 1954, le cui tesi sono state riprese poi in numerosi articoli del « Dibattito politico » 20.
Su queste riviste si delinea una visione fortemente critica del partito cattolico, strumento non idoneo della opposizione della Chiesa alla rivoluzione borghese, del quale si preannunzia ed auspica perciò il superamento. In sostanza, secondo tale visione, l’opposizione della Chiesa al mondo borghese appare valida e pienamente fondata, non riducibile ad un puro atteggiamento reazionario. Il sistema borghese sarebbe fondato infatti sulla proprietà privata, sulla dimensione dell’economicità, su una dimensione puramente quantitativa, estranea perciò, anzi opposta, agli elementi qualitativi e spirituali nei quali si sostanzia il fenomeno religioso. Ma l'opposizione del partito cattolico all’assetto borghese non potrebbe che essere a sua volta corporativa, fondata su un altro esclusivismo, in quanto esso avrebbe di mira gli interessi particolari dell’istituto ecclesiastico. Solo una forza politica schiettamente laica potrebbe spezzare i limiti dell’ordine borghese senza ricadere negli esclusivismi del corparativismo cattolico. « A ll’intera parabola del Partito cattolico — si legge nello « Spettatore » —• in un set- tantennio di vita italiana è sotteso il tentativo di dare vita appunto ad una forza politica del genere »; di questa parabola il partito popolare rappresenterebbe la punta più avanzata e mostrerebbe insieme i limiti insuperabili.
La tesi ha una chiara intenzione politica: giustificare l ’adesione dei cattolici al movimento comunista. Sotto il profilo storico, che qui interessa, essa si riallaccia a Gramsci che nel partito popolare vedeva una fase necessaria del processo di sviluppo del proletariato italiano verso il comuniSmo; ma dalla idea di Gramsci si distacca per la esplicita preoccupazione di riconoscere e garantire uno spazio autonomo alla esperienza religiosa 21. Pur igno-
20 II partito cattolico e la sua crisi, « Lo spettatore italiano », dicembre 1 9 5 3 , gennaio-febbraio 19 5 4 : V a l e r io T r e v i , L a crisi giolittiana e il compromesso d i SturZo, « Il dibattito politico », 1 6 aprile 1 9 5 7 ; Idem , Il fallim ento del partito popolare, Ivi, 1 6 maggio 1 9 5 7 , Idem , D a De G asperi a Fanfani (verso la fin e d ell’unità dei cattolici), Ivi, 1 giugno 1 9 5 7 .
21 « 11 cattolicesimo democratico — ha scritto Gramsci dei popolari — fa ciò che il socialismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida. Assunta una forma, diventata una potenza reale, queste folle si saldano con le masse, socia-
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rando aspetti essenziali della dialettica interna del mondo catto' lico e riducendo una realtà complessa e a molte dimensioni alla linea unica e tesissima di uno schema ideologico, gli scritti sopra ricordati hanno portato un contributo interessante al dibattito e alla valutazione, anche in sede storica, sul partito popolare.
Un altro punto che merita almeno un cenno è quello del rap- porto tra il Partito popolare e la partecipazione dei cattolici alla guerra del 19 15 -18 .
L ’accettazione della guerra e la reale partecipazione ad essa dei cattolici italiani rappresenterebbe, secondo una valutazione di- venuta quasi di maniera, la premessa naturale del pieno rientro dei cattolici nella vita politica e della nascita del nuovo partito.
Ma in realtà, le motivazioni che hanno spinto la maggioranza dei cattolici italiani a passare dal neutralismo iniziale all’accetta' zione della guerra sono perfettamente in linea con gli indirizzi della politica clerico'moderata. Il Partito popolare rappresenta piuttosto una rottura con questo passato anche se, indubbiamente, il clima di solidarietà nazionale ha avuto una parte notevole nel rendere possibile il pieno inserimento dei cattolici nella vita po' litica 22.
liste consapevoli, ne diventano la continuazione normale » (L’ « Ordine nuovo », 1 novembre 1919; riprodotto in «Rivoluzione liberale» e ora in: L e riviste di Piero G obetti, a cura di Lelio Basso e Luigi Anderlini, Milano 1961, p. 410). Ma non si può fare a meno di notare che la previsione di Gramsci non è stata confermata dagli eventi successivi. Per la valutazione marxista della esperienza popolare si veda: G. Candeloro, Il m ovim ento cattolico in Italia, Roma 1953, pp. 378 e ss. « La fondazione del partito popolare —■ egli scrive (p. 378) —■ deve essere inquadrata nella politica generale che la Chiesa fu costretta a svolgere negli anni del dopoguerra di fronte alla grande ondata rivoluzionaria determinata in tutto il mondo dalla Rivoluzione d ’Ottobre ». Sulla base di queste premesse la storiografia marxista ha rivolto particolare attenzione alla politica agraria del partito popolare, per porne in risalto le contraddizioni: cfr. in proposito: A . Caracciolo, Il partito popolare e la lotta dei mezzadri, « Movimento operaio », maggio-agosto 1955, pp. 573 e ss.
22 Cfr. : Benedetto X V , i cattolici e la prim a guerra m ondiale, A tti del Convegno di studio tenuto a Spoleto nei giorni 7-8-9 settem bre 1962, a cura di Giuseppe Rossini, Roma 1963. Sulla mia relazione a quel convegno (Cattolici neutralisti e interventisti alla vig ilia del conflitto, voi. cit. pp. 95-151) di particolare interesse sono le osservazioni di Gianni Sofri : Sulla storia del partito cattolico. O sserva- Zioni a proposito d i due libri recenti, in « Studi storici », a. V , n. 3, luglio-settembre 1964. Consento con Sofri, in linea di principio, sulla « possibilità per i cattolici (per i singoli cattolici) di partecipare alla vita politica, in quanto cittadini e non in quanto cattolici, e quindi nei modi da ciascuno ritenuti più adeguati » e riconosco con lui che il periodo del pontificato di Pio X conteneva, in germe, questa possibilità; ma di fatto, sul piano storico, quella teorica possibilità si è tradotta nella alleanza clerico-moderata del periodo giolittiano. E ’ prò-
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L ’analisi della attività e degli scritti di Sturzo nel periodo bellico conferma questo giudizio, come pure lo conferma la linea politica del Partito popolare, moderata sì, per non perdere la borghesia interventista, ma di sostanziale opposizione all’eredità dell’interventismo stesso; lo conferma d’altra parte la sua stessa politica estera 23.
E ’ significativo che al discorso programmatico di Giolitti pronunziato a Dronèro alla vigilia delle elezioni del ’ 19, che in sostanza suonava condanna dell’azione politica che alla guerra aveva condotto, non siano mancati i più favorevoli consensi popolari. Meda stesso, che aveva interpretato le istanze del patriottismo moderato di tanti cattolici e aveva partecipato al governo Boselli, scriveva a Sturzo, all’indomani del discorso di Dronèro, che a Milano c’era un grande malumore perchè le masse popolari del Partito non nascondevano « le loro intenzioni di una alzata di scudi, contro la guerra... Mi hanno fatto avvertire — aggiun-
prio rispetto a questa situazione di fatto che acquista rilievo l ’opera di Luigi Sturzo e il partito popolare da lui fondato. Insomma quella possibilità cui accenna Sofri non deve impedire di considerare lo sviluppo del movimento cattolico per quello che è stato; rispetto a questo sviluppo reale mi pare valido affermare che l ’esigenza di « una autonoma affermazione politica » rappresenta « uno dei motivi essenziali », per l’interpretazione della storia del movimento cattolico. E ’ poi sostanzialmente esatto quel che Sofri afferma, che ne} novecento il movimento cattolico italiano « aveva... persa la sua prima ragione d ’essere » ma non è possibile negare che ne veniva acquistando un’altra proprio nei confronti del problema sociale e del movimento socialista in progressiva espansione (un movimento socialista che non apriva davvero le sue porte ai cattolici anche se disposti a condividere il suo programma politico). Sono d ’accordo anche sui limiti del partito popolare per quanto riguarda il suo rapporto con l ’autorità ecclesiastica (in queste stesse pagine lo sottolineo); ma non credo nella validità delle osservazioni di Sofri sull’ interclassismo popolare come limite di fondo del partito; il classismo socialista non ha dato frutti migliori nel confronto con il fascismo e l ’esperienza storica successiva, non solo italiana, mi pare offra nuovi argomenti in favore dell’ interclassismo e induca perfino a porre in dubbio il concetto tradizionale di classe. E ’ vero invece quel che Sofri dice dei « sociologismi sorpassati » che molto spesso ammantano l’ interclassismo cattolico. Gli spunti che le acute pagine del Sofri offrono sono numerosi e dispiace trattarne per rapidi accenni in una nota: per quanto riguarda le sue osservazioni finali mi pare giusta la sua denuncia della frequente utilizzazione della religione a fini politici che lo induce a mostrarsi diffidente nei confronti di equivoci criteri « religiosi » di interpretazione storiografica; ma non consento con la sua affermazione che « buona parte della storia del cattolicesimo politico italiano del novecento... non ha nulla a che vedere con la storia religiosa e con preoccupazioni di indole religiosa » e che sia « una storia tutta laica... quella del Partito popolare e della Democrazia cristiana ». Affermazione singolare, in verità, perchè se per fare storia religiosa fosse veramente richiesto un fenomeno religioso allo stato puro, per così dire, senza implicazioni politiche o economiche, tanto varrebbe negare totalmente ogni possibilità di storia religiosa.
23 S u lla p o lit ic a e s te ra p o p o la re c f r . : G . G u a l e r z i , La politica estera d e i popolari, R o m a 19 5 9 .
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geva — che se nel mio annunciato discorso oserò fare delle tamburonate patriottiche (espressione testuale) non mi risparmieranno i fischi »
Alla luce di queste osservazioni, necessariamente frammentarie e incomplete, sull’ideologia del nuovo partito e sul posto che esso occupa nello sviluppo del movimento cattolico, dobbiamo ora gettare un rapido sguardo su qualche momento ed episodio saliente della sua azione politica. V i troveremo — dico subito anticipando le conclusioni — la conferma delle nuove esigenze di cui il partito è portatore, ma anche i segni di un qualche cosa che nel partito non funziona, di una sua pesantezza e incapacità a tradurre in una linea politica concreta le affermazioni programmatiche da cui muove.
Consideriamo anzitutto la collaborazione popolare ai governi del dopoguerra retti ancora dagli esponenti del liberalismo. Il partito popolare, pur accettando la necessità della collaborazione — è troppo debole per fare da solo e troppo forte per essere all’opposizione — vuole dare ad essa un significato nuovo. Rifiuta di essere la riserva di voti del liberalismo, vuole in sostanza rovesciare i termini della collaborazione offerta nel periodo giolittiano, perciò ad ogni crisi il partito, la direzione del partito, pone precise condizioni per la collaborazione, mira ad una intesa programmatica. E ' una linea nuova per i cattolici e nuova anche nella vita politica italiana; una linea di intransigenza politica che non ha nulla a che fare con la intransigenza protestataria dell’Opera dei congressi e ancor meno con la prassi clerico-moderata. Una linea che nasceva dalle esigenze elettorali del partito, ma rispondeva anche alle mutate condizioni della lotta politica, fondata ormai sulla proporzionale e sulla nuova posizione dei partiti. Il potere si andava dislocando dai gruppi tradizionali di notabili ai partiti politici.
Gli esponenti del liberalismo del tempo non intesero questa nuova realtà e guardarono con diffidenza e ostilità al partito popolare che, più ancora forse del partito socialista, ne era il portatore. 24
24 C fr .: Mario Dalla Porta, La collaborazione del partito popolare italiano ai ministeri del dopoguerra, « Rassegna di politica e di storia », marzo 1957, pp. 22 e ss., maggio 1957, pp. 15 e ss.
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Basta pensare all’atteggiamento paternalistico di Francesco Sa- verio Nitti verso il partito, che pure aveva dato uomini al suo governo; del Nitti, sempre convinto di potere addomesticare il nuovo protagonista della scena politica, offrendo al Vaticano prò- spettive per una soluzione della questione romana. In particolare il Nitti si inimicò i popolari sulla questione del rapporto con i sindacati : i popolari chiedevano che il governo riconoscesse il principio della pluralità del sindacato e tutelasse negli ambienti di lavoro la libertà sindacale; ma si verificarono, in occasione di due scioperi di postelegrafonici e di ferrovieri, episodi assai gravi. I lavoratori organizzati nei sindacati bianchi che non avevano scioperato, giudicando lo sciopero inaccettabile perchè politico, furono abbandonati dal governo alle rappresaglie dei rossi o addirittura, trattandosi di dipendenti statali, trasferiti in altre sedi Tutto questo i popolari non poterono tollerare: si giunse, attraverso alterne vicende, dopo un rimpasto operato dal Nitti, ad una decisa rottura che portò alla crisi del maggio 1920.
Una importanza determinante nell’atteggiamento popolare la ebbe il congresso di Napoli dell’aprile 1920, nel quale fu votato un ordine del giorno proposto da Gronchi che riassume assai efficacemente i principi della intransigenza politica del partito. « Il secondo Congresso nazionale del Partito popolare italiano — vi si legge — ... Richiamandosi al programma popolare come alla concezione più organica dei problemi della vita nazionale e più atta a risolverne la crisi nell’equilibrio di nuovi ordinamenti, informati a spirito di libertà e di cristiana giustizia; ... afferma che una cooperazone con altre forze politiche non può avvenire se non sulla direttiva del progressivo profondo rinnovamento degli istituti economici e politici, e attraverso chiare e concrete impostazioni programmatiche, che determinino senza indecisioni ed equivoci le rispettive posizioni e le reciproche responsabilità, ed assicurino la possibilità di effettive realizzazioni » 26.
Un altro notissimo episodio: il « veto » a Giolitti.Lo statista di Dronèro, come e più di Nitti, mostrò una asso
luta incomprensione per il fenomeno popolare, nutrì per Sturzo, « prete intrigante », come ebbe a definirlo, profondo disprezzo
2o G. De Rosa, Storia del partito popolare, cit., pp. 98*100.26 G. D e Rossi, I popolari nella X X V I legislatura. Dal congresso di Napoli alla
marcia su Roma, Roma 1923, pp. 89*90.
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— neppure lo nomina nelle sue Memorie — considerò il nuovo partito una forza politica inferiore; lo valutò, in sostanza, alla stregua dei gruppi clerico-moderati che aveva, alcuni anni innanzi, utilizzati per il suo disegno politico.
Sono note le circostanze del così detto « veto »: esso fu occa- sionato dal ritiro dell’appoggio della democrazia giolittiana al go- verno Bonomi al quale collaboravano i popolari. La stessa « Stam- pa » di Torino, giolittiana, riconobbe il torto della democrazia « per il modo con cui ha provocato la crisi, non solo fuori del Par- lamento, non solo con un deliberato di minoranza, ma inoltre senza precisare i motivi della sua sfiducia e senza formulare le proprie esigenze programmatiche ».
Il veto più che di Sturzo fu del gruppo popolare che in un ordine del giorno escluse decisamente la possibilità di collaborare ad una soluzione la quale si imperniasse sugli esponenti di quelle tendenze entro la democrazia che avevano ispirato la manovra per la crisi. Su questo episodio sono corsi fiumi di inchiostro: ancora nel 1955, non molti anni fa, si è tornati a polemizzare su quel « veto ». Luigi Salvatorelli e Alfredo Frassati hanno rinno- vato l’accusa a Sturzo di avere, con la sua opposizione a Giolitti, aperto la via al fascismo. Nella polemica sono intervenuti Luigi Sturzo stesso e Gabriele De Rosa; è stata ripubblicata un’impor- tante intervista di Giovanni Gronchi alla « Tribuna » del feb- braio 1922, dopo la crisi del gabinetto Bonomi 27.
Le accuse per il famoso veto hanno anzitutto il torto, sul piano del metodo storico, di caricare una scelta che si poneva allora in certi termini di tutte le conseguenze che sono venute poi, dimenticando le altre innumerevoli cause e circostanze che hanno spianato la via al fascismo, non ultime le simpatie per esso di Giolitti stesso, la illusione di poter assorbire e costituzionalizzare la nuova forza. D ’altra parte rimprovevare al Partito popolare il suo veto è un pò come rimproverarlo di essere se stesso, perchè con il veto a Giolitti, come ha notato il Missiroli, il Partito popolare restava fedele alla sua stessa ragione di esistere: « di fronte alle pretese di un liberalismo vecchio stile che concepisce il Partito popolare come un elisir di lunga vita, come uno strumento servizievole, come una riserva di voti per la politica reazionaria, è na-
27 Cfr. G. De R o sa , La crisi dello Stato liberale in Italia, Roma 1955, pp. 67-73.
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turale che il Partito popolare difenda più che una posizione parlamentare, la sua stessa possibilità di vivere come partito auto-
28nomo » ♦Questi episodi brevemente ricordati chiariscono il significato
della intransigenza popolare; c’è subito da aggiungere però che questa linea di intransigenza non fu costante, non fu senza flessioni o rotture; o meglio, fu seguita fedelmente da Sturzo ma non sempre dal suo partito. Sturzo stesso, intervenendo nella polemica sul « veto », ha sottolineato che più volte il gruppo popolare non seguì il suo parere.
Assai frequente, d’altra parte, fu la divergenza di vedute fra Sturzo e Meda: Meda, dopo il veto a Giolitti, rifiutò di assumere l’incarico, che il sovrano gli aveva offerto, di formare il nuovo governo e le motivazioni del rifiuto furono fragilissime. Meda rese così contraddittoria la linea del partito — che, avendo impedito il ritorno di Giolitti, doveva offrire una alternativa — e aprì la via ai governi Facta. Meda rifiuta ancora, contro il parere di Sturzo, nel luglio del 1922, di assumere l’incarico di formare un nuovo governo quando una energica azione avrebbe potuto ancora sbarrare la via al fascismo.
Del resto contrasti di altro genere si erano avuti sin dai primi passi del partito: basti ricordare le discussioni al Congresso di Bologna sulla aconfessionalità e le critiche rivolte dal Padre Gemelli alla impostazione di Sturzo; all’estremo opposto — ma vi è, già allora, un fondo comune fra « integralismo » di destra e di sinistra — Miglioli proponeva di fare del partito popolare un partito classista, il « partito del proletariato cristiano ». La storia del movimento popolare è tutta punteggiata di questi dissensi.
Indubbiamente ogni partito ha sempre avuto le sue correnti e i suoi contrasti interni; le correnti sono inevitabili, specie in un partito che aspiri ad una rappresentanza nazionale ed a responsabilità di governo 29.
Ma qui i dissensi toccano in molti casi l’essenza stessa: quando si discute la aconfessionalità 0 quando si pone in dubbio' l ’ intransigenza politica, intesa nel senso di cui si è detto, non si propone 23
23 M. M is s ir o l i, Una battaglia perduta, Milano 1924, p. 225.29 Cfr. G. D ore, Analisi sociologica del Partito popolare italiano e della Democrazia
cristiana, « Società nuova », 19 maggio 1957, n. 20, pp. 21 e ss.
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un’altra via o un altro mezzo ma si indica un altro scopo, si col' pisce la sostanza del nuovo partito per farlo regredire, di fatto, a grosso comitato dei voti cattolici, che è proprio quello che, in fondo, esso era nella opinione di molti fra i suoi stessi aderenti.
Si sa che dissensi e contraddizioni si son fatti più aspri di fronte al fascismo: da un lato la linea intransigente riaffermata da Luigi Sturzo e dai suoi amici in molte occasioni, specialmente al Congresso di Torino e coraggiosamente sostenuta da Donati sul nuovo giornale « Il Popolo », che compare nell’aprile del 1924 dopo la defezione della stampa del trust; dall’altro però i popo' lari collaborano, contro il parere di Sturzo, al governo di Mus' solini, si rendono corresponsabili, e questa è la cosa più grave, della riforma elettorale diretta a svuotare il Parlamento di ogni effettivo potere politico.
Quello del voto sulla legge Acerbo è forse l ’episodio culmi' nante di una lunga serie di deviazioni dalla linea programmatica del partito: i ministri popolari votarono prima il principio della riforma; poi De Gasperi, leader del gruppo parlamentare, dichiarò alla stampa che i popolari erano disposti a discutere un « espe- diente » che assicurasse al partito fascista lo sbocco di una sicura maggioranza parlamentare, purché ottenesse una parte notevole di suffragi; nel gruppo popolare più della metà dei deputati voi' lero l’astensione anziché il voto contrario, ossia favorirono una nor' ma che legalizzava la violenza e segnava il suicidio del Park ' mento.
Indubbiamente c’é l ’attenuante della incomprensione della na' tura del fascismo da parte non dei soli popolari ma della grande maggioranza della classe politica del tempo; vi sono le illusioni, assai radicate, di una normalizzazione, di una costituzionalizza' zione del fascismo. V i é pure l’attenuante delle intimidazioni, delle pressioni da parte fascista, non solo sul partito, ma sul Vaticano, perché inducesse il partito a un voto favorevole. Resta comunque il fatto di una smentita e di una aperta contraddizione fra quella decisione e le ragioni stesse di vita del partito.
Non sto qui a riassumere la storia assai significativa delle ri' petute emorragie sulla destra del partito prima del congresso di Torino, poi di nuovo dopo il voto sulla legge Acerbo; è un aspetto della vicenda popolare che meriterebbe un’approfondita ricerca: come sono formati questi gruppi di destra che si staccano dal par-
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tito? Quali legami hanno con il mondo cattolico? Quali giustificazioni offrono della loro scissione? Jn.
Queste crisi sulla destra del partito popolare vanno indubbiamente messe in relazione con i mutati indirizzi del Vaticano. L ’autonomia del partito fu messa in quei mesi a dura prova, mostrò i suoi limiti, non nei dirigenti e particolarmente in Sturzo, ma in molti degli aderenti, per i quali essa non era mai stata una conquista ma una concessione dell’autorità che si sentiva ormai revocata S1.
Altre conferme di quel che siamo venuti dicendo si potrebbero trovare nella storia dei rapporti fra popolari e socialisti: la prospettiva di una collaborazione fra i due partiti, interpreti delle masse che erano state contrarie alla guerra, fu indicata come possibile da Sturzo già nel novembre del 19 19 . La questione fu ripresa e dibattuta più volte, in particolare al congresso di V enezia dell’ottobre 19 2 1, poi durante i due governi di Facta, poi ancora nel luglio del 1924 nel clima arroventato creato dall’omicidio di Matteotti. Furono indubbiamente impari al compito i socialisti, ma non furono neppure all’altezza i popolari, che ogni volta si fermarono di fronte alle voci di dissenso che si levavano nel mondo cattolico: nel ’22 con la famosa lettera dei senatori popolari, nell’estate-autunno del ’24 con un intervento pubblico del Papa stesso ed una pesante polemica della « Civiltà cattolica » e dell’ « Osservatore romano ».
Sta di fatto comunque che le opposizioni interne al mondo cattolico furono sempre sufficienti a far fallire la più volte tentata collaborazione fra popolari e socialisti, che, se non rappresentava un sicuro rimedio a tutti i mali del tempo, era almeno una via da tentare 30 31 32.
30 Occorre tuttavia riconoscere che nel complesso, di fronte al fascismo, il partito popolare tenne meglio di altri partiti: lo dimostra l ’analisi comparativa dei risultati conseguiti dal partito nelle elezioni del 1919, 19 21, 1924. Cfr. in proposito: E. C aranti, Il partito popolare nelle elezioni del prim o dopoguerra, « Civitas », 1956, n. 9-10, pp. 48 e ss.
31 La tesi di una autonomia concessa, affermata polemicamente dal Murri e, in un quadro diverso, dal Salvemini, è stata ripresa dalla Pratt Howard, un'allieva di Salvemini, nel volume II partito popolare italiano, Firenze 19 5 7 .
Circa la posizione di fronte al partito popolare della « Civiltà cattolica », spunti interessanti in : A . M. F iocchi, P. Enrico Rosa S . J . scrittore della « C iviltà cattolica » (1870-1938), Roma 1957, pp. 175 e ss.
32 Al tema è particolarmente sensibile e attenta’ la Storia del partito popolare di G . De Rosa: cfr. in particolare le pagine dedicate alla costituzione dei governi Facta.
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Queste considerazioni conducono ad una conclusione già altre volte proposta e non smentita, mi sembra, da validi argomenti 33 34 : che vi fu cioè una frattura fra ideologia popolare, il « popolari- smo » di Sturzo, e la base del partito ancora permeata di mentalità clerico-moderata, impreparata culturalmente ai compiti e alle responsabilità di una partecipazione attiva alla vita politica.
Non si può che tornare a quei problemi da cui si sono prese le mosse e in particolare a quello del rapporto del popolarismo con le precedenti esperienze del movimento cattolico.
Il mondo cattolico italiano, sul quale il Partito popolare si fonda come sua naturale base, soffre di una sorta di anemia religiosa e culturale: la crisi della tradizione cattolico-liberale, la chiusura polemica degli intransigenti verso ogni aspetto del mondo moderno hanno creato delle lacune che l’azione di propaganda della prima democrazia cristiana e le ondate, presto infrante, del moto di rinnovamento religioso e culturale sviluppatosi anche nel cattolicesimo italiano agli inizi del ’900, non hanno potuto colmare 3‘.
Le formule politiche non suppliscono alle carenze spirituali, l’azione politica, anche più intelligente, difficilmente crea fermenti culturali profondi, valori morali e di costume; piuttosto li presuppone.
Sturzo stesso, il più politico dei rappresentanti del movimento, il meno sospetto di moralismi, di evasioni culturali, ha messo in luce questa carenza in un discorso del 18 gennaio 19 2 2 : « ... mentre il pensiero liberale — egli osserva — ebbe dalla fine del secolo decimottavo ad oggi economisti, pensatori, poeti e artisti che crearono la base spirituale e l’ambiente naturale agli uomini politici; nella evoluzione della attività così detta democratica e nella preparazione del pensiero socialista e anche di quello cristiano sociale, che rappresentano le tre forze politiche dell’oggi, noi in Italia abbiamo ben poco come studio e letteratura, che non sia semplice negazione o critica, ma che sia invece elaborazione idealistica e pratica, elemento di forza, costruzione sociale, spinta di grandi
33 Nel mio: P er una valutazione del popolarism o, cit.; cfr. anche la mia recensione alla Storia del partito popolare di G. De Rosa in « Il Mulino », luglio-agosto 1958, e la recensione, al volume stesso, di Paolo Serini, La doppia insidia, « Il Mondo », 22 aprile 1958.
34 C fr.: P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovam ento cattolico in Italia, Bologna 1961.
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movimenti nazionali e intemazionali, che poggino sopra teorie e sistemi che penetrino nell’animo dei popoli » 3a.
Su questa linea molti spunti interessanti offre la Rivolta cattolica di Igino Giordani, un saggio paradossale, ma coraggioso, edito da Gobetti nel 1925. Non meno acute le riflessioni dei po- polari in esilio. Gli scritti di Donati, ripubblicati da qualche anno, tornano più volte su questi temi. Ma in particolare vorrei soffermarmi sul pensiero di Francesco Luigi Ferrari, un altro popolare in esilio che era stato direttore del «Domani d’Italia». Nella tesi svolta presso l’ Università Cattolica di Lovanio e pubblicata a Parigi nel 1928, Le régime fasciste, il Ferrari tende a superare l’antitesi fra Risorgimento e cattolicesimo intransigente: l ’aspirazione ad un ampio rinnovamento, che anima, nella prima metà dell’ottocento, coloro che lottano per la libertà italiana, fu, a giudizio del Ferrari, deviata dal compromesso monarchico accentratore, combattuto anche dai cattolici intransigenti negli ultimi decenni del secolo. ((La necessità dell’unificazione e della liberazione dominò tutto il processo di formazione del nuovo Stato. Forzando i rivoluzionari ad allinearsi con la monarchia piemontese impedì che il Risorgimento provocasse un rinnovamento radicale della vita italiana. L ’unificazione nazionale risultò da un compromesso tra la monarchia e la rivoluzione e il compromesso non poteva formare la base per l’educazione della nuova classe politica. Questo primo compromesso tenne le masse al di fuori della politica e il popolo non arrivò mai a comprendere il significato intimo delle istituzioni rappresentative, il valore della libertà, la necessità del sacrificio ». E poi ancora, tornando sullo stesso argomento: « La libertà politica esisteva (in Italia) dalla costituzione del regno unitario ma essa era qualche cosa di esteriore e di meccanico. Non aveva eccitato la passione nelle moltitudini... Troppa poca gente aveva sofferto per la libertà perchè gli italiani l’amassero così fermamente come gli inglesi o appassionatamente come i francesi. Avevano fatto loro dono di questa libertà; essi se ne erano serviti e se ne servivano gioiosamente senza aver provato la sofferenza di esserne privi. Il movimento di reazione autoritaria... riuscì facilmente a impadronirsi del potere... soprattutto perchè non incontrò la resistenza ac-
3j Dal discorso Crisi e rinnovamento dello Stato, in : 1 discorsi politici, Roma 1951» pp. 186-204.
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canita di un popolo deciso a difendere una libertà conquistata con lo sforzo dei suoi avi » 36.
L ’esperienza fascista appare a Ferrari feconda perchè ha sba- razzato il terreno di molte illusioni nelle quali gli italiani amavano cullarsi, e per prima quella di avere un autentico regime rappresentativo e delle istituzioni democratiche: « Il nazionalismofascista — egli scrive ancora — ha dissipato tutte queste illusioni che impedivano al popolo italiano di comprendere i suoi grandi problemi politici. Esso ha dimostrato che in Italia sotto le apparenze del regime rappresentativo e sotto la maschera della democrazia si nascondeva una oligarchia di mediocrità, incapace anche di difendere seriamente le sue posizioni di privilegio. Esso ha fatto svanire le illusioni dei retori sul miracolo dell’educazione politica del popolo italiano dopo il Risorgimento. Ha mostrato l’ignoranza di tutti i doveri presso quelli che proclamavano ogni giorno i loro diritti... Ha provato infine che i diritti che non si sono conquistati col sacrificio e attraverso il dolore non hanno alcun valore e che se il popolo vuole mantenere delle istituzioni libere, deve rendersene conto compiendo i doveri che esse comportano ».
Non mi fermo sulla tesi di Luigi Sturzo, nel notissimo saggio L ’Italia e il fascismo, che è una lucida sintesi della storia unitaria italiana per indicarne insufficienze e limiti che hanno preparato la crisi della democrazia. Sturzo esplicitamente ammette che i popolari e i socialisti si illusero sulla preparazione delle masse che li seguivano, sulla loro maturità politica e capacità di resistenza. Gli eventi mostrarono che la loro fiducia era prematura.
I rimpianti dei popolari in esilio, le loro diagnosi critiche sui limiti della storia italiana si pongono in linea con quelle di molti altri antifascisti, da Giustino Fortunato a Piero Gobetti.
La tesi del fascismo come rivelazione dell’ Italia a se stessa, nella sua povertà di valori civili, nella sua mancanza di fervore morale, nasce proprio da questo severo esame di coscienza. Sarà, poi, una tesi storiografica; allora, nel momento in cui sorge, essa è sentita come la premessa di quello che Sturzo, nelle pagine ora ricordate, chiamava già un nuovo Risorgimento.
Pietro Scoppola.
36 Cito, traducendo, da F. Fonzi, Il giudizio sul Risorgimento di un cattolico antifa- scista, F. L . Ferrari, in : I cattolici e il Risorgimento, Roma 1963, pp. 113 -114 .