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289 Presenze artistiche e culturali dal nord e il ruolo di Radio Monteceneri Carlo Piccardi L’accoglienza da parte di Lugano e del Ticino degli esuli e dei perseguitati dai totalitarismi nel Novecento, opportunamente evidenziata per quanto riguarda l’aspetto umanitario e politico, non può vantare uguale riscontro a livello culturale. A tale stadio, almeno per quanto concerne le personalità venute dal nord e di altra lingua, il proble- ma si inquadra nella storia del Cantone da sempre impegnato ad affermare la propria identità di minoranza in modo rivendicativo e soprattutto protettivo rispetto alla mag- gioranza germanofona preponderante per il peso demografico ed economico, che in varie fasi fu contrastata anche con successo grazie agli strumenti del federalismo iscritto nella costituzione, ma che produsse come risultato una convivenza delle minoranze nella separatezza e nell’ignoranza reciproca piuttosto che uno sviluppo culturale nel segno del dialogo e dell’approfondimento dei distinti valori. 1 Un malinteso spirito di affermazione dell’italianità negli anni Cinquanta e Sessanta poteva ancora indurre i no- stri intellettuali, un Adriano Soldini ad esempio, a guardare con pregiudizio a chi come Luigi Menapace (Il sole d’Ascona, 1957) per la prima volta aveva concesso attenzione ai personaggi della cultura e dell’arte (Marianne von Werefkin, Emil Ludwig, Johannes Robert Schürch, Richard Seewald, Ignaz Epper) scesi da oltralpe nelle nostre contrade ospitali, «un paese che certo ammirano e che certo amano nel suo amabilissimo profi- lo di laghi, colline, monti, ma che sostanzialmente è loro indifferente», rimarcandone l’estraneità alla nostra cultura prima ancora di porsi il problema del nostro disinteresse verso i valori arricchenti di cui essi erano portatori. 2 1 Per quanto concerne tale problematica si veda Carlo Piccardi, L’incostante percorso identi- tario della Svizzera italiana, in Evoluzione dell’immaginario nella Svizzera italiana. Simboli, valori e comportamenti di una minoranza, a cura di Remigio Ratti, «Quaderni di Coscienza Svizzera», 35, 2014, pp. 87-92. 2 Adriano Soldini, Sole d’Ascona, «Il Cantonetto», v, 5-6 (dicembre 1957), p. 106. Il perdu- rare di tale atteggiamento fu fatto notare anni dopo da Bixio Candolfi, capodipartimento cultura della Televisione della Svizzera italiana all’intenzione della Commissione programmi della corsi nel 1969: «È nota l’incapacità o almeno la riluttanza del ticinese, dell’uomo di cultura più che del montanaro che ha conosciuto l’emigrazione, a stabilire contatti, rapporti di amicizia o di lavoro, ad

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Presenze artistiche e culturali dal nord e il ruolo di Radio Monteceneri

Carlo Piccardi

L’accoglienza da parte di Lugano e del Ticino degli esuli e dei perseguitati dai totalitarismi nel Novecento, opportunamente evidenziata per quanto riguarda l’aspetto umanitario e politico, non può vantare uguale riscontro a livello culturale. A tale stadio, almeno per quanto concerne le personalità venute dal nord e di altra lingua, il proble-ma si inquadra nella storia del Cantone da sempre impegnato ad affermare la propria identità di minoranza in modo rivendicativo e soprattutto protettivo rispetto alla mag-gioranza germanofona preponderante per il peso demografico ed economico, che in varie fasi fu contrastata anche con successo grazie agli strumenti del federalismo iscritto nella costituzione, ma che produsse come risultato una convivenza delle minoranze nella separatezza e nell’ignoranza reciproca piuttosto che uno sviluppo culturale nel segno del dialogo e dell’approfondimento dei distinti valori.1 Un malinteso spirito di affermazione dell’italianità negli anni Cinquanta e Sessanta poteva ancora indurre i no-stri intellettuali, un Adriano Soldini ad esempio, a guardare con pregiudizio a chi come Luigi Menapace (Il sole d’Ascona, 1957) per la prima volta aveva concesso attenzione ai personaggi della cultura e dell’arte (Marianne von Werefkin, Emil Ludwig, Johannes Robert Schürch, Richard Seewald, Ignaz Epper) scesi da oltralpe nelle nostre contrade ospitali, «un paese che certo ammirano e che certo amano nel suo amabilissimo profi-lo di laghi, colline, monti, ma che sostanzialmente è loro indifferente», rimarcandone l’estraneità alla nostra cultura prima ancora di porsi il problema del nostro disinteresse verso i valori arricchenti di cui essi erano portatori.2

1 Per quanto concerne tale problematica si veda Carlo Piccardi, L’incostante percorso identi-tario della Svizzera italiana, in Evoluzione dell’immaginario nella Svizzera italiana. Simboli, valori e comportamenti di una minoranza, a cura di Remigio Ratti, «Quaderni di Coscienza Svizzera», 35, 2014, pp. 87-92.

2 Adriano Soldini, Sole d’Ascona, «Il Cantonetto», v, 5-6 (dicembre 1957), p. 106. Il perdu-rare di tale atteggiamento fu fatto notare anni dopo da Bixio Candolfi, capodipartimento cultura della Televisione della Svizzera italiana all’intenzione della Commissione programmi della corsi nel 1969: «È nota l’incapacità o almeno la riluttanza del ticinese, dell’uomo di cultura più che del montanaro che ha conosciuto l’emigrazione, a stabilire contatti, rapporti di amicizia o di lavoro, ad

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Una parziale apertura verso quel mondo si ebbe sull’onda della “difesa spiri-tuale del paese” che rafforzò in Ticino la posizione degli intellettuali di orientamento “elvetista” interessati a sviluppare il dialogo con le altre culture nazionali, portando Guido Calgari alla fondazione della rivista «Svizzera italiana» nel 1941. Sennonché in proposito è sintomatica la reazione di un Pino Bernasconi testimoniata da una lettera a Montale in cui l’intraprendente editore della “Collana di Lugano” si scagliava contro la «dannata congrega di bastardi [che] lavora al fine di strappare dal nostro solco nativo – l’Italia – le giovani generazioni».3 D’altra parte le difficoltà che accompagnavano il processo di integrazione del Ticino nel serto svizzero erano già evidenti nelle esitazioni di Francesco Chiesa chiamato in causa nel 1913 da Gonzague de Reynold ad allinearsi con il nascente movimento elvetista, scelta avvenuta con precisi distinguo:

Noi dobbiamo studiarci di essere, nel centro dell’Europa, non la confusione di tre popoli, che sarebbe spettacolo misero e poco durevole, e la storia ci smentirebbe a breve scadenza; dobbiamo essere la libera collaborazione di tre popoli rimasti fedeli al proprio genio, non per ostinazione o diffidenza, ma per convinzione di non poter altrimenti vivere ed operare.4

Peraltro non va dimenticato che lo stesso Calgari confrontato con la realtà di Ascona, la località ticinese più esposta alle influenze nordiche, la definì «borgata ormai imba-stardita di germanesimo, di promiscue nudità e di esotiche fogge, quell’Ascona che non è ormai più ticinese, che ostenta le sue insegne e le sue mode di dubbio gusto e contamina la sua terra e il suo lago con la plutocratica prepotenza dell’ebraismo internazionale?».5

L’avventura di Vinicio Salati

Pochissimi sono stati i casi di ticinesi che seppero riconoscere il valore e la portata di tali presenze, stabilendo un rapporto diretto con loro e ricavandone stimoli per un allargamento dell’orizzonte culturale e artistico.

Il caso sicuramente più significativo è rappresentato da Vinicio Salati (1908-1994), figura di intellettuale assai originale e imprevedibile, il cui spirito ribelle lo allontanò presto dagli studi regolari spingendolo all’avventura. A vent’anni nel 1928 era già a Francoforte, dove si guadagnava da vivere accompagnando al pianoforte i film muti, mentre nell’ambiente artistico tedesco conobbe Georg Grosz, Otto Dix, Otto Griebel, Hans Grundig, Lea Langer, Wilhelm Lachnit, Kokoschka, Johnny Fri-

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avviare utili scambi con i non pochi illustri ospiti del nostro paese. E che manchi d’altra parte un minimo di disponibilità è quasi sempre una fola. L’abbiamo constatato anche se una conferma non era necessaria, tutte le volte che abbiamo avvicinato questi ospiti per interessarli ad una collabora-zione televisiva» (Nelly Valsangiacomo, Dietro il microfono. Intellettuali italiani alla Radio svizzera, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2015, p. 86).

3 Renato Martinoni, Notizie dalla “provincia sonnolenta”. La Svizzera italiana che guarda all’I-talia, in Per una comune civiltà letteraria. Rapporti culturali tra Italia e Svizzera negli anni ’40, a cura di Raffaella Castagnola e Paolo Parachini, Firenze, Franco Cesati Editore (“Documenti d’archivio e di letteratura italiana”, 8), 2003, p. 24.

4 Francesco Chiesa, Svizzera e Ticino. Tre discorsi tenuti nel 1913, Lugano, Tip. Luganese, 1914, p. 8.5 Guido Calgari, Il vero Ticino, Bellinzona, Leins & Vescovi, 1936, p. 25.

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edländer. Nel 1933 a Zurigo nella cerchia dei fuorusciti fu in contatto con Ignazio Silone (1900-78), mentre questi dava alle stampe (in tedesco) Fontamara.

Dal 1929 [in realtà dal 1927] al 1933 ho vissuto in Germania, come giovane gior-nalista, pianista di cinema (allora c’era il “muto”) e ho conosciuto molti artisti della Germania, specie a Francoforte, Colonia, Berlino e Dresda. Saltuariamente venivo a Zurigo e qui, verso il 1933, conobbi Ignazio Silone che mi fu presentato dal compa-gno [Hans] Oprecht, fratello dell’editore che dirigeva una libreria alla Rämistrasse, la Verlag Oprecht und Helbling. Il compagno Oprecht, che fu poi anche presidente del Partito socialista svizzero e col quale ero legato da cara amicizia, mi aveva parlato di un «taciturno giovane italiano già comunista e ora dissidente» (e del quale poi appresi vita e miracoli attraverso le conversazioni avute dal Silone stesso) che sarebbe stato contento di avere qualche rapporto con un “intellettuale” di lingua e cultura italiana, dopo essere stato in solitudine forzata a Davos, a curarsi e scrivere. I primi contatti furono piuttosto formali e “distanti” anche per il fatto che io, per motivi di lavoro, avevo degli impegni in Germania. Ma quando nella notte del 15 gennaio 1933 venni arrestato a Dresda (dopo le famose votazioni che avevano portato Hitler al potere) pensai subito alla fuga e infatti il 22 marzo di quello stesso anno potevo superare la frontiera svizzera e rifugiarmi a Zurigo. Qui, appunto, nel 1933, usciva – in tradu-zione tedesca e dall’editore suaccennato – Fontamara – il primo romanzo di Silone (tradotto da Nettie Sutro). Il volume me lo “bevvi” di un fiato e lo ripresi subito. Telefonai a Silone e ci ritrovammo, al caffé Odeon, allora frequentato anche dai primi “fuorusciti” tedeschi, quelli che avevano subito capito che la Germania stava avviandosi verso destini non certo rosei. Indi, alla “Cooperativa” della Militärstrasse, gli incontri con Silone si fecero più intensi e intimi. Debbo riconoscere che non era facile “farlo parlare”, il suo carattere di uomo chiuso, fine osservatore, di poche essenziali parole, fu la caratteristica che mi colpì immediatamente. In tema di poli-tica – essendo lui di otto anni più anziano – sapeva vedere chiaro e trarre immediate dirette conclusioni. Criticava apertamente, seppur con una nota di leggero malinco-nico sarcasmo, l’atteggiamento di certi compagni che persistevano a non voler vedere la realtà del momento e a non lottare con tenacia in difesa dei diritti democratici, specie nei confronti dei profughi! Sia per quanto riguardasse la politica da svolgere nei confronti dell’Italia fascista, sia per gli errori dei Movimenti clandestini, e da ultimo anche nei confronti del nuovo Moloch nazista che serrava da nord le fron-tiere della Svizzera. Nel giugno del 1934 entravo come redattore a «Libera Stampa» (di cui fin dal quattordicesimo anno d’età ero stato corrispondente e saltuariamente cronista, più per questioni di arte che non di politica). Chiesi a Silone di mandarmi qualche nota, qualche scritto, ciò che subito fece. Naturalmente erano corrisponden-ze gratuite. Più tardi riuscii a convincere Canevascini – il padreterno del socialismo ticinese – di pubblicare in appendice di «Libera Stampa», Fontamara. Silone era assai contento, siccome sapeva che copie di «Libera Stampa» andavano giornalmente in Italia. Si lamentò con me per l’irregolare correzione delle bozze, e aveva pienamente ragione. Nelle mie numerose visite a Zurigo, non mancavo d’incontrarlo, e lui fu ri-petutamente ospite della mia casa a Lugano, un ospite quieto, silenzioso, che passava giornate in lettura e studio.Di Fontamara, tipico romanzo dell’Italia contadina, i compagni ticinesi in genere non fecero molto caso, esclusa beninteso la “intellighenzia” del partito.6

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6 Ricordi di un antifascista, intervista di Rosario Antonio Rizzo, «Libera stampa», 9 luglio 1983, p. 3: «Un comune amico ci legava pure d’amicizia: Adolfo Saager, scrittore basilese, asciutto, serio, autore poi di un Mussolini ohne Mythus, coraggioso corrispondente dell’ottima Basler Natio-nalzeitung di netta tendenza democratica e antifascista. Sarà il Saager – che abitava a Massagno in Via della Salute – a tradurre in tedesco la seconda opera di Silone Pane e vino». Su Salati si veda Carlo Piccardi, Un “enfant terrible” che guardava lontano (Vinicio Salati 1908-1994), «Il Cantonet-to», lxiii, 5-6 (novembre 2016), pp. 232-246.

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In seguito, sempre su «Libera stampa», promosse la pubblicazione del romanzo Pane e vino dell’amico, la sua prima edizione in lingua italiana quindi, uscita in 95 puntate dal 23 agosto 1937 all’11 gennaio 1938, la cui composizione tipografica servì da base alla pubblicazione apparsa simultaneamente nelle Nuove Edizioni di Capo-lago, casa fondata nel 1946 da un gruppo di esuli italiani: Guglielmo Ferrero, Egidio Reale, Gina Lombroso Ferrero, Odoardo Masini e Silone appunto.7

Ricordo che a Zurigo, 1938, vide la luce La scuola dei dittatori, nella traduzione tedesca (in Italia uscì per la prima volta nel 1962!), di cui Silone mi mandò una co-pia in omaggio con dedica, libro che recensii su «Libera Stampa» e sul «Volksrecht» (quotidiano socialista) di Zurigo, allora diretto dal compagno Emil Klöthi, che diventerà poi primo sindaco socialista della città della Limmat.8

Per il contatto diretto con lo scrittore esule vale la pena di riportare anche altri aspetti della testimonianza di Salati:

Nei discorsi “privati” in clandestinità nella mia casa, immediatamente prima del suo rientro – dopo la guerra in Italia – Silone si era illuso che i socialisti e gli antifa-scisti italiani in genere non ripetessero i grossolani errori del passato (Prima guerra mondiale, periodo pre-fascista e subito dopo la “Marcia su Roma”). Aveva redatto (1942) il Manifesto per la disubbidienza civile in cui chiamava a raccolta gli italiani alla ribellione contro il fascismo, Messaggio ai laburisti inglesi, dagli inizi del 1944 redasse quasi da solo «L’avvenire dei lavoratori» (quindicinale di Zurigo) a contatto con la Resistenza, sia in Italia che in Francia, riuscendo a far liberare (fuggire) alcu-ni prigionieri esteri nelle prigioni fasciste. E tra di essi vi sarà poi Darina Laracy, la quale, nascosta nella mia casa, conoscerà qui Silone e diventerà, nonostante fosse irlandese di spirito e cultura, sua moglie e preziosa compagna di vita, che si curerà della propaganda e delle traduzioni degli scritti del marito. (A lei Silone dedicò Il seme sotto la neve). Fu verso lo scadere del 1944 che SiIone rientra in Italia con [Giuseppe Emanuele] Modigliani, fratello del pittore, e Darina Laracy (13 ottobre 1944). Nel 1945 lo rividi a Roma:

Carlo Piccardi

7 Raffaella Castagnola Rossini, Incontri di spiriti liberi. Amicizie, relazioni professionali e inizia-tive editoriali di Silone in Svizzera, Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita Editore, 2004, pp. 86, 93 e 125-132.

8 Salati, Ricordi di un antifascista, p. 3. «Debbo ricordare che tra il 1940 fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale, uscirono parecchi scritti e saggi di esuli e profughi italiani, tedeschi e au-striaci a Zurigo. Tutta questa attività letteraria spezzettata, spinse il Silone a lanciare una rivista (1933) a Zurigo dal titolo semplice di «Information». La rivista si presentava molto bene, piccola di formato ma curata grazie all’architetto, pittore e grafico Max Bill. «Information» si occupava soprattutto di politica internazionale e tra i collaboratori troviamo Max Raphael, Georg Schmidt, Siegfried Giedon, Jean-Paul Samson e parecchi architetti provenienti dal famoso Bauhaus di Dessau (Hubacher, Moser, Burckhardt). Nei suoi saggi in «Information» Silone firmava anche con pseudonimi. Erano studi su ogni tipo di politica, specie indagini sociologiche sulle condizioni della classe operaia sotto il fascismo in Italia, il nazismo in Germania e in Austria, sui valori, le cause, difficoltà e pene dell’emigrazione italiana e tedesca in Svizzera e in Francia. Vi furono studi sul militarismo, sull’antisemitismo, la realtà contemporanea. Vi erano poi articoli di filosofia, estetica, arte, letteratura, cinema, teatro, medicina, psicanalisi. Nel primo anno di guerra mondiale, «Information» ebbe difficoltà di ordine finanziario tanto gravi che Silone mi comunicò che avrebbe dovuto cessare le pubblicazioni. Molti “grossi” pro-fughi avevano cercato rifugio in Portogallo aspettando il momento opportuno (... i denari) per potersi imbarcare o spiccare il volo verso i più sicuri Stati Uniti» (pp. 3-6).

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(1) Vinicio Salati e Kurt Kläber a Carona (pagine del Gastbuch di Kurt Kläber conservato da Christiane Dornheim-Tetzner); (2) «Tre poeti proletari»: Hans Lorbeer, Kurt Kläber, Johannes R. Becher, agosto 1928; (3) Kurt Kläber, Bernhard von Brentano, Bertolt Brecht e Margarete Steffin a Montagnola in visita a Hermann Hesse, 1933. Le immagini di questa pagina, assieme a quelle numerate 4-5 e 8-9 nelle pagine seguenti, sono state curate da Christof Herdt e provengono dal catalogo dell’esposizione del Museo Hermann Hesse: Eva Zimmermann, Christiane Dornheim-Tetzner, Die Künstlernest Carona. Carona, rifugio di artisti, a cura di Regina Bucher, Montagnola, Museo Herman Hesse, 2012.

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(4) Kurt Kläber, Bertolt Brecht e Helene Weigel a Carona nel 1933; (5) Kläber nel suo “esilio”, 1933 (pagine del Gastbuch conservato da Christiane Dornheim-Tetzner); (6) Kurt Held (pseudonimo di Kläber), Der Trommler von Faido, Aarau, Sauerländer Verlag, 1947.

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– Come stai, come ti senti? – dico io un po’ banalmente. Silone mi guarda. Tace per un po’ e mormora con un filo di voce, abbozzando il suo tipico sorriso tra il malinconico e il sardonico:– Mi sento “profugo” nel mio paese! 9

Grazie a Silone, Salati fu in relazione con Kurt Kläber (1897-1959), scrittore e

attivista politico, promotore di un’idea della letteratura al servizio della classe operaia, di agitazione e di lotta contro l’ordine borghese. Calatosi fra il popolo come mina-tore nella Ruhr, venditore ambulante di libri e fondatore di una “Arbeiterschule” a Bochum, egli fu autore di una raccolta di racconti intitolata Die Barrikaden an der Ruhr (1925), dagli assunti estremizzati a partire dall’idea di solidarietà tra i poveri e dal pacifismo: fu proibita dalla censura provocando la mobilitazione dei più attivi intellettuali del tempo (Hermann Hesse, Max Brod, Lion Feuchwanger, Ernst Toller e altri), che firmarono in suo favore il manifesto Freiheit der Kunst. La sua militanza di prima linea lo portò a fondare nel 1927 (con Johannes R. Becher) la «Proletarische Feuilleton-Korrespondenz», nel 1928 il «Bund der proletarisch-revolutionärer Schri-fsteller» e nel 1929 il mensile «Die Linkskurve». Arrestato a Berlino nel 1933 la sera stessa dell’incendio del Reichstag, e dopo l’avventurosa evasione con conseguente fuga attraverso la Cecoslovacchia, giunse a Zurigo in tempo per ricongiungersi con la moglie Lisa Tetzner (1894-1963), scrittrice di fiabe, con la quale raggiunse Carona dove dal 1924 trascorrevano le estati, scelta come luogo di residenza definitiva. In quanto emigrante per qualche tempo fu diviso tra Parigi (dove collaborava al centro di emigrazione tedesca e al Komintern) e la Svizzera, dove era tenuto a sottostare al divieto di pubblicazione. Oltre a non ottenere il permesso di lavoro nel 1939 gli fu revocata l’autorizzazione di soggiorno, che infine gli fu attribuita grazie all’intervento del consigliere nazionale socialista Hans Oprecht e dello scrittore Traugott Vogel. Ecco cosa scriveva Karl Nef, segretario della Società degli scrittori svizzeri, nel 1942 come preavviso alla polizia degli stranieri in merito alla domanda di Lisa Tetzner:

Non conosciamo il contenuto dei racconti di Lisa Tetzner, ma dubitiamo che si tratti di opere improntate a uno spirito esclusivamente svizzero. In questi tempi siamo responsabili verso la nostra gioventù, facendo di tutto affinché determinati influssi stranieri siano tenuti lontani da loro.10

A Carona i due scrittori ospitarono a più riprese amici dalla Germania pure in dif-ficoltà col regime nazista, in primis il già citato Johannes R. Becher (1891-1958) e Hans Lorbeer (1901-1973), immortalati nel 1928 con Kläber in un album fotogra-fico come “Drei proletarische Dichter”.11 In verità i tre scrittori, prima di questo

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9 «Io ero nel frattempo passato (dal 1940 in poi) alla direzione del settimanale “Azione” e ave-vo anche qui ospitato scritti di Silone che mi mandava più per simpatia personale che per adesione alla tendenza cooperativistica del giornale: che del resto seguiva anche con una certa simpatia, sic-come ero riuscito durante tutta la guerra a ospitare lavori e scritti di molti profughi e in particolare di coloro che fondarono e diressero – dalla mia redazione – il Movimento federalista Europeo con esuli italiani, tedeschi, austriaci, antifascisti e compagni di lotta» (Ricordi di un antifascista, p. 6).

10 Per la biografia dei due scrittori si veda Susanne Koppe, Kurt Kläber – Kurt Held. Biographie der Widersprüche?, Aarau / Frankfurt a.M. / Salzburg, Verlag Sauerländer, 1997.

11 Eva Zimmermann, Christiane Dornheim-Tetzner, Die Künstlernest Carona / Carona, rifu-gio di artisti, Montagnola, Fondazione Hermann Hesse, 2012, pp. 50-51.

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soggiorno, si erano recati insieme a Mosca per partecipare alla Prima Conferenza in-ternazionale degli scrittori rivoluzionari. Lorbeer fu più volte arrestato e inviato dalla Gestapo ai lavori forzati, mentre Becher da Carona faceva visita all’amica poetessa Emmy Hennings compagna di Hugo Ball allora residente a Cassina d’Agno, prima di proseguire il suo viaggio di emigrazione verso Parigi e poi in Unione Sovietica. Nel dopoguerra egli sarebbe diventato ministro della cultura della Repubblica demo-cratica tedesca e autore del testo del rispettivo inno nazionale.12 A Carona comparve anche Hans Richter (1888-1976), il cineasta sperimentale membro della “Novem-bergruppe”, vissuto in esilio dal 1933 e il quale, durante gli anni della sua attività a Basilea e Zurigo (1937-41) prima di emigrare in America, trascorreva i mesi estivi a Carabietta.13 La casa dei Kläber nel 1936 fu frequentata anche da Silone, che vi portò Gabriella Seidenfeld (1896-1977), la militante comunista che era stata sua amante e con la quale mantenne un rapporto di amicizia per tutta la vita.14

Grazie a Silone Vinicio Salati fu dunque messo in contatto con Kläber:

Le visite di Silone nel Ticino si fecero più numerose e intense. Era legato da ami-cizia con Kurt Kläber (nome d’arte: Kurt Held) romanziere germanico rifugiato a Carona con la moglie, la scrittrice Lisa Tetzner, che per anni ospitarono (prima della guerra, naturalmente) nel periodo estivo Bertold [sic] Brecht, la Weigel (di-venterà poi la sua seconda moglie) e numerosi altri, non da ultimo anche Herman Hesse che viveva però quasi come un riccio nel suo nido e si sbottonava poco.15

La coppia di scrittori aveva incontrato Brecht (1898-1956) a Zurigo a metà marzo del 1933 dopo la sua fuga precipitosa dalla Germania in seguito all’incendio del Reichstag, convincendolo insieme a Bernard von Brentano (1901-64), altro scrittore comunista, a proseguire con loro per il Ticino. Inizialmente il noto drammaturgo alloggiava all’Hôtel Bellerive di Lugano, da cui faceva più volte visita agli amici di Carona, insieme ai quali e a von Brentano il 19 marzo si recò da Hermann Hesse a Montagnola. Di quella visita, nel 1957 in una lettera allo scrittore, Kläber avrebbe ricordato lo scambio di idee intorno all’inizio della dittatura nazionalsocialista:

Ricordo quella volta, nel ’33 o ’34, in cui mi trovavo a casa Sua con Bert Brecht e Bernard von Brentano (conservo anche una fotografia dell’occasione). Tra noi quattro si discuteva di ciò che sembrava più importante, ottenere da Lei un appello contro il Terzo Reich oppure far sì che i Suoi libri potessero continuare ad essere pubblicati nel Terzo Reich.16

Carlo Piccardi

12 Die Künstlernest Carona, pp. 51-52. A Carona Becher ebbe una breve relazione con la pittrice e cantante Ruth Wenger, che era stata moglie di Hermann Hesse, la quale a sua volta aveva avuto una relazione più seria con Karl Hofer (1878-1955) conosciuto presso i Kläber, frequentati fin dal 1926 raggiungendo Carona da Muzzano a piedi. Hofer come pittore fu messo al bando dal nazismo e per questo dimostrativamente ospitato nella mostra Entartete Kunst di Monaco nel 1937 (Die Künstlernest Carona, p. 49).

13 Die Künstlernest Carona, p. 98.14 Die Künstlernest Carona, p. 84.15 Salati, Ricordi di un antifascista, p. 6.16 Die Künstlernest Carona, p. 40. Sul soggiorno di Brecht a Carona si veda anche Ronald K.

Shull, The Genesis of “Die sieben Todsünden”, in A New Orpheus. Essays on Kurt Weill, a cura di K.H. Kowalke, New Haven / London, Yale University Press,1986, pp. 206-209.

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Raggiunto a inizio aprile da Helene Weigel e dalla figlia Barbara di tre anni, la famiglia Brecht si trasferì a Carona, dove rimase fino al mese di giugno. Nel corso del mese di aprile, per alcuni giorni Brecht si recò a Parigi per lavorare con Kurt Weill alla rappresentazione del loro balletto Die sieben Totsünden, che sarebbe andato in scena il 7 giugno. La sua prima intenzione era di stabilirsi in Ticino, scartata poi per la perifericità del villaggio rispetto alla città e per la preferenza data a una località svizzera di lingua tedesca.17 Vi concorse inoltre la difficoltà di ottenere il permesso di lavoro, che dopo il soggiorno caronese nei mesi di aprile-maggio 1933 lo determinò a scegliere la via della Danimarca e poi degli Stati Uniti. Su tale situazione lo scrittore tedesco calò un giudizio caustico: «La Svizzera è un paese famoso per la possibilità di viverci liberamente: basta essere turisti». Anche Kläber fu sollecitato a trasferirsi negli usa da Thomas Mann, il quale già vi risiedeva e che si era impegnato a toglierlo dalla condizione di precarietà in cui era precipitato. Ma Kläber era già stato in quel paese nell’autunno del 1923, invitato a tenere lezioni in una scuola di quaccheri. Quei sei mesi erano bastati a fargli capire l’impossibilità di convivere con «l’ignavia americana, in questo pigro regno e in questa cultura che lentamente si decompone».18 Gli sarebbe sembrata una fuga dall’Europa dove, nonostante tutto, era possibile agire in attesa del crollo dei totalitarismi.

Nel 1958 egli ricordava:

Di solito Brecht veniva nel nostro giardino tre volte al giorno. Una volta per pren-dere in prestito dei romanzi polizieschi, un’altra per giocare a Sessantasei con me e mia moglie, e allora ovviamente si parlava degli eventi in Germania. Il fatto che le sconfitte fossero da considerarsi vittorie non lo convinceva del tutto, e questo era il problema più difficile, con cui si confrontava continuamente.19

Presenze artistiche e culturali dal nord

17 Klaus Voelker, Bertolt Brecht. Eine Biographie, München / Wien, Carl Hanser Verlag, 1976 (trad. it. Vita di Bertolt Brecht, Torino, Einaudi, 1978), pp. 186-188. In un suo dattiloscritto con-servato nell’archivio privato della figlia Zoe Salati-Markus, Vinicio Salati ha appuntato alcuni dati significativi relativi a Brecht: «Brecht, prima con la moglie poi con l’amica che diventerà sua secon-da moglie – Helene Weigel –, era stato spesso nel Ticino. All’avvento di Hitler nel gennaio 1933, i Brecht sono fuggiti prima in Austria, poi vennero a Lugano e Carona, invitati dai Kläber-Tetzner. Il “Ruhequartier”, chiamava Brecht la casa di Carona la quale diventerà in quell’anno triste “la casa del riposo dopo la fuga dal Terzo Reich”. Brecht amava la nostra regione ma non disponeva di un teatro per lavorare, poi... “ist ziemlich teuer”, e Carona la si può raggiungere – scrive sempre – solo tre volte al giorno, ultima corsa alle 18 e anche la Posta è cara... [...] Si era nel marzo ’33. Brecht voleva proprio sondare il terreno, mentre la sua famiglia si era rifugiata a Zurigo dove, in un piccolo albergo presso la stazione (il Limmathof ) si era incontrato con Alfred Döblin, indi con i Kläber, e Bernhard von Brentano (di cui Brecht aveva pochissima stima), Heinrich Mann, Anna Seghers, Leonhard Franck, Feuchtwanger e altri. Tutti avevano deciso di stabilirsi nel Ticino, per «spendere poco e pensare all’avvenire». Fra i collaboratori di Brecht per la musica, oltre a Kurt Weill, è da ricordare anche Hanns Eisler. Orbene, stando a quanto afferma Salati, «anche Eisler fu da noi a Lugano», fatto però di cui non si ha conferma.

Quanto a Silone ricordava: «Le visite di Silone a Carona erano consuetudine. Come pure gli incontri con Arthur Koestler, lo scrittore inglese di origine magiara (Budapest 1905) che fu prigio-niero dei franchisti in Spagna e condannato a morte, salvato in extremis dal Governo di Londra. Ko-estler come Silone, dal comunismo attivo erano passati (insieme a Kläber) a lottare per un mondo più sereno, per l’attualità e la genuinità dell’informazione, che sarà poi la base, spirito e contenuto, delle opere di questi tre autori pur tanto diversi».

Ringrazio l’amica Zoe Salati-Markus per avermi concesso di consultare questi documenti. 18 Koppe, Kurt Kläber – Kurt Held, p. 27.19 Die Künstlernest Carona, p. 70.

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D’altra parte, se la Tetzner ottenne il permesso di soggiorno, più difficoltà ebbe il marito il quale nel 1941 pubblicò, ma con lo pseudonimo di Kurt Held, Die rote Zora (Zora la rossa), diventato un successo mondiale della letteratura per ragazzi. A causa del divieto di svolgere attività lavorativa nel 1939 Kläber era stato costretto a togliere il suo nome dal frontespizio del romanzo Die schwarzen Brüder (Fratelli neri), pubblicato con la firma della sola Tetzner. Ispirato ai piccoli spazzacamini della Valle Verzasca attivi a Milano nell’Ottocento, che combattono lo sfruttamento orga-nizzandosi in associazione, il romanzo fu il capostipite di una serie di libri dedicati all’infanzia ambientati nelle terre ticinesi e italiane: Der Trommler von Faido (1947), Matthias und seine Freunde (1950). In questi lavori erano esaltati i valori di solidarietà che univano i bambini diseredati, protagonisti documentati nello stato di esclusione dalla società, sotto la pressione di leggi ingiuste, privati di prospettiva di riscatto se non nell’amicizia stretta tra simili, tra l’umanità dei sofferenti. In forma traslata in questi libri si poteva cogliere una continuità con la loro pratica letteraria militante degli anni Venti, non tanto come messaggio rivoluzionario (Zora è “rossa” soprattutto di capelli, benché in una posizione di sfida alla società organizzata in banda), quanto nella didascalicità, nell’utilità di un modo di concepire l’arte al servizio della società.

Tale idea di servizio è continuata nella Casa Pantrovà, la piccola residenza che i Kläber riuscirono a edificare nel 1954 con i proventi finalmente fruttati dai loro libri. Nell’idea di “pane trovato” è insito il concetto di soddisfazione del bisogno materiale con cui si confronta la dura realtà dei poveri, ma anche di pane come nutrimento spirituale (di arte come mezzo di emancipazione) elaborato anche al livello della vi-sione culturale dell’artista nordico alla ricerca del potere ispirativo nel luogo lacustre a meridione delle Alpi, affacciato come un balcone sul Mediterraneo, dove è ritenuto che l’uomo viva in armonia con la natura. Non per niente grazie a una piccola eredità i Kläber poterono acquistare nel 1936 un podere, scegliendo di coltivarvi frutta e verdura e installandovi anche un pollaio.20 Su questo lotto, usufruito specie durante la guerra quale fonte di sostentamento, costruirono la loro casa destinandola post mortem agli scrittori, come lascito alla fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia. Kurt Kläber e Lisa Tetzner completarono quindi questo progetto di utilità del loro lavoro, dissimulandovi un significato più nascosto di grande portata morale. Impedi-to in vita di dare apertamente il suo contributo letterario al nostro paese, ostacolato proprio dall’associazione nazionale degli uomini di lettere in nome del principio egoi-stico di «la barca è piena», proprio agli artisti svizzeri Kläber lasciò in eredità il luogo “magico” della sua ispirazione, ripagando la grettezza dei loro rappresentanti con un gesto supremo di magnanimità e di riconciliazione.

In capo al registro degli ospiti di “Ca’ del Pan trovà” si può leggere:

Qui trovammo del pane, trovammo il dio Panpossano mai venire a mancar.È questo il proverbio di Casa Pan trovà.Nel 1955 e in tutti gli anni a venire.21

Carlo Piccardi

20 Koppe, Kurt Kläber – Kurt Held, p. 40.21 «Wir fanden hier Brot und fanden den Pan / mög beides nie verloren gahn. / Das sei der

Hausspruch im Pan trova. / 1955 und alle folgenden Jahre» (Die Künstlernest Carona, p. 105). Il termine richiamava evidentemente il vecchio Grotto Pan Perdü (Grotto del pane perduto) ancora esistente ai margini del villaggio.

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(7) Copertina del libro di Lisa Tetzner, Die schwarzen Brüder, Aarau, Sauerländer Verlag, 1946; (8-9)«Il nostro primo lotto di terra» e Kurt Kläber come viticoltore (pagine del Gastbuch di Kurt Kläber conservato da Christiane Dornheim-Tetzner).

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(10) Prima pagina del copione del radiodramma Il tamburino di Faido di Vinicio Salati, ricavato dall’omonimo romanzo di Kurt Kläber (conservato dalla figlia Zoe Markus-Salati e destinato al Fondo Vinicio Salati presso la Biblioteca Nazionale di Berna); (11) Stefan Zweig al microfono di Radio Monteceneri nel settembre del 1937 (asl, Fondo Vincenzo Vicari).

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L’amicizia e la frequentazione da parte di Vinicio Salati dei Kläber – scrittori che trascorsero i loro anni svizzeri come stranieri guardati con sospetto e ostacolati nell’e-sercizio della loro professione – è certamente all’origine del tentativo, seppur isolato, di stabilire un ideale rapporto con il filone della militanza artistica della sinistra tedesca, confinata all’esilio ma in grado di estendere la propria influenza nei paesi dove tali ar-tisti furono accolti. Se ciò non portò all’interessamento da parte di un qualsiasi editore ticinese almeno dei loro romanzi riferiti per argomento al nostro cantone, nel 1953, in margine al Centocinquantesimo della creazione del Cantone Ticino, Salati provvide a ridurre in forma di radiodramma il romanzo di Kläber Der Trommler von Faido, am-bientato all’epoca della resistenza dei Leventinesi alle truppe napoleoniche, che avevano invaso la Svizzera abbattendo sì l’ancien régime, ma lasciandosi andare a vessazioni della popolazione con requisizioni, tasse e altre forme oppressive.22

Passaggi ragguardevoli

In verità, a motivare il pubblicista luganese a questi contatti, oltre all’orienta-mento ideologico era anche la sua intensa collaborazione con la Radio della Svizzera italiana, sorta nello stesso periodo. La giovane istituzione, nella necessità di allargare il quadro dei suoi interventi e per la stessa natura informativa del mezzo, divenne subito un punto di riferimento per tali presenze. Non meraviglia allora constatare come essa interpretasse concretamente questo ruolo programmando il 26 settembre 1937 da Locarno il “Saluto al Ticino di Thomas Mann”, dove il grande scrittore, Premio Nobel per la letteratura che già da tempo aveva lasciato la Germania, in quel momento soggiornava.23 Anche se questo tipo di intervento si presentava spesso come dichiarazione addomesticata nella forma dell’omaggio d’occasione, a volte costituiva momento di riflessione sulla problematica delle relazioni sul crinale tra le culture europee. È il caso della manifestazione sollecitata a un altro grande scrittore fiero di condividere con Mann il fatto che pure i suoi libri fossero bruciati in pubblico dai nazisti, che aveva lasciato l’Austria nel 1934, temporaneamente residente a Casta-

Presenze artistiche e culturali dal nord

22 «Il tamburino di Faido è un romanzo storico che si svolge dal 1798 in poi (caduta della vecchia Confederazione) e rievoca le persecuzioni, la controrivoluzione, le invasioni dei francesi e degli austria-ci e dei russi nel Ticino. Ricorda la fiera resistenza della Leventina in particolare e dei suoi umili eroi: il comandante Taddei, Giuseppe Antonio Camossi e il fratello di Airolo, i martiri Giovanni e Domenico Guscetti di Agostino da Quinto, Anton Mario Gianini da Deggio e altri. Kurt Held che ama il nostro paese – che ora è anche il suo – è un appassionato di storia e ha voluto dimostrare quanto fervore e quanta forza animassero i ticinesi che allora seppero resistere, combattere e morire per la loro terra e per scacciarne lo stranier» («Radioprogramma», settimanale della rsi, xxi, 50, 12 dicembre 1953, p. 2). Poco più di un anno dopo, il 17 gennaio 1955 (alle 17.50) la rsi, per la serie Arte confederata in Ticino, mandava in onda un incontro con Kurt Kläber realizzato da Vinicio Salati e Eros Bellinelli («Radioprogramma», xxiii, 4, 22 gennaio 1955, p. 14). Mentre la registrazione del radiodramma non è stata conservata (ne è sopravvissuto solo il copione), nella fonoteca della rsi il nastro magnetico di quest’ultima trasmissione porta il numero di catalogo 2728. Secondo la moglie Lisa la prima ispira-zione di questo libro risalirebbe all’occasione di una conversazione con Brecht e altri amici a Berlino nel 1933 dopo l’ascesa di Hitler, in cui Kläber convinse i colleghi a scegliere la via della Svizzera illu-strandone la fondativa aspirazione alla libertà proprio in merito alla rivolta leventinese contro le truppe napoleoniche (Lisa Tetzner, Das war Kurt Held, Aarau / Frankfurt a. M, Sauerländer, 1961, p. 48).

23 «Radioprogramma», 26 settembre 1937.

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gnola. «Un grande autore alla rsi: Stephan [sic] Zweig parla su Il Ticino e i poeti», annunciava il 12 settembre 1937 il «Radioprogramma». Dopo aver pagato il tributo al paese ospitante, tessendo l’elogio di quello che in loco occupava ancora la posi-zione di una sorta di artista vate (del «limpido e puro Francesco Chiesa»),24 l’illustre personaggio (1881-1942) si interrogava sulle ragioni per cui da qualche decennio il Ticino era diventato luogo di attrazione di artisti significativi, «alludo a Remarque, a Schmidtbonn, a Emil Ludwig, a Ehrenstein, e a Max Picard», per non parlare di Hermann Hesse e di Gerhart Hauptmann, il cui «Eretico di Soana [...] è forse l’opera più perfetta [...] nella quale il genio particolare di questa contrada è ritratto in modo indimenticabile».25 All’origine stava la ricerca goethiana della “chiarità” e il “cercatore di sole” che fu Nietzsche; sennonché, al di là del compiaciuto ma generico sguardo allungato verso l’orizzonte mediterraneo, la terra che gli si presentava non appena valicate le Alpi richiedeva una precisa specificazione:

Ora, la nostra Europa è nettamente divisa dall’enorme barriera alpina in Nord e Sud, ed è quindi naturale che, quando un artista, un poeta del Nord tende verso il Sud, non cerchi subito la massima perfezione di questo elemento, ma si soffermi al punto in cui più appare manifesto il passaggio da una sfera all’altra. Non vogliono, i poeti, straniarsi dalla loro patria, vogliono rimanere vicino, ma stare più a sud; sicché la zona che a loro meglio si addice è quella in cui possono trovare ancora i monti che essi amano, ma già coperti di frutti meridionali, in cui possono sentirsi vicini alla loro lingua e quindi al loro territorio spirituale, eppur già accostati ad un mondo più dolce. E solo nei luoghi sul versante meridionale delle Alpi l’occhio ha sempre trovato i due mondi riuniti, e qui gli scrittori hanno potuto rinnovare le loro energie e trovare quell’ozio laborioso e attivo che è il loro stato di grazia.26

Tale considerazione, con cui egli riconosceva al Ticino il merito di avere aperto un nuovo fronte nelle zone alpine come “eldorado dei poeti” che precedentemente per la pace del proprio spirito avevano prediletto il Lago di Ginevra (Voltaire, Madame de Staël, Shelley, Byron, Tolstoi, ecc.), veniva ad assumere una portata particolare in un momento in cui il continente aveva imboccato la china di divisioni sempre più inconciliabili tra i propri popoli, già preannunciando la guerra, e in una nazione che, nella fedeltà ai propri ideali democratici fondativi, dimostrava di essere in grado di resistere alle tentazioni del totalitarismo aggressivo che si era imposto nei paesi vicini.

Carlo Piccardi

24 Stefan Zweig, il quale a Lugano nel 1938 terminò la stesura dell’opera biografica Magellano, fu portato al microfono della rsi per iniziativa di Delio Tessa, che frequentò lo scrittore insieme con Luigi Rusca, direttore editoriale della Mondadori impegnato a pubblicare i suoi libri in italiano (Vin-cenzo Vicari, Mario Agliati, Lugano racconto di ieri, I, Lugano, Gaggini-Bizzozero, 1998, p. 57).

25 La Radio della Svizzera italiana non mancò di rendere omaggio a Gerhart Hauptmann, il grande drammaturgo che soggiornò a Lugano e a Rovio già a partire dalla fine dell’Ottocento e fino agli anni Trenta, trasmettendo il 18 dicembre 1937 una sua “fiaba drammatica”, La morte di Hannele (Hanneles Himmelfahrt), scelta non a caso in quanto ambientata in un villaggio di montagna: «Con questa prima trasmissione italiana della Fiaba di Hauptmann, la rsi, oltre a curare l’allestimento di uno spettacolo di indubbio valore artistico, intende onorare il Venerando Poeta tedesco che ama il Ticino e Lugano come un suo secondo paese e non tralascia, da anni, di passare una settimana prima-verile sulle sponde ospitali del Ceresio. All’allestimento del dramma collaboreranno i radioattori e i Bambini ticinesi; questi ultimi con i canti “degli angeli”, per i quali il Maestro [Arnaldo] Filipello ha composto espressamente le musiche» («Radioprogramma», v, 51, 16 dicembre 1937).

26 Stefan Zweig, Il Ticino e i poeti, «Radioprogramma», v, 38, 18 settembre 1937, pp. 1-2.

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Detto da uno scrittore che aveva avuto un ruolo determinante nella creazione del Festival di Salisburgo, ispirato a Mozart come a cittadino d’Europa e fino all’ultimo (fino alla nazificazione) impegnato ad alimentare una sorta di rinascita spirituale del continente dopo le lacerazioni della prima guerra mondiale, queste parole assumeva-no una portata altamente significativa:

Il poeta può volgere il cuore a nord o a sud, e in ogni caso vi sentirà il pulsare della vita europea. In questo breve spazio egli osserva stupefatto la diversità e la singo-larità delle forme e degli idiomi e tuttavia li sente uniti col favore di un fortunato destino. Egli respira aria italiana, vede nordici monti, e vive nello stesso tempo in terra svizzera, in questa terra di libertà che oggi ci sembra più cara e preziosa che mai. Noi infatti, che siamo tutti spossati dagli odi della politica, dalle tensioni tra i popoli, dall’inasprirsi del nazionalismo ad oltranza, noi sentiamo la felicità e l’inse-gnamento che ci vengono dall’esempio della Svizzera, la quale unisce varie nazioni senza che per questo una di esse debba rinunciare alla propria peculiarità. Questo sentimento di pace, questa sensazione dell’equilibrarsi di ogni contrasto è forse più forte di qualunque altra cosa che qui ci possa placare e alleggerire l’anima. Come in un’isola beata in mezzo all’Europa sconvolta, qui si può respirare e lavorare.27

Con tutta la fiducia riposta nel respiro umanistico dell’arte il grande scrittore mitteleu-ropeo si rendeva ben conto dell’impossibilità di garantirlo se non in uno spazio di au-tonomia, che purtroppo sempre più si restringeva e che la Svizzera non solo assicurava ancora ma permetteva di proclamare attraverso l’etere, facendo della radio il veicolo di messaggi che travalicavano le frontiere. Da tirolese, che in fondo aveva stampato negli occhi lo stesso paesaggio alpino benché dell’altro versante, lo scrittore vi ritrovava i luo-ghi familiari e in fondo la sua stessa origine:

Noi abbiamo l’impressione di essere ospiti, ma non in terra straniera, poiché in questo spazio limitato si rispecchia più chiaramente e felicemente che in qualsiasi altro luogo l’unità spirituale d’Europa. L’occhio riposa ammirando l’arte della tran-sazione [transizione?], della fusione nella natura, e il cuore respira più liberamente trovando ripetuta nell’ambito spirituale la stessa arte conciliativa. Non vi stupisca pertanto se i poeti e gli artisti del nostro tempo vengono sempre più numerosi a sostare in questo paese per rinfrescarsi l’anima e gli occhi; qui è ancor possibile la pace dello spirito; e perciò non ci sembra esagerazione né pretensione se questa meravigliosa città sulle rive di uno dei più meravigliosi laghi della terra si chiama Lugano Paradiso.28

Sull’inflessibilità della sua concezione valgano le parole dello scrittore che tracciano il bilancio della sua vita nel libro di memorie Il mondo di ieri, pubblicato poco prima della sua tragica morte: “Molte cose mi ha tolto più tardi Hitler, ma non è riuscito neppure lui a confiscarmi o a distruggermi la compiacenza di aver vissuto ancora un decennio da europeo, a mio talento e con la più assoluta libertà interiore”.29

Presenze artistiche e culturali dal nord

27 Zweig, Il Ticino e i poeti, p. 2.28 Ibidem.29 Stefan Zweig, Die Welt von Gestern, Stockholm, Bermann-Fischer, 1942 (trad. it. Il mondo

di ieri, in Stefan Zweig, Opere scelte, ii, a cura di Lavinia Mazzucchetti, Milano, Mondadori, 1961, p. 869). Sulla presenza di Stefan Zweig alla rsi si veda anche Carlo Piccardi, Dialogo tra campagna e città: la Radio della Svizzera italiana all’origine (i), «Bollettino storico della Svizzera italiana», ix serie, cxv, 1, 2012, pp. 26-27.

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In verità a questo livello la rsi, che nella successiva stagione di guerra com-battuta avrebbe assunto ancor più una precisa fisionomia politica come alternativa all’imbrigliamento informativo oltreché culturale della radio italiana, tentava di es-sere il punto d’approdo di esperienze che avevano visto fin dall’inizio del secolo il Ticino caratterizzarsi come terra prescelta dagli spiriti più liberi scesi dal nord, in passaggi che nella maggior parte dei casi incisero poco sulla vita culturale della regio-ne, lasciando tuttavia qualche traccia significativa proprio nel profilo programmatico dell’ente radiofonico che, chiamato a servire il territorio ma nel quadro di un irradia-mento del messaggio di respiro nazionale (per non dire internazionale, nel confronto con l’eiar e nella sollecitazione della modernità che gli veniva dalle caratteristiche del mezzo allora avanzato), fu la sola istanza che seppe avvalersene.

Alle spalle stava una vera e propria tradizione, che aveva indicato quel percorso a sud delle Alpi a figure quali Kafka e Max Brod nel 1911 a Lugano,30 a Iwan Goll, il quale, dopo aver subìto in quanto alsaziano le lacerazioni della guerra, durante la sua permanenza ad Ascona dalla primavera all’inverno 1918 trovò il coraggio di scrivere Die drei guten Geister Frankreichs con cui apriva un dibattito sulla cultura francese allo scopo di contribuire alla ricojenciliazione tra le due nazioni.

Presenze anteriori alla nascita di Radio Monteceneri non poterono ovviamente essere documentate attraverso il microfono. Tale fu il soggiorno a Lugano di Arnold Schönberg (1874-1951) dove, il 17 luglio 1930, iniziò a metter mano alla partitura del Moses und Aron, trattenendosi fino a settembre,31 probabilmente già presentendo il destino che l’avrebbe costretto a lasciare la Germania meno di tre anni dopo. Nem-meno si riuscì a testimoniare le presenze di un altro artista di origine ebraica, Bruno Walter (1876-1962), giunto sulle rive del Ceresio subito dopo l’Anschluss, prima al Park-Hotel e in seguito, dal maggio 1938 all’ottobre 1939, nella Villa Pagnamenta a Sorengo dove, poco prima della partenza definitiva per l’America, fu raggiunto dalla terribile notizia dell’assassinio a Zurigo della figlia, vittima di un atto di gelosia del marito, che egli dispose di seppellire nel cimitero di S. Abbondio a Gentilino, eleg-gendovi la tomba di famiglia a cui furono quindi destinate le proprie ceneri dopo la morte avvenuta nel 1962 a Los Angeles, quasi a cercare il riposo eterno in un luogo situato all’incrocio delle culture europee.32

Molte furono le personalità direttamente perseguitate o che furono costrette a lasciare la Germania e l’Austria a causa del clima invivibile in cui si trovarono ad agire, da Stefan George che morì a Minusio il 4 dicembre 1933 dopo aver declinato l’offerta di Goebbels di presiedere una nuova accademia tedesca di poesia, al drammaturgo

Carlo Piccardi

30 Harmut Binder, Schwimmen mit Kafka im Luganersee, «Neue Zürcher Zeitung», 6 luglio 2002. V. anche Antonio Gili, Il «cuore palpitante delle lucertole». Il soggiorno luganese di Kafka nel 1911, «Cenobio», lx, iii (luglio-settembre 2011), pp. 12-17.

31 Nella lettera ad Alban Berg datata «Lugano, 5 agosto1930» il compositore scrive: «Ho già finito la prima pagina, molto è già abbozzato e spero di giungere presto ad un ritmo più veloce. Speriamo che possa produrre presto un testo definitivo soddisfacente. Allora ne avrai una copia» (Arnold Schönberg, Briefe, Mainz, B. Schott’s Söhne, 1969, trad. it. Lettere, scelta e note di Erwin Stein, Firenze, La Nuova Italia, 1969, pp. 154-155). In quel periodo il compositore viennese scrisse anche il Duo per violino e pianoforte, il cui manoscritto conservato nell’Arnold Schönberg Center di Vienna reca la dicitura: «Derzeit: Lugano-Besso, Schweiz, Via Seminario 2».

32 Michele Selvini, Bruno Walter. La porta dell’eternità, ii, Montagnola, Fondazione culturale della Collina d’oro, 2001, pp. 390-393 e 429-447.

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Georg Kaiser costretto all’esilio in Svizzera nel 1938 dopo inutili tentativi di resistenza al potere nazista (irrequieto tra Montana, St. Moritz, Lugano, Morcote, Coppet, Gi-nevra, Locarno, Ascona dove morì nel 1945), al critico Alfred Kerr (1867-1948) del «Berliner Tageblatt» e della «Frankfurter Zeitung», protagonista della vita teatrale della stagione weimariana, a Lugano nel 1933 in una tappa del suo esilio, alla poetessa Mar-garete Steffin (1908-41) amica di Brecht degente negli anni Trenta nel sanatorio di Agra (dove anni dopo trascorse un lungo periodo di cura anche Erich Kästner, 1899-1974, pure rifugiato, una delle più grandi figure intellettuali di Berlino, poeta, romanziere, sceneggiatore cinematografico e autore di spettacoli di cabaret). Nello stesso stabili-mento era precedentemente approdato anche El Lissitzkij (1890-1941), noto esponente dell’avanguardia russa, il quale per necessità di cura fu poi trasferito ad Orselina e il quale, fino al rientro in patria nel 1925, peregrinò in varie località del Lago Maggiore (Brione, Minusio), cercando nell’immersione nella natura silvestre della Valle Maggia il contrappeso al pesante lavoro tipografico a cui si era dedicato per sopravvivere.33

Particolarmente irradiante fu il polo locarnese, già predisposto all’accoglienza degli spiriti liberi con la stagione esoterica del Monte Verità nel primo ventennio del secolo, degli anarchici, ecc.34 Nel 1932 Erich Maria Remarque (1898-1970), diven-tato campione del pacifismo dopo il successo internazionale del romanzo Im Westen nichts Neues e quindi uno dei principali bersagli del nazionalismo crescente,35 prese residenza a Porto Ronco (prima di emigrare negli Stati Uniti nel luglio 1939), luogo che giudicava in un certo senso come Zweig un “sud di prossimità”.36 A Casa Monte Tabor egli offrì rifugio a vari fuorusciti dalla Germania per motivi politici o razziali, al punto che nel maggio 1933 vi fu trovato morto il giornalista ebreo Felix Ma-nuel Mendelssohn probabilmente vittima di un assassinio orchestrato dai nazisti.37 Ciò non impedì a Paul Körner, segretario di stato ed emissario di Hermann Göring, di fargli visita e di invitarlo a ritornare in Germania, ricevendone un netto rifiuto: «Cosa? Sessantacinque milioni vogliono andarsene e io dovrei spontaneamente ritor-narvi?»38 Nell’Italia fascista il romanzo di Remarque fu particolarmente disprezzato

Presenze artistiche e culturali dal nord

33 Uwe Ramlow, Tessin. Ein Reisebegleiter, Frankfurt a.M. / Leipzig, Insel Verlag, 2005, pp. 58-59. Questo volumetto ha il merito di tracciare in forma snella il quadro più esaustivo delle presenze culturali forestiere nella Svizzera italiana. Vi si possono trovare dettagli ulteriori rispetto a quelli com-pendiati in questa trattazione, estesi a figure quali Eduard Osenbrüggen, Thomas Mann, Richard Seewald, Friedrich Glauser, Else Lasker-Schüler, Erich Mühsam, Franziska von Reventlow e gli altri artisti del Monte Verità, Carl Weidemeyer (il primo esponente del razionalismo architettonico apparso in Svizzera, che ad Ascona costruì il Teatro San Materno), spingendosi fino alle presenze più diradate ma non meno significative dell’ultimo dopoguerra: Max Frisch, Alfred Andersch e Golo Mann a Berzona, ecc.

34 In proposito si veda Renato Martinoni, «Le village où l’on s’endort». La cultura nel Locarnese fra Otto e Novecento, «Bollettino storico della Svizzera italiana», serie nona, cxvi, 1, 2013, pp. 41-82.

35 Nel «Völkischer Beobachter» del 2 marzo 1933, il giornale di Goebbels, Remarque era indi-cato fra i maggiori «traditori intellettuali» esponenti del deprecato «internazionalismo culturale», con Albert Einstein, Sigmund Freud, Heinrich e Thomas Mann, Arnold Zweig, Alfred Döblin, Heinrich Heine, Bertolt Brecht, Hugo von Hofmanstahl, Erich Kästner, Carl Zuckmayer e altri (Hilton Tims, Erich Maria Remarque. The Last Romantic, London, Constable & Robinson, 2003, p. 79).

36 «Mi stabilii in Svizzera al sud più vicino al confine dove si parlava ancora tedesco» (ivi, p. 76)37 Ivi, p. 86.38 Wilhelm von Sternburg, «Als wäre alles das letzte Mal», Erich Maria Remarque, Köln, Kie-

penheuer & Witsc, 1998, p. 244.

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dal Duce e messo sotto accusa dal fratello Arnaldo Mussolini, che aveva ottenuto una sorta di delega per l’editoria e i giornali, il quale in una manifestazione ufficiale il 31 ottobre 1929, invocando «una profilassi energica» contro i libri incompatibili con lo spirito del fascismo, lo denunciò come «dissolvitore della grandezza della guerra». D’altra parte è da tener presente il fatto che la traduzione di Niente di nuovo sul fronte occidentale, dopo essere stata bloccata dalla censura, poté essere stampata da Arnaldo Mondadori ma in Svizzera, con la clausola che il volume circolasse solo all’estero.39

A Brissago giunse invece Leon Hirsch (1886-1954), l’editore ebreo fondatore del cabaret berlinese “Die Wespen”, il quale si salvò dalla Gestapo nel cui mirino era immediatamente entrato, non senza difficoltà per il permesso più volte negato dalle autorità svizzere. Della stessa situazione, a causa del divieto per gli stranieri di eser-citare un’attività lavorativa, patì ad Ascona la sua amica poetessa Sylvia von Harden (1894-1963).

Significativamente vi approdarono vari artisti provenienti dal Bauhaus (Anni Albers, Herbert Bayer, Marcel Breuer, Walter Gropius, Laszlo Moholy-Nagy, Xanti Schawinsky),40 fra cui Oskar Schlemmer (1888-1943) il quale nel 1927 ad Ascona concepì una versione de Les Noces di Stravinsky in forma di narrazione figurata su panorama girevole progettata (ma mai andata in porto) con la collaborazione di Her-mann Scherchen (1891-1966),41 il noto direttore d’orchestra fondatore della rivista «Melos», particolarmente attivo nel sostegno delle nuove generazioni di compositori, già da tempo inserito nel mondo musicale svizzero come direttore dell’Orchestra del Musikkollegium di Winterthur, che di lì a poco nel 1933 avrebbe scelto Riva San Vitale come prima tappa delle sue residenze in Svizzera dopo aver deciso di lasciare la Germania.42

Il sostegno a queste persone poteva venire solo da privati cittadini, fra cui si distinsero i coniugi Wladimir Rosenbaum e Aline Valangin, i quali accolsero molti artisti fuggiaschi dalla Germania nazista dapprima nella loro casa di Zurigo poi alla Barca, la casa patrizia settecentesca da loro posseduta a Comologno in Valle Onser-none. Centro della vita culturale zurighese, a causa dei tragici eventi politici il loro salotto letterario divenne ben presto un riferimento obbligato per numerosi perse-guitati, mentre la loro residenza di campagna in Ticino, per il fatto di dare meno nell’occhio delle autorità, si prestava meglio al riparo che assicurarono alle molte

39 Giorgio Fabre, Il censore e l’editore, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2018, pp. 91-92 e 117-120. Peraltro un secondo romanzo di Remarque (Der Weg zurück, tradotto come La via del ritorno) fu pure proibito ma allo stesso tempo autorizzato ad essere distribuito in Svizzera (ivi, pp. 120-124).

40 Harald Szeemann, Monte Verità. La montagna della verità, in Le mammelle della verità, a cura di H. Szeemann, Locarno / Milano, Armando Dadò Editore / Electa Editrice, 1978, p. 6.

41 Willi Rotzler, Oskar Schlemmer e l’arte teatrale, in Oskar Schlemmer – Les Noces (scenografie, acquerelli, disegni, documenti per la musica di Igor Stravinsky), a cura di M. Kahn-Rossi, Milano, Fabbri Editori, 1988, p. 64.

42 Su questa personalità, che nel dopoguerra tornò a risiedere in Ticino prendendo dimora a Gravesano nel 1954 dove fondò lo Studio sperimentale di musica elettroacustica, si veda Carlo Piccardi, La linea retta di Hermann Scherchen. Giardiniere della musica, «Il Cantonetto», lxiv, 1-2 (marzo 2017), pp. 59-70; ampliato col titolo «Rendere eterno l’unico». La linea retta di Hermann Scherchen (I), «Musica/Realtà», 112 (marzo 2017), pp. 125-163; (II), «Musica/Realtà», 113 (luglio 2017), pp. 95-127.

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(12) Erich Maria Remarque nella sua casa di Porto Ronco negli anni 1933-35 (dall’album di fotografie dell’amico mercante d’arte Walter Feichenfeldt, conservato da Walter Feichen-feldt junior, figlioccio dello scrittore residente a Zurigo); (13) Annuncio dell’esecuzione di Campo Marzio op. 80 di Ernst Krenek e di Leggende ticinesi di Walter Jesinghaus («Radio-programma», 5 novembre 1938, p. 10).

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... una di walter jesinghaus (Leggende ticinesi, op. 40, n. 3, Le stelle delle Alpi, I nani, La ca-duta delle stelle)

La radiorchestra interpreta venerdì(ore 20.15) una primizia di ernst krenek (Ouverture Op. 80 «Cam-po Marzio») e ...

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(14) «Die andere Achse» (“L’altro Asse”, con riferimento a quello tra Roma e Berlino), Ignazio Silone ospite a Carona, 1936 (pagine del Gastbuch di Kurt Kläber conservato da Christiane Dornheim-Tetzner); (15) Ignazio Silone con Aline Valangin nel 1932 sulla ter-razza della Barca a Comologno; (16) Wladimir Vogel a Comologno con un’amica.

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personalità accolte: il regista della Kroll-Oper Hans Curjel (1884-1956), l’architetto Erich Mendelssohn (1887-1953), il musicologo viennese Willi Reich (1898-1980, al-lievo di Alban Berg e Anton Webern), Heinrich von Brentano (1904-64), Max Ernst (1891-1976), Meret Oppenheim (1913-85) e altri.43

Di Ernst Toller (1893-1939), drammaturgo marxista che sarebbe morto suici-da a New York, la Valangin tratteggiò questo ritratto:

Il suo sguardo era alimentato da una forte integrità; esso splendeva chiaro e sicuro. Trovava molte difficoltà a mettersi in consonanza col mondo circostante e con il presente. Quando arrivò a Comologno per ristorarsi era già autunno e rimase quale unico ospite della Casa. Allora ci si occupava molto di lui e dei suoi pensieri. Insie-me traducemmo in tedesco versi del saggio cinese Tao Ts’Ien (365-427 d.C.), che un altro ospite della Barca, Liang Tsong Tai, aveva tradotto dal cinese in francese. Erano dei testi chiari e profondi che lo affascinavano molto e che occupavano mol-to del nostro tempo. Compiendo questo lavoro egli beveva molto cognac. Sentiva il bisogno di questo eccitante. Poi le parole gli uscivano dal cuore senza, quasi, ac-corgersene. Amava molto compiere lunghe escursioni sulle montagne e si rallegrava alla vista di fiori o di animali; uomo senza alcuna pretesa, ben diverso in questo da Tucholski, che pure si fermò a lungo alla Barca.44

Alla Barca approdò anche Kurt Tucholsky (1890-1935), fuggito da Berlino allorquando arrestarono il suo amico e coeditore della «Weltbühne» Carl von Os-sietzky, incarcerato già nel 1931 accusato di spionaggio e alto tradimento per aver rivelato il riarmo della Germania in violazione del Trattato di Versailles e in seguito spedito dai nazisti in campo di concentramento dove morì nel 1938.

Si rammaricava amaramente di non essere rimasto a Berlino dove, se non poteva aiutare il suo amico, avrebbe potuto almeno dividere con lui il suo tragico destino. [...] La sua lingua insolente, la sua spietata critica, il suo chiaro parere sulla vita e sulla morte, davvero non gli servirono quanto sarebbe occorso. Il mondo cambiato, capo-volto, nel quale non sapeva più esprimere il suo parere, gli ripugnava. Così se ne andò.

Il 21 dicembre 1935 morì suicida nell’ospedale di Göteborg in seguito a una overdose di sonniferi.

Fra le personalità più singolari che popolarono la residenza di Comologno va menzionato lo scrittore Hans Marchwitza (1890-1965).

[...] arrivò alla Barca con un giovane, pure lui emigrante. Era stato per tutta la sua vita a lavorare nelle miniere e diceva di conoscere le montagne solo dall’interno. Comunista molto aggressivo stava lavorando ad un romanzo che uscì poi nella “Büchergilde” (1934) con il titolo Die Kumiaks. Di sera ce ne leggeva dei brani. Era terribile tutto ciò che capitava in quella storia. Più tardi forse mescolò un po’ d’acqua in quel suo forte vino. A quel tempo però era molto impulsivo. Una notte si sentirono provenire dal suo camerino parole dette a voce così alta che nessuno

43 Hans Oesch, Wladimir Vogel. Sein Weg zu einer neuen musikalischen Wirklichkeit, Bern /München, Francke Verlag, 1967, pp. 61-64.

44 Aline Valangin, Antifascisti alla “Barca”, «Ragioni critiche» (rassegna mensile di cultura de «Il Dovere»), i, 5, 24 maggio 1967, p. 12, ripubblicato in «Cartevive», ix, 1 (aprile 1998), pp. 6-14.

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riuscì a dormire. Richiesto il mattino che cosa gli fosse capitato, mostrò un vol-to imbarazzato. May Terpis, il ballerino che soggiornava nel medesimo periodo alla Barca, riferì poi sorridendo che Marchwitza ed il suo giovane accompagnato-re erano venuti quasi alle mani, discutendo se nella ormai prossima rivoluzione, noi, padroni temporanei della Barca, dovevamo essere sgozzati o meno. Il giovane accompagnatore sosteneva di no, mentre Marchwitza era dell’opinione che non sa-rebbero state fatte eccezioni. Dopo quella tormentosa notte, egli andò a passeggio e mi portò un mazzolino, ridicolo tanto era esiguo, di fiori. Me lo porse imbarazzato con un leggero inchino. In fondo, forse, non era del tutto convinto che le nostre teste dovessero cadere.

Nel 1935 vi comparve una personalità di rilievo, Elias Canetti (1905-94), il quale, al di là della galleria fitta di personaggi dell’ambiente intellettuale e artistico della Vienna degli anni Trenta magistralmente tratteggiati, ne Il gioco degli occhi rese conto dell’ospitalità ricevuta dalla coppia Rosenbaum-Valangin sia a Zurigo sia alla Barca. Riferendo di una serata nel loro salotto zurighese alla presenza del filosofo e poeta Max Pulver, di Bernard von Brentano, di Kurt Hirschfeld e altri, spicca il profilo della figura femminile che in un certo senso fa da contraltare a quella di Alma Mahler (peraltro nel suo testo presente come donna dispotica e velenosa ad esibire i suoi “trofei”) per la capacità di intrecciare stretti rapporti (anche intimi) con perso-naggi maschili di rilievo:

Ma la vera regina della serata fu proprio la padrona di casa. Si sapeva della sua ami-cizia con Joyce e con Jung. Non c’era celebrità, scrittore, pittore o compositore, che non frequentasse la sua casa. Era una donna intelligente, con lei si poteva parlare, aveva la mente aperta a ciò che quei personaggi le dicevano, sapeva discutere con loro senza arroganza. S’intendeva di sogni, e questo la legava a Jung, ma si diceva che perfino Joyce le raccontasse i propri sogni. Nella casa che si era fatta sopra Comologno offriva rifugio a non pochi artisti che potevano andarvi a lavorare.45

La Barca di Comologno fu anche luogo di accoglienza di fuorusciti italiani in lotta col fascismo, in primis Ignazio Silone, il quale con la Valangin intrattenne anche una relazione amorosa. Da lei fu così ricordato:

A quei tempi era un giovane pieno di garbo. Benché il suo sguardo apparisse spesso preoccupato, non era privo di umore e sapeva raccontare le sue avventure in modo straordinario. Tramite i suoi rapporti ebbi occasione di conoscere molto bene il suo paese, meglio che non compiendovi poi, più tardi, lunghi viaggi. La sua vita era mi-steriosa e movimentata: fughe e soggiorni in Spagna, in Francia, a Mosca ed infine in Svizzera, dove era giunto soprattutto a causa della sua malferma salute. Riusciva a riposarsi e a godersi il soggiorno in montagna più che non il Rossi [Ernesto]. Egli non aveva in mente di tornare in Italia dove era maggiormente esposto ai pe-ricoli di essere braccato, ma Rossi era del parere che occorreva tener duro in Italia. Rimaneva in continuo contatto con il gruppo parigino degli antifascisti, lavorava di comune accordo; poi giunse il triste giorno in cui i fratelli Rosselli vennero pro-ditoriamente trucidati. Durante il suo soggiorno alla Barca, il Tranquilli [Secondo Tranquilli era il suo nome legale] si trovava in uno stato di forte tensione spirituale. Lottava per rimanere fedele al partito comunista a cui si sentiva unito con tutta la convinzione, fin che si accorse di come stavano veramente le cose.

Carlo Piccardi

45 Elias Canetti, Das Augenspiel. Lebensgeschichte 1931-1937, München / Wien, Hanser Verlag, 1985 (trad. it. Il gioco degli occhi. Storia di una vita 1931-1937, Milano, Adelphi, 1985, pp. 211-212.

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Deve essere stato in un congresso a Mosca: lì non gli riuscì più di accordarsi con i dirigenti del partito. Anche Trotzki era nella sala; pure lui si sentiva palesemente estraneo alle direttive del congresso. I due si scambiarono un’occhiata di intesa. Così raccontava il Tranquilli. Durante i mesi che seguirono, egli si sentì intima-mente lacerato. Alla fine maturò in lui l’idea di distaccarsi dal partito. C’è sempre qualcosa che muore in un uomo che esce dal guscio di una sua visione del mondo, di una religione, che gli è divenuto troppo stretto tanto da doversene liberare. Dubbi, rimorsi di coscienza, i sentimenti della fedeltà, così alla rinfusa, spingono alla rivolta. Ci si vede davanti solo il vuoto, poiché la nuova dimensione si apre a poco a poco, molto lentamente. Così, di sicuro, il Tranquilli silenziosamente do-vette intimamente combattere nel soggiorno comolognese. Egli amava la Valle, gli uomini che vi vivono e che gli facevano ricordare i suoi compaesani che gli erano tanto vicini nel suo esilio. (È originario degli Abruzzi).46

Di particolare rilevanza fu il rapporto a distanza tra la Valangin e Gaetano Salvemini, esule a Parigi, nel periodo del processo a Ferruccio Parri, Riccardo Bauer e Ernesto Rossi (1897-1967), vale a dire le figure più rappresentative dell’antifasci-smo, condannati nel 1931 a pene variabili dal confino a vent’anni di detenzione. La Valangin accettò di far da tramite tra Salvemini e l’Italia, in particolare con Elide, la madre del Rossi che nel 1932 fu ospitata per l’intera estate alla Barca. Liberato il 30 luglio 1943 Ernesto Rossi sarebbe espatriato con la moglie Ada dopo l’8 settembre sistemandosi a Brè sopra Lugano, ma non mancando di essere presente alla Barca. Orientata da Salvemini la Valangin eseguì missioni in Italia, come corriere e come accompagnatrice di fuggitivi.47

Presenze artistiche e culturali dal nord

46 Valangin, Antifascisti alla “Barca”, p. 11. In proposito è interessante attirare l’attenzione sulla metafora della Barca di Comologno come “arca di Noè” scelta da Silone come base di una novella scherzosa datata 23 dicembre 1931 col suo vero nome, offerta in omaggio ad Aline Valangin, padrona di quella “Barca” in cui si sarebbe conservato «l’esprit de l’arche, l’esprit de Noé, l’esprit anti-diluvien, l’esprit de l’optimisme humain». Lo scrittore immagina l’arca mancare l’ancoraggio al Monte Ararat nel momento del ritiro delle acque dopo il diluvio, e vagare per secoli nei mari fino alla metà del xviii quando il ticinese Remonda arricchitosi a Parigi la recupera alla foce del Po, ottenendo il diritto di appropriarsene: «Et l’arche fut remorquée par le Po, à travers la Lombardie, par le Lac Majeur, par le torrent Maggia, par le ruisseau Isorno, jusqu’à Comologno, patrie du dit Remonda. Et l’arche fut placée sur le dos de la colline, où elle encore se trouve, appelée vulgairement Barca. [...] Lorsque per-sonne parlera plus de l’“esprit de Locarno” [riferimento alla Conferenza di pace tenuta a Locarno dal 5 al 16 ottobre 1925 e al Patto di Locarno siglato da Francia, Belgio, Gran Bretagna, Italia e Germania in cui quest’ultima, nuovamente trattata al pari delle altre potenze, riconosceva i confini occidentali scaturiti dalla guerra], l’esprit de Comologno sera toujours vivant. Il a survécu au déluge. Il sourvivra à toutes les crises» (Secondino Tranquilli, Ancien Testament. La Genèse. Les temps anciens depuis la création jusqu’au déluge, «La voce onsernonese», vii, 5, ottobre 1978, pp. 1-2).

47 Nelly Valsangiacomo, Il Ticino, gli intellettuali e il fuoruscitismo italiano: Aline Valangin, Ga-etano Salvemini e Ernesto Rossi, «Cartevive», xv, 1 (febbraio 2004), pp. 28-35. Un’altra significativa presenza a Comologno fu quella di Ernesto Bonaiuti (1881-1946), teologo modernista poi privato della cattedra universitaria per essersi rifiutato con pochi altri docenti di giurare fedeltà al regime. «Nella Barca era l’uomo che suscitava la maggior serenità. Si alzava molto presto e sbrigava tutta la sua corrispondenza prima della colazione. Ci recammo insieme all’“Eranos-Tagung” a Moscia, dove tenne delle lezioni dall’anno 1933 fino al 1941. A Moscia si è convinti che quelle siano state le sue lezioni più importanti. Egli parlava delle sue ricerche, della situazione nei primi secoli, della crisi del cristianesimo finché esso riuscì ad affermarsi, e tutto ciò egli ce lo spiegava con delle frasi limpide, per niente retoriche. Il pomeriggio si recava a discutere con gli altri docenti, e verso sera tornava su nella valle già sprofondata nell’ombra» (Valangin, Antifascisti alla “Barca”, p. 12).

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Wladimir Vogel: prove d’integrazione

La personalità di quel contesto che lasciò il segno più profondo fu sicuramente Wladimir Vogel (1896-1984), divenuto in seguito compagno e marito della Valangin, l’unico rimasto in Ticino dove svolse un ruolo importante nello sviluppo della vita musicale della regione, riposizionandosi rispetto alla militanza nel filone della “Kam-pfmusik” declinata in una forma subliminale.48

Non può passare allora inosservato il fatto che il compositore Vogel, di padre tedesco e di madre russa (di origine ebraica) che si era affermato nell’ambiente berlinese d’avanguardia lasciato dopo l’avvento del nazismo, installatosi nella residenza “La Bar-ca” a Comologno dal 1° luglio al 15 agosto 1936 vi organizzasse un corso estivo che, accanto a lezioni affidate a personalità importanti quali Manfred Bukhofzer (1910-55, a curare l’«introduzione alla comprensione della musica antica»), Alan Bush (1900-95, pianista e compositore britannico formato a Berlino, oltreché comunista convinto, in-vitato a trattare di «musica inglese moderna»), Alois Haba (1893-1973, sulla sua specia-lità, cioè la «musica a quarti di tono e atematica») e al proprio corso di composizione, ospitava Willi Reich in una serie di lezioni sulla dodecafonia (cioè il metodo concepito da Schönberg di composizione con dodici note stanti in relazione soltanto tra loro, con l’effetto di sospendere le gerarchie del sistema tonale). Teoricamente in un breve arco di tempo il pubblico ticinese si trovava quindi ad essere confrontato con una realtà estetica inedita e gravida di sviluppi radicali, che in verità non scalfì per nulla l’im-pianto tradizionalistico della vita culturale locale ma che rappresentò un primo varco nella condizione di arroccamento caratterizzante la musica svizzera di quegli anni che portava a diffidare delle novità provenienti dai centri europei più attivi. È significativo il fatto che quei corsi sulla nuova musica, inizialmente previsti in casa del professor Oscar Müller a Basilea e a Zurigo, gli fossero stati vietati l’anno prima dalla polizia in quanto Vogel figurava come straniero senza permesso di soggiorno e di lavoro.49 In verità il so-spetto di “criptocomunista” che lo accompagnava gli aveva creato difficoltà fin dai suoi primi soggiorni basilesi, a causa della politica particolarmente restrittiva verso gli artisti fuorusciti la cui autorizzazione di residenza era sottoposta al parere della Società degli Scrittori Svizzeri, più rigida della stessa polizia nel preavvisare il permesso di lavoro.50 Tale situazione è testimoniata dallo sfogo del compositore in una lettera del 3 settembre 1939 alla mecenatessa basilese Anni Müller-Widmann:

L’impotenza di intraprendere qualcosa, per conseguire la mia indipendenza mate-riale e morale, l’essere condannato a non poter partecipare alla costruzione della propria vita e di quella dei miei simili, è la cosa più difficile; alla fine è ciò che mi logora anche intimamente. Cosa mi giova la libera aria svizzera, se mi muovo e vivo

Carlo Piccardi

48 Carlo Piccardi, Wladimir Vogel: la cifra politica berlinese oltre l’insegnamento di Busoni, in Ferruc-cio Busoni e la sua scuola, a cura di G. Borio e M. Casadei Turroni Monti, Lucca, lim, 1999, pp. 69-111.

49 Carlo Piccardi, Tra ragioni umane e ragioni estetiche: i dodecafonici a congresso, in Norme con ironie. Scritti per i settant’anni di Ennio Morricone, a cura di S. Miceli, Milano, Suvini Zerboni, 1998, pp. 208-209.

50 Piccardi, Wladimir Vogel, pp. 99-100. Nei primi anni del suo esilio svizzero il compositore a volte cercava di sviare l’attenzione dei funzionari dell’amministrazione pubblica sulla sua origine russa, dichiarando come nome Waldemar anziché Vladimir (Walter Labhart, Vom Überleben der Musik in finsteren Zeiten (1933-1948), in Swiss, made. Die Schweiz im Austausch mit der Welt, a cura di Beat Schläpfer, Zürich, Scheidegger & Spiess, 1998, p. 253).

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quasi in uno spazio vuoto d’aria, considerato e apprezzato come “Wladimir Vogel” solo da chi ne è a conoscenza in ricordo delle mie realizzazioni, che così tanti ora mi passino appresso senza accorgersi di me, per i quali il mio nome e io stesso non dicono nulla, privato dei diritti e condannato all’inattività, consegnato alla grazia o allo sfavore, all’amore e all’odio.La ragione mi suggeriva e suggerisce: è la guerra. Tu sei come internato, tu sei né amico né nemico, né libero né il contrario. Tu devi resistere, cominciare di nuovo, nuovo – di fronte a chi? 51

La situazione più tollerante nel cantone a sud delle Alpi,52 ma soprattutto la minore attenzione concessa a una manifestazione delle cui caratteristiche poco si comprende-va, ne resero possibile l’organizzazione, che poté beneficiare del contributo finanziario del Dipartimento della Pubblica Educazione cantonale, addirittura con il patrocinio del suo direttore, il consigliere di stato Enrico Celio,53 ottenuto grazie ai buoni uffici dello scrittore di origine onsernonese Augusto Ugo Tarabori, segretario di concetto dello stesso dipartimento, con il quale Vogel era in relazione e che trascorreva parte del suo tempo nel vicino villaggio di Spruga.54 È da constatare che fra gli allievi iscrit-ti non figurava nessun ticinese e che il coinvolgimento di personalità locali a questi «cours de vacances pour la musique» si limitava alle lezioni di canto gregoriano tenute da Martino Signorelli,55 sacerdote musicista che ebbe un ruolo importante nella rifor-ma della pratica del canto in chiesa e della liturgia in Ticino.56

In ogni modo l’aver scelto il Ticino come luogo di residenza a partire dal 1936 dopo il suo abbandono della Germania nazista avvicinò immediatamente Vogel alla Radio della Svizzera italiana, in cui trovò motivazione come luogo di produzione musi-cale e dalla quale fu ospitato a più riprese. A ciò risale la composizione delle Tre liriche sopra poemi di Francesco Chiesa (Tra due margini, Compensa dell’età, Vedere ancor, tratte dalla raccolta La stellata sera) a detta del compositore scritte su invito di Radio Monte Ceneri «für die am 3. März stattfindenden Francesco-Chiesa-Feier».57 Effettivamente il 3 marzo 1941 la radio luganese annunciava un “Omaggio a Francesco Chiesa”:

Al grande letterato ticinese, in segno di omaggio e di gratitudine, la rsi dedica la prima trasmissione nazionale di lingua italiana (in collegamento con Beromünster, Sottens e il centro a onde corte svizzero). Il programma comprenderà cori ispirati all’opera del Poeta, musiche orchestrali da lui predilette e dizioni di suoi versi.58

Presenze artistiche e culturali dal nord

51 Cit. in Friedrich Geiger, Die Dramma-Oratorien von Wladimir Vogel, 1896-1984, Hamburg, von Bockel Verlag, 1998, p. 54.

52 È risaputo che la polizia federale istituita nel 1935 all’inizio contava pochissimi funzionari, demandando il compito di sorveglianza alle polizie cantonali (Mauro Cerutti, La Svizzera di fronte al fuoruscitismo, in Svizzera e Italia negli anni Trenta. La presenza dei fuorusciti, a cura di R. Caraz-zetti e R. Huber, Locarno, Armando Dadò Editore, 1993, p. 59).

53 Piccardi, Tra ragioni umane e ragioni estetiche, p. 252.54 Nel Fondo Wladimir Vogel depositato alla Zentralbibliothek di Zurigo sono conservate

varie lettere di e a Tarabori attestanti tale rapporto e visite reciproche nelle due località onsernonesi.55 Ibidem.56 Timoteo Morresi, Il contributo della Diocesi di Lugano alla riforma liturgica del Concilio

Vaticano ii, Lugano, Eupress ftl, Lugano 2014, pp. 33-40.57 Oesch, Wladimir Vogel, p. 82.58 «Radioprogramma», ix, 10 (1 marzo 1941), p. 5.

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Quel giorno tuttavia i brani di Vogel non comparvero nel programma composto da una «suite per coro a 4 voci miste» su versi pure de La stellata sera ma del compositore basile-se Walter Müller von Kulm e dalla lirica Vive le fonti da Consolazioni del luganese Walter Jesinghaus, in aggiunta a dizioni e a musiche predilette dal poeta (due concerti grossi di Francesco Geminiani e di Antonio Vivaldi).59 Le Tre liriche andarono invece in onda la sera del 14 marzo nell’interpretazione del baritono Fernando Corena accompagnato al pianoforte da Leopoldo Casella, indipendentemente, non si sa per quale ragione. Una riserva forse stava già nell’incarico definito da Vogel «inoffiziell und unbezahlt»60 (non ufficiale e senza compenso) e nella consapevolezza della difficoltà di trovare la sintonia con il letterato ticinese.61 La scelta di una figura lontanissima dal suo contesto artistico avanzato era sicuramente dettata dall’intenzione di trovare la via per integrarsi nella sua nuova situazione culturale a cui l’aveva portato l’evoluzione degli eventi, consiglia-to dal Tarabori62 il quale, oltre ad aver riservato al Chiesa il posto di maggior rilievo nell’impresa di alcuni anni prima volta a stabilire un canone della letteratura ticinese (Pannocchie al sole, Bellinzona, Grassi, 1930), ne aveva affidato la prefazione proprio al poeta di Sagno.63 Allora residente nel villaggio della Valle Onsernone nelle precarie condizioni dell’esiliato (con passaporto tedesco ma impedito per ragioni politiche di rientrare in Germania), Vogel vi soggiornava con visto turistico64 senza possibilità di ottenere un permesso di lavoro, per cui la “commissione” della rsi non poté nemmeno essere seguita da onorario alcuno.

Carlo Piccardi

59 «Radioprogramma», ix, 10 (1 marzo 1941), p. 8.60 Oesch, Wladimir Vogel, p. 82.61 «Diese Gedichte sind mir so fern, dass ich kaum glaube, dem alten Herrn damit grosse

Freude bereitet zu haben. Er wird mit meiner Musik nichts anfangen können...» (ibidem).62 «Le mando tre volumi di poesie di Francesco Chiesa e Le indico le pagine sulle quali ho

fermato l’attenzione. Veda Lei se l’una o l’altra sarà capace di destare la Sua ispirazione: I viali d’oro (pagine 11-12, 37-38, 81-82), Consolazioni (7-8, 21, 43-44, 173-4), Stellata sera (37-3, 47, 102, 119). Appena avrà scelto mi informi e io mi occuperò volentieri di avvertire il poeta e di ottenere il suo consenso» (lettera del 15 gennaio 1941).

63 Renato Martinoni, La cultura letteraria ticinese tra le due guerre. Gli anni della formazione di Mario Agliati, in A memoria d’uomo. Omaggio a Mario Agliati per i suoi ottant’anni, Lugano, Edizio-ni Città di Lugano (“Pagine storiche luganesi”, 13), 2002, pp. 100-101.

64 Sicuramente Vogel dovette molto ad Augusto Ugo Tarabori il quale si attivò più volte in suo favore e che, in qualità di alto funzionario cantonale, per certi versi poté accelerare le pratiche, benché per molti anni sempre in base alla condizione di turista: «Pregiatissima Signora, rispondo a volta di corriere alla Sua stimata lettera di ieri, – e Le ripeto che sono stato e sono molto spiacente di non aver potuto ottenere qualche cosa a favore del signor Vogel, al quale Ella vorrà esprimere tutta la mia simpatia. Se la casa a Ronco sarà affittata da Lei, la cosa sarà facilitata di molto. Come “turista” il signor Vogel potrà rimanere fino a tre mesi ogni volta, e basterà che il soggiorno sia interrotto anche per un breve periodo, anche per pochi giorni soltanto. Intanto è sperabile che la situazione cambi e che sia poi possibile ottenere un soggiorno prolungato. Io farò del mio meglio per giungere a tale risultato» (lettera ad Aline Valangin del 3 dicembre 1936); «Cher Monsieur Vogel, j’ai le plaisir de vous informer que votre demande a déjà été transmise à Berne avec le préavis favorable de l’autorité cantonale» (lettera del 17 marzo 1942); «Cher Monsieur, j’ai reçu ce matin votre lettre, ainsi que la lettre du gendarme de Russo et la copie que je vous renvoye ci-jointes, et je suis allé tout de suite au bureau des étrangers, où j’ai donné encore une fois les meilleures renseignements et j’ai présenté la recommandation la plus chaleureuse» (lettera del 18 marzo 1940); «Ho chiesto all’Ufficio forestieri il Suo libretto o il passaporto: ma essi sono ancora a Berna. Mi è stato assicurato che Lei non ha bisogno di documenti per soggiornare a Lugano in un albergo. Potrà farsi fare una dichiarazione dal Gendarme di Russo, nel senso che i Suoi documenti sono stati spediti per il rinnovo del permesso di soggiorno: questo soltanto a titolo di precauzione» (lettera del 25 settembre 1940).

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(17-20) La vita di Wladimir Vogel alla Barca di Comologno (Fondo Ricerche musicali nella Svizzera italiana presso l’Archivio di Stato del Cantone Ticino a Bellinzona).

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(21) Locandina dei Cours de vacances pour la musique organizzati da Wladimir Vogel a Comologno dal 1 luglio al 31 agosto 1936 a Comologno (Fondo Wladimir Vogel presso la Zentrabibliothek di Zurigo).

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Della sua precaria condizione di quegli anni diede testimonianza nella lettera del 24 ottobre 1940 a Marguerite Hagenbach:

Seguendo il Suo consiglio di vivere ancor più modestamente, ho ridimensionato le mie spese: dalla scorsa primavera non ho più acquistato alcun oggetto, al di fuori di carta da musica, matite, inchiostro.. Da qualche settimana ho smesso di fumare. La corrispondenza, prima tanto copiosa, si limita ora alle lettere a Lei e, più raramente ad Anni [Anni Müller-Widmann]. Dal parrucchiere, invece di ogni mese, andrò solo una volta ogni tre mesi, tanto più che ad Ascona si è abituati a strane appari-zioni. (Caffè e ristoranti non entrano nemmeno in considerazione). Quanto ai capi d’abbigliamento, userò fino all’ultimo quanto possiedo. Basteranno per l’inverno. La sola cosa che mi rimane da limitare: l’uso di carta da musica – ho già iniziato in estate, scrivendo gli schizzi a matita e cancellandoli dopo la copiatura in modo da poter riutilizzare più volte lo stesso foglio... Ma per le belle copie in più esemplari devo comperare la carta, o sospendere la mia produzione. Per la corrispondenza uso solo cartoline: è doloroso ma devo limitarmi.[...] Non mangio più carne – ogni tanto degli insaccati; cioccolato, ecc. sono da tempo puro lusso: gli 80.- Fr. che riceverò a partire dall’1.1.41 sono destinati uni-camente all’economia domestica.[...] La somma depositata sul libretto di risparmio deve rimanere intatta sia per il controllo, sia per gli estremi casi di necessità – medico, malattia, ecc.[...] Mi vergogno di uscire perché niente è più ridicolo di un uomo che non può pagare. Questa mancanza di denaro è la cosa che più mi spinge a pensare a gua-dagni accessori [...] per esempio scrivere indirizzi? O qualsiasi lavoro di scrivano?[...] Ho pensato anche alla banda municipale di Locarno o di Ascona e spero di poter combinare qualcosa.65

Presenze artistiche e culturali dal nord

65 «Auf Ihren Rat, noch bescheidener zu leben, revidierte ich meine Ausgaben: seit dem Früh-jahr habe ich keine gegenständlichen Anschaffungen gemacht, mit Ausnahme von Notenpapier, Bleistift, Tinte... Das Rauchen habe ich seit den letzten Wochen aufgegeben. Die früher so zahl-reiche Korrespondenz ist bis auf die Briefe an Sie und seltener an Anni – eingestellt. Zum Coiffeur werde ich nun statt einmal monatlich – jeden 3 Monat gehen müssen, da man in Ascona an spassig aussehende Erscheinungen gewohnt ist. (Café und Restaurant sind sowieso nicht in Frage gestellt worden...) An Kleidungstücken werde ich halt so allmählich alles auftragen, was da ist. Das reicht für den Winter. In Ganzen also bleiben nur noch einzuschränken: der Notenpapierverbrauch – dies tat ich schon in Sommer, indem ich die Skizzen mit Blei schrieb und nach Copierung ausradierte und weiter auf demselben Bogen Papier schrieb... Aber für die Reinschriften in mehreren Exemp-laren muss ich Papier kaufen oder meine Produktion einstellen. Korrespondenz werde ich nun nur auf Karten und selten führen; das ist sehr schmerzvoll, aber man muss sich eben bescheiden. [...] Ich esse jetzt kein Fleisch mehr – ab und zu Wursterzeugnisse; Schokolade etc. sind schon lange purer Luxus; die 80.- Fr., die ich ab 1.1.41 bekommen werde, sind ganz für die Wirtschaft vorgesehen. [...] Die auf dem Sparkonto liegende Summe soll unangetastet bleiben für die Kontrolle und für den aller letzten Fall der Dringlichkeit – Arzt, Krankheit, u.s.w. [...] Ich schäme mich auszugehen, denn nichts ist lächerlicher als ein Mann, der nicht zahlen kann. Diese Geldlosigkeit ist es, die mich am stärksten zum Nebenverdienst stösst [...] z. B. Adressenschreiben? Oder sonstige Schreibarbeit? [...] An die Banda Municipale von Locarno oder Ascona dachte ich auch und so hoffe ich, da etwas zu beginnen» (lettera a Marguerite Hagenbach del 24 ottobre 1940); «Qui a Comologno posso al massimo aiutare a portare il fieno. A falciare non ho ancora imparato; e con mucche e capre non so proprio da che parte cominciare! Eppure vorrei potermi rendere utile anche a Comologno, dal momento che godo del diritto di ospitalità in questo comune!» («Hier in Comologno kann ich höchstens Heu schleppen helfen. Mähen muss ich noch lernen. Und mit Kühen und Ziegen weiss ich überhaupt noch keinen Umgang! Aber sogar in Comologno möchte ich mich nutzbar machen. Wenn ich schon das Gastrecht der Gemeinde geniesse!», lettera a Marguerite Hagenbach, non da-tata ma prima del 1940).

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Quanto doveva costargli tale condizione, al di là della contingente ristrettezza dei mezzi, è rivelato dal suo modo di vita testimoniato da Hans Heinz Stuckenschmidt riguardo agli anni berlinesi quando osservò: «Egli indossava sempre abiti distinti e fatti su misura, belle cravatte, camice fini, ecc., cioè era un uomo dei salotti, ma allo stesso tempo era un uomo della rivoluzione. Tale paradosso si presentava spesso allora nelle cerchie intellettuali tedesche».66 Fu quella comunque una rara occasione di in-contro tra due realtà artistiche diverse e lontane, quasi incompatibili,67 ma di valore certamente simbolico nella difficile condizione esistenziale di un musicista che nel nostro paese avrebbe trovato una seconda patria.

Carlo Piccardi

66 «Er hatte immer ausgezeichnet geschnitte Anzüge und gute Krawatten und Hemden usw., also er war ein Mann des Salons, gleichzeitig aber ein Mann der Revolution. Dieses Paradox gab es damals in deutschen intellektuellen Kreisen öfters» (intervista rilasciata nel documentario realizzato dallo scrivente nel 1988 per la Televisione della Svizzera italiana, dal titolo Wladimir Vogel. Itinerario di un compositore europeo). Di tale definizione il compositore era consapevole come rivela un’altra lettera a Marguerite Hagenbach dell’11 dicembre 1940 riferita al giovane musicologo basilese Harry Goldschmidt, il quale si era rivolto a lui con l’epiteto “Mein lieber Grossfürst Wladimir”: «Ora, nella rappresentazione di H.G. – forse del tutto inconscia – sono stato perfino associato a un granduca! Un paragone pietoso se riferito alla realtà! Quasi offensivo, eppure probabilmente in qualche modo veritiero!» («Jetzt bin ich sogar in der Vorstellung – wahrscheinlich ganz unbewusst – von H.G. mit einem Grossfürsten associirt worden! Ein jämmerlichen Vergleich angesichts der Realität! Beinahe – beleidigend, und doch wahrscheinlich irgendwo wahr!»). A completare il profilo della sua personalità in questo senso è rivelante la testimonianza di Elias Canetti di fronte al suo atteggiamento piuttosto sussiegoso. Durante il suo soggiorno alla Barca lo scrittore, stimolato dalla presenza di Vogel già piut-tosto noto per le sue originali composizioni vocali, maturò l’idea di una collaborazione in funzione di un lavoro di teatro musicale. Stranamente il musicista non raccolse l’opportunità creativa che gli veniva offerta. Pur nella situazione precaria in cui si trovava non ebbe di meglio che manifestare un incitamento all’interlocutore del tutto formale, destinato ad essere infruttuoso: «A Comologno, lassù nella meravigliosa cornice della Val Onsernone coperta di ghiaccio, feci per alcune settimane il tenta-tivo di collaborare con Wladimir Vogel a una nuova opera lirica. Forse era stato assurdo intraprendere un simile tentativo, poiché proprio non mi andava di sottostare a un compositore, di adattarmi alle sue esigenze. Mi ero immaginato che si trattasse, come diceva Vogel, di un’opera di nuovo genere, nella quale compositore e poeta avessero uguali diritti. Ma si vide che quella parità non era assolutamente possibile: io leggevo a Vogel ciò che avevo scritto, lui ascoltava con tranquillo distacco, ma poi mi sen-tivo umiliato dal sussiego con cui esprimeva la sua approvazione, annuendo col capo e pronunciando una sola parola: “Bene”, con annesso incoraggiamento: “Vada avanti così!”. Se avessimo litigato, per me sarebbe stato tutto più facile. La sua approvazione e più ancora il suo incoraggiamento mi fecero passare la voglia di continuare» (Canetti, Il gioco degli occhi, pp. 202-203).

67 «Ho accettato un incarico non ufficiale e non retribuito per Radio Monteceneri ed ho comin-ciato a musicare versi del premiato F. Chiesa. In parte un terribile kitsch che riesce ancora sopportabile grazie alla bellezza della lingua» («Ich hatte einen unbezahlten und nicht offiziellen Auftrag für das Radio Monteceneri entgegengenommen und angefangen Vertonung von Versen des Preisträgers F. Chiesa. An sich ein zum Teil furchtbarer Kitsch, der wegen der schönen Sprache noch ertragbar wird», lettera a Marguerite Hagenbach del 30 gennaio 1941); «Mi sono divertito a musicare questi versi innocui con la tecnica di composizione dodecafonica e ho trattato questa volta la voce di basso-solo piuttosto in stile “parlando”, che mi permette maggiore possibilità di espressione [...]. Il carattere fortemente contemplativo delle poesie non è stato interpretato in modo “arioso” ma piuttosto in senso “recitativo”, ciò che richiederà al cantante grandi doti interpretative. Spero che il cantante lu-ganese riesca a svolgere pienamente questo non semplice compito [...]. Ovviamente questo incarico di composizione non ufficiale non è pagato! È piuttosto un onore» («Ich machte mir den Spass auch diese schön armlose Verse in der 12 Ton Kompositionsart zu schreiben und behandelte diesmal die Solo-Bassstimme in mehr parlando-Stil der mir mehr individuellere Vortragsmöglichkeiten bot Der stark contemplative Charakter der Gedichte verlangt vom Sänger grössere Darbietungskunst. Hof-fentlich gelingt es dem Lugano-Sänger diese nicht ganz einfache Aufgabe “erfüllt” und nicht “leer” zu meistern [...] Selbstverständlich ist dieser nicht offizielle Kompositionsauftrag nicht bezhalt! Es ist ja eine Ehre Vielmehr», lettera a Marguerite Hagenbach del 12 febbraio 1941).

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Non per niente nello stesso programma figuravano tre frammenti della prima parte del suo oratorio Thyl Claes nella versione per canto e pianoforte affidati al con-tralto Margherita De Landi e nella traduzione di Augusto Ugo Tarabori,68 sicuramente la prima segnalata in lingua italiana.69 La prima esecuzione della prima parte di questo importante lavoro tratto dal poema di Charles de Coster (1827-79), riferito alla re-pressione dei protestanti della Fiandra da parte del potere spagnolo nel Cinquecento rivissuta come metafora dell’oppressione nazifascista (diventato quindi rappresentativo della situazione storico-politica di quegli anni), sarebbe avvenuta il 19 maggio 1943 a Radio Sottens di Ginevra sotto la direzione di Ernest Ansermet. Di Vogel Radio Mon-teceneri assicurò anche l’esecuzione del quintetto a fiati Ticinella 70 e dei Madrigaux su testo di Aline Valangin per coro a cappella, la sua prima composizione integralmente dodecafonica che Edwin Loehrer avrebbe diretto più volte regolarmente col rispettivo coro radiofonico a partire dal 1943.71

In quegli anni il compositore russo-tedesco, anche a causa del suo orienta-mento politico, poteva contare su pochi appoggi in Svizzera. Fra i più importanti va menzionata l’ospitalità che gli fu riservata dal pubblicista bernese Hermann Gattiker, creatore nel 1940 delle Gattiker-Hausabende für zeitgenössische Musik, che svolsero un’importante funzione nella diffusione nel nostro paese delle espressioni musicali più avanzate. Il 19 ottobre 1942 di Vogel furono eseguite in quel contesto alcune composizioni, fra cui le Tre liriche sopra poemi di Francesco Chiesa e tre brani dal Thyl Claes per soprano e pianoforte. È interessante notare che il giorno prima Vogel tenne una conferenza introduttiva a tale concerto, non menzionata però nell’invito sicura-mente per non dare nell’occhio alla polizia degli stranieri che l’avrebbero impedita stante il divieto al compositore di svolgere attività lavorativa nel nostro paese.72 D’al-tra parte precedentemente, nel maggio 1942, Gattiker aveva invitato Vogel a tenere nella Junkergasse 15 una conferenza sulla dodecafonia, anche questa non annunciata ufficialmente per lo stesso motivo. In quel caso il compositore parlò di Schönberg e delle proprie 10 Variétudes sur une série de 12-tons non transposée. Il fatto che tale ar-gomento venisse trattato in questa forma, per il motivo indicato quasi nella clandesti-nità, veniva in un certo senso ad accentuare la dimensione criptica in cui si collocava tale problematica scelta stilistica, come anni dopo avrebbe testimoniato Ernst Kre-nek, considerando il confinamento di tale metodo di composizione in quegli anni:

Presenze artistiche e culturali dal nord

68 «Egregio Signor Vogel, ho ricevuto la Sua del 23 e il brano musicale annesso soltanto ieri mattina, perché sabato e domenica sono stato assente. Le mando ora la versione del testo, che spero vada bene. Una sola volta non sono riuscito a restare nello stesso numero di sillabe, proprio nella prima battuta: “Thyl fils de Claes”... Bisognerà che Lei veda di aggiungere una nota» (lettera di Tarabori del 26 novembre 1940).

69 «Radioprogramma», 14 marzo 1941. Tale oratorio sarebbe stato pubblicato a Milano dalle edizioni Ricordi, così come altri lavori di Vogel che nel dopoguerra avrebbero goduto dell’attenzione della critica italiana: Wagadu, Alla memoria di Giovanni Battista Pergolesi, Meditazione su una maschera di Modigliani, ecc.

70 «Radioprogramma», 13 dicembre 1943.71 «Radioprogramma», 12 ottobre 1943; 20 ottobre 1944; 15 aprile 1945; 29 marzo 1946. Si

veda Carlo Piccardi, Wladimir Vogel. Aspetti di un’identità in divenire, in Komponisten des 20. Jahrhun-derts in der Paul Sacher Stiftung, a cura di H. J. Jans, Basel, Paul Sacher Stiftung, 1986, pp. 204-205.

72 Doris Lanz, Neue Musik in alten Mauern. Die “Gattiker-Hausabende für zeitgenössische Musik” – Eine Berner Konzertgeschichte 1940-1967, Bern, Peter Lang (“Berner Veröffentlichungen zur Musikforschung”, 1), 2006, pp. 115-117 e 216-218.

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«Tanto maggiore la sorpresa del mondo musicale quando, dopo l’interruzione dei rapporti internazionali creata dalla guerra, si scoprì che un numero sorprendente di compositori di molti paesi aveva approfittato di quel periodo di orrenda stagione di bombardamenti, di fame e di terrore per tornare silenziosamente e di nascosto a quel metodo di composizione tanto disprezzato».73 Qualche mese dopo Vogel propose al padrone di casa bernese un altro concerto «pour célébrer le Tessin», per cui il 7 mag-gio 1943 in quel contesto fu presentata la sua Ticinella.

Tornando al rapporto con la radio, va considerato come nella condizione vis-suta dal compositore essa fosse diventata lo strumento in grado di assicurargli l’irra-diamento oltre i confini, importantissimo nel caso di Vogel relegato in fondo a una valle, dimostrato dall’intensa corrispondenza a quel tempo intrattenuta a distanza con Luigi Dallapiccola a Firenze, pure in quegli anni (e non a caso) impegnato nella svolta dodecafonica e nella necessità di rinsaldare un legame quasi di complicità tra i pochi che coltivavano nella solitudine una scelta linguistica che aggravava a livello comunicativo la condizione già problematica dell’isolamento geografico:

Mon très cher ami Vogel,

merci pour votre charmante lettre du 12 courant et pour vos explications relatives au concerto du 10.5 à Radio Monte-Ceneri. J’attends donc un signe de vous pour me remettre à l’écoute: je suis très “gespannt” à l’idéé d’entendre vos Madrigaux [...]. Je lis avec plaisir que vous avez pu entendre ma petite causerie à Radio-Turin; une causerie chez nous nécessaire aujourd’hui [...].J’ai lu le notre «Radiocorriere» avec la plus grande attention; mais son résumé des postes étrangères est bien réduit: Aucune poste française annonçait le 19 cour. votre Thyl Claes et d’ici ce n’est pas possible entendre Bruxelles. J’ai infiniment regretté (et ma femme avec moi) de n’avoir pas pu connaître votre ouvrage.75

Carlo Piccardi

73 Ernst Krenek, Decadenza della Dodecafonia?, «Il Diapason», vi, 3 (maggio 1956), p. 12 (ri-preso da «The Musical Quarterly», ottobre 1953). A testimoniare il clima ostile alla dodecafonia anche dopo la guerra varrà la lettera di Dallapiccola a Vogel datata 23 novembre 1948 (da Glasgow-London) in merito al progettato congresso milanese: «Déjà à Rome j’ai parlé avec Mr. Clark [Edward Clark, direttore d’orchestra e produttore della BBC]. Il m’a prié de vous dire qu’il ne serait pas tout-à-fait d’ac-cord avec notre congrès ‘douze-tons’ dans le cadre du Festival [della Società internazionale di musica contemporanea previsto a Palermo]. D’abord parce que la semaine est littéralement bondée de choses; ensuite pour une raison “politique”: c’est-à-dire parce que (comme il y a partout des sinistres imbécils qui soutiennent que la I.S.C.M [acronimo inglese della SIMC] est la franc-maçonnerie de la musique de douze-tons) à son avis notre congrès, au lieu d’aider la Société pourrait lui être très nuisible. En Italie, à présent, Previtali, Petrassi, Ghedini etc. sont très enragés contre le système et il faut faire atten-tion. Comme vous, moi, Schoenberg p. ex. à Venise ont eu du succès ils sont assez préoccupés pour leur musique» (Fondo Wladimir Vogel presso la Zentralbibliothek di Zurigo). L’attivismo di Vogel nel promuovere la dodecafonia in Svizzera fu instancabile. Nel gennaio del 1943 si rivolse a Erich Schmid, che era stato allievo di Schönberg a Berlino e il quale al rientro in Svizzera con fatica tentava di farsi riconoscere negli ambienti ufficiali, per proporgli di tenere a Comologno un corso di due settimane sulla tecnica dodecafonica integrato da esecuzioni pianistiche. Il progetto tuttavia rimase tale (Thomas Gartmann, «Weitergehen, den Weg, den man vorgezeigt bekommt...». Erich Schmid und die kulturpoliti-sche Situation in der Schweiz 1933-1960, «Musik-Konzepte», 117-118 (Arnold Schönbergs “Berliner Schule”), a cura di H.-K. Metzger e Rainer Riehn, München, Edition Text + Kritik, 2002, p. 31).

74 Ivi, pp. 118 e 218. La composizione reca la dedica «À Madame Dorothée Spoerry pour célébrer le Tessin», figlia dell’industriale sangallese Max Spoerry che a quell’epoca sosteneva econo-micamente il compositore (Oesch, Wladimir Vogel, p. 81).

75 Lettera di Dallapiccola a Vogel datata Firenze 21 maggio 1946, riportata in Carlo Piccardi, L’eterogeneità allo specchio. La musica nel laboratorio della radiofonia, «Musica/Realtà», iv, 40 (aprile

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(22) Wladimir Vogel e Luigi Dallapiccola con le relative consorti in occasione dell’esecuzione dei Sei frammenti da “Thyl Claes” al Festival internazionale di musica contemporanea nel 1948 (Fondo Dallapiccola presso l’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti”, Gabinetto Scientifico Letterario Alessandro Vieusseux di Firenze); (23-24) Wladimir Vogel, Ticinella, Milano, Edizioni Suvini Zerboni, 1947, pp. 30-31.

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(25) Una seduta della Conferenza di Orselina (Hôtel Victoria, 12-13 dicembre 1948) prepa-ratoria del Primo Congresso internazionale per la musica dodecafonica di Milano. Da sinistra a destra H. J. Koellreutter, Erich Schmid, Karl Amadeus Hartmann, Alfred Keller, Hermann Meier (dietro), Wladimir Vogel (presidente), Riccardo Malipiero, Luigi Dallapiccola, André Souris, Rolf Liebermann, Serge Nigg (davanti di schiena); (26) Luigi Rognoni ai microfoni della Radio svizzera, 1938 (asl, Fondo Vincenzo Vicari); (27) Hermann Scherchen sul podio dell’Orchestra della rsi, 1938 (asl, Fondo Vincenzo Vicari).

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Quanto alla condizione di isolamento è significativa anche la testimonianza dello stesso Dallapiccola nella lettera a Vogel del 19 novembre 1945:

Avant hier j’ai reçu votre aimable lettre du 10 courant et ce matin votre carte du 12. Je vous en remercie de tout coeur et je suis heureux que enfin nous pouvons reprendre nos contacts. Car vous ne savez pas que l’isolement pour moi, je veux dire pour un homme européen, a été bien plus affreux que la guerre, que la faim, que les persécutions.76

In proposito è rivelante il parallelismo di esperienze che vide la svolta verso la dodeca-fonia nei due autori non solo negli stessi anni ma anche a fronte delle stesse motiva-zioni creative, nell’uno (Vogel) che ne maturò la scelta nella messa in musica di Thyl Claes inteso come reazione contro l’oppressione nazifascista, nell’altro (Dallapiccola nei Canti di prigionia) come risposta alle leggi razziali mussoliniane la cui adozione nel 1938 veniva a colpire la moglie Laura di origine ebraica,77 senza contare il fatto che il compositore italiano, per la successiva e altrettanto programmatica opera Il prigioniero (1943-48) avrebbe attinto alla stessa fonte letteraria di Charles de Coster (La légende d’Ulenspiegel et de Lamme Goedzak), ad implicare uno stesso significativo risvolto ideologico.78

Non per niente nella presentazione della prima esecuzione della suite da Thyl Claes all’undicesimo Festival della Biennale di Venezia nel 1948 diretta da Hermann Scherchen, Dallapiccola in questo senso tratteggiò le coordinate che univano lavori di varia provenienza orientati per il loro radicalismo linguistico allo stesso fine:

Quando si farà la storia del nostro periodo, quando più che i giudizi pronunciati talora troppo in fretta conteranno i nomi di autori e titoli di opere, quando infine, esaurite le polemiche, eliminate le ragioni di una data presa di posizione, si potrà vedere tutto

Presenze artistiche e culturali dal nord

1993), p. 73. Dal suo eremo nella Valle Onsernone Wladimir Vogel corrispondeva anche con altri musicisti, ad esempio con Béla Bartók, con il quale nei primi anni dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale condivideva la precarietà di rapporti diventati ormai avventurosamente possibili solo grazie alla radio: «Cari amici, nell’isolamento di questo luogo di montagna dove quest’anno ho passato l’inverno, fu un gran piacere per me e per la Signora Valangin ascoltare voi due su Radio Roma [si riferisce al concerto tenuto a Roma da Bartók e dalla moglie pure pianista a Radio Roma I, l’11 dicembre]. Dovevamo prima trascinarci a piedi nella neve di notte fino al prossimo villaggio, poiché non avevamo potuto installare un apparecchio ricevitore nel nostro villaggio a causa della mancanza di elettricità» (lettera del 13 dicembre 1939 riportata in Piccardi, L’eterogeneità allo specchio, p. 75). Il ruolo della radio allora come fonte di conoscenza delle novità compositive è attestato da più fonti, non solo dalla corrispondenza tra Dallapiccola e Vogel, ma anche da quella tra Dallapiccola e Mas-simo Mila (si veda Luigi Dallapiccola, Massimo Mila, Tempus aedificandi. Carteggio 1933-1975, a cura di L. Aragona, Roma, Accademia di Santa Cecilia / Ricordi, 2005).

76 Lettera conservata nel Fondo Wladimir Vogel presso la Zentralbibliohek di Zurigo.77 Mario Ruffini, Laura. La dodecafonia di Luigi Dallapiccola dietro le quinte, Firenze, Firenze

University Press, 2018, pp. 26-34, 37-41 e 59-63. Nella citata lettera del 19 novembre 1945 a Vogel, il compositore testimoniava la situazione di una famiglia costretta a rintanarsi in una Firenze infestata dalle truppe tedesche di occupazione: «Vous me demandez bien gentilment [sic] des nouvelles de mon travail: certes l’année 1944 a été presque perdue... Mon effort pendant les onze mois nazis a été concentré sur une seule pensée: me sauver et sauver ma femme. Le jour de la libération nous étions au bout de souffle et c’est avec une peine immense que j’ai pu peu à peu recommencer mon travail». Concludendo: «Dans ma lettre précédente je vous ai communiqué la nouvelle de la naissance de notre petite Annalibera. Vous comprenez d’après son nom qu’elle est née après le départ des nazis».

78 Piccardi, Wladimir Vogel. Aspetti di un’identità in divenire, pp. 200-203.

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il nostro tempo nella sua giusta prospettiva, crediamo che, oltre al resto, di un fatto il futuro storico dovrà tenere conto. Che, cioè, i totalitarismi, nonostante gli incoraggia-menti e le minacce, non riuscirono a tirar dalla loro un solo musicista di primo piano e che, viceversa, l’opposizione trasse ispirazione appunto dalle sofferenze che i dittatori causavano agli uomini, creando una musica che già ora dispone di una definizione precisa: protest music. E allora non si potranno dimenticare opere come Sur la mort d’un tyran di Darius Milhaud (1936), A Child of our Time di Michael Tippet (1941), Thyl Claes di Wladimir Vogel (1937-45), o come la novissima cantata di Schönberg A Survivor from Warsaw (1947). Anche la nostra epoca ha avuto ed ha musicisti che san-no vibrare all’unisono con gli uomini, e in prima linea tra questi sta Wladimir Vogel il quale durante otto anni, dal 1937 al 1945, dedicò la massima parte della sua attività alla composizione del Thyl Claes, grande oratorio epico diviso in due parti (L’Oppres-sione; La Liberazione), il cui testo è tratto dal capolavoro della letteratura fiamminga, dalla Légende de Thyl Eulenspiegel et de Lamme Goedzak di Charles de Coster.79

In merito alla portata politica del Sopravvissuto di Varsavia (e implicitamente dell’im-pianto dodecafonico che vi sta alla base) in un compositore dichiaratamente alieno dall’allinearsi con realtà di tendenza e di partito, le ragioni di fondo sono state al me-glio chiarite da Frank Schneider, come estrema conseguenza del rigorismo etico del compositore nel registrare «il conflitto tra un ideale individuale e messianico di arte e di vita e il catastrofico fallimento della realtà sociale e politica»:

Di qui prese il via – in un processo conoscitivo estremamente sofferto – l’idea della necessità estetica di un’arte che (secondo le sue parole) non dovesse più abbellire ma essere vera senza riguardi, “vera” o meglio “verosimile” tanto nel dar forma alle contraddizioni del mondo, quanto nello sviluppare e rinnovare profondamente le tradizioni specificamente musicali. Così in tutte le sue opere l’elemento politico si condensò, quasi inavvertitamente, nell’elemento musicale, come politica della dissonanza positiva contrapposta alla fatale decadenza del mondo tardo borghese, celata con ogni mezzo e mascherata dall’arte intesa come bella apparenza.80

Tale congiuntura era maturata nello stesso periodo in cui Hanns Eisler, capofila dell’a-la radicale dell’Arbeitermusikbewegung81 propugnante una musica funzionale su base

Carlo Piccardi

79 Cit. in Romand Vlad, Storia della dodecafonia, Milano, Suvini Zerboni, 1958, p. 154.80 Frank Schneider, «Chi parla di vincere? Sopravvivere è tutto». Alcune osservazioni sull’impegno

antifascista della scuola di Vienna, «Musica/Realtà», vi, 18 (dicembre 1985), pp. 44-45.81 Vogel stesso negli anni berlinesi militò nella “Kampfgemeinschaft der Arbeitersänger” ac-

canto ad Hanns Eisler, Stefan Wolpe, Ernst Hermann Meyer, Karl Rankl, Manfred Bukhofzer, Karl Vollmer, Manfred Ruck, contribuendo con composizioni funzionali all’agitazione politica di estre-ma sinistra. Si trattò di un capitolo da lui rimosso al suo arrivo in Svizzera, sicuramente a causa della provvisorietà della sua condizione esistenziale e del maturare dei suoi dubbi di fronte all’evoluzione dello stalinismo, tanto da condizionare la biografia che gli fu dedicata da Hans Oesch nel 1967 in cui di tale esperienza non si fa cenno alcuno. Tra l’altro durante l’intervista che mi concesse in oc-casione dei suoi settant’anni, alla domanda sul suo coinvolgimento nell’“Arbeitermusikbewegung” (che gli posi in quanto poco tempo prima venni in possesso di un disco proveniente dalla ddr in cui figurava il suo Der heimliche Aufmarsch gegen die Sowjetunion), egli negò formalmente di avere avuto a che fare con tale movimento. Se non ne potei parlare nell’articolo che ne sortì (pubblicato col titolo Profilo di Wladimir Vogel – omaggio al settantenne, nel settimanale «Cooperazione», 26 febbraio 1966, p. 13), lo potei fare nel 1988 nel documentario citato (v. nota 66). In proposito si vedano Thomas Phleps, «Ich war aber nie Parteimitglied». Zum kompositorischen Schaffen Wladimir Vogels um 1930, «Beiträge zur Musikwissenschaft», 33, 1991, pp. 207-224, nonché Piccardi, Wla-dimir Vogel, la cifra politica berlinese oltre l’insegnamento di Busoni, pp. 69-94).

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tonale ma pur sempre allievo di Schönberg, cercava di integrare proprio in quegli anni il principio dodecafonico (in quanto progressivo) alla dimensione della militan-za antifascista. Tale fu il compito dell’Internationales Musikbüro costituito nel 1932 a Mosca, di cui egli era diventato presidente nel 1935 con la funzione di coordinare le attività internazionali del movimento musicale dei lavoratori, programmato nel 1937 in un documento che Eisler firmò insieme con Ernst Bloch (Avantgarde-Kunst und Volksfront) con riferimento all’equazione: «Il fronte popolare ha bisogno dell’artista progressivo, l’artista progressivo ha bisogno del fronte popolare».82 Orbene alla stessa connotazione antifascista che attraverso il metodo dei dodici suoni percorre le opere di Eisler di quel periodo (in primis la sua Deutsche Symphonie, iniziata nel 1936) è possibile ricondurre la conformazione dell’ultimo tempo del Violinkonzert (1937) di Vogel, ugualmente orientato a un’applicazione dimostrativa della dodecafonia adattata nella semplificazione a un grado di comprensibilità mirante a un pubblico allargato (attraverso una disposizione lineare della serie e il suo inquadramento in un impianto armonico relativamente consonante).83 Era il risultato di un ribaltamento di situazioni: se gli anni Venti avevano visto le forme oggettivistiche prevalere nella loro capacità di radicarsi nella società, ora, a fronte della rottura del patto sociale da parte dei regimi conservatori e totalitari che a quelle espressioni negavano l’accesso all’istituzione, la funzione di testimonianza viva della coscienza avanzata passava alla manifestazione più radicale, la meno compromessa e la meno condizionata dalle re-lazioni date. Con ciò la dodecafonia venne in un certo senso a profilarsi come lingua franca degli emigrati, come espressione dell’emarginazione, di coloro che si trovano a vivere in una realtà sospesa e che di conseguenza erano portati ad attingere alle esperienze dei predecessori (quali gli esponenti della Scuola di Vienna) che all’origine si erano atteggiati e rinforzati come alternativi alle certezze delle relazioni imposte.84 Non è un caso che una composizione cruciale quale le Tre Laudi di Dallapiccola sia stata compiuta tra il 1936 e il 1937, terminata qualche mese prima del 9 giugno quando, a Bagnoles-de-l’Orne, da emissari del regime sarebbero stati assassinati Carlo e Nello Rosselli, dei quali da ragazzi (invitato dalla loro madre Amelia) a Firenze era stato insegnante privato di musica. A ciò Mario Ruffini ascrive «il nocciolo di una inevitabile abiura del mondo fascista» da parte del compositore e della moglie ebrea:

Le Tre Laudi – una delle più belle preghiere del Novecento musicale – sono il primo tassello di un ravvedimento che porterà il compositore e insieme l’uomo, congiuntamente a Laura, a un antifascismo radicale: la libertà, supportata dalla

Presenze artistiche e culturali dal nord

82 Albrecht Dümling, Zwölftonmusik als antifaschistisches Potential. Eislers Ideen zu einer neuen Verwendung der Dodekaphonie, in Die Wiener Schule und das Hakenkreuz. Das Schicksal der Moderne im gesellschaftspolitischen Kontext des 20. Jahrhunderts, a cura di Otto Kolleritsch, Wien / Graz, (“Studien zur Wertungsforschung”, 22), 1990, pp. 99-104.

83 In proposito si vedano i capitoli Zwölftontechnik: eine politische Notwendigkeit e «Finale (in modo di Mozart)»: ein ästhetisches Programm mit politischer Färbung, in Doris Lanz, Zwölftonmusik mit doppeltem Boden. Exilerfahrung und politische Utopie in Wladimir Vogels Instrumentalwerken, Kassel / Basel / London / New York / Praha, Bärenreiter, 2009, pp. 65-85.

84 Piccardi, Tra ragioni umane e ragioni estetiche, p. 214. In verità tale problematica fu da me anticipata già nel dossier I pionieri della dodecafonia, nel 40.esimo anniversario della Conferenza di Orselina (12-13 dicembre 1948) e del Congresso di Milano (4-7 maggio 1949), Locarno, Biblioteca Cantonale, 1989, p. 2.

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preghiera, diventa d’ora in poi il centro di ogni suo pensiero, musicale e non. La dodecafonia sarà da questo momento il manifesto imprescindibile dell’antifasci-smo di Luigi Dallapiccola.85

Nel caso di Vogel, proveniente da esperienze di impegno nel fronte sociale, ciò avveniva cercando di non perdere di vista il pubblico destinatario: «C’est une démonstration de l’application du système d’une manière consonante, ou la plus proche d’une conso-nance proprement dite, donc avec des représentations valables pour encore un grand nombre de gens».86 Si trattò di un principio che il compositore lasciò in eredità ai suoi allievi, in primis a Jacques Wildberger, il quale dichiarò di essersi rivolto a lui avendo avuto la sensazione «che laggiù ad Ascona, quasi sotto forma di una congiura, si aprisse una strada verso un mondo nuovo, di cui avevo solo una vaga intuizione, ma che mi appariva come un paesaggio dalle grandi e sconosciute possibilità».87 Da parte sua Vo-gel, nella testimonianza dell’allievo, ha sempre affermato la propria differenza rispetto ai viennesi come un «passo in direzione dell’“umanizzazione” e della “socializzazione” di una musica concepita da Schönberg in modo intellettualmente astratto».88

Quanto a Ticinella – per flauto, oboe, clarinetto, sassofono contralto e fagotto – nella scelta di svolgere singole elaborazioni di canti spontanei della regione (Quel gra-nellin di riso, Girometa de la montagna, Il cucù, Addio alla caserma) essa è rivelatrice del contesto in cui Vogel si trovò a concepirla, quale tentativo di arrivare a una sintesi tra scrittura avanzata e matrice popolare riflettente il confronto tra l’origine metropolitana del compositore e la realtà addirittura di valle in cui l’esilio l’aveva confinato. Composta nel 1941 ad Ascona su alcuni motivi popolari ticinesi, Ticinella è forse la sua composi-zione più emblematica della difficoltà di manifestare apertamente la propria professione

Carlo Piccardi

85 Mario Ruffini, Luigi Dallapiccola e le Arti figurative, Venezia, Marsilio, 2016, p. 53. Alla no-tizia del crollo del potere e dell’arresto di Mussolini il 25 luglio 1943, giunta al maestro via telefono (pare da Igor Markevitch), nel suo diario, sotto «Nunc est bibendum» annotava: «Stratosfera. Per rimetterci dall’emozione si volle ricorrere a una bottiglietta di acquavite che avevo portato da Trento molti mesi or sono e che mai si era potuta bere perché troppo forte. Laura e [Pietro] Scarpini, aste-mi, ne bevvero due bicchierini; io non so quanti» (Luciano Alberti, La giovinezza sommersa di un compositore, Luigi Dallapiccola, Firenze, Olschki, 2013, p. 463). La mattina del giorno successivo «Dallapiccola con due colleghi del conservatorio (incontrati lì, evidentemente: e parimenti eccitati dalla storica novità), cioè con Adelmo Damerini e Paolo Fragapane rovescia il busto bronzeo (o simil-bronzo) del Duce, che dominava la grande scala che, dall’atrio porta alla balconata della sala da concerto (l’allora “Sala del Buonumore”)» (ivi, p. 464).

86 Lettera a Dallapiccola da Comologno del 23 dicembre 1939 (Piccardi, Wladimir Vogel. Aspetti di un’identità in divenire, p. 203).

87 Citato da Patrick Müller, Fra neoclassicismo e avanguardia: la didattica della composizione in Svizzera dopo il 1945, in «Entre Denges et Denezy..». Documenti sulla storia della musica in Svizzera 1900-2000, a cura di Ulrich Mosch, Basilea / Lucca, Paul Sacher Stiftung / LIM editrice, 2001, p. 249. In merito al Quartetto per flauto, clarinetto, violino e violoncello (1952) ecco le considerazioni del critico: «[...] la serie di Wildberger non può dirsi tonale ma neanche cromatica: è piuttosto percorsa da cellule diatoniche in cui prevalgono intervalli come le seconde maggiori, terze o quarte (in ciò manifestando analogie con la serie alla base delle Variétudes di Vogel). E questi intervalli vengono usati di preferenza anche negli accordi derivati [...] i gradi di dissonanza e di consonanza – questi ultimi i preferiti – danno quindi luogo a un percorso di tensione armonica che articola questa prima sezione della composizione [...]. Il carattere morbido, non funzionalmente tonale ma neanche inasprito dalla dissonanza, manifesta una netta somiglianza con la personale elaborazione della tecnica dodecafonica da parte di Vogel» (ivi, pp. 251-253).

88 Ivi, pp. 252-253.

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di fede politica. Concepito come omaggio al paese di accoglienza, tale quintetto lascia decifrare in trasparenza, in una forma di crittogramma musicale, temi delle compo-sizioni che segnarono la sua affermazione in Germania. Attraverso l’allegrotto canto militare degli svagati soldati ticinesi (Addio alla caserma), si profila il fosco presagio della sua Ritmica ostinata, che Hermann Scherchen aveva presentato nel 1932 in una versio-ne monumentale per soli fiati con la Berliner Posaunisten-Vereinigung (Sturmmarsch) ricordata per la subitanea acquisizione di una connotazione antifascista nella contrap-posizione alle camicie brune, che già marciavano al canto dei loro inni guerreschi per le strade della capitale tedesca.89

Alcuni anni dopo alla rsi di Vogel sarebbe inoltre stata eseguita (quasi sicu-ramente in prima esecuzione) la composizione In memoriam (di Marguerite Vua-taz-Birmelé) per contralto, viola, timpani e arpa,90 mentre la sua attenzione per la vita culturale della regione è testimoniata dal progetto di ricavare dal romanzo di Felice Filippini Signore dei poveri morti (Premio Lugano 1942) un «meloromanzo in 3 atti e un prologo» (probabilmente un “dramma-oratorio” secondo il modello di altri suoi lavori, come Thyl Claes, Flucht, Gli Spaziali, ecc.), intitolato Battista Ombra scalpelli-no.91 D’altra parte il compositore, in occasione della Festa dei musicisti svizzeri tenuta a Locarno tra il 31 maggio e il 2 giugno 1941, non aveva mancato di avvicinare Edwin Loehrer, maestro del coro della rsi già assurto a punto di riferimento per l’interpre-tazione dei madrigalisti italiani del Rinascimento, affidandogli i suoi Madrigaux su testo di Aline Valangin entrati poi nel repertorio del complesso nella versione italiana curata da Alberto Lùcia voluta dall’autore ad affermare in quel momento l’intenzione di collocarsi in area subalpina. A quel punto maturò l’orientamento verso l’Italia che nel dopoguerra si dimostrò il paese con istituzioni e pubblico più interessati alla sua musica, come rivelarono la presentazione della suite dal suo Thyl Claes all’undicesimo Festival internazionale di musica contemporanea della Biennale di Venezia nel 1948 e l’intero oratorio al dodicesimo Maggio musicale fiorentino nel 1949, l’accoglimento delle sue composizioni da parte degli editori milanesi Ricordi e Suvini Zerboni, non-ché il titolo di Accademico di Santa Cecilia conferitogli a Roma nel 1954.92

Presenze artistiche e culturali dal nord

89 Friedrich Geiger, Ticinella. Wladimir Vogel im Schweizer Exil, in Musik im Exil. Die Schweiz und das Ausland 1918-1945, a cura di C. Walton e A. Baldassarre, Bern, Peter Lang, 2005, pp. 59-72.

90 «Radioprogramma», 28 agosto 1945.91 Tale “trasposizione scenica” non prese mai corpo, ma il libretto dattiloscritto in versione

tedesca e francese (con la collaborazione di Aline Valangin) è conservato nel Fondo Wladimir Vogel depositato nella Zentralbibliothek di Zurigo sotto la segnatura Mus NL 116: Ca 38. Con Felice Filippini la collaborazione si concretizzò anni dopo, quando su suo libretto e su incarico della rsi compose Meditazione su una maschera di Amedeo Modigliani eseguita il 31 marzo 1962 all’inaugu-razione del nuovo studio radiofonico di Besso (Oesch, Wladimir Vogel, pp. 122-126). Va inoltre ricordato che nel numero 105 (1954) della rivista «Svizzera italiana» (pp. 16-22), fondata da Guido Calgari ma allora diretta da Piero Bianconi, Vogel pubblicò Della musica dodecafonica, articolo ricavato dall’introduzione al corso tenuto a Zurigo nel 1950 su quel metodo di composizione.

92 Piccardi, Wladimir Vogel. Aspetti di un’identità in divenire, pp. 204-205. Oltre ad aver avan-zato nel 1943 a Elio Vittorini tramite Dallapiccola la richiesta di un libretto per una composizione drammatica, negli anni asconesi Vogel svolse un ruolo protagonistico nel coltivare le relazioni con l’Italia, come dimostra una lettera di Camillo Togni del 18 maggio 1956: «Caro Maestro e gentile Signora, sono molto grato per la loro gentile lettera e per l’invito a partecipare alla cena d’onore per gli amici Dallapiccola che – con squisito pensiero – Loro hanno proposto di combinare a Milano, alla fine di Giugno. È inutile dire che io aderisco a tale invito con tutto lo slancio che possono

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Per quanto riguarda la pratica dodecafonica è importante ricordare che negli anni prossimi alla guerra essa era ancora minoritaria in Europa. In particolare, nell’in-treccio di politica e cultura, con l’avvento dei totalitarismi fu spinta ai margini, dive-nendo in un certo senso il veicolo dell’espressione dell’esilio interno per coloro che ne subivano direttamente l’oppressione e dell’esilio reale per chi scelse la condizione di profugo. Fu quindi in Svizzera, negli anni Trenta inoltrati, che Wladimir Vogel, dopo essersi profilato nella metropoli berlinese in cui aveva detenuto un ruolo primario integrato in una situazione di modernità condivisa ed equilibrata, visse il difficile pas-saggio proprio in termini linguistici. La dodecafonia, nella sostanza sovvertitrice del codice comunicativo, gli si impose gradualmente come espressione della lacerazione esistenziale provocata dallo sradicamento. Inizialmente sperimentata nel Concerto per violino e orchestra (1937) e messa a punto nei Madrigaux (1939), finì con l’essere adot-tata organicamente durante la composizione del Thyl Claes, concepito a Comologno tra il 1937 e il 1942, l’oratorio drammatico chiaramente configurato come protesta contro l’oppressione, la cui seconda parte registra decisamente il passaggio a tale nuo-vo metodo compositivo radicale.93 Viceversa la Svizzera, risparmiata dalle catastrofi politiche ma spinta a compattare la propria società per resistere alle pressioni ester-ne, tra le due guerre era stata portata a privilegiare in musica la via espressiva della modernità moderata che si riconosceva nel neoclassicismo e nel neo-oggettivismo, orientamenti che, in quanto fondati sulla priorità del principio funzionale rispetto alla componente ideologica, erano facilmente predisposti all’integrazione (alla me-diazione) anziché alla contrapposizione. Se già per tradizione la musica nel nostro paese si era sviluppata in forme e modi espressivi strettamente connessi con la forte domanda partecipativa proveniente dal pubblico, tanto più negli anni Venti e Trenta fu indotta a consolidare il livello mediano dell’espressione attento a non rompere il delicato filo del dialogo col pubblico.94

Carlo Piccardi

suggerire la più sincera ammirazione ed una ben radicata e devota amicizia. In aggiunta ai nomi dei partecipanti, che Loro gentilmente mi hanno resi noti, mi permetto di suggerire anche i nomi di Gigi Nono e sua moglie Nuria Schoenberg ed anche quello di Enzo Paci (docente di filosofia teoretica all’Università di Pavia e direttore della rivista “Aut aut”) che – insieme a sua moglie Elena – sono certo Dallapiccola vedrebbe con piacere tra gli amici intorno a lui raccolti» (Carteggi e scritti di Camillo Togni sul Novecento internazionale, a cura di C. Gibellini, Firenze, Olschki / Archivio Camillo Togni (“Studi”, iii), 2006, p. 121). Per quanto riguarda il contributo di Vogel alla vita musicale nella Svizzera italiana è da ricordare il suo ruolo nella fondazione delle Settimane Musicali di Ascona nel 1946 e nella loro gestione (Carlo Piccardi, Accordi in progressione. Radiografia di un festival, in Stagioni di grande musica 1946-2005 (Settimane musicali di Ascona), a cura di D. Inver-nizzi, Ascona, 2005, pp. 43-44).

93 La prima esecuzione della seconda parte di Thyl Claes diretta da Ernest Ansermet avvenne a Radio Sottens il 19 febbraio 1947 a Ginevra.

94 Era un processo che durava da tempo, denunciato da un osservatore inquieto quale Carl Albert Loosli: «Da noi artisti e sapienti non sono ascoltati, sono obbligati a proporre oltre frontiera ciò che hanno cercato invano di offrire alla Svizzera. Nel nostro stato superdemocratico, l’arte deve corrispondere al sentimento popolare, ovvero avvilirsi fino al punto di rispecchiare la mediocrità intellettuale del popolo svizzero. Non deve darsi il caso che la sua tranquillità ne esca turbata da ciò che supera la sua capacità di comprensione» (Carl Albert Loosli, Ist die Schweiz regenerationsbedürf-tig?, Bümplitz, Benteli, 1912, p. 48, riportato da Orazio Martinetti, Sul ciglio del fossato. La Svizzera alla vigilia della grande guerra, Locarno, Armando Dadò, 2018, p. 189).

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Ciò spiega la ragione per cui non solo in Ticino ma anche in Svizzera passa-rono inosservati i menzionati corsi estivi organizzati da Vogel a Comologno dal 1° luglio al 15 agosto 1936 in cui fra le altre figuravano appunto le lezioni sulla «mu-sique à douze tons» tenute da Willi Reich, che si apprestava ad emigrare a Basilea e poi a Zurigo dove avrebbe rivestito un ruolo importante per la cultura del paese.95 Con ciò in una sperduta vallata ticinese per la prima volta in Svizzera una dozzina di allievi alquanto casuali si trovarono riuniti a seguire l’illustrazione di un metodo compositivo che sarebbe stato ancora per molto tempo guardato con diffidenza per la valenza radicale che (messo al bando ufficialmente dalla Germania nazista) in quei momenti difficili aveva assunto come connotazione politico-esistenziale.96 C’è qual-cosa di simbolico nel fatto che questo primo corso sulla dodecafonia si tenesse in un remoto villaggio di montagna, lontano da occhi indiscreti, in un luogo tra l’altro che, come abbiamo visto e grazie ad Aline Valangin (compagna di Vogel) e al suo primo marito Wladimir Rosenbaum, aveva registrato il passaggio di molti altri esuli (Toller, Tucholsky, Brentano, Curjel, Mendelssohn, Canetti, Silone) in forma quasi cospira-tiva.97 In verità se la dodecafonia era una pratica accettata da poche individualità al di fuori del nucleo viennese originario (ancora marginale nella stessa Società Interna-zionale di Musica Contemporanea), tanto più trovò resistenza in Svizzera in quanto essa aveva assunto una valenza quasi sovversiva. Rare anche se significative furono nel nostro paese le occasioni di confronto con tale realtà avanzata dell’arte dei suoni,

Presenze artistiche e culturali dal nord

95 Precedentemente Vogel aveva proposto anche a Dallapiccola di tenervi un corso, come risulta da una lettera del compositore italiano dell’11 febbraio 1936 conservata nel Fondo Wladimir Vogel presso la Zentralbibliothek di Zurigo: «Je suis très sensible à votre engagement et la chose me semble très intéressante. Je voudrais pourtant savoir encore quelque chose: 1) le cours se compose de conférences ou bien de conférences et d’auditions de musique? 2) quelle est la langue “officielle” du cours? 3) quel doit être le nombre de conférences? J’espère avoir bientôt de vos nouvelles et croyez que je vous suis très reconnaissant pour votre amitié. En général je serais bien disposé venir en Suisse; un mot définitif je le pourrais dire dans la première moitié du prochain mois d’avril».

96 Al corso partecipò anche Aline Valangin, la quale, oltre ad essere stata allieva di Carl Gustav Jung per cui esercitava la psicoanalisi, aveva studiato pianoforte. Allora la sua relazione con Vogel, anche se non ancora divorziata da Rosenbaum, era già molto intima. Ecco la sua significativa testi-monianza di quella frequentazione: «Il corso ci ha avvicinati. La mia comprensione della musica era rimasta pressappoco a Debussy e a Ravel, ed ero piuttosto ostile alle composizioni moderne [...]. È la fortuna che ci fa incontrare al momento giusto le persone giuste che ci affascinano e ci fanno progredire. Sono riuscita a riagganciare là dove le circostanze mi avevano procurato una rottura con la musica viva. Fui come stregata: anelavo solo a recuperare. Vogel era un buon maestro. Ci ha insegnato una lingua musicale nuova. Iniziai a esercitarmi con piccoli pezzi di Busoni e Bartók e sentii che in me un blocco andava sciogliendosi. Provavo grande riconoscenza e anche ammirazione per questo straordinario musicista» (Peter Kamber, Geschichte zweier Leben. Wladimir Rosenbaum & Aline Valangin, Zürich, Limmat Verlag, 1990, trad. it. Storia di due vite. Wladimir Rosenbaum e Aline Valangin, Locarno, Armando Dadò Editore, 2010, p. 231).

97 Carlo Piccardi, Musica e cittadinanza artistica: il caso svizzero, «Musica/Realtà», xxx, 89 (luglio 2009), pp. 35-36; anche in versione inglese, Music and Artistic Citizenship: In Search of a Swiss Identity, «Schweizer Jahrbuch für Musikwissenschaft / Annales Suisses de Musicologie / Annuario Svizzero di Musicologia», Neue Folge, 28-29, 2008-09, pp. 275-276. Quanto all’orienta-mento antifascista di Rosenbaum va ricordato il suo arresto nel 1937 per avere effettuato attraverso il suo studio legale forniture di armi ai repubblicani spagnoli, violando la legge svizzera, e la conse-guente revoca della patente di avvocato, da cui si riebbe consacrandosi all’attività di antiquario ad Ascona nella Casa Serodine (Kamber, Storia di due vite, pp. 259-288).

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comunque prevalentemente per merito di personalità provenienti dall’esterno, quale fu in particolare Hermann Scherchen nella sua funzione di direttore dell’Orchestra del Musikkollegium di Winterthur, il quale il 3 marzo 1943 alla presenza del compo-sitore stesso diresse le Variazioni op. 30 di Anton Webern, dopo che questa rilevante testimonianza dello sviluppo creativo del metodo era stata rifiutata a Ginevra da Ernest Ansermet e a Basilea da Paul Sacher.98

Tale situazione non impedì che proprio da qui partisse l’iniziativa di ristabilire i rapporti interrotti dalla guerra tra i musicisti che avevano adottato il metodo scho-enberghiano, dispersi e divisi a causa delle vicende politiche. Fu così che Wladimir Vogel il 12 dicembre 1948 (con il sostegno della Pro Locarno)99 avrebbe convocato a Orselina una conferenza preparatoria del Primo Congresso Internazionale per la Mu-sica Dodecafonica che si sarebbe tenuto a Milano dal 4 al 7 maggio 1949, riunendovi una significativa rappresentanza internazionale di compositori che già si erano distin-ti nel nuovo orientamento (Luigi Dallapiccola, Riccardo Malipiero, Serge Nigg, Karl Amadeus Hartmann, Eunice Catunda, Hans Joachim Koellreutter, André Souris), a cui presenziarono i pochi svizzeri che erano della partita (Erich Schmid, Alfred Keller ed Hermann Meier) a cui si aggiunse Rolf Liebermann, oltre ai quali è da considerare anche il bernese Edward Staempfli (1908-2002) residente nel Luganese dal 1944, che partecipò come pianista ai concerti tenuti in margine alle sessioni (sia ad Orselina sia l’anno dopo a Milano) e il quale dal 1950 iniziò a comporre secondo il nuovo metodo. Il congresso milanese, che Vogel organizzò in collaborazione con Riccardo Malipiero, benché superato negli anni successivi dalla linea del serialismo integrale nei corsi estivi che spostarono verso Darmstadt l’attenzione del mondo musicale, è da ricordare come una tappa importante quale riaffermazione nel dopoguerra del potenziale creativo della concezione compositiva radicale, filone della modernità che non si era piegato a compromessi e che soprattutto aveva mantenuto la distanza dalle vicende politiche, senza lasciarsi trascinare nel gorgo dei nazionalismi responsabili della devastazione del continente, riemergendo dalla tragedia con tutta la sua forza universalistica. Benché la conclusione del congresso di Milano rimanesse una generi-ca professione di fede, alto fu il suo significato simbolico di ricerca di motivazioni al di là degli steccati nazionali.

Ci si potrebbe allora chiedere come mai, essendo stato concepito in Svizzera, tale incontro fosse organizzato all’estero, o perlomeno non avesse avuto in Svizzera le suc-cessive edizioni (che invece si tennero a Darmstadt nel 1951 e a Salisburgo nel 1952). Il mancato aggancio con la ripresa internazionale del fervore artistico fu lo scotto che la musica, arte più di ogni altra legata al momento aggregante della società (in particolare nel nostro paese), pagò nel lento processo di decantazione dello spirito di arroccamento in cui si erano irrigidite le sue pratiche durante il conflitto mondiale.100

Carlo Piccardi

98 Piccardi, Musica e cittadinanza artistica, p. 43; Piccardi, Music and Artistic Citizenship, pp. 82-83. Sulla resistenza delle organizzazioni musicali svizzere negli anni Trenta e Quaranta ad am-mettere l’esecuzione di opere dodecafoniche si veda Thomas Gartmann, «Weitergehen, den Weg, den man vorgezeigt bekommt...», pp. 20-36.

99 Oesch, Wladimir Vogel, p. 91. Su questa conferenza preparatoria si veda Piccardi, Tra ragio-ni umane e ragioni estetiche, pp. 205-269.

100 Gianmario Borio, Kontinuität der Moderne, in Gianmario Borio, Hermann Danuser, Im Ze-nit der Moderne. Die Internationale Ferienkurse für Neue Musik Darmstadt 1946-1966, Freiburg im

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«Resistenza dodecafonica»

Eppure Radio Monteceneri si era trovata precocemente in condizione di lan-ciare il messaggio legato all’idea di dodecafonia già nel 1937, quando concesse il microfono all’allora ventiquattrenne musicologo milanese Luigi Rognoni (1913-86) – che nel 1935 aveva assunto la responsabilità redazionale del «Bollettino Mensile di Vita e Cultura Musicale» e il quale dal 1936 figurava come redattore capo della «Ri-vista Musicale Italiana» 101 – per una serie di trasmissioni a cadenza mensile intitolata Aspetti della musica contemporanea, diffuse tra il 13 aprile e il 13 settembre 1937. Orbene, fra queste, non mancava la puntata dedicata a Arnold Schönberg e l’espressio-nismo in musica trasmessa il 31 marzo 1937.102

Con ciò la rsi si trovava ad essere la palestra di un’operazione deliberatamente programmatica che si distingueva dai normali commenti illustrativi della musica per l’ambizione di lanciare un messaggio fortemente innovatore attraverso una presa di posizione assolutamente singolare in quegli anni. I testi conservati di tali trasmissioni rivestono una certa importanza nella misura in cui non solo anticiparono le messe a punto sul concetto di “nuova musica” negli scritti di Rognoni degli anni successivi alla guerra, ma le articolavano audacemente in un contesto italiano ancora refrattario a tali aperture, più che mai confrontato con una visione della modernità musicale arroccata in una cittadella nazionale appagata dall’esibita compiutezza dei propri modelli.

In una conferenza tenuta nel maggio di quell’anno in un circolo ebraico mila-nese (Accademia Hattikwah) egli si era già distinto per la chiara e coraggiosa presa di posizione contro la politica culturale del Terzo Reich che costringeva i migliori artisti

Presenze artistiche e culturali dal nord

Brisgau, Rombach, 1997, vol. i, pp. 183-184. Anni dovettero ancora passare prima che i musicisti svizzeri si mettessero in linea con il resto d’Europa nel riconoscere il primato della dodecafonia e del successivo sviluppo del serialismo nel quadro dell’evoluzione estetica. Al di là del percorso personale di Frank Martin, il quale con il Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 (1933-34) incrociò il metodo schoenberghiano a modo suo (con la serie connotata in senso tonale ed usata tematicamente senza necessariamente svolgere un ruolo strutturale), i primi propugnatori della dodecafonia furono pro-prio gli allievi di Vogel: Rolf Liebermann, Hermann Meier, Jacques Wildberger, Robert Suter. In verità il recupero avvenne pienamente solo negli anni Sessanta, sancito dall’istituzione di un corso di composizione affidato a Pierre Boulez nel 1960 al Conservatorio di Basilea (seguito da Karlheinz Stockhausen nel 1963 e da Henri Pousseur nel 1964), con i passaggi di testimone nelle cattedre di composizione nei conservatori (Klaus Huber nel 1964 a Basilea, Rudolf Kelterborn nel 1968 a Zu-rigo, Jacques Wildberger e Robert Suter nel 1968 a Basilea) con rete estesa al Komponistenseminar di Boswil creato nel 1969 da Klaus Huber (si veda Piccardi, Musica e cittadinanza artistica, pp. 53-57, nonché Piccardi, Music and Artistic Citizenship, pp. 291-295).

101 Pietro Misuraca, «Carissimo Maestro...», in Luigi Rognoni e Alfredo Casella. Il carteggio (1934-46) e gli scritti di Rognoni su Casella (1935-58), a cura di P. Misuraca, Lucca, LIM, 2005, pp. 21-30.

102 Il ciclo era così articolato: 1) Introduzione all’estetica musicale del nuovo secolo (13 aprile 1937); 2) Europeismo di Igor Stravinsky (10 maggio 1937); 3) Arnold Schönberg e l’espressioni-smo in musica (31 maggio 1937); 4) Erik Satie e l’estetica dei “Sei” (21 giugno 1937); 5) Il teatro musicale di Giovanni [sic] Francesco Malipiero (12 luglio 1937); 6) Posizione e crisi del neoclassici-smo (16 agosto 1937); 7) I giovani di fronte alla coscienza della nuova musica (13 settembre 1937); 8) Autonomia e impopolarità del gusto della nuova musica (27 settembre 1937). Di queste tra-smissioni esistono i copioni dattiloscritti conservati nel Fondo Rognoni dell’Università di Palermo. Ringrazio Pietro Misuraca per avermi concesso l’accesso ai testi relativi, proposti integralmente a cura dello scrivente in due parti nella sezione “Documenti” della rivista «Musica/Realtà», xxxviii, 116 (luglio 2018), pp. 121-146, e 117 (novembre 2018), in corso di pubblicazione.

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all’esilio, ma anche contro il conformismo a cui si erano adagiati gli intellettuali italiani nel finto gareggiamento dei Littoriali della Cultura.103 In quella conferenza il giovane musicologo, ritenuto un individuo sospetto dalla Pubblica sicurezza dal 1932 (più volte arrestato e rilasciato nel corso di quel decennio), aveva manifestato pubbli-camente indignazione verso i recenti interventi repressivi in Germania.

Nel 1935 approfittai di una temporanea tensione tra il regime nazista e quello fascista osando scrivere un articolo su un giornale milanese sulla Vita musicale del Terzo Reich, che apertamente rivelava la vergognosa cacciata di compositori tede-schi messi al bando per motivi razziali o in quanto “degenerati”.104

Tale articolo, pubblicato ne «L’Ambrosiano» (31 gennaio 1935), era insolitamente de-terminato e severo fino a configurarsi come una vera e propria denuncia dell’«eccesso di un gruppo di esaltati e di ebbri di mistico sentimentalismo a sfondo nazionale e razzista, questa pazzia teutone che scoppia in forma bestiale e ingenua»:

Il governo nazista ha la grave responsabilità davanti alla storia di voler indirizzare l’arte mediante asserzioni assiomatiche e con la brutale violenza comune agli uomi-ni in preda alle torbide passioni della politica, portando una questione che ha solo significato polemico e teorico su un piano pratico e immediato.105

Non meraviglia quindi che il suo dissenso nei confronti del regime sia poi sfociato nella risoluzione di partecipare alla lotta partigiana dopo l’8 settembre,106 mentre, quando anni dopo fu invitato a dare la propria testimonianza su come avesse vissuto la sua maturazione estetica in quegli anni, rispose con l’inequivocabile termine di “resistenza dodecafonica”.107 Anche nella quarta delle conversazioni luganesi egli ar-

Carlo Piccardi

103 Carlo Piccardi, Alla ricerca del grado zero dell’espressione, in Italian Music during the Fascist Period, a cura di R. Illiano, Turnhout, Brepols, 2004, pp. 223-224.

104 Luigi Rognoni, Dodekaphonischer Widerstand, in Die andere Achse. Italienische Resistenz und geistiges Deutschland, a cura di L. Jollos-Mazzucchetti, Hamburg, Claassen Verlag, 1964, p. 52. Si veda anche Gianmario Borio (Der lautlose Dissens der Musik im faschistishen Italien, in Musik der Emigration 1933-1945. Verfolgung-Vertreibung-Rückwirkung, a cura di H. Weber, Stuttgart / Wei-mar, 1994, pp. 237-239) e anche Pietro Misuraca, Frammenti di memoria. Lettere, scritti, immagini dall’archivio di Luigi Rognoni, in Luigi Rognoni intellettuale europeo, i. Testimonianze, pp. 25-27.

105 «[...] l’eterna questione di “forma” e “contenuto”; e pretende dettare canoni per un’espres-sione d’arte sistematica, e indirizzare l’intuizione artistica secondo un’unica finalità, quella pretesa della “razza germanica” e dello “spirito nazista”, per promuover un’arte animatrice delle masse ed educatrice del popolo verso l’amor patrio» (Lugi Rognoni, Vita musicale del Terzo Reich, riportato in Luigi Rognoni intellettuale europeo, iii. Scritti e interviste, a cura di P. Misuraca, Palermo, CRicd, 2010, pp. 17-18).

106 Pietro Misuraca, Luigi Rognoni (ad vocem), in Dizionario biografico degli Italiani, lxxxviii, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2017, p. 140.

107 Rognoni, Dodekaphonischer Widerstand, p. 43. Il concetto di resistenza politica abbinato all’espressione musicale fondata sull’emancipazione della dissonanza ha attecchito a partire dagli anni Cinquanta soprattutto grazie all’imporsi de Il canto sospeso (1955-56) di Luigi Nono (su lettere di condannati a morte della Resistenza europea) e agli approfondimenti di Luigi Pestalozza il quale cercò di delinearne il filone, individuandone un’organica crescita attraverso una quarantina di com-posizioni create nel dopoguerra in Italia (di Riccardo Nielsen, Giorgio Federico Ghedini, Valentino Bucchi, Renzo Bianchi, Angelo Paccagnini, Vittorio Fellegara, Giacomo Manzoni, Sylvano Bussotti

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(28) Prima pagina della partitura manoscritta dell’opera Moses und Aron di Arnold Schön-berg con l’indicazione «Lugano, 17 luglio1930» in alto a destra (Arnold Schönberg Center, Vienna).

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(29-30) Luigi Dallapiccola con il violinista Sandro Materassi a Lugano nel marzo 1943 (fotografie di Bruno Caroli, violinista dell’Orchestra della rsi, oggi nel Fondo Dallapiccola presso l’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti”, Gabinetto Vieusseux, Firenze);(31) Locandina della conferenza tenuta il 12 marzo 1959 da Luigi Dallapiccola al Circolo di cultura di Ascona e promossa da Wladimir Vogel (Fondo Dallapiccola, vedi sopra).

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rivò a prendere nettamente le distanze dal clima “imperiale” instaurato in Italia dalla guerra d’Abissinia, denunciando «il sentimento di massa, di collettivismo, di nazione guerriera, il rinnovato nazionalismo rettorico». Vale quindi la pena di soffermarci sui suoi interventi a Radio Monteceneri, sicuramente importanti come indizio di un’e-laborazione critica notevolmente avanzata rispetto al livello di considerazione a quel tempo concesso alla musica coeva in Italia.

La modernità comincerebbe là dove decade la concezione «romantico-verista» di una musica intesa come «espressione di un contenuto di sentimenti», lasciando il posto al principio di una «nuova musica» in grado di assumere «un carattere spiccatamente intellettuale», che acquista «piena coscienza razionale dei propri valori». Sganciando il rapporto armonico dalla funzione emotiva e isolando la dissonanza come «puro valore sonoro», Debussy ne rappresenterebbe la prima tappa. Importante è l’idea di crisi, che viene affrontata con la convinzione di trovarsi di fronte non a un semplice passaggio d’epoca, bensì a una svolta radicale da cui – in opposizione all’«autentica modernità di Debussy» – deriva il giudizio impietoso sulla «falsa modernità» di Richard Strauss, im-brigliata negli spasimi e nel «convulso erotismo» di un mondo in decadenza. La risposta definitiva verrebbe da Stravinsky e da Schönberg, «i primi araldi della rivoluzione», definita tale per il fatto che per la prima volta l’arte dei suoni cessa di modellarsi sulle vibrazioni del sentimento e di dare forma alle pulsioni psichiche, per rendersi «consa-pevole di ogni problema dello spirito, morale ed etico, logico e metafisico, estetico e praticistico». Il criterio di giudizio è esplicito, distinguendosi nettamente dalle posizioni attecchite nell’Italia di allora, non tanto per l’accento posto sulla moralità dell’arte (ché in qualche modo le manifestazioni artistiche del ventennio, nella misura in cui erano organiche al regime, denotavano un fondamento etico), quanto per il fatto di precisarla come «atto di difesa del mondo morale dell’artista», in un rapporto che oppone l’artista ai meccanismi corruttori della società.

Di questo sforzo che chiama in causa la «coscienza morale dell’artista nuovo di ripensare in se stesso ogni particolare tradizione nazionalistica in una sintesi estetica più ampia e più vasta» fa parte la visione di una dinamica considerata nella dimen-

Presenze artistiche e culturali dal nord

e altri), anche svolgendo un ruolo protagonistico in iniziative creative e di ricerca, quali il convegno e i relativi concerti sul tema tenuti al Teatro Comunale di Bologna nel 1965 e il saggio Musica e Re-sistenza pubblicato nel 1992 nella rivista «Il presente e la storia» dell’Istituto Storico della Resistenza di Cuneo (riedito in «Musica/Realtà», xxii, 68 (luglio 2002), pp. 121-140, e riproposto in Luigi Pestalozza, Mie memorie. Vita musica altro, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2013, pp. 55-58 e 390-405). L’iniziativa bolognese del 1965 fu l’occasione di un confronto che vide in prima fila Mas-simo Mila a ridimensionare tale teoria: «In questo caso la tentazione irresistibile era quella di fare della Resistenza una categoria estetica. Di qui le accuse di eclettismo mosse alla rassegna bolognese, dove le musiche eseguite si disponevano per metà circa al di qua e per metà al di là di quell’arduo spartiacque della musica dei nostri giorni, che è la conservazione della tonalità tradizionale, sia pure liberamente ampliata, e il passaggio alla tecnica di composizione seriale e dodecafonica. [...] Il tentativo d’identificare la categoria storico-politica della Resistenza col linguaggio musicale dell’a-vanguardia dodecafonica e post-seriale, insostenibile in linea di principio, è tuttavia generoso e può darsi benissimo che venga un giorno sancito in linea di fatto dallo svolgimento storico della musica attuale. Ma soprattutto questo tentativo mette a fuoco una delle contraddizioni più brucianti, più feconde e patetiche di questa nostra musica nuovissima: la contraddizione tra l’estrema difficoltà e specializzazione del suo linguaggio, e l’ansia sincera di comunicazione che anima certi suoi autori, quelli appunto che sentono profondamente gli ideali politici della Resistenza» (Massimo Mila, La Resistenza nella musica moderna, «Resistenza – Giustizia e Libertà», xix, 5, maggio 1965, p. 6).

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sione europea, come realtà sciolta dalle singole tradizioni culturali. L’ammirazione per Stravinsky in Rognoni non si fermava infatti alla barbarica «forza iconoclasta» forgiata nella sua russicità; ma proprio il fatto di bruciare «in sé l’estremo fuoco di uno spirito nazionalistico [...] che mira ad oltrepassare i confini verso una più ampia “fraternité sonore”, per usare la felice espressione di André Coeuroy», ne sottolineava la portata europea. In verità in questi testi risultano costantemente ribaditi i concetti riferiti alla dimensione europea della musica, alla coscienza «razionale ed intellet-tuale» ma soprattutto «spirituale» che la innerva e al suo valore morale, affermati da una posizione dichiaratamente e socialmente alternativa nel riconoscimento di non accettare «nessun compromesso con la borghesia».

Per quanto acerba e sommaria nella formulazione, vi si delineava una visione deterministica esibita in nome di una convinzione etica tutta rivolta ad identificarne il campione della nuova musica in Arnold Schönberg, «questo grande musicista che nella crisi presente dello spirito, in un disperato sforzo di ribellione, tenta ancora una volta, come nel Rinascimento, di affermare la profonda umanità dell’uomo, e mani-festa nella sua arte tutta la tragedia di questa umanità in sfacelo, cercando di evadere verso una nuova affermazione dell’individuo, profanato dagli ultimi romantici e dal verismo, e negato, per legittima e disperata difesa, dai nuovi artisti oggettivi e intel-lettuali di Parigi».108

Non v’è chi non veda la convergenza tra queste affermazioni e l’elaborazione teorica di Theodor W. Adorno che sarebbe sfociata nella sua Filosofia della nuova musica, che nel dopoguerra avrebbe condizionato notevolmente i giudizi e le scelte. Comune è il senso di incompatibilità tra «arte svincolata» e «società vincolata», con-cetti non a caso ribaditi in conclusione al saggio che Rognoni dedicherà ad Adorno nel 1959,109 tanto più sentita quanto più a quel tempo incarnata nella condizio-ne autoritaria ed oppressiva del regime che aveva trovato modo, pur sostenendo le manifestazioni avanzate, di indebolirle proprio sul lato della prospettiva alternativa implicita al loro sviluppo. Concetti che avrebbero trovato la definitiva messa a punto nella fondamentale pubblicazione del musicologo milanese (Espressionismo e dodeca-fonia, Torino, Einaudi, 1954) erano significativamente preannunciati nella terza delle sue trasmissioni luganesi, in cui il compositore viennese è evocato come un araldo che con la sua scelta radicale annuncia l’avvio di un processo di emancipazione non tanto e solo estetica ma, nel pieno del contraccolpo prodotto dalle azioni repressive in corso (di cui fu bersaglio al punto da dover scegliere la via dell’emigrazione negli Stati Uniti), soprattutto morale:

Carlo Piccardi

108 In questo caso Rognoni si poneva sulla linea aperta dall’amico Ferdinando Ballo in un inter-vento di qualche anno prima, che denunciava coraggiosamente la deriva autoritaria del nazionalso-cialismo, «l’attuale abbrutimento artistico della musica germanica: si ricerca “la volontà della legge e dell’autodisciplina” (Diesel), dalla generale tendenza umanitaria dell’espressionismo si passa alla fon-dazione della “Wartburgkreis deutscher Dichter” (1° maggio 1932) che rivendica il Vaterland e l’arte tradizionale. [...] L’espressionismo invece scopre ancora una volta, come il Rinascimento, l’uomo; per Schönberg l’arte è ancora qualcosa di umano, è un grido di disperazione che divora tutta la coscienza dell’uomo, e come tale non è solo una posizione estetica ma è soprattutto una posizione morale e intellettuale, come espressione totale della coscienza individuale» (Ferdinando Ballo, Esperienze della musica moderna, «La rassegna musicale», vii, 4 (luglio-agosto 1935), riportato in La Rassegna Musica-le, antologia a cura di Luigi Pestalozza, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 279 e 282).

109 Luigi Rognoni, Fenomenologia della musica radicale e altri saggi, Milano, Garzanti, 1974, p. 53.

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La musica di Schönberg è il frutto di una dialettica logica-teorica: egli sente infatti la ferrea coerenza della fatale dissoluzione del mondo armonico tonale di Tristano, che si risolveva nell’impressionismo in una statica contemplazione del gioco sonoro esatonale, uscito dalla negazione del cromatismo; ed è appunto nella dissoluzione del cromatismo wagneriano che è possibile trovare il principio di un nuovo mondo sonoro di espressione, che vada oltre, col superamento wagneriano di ogni forma architettonica romantica, la stessa concretezza del suono come valore tonale, chiuso entro i limiti dell’ottava. Il cromatismo tristaneggiante rappresenta già il primo con-vulso grido di ribellione alla attrazione tonale, grido che rimane però ancora oppresso nelle ferree barriere dell’ottava. Schönberg rappresenta invece il primo eroico passo oltre questi limiti, pietrificati da lunghi secoli di tradizione, verso un nuovo mondo ancora ignoto, e misterioso: abisso immenso e oscuro, pauroso e divino. È Leonardo che rinnova nella sua mente la follia del mito di Icaro, e che disegna e pensa con lo-gica sbalorditiva, le possibilità di una macchina per volare nel cielo. Questo tentativo rimane per Leonardo un fatto semplicemente enunciato, ma diviene per noi moderni la realtà di un nuovo mondo, una nuova vita ormai possibile e pratica a tutti. Così Schönberg disegna i tratti di un nuovo mondo dell’arte dei suoni, mai sino ad ora praticato, ed ancora oggi lontano dalla pienezza del suo sviluppo.110

Interessante è che questa trasmissione del ciclo dedicata al grande compositore vien-nese fosse annunciata con un’indicazione: «Collabora il pianista Nino Herschel».111 Ciò si spiega col fatto che il testo ancora conservato indica l’inserimento esemplifi-cativo di passaggi musicali corrispondenti ai Klavierstücke op. 11 e op. 19, eviden-temente non disponibili su disco in quel frangente e che di conseguenza era neces-sario eseguire dal vivo. Per la bisogna si domandò quindi il contributo del pianista ginevrino, il cui compito alla rsi, in cui operava dal 1933, era quello di dirigere la sottoformazione ricreativa dell’orchestra radiofonica. Tale abbinamento sembrerebbe paradossale, se non conoscessimo le precedenti esperienze berlinesi e americane di quell’artista.112 Anzi non è escluso che la sua prestazione si rivelasse più attendibile di

Presenze artistiche e culturali dal nord

110 Luigi Rognoni, Arnold Schönberg e l’espressionismo in musica, «Musica/Realtà», xxxviii, 116 (luglio 2018), pp. 138-139. «A noi interessa aver qui delineata la figura di questo grande mu-sicista che nella crisi presente dello spirito, in un disperato sforzo di ribellione, tenta ancora una volta, come nel Rinascimento, di affermare la profonda umanità dell’Uomo, e manifesta nella sua arte tutta la tragedia di questa umanità in sfacelo, cercando di evadere verso una nuova affermazione dell’individuo, profanato dagli ultimi romantici e dal verismo, e negato, per legittima e disperata difesa, dai nuovi artisti oggettivi e intellettuali di Parigi. Questo senso di tragedia umana è fissato artisticamente da Schönberg nei suoi Sechs Kleine Klavierstücke op. 19, dove noi possiamo scorgere lo sforzo di superare ogni valore storico di cultura e di valori spirituali morti, così come nel Pierrot lunaire la voce del cantante supera la stessa intensità e lo stesso valore della nota: è nella musica, ma nello stesso tempo è al di là della musica” (p. 142).

111 «Radioprogramma», v, 22 (29 maggio 1937), p. 8.112 Nato a Ginevra nel 1902, la formazione di Herschel tra il 1918 e il 1922 avvenne al Conser-

vatorio Stern di Berlino, in cui fu attivo come pianista. Dopo i giri di concerti come accompagnatore di Gregor Piatigorsky e di Jascha Heifetz che lo portarono oltre oceano, rimase stabilmente negli Stati Uniti tra il 1926 e il 1931 come collaboratore musicale di una casa cinematografica ed interessandosi sempre più al jazz: «Eccolo affaccendato a elaborare, a correggere ad animare un gruppo speciale d’istru-mentisti: gli piace dimostrare la sua versatilità in tutti i campi della musica e fra un jazz e l’altro studia le nuove correnti musicali del dopoguerra, studia le cacofoniche armonie dei fanatici rivoluzionari ed alla musica di Strawinsky s’entusiasma, si accalora e confronta la tecnica strawinskiana con il neoclassicismo di Ferruccio Busoni» (La morte di Nino Herschel, in «Radioprogramma», ix, 30 (19 luglio 1941), p. 2).

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quella di cui Rognoni poté avvalersi alcuni mesi dopo (l’11 febbraio 1938) presso la Società dei concerti di Brescia. In quell’occasione, ad illustrare il tema Arnold Schön-berg e l’espressionismo tedesco con l’esecuzione dei pezzi per pianoforte op. 11, op. 19 e op. 33a completati dalla dodecafonica Suite op. 25, concorse il giovane ma ancora sconosciuto Arturo Benedetti Michelangeli.113 Lo testimoniò Camillo Togni, facendo risalire a quell’evento la svolta decisiva della sua concezione estetica:

L’occasione, più unica che rara, fu terrificante per un giovane musicista come me; seppur nell’alveo di un fortissimo ascendente bachiano, navigavo in un linguaggio che si faceva costantemente cromatico. [...] Riconobbi che Schoenberg era la mia guida ideale e cercai di approfondirne la conoscenza attraverso la lettura del poco che era allora reperibile.114

D’altra parte, se le prime apparizioni in Italia di composizioni dodecafoniche non ebbero conseguenze immediate,115 fu proprio a partire dalla metà degli anni Trenta

Carlo Piccardi

113 Pietro Misuraca, Frammenti di memoria. Lettere, scritti, immagini dall’archivio di Luigi Ro-gnoni, in Luigi Rognoni intellettuale europeo, i. Testimonianze, a cura di P. Misuraca, Palermo, CRicd, 2010, p. 37.

114 Daniela Cima, Camillo Togni, le opere, Milano, Edizioni Suvini Zerboni, 2004, pp. 17-18.Sull’impatto di quell’ascolto valgono in modo eloquente queste altre sue parole: «La prima audizione dei pezzi dell’op. 33a e della Suite op. 25 di Schoenberg provocò in me, allora quindicenne, una for-tissima impressione: più “terrore” tuttavia, per il momento, che attrazione» (Lettera a Michela Mollia del 24 febbraio 1938 pubblicata in Carteggi e scritti di Camillo Togni sul Novecento italiano, Firenze, Olschki / Archivio Camillo Togni (“Studi”, i), p. 170). E sul contesto in cui si inquadrava quell’e-sperienza è rivelante quest’altra testimonianza: «La situazione del giovane d’oggi e la situazione di noi giovani del 1940 è diametralmente opposta. Noi dovevamo andare a cercare delle partiture che non si trovavano e che erano ufficialmente proibite. Dovevamo studiarle, pressoché tradurle clandestinamen-te. Trovavamo l’aiuto di qualcuno che aveva fede in questa esperienza sconvolgente e che ci aiutava. Io ho avuto due persone che mi hanno aiutato in questo senso: Luigi Rognoni e Luigi Dallapiccola» (Camillo Togni, Un paio di linee. Dialogo con gli intervistatori, Brescia, laQuadra, 1994, p. 51).

115 Si vedano le reazioni all’esecuzione del Trio per archi di Webern al Festival della simc di Siena nel 1928, definito da Guido M. Gatti, pur largo di vedute, «una delle molte faticose e perfette macchine montate a gran forza di calcoli secondo il sistema dodecafonico» (Minari Bochmann, Die Rezeptionsgeschichte der Dodekaphonie in Italien bis 1953: von Alfredo Casella zu Luigi Dallapiccola, Mainz, Are Musik Verlag, 2015, p. 52). Ma già due anni prima al Festival della simc di Zurigo sull’esecuzione del Bläserquintett op. 26 di Schönberg al pubblico italiano era arrivato il giudizio perplesso di Renzo Massarani (che lo riteneva un «caos [...] detestabile» e quello addirittura feroce di Adriano Lualdi che lo percepiva come «versi che ci hanno fatto raccapricciare per quasi un’ora» (Carlo Piccardi, La parabola di Renzo Massarani, compositore ebreo nell’ombra del Fascismo, in Music and Dictatorship in Europe and Latin America, a cura di R. Illiano e M. Sala, Turnhout, Brepol, 2009, pp. 196-197). Pur essendo stato fra i fondatori del Festival internazionale di musica di Ve-nezia nel 1930, Lualdi, che era stato eletto nel 1929 deputato nel parlamento in rappresentanza del Sindacato fascista dei musicisti, si distanziò sempre dalle manifestazioni radicali. Nel Piccolo dizionario del Primo Festival Internazionale di Musica di Venezia (7-14 settembre 1930), alla voce “Schönberg Arnold” leggiamo: «Scrive il Malipiero: “È colui che ha fornito all’arte musicale l’os-sigeno che la tenne in vita mentre si maturavano gli eventi; la guerra e il resto”. Non era ossigeno; erano gas asfissianti» (Adriano Lualdi, Tutti vivi, Milano, Dall’Oglio, 1955, p. 441). Sebbene l’Italia fascista non adottasse forme repressive nei confronti delle manifestazioni artistiche radicali, non mancò di disapprovarle, soprattutto dopo la conquista del potere in Germania da parte dei nazisti, la cui propaganda contro l’«arte degenerata» avrebbe trovato eco nella pubblicistica, come testimo-

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che si affacciò un’attenzione per il metodo schönberghiano scevra di pregiudizi, grazie agli interventi di Ferdinando Ballo, Alberto Mantelli ed Herbert Fleischer nella «Ras-segna musicale», dopo la presentazione della cantata Der Wein di Alban Berg sotto la direzione di Hermann Scherchen al Festival di Venezia nel 1934. Lo stesso Rognoni si attivò nel 1938 con Ballo per organizzare a Milano un concerto di Peter Stadlen con musiche di Schönberg (op. 11, 19, 23, 33a), le Variazioni op. 27 di Webern e pezzi di Hans Erich Apostel e Ludwig Zenk allievi del maestro, annunciato per il 7 aprile ma soppresso a causa dell’occupazione dell’Austria da parte di Hitler il 12 marzo e dell’espatrio forzato del pianista viennese ad Amsterdam.116 È quindi opportuno attirare l’attenzione sul fatto che il musicologo milanese abbia riservato alla rsi la cronaca sul Festival della Biennale di Venezia del 1937, in cui da parte di un comples-so strumentale viennese diretto da Stadlen fu eseguita la Suite op. 29 di Schönberg, la composizione dodecafonica che il pubblico accolse fra i contrasti, rumoreggiando. Diversamente da altre cronache di Rognoni per la rsi, di cui sono stati conservati i testi dattiloscritti (Il problema Toscanini, ecc.), di questa non vi è il riscontro cartaceo, ma la trasmissione (Il festival musicale di Venezia) è accertata essendo stata segnalata con evidenza nel rapporto annuale della radio svizzera.117 Essa dovette sicuramente ricalcare il resoconto che il musicologo milanese fece apparire ne «L’Ambrosiano» (14 settembre), in cui non solo emergeva l’estremo grado di novità della composizione, ma anche il valore di sfida morale delle espressioni musicali avanzate in una forma di opposizione nei confronti della società.118

Dopo Bartók la Suite op. 29 di Schönberg fu per noi la totale rivelazione: e se avevamo dovuto accontentarci sino ad ora di studiare l’opera del grande viennese attraverso una approssimata lettura delle sue difficili partiture, l’audizione diretta ci ha chiarificato e rivelato quanto noi eravamo riusciti ad intuire appena. [...] In questa suite, dove i suoni tentano di precisare un nuovo contenuto, dove la nota, nel disperato sforzo dell’espressione improvvisa, tende a superare quasi e ad an-dare oltre la propria concretezza fisica, materiale, ci si è chiaramente presentata la visione schönberghiana di un nuovo mondo che si impone alla nostra coscienza: i timbri divengono la tragica espressione che fissa quasi fotograficamente, istanta-

Presenze artistiche e culturali dal nord

nia la presa di posizione di Alfredo Parente in occasione del ix Congresso internazionale di musica di Firenze del 1939 nel condannare l’«arrembaggio da parte dei musicisti musicalmente, cioè arti-sticamente più impotenti e inetti, ai più avanzati sviluppi tecnici e stilistici della grande rivoluzione nata con l’atonalismo» (citato in Luca Conti, La Scuola di Vienna e la dodecafonia nella pubblicistica italiana 1911-1945, «Nuova Rivista Musicale Italiana», xxxvii, 2 (aprile-giugno 2003), p. 185).

116 Pietro Misuraca, Schönberg e l’Italia: il contributo di Luigi Rognoni, «Musica/Realtà», xxxvii, 109 (marzo 2016), p. 45.

117 Schweizerische Rundspruchgesellschaft, Siebenter Jahresbericht über das Geschäftsjahr 1937-1938, Bern, 1938, p. 77.

118 Riferendosi alle composizioni di Bartók, Schönberg e Dallapiccola ritenute le migliori e le più rappresentative, ne motivava la ragione: «soprattutto perché in questi musicisti vi è una precisa volontà di impostare concretamente un nuovo problema di gusto e di espressione nell’arte musicale contemporanea, al di là di qualsiasi “compromesso” come una sempre più decisa affermazione della libera individualità morale dell’artista che, pienamente cosciente della fatale impopolarità del proprio gusto, afferma con esso un nuovo mondo ed una nuova intelligenza da difendere ad ogni costo» (Luigi Rognoni, Bilancio del Festival musicale veneziano, in Luigi Rognoni intellettuale europeo, iii, p. 29).

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neamente lo stato interiore dell’artista: la dissonanza scompare, poiché è abolita la tirannia della consonanza; il suono così liberato non teme più le limitazioni della tradizione formale alla espressione, ma si fissa in un nuovo concreto linguaggio.119

È una cifra interpretativa che non può prescindere dal tempo in cui maturò, che avrebbe nutrito di senso l’interesse per la dodecafonia diffusosi dopo il conflitto mon-diale, eloquentemente colto da Massimo Mila:

Resta il fatto, però, che la riscossa della dodecafonia in questo dopoguerra avviene assai più con la forza d’una presa di posizione morale, che non per semplice virtù d’una dottrina tecnica. È stata la riscossa della serietà contro il gioco; dell’impegno contro la ponziopilateria; del coraggio di guardare in faccia la realtà del male e del dolore, anche a costo d’errori di gusto, di misura e di stile, contro l’elegante evasione nell’ironia.120

Luigi Rognoni avrebbe incrociato ancora un’iniziativa maturata nella Svizzera italiana nel 1950, quando Wladimir Vogel si impegnò a gettare le basi del secondo congresso internazionale della musica dodecafonica che si sarebbe dovuto svolgere a Locarno quello stesso anno. Il musicologo milanese avrebbe dovuto parlare di «espressionismo e dodecafonia»,121 ma motivi organizzativi e il fragile sostegno in loco assicurato al progetto ne impedirono l’attuazione. A questo secondo congresso Vogel si era assicu-rato la presenza di Riccardo Malipiero, Bruno Maderna e Max Deutsch, ottenendo il sostegno della Pro Locarno nel nome del suo direttore Riccardo Bolla già nel no-vembre 1949. Sennonché dopo pochi mesi giunse il messaggio del suo più o meno pretestuoso disimpegno: «Carissimo Vogel, ricevo da Locarno la lettera di Bolla che mi annuncia la sospensione del Congresso, in vista dell’attuale situazione politica. Speriamo si possa attuare in primavera. Siamo tutti stanchi di questa sfibrante vita di angoscia e di incubi di terrore di una prossima guerra» (lettera di Rognoni a Vogel del 14 luglio 1950).122

Per quanto riguarda le scelte coraggiose di programma della rsi, occorre dire che una parte delle sue trasmissioni (proprio quelle musicali che non ponevano pro-blemi di lingua) erano trasmesse sulle antenne della Radio della Svizzera tedesca e di quella romanda, e viceversa. Tale situazione esigeva un’offerta all’altezza di aspettative

Carlo Piccardi

119 Luigi Rognoni intellettuale europeo, iii, pp. 30-31. Negli stessi mesi un altro musicologo milanese iniziò la sua collaborazione con la Radio della Svizzera italiana, Giulio Confalonieri, a partire dalla presentazione del compositore Joaquín Nin che vi era chiamato anche come direttore d’orchestra («Radioprogramma», 29 marzo 1937). Anni dopo sarebbe stata la volta di Riccardo Malipiero col ciclo di corsi serali a cadenza settimanale (Le forme musicali attraverso i tempi) diffusi tra il 14 novembre 1947 e il 30 gennaio 1948. Inoltre di Malipiero Radio Monteceneri avrebbe accolto anche alcune composizioni di quel periodo. In particolare Edwin Loehrer avrebbe diretto la cantata Antico sole, su testo di Beniamino Dal Fabbro per soprano e orchestra («Radioprogramma», 23 settembre 1949).

120 Massimo Mila, La dodecafonia e la sua offensiva, «Il Diapason», iii, 7-8, 1952, p. 12.121 Angela Ida De Benedictis, Oltre il Primo Congresso di Dodecafonia. Da Locarno a Darmstadt,

«Analecta Musicologica», lxxxv/2 (2013), p. 238.122 Piccardi, Tra ragioni umane e ragioni estetiche, pp. 250 e 268. All’invito di Vogel, conosciu-

to in occasione del congresso di Milano, aderì anche Camillo Togni, come rivela la sua lettera di risposta alla Pro Locarno del 24 aprile 1950 (Carteggi e scritti di Camillo Togni sul Novecento inter-nazionale, p. 10).

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che andavano al di là delle limitate potenzialità della regione, e richiedeva inoltre di essere assicurata sulla base di una professionalità che non poteva essere garantita dai complessi dilettanteschi operanti in loco. Ciò va considerato per spiegare la ra-gione per cui il livello delle attività artistiche (musicali ma anche nell’ambito degli sceneggiati radiofonici) doveva mantenersi a un alto grado di competenza rispetto a quello vigente nel territorio.123 Perciò, al di là della funzione di servizio alla regione di appartenenza, è da considerare il fatto che tale dimensione nazionale dell’ente si rivelava fondamentale nella capacità di sottrarla al pericolo della provincializzazione, situandolo in una posizione capace di cogliere occasioni all’altezza del tempo. Fu così che il 2 giugno 1937, in collegamento con la Radio della Svizzera tedesca, la rsi si trovava a trasmettere dall’Opernhaus di Zurigo – cioè dall’unica area di lingua tedesca che avesse la libertà di presentare in pubblico un simile prodotto dell’«arte degenera-ta» in quanto partitura organicamente dodecafonica – la prima mondiale diretta da Robert F. Denzler di un capolavoro dell’arte avanzata quale la Lulu di Alban Berg, da poco scomparso e quindi di valore testamentario. Il «Radioprogramma» non mancava di annunciare l’avvenimento in un trafiletto che, per quanto traducesse in modo ap-prossimativo l’originale tedesco (soprattutto relativamente all’impianto dodecafonico dell’opera), rivelava l’importanza annessa all’operazione.

Il Teatro della Città di Zurigo si è assunto il ben meritorio incarico di far eseguire, colla valida cooperazione del compositore Krenek e del poeta Werfel, la sua opera ancora sconosciuta “Lulù”.Alban Berg tenta di dare l’avvenimento drammatico in forme rigidamente musi-cali, nei preludi, passacaglie, fughe, vecchie forme coreografiche della Suite, rondò ecc. Con questo sforzo costruttivo, il compositore si avvicina fortemente alle leggi proprie della musica concertante assoluta.[…] Il compositore ha associato alle singole principali personalità dell’opera, delle forme determinate, che formano come la trama di tutto quanto il pezzo e rendono tutta la caratteristica musicale delle figure soltanto nel suo epilogo […] Tutta la musica nell’opera “Lulù”, secondo la sua intima struttura, si sviluppa completa-mente su di una scala diatonica di 12 toni (risultata dall’illustrazione musicale della figura di Lulù). Nella esecuzione in programma ci sarà dato di constatare fin dove il compositore, in questa sua opera postuma, sia riuscito ad ottenere una sintesi fra l’assoluta costruzione della forma e l’opera artistica a forti tinte.124

Presenze artistiche e culturali dal nord

123 Tale presa di coscienza fu responsabilmente presente fin dall’inizio presso gli organi della rsi: «Nel Ticino è mancata sinora un’istituzione moderna che incoraggi ed ecciti le forze culturali del nostro popolo, non secondo a nessuno nelle arti, nella scienza, come la storia lo conferma» (La Radio della Svizzera italiana nel 1936. Quinto rapporto annuale, Lugano, Ente Autonomo per la Radiodiffusione nella Svizzera italiana, 1936, p. 7). E, a proposito delle iniziative di promozione dell’ascolto attraverso il decentramento nelle varie località sul territorio e per mezzo delle pubblica-zioni, lo stesso rapporto non mancava di esporre la giustificazione: «Nella Svizzera interna talune di queste nostre manifestazioni realizzate in stretta collaborazione con la “Pro Radio”, non sono state comprese o sono state giudicate poco opportune. Ma è una critica che non tiene conto della situa-zione particolare del nostro Cantone, dove sono sempre mancate o quasi orchestre stabili, spettacoli teatrali pubblici, ed altre manifestazioni culturali del genere. Ciò impone a noi il doveroso sforzo di ravvivare, e spesso di creare per la prima volta, quelle possibilità di collaborazione indispensabili allo Studio di Lugano, tutte cose che richiedono almeno l’opera di propaganda» (p. 8).

124 «Radioprogramma», v, 22 (29 maggio 1937), p. 9. Si veda pure Piccardi, Musica e cittadi-nanza artistica: il caso svizzero, pp. 37-38; anche in Music and Artistic Citizenship: In Search of a Swiss Identity, p. 278.

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In verità la Svizzera, unico paese di cultura tedesca non sottomesso alle censure di regime, in quegli anni era diventata la piattaforma di lancio dei messaggi artistici condannati e proibiti dal nazismo. Degno di nota è il fatto accertato che Dallapiccola poté accedere all’ascolto di Lulu proprio grazie alla nostra radio.125 Ciò si collega alle Tre Laudi per voce e 13 strumenti presentate al v Festival Internazionale di Musica Con-temporanea di Venezia l’8 settembre 1937 dirette da Nino Sonzogno, che il composi-tore nel suo diario menziona per le esecuzioni del 1938 alla bbc di Londra (dirette da Hermann Scherchen) replicate a Hilversum e Parigi, e pure a Lugano (quindi a Radio Monteceneri) il 10 giugno;126 Tre Laudi in cui l’autore stesso ha riconosciuto «il primo passo sulla strada verso la dodecafonia, strada che nel 1936 [...] era la più ardua che si potesse immaginare. Non c’erano, allora, se non voci ostili alla scuola di Vienna; non c’era nessuno a cui potessi ricorrere per consigli o per suggerimenti; non c’erano scritti sul sistema che mi interessava e mi attraeva».127 Questi fatti andrebbero a rinforzare la configurazione in loco di un singolare orientamento di palese radicalità artistica.

Carlo Piccardi

125 Fiamma Nicolodi, Luigi Dallapiccola e la Scuola di Vienna: considerazioni e note in margine a una scelta, «Nuova Rivista Musicale Italiana», xvii, 3-4 (luglio-dicembre 1983), p. 517; anche in Fiamma Nicolodi, Orizzonti musicali italo-europei 1860-1980, Roma, Bulzoni, 1990, p. 263.

126 Alberti, La giovinezza sommersa di un compositore, Luigi Dallapiccola, p. 290. In verità nella trasmissione del 10 marzo tra i quattro pezzi diretti da Scherchen (di Locatelli, Malipiero, Verdi e Eisenmann) il «Radioprogramma» omette di indicare la composizione di Dallapiccola. Si tratta certamente di un disguido, poiché è assodato che le Tre Laudi ne facessero parte, figurando insieme con gli altri pezzi nella sezione “Svizzera – Monte Ceneri” del «Radiocorriere» (1938, 10, p. 43), l’organo della radio italiana di quella settimana. Comunque il settimanale della stazione assicurò una particolare evidenza a questa prima presenza del maestro tedesco, riservandogli un articolo di presentazione in cui, oltre a sottolineare la sua dedizione a Schönberg, ne illustrava il ruolo prota-gonistico nell’ambito del sostegno alla creazione musicale moderna: «A Berlino fondò la “Nuova Società Musicale”, fu redattore della rivista musicale “Melos” sostituita poi da “Musica viva”. Nel 1929 espose la sua ricca esperienza nell’arte del dirigere in un pregevolissimo trattato Lehrbuch des Dirigierens: Hermann Scherchen è assai più di un semplice virtuoso della bacchetta; il dirigere è per lui una missione, un culto dell’opera d’arte. Svolse la sua attività inoltre, a Riga, alle “Feste Musica-li” di Donaueschingen; fu direttore musicale generale della radio di Königsberg, riorganizzatore del-la vita musicale di Winterthur, direttore ospite in patria e all’estero ed apprezzatissimo organizzatore di corsi per direttori d’orchestre a Strasburgo, Parigi, Cambridge, Bruxelles. La nuova generazione dei giovani artisti, lo apprezza e lo ama» (Hermann Scherchen, «Radioprogramma», V, 10, pp. 2-3).

127 Citato in Mario Ruffini, L’opera di Luigi Dallapiccola. Catalogo Ragionato, Milano, Edizioni Suvini Zerboni, 2002, p. 119. Questa composizione, in cui appare per la prima volta una serie dodecafonica completa, sarebbe una «protesta in forma religiosa contro le aberrazioni della politica fascista» (cfr. Everett Helm, Luigi Dallapiccola in einem unveröffentlichten Gespräch, «Melos», ii, 6, 1976, p. 471), mentre la sua presa di posizione affermata in una conferenza nel 1936 secondo cui «l’arte di Schönberg è da considerarsi soprattutto fenomeno anti-borghese» ha portato Ruffini a sostenere che «la dodecafonia sarà da questo momento in poi il manifesto imprescindibile dell’an-tifascismo di Luigi Dallapiccola» (Ruffini, Luigi Dallapiccola e le Arti figurative, pp. 52-52). È da segnalare anche che il contatto di Rognoni con Radio Monteceneri stimolò l’amico ad approfittarne per proporre sue composizioni su quell’antenna: «Carissimo, ti immagino in procinto di fare le va-ligie e di partire per Lugano. È per questa ragione che ti indirizzo queste due righe. Se hai occasione di parlare di me al M° Leopoldo Casella, fallo. Potrei eventualmente dirigere il Divertimento (se hanno una cantante molto brava) oppure presentare gli Inni se mi danno due pianisti – musicisti davvero in gamba. Epoca: verso la metà di giugno. Anche nel caso ti rispondessero coppe ti prego di scrivermi una parola di risposta» (lettera a Rognoni del 12 maggio 1938, pubblicata in Elisabetta Ragusa, Luigi Rognoni e Luigi Dallapiccola. Il carteggio (1935-1974), dottorato di ricerca, Università degli Studi di Ferrara, 2010, p. 121, accessibile online). Leopoldo Casella era il direttore della locale

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Un altro evento memorabile si ebbe il 28 maggio 1938 quando l’Opernhaus di Zurigo mise in scena Mathis der Maler, l’opera di Paul Hindemith impossibilitata a trovare la via dei teatri tedeschi. Per quanto il suo linguaggio non giungesse alle soluzioni radicali degli espressionisti viennesi che avevano concepito la dodecafonia, la sua affermazione negli anni della Repubblica di Weimar e la sua capacità di porsi in sintonia con la modernità audace dei costumi l’avevano condotto ad essere addi-rittura un bersaglio personale di Hitler. La Sinfonia ricavata dall’opera poté essere presentata da Wilhelm Furtwängler in un concerto dei Berliner Philharmoniker nel marzo 1934, ma quando al celebre direttore giunse la decisione ministeriale di vietare il suo previsto allestimento scenico alla Staatsoper, egli si dimise dalle sue varie cariche suscitando un caso clamoroso.128 In verità il fatto che l’opera fosse centrata sulla figura storica del pittore Mathias Grünenwald collocato nel clima repressivo della sua epoca, costretto a misurarsi con il potere dello stato e della Chiesa,129 non poteva sottrarsi alla parallela condizione di conculcamento delle coscienze da parte della dittatura. In quell’occasione Radio Beromünster non mancò di essere presente all’evento garan-tendo la diffusione del relativo messaggio via etere.130

Modernità importata

È soprattutto da rilevare come la necessità di farsi valere con offerte di qualità competitiva a livello perlomeno nazionale inducesse Radio Monteceneri a compensa-re la mancanza in loco di figure musicali all’altezza della situazione aprendo le porte a personalità straniere residenti od occasionalmente presenti nella regione che, in quegli anni problematici di migrazione forzata, erano particolarmente numerosi. Il caso di Ernst Krenek (1900-91) è uno dei più interessanti. Prima ancora di trovare accoglienza in Svizzera, dopo che la sua musica fu messa al bando nella Germania nazista, egli aveva frequentato il Ticino già negli anni Venti. Esponente di prima fila dell’avanzato ambiente musicale berlinese si affermò come autore del fortunato John-ny spielt auf (1926), l’opera che più di ogni altra sintetizzò la dimensione sonora della modernità. Vi era rappresentata l’emancipata condizione urbana convertita al prima-to della tecnica e dei modi di vita che ne derivavano l’efficientismo e la produttività quantitativa finalizzati a un benessere misurabile attraverso l’appagamento fisico da cui era essenzialmente bandita la disposizione contemplativa, integrandovi le forme ballabili del nuovo mondo che in Europa erano sbarcate come messaggere del jazz, notoriamente inviso ai nazisti.

Presenze artistiche e culturali dal nord

orchestra radiofonica, ma la proposta non ebbe seguito. Invece Dallapiccola fu eseguito più volte da Edwin Loehrer e dal suo coro. Troviamo Due cori di Michelangelo Buonarroti il Giovane («Coro delle malmaritate» e «Coro dei malammogliati») trasmessi il 29 marzo 1946 e replicati il 6 dicembre 1946, il 17 giugno 1947 e il 19 dicembre 1949. Inoltre negli anni Quaranta la rsi produsse Rence-svals con il contralto Margherita De Landi e Riccardo Malipiero al pianoforte (15 febbraio 1949), nonché Cinque frammenti di Saffo sempre con la De Landi 13 febbraio 1949.

128 Misha Aster, Das Reichsorchester, München, Siedler Verlag, 2007 (trad. it., L’orchestra del Reich. I Berliner Philharmoniker e il Nazionalsocialismo, Varese, Zecchini, 2011, pp. 46 e 228).

129 Marco Moiraghi, Paul Hindemith. Musica come vita, Palermo, L’Epos, 2009, p. 203.130 Il «Radioprogramma» della radio luganese, che dava notizia dei programmi delle altre sta-

zioni svizzere e di quelle straniere, non mancò di menzionare l’evento (28 maggio 1938).

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Krenek testimoniò un primo contatto con la Svizzera italiana già nel 1923, rappresentando Lugano addirittura come una “Traumstadt”. Nel suo diario il mu-sicista descrive la prima traversata in treno delle Alpi provenendo da Winterthur in compagnia di Anna Mahler, la figlia del grande compositore che di lì a poco sarebbe diventata sua moglie. Dopo il passaggio dalla galleria del San Gottardo, ecco le sue impressioni da Airolo in poi:

Se in un primo momento sui campi della valle sempre più larga apparivano ancora macchie di neve, ora non c’era proprio più nessuna neve, ora vedevamo i primi castagni, ed ora appariva il sole attraverso i vapori che si dissolvevano, aprimmo le finestre del vagone e respirammo l’aria balsamica di una perfetta giornata di primavera, appena un’ora dopo aver faticosamente calpestato la massa di neve che ricopriva il tetro e ghiacciato marciapiede della stazione di Göschenen. Presto il treno raggiunse Bellinzona e Lugano, la città di sogno con palme sulla riva del lago intensamente blu, circondato da monti coperti di neve dai dolci e classici contorni, coronato dal cono del Monte San Salvatore, molto simile al pan di zucchero di Rio de Janeiro. Dall’altra parte del lago appariva il dominante massiccio del Monte Ge-neroso risplendente nella magica luce purpurea di una sera d’inverno, una vista che non dimenticherò mai. Allora ero del tutto convinto che la Svizzera fosse il paese più prossimo al paradiso, e credo ancora sempre che ciò sia più di un modo di dire.Un’originale combinazione di fattori geografici procura al versante meridionale delle Alpi condizioni climatiche che si possono ritrovare solo a centinaia di chilo-metri a sud. La successiva distesa del Norditalia ha poco dell’incantevole dolcezza delle zone che attorniano i laghi, distribuiti in piccolo numero nelle valli, dove i fiumi lasciano dietro di sé il massiccio alpino subito declinante. Milano ci apparì fredda e opaca, cosicché vi trascorremmo solo poco tempo, quello che bastava per una visita alla famosa pinacoteca di Brera, e poi ritornammo velocemente verso Vienna, passando per Venezia, di cui in quell’occasione non vedemmo nulla.131

Nel 1925 Krenek stabilì una relazione con Ascona dove incontrò Ernst Toller132 e dove dimostrò simpatia per Jakob Flach, singolare figura facente parte della geografia umana di artisti marginali che caratterizzavano la regione come luogo di esperienze alternative se non proprio esoteriche.133

Carlo Piccardi

131 Ernst Krenek, In Atem der Zeit. Erinnerungen an die Moderne, Hamburg, Hoffmann und Campe Verlag, 1998, pp. 404-405.

132 Ivi, p. 530.133 Ivi, pp. 530-533. Jakob Flach, nato a Winterthur nel 1882, aveva prestato servizio militare

durante la mobilitazione nel 1915 ad Ascona. Si innamorò a tal punto del luogo da trasferirvisi negli anni Venti. Partecipe della stimolante vita culturale animata dalla variopinta colonia artistica del borgo verbanese, nel 1937 fondò – con la scultrice olandese Mischa Epper, il pittore bernese Fritz Pauli e il pittore-scultore-architetto di Winterthur Werner Jakob Müller – il Marionettentheater Asconeser Künstler come banco di prova della sintesi di tutte le arti, che acquistò discreta fama non solo presso il pubblico locale ma anche nel resto della Svizzera. Attivo fino al 1961, particolare cura egli riservò alla musica assicurando ai suoi allestimenti i contributi originali di compositori quali Peter Merz, Peter Haas, Lukas Maria Valentin, Leo Kok, Hermann Silzer e Rolf Liebermann nel periodo all’inizio degli anni Quaranta trascorso dal compositore zurighese come allievo di Vogel in quel di Ascona (Edmund Stadler, Teatro e danza ad Ascona, in Le mammelle della verità, pp. 128-137). Un suo ritratto piuttosto perfido ma non senza una punta di verità fu tracciato da Filippo Sacchi, il giornalista riparato in Svizzera dopo l’8 settembre 1943, il quale, oltre a definirlo «buratti-naio snob e surrealista», lo definì «fenomeno di gonfiatura letteraria, tenuto su da una ben bilanciata organizzazione di autoreclamismo, di relazioni giornalistiche e di snobismo locale» (Filippo Sacchi, Diario 1943-1944. Un fuoruscito a Locarno, a cura di R. Broggini, Lugano, Giampiero Casagrande

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La sua prima apparizione allo studio radiofonico di Lugano risale al 1937, quando fu invitato a salire sul podio della Radiorchestra a dirigere la Suite op. 43a dalle musiche di scena per Der Triumph der Empfindsamkeit di Goethe e l’intermezzo Estremadura dall’opera Karl V in aggiunta a due composizioni pianistiche (Due suites op. 26 e Fünf Klaviersstücke op. 39).134 Il brano più significativo era certamente co-stituito dall’intermezzo dell’opera centrata sul grande imperatore, la cui rappresenta-zione era diventata impossibile in Germania. Commissionatagli da Clemens Krauss, direttore della Wiener Staatsoper, a causa delle circostanze politiche non sarebbe però potuta giungere alla sua naturale destinazione nella capitale austriaca. Composta tra il 1931 e il 1933 l’opera, di cui il compositore stesso curò il libretto, esaltava infatti la figura di Carlo v visto come unificatore del mondo cristiano di fronte a Lutero e alla sua riforma identificata come espressione divisiva del nazionalismo. Benché la scelta dell’argomento non avesse il carattere di manifesto politico ma mirasse ad af-fermare il valore dell’umanesimo cristiano nel quadro di una visione spirituale,135 non era possibile mantenervi un atteggiamento del tutto neutro di fronte all’incalzante procedere degli eventi. Non per niente vi compare il Chor der Deutschen («Wir aber wollen Deutsche sein, nicht Weltbürger!»), mentre la brutale irruzione dei lanziche-necchi al grido di «Deutsch der Glaube, deutsch das Reich in alle Zeit und Ewigkeit» e con l’incitamento di «non senti il tamburo attraversare l’intera terra tedesca» non poteva non collegarsi all’aggressivo e feroce dilagare delle “Sturmbrigaden” del nuovo regime.136 Inizialmente prevista per essere rappresentata con grande lancio a Vienna e contemporaneamente in un teatro tedesco, la situazione politica creatasi con l’avven-to del nazismo in Germania determinò polemiche e dilazioni che ne vanificarono la realizzazione.137 Karl V avrebbe trovato la via della scena successivamente, nel 1938, a Praga, benché fuggevolmente e senza la presenza del compositore prima che la cappa censoria del nazismo calasse anche sulla capitale della Cecoslovacchia. Per Lugano si trattava quindi di una primizia, non solo in quanto tale intermezzo era stato dato in prima esecuzione un anno prima a Barcellona sotto la direzione di Ernest Ansermet nel contesto del Festival della Società internazionale di musica contemporanea,138

Presenze artistiche e culturali dal nord

Editore, 1988, pp. 63 e 156). Alcune composizioni di Lukas Maria Valentin (nato a Berlino nel 1907 da genitori svizzeri e trasferitosi a Verscio nel 1937) destinate ai suoi lavori sono conservate nel fondo delle Ricerche Musicali nella Svizzera italiana presso l’Archivio di Stato a Bellinzona.

134 «Radioprogramma», 4 marzo 1937.135 John L. Stewart, Ernst Krenek. The Man and his Music, Berkeley / Los Angeles / Oxford,

University of California Press, 1991, pp. 154-158.136 Wolfgang Rogge, Ernst Kreneks Opern. Spiegel der zwanziger Jahre, Wolfenbüttel / Zürich /

Hamburg, Möseler Verlag / Vera Verlag, 1970, pp. 113-117. A proposito della scelta stilistica è inte-ressante notare che Clemens Krauss incitava il compositore a riservare la parte più dissonante della scrittura ai protestanti. Nonostante il fatto che egli ritenesse ingenua la pretesa dell’amico in qualche modo ne tenne conto (Claudia Maurer Zenck, Schöne und “scheene” Musik, in Ernst Krenek, a cura di H.-K Metzger e R. Riehn, München, Edition Text+Kritik (“Musik-Konzepte”, 39-40), 1984, p. 44).

137 Claudia Maurer Zenck, Ernst Krenek, ein Komponist im Exil, Wien, Lafite, 1980, pp. 77-85.138 Anton Haefeli, Die Internationale Gesellschaft für Neue Musik. Ihre Geschichte von 1922 bis

zum Gegenwart, Zürich, Atlantis Musikbuch Verlag, 1982, p. 250. Krenek ricorda l’esecuzione da lui diretta dell’intermezzo dal Karl V con l’Orchestra della rsi come «cosa che mi procurò molta gioia», dopo aver menzionato l’esecuzione all’Aia diretta da Georg Szell, quella a San Gallo diretta da Othmar Schoeck e quella da lui ritenuta insoddisfacente diretta a Winterthur da Hermann Scherchen (Krenek, In Atem der Zeit, pp. 926-927).

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ma soprattutto in quanto esso confrontava per la prima volta gli ascoltatori con la dimensione della dodecafonia, come faceva risaltare (anche se con approssimazione terminologica) l’articolo di presentazione, attribuibile a Vinicio Salati allora investito di tale funzione:

Il primo frammento Estremadura è l’intermezzo musicale fra la prima e la seconda parte dell’opera complessiva. Esso caratterizza un momento di pausa, di distensio-ne nel mezzo di tutta l’azione. Alla fine della prima parte, l’imperatore gravemente malato, sotto la violenza delle sue azioni politiche e della sua responsabilità e di fronte al grave significato della storia, sviene. Tutta la musica si sviluppa su di una scala di 12 suoni completi.139

Indipendentemente dall’espressione di quiete evocata nell’intermezzo dell’opera con la funzione ambientale di contrassegnare musicalmente il paesaggio dell’Estremadura che fa da contorno al convento di San Jerónimo de Yuste residenza dell’imperatore, si trat-tava pur sempre di un linguaggio radicale innervato da tensioni capaci di trasmettere un senso di lacerazione portato all’estremo. È allora stupefacente che in quello scorcio di tempo alla rsi maturasse una congiuntura che nel nome del verbo dodecafonico man-dava in un certo senso un messaggio di “resistenza” perlomeno spirituale alla pressione esercitata dalle ideologie delle confinanti nazioni totalitarie.140 Allo stesso titolo, stante la riflessione di Heinz-Klaus Metzger secondo il quale il fatto che Karl V di Krenek, Lulu di Berg e Moses und Aron di Schönberg apparissero simultaneamente costituiva una costellazione senza paragoni nella storia del comporre,141 fa sicuramente specie tro-vare tali opere in qualche modo legate a Lugano (considerando quanto già rilevato sul capolavoro di Schönberg iniziato proprio nella città sul Ceresio). Se poi teniamo conto che negli stessi anni Vogel componeva il già menzionato Thyl Claes, da annoverare fra le manifestazioni della protest music (riservandone come abbiamo visto il primo assaggio alla radio luganese e per di più compiendovi nella seconda parte il passaggio alla scelta dodecafonica) avremmo un’ulteriore configurazione centrata sul Ticino di significative manifestazioni radicali pulsanti nello spirito del tempo.

Orbene Krenek fu coinvolto anche nell’inaugurazione del nuovo studio ra-diofonico del Campo Marzio, che avvenne il 6 novembre in una cerimonia in cui i discorsi di circostanza furono inquadrati dall’esecuzione da parte della Radior-chestra diretta da Otmar Nussio della Jubel-Ouvertüre op. 59 di Carl Maria von Weber e della sinfonia del Guillaume Tell di Rossini. La rsi sottolineò l’evento commissionando due composizioni, che però sarebbero state trasmesse cinque gior-

Carlo Piccardi

139 «Radioprogramma», v, 9 (27 febbraio 1937), p. 3.140 È possibile che la presenza del compositore austriaco a Lugano con un simile programma

fosse da mettere in relazione anche con la sensazione che avevano suscitato le sue conferenze a Zuri-go tre anni prima, oggetto di riflessione in suo favore da parte di Willi Schuh nella rivista dell’Asso-ciazione svizzera dei musicisti (Willi Schuh, Zur Zwölftontechnik bei Ernst Krenek, «Schweizerische Musikzeitung», lvviv, 1934, pp. 217-233).

141 Heinz-Klaus Metzger, Plus ultra. Notizen zu Kreneks Karl V, in Ernst Krenek, p. 60. Estenden-do tale florilegio operistico a Mathis der Maler di Hindemith, il Danuser vi ha identificato una con-giuntura riferibile al concetto di “Bekenntnisoper”, che potremmo tradurre come “opera-manifesto” (Hermann Danuser, Die Musik des 20. Jahrhunderts, Laaber, Laaber-Verlag, 1984, p. 234).

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(32) L’Orchestra della Radio della Svizzera italiana, diretta da Leopoldo Casella, al lavoro nel 1935 (asl, Fondo Vincenzo Vicari); (33) Vinicio Salati nella regia dello studio radiofo-nico al Campo Marzio negli anni Quaranta con l’annunciatore Mario Saladin (conservata dalla figlia Zoe Markus-Salati).

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(34) Margherita De Landi; (35) Vinicio Salati in una fotografia giovanile conservata dalla figlia Zoe Markus-Salati; (36) Vinicio Salati ritratto nel 1935 in un dipinto di Hans Grundig (1901-58) conservato al Museo dell’Hermitage di San Pietroburgo.

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ni dopo, una a Walter Jesinghaus chiamato ad interpretare una serie di Leggende ticinesi ispirate a fiabe raccolte da Giuseppe Zoppi e Virgilio Chiesa (musicalmente restituite nei termini di un descrizionismo ancora tardoromantico), l’altra a Ernst Krenek appunto, con l’ouverture Campo Marzio op. 80.

Particolarmente significativa risultava la posizione della rsi nei confronti del maestro austriaco nella sottolineatura con cui, ricordando che le composizioni piani-stiche da lui presentate nel concerto del 4 marzo 1937 avevano visto la luce durante un suo soggiorno in Svizzera nel 1924-26, precisava che «alcuni pezzi delle Suites op. 26 [erano stati scritti] sotto l’azzurro del nostro cielo a Locarno ed a Bedigliora».142 Ancora una volta si trattava quindi di una forma di annessione mirante a compensare la mancanza in loco di esponenti di quella modernità di cui il nuovo mezzo di co-municazione si profilava come portatore. Non è un caso che le «due primizie» diffuse l’11 novembre (così furono presentate le composizioni commissionate per l’occasio-ne)143 si riferissero quasi programmaticamente ai due poli antitetici della realtà locale, quello delle tradizioni rurali ancora molto sentite (le Leggende ticinesi di Jesinghaus) e quello delle nuove forme di aggregazione intorno ai moderni riti sportivi (Campo Marzio di Krenek). Se altrove la radio si accontentava di amplificare la risonanza di massa che arrideva allo sport, nella Svizzera italiana essa era arrivata addirittura a far-sene promotrice e a diventarne direttamente il vettore, come dimostra l’organizzazio-ne della corsa ciclistica “Coppa Pro Radio” disputata la prima volta nel 1933, che la rsi propose per alcuni anni acquisendo con la popolarità anche l’identificazione tra il nuovo mezzo di comunicazione e una manifestazione legata alla realtà metropolitana e tecnologica.144 In verità Campo Marzio ricavava il titolo non tanto dal luogo in cui sorgeva l’edificio, quanto dal campo di calcio attiguo nel quale giocava la squadra del Lugano allora già assurta a statura nazionale, adiacente al punto che le partite potevano essere seguite dai cronisti direttamente dal tetto dello studio innalzato come tribuna di fronte al campo. L’allusione era quindi al fatto sportivo nei suoi connotati di dinamismo e di oggettivata fisicità non a caso cresciuto parallelamente alla rivo-luzione industriale, per cui il pezzo si collocava nel filone compositivo rappresentato da Half-Time (1924) di Bohuslav Martinů, Rugby (1928) di Arthur Honegger e altre composizioni simili riferite allo sport di massa.

Ebbene, in occasione della replica delle due composizioni il 20 gennaio 1939, Jesinghaus stesso si trovò a commentare il contrasto programmatico tra i due momenti musicali:

Krenek è il sintetico, meccanico e cerebralissimo musicista, calcolatore e chimico dell’armonia, istrumentatore bizzarro sino ad absurdum. Jesinghaus è il robusto e sensibile musicista, ammiratore del canto popolare dall’espressività semplice e sentita attraverso il sentimento e l’amore per la natura. [...] Campo Marzio di Krenek non è una ouverture di stile ottocentesco; niente di tutto questo, ma essa caratterizza la passione irresistibile dello sport. Dunque una ouverture di stile 900, un omaggio al

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142 «Radioprogramma», v, 9 (27 febbraio 1937), p. 3.143 «Radioprogramma», vi, 45 (5 novembre 1938), p. 10.144 Marco Marcacci, Lo sport, fattore di modernizzazione sociale e culturale?, «Archivio Storico

Ticinese», 133 (giugno 2003), p. 16.

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giuoco del calcio. Già il titolo simbolico Campo Marzio dice agli ascoltatori di più di qualunque critico: la descrizione, sia anche sintetica di una partita calcistica, non esclude quel “tifo” così caro agli sportivi; dunque non vi è da meravigliarsi se le dis-sonanze, i ritmi spezzati, gli spasimi d’attesa, gli urli di giubilo e tant’altre cosucce si susseguano con ritmo accelerato, frenetico e paradossale.145

Tale giudizio è interessante e merita di essere riportato nella misura in cui rivela chiaramente come, al di là della disponibilità a confrontarsi con una proposta alter-nativa proveniente da un mondo culturale estraneo, la delimitazione dei due fronti fosse profondamente sentita. Indipendentemente dal fatto che ciò avvenisse nella “democratica” Svizzera, vi si rispecchiava la mentalità cresciuta all’ombra del fascismo mirante ad affermare i valori dell’italianità intesa come consolidamento del senso della forma, della stabilità, della positività, del rapporto con la tradizione, con il patrimonio ereditato e trasmessoci come dote che magnificava il passato, evidente-mente attecchito in una Svizzera italiana che, anche per le ragioni legate alla propria condizione di minoranza impegnata a difendere la propria prerogativa, si trovava cul-turalmente allineata con il grande vicino. Evidentemente non poteva quindi passare nell’indifferenza la presenza di Krenek, rappresentante delle espressioni radicali dell’a-vanzato fronte artistico berlinese preso di mira in patria dal nuovo regime impegnato a denunciarne la funzione disgregante al punto da bandirle come «arte degenerata». In questo senso – a contestualizzare il significato di tale presenza a Lugano – me-rita menzione la testimonianza che Otmar Nussio, direttore di quel concerto che oltretutto segnava proprio l’inizio della sua lunga collaborazione con il locale ente radiofonico, affidò alla sua autobiografia, tanto più significativa quanto più tarda (legata al ricordo) e quindi sedimentata come organica affermazione di valori cultu-rali risalenti alla propria formazione italiana, radicati e convintamente mantenuti nel tempo. In tal senso l’opinione espressa su Krenek vi spicca ancor più, nei limiti di un pregiudizio manifestato in pratica negli stessi termini accusatori che venivano rivolti dalle autorità naziste alle opere di quell’avanguardia: «Dal corpo tozzo, con una testa a boccia, era sempre intento a spiegare e giustificare la sua cerebralissima musica. La eseguiva con la stessa impassibile metodicità con cui certi scienziati svolgono i loro esperimenti di fisica».146

Carlo Piccardi

145 La cronaca, firmata «J» («Radioprogramma», vi, 3, 15 gennaio 1939, p. 5), è senz’altro di Jesinghaus, corrispondendo a un suo dattiloscritto proveniente dal suo archivio presente nel Fondo delle Ricerche musicali nella Svizzera italiana presso l’Archivio di Stato, Bellinzona (una 143/1).

146 Otmar Nussio, una vita «tutta suoni e fortuna», a cura di Tania Giudicetti Lovaldi, Locarno, Pro Grigioni italiano / Armando Dadò Editore, 2011, p. 217. Nella sua autobiografia Nussio ma-nifesta il perdurare di tale concezione estetica, legata alla sua formazione “romana” come allievo di Ottorino Respighi, anche negli ultimi anni della propria carriera radiofonica. Benché gli vada ascritta l’iniziativa di eseguire il Pierrot lunaire di Schönberg avvenuta a Lugano alla presenza dell’editore dell’Universal Edition Alfred Schlee (ivi, p. 208), riferendo sull’esperienza degli anni Sessanta nei paesi dell’est, anziché apprezzarne l’apertura progressiva all’evoluzione avvenuta in Occidente, in merito agli ascolti delle opere dei compositori cecoslovacchi che gli furono proposti da Radio Bratislava si esprimeva in termini addirittura “goebbelsiani”: «Come al solito: scoppiettii, fragori, sibili, seguiti da enigmatici silenzi, attacchi epilettici, urla della malora, tutto un inferno musicale, se la parola musicale in un contesto simile è ancora lecito impiegare» (ivi, pp. 265-266). Quanto al Pierrot lunaire da lui diretto il 27 febbraio 1947 con la recitante Annemarie Hegner, il settimanale della Radio della Svizzera italiana riportava una presentazione da lui evidentemente ispirata nei vari distinguo: «quel

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Il credito che la rsi riservò a Krenek è comunque significativo, poiché lo trovia-mo ancora segnalato alla tastiera e sul podio della Radiorchestra il 30 aprile 1938 nelle Variazioni op. 79 e nel Concertino per flauto, violino, clavicembalo e archi op. 27 (oltre che nella già nota suite op. 44a).147 La sua presenza non può essere considerata occa-sionale, nella misura in cui il piccolo ente, pur agendo in una regione sostanzialmente povera di tradizione musicale colta, osava proporre agli ascoltatori il confronto con la musica nuova in una visione decisamente europea. Innanzitutto, prima ancora che fosse invitato a salire sul podio della locale orchestra radiofonica, il suo Concertino op. 27 era già stato presentato da Leopoldo Casella il 26 luglio 1936 con i solisti Luciano Italiani (flauto), Cesare Bertoni (violino) e Nino Herschel (cembalo),148 il quale Herschel il 26 maggio 1937 diresse un “divertimento” dalla sua operetta burlesca Schwergewicht, oder die Ehre der Nation op. 55 eseguito dalla «sottoformazione orchestrale n. 1»,149 mentre lo stesso anno la rsi diffuse estratti da un’edizione discografica di Johnny spielt auf.150

D’altra parte il compositore viennese – trasferitosi negli Stati Uniti nel 1938 data la situazione politica in Germania e in Austria – non avrebbe mancato di approfittare anche anni dopo dei suoi soggiorni a Caslano per mantenere il contatto con la rsi, tant’è vero che nel doppio ruolo di compositore e pianista riapparve nel 1951 in un program-ma di musica da camera «in prima esecuzione alla rsi» negli Otto pezzi del 1946 e nella Sesta sonata per pianoforte, nonché nella Suite per violoncello affidata a Egidio Roveda.151

Singolari interazioni

La rsi fu campo d’azione di altri compositori provenienti dal nord delle Alpi, soprattutto a causa degli eventi politici che spinsero molti artisti della Germania nazista ad espatriare, come fu il caso di Will Eisenmann (1906-92), tedesco di orientamento estetico francese e pacifista (fondatore a Colonia nel 1931 della comunità di lavoro Les amis de Jean-Christophe programmaticamente collegata alla lezione europeistica di Ro-

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Pierrot Lunaire di Schoenberg che, per quanto esteticamente infecondo, rappresenta pur sempre una “pietra miliare” della moderna musica. [...] Da questo stato di cose, per fortuna, hanno tratto le debite conseguenze i maggiori musicisti contemporanei che oggi ricercano un nuovo ordine tonale al di fuori di ogni “atonalismo” il quale, inteso come fine estetico, invece di semplice mezzo tecnico, è già stato causa di troppe degenerazioni sonore [...]. Il Pierrot Lunaire è un tipico prodotto di quella crisi spiri-tuale risolto nel paradosso espressionista, opera che incarna l’eccesso della passionalità costretta nella più assoluta astrazione. La voce è aggregata qui al modesto apparato orchestrale da camera in funzione di recitazione, non di canto, ma una recitazione che non giunge ad una sostanziale rinnovazione dei valori espressivi» («Radioprogramma», xv, 8, 23 febbraio 1947, p.4).

147 Silvia Meier Camponovo, L’Orchestre et le Choeur de la Radio Suisse Italienne 1933-1939, memoria di licenza in musicologia, Università di Ginevra, 1999, p. 186.

148 Ivi, p. 166.149 Ivi, p. 175. Krenek rimase nel repertorio della Radiorchestra per tutto il decennio suc-

cessivo, anche per il versante ricreativo di alcune sue composizioni. Nel 1944, oltre a riproporre l’ouverture Campo Marzio e le musiche di scena per Der Triumph der Empfindsamtkeit, Nussio diresse le sue Drei lustige Märsche op. 44 («Radioprogramma», 22 febbraio 1944), mentre cinque anni più tardi un programma di “musica operettistica” includeva il divertimento da Schwergewicht («Radioprogramma», 24 settembre 1949).

150 Meier Camponovo, L’Orchestre et le Choeur de la Radio Suisse Italienne, p. 72. 151 «Radioprogramma», 7 novembre 1951.

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main Rolland) il quale nel 1933, al momento dell’ascesa al potere di Hitler quand’era a Parigi come allievo di Paul Dukas e di Charles Koechlin, rendendosi conto dell’inop-portunità di tornare al proprio paese scelse la via della Spagna giungendo poi in Svizzera nel 1935,152 stabilendosi a Tesserete dove rimase fino al 1950 al momento del suo tra-sferimento a Lucerna dove svolse attività didattica. La sua presenza in Ticino non passò inosservata, tanto che la polizia cantonale lo segnalò alle autorità federali come «persona sospetta» e addirittura «bolscevico» per essersi espresso negativamente nei confronti del consigliere federale Giuseppe Motta, rilevando addirittura un suo atteggiamento ostile nei confronti delle «istituzioni democratiche» svizzere. Egli fu tenuto sotto osservazione almeno fino al 1950 in quanto, dopo che gli era stata tolta la cittadinanza tedesca nel 1943, manifestava sfiducia anche nei confronti della Germania del dopoguerra, tanto da rifiutare documenti che lo integrassero nella nuova ufficialità tedesca. Il permesso di soggiorno e quello di lavoro gli furono comunque concessi nell’autunno del 1950.153 In verità la sua concezione della vita e dell’arte lo posizionavano in una visione utopistica, fondata sul pacifismo con sfumature religiose orientate verso le civiltà orientali che spiegano il rapporto personale intrattenuto con Hermann Hesse frequentato a Monta-gnola, il quale nel 1941 così ne tratteggiava la personalità:

Will Eisenmann appartiene alla cerchia dei migliori e più apprezzati talenti nella nuova musica europea; ciò è stato riconosciuto anche da numerose personalità di primo piano della vita musicale. Ciò che mi piace particolarmente di Eisenmann è la poliedricità. Al suo forte, sano istinto e al suo gusto per la vita, corrisponde una mente ben sviluppata, un’alta formazione spirituale. Soprattutto apprezzo e approvo le sue concezioni e professioni di fede sull’essenza della musica e sul posto che occupa o dovrebbe occupare nella vita, nell’educazione, nella cultura. In numerosi suoi saggi ha trovato pensieri che mi parevano molto affini ai miei. Poiché Eisenmann non è solo musicista [Musikant], compositore e pedagogo della musica, egli è anche un teorico e critico molto stimabile. La sua spiritualità si apparenta a quella dei musicisti letterati dell’epoca romantica, degli E.T.A. Hoffmann, Berlioz, Schumann.154

Oltre ad essere l’autore dell’opera Der König der dunklen Kammer su testo di Rabin-dranath Tagore e sempre su testo dello stesso filosofo indiano di Gitanjali per soprano e quartetto d’archi, Eisenmann compose Undici canti scelti da “Rubaiyat” su testi del poeta persiano Omar Ibn Ibrahim El Khayyam, che l’8 febbraio 1945 fu eseguito in uno dei menzionati concerti di musica contemporanea organizzati da Hermann Gat-tiker e che fu pubblicato dalle edizioni Ars Viva di Hermann Scherchen, suo convinto sostenitore e colui che probabilmente lo segnalò al mecenate bernese.155 Su questo lavoro il compositore redasse un testo all’intenzione di Gattiker destinato agli ascol-tatori di quel concerto, che riassume il suo idealismo: «Le sentenze di Omar sono per me particolarmente convincenti, poiché si ispirano a una filosofia del cuore, poiché

Carlo Piccardi

152 Sara Imobersteg, Deshalb oder Dennoch. Drei Wege kompositorischen Schaffens im Exil: Rudolf Semmler, Max Ettinger, Will Eisenmann, «Schweizer Jahrbuch für Musikwissenchaft / Annales Suisses de Musicologie / Annuario Svizzero di Musicologia», nuova serie, 19, 1999, pp. 14-15. Cfr. anche Othmar Fries, Will Eisenmann 60 Jahre alt, «Schweizerische Musikzeitung», cvi, 2 (marzo-aprile 1966), pp. 99-100.

153 Lanz, Neue Musik in alten Mauern, pp. 126-127.154 Ivi, pp. 128-129.155 Ivi, pp. 128-133.

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legano armoniosamente bellezza, umanità, amore universale e beatitudine dell’aldilà, poiché danno calore vitale e non solo saggezza».156 In una lettera del 6 giugno 1946 ad Aline Valangin egli si lamentava del suo isolamento in Svizzera, senza possibilità di vedere rappresentate le sue tre opere teatrali: «Delle esecuzioni della mia musica, a prescindere dalla radio, con poche eccezioni consistenti in concerti della Società internazionale di musica contemporanea, quasi niente è stato presentato nelle sale da concerto svizzere».157 In verità a lui la rsi riservò l’omaggio della prima esecuzione del Concerto in mi bemolle per sassofono e orchestra interpretato da Sigurd Rascher e di-retto da Otmar Nussio il 5 febbraio 1939,158 dopo che Leopoldo Casella gli aveva già diretto Die gläserne Wand (Davoser Impressionen),159 e dopo l’Épitaphe pour Maurice Ravel per pianoforte e orchestra che Hermann Scherchen aveva inserito nel suo primo programma approntato per Radio Monteceneri,160 mentre un’altra sua composizione (Gitanjali) fu trasmessa il 13 maggio 1941 nell’interpretazione del soprano Eva Cat-taneo e del Quartetto Monteceneri.161 Il 10 ottobre 1946 Otmar Nussio diresse la sua Musique en forme de spirale.

Alla rsi troviamo altresì Max Ettinger (1874-1951), figura di tutto rispetto della scena musicale tedesca negli anni Venti dove circolavano almeno tre sue opere teatrali (Judith, Juana, Clavigo) e dove ricoprì cariche importanti (professore di composizio-ne per film al Conservatorio Stern di Berlino) ma il quale, in quanto ebreo, all’arrivo dei nazisti fu costretto ad emigrare scegliendo la soluzione più a portata di mano, cioè trasferendosi ad Ascona trasformando la casa che possedeva in una pensione gestita in-sieme con la moglie Josi, cantante. Il divieto impostogli di svolgere attività lucrativa lo condannò all’indigenza e ad accettare l’aiuto del Verband Schweizerischer Israelitischer Armenpflegen. Il suo conseguente ripiegamento interiore, che lo portò a ripensare in termini di creazione musicale religiosa la sua origine ebraica, se da una parte lo condan-nò all’isolamento dall’altra non gli impedì di collaborare ad alcune iniziative della rsi.162

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156 Ivi, p. 132.157 Ivi, p. 128.158 Accanto al nome del compositore in evidenza figurava «Tesserete» ad attirare l’attenzione

sulla sua residenza in Ticino, mentre il concerto era annunciato come «spettacolo pubblico alla sede della rsi» («Radioprogramma», vii, 6, 5 febbraio 1939, p. 9).

159 «Radioprogramma», 12 marzo 1937.160 «Radioprogramma», 10 marzo 1938.161 «Radioprogramma», 13 maggio 1941.162 Ivana Rentsch, “Jüdische” Musik aus dem Schweizer Exil. Max Ettinger in Ascona, in La musica

nella Svizzera italiana, a cura di C. Piccardi, «Bloc Notes», 48, 2003, pp. 259-265. Il 2 aprile 1939 in un concerto della Radiorchestra diretta da Otmar Nussio la rsi trasmetteva la sua trascrizione di Ca-priccio pastorale, Corrente, Fughetta, Canzona, Corrente, Fuga di Frescobaldi mentre, sempre dirette da Nussio, il 1° gennaio 1941 furono trasmesse le sue trascrizioni di un Concerto per flauto e archi di Padre Martini e di una Sonata per archi di G.B. Pescetti, mentre diretti da Edwin Loehrer il 21 marzo 1941 vennero diffusi due dei sei salmi di Benedetto Marcello (In Domine confido e di Domine, quis habita-bit) trascritti in edizione moderna che gli erano stati commissionati. Il 19 dicembre 1943 ne vennero diffusi cinque: In Domine confido, Iudica me Deus, O Signor, chi sarà mai, Quemadmodum desiderat cervus, I cieli immensi narrano. Inoltre la rsi riservò a Ettinger almeno l’esecuzione della Sonatina per due violini, presentata da Corrado Baldini e Carlo Colombo («Radioprogramma», 16 febbraio 1939) e di alcuni suoi Lieder interpretati da Simon Bermanis («Radioprogramma», 13 maggio 1947). Ettinger collaborò anche con la danzatrice Charlotte Bara attiva al Teatro San Materno di Ascona fornendo la musica per alcune sue interpretazioni. Tali composizioni sono conservate nel Fondo delle Ricerche musicali nella Svizzera italiana presso l’Archivio di Stato a Bellinzona (segnatura una 220/19).

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Per quanto riguarda i compositori di origine israelitica non si può mancare di segnalare Ernest Bloch (1880-1959), la maggiore personalità che segnò la rinascita dell’orgoglio ebraico in musica nel Novecento, ginevrino di nascita e quindi non esule, il quale risiedette a Roveredo Capriasca dal 1930 al 1934. Non direttamente minacciato in quanto svizzero dal problema razziale, il deteriorarsi della situazione in Europa nei confronti dei suoi correligionari lo indusse comunque nel 1938 a scegliere precauzionalmente la via degli Stati Uniti (dove si era trasferito una prima volta nel 1916 ottenendone anche la cittadinanza). L’avvisaglia maggiore del precipitare degli eventi venne nel maggio 1937 quando una scelta di sue partiture non mancò di essere additata a Düsseldorf nell’esposizione sulla «Entartete Musik» voluta dal ministero della propaganda nazista. A distanza di pochi anni dall’esecuzione del suo Servizio sacro ebraico nella nuova sinagoga di Berlino (il 24 giugno 1934) non era più tempo di illusioni. In una lettera a Lilian Hodghead il 22 marzo 1935 il compositore si era reso conto chiaramente di dove avrebbe portato il regime instaurato in Germania: «Alors, avec ou sans Hitler [...] ils jailliront soudain, sans déclaration de guerre, sans respect des lois, sans rien respecter, comme des barbares qu’ils sont. Ce sera rapide!».163

La rsi non fece in tempo a garantirsi la sua diretta collaborazione, ma è im-portante attirare l’attenzione sul fatto che la Radiorchestra diretta da Leopoldo Ca-sella eseguì il suo noto Concerto grosso il 6 aprile 1935 e i Four Episodes il 5 dicembre in un programma presentato come «Dimostrazione avanguardista allo studio di Lu-gano» insieme con composizioni di Stravinsky, Martin, Martinu, Fauré, Debussy, Roussel, Milhaud.164

Un’altra figura di artista che nel 1933 lasciò la Germania non esattamente come perseguitato politico o razziale ma per la difficoltà ad adattarsi alla nuova situazione cul-turale fu Rudolf Semmler (1904-88), approdato a Breganzona in virtù della relazione con la danzatrice svizzera Ida Hardmeyer, conosciuta col nome d’arte Eve Hard. Can-tante e pianista attivo nei cabaret, vi si ritirò nella tenuta del padre della moglie dedican-dosi al lavoro agricolo ma riservando spazio all’attività di compositore. Il 27 settembre 1937 al Teatro Kursaal di Lugano curò la prima esecuzione dell’oratorio Diario degli ultimi anni di vita di Torquato Tasso su libretto del suocero Paul Hardmeyer (scomparso due anni prima).165 Nel lavoro scritto in lingua italiana l’autore si identifica col poeta rinascimentale prendendo la tragedia esistenziale del Tasso come simbolo del proprio

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163 «Je suis la situation dans le monde, qui devient plus effrayante chaque jour. C’est terrible à dire, mais je crois que pour la guerre contre l’Allemagne, le plus tôt sera mieux. Malheureusement cela n’arrivera pas. Les Françaix sont désespérément pacifistes, comme la Russie. L’Angleterre est aussi effrayée. Et les u.s. sont les pire couards et les pires égoïstes. Mais tous devront bientôt payer leur faiblesse et leur stupidité. [...] Ils envahiront la France, l’Angleterre, l’Italie, puis, avec l’aide de la Pologne et du Japon, ils envahiront la Russie, et ensuite les u.s.» (Joseph Lewinsky-Emmanuelle Dijon, Ernest Bloch. Sa vie et sa pensée, iii. Le retour en Europe, Genève, Slatkine, 2004, p. 373).

164 Carlo Piccardi, L’occhio del compositore. Ernest Bloch tra Ticino e Italia, Lucca / Lugano, Libreria Musicale Italiana / Fidia Edizioni d’Arte, 2009, p. 21; si veda anche Carlo Piccardi, Le interrotte speranze di Ernest Bloch, in Musica e musicisti a Napoli nella prima metà del Novecento, Atti del Convegno internazionale (Napoli, 21-23 maggio 2009), a cura di P. P. De Martino e D. Tortora, Napoli, Istituto italiano per gli studi filosofici, 2012, pp. 107-111.

165 Imobersteg, Deshalb oder Dennoch, pp. 16-17. La presentazione a Lugano del lavoro di Semmler non è menzionata nel pur documentatissimo lavoro di Mario Agliati (Il Teatro Apollo di Lugano, Lugano, Istituto Editoriale Ticinese, 1967), ma è accertata dal programma di sala conser-vato nel Fondo delle Ricerche musicali nella Svizzera italiana presso l’Archivio di Stato a Bellinzona.

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destino. Oltre al soprano luganese Hilda Cravenna e al tenore zurighese Willy Wind vi collaborò un quartetto d’archi di Milano con l’autore al pianoforte e alcuni compo-nenti del Coro Santa Cecilia di Lugano. Ancora una volta la rsi si mise a disposizione, riproponendo il lavoro in trasmissione il 5 marzo 1938 con la stessa Cravenna ma con «Rodolfo Semmler» in qualità di tenore, con Nino Hershel al pianoforte e con il coro e gli archi dell’Orchestra della rsi sotto la direzione di Edwin Loehrer.166 Il rapporto di Semmler con la rsi produsse nel 1942 l’interessante iniziativa delle “Serenate di Luci-no” (dal nome del quartiere in cui era situata la tenuta ereditata dall’Hardmeyer). Tra il 17 giugno e l’8 luglio, nel giardino di quella residenza privata la Radiorchestra diretta rispettivamente da Otmar Nussio, Leopoldo Casella, Rudolf Semmler e Walter Lang, fu impegnata in altrettanti concerti all’aperto.167

Il concerto all’aperto era però anche un mezzo per uscire dai luoghi deputati della musica e quindi per tentare proposte fuori dell’ordinario, per affrontare opere che non appartenevano al repertorio corrente. In generale non si può dire che l’Histoire du soldat di Stravinsky, risalente a un quarto di secolo prima, fosse propriamente un’ope-ra fuori del repertorio, ma certamente lo era per quella specifica situazione. In ogni caso, anche in questa circostanza, la sollecitazione venne dalle relazioni intessute con i residenti alemannici portatori di una cultura musicale assai più articolata rispetto alla consuetudine locale. Alla “Panera” di Sorengo, alle porte di Lugano, nel giardino della casa patrizia messa a disposizione dalla facoltosa proprietaria Josefa von Riedemann il 16 maggio 1943 Otmar Nussio, alla testa degli strumentisti della Radiorchestra concer-tò l’allestimento della fiaba russa di Stravinsky nel testo di Ramuz recitato nell’originale francese. Per la parte del lettore si fece capo a Fernando Corena, ormai integrato ai com-plessi musicali della rsi in cui spiccava per la pienezza smagliante della sua voce di basso che lo predisponeva ai ruoli cruciali dell’opera italiana, ma pur sempre ginevrino di nascita e quindi lieto di potersi esprimere nella lingua madre, coadiuvato da Jean Bard e Gabriel Cattand nella parte del diavolo rispettivamente del soldato, e di Lisa Czobel nella parte della principessa, la quale aveva ideato anche la coreografia. Oltretutto, nella sua carriera successiva sulle scene dei teatri d’opera di tutto il mondo, soprattutto nei ruoli comici, sarebbe stata evidenziata la sua dote di attore tutt’altro che secondaria rispetto alla pregevole attrezzatura vocale di cui disponeva.168

Per quanto realizzato nei termini minimali richiesti, lo spettacolo dovette riceve-re un tocco particolare dalla regia firmata da Hans Curjel, già drammaturgo alla celebre Kroll-Oper di Berlino il quale, come molti altri esponenti delle avanguardie tedesche, aveva dovuto lasciare la Germania nel 1933, e al pari di molti altri artisti dispersi si trovava a disseminare schegge delle esperienze maturate in quel mitico laboratorio ber-linese nei posti più distanti dalla cultura di quella capitale. Storico dell’arte, scenografo, regista (allestitore della versione abbreviata della Mahagonny di Brecht e Weill nel 1932

Presenze artistiche e culturali dal nord

166 «Radioprogramma», 5 marzo 1938.167 Semmler vi fu impegnato il 1° luglio come pianista accompagnando i solisti del Coro della

rsi in quartetti, duetti e assoli vocali di Monteverdi, Caldara, Marcello, Pergolesi («Radioprogram-ma», 1 luglio 1942).

168 Nella sua autobiografia Nussio così lo ricorda: «Nel coro della rsi c’era un giovane di sta-tura normale, un essere pacifico, con una faccia piuttosto massiccia dal colorito giallognolo e con degli occhi costantemente semichiusi, cosicché non si sapeva mai se facesse sul serio o se sorridesse. Accovacciato nudo, con le gambe incrociate, avrebbe potuto benissimo raffigurare un Budda. Aveva una bella e potente voce di basso» (Otmar Nussio, una vita «tutta suoni e fortuna», p. 155).

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e il primo ad accogliere Brecht al suo ritorno dagli Stati Uniti affidandogli nel 1948 l’al-lestimento della sua versione di Antigone nel teatro della città di Coira di cui era in quel momento direttore), Curjel ricopriva in quegli anni l’incarico di regista principale del Teatro Corso a Zurigo.169 Più che la cronaca di Jesinghaus, genericamente compiaciuta della riuscita dell’«arditissima fiaba letta, recitata e danzata»,170 in merito vale la pena di riportare gli appunti di uno spettatore particolare, Felice Filippini. Il giovane pittore da poco alla ribalta per le scelte anticonformistiche e il quale di lì a qualche mese sarebbe stato consacrato dal Premio Lugano attribuito al romanzo Signore dei poveri morti (pure emblema di una svolta che coinvolgeva un’intera generazione di Ticinesi nell’apertura a prospettive definitivamente sciolte dalle attardate forme di accademismo dominanti), ne diede una testimonianza interessante come indice del riconoscimento di un proprio orientamento estetico (per l’interesse alla banda rusticana più volte raffigurata nei suoi quadri in visione deformata) ma anche come risposta, seppure ancora timida, al tentati-vo di attirare l’attenzione della cerchia culturale locale sul messaggio musicale:

Il palco, drizzato in fondo a un prato rotondeggiante, ci attendeva colla sua tenda vo-lante sotto il vento. Il pubblico, foltissimo, era come noi preso nella lenta poesia della sera, e parlottava a voce bassa, per non turbare una cerimonia che s’andava iniziando. Allora, dai cespugli e dagli alberi, uscirono i musicisti, uno dopo l’altro. Pochi: un violino, un clarinetto, un fagotto, una tromba, un contrabbasso, un batterista e un trombone. Vennero avanti coi loro istrumenti, si insediarono sul piccolo palco loro riservato, s’accordarono leggermente, si guardarono: e, al cenno del Maestro alzarono al cielo una musica. Strawinsky ha composto per L’Histoire du Soldat un tessuto di suoni fatto apposta per essere ascoltato all’aperto: sembrano le fresche voci delle cose naturali, mormorio di acque, squilli di grandi caldure estive; talvolta si sente passare una di quelle tipiche fanfare di villaggio, così amabilmente stonate. Il violino, al quale è affidata la parte principale, torna spesso col suo motivo capriccioso e tenero, una specie di frase arabescata simile a un racconto fatto in punta di labbra. La rappresen-tazione avveniva secondo le direttive di un regista fedele al testo di Ramuz: attori e musicisti avevano l’aria di essere lì un po’ per caso; che, riunitisi in un praticello sera-le, piantassero le tende per uno spettacolo fuggitivo, dopo il quale, rifatti i bagagli e impacchettati gli strumenti, riprendessero la strada verso un altro paese, verso un’altra festa campestre: per riprendere a divertire la gente [...].171

Carlo Piccardi

169 Ausgangspunkt Schweiz. Nachwirkungen des Exiltheaters, a cura di Ch. Jauslin e L. Naef, Willisau, Theaterkultur-Verlag (“Annuario del Teatro Svizzero”, 50,), 1989, p. 297.

170 Walter Jesinghaus, Igor Strawinsky “Histoire du Soldat” alla Villa Panera di Sorengo, «Gazzetta Ticinese», 18 maggio 1943, p. 2.

171 Felice Filippini, «L’Histoire du Soldat», «Radioprogramma», xi, 23 (29 maggio 1943), p. 3. Interessante, per il curioso impatto combinato di visione dal vivo e trasmissione radiofonica, è il ricordo dell’allora diciassettenne Walter Schönenberger, divenuto poi storico dell’arte, che poté assistere con la radio accesa all’evento dalla finestra della propria cucina, a cui abitualmente sali-vano i motivi rusticani del vicino grotto ma che quella sera fu irradiata dalla rivelazione delle note stravinskiane: «Sopra i folti castagni della salita di Montalbano apparivano alcune parti intonacate di rosso mattone della Villa Panera, fra cui una terrazza rivolta sul lago. Una sera la proprietaria della villa – una signora tedesca con il cognome preceduto da un “von” – organizzò un’esecuzione de L’Histoire du Soldat di Igor Stravinsky, con il testo di C.F. Ramuz. Lo spettacolo venne trasmesso dalla radio locale. Dalla finestra della mia cucina e con l’aiuto di un paio di binocoli di teatro, potei intravedere tra le fronde dei castagni, sulla terrazza illuminata, il susseguirsi delle scene, mentre la colonna sonora inondava l’appartamento dalla radio alzata a tutto volume» (Walter Schönenberger, Il gioco delle nuvole, Fassano di Brindisi, Schena Editore, 1993, p. 94).

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Ad Hans Curjel in certo qual modo si collega un’altra personalità oltremon-tana che, per quanto svizzero di nazionalità, respirò per interposta persona il clima degli sviluppi dell’avanguardia berlinese tra le due guerre, Rolf Liebermann (1910-99). Assistente di Hermann Scherchen a Vienna nel 1937, col quale avrebbe ancora collaborato tra il 1945 e il 1950 alla Radio della Svizzera tedesca, quando il grande direttore d’orchestra vi ricoprì la carica di capo dei programmi musicali.172 Fu ad Ascona qualche anno dopo che Liebermann, invitato sulla riva del Lago Maggiore da Bernhard Diebold della «Neue Zürcher Zeitung» per una collaborazione, incontrò lo scultore Fritz Wotruba (che aveva già conosciuto a Vienna) il quale lo introdusse a Wladimir Vogel.173 Della frequentazione di Vogel, nel periodo in cui il giovane mu-sicista zurighese abitava in una dismessa fabbrica di conserva,174 non approfittò certo solo per acquisire padronanza nel linguaggio avanzato che il maestro tedesco conver-tito alla dodecafonia poteva dispensargli, ma anche per le conferme all’orientamento politicamente radicale che lo caratterizzava soprattutto in quel momento di conflitto internazionale. Già autore di canzoni per il Cabaret Bärentatze, come direttore mu-sicale della Volksbühne di Zurigo, Liebermann aveva composto musiche di scena per lavori di chiara impronta politica come Erster Mai di Robert Trösch,175 oltre ad aver messo in musica poesie di Bertolt Brecht per Lieselotte Wilke, sua compagna d’allora e attrice dello Schauspielhaus zurighese. La Wilke (che si sarebbe fatta conoscere con il nome d’arte di Lale Andersen, prima interprete della celebre canzone Lili Marleen di Norbert Schulze) era stata fra gli interpreti di Aufstieg und Fall der Stadt Mahagon-ny di Brecht e Weill a Berlino, dove si era esibita anche in canzoni di Tucholsky. Dai testi di Tucholsky, di Franz Mehring, di Joachim Ringelnatz e soprattutto di Brecht (a partire dal primo, Ballade der Maria A.) che la Andersen gli sottopose, nacquero brani di inconfondibile ascendenza weimariana che Liebermann portò con la compagna cantante in giro per la Svizzera.176 D’altra parte nell’ambiente asconese di quegli anni era presente Rolf Langnese (1904-68),177 pianista tedesco cresciuto a Zurigo molto vicino all’ambiente dei fuoriusciti dalla Germania attivi allo Schauspielhaus il quale collaborava al Cabaret Cornichon dove la loro presenza teneva in vita in Svizzera la causticità dell’esperienza dei cabaret berlinesi ormai messi a tacere,178 mentre dei cenacoli tra il raffinato e il provocatorio ci ha reso conto Filippo Sacchi, giornalista del «Corriere della sera» chiamato a reggere il giornale dopo il 25 luglio ma rifugiato in Svizzera con l’arrivo dei tedeschi a Milano il 10 settembre 1943, nella sua testi-monianza (che fa stato di un’incompatibilità con lo stile avanzato del compositore zurighese, comprensibile da parte di un italiano poco avvezzo a una scrittura che guardava alle nuove frontiere che si sarebbero imposte nel dopoguerra):

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172 Gisa Aurbeck, Rolf Liebermann, Hamburg, Eller & Richter Verlag, 2001, pp. 21-25.173 Ivi, pp. 22-23.174 Cfr. l’intervista rilasciata nel menzionato documentario realizzato su Vogel dallo scrivente

nel 1988 per la Televisione della Svizzera italiana.175 Verena Naegele, Liebermann (ad vocem), in Theaterlexikon der Schweiz / Dizionario Teatrale

Svizzero, Zürich, Chronos Verlag, 2005, vol. ii, p. 1105.176 Aurbeck, Rolf Liebermann, pp. 20-21.177 Romano Broggini, I 400 anni del Collegio Papio 1584-1984, «Virtutis Palaestra», Ascona,

Edizione del Centenario, 1984, pp. 24-38.178 Elsie Attenhofer, Cornichon. Erinnerungen an ein Cabaret, Bern, Bernteli Verlag, 1975, p. 315.

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Alla sera ad Ascona a pranzo dai Lautenberg. Poi con Nelly L., Lappe e la Bodmer a Moscia, a un concerto che si tiene in casa di uno dei geni del Parnaso locale, il compositore Rolf Liebermann. La sala delle audizioni è al pianterreno e dà sul lago, con travi di chiaro legno e depressi divani (sono ancora i divani di Baudelai-re, profonds comme des tombeaux). Una pianista bruna, dura, cavallona ma brava, Elise Faller, e un tenore lungo, femmineo, steliforme, Hugues Cuénod, si dividono il programma. Altri tipi femminei e steliformi sono sparsi nella sala. Nell’angolo contro il palco del pianoforte, su di un immenso tappeto di bianche pelli, vestite di nero e sedute a terra, come le regine del Riccardo iv, quattro sfiorite ninfe asconesi, che devono appartenere al circolo della casa, perché dopo il concerto rimarranno per la serata. A questo uditorio, Liebermann, che è presente, elegante e fatuo, presenta la sua ultima composizione, una specie di poema su un brano di Sodoma e Gomorra di Giraudoux: «il ne subsiste plus que la faillite, la honte, un visage d’enfant crispé de famine et la mort» [si tratta della cantata Une des fins du monde]. Musica inarticolata, senza necessità, senza scopo, posticcia come la cultura di questo mondo che si disgrega, le quattro etere, Köbi [Jakob] Flach, che inalbera in prima fila la sua testa da finto artista, la vecchia ebrea baronessa e viennese che parla ancora come trent’anni fa si parlava da Sacher, Linson e la sua Sozialoekono-mie, allo stesso modo in cui, fuori nel fango e nella nera notte, si disfanno l’erbe e le foglie sotto la pioggia. Le ninfe, i tipi steliformi e femminei, fingono d’immede-simarsi, con contratte ciglia, nelle elucubrazioni sonore di Liebermann: però poi, appena Cuénod, nel suo stile gelido ma intellettualmente impeccabile, ci canta le tre canzonette di Satie, dalle sonorità così ironiche, acerbe e scostate, non sanno più dominare l’esplosione del loro entusiasmo, così ponendo a nudo il loro povero cuoricino fatto come quello degli altri.179

In tale contesto assume rilievo il fatto che il corrosivo stile del teatro di Brecht

e di Weill, grazie a Liebermann, approdasse a Radio Monteceneri. In un programma del 9 dicembre 1941 troviamo infatti L’indifferente, un testo di Vinicio Salati musi-cato da Liebermann ed interpretato dal basso Fernando Corena a testimoniare l’ine-dito connubio di poesia italiana e stile weimariano, possibile solo in quella singolare testimonianza venuta sorprendentemente ad arricchire la scena locale. Il pezzo del compositore zurighese, allora residente ad Ascona come allievo di Wladimir Vogel, compariva in una «sintesi radiofonica sulla gioventù» firmata Pietro Voga (pseudo-nimo di Felice Antonio Vitali, direttore dell’ente) trasmessa il 9 dicembre 1941, dal titolo Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia, a cui collaboravano la Radiorche-stra diretta da Otmar Nussio, il Trio celeste, un quartetto jazz con Fernando Paggi e i musicisti della neonata Orchestra Radiosa, i solisti vocali Margherita De Landi, Simons Bermanis e Fernando Corena, nonché gli attori della compagnia di prosa con dizioni di Renato Regli. Vi figuravano composizioni vocali e strumentali di varie epoche, scene teatrali (da Romeo e Giulietta di Shakespeare), canti goliardici, poesie di Umberto Saba, declamazioni parolibere di Marinetti (registrazione discografica), una prosa di Paul Claudel, ecc.180

Il suo “song” (così è espressamente denominato con richiamo alla forma berli-nese) in lingua italiana non è purtroppo sopravvissuto a tramandarci il risultato di un connubio assolutamente inedito e significativo della condizione ticinese del tempo, sottoposta a sollecitazioni sovvertitrici dell’ordine di tranquilla provincia, sottratta

Carlo Piccardi

179 Sacchi, Diario 1943-44, p. 247.180 «Radioprogramma», 9 dicembre 1941.

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all’Italia non solo politicamente ma anche culturalmente per l’azione esercitata dalle svariate forme di penetrazione dal nord di cui la Radio della Svizzera italiana costi-tuiva un fattore primario, nella sua posizione di medium agente più che mai come crocevia di esperienze importate. È luogo comune sostenere che in Ticino le nume-rose presenze di artisti stranieri, soprattutto tedeschi, nel vivere rintanati nelle loro residenze a coltivare individualmente la loro ricerca costituiscano un caso da integrare nel fenomeno più generale del turismo, giustificabile, per la mancata interazione con la cultura locale, con la loro organica estraneità all’italianità che almeno fino alla fine della seconda guerra mondiale era il principio dominante lo sviluppo della cultura della regione. Abbiamo constatato come ancora nel 1957 un intellettuale avveduto quale Adriano Soldini, a proposito delle personalità nordiche che vivevano ai margini della vita ticinese, poteva affermare che: «Sono solitari che hanno scelto il paese che poteva garantire la perfetta tranquillità e solitudine. La personale conoscenza con Klee e con Hesse che cosa avrebbe potuto e potrebbe dare ad un intelligente ticine-se?».180 Così egli replicava allora a coloro che sostenevano come la Svizzera italiana si fosse lasciata sfuggire l’occasione di entrare in contatto con un mondo culturale che avrebbe potuto arricchirla enormemente. Orbene, in quella circostanza dimenticava il ruolo della radio che, come abbiamo visto in più occasioni, nel suo orizzonte più aperto rispetto alle condizioni del paese, dimostrò subito disponibilità a concedere il microfono a personalità di altra cultura presenti sul territorio. Comprensibilmente ciò avvenne soprattutto in campo musicale dov’era facilmente superabile il problema della lingua e dove erano del tutto assenti figure autoctone di compositori di prestigio.

Tornando al programma del 9 dicembre 1941 vi figurava un altro “song” ori-ginale, di altrettanto interesse nella misura in cui vi si confermava il tentativo di allac-ciarsi a una forma musicale politicizzata completamente estranea alla musica italiana d’allora. Il testo del Song del disoccupato era ancora di Vinicio Salati, l’intellettuale ticinese che più di ogni altro coltivò i contatti con gli artisti tedescofoni presenti nella regione, il quale, pur deludendo per la goffaggine delle immagini e per la metrica incerta e poco rispettosa della logica della messa in musica, dichiarava la sua carica provocatoria affrontando un tema sociale scottante in termini crudi e abbastanza sor-prendenti quale messaggio trasmesso da una radio di stato. Per quanto politicamente meno schierato, il pezzo fu in qualche modo salvato proprio dal compositore. Otmar Nussio, forse memore della sua breve esperienza futurista al tempo dei suoi studi a Milano quando frequentava col compagno di conservatorio Virgilio Mortari la casa di Marinetti ricevendovi iniezioni di audacia,182 vi sfoggiava un tono sferzante e, su-perando il problema posto dalle irregolarità del testo, riusciva a fissare un taglio in grado di delimitare abbastanza efficacemente la funzione del ritornello (come richia-

Presenze artistiche e culturali dal nord

181 Soldini, Sole d’Ascona, p. 106.182 «Con noi studenti del Conservatorio facevano comunella pure certi bohémiens e anche molti

che appartenevano alla cerchia dei futuristi con alla testa Tommaso Filippo Marinetti. Marinetti stes-so, di famiglia ricca, simpatizzava assai con noi giovanissimi. Era sempre di buon umore, con mille progetti e altrettante iniziative. Ci invitava nella sua lussuosa abitazione in Corso Venezia. Ricordo che nell’entrata pendeva il grande ritratto d’una mastodontica negra, seminuda, con due enormi poppe. Marinetti, additandola, soleva esclamare: “Sapete perché sono così geniale, esuberante e dinamico? Perché quella fu mia bàlia e da lei ciucciai il latte!” (Il segreto della bàlia mi fu svelato più tardi: Mari-netti era nato in Egitto!)» (Otmar Nussio, una vita «tutta suoni e fortuna», p. 58).

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mo all’immediatezza della canzone), mentre dagli accidenti di un’espressione in prosa più che in versi era indotto a ricavare spunti recitativi di diretto impatto gestuale.183

In tale contesto di apertura oltre la dimensione della provincia, che caratteriz-zò fin dall’origine l’ente radiofonico luganese, un ruolo detennero anche figure più marginali che i casi della vita indirizzarono verso le rive del Ceresio, meritevoli di essere ricordate. Un caso significativo è rappresentato da Margherita De Landi (1910-76), nata a Berlino da famiglia ebraica di origine lituana e polacca il cui vero nome era Margot Ruth, secondogenita di Hermann Glant e Lina nata Rosenberg. Contralto, diplomata presso il Conservatorio Klindworth-Scharwenka, dopo un primo concerto radiofonico nel 1933 non le fu concesso di continuare la collaborazione per moti-vi razziali. Lo stesso successe alla Berliner Hochschule für Musik dove, pur avendo superato gli esami di ammissione, non le fu possibile iniziare gli studi. Lasciata la Germania nel 1935 si trasferì a Milano dove studiò canto sotto la guida del professor Moratti. I genitori provvidero al suo mantenimento fino al 1939, prima di esserne impediti dalla persecuzione subita da parte dei nazisti, dai quali nel luglio 1942 furo-no deportati nel campo di Theresienstadt e in seguito a Treblinka dove perirono en-trambi due mesi dopo nelle camere a gas. A Milano poté mantenersi lavorando per un comitato che si occupava dei rifugiati ebrei, mentre riuscì a scampare alle leggi razziali decretate in Italia grazie all’assunzione come solista nel Coro della Radio della Sviz-zera italiana diretto da Edwin Loehrer, segnalandosi come membro dell’apprezzato quartetto vocale unitamente al soprano Marianna Caula, al tenore Simon Bermanis e al basso Fernando Corena. Con il marito Edward Staempli, pianista e compositore residente a Lugano dal 1939, collaborò ai concerti in margine al menzionato Primo Congresso Internazionale per la Musica Dodecafonica di Milano nel 1949.184 Alla rsi prestò il suo contributo artistico fino al 1960.

Un’altra personalità da non dimenticare è sicuramente quella della triestina Ada Franellich (1906-86), danzatrice e maestra di danza, attiva a Lugano dal 1929 alla fine della guerra con un ruolo primario negli spettacoli della Fiera Svizzera. Nel 1925 si iscrisse alla Schule Hellerau Laxenburg proprio quando questo istituto si era trasferito nei pressi di Vienna, lasciando la sede nei dintorni di Dresda in cui nel 1909 era stata creata una sorta di “città giardino” con lo scopo di tornare a riflettere sui va-lori veri in opposizione alla piega presa dal cosiddetto progresso con la produzione di massa e la ricerca del profitto. Lì Émile Jaques-Dalcroze vi aveva introdotto, oltre alla musica, la ginnastica e la ritmica, mettendo le basi del metodo Hellerau-Laxenburg appunto. Sulla scia della sua ritmica prese corpo una sorta di grammatica e di sintassi del movimento da cui si sviluppò la danza moderna e una forma evoluta di ginna-stica mirante a fare del corpo uno strumento in grado di configurare una personalità creatrice. In quel contesto si era formata Rosalia Chladek che assunse la direzione dell’istituto proprio quando la Franellich si annunciò per l’iscrizione, per cui tra le due nacque un rapporto di amicizia e di collaborazione crescente, con il risultato di collegare l’attività della triestina all’orbita di sviluppo della tecnica e dell’estetica della

Carlo Piccardi

183 Con il titolo Disoccupati, il manoscritto del Song del disoccupato datato «Lugano, 24 no-vembre 1941» è conservato fra le opere di Nussio nel Fondo delle Ricerche musicali nella Svizzera italiana presso l’Archivio di Stato a Bellinzona (segnatura una 37/15). In facsimile è stato riprodot-to in calce al citato saggio di Piccardi, Un “enfant terrible” che guardava lontano, pp. 240-241.

184 Piccardi, Tra ragioni umane e ragioni estetiche, pp. 236-237.

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Chladek, che si andava affermando come una protagonista nello sviluppo dei concetti base della danza moderna. Il metodo sviluppato dalla Chladek, fatto proprio dalla Franellich, mirava a far comprendere che ogni essere umano è un tutto: intelligenza, psiche e corpo. Sulla base dell’adesione all’anatomia il movimento era indirizzato dalla volontà verso un fine razionale, estetico e fisiologico insieme, verso un risultato ottenuto con il massimo risparmio di energie, facendo leva non sulla forza muscolare bensì sulla forza di gravità e sull’elasticità delle articolazioni. In questo senso sia la Chladek sia la sua allieva triestina si trovarono in opposizione al nazismo e al fascismo a causa del loro uso a fini militari dell’educazione fisica, la prima lasciando la scuola di Laxenburg nel momento dell’Anschluss (tornandovi solo dopo la fine della guerra), la seconda lasciando Trieste per Lugano dove, in Via Cassarate aprì la «Scuola Franellich / Metodo Hellerau-Laxenburg / Ginnastica ritmica e correttiva / Coltura del corpo – danza» (come figurava sulla carta stampata della sua corrispondenza).

La sua non era solo una scuola di danza ma un laboratorio, una fucina di idee estetiche che, in una cittadina vergine dal punto di vista dell’arte scenica, non tardò a rivelare le sue potenzialità e quindi ad essere associata a quelle iniziative che, attra-verso lo spettacolo, erano suscettibili di rafforzare Lugano nel ruolo di riferimento culturale primario in occasione di appuntamenti ufficiali, sia cantonali sia nazionali. Qui la giovane maestra non solo trovò il modo di integrarsi polarizzando l’attenzione sulle sue capacità educative che in breve tempo videro la sua scuola svilupparsi enor-memente in termini numerici, ma, grazie all’autorevolezza acquisita, riuscì anche a concepire progetti di spettacolo ambiziosi in cui perseguire il suo ideale artistico, coinvolgendo i suoi allievi e altri collaboratori contagiati dalla sua forte motivazione.

Oltre ad aver coreografato La danza nei tempi e nella luce rappresentata al Teatro Apollo nel 1934 in occasione della “Settimana della luce” (SELU), fondamentale fu il suo ruolo nella serie di rappresentazioni attuate nell’ambito della Fiera Svizzera di Lugano, a partire dal Ballo delle quattro stagioni (musica di Giuseppe Verdi) nel 1933. Seguirono il Cantico del Ticino (1935) con la musica di Enrico Dassetto, le Danze illu-strative di canzonette ticinesi (1936), le coreografie per Casanova e l’Albertolli di Guido Calgari con la musica di Richard Flury (1938), Confoederatio helvetica con la musica di Enrico Dassetto (1940), le coreografie per Vita ticinese di Vinicio Salati e Felice A. Vitali con la musica di Otmar Nussio (1941), Una canzone va per il mondo (1942) e Così è... così era... di Alberto Barberis e Fabio Jegher con la musica di Fernando Paggi (1943), Leggende del Ticino di Armando M. Bossi con la musica di Walter Lang (1944).185

Un caso pure meritevole di menzione, anche se per altre ragioni, fu rappresen-tato dal grande musicologo e direttore d’orchestra viennese Bernhard Paumgartner (1887-1971). Direttore del Mozarteum di Salisburgo fin dal 1917, quando l’Austria fu annessa dai nazisti alla Germania nel 1938 perse la carica. Grazie all’appoggio del professor Erich Schenk, suo ex allievo, gli fu concesso dall’Università di Vienna un incarico a Firenze allo scopo di censire e trascrivere le opere musicali dell’epoca della dinastia granducale degli Asburgo-Lorena testimonianti i rapporti con Vienna. Con-sacratosi a una ricerca a vasto raggio, oltre i confini della capitale toscana spingendosi soprattutto a Bologna dove ebbe accesso ai manoscritti di Giuseppe Torelli, Giacomo

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185 Carlo Piccardi, La rappresentazione della piccola patria. Gli spettacoli musicali della Fiera Svizzera di Lugano 1933-1953, Lucca / Lugano / Milano, Quaderni di «Musica/Realtà» (“Supple-mento”, 3), 2013, passim.

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Antonio Perti, Tommaso Albinoni, Pietro degli Antoni, accumulò una mole signi-ficativa di materiali che furono messi a disposizione di Radio Monteceneri quando, dopo lo sbarco degli Alleati su suolo italiano, risolvette di trasferirsi in Ticino (a Carabietta). A partire dai primi mesi del 1945 su invito di Otmar Nussio non solo vi diresse alcuni concerti ma curò (fino al 1950) sette cicli di trasmissioni su tema-tiche musicali a cui collaborò Vinicio Salati per l’adattamento in lingua italiana di programmi che mettevano la nostra radio nella situazione privilegiata di diffondere le note di musiche che risuonavano per la prima volta in epoca moderna uscendo dagli archivi per mano dello stesso studioso che se n’era fatto portatore al suo microfono.186

A questo di per sé già significativo elenco potremmo aggiungere anche quello delle presenze mancate, come fu il caso di Paul Klecki polacco residente a Berlino, negli anni Trenta già avviato a una carriera importante di direttore d’orchestra sostenuto da Furtwängler e da Toscanini, il quale, in quanto ebreo, dovette lasciare la Germania installandosi a Milano dove insegnò alla Scuola Superiore di Musica dal 1934 al 1936. Egli partecipò al concorso di direttore dell’Orchestra della rsi indetto nel 1938, non venendone scelto in quanto nella fattispecie prevalse il principio della nomina di un musicista svizzero, per cui venne scelto, nonostante le raccomandazioni di Toscanini, Furtwängler, Kleiber e Busch, il grigionese Otmar Nussio.187 Minacciato dalle leggi razziali mussoliniane, Klecki aveva già lasciato l’Italia nel 1937 per assumere la dire-zione dell’Orchestra filarmonica di Karkov, purtroppo nel momento più drammatico della politica di terrore staliniano, per cui egli rappresenta il caso più singolare di artista costretto a fuggire davanti a ben tre dittature, di Hitler, di Mussolini, di Stalin, e di perdere tra l’altro gran parte della propria famiglia nei campi di sterminio.

A distanza di sicurezza dall’Italia totalitaria

A proposito dei perseguitati per motivi razziali è da sottolineare il passaggio alla radio luganese di Mario Castelnuovo-Tedesco (1895-1968), annunciato al pia-noforte con il tenore Angelo Parigi in un programma di musiche sue il 27 febbraio 1938,188 che, oltre a confermare l’ambizione della rsi di porsi in prima linea nel mandare al suo pubblico il messaggio della modernità musicale proponendo l’ascolto di tale compositore che andava ad aggiungersi ad altre figure ospitate di persona allo studio di Lugano (Joaquín Nin, Darius Milhaud, Francis Poulenc, Ernst Krenek, Frank Martin, Arthur Honegger, ecc.), avveniva dopo che, un mese prima, il com-positore fiorentino aveva ricevuto la notizia preoccupante dell’estromissione del suo Concerto per violino (“I profeti”) dalla programmazione musicale dell’eiar. In antici-po sull’introduzione ufficiale delle famigerate leggi razziali lo zelante ente radiofonico

Carlo Piccardi

186 Carlo Piccardi, Bernhard Paumgartner a Lugano. Dalla ricerca musicale alla divulgazione radiofonica, «Archivio Storico Ticinese», 154 (novembre 2013), pp. 66-86.

187 Meier Camponovo, L’Orchestre et le Choeur de la Radio Suisse Italienne, pp. 98-99.188 «Radioprogramma», 27 febbraio 1938. Il programma era composto dalle Danze del Re

David: rapsodia ebraica su temi tradizionali op. 37 per pianoforte e delle seguenti liriche per canto e pianoforte: Serenata Italiana op. 38 (Shelley), Prete Pero (da Quattro scherzi per musica di Messer Francesco Redi op. 35 n.1), Romance del Conde Arnaldos (da Romances Viejos seconda serie op. 75 n. 3), La Ermita de San Simon op. 75 n. 2, Ninna-nanna op. 4 e Girotondo dei golosi op. 14.

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di stato italiano provvedeva quindi già all’opera di epurazione nei confronti degli ar-tisti di origine ebraica.189 E fu proprio a Lugano che, nell’amica Gisella Selden-Goth ivi residente, trovò appoggio allo scopo di stabilire i contatti con l’America che gli consentirono di preparare l’espatrio suo e della propria famiglia il 13 luglio 1939:190

Non volevo scriver dall’Italia, poiché la corrispondenza allora era censurata e non volevo render noti, prima del tempo, i miei propositi. Andai dunque a Lugano, dove risiedeva allora un’amica fidata, Gisella Selden-Goth, e dopo essermi consultato con lei, scrissi di là tre lettere: una a Toscanini, una a Heifetz ed una a Spalding.191

Pianista, compositrice, studiosa di musica e critico musicale, Gisella (Gizella) Sel-den-Goth (Budapest 1884 – Firenze 1975) fu allieva di István Thomán e di Béla Bar-tók. Dal 1912 al 1923 fu attiva a Berlino dove entrò nella cerchia di Ferruccio Busoni, al quale riservò attenzione ed ammirazione sconfinate. Conobbe Castelnuovo-Tedesco nel 1923 quando scelse di stabilirsi a Firenze. Anch’ella minacciata dall’entrata in vi-gore delle leggi razziali emigrò negli Stati Uniti nel 1938 passando per il Canada. Fu in corrispondenza con Stefan Zweig fin dal 1935, per cui la sua presenza a Lugano nel 1938 potrebbe essere collegata al contatto con lo scrittore austriaco soggiornante a Ca-stagnola, il quale qualche mese prima aveva tenuto la lettura radiofonica di cui abbiamo parlato. Nel 1950 fece ritorno nella capitale toscana dove portò a termine e pubblicò la sua monografia su Ferruccio Busoni e dove morì.192

È altresì significativo che un altro compositore ebreo italiano facesse la sua apparizione a Radio Monteceneri proprio negli stessi mesi, ad accompagnare il sopra-no Chiarina Fino-Savio in un programma comprendente anche musiche sue: Luigi Sinigaglia.193 Anch’egli vittima delle leggi razziali, morì a Torino il 16 maggio 1944 per un attacco di cuore proprio nel momento in cui i fascisti lo scovarono nel rifugio che aveva trovato all’Ospedale Mauriziano di Torino.

Fra i musicisti di origine ebraica da ricordare la figura più rilevante è rappresen-tata da Vittore Veneziani (1878-1958), il direttore del coro del Teatro alla Scala, il quale non avrebbe mai immaginato di dover chiedere ospitalità alla Svizzera quando il 14 novembre 1936 venne a Lugano con il suo reputato coro in una delle occasioni in cui orgogliosamente l’Italia fascista mandava all’estero gli esponenti più autorevoli della sua arte a cercare consenso alla propria politica imperialistica, nell’ambito di una delle pri-me manifestazioni del Circolo Italo-Svizzero davanti alle autorità cantonali e preceduto

Presenze artistiche e culturali dal nord

189 Mario Castelnuovo-Tedesco, Una vita di musica, a cura di J. Wesby, Fiesole, Cadmo, 2005, pp. 291-295.

190 Ivi, pp. 302-307.191 Ivi, p. 302.192 Marc-André Roberge, «Ich habe in diesen Blättern meiner Begeisterung freien Lauf gelassen»:

Gisella Selden-Goth als ergebene Verehrerin Ferruccio Busoni, in Busoni in Berlin. Facetten Eines Ko-smopolitischen Komponisten, a cura di A. Riethmüller e H. Shin, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, 2004, pp. 47-66.

193 Ecco il programma relativo andato in onda l’8 gennaio: Gluck, Spiagge amate; Bononcini, Per la gloria; Sinigaglia, Quiete meridiana nell’Alpe, Triste sera; Debussy, Air de Lia (da L’Enfant prodigue), vecchie canzoni popolari del Piemonte raccolte e trascritte da Leone Sinigaglia (La pastora fedele, Il cac-ciatore del bosco, Il maritino, Invito respinto, Ninna nanna di Gesù Bambino, Il pellegrino di S. Giacomo). È altresì significativo che il testo di presentazione della figura del compositore piemontese portasse la firma di Luigi Rognoni («Radioprogramma», vi, 1, 1° gennaio 1938, p. 3).

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dai discorsi del sindaco della città e dal segretario del Fascio di Lugano, ad introdurre il proprio programma con una trafila di inni (quello nazionale svizzero, la Marcia reale se-guiti da Giovinezza, dal pucciniano Inno a Roma e quello del Circolo Italo-Svizzero).194 Nel novembre del 1939, già vittima delle leggi razziali che lo privarono della prestigiosa carica, Edwin Loehrer gli cedette il podio per dirigere il Coro della rsi in due program-mi sicuramente concordati col titolare per l’orientamento essenzialmente portato sulla polifonia di stampo rinascimentale.195 Sfuggito all’arrivo delle truppe tedesche nell’Italia del nord, Veneziani trovò rifugio a Roveredo Grigioni presso il Ricovero di Sant’An-na,196 dove gli fu di conforto la presenza di altri importanti fuorusciti (il poeta Diego Valeri, 1887-1976, e il drammaturgo Sabatino Lopez, 1867-1951) e dove, oltre a rivita-lizzare la corale locale, animò la vita musicale della vicina Bellinzona facendo rifiorire le corali Santa Cecilia e La Melodia, nonché la locale Società orchestrale, con cui propose in concerto anche sue composizioni.197 Di lui si ricorda soprattutto la piccola “tournée” che nel marzo del 1945 portò a Bellinzona, Locarno, Magadino, Brissago e Lugano lo Stabat Mater di Pergolesi interpretato da due valenti soliste da lui scoperte a Bellinzona: il soprano Anna Borellini e soprattutto il contralto Maria Amadini, che da lui ebbe assecondata la carriera scaligera a partire dal debutto nel 1948 nell’Andrea Chénier fino ai ruoli di comprimaria assunti accanto a Maria Callas, a Mario Del Monaco, a Renata Tebaldi negli otto anni in cui fu legata al teatro milanese.198

Ad accompagnare all’organo il capolavoro pergolesiano in quell’occasione se-deva Alceo Galliera (1910-1996), altro artista approdato a Lugano nell’ottobre 1943 per non mettere a rischio la moglie di origine ebraica e il figlio di due anni e mezzo. Già segnalato in Ticino in un programma di musica organistica tenuto sullo strumen-to della Chiesa collegiata di Agno trasmesso dalla rsi il 21 ottobre 1936,199 dall’orga-no (che gli aveva valso una cattedra al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano) Gal-liera era passato ad altre funzioni, facendosi apprezzare sia come compositore (il suo balletto Le vergini savie e le vergini folli era stato rappresentato alla Scala nel 1942) sia come direttore d’orchestra a partire dal 1941 alla testa dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia. Se l’espatrio forzato del 1943 interruppe una promettente carriera, fu proprio a Lugano che furono gettate le basi del suo successo internazionale. Il ma-estro milanese aveva mosso i primi passi nel 1940 come direttore nei corsi tenuti da Antonio Guarnieri all’Accademia musicale chigiana di Siena, venendo coinvolto nella riproposta di opere italiane antiche della Settimana musicale senese. Il primo anno

Carlo Piccardi

194 Agliati, Il Teatro Apollo di Lugano, pp. 534-536.195 Nel primo concerto figuravano Palestrina (Ecce quomodo moritur, Tenebrae factae sunt),

Lotti (Sanctus), Donato (due villanelle alla napoletana), Marchesi (La Folletta) e due villanelle di Azzaiolo («Radioprogramma», 20 novembre 1939). Nel secondo Arcadelt (Ave Maria), Da Victoria (Tantum ergo), Monteverdi (Cor mio, Ardo, ardo), Banchieri (Mascherata di villanelle) e quattro canti sardi trascritti da Mario Giulio Fara («Radioprogramma», 21 novembre 1939).

196 Renata Broggini, Terra d’asilo. I rifugiati italiani in Svizzera 1943-1945, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 338-339.

197 Carlo Bonalini, Il maestro Veneziani e la Corale di Roveredo, «Quaderni grigionitaliani», xv, 4 (1945-46), pp. 277-279.

198 Giuliana Tallone-Bocca, Cantare con il cuore, «Rivista di Bellinzona», xv, 4 (1983), pp. 16-19.199 In quel programma il maestro eseguiva due composizioni del padre Arnaldo, pure organista

(Morte di San Francesco e Pasqua), oltre a due corali e alla Fantasia e fuga in sol minore di Bach, a Bene-dictus e Toccata di Max Reger e al Terzo corale di César Franck («Radioprogramma», 21 ottobre 1936).

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si trattò del Trionfo dell’onore di Alessandro Scarlatti (diretto da Guarnieri con il tenore Ferruccio Tagliavini in carriera soltanto da due anni ma già affermato), di cui curò l’edi-zione, mentre nel 1942 gli fu affidata la direzione del Guglielmo d’Aquitania di Pergolesi (che si avvaleva delle scene di Virgilio Marchi e della regia di Corrado Pavolini).200 Si può quindi ben comprendere come, attraverso questa esperienza sia nata un’amicizia con Edwin Loehrer e anche occasioni di collaborazione, a causa dell’interesse portato dal maestro del coro della rsi per quel repertorio. Nel programma di Radio Montece-neri in data 25 febbraio 1945 in effetti fu annunciato il Guglielmo d’Aquitania diretto da Galliera,201 mentre, ancora alla testa dei complessi della rsi questa volta in concerto pubblico, il 24 maggio troviamo il giovane maestro italiano nel Trionfo dell’onore da lui ricordato come tappa chiave della propria affermazione avendo potuto, grazie ad amici, assicurarsi la presenza dell’autorevole critico del giornale «La Suisse» il quale gli riservò una lode ditirambica, propiziatrice dell’invito qualche mese dopo alle Settimane musi-cali di Lucerna.202 L’avvenimento fu sottolineato dalla stessa rsi che al giovane maestro riservò un’intervista da cui è possibile risalire al ruolo di Loehrer nell’operazione:

– Ho saputo, maestro, che Lei ha già diretto alla nostra radio lo Stabat di Rossini con molto successo.«Sì, è vero, e fu in quella circostanza che annodai amicizia col Dr. Edwin Loehrer della rsi. Fu ancora lui che mi cedette spontaneamente la direzione di una secon-da opera nel ciclo “Capolavori italiani in prima esecuzione”, ciclo, noti bene, che avrebbe dovuto dirigere intieramente lui. Un bel gesto di cameratismo generoso, abbastanza infrequente...»– Già, piuttosto raro, anche fra buoni colleghi.«Sono molto grato al Dr. Loehrer. Che mi ha offerto la possibilità di dirigere anche Il trionfo dell’onore di Alessandro Scarlatti, che eseguiremo stasera in emissione per Beromünster e Monteceneri. È questa una prova di comprensione e di solidarietà artistica che non dimenticherò».203

Presenze artistiche e culturali dal nord

200 Leonardo Pinzauti, L’Accademia Musicale Chigiana da Boito a Boulez, Milano, Electa, 1982, pp. 41, 44, 52, 65, 68 e 265-266.

201 «Radioprogramma», 25 febbraio 1945.202 In un’intervista inedita rilasciata a Michele Selvini il 2 marzo 1996 al suo domicilio di Bre-

scia (poche settimane prima della sua scomparsa) il maestro ricordava l’episodio come propiziato dal primo violoncello dell’orchestra (Hans Andreae, nipote del celebre Volkmar Andreae allora direttore dell’Orchestra della Tonhalle di Zurigo), il quale avrebbe convinto il noto critico a trattenersi a Lu-gano la sera del concerto rinunciando a rientrare a Ginevra, come inizialmente previsto. Il giudizio di Robert-Aloys Mooser fu ribadito in occasione del concerto lucernese in termini che, se furono folgoranti per il giovane direttore, assai meno elogiativi furono per l’orchestra luganese: «Il y a quel-ques mois, j’avais vu à l’oeuvre Alceo Galliera, alors qu’il conduisait le minuscule et assez médiocre ensemble instrumental de Radio-Lugano. Je l’ai revu, l’autre soir, à la tête de l’orchestre des Semaines internationales de Lucerne. Et ce nouveau contact n’a fait que confirmer mon impression première: un grand chef est apparu en Italie, que l’on doit, dès aujourd’hui, tenir pour l’un des meilleurs et des plus complets de notre temps. Par les dons exceptionnels que la nature lui a départis, par l’ardeur de son tempérament, par son extraordinaire autorité et l’ascendant, aussi total qu’immédiat, qu’il exerce sur ses musiciens, Alceo Galliera se classe dans la lignée de ces maîtres italiens de la baguette à laquelle appartint un Leopoldo Mugnone et dont Arturo Toscanini est, à cette heure, le plus authentique représentant» (Robert-Aloys Mooser, Une révélation: Alceo Galliera, «La Suisse», 11 settembre 1945).

203 G.S. [Goffredo Sajani], Colloquio con Alceo Galliera, «Radioprogramma», xiii, 22 (2 giugno 1945), p. 2.

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A Lugano Galliera godette dell’appoggio della famiglia di Pietro Salati,204 pittore e scrittore (cugino del già citato Vinicio), del padre Emilio e delle due sorelle musiciste, Lidia (violinista nella Radiorchestra) e Nella (pianista), in una situazione in cui, per evitare l’internamento nei campi di rifugiati, oltre ai pochi gioielli da rivendere portati con sé era necessario indicare cittadini o istituzioni svizzere in funzione di garanti.205 Lo statuto di rifugiato non consentiva il diritto al permesso di lavoro, per cui generalmente essi rimasero una risorsa di cui il paese ospitante non poté approfittare in modo con-veniente. Di questo paradosso, riguardante più la radio che la stampa locale (la quale avvalendosi della collaborazione degli intellettuali fuoriusciti dopo l’8 settembre visse un momento di notevole fioritura), aveva ragione di lamentarsi il direttore della rsi nel rapporto all’assemblea della corsi del 25 giugno 1944:

Nella relazione presentata l’anno scorso abbiamo lamentato il mancato apporto degli artisti italiani, che prima della guerra contribuirono ad arricchire i nostri programmi, a tener vivo il senso delle proporzioni, a spronare, a scuotere coloro che ne avessero bisogno. Ora molti italiani hanno cercato rifugio nel nostro paese, e tra di essi vi sono maestri, musicisti, cantanti, scrittori di chiara fama. Purtroppo le tassative disposizio-ni delle autorità ne vietano la collaborazione alla Radio della Svizzera italiana e agli altri studi nazionali, e anche la nostra domanda di fare una specie di trasmissione per i profughi non ha potuto essere accolta. Così l’isolamento forzato continua, la fresca aria dell’emulazione manca, le finestre rimangono chiuse, le saracinesche abbassate e, dopo quasi cinque anni di guerra, di servizio militare, il lavoro in condizioni tutt’altro che normali minaccia di diventare grigia monotonia.206

Riguardando principalmente i rifugiati e i perseguitati in questo contesto non è il caso di elencare tutte le personalità italiane che in quel periodo furono ospitate nei programmi della rsi, a partire dall’apparizione per quanto fuggevole del compositore e pianista Alfredo Casella in una trasmissione del 26 gennaio 1940 del Trio italiano da lui fondato con il violinista Arturo Bonucci e il violoncellista Alberto Poltronieri. D’altra parte, durante gli anni della guerra, è ben noto il ruolo di Giovanni Battista Angioletti, animatore del Circolo italiano di lettura presso il consolato del Regno d’Italia, che determinò una svolta significativa nel tranquillo mondo culturale lo-cale, alquanto attardato su un livello di ufficialità letteraria e artistica in gran parte esemplata sull’Ottocento di cui era testimone autoritario un grande vecchio quale Francesco Chiesa. L’intensificarsi delle presenze rilevanti di cui il suo circolo diventò vetrina (Giuseppe Ungaretti, Emilio Cecchi, Eugenio Montale, Riccardo Bacchelli,

Carlo Piccardi

204 Francesca Pozzoli, Christian Luchessa, Lugano 1939-1945. Guida ai luoghi, ai personaggi e agli avvenimenti della città e dei suoi dintorni in tempo di guerra, Lugano, Ed. Progetto Interreg, 2005, p. 205. Vi si ricorda come i Salati si fossero fatti garanti anche di letterati rifugiati quali Gian-carlo Vigorelli e Aldo Borlenghi.

205 Nella citata intervista rilasciata a Selvini il maestro, oltre all’amicizia con Loehrer e al so-stegno ricevuto dai Salati, ricorda la sofferta scelta di non rientrare subito in Italia a guerra finita. Stante l’occasione imperdibile di essere ingaggiato sul podio delle Musikfestwochen di Lucerna a settembre, egli fece accompagnare in Italia moglie e figlio, decidendo di restare a Lugano tempora-neamente onde evitare problemi alla frontiera, ormai aperta ma col timore che difficoltà burocrati-che gli impedissero poi di ritornare in Svizzera a presentarsi sul palcoscenico internazionale che gli era offerto. Sono riconoscente a Michele Selvini, purtroppo scomparso nel frattempo, per avermi messo a suo tempo a disposizione la registrazione del suo colloquio con Galliera.

206 I programmi della rsi, «Radioprogramma», xii, 28 (8 luglio 1944), p. 2.

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Massimo Bontempelli, Vincenzo Cardarelli, Aldo Palazzeschi, Corrado Alvaro solo tra il 5 aprile e il 4 giugno 1941, alcuni dei quali tornarono negli anni successivi con Gianfranco Contini, Giovanni Titta Rosa, Giovanni Papini, Aldo Franceschini, B. Sanminiatelli)207 portò una forte ventata di aria nuova da tutti giudicata premessa a un rinnovamento generalmente ricordato come un momento di rinascita culturale che poi, complici le sopraggiunte aperture alla fine della guerra, avrebbe decretato l’atto finale del salto nella modernità sottraendo la Svizzera italiana alla condizione di periferia estetica in cui per decenni fu relegata.

A lui andò anche il merito di avere portato a Lugano figure importanti del concertismo quali Arturo Benedetti Michelangeli da poco, dopo aver vinto il Con-corso internazionale di esecuzione musicale di Ginevra nel 1939, assurto fra le stelle di prima grandezza della categoria, esibitosi nel novembre del 1941 nel “salone-te-atro” della Casa d’Italia, o il Trio di Roma (Arnaldo Graziosi, pianoforte, Francesco Antonioni, violino, Antonio Saldarelli, violoncello) che il 2 febbraio 1943 presentò il Trio in la di Pizzetti e il Trio di Enzo Masetti. Nella programmazione musicale del Circolo non mancò quindi l’attenzione alla musica moderna italiana, anche la più recente che ebbe forse il momento più rilevante nel passaggio di Luigi Dallapiccola, preannunciato dal «Corriere del Ticino» mesi prima con senso di particolare aspetta-tiva: «Il Dallapiccola è con Petrassi e pochi altri fra i compositori moderni italiani più in vista e il suo saggio contribuirà a fare conoscere alcune correnti più rappresentative dell’odierna produzione musicale in Italia».208 Nel marzo del 1943 il compositore si presentò in duo col violinista Sandro Materassi alla Casa d’Italia in un programma che tuttavia, accanto alla sonata di Ravel e a quella in re minore di Brahms, non ri-servava musiche sue bensì quelle di due connazionali coevi, Mario Labroca e Adone Zecchi. Ne riferiva Walter Jesinghaus, non mancando di alludere al suo stile compo-sitivo avanzato su cui gravava già il pregiudizio: «Dire che Luigi Dallapiccola, noto come compositore di musiche ardimentose, sia stato un pianista che conosce ogni sfumatura, ogni accentuazione musicalissima è superfluo confermarlo, essendo il suo suonare così semplice, così intenso nell’espressione e nell’accento da sentire ogni in-tenzione interpretativa, senza pesantezza né dannoso cerebralismo».209

L’impatto maggiore, con risvolti propagandistici non indifferenti per lo scopo sotteso che vi era implicato, arrise alle iniziative da tempo promosse dal Circolo Ita-lo-Svizzero creato da un ticinese nato a Montevideo, vissuto dapprima in Argentina e poi per lungo tempo in Italia, gerente del noto Bar Argentino in Piazza della Ri-forma a Lugano. Nel periodo del maggior consenso guadagnato dal fascismo e della maggiore aggressività della politica estera italiana a seguito della guerra d’Etiopia, Elvezio Grassi si fece mediatore di operazioni tese a vincere la diffidenza cresciuta nei confronti di ciò che proveniva da oltre confine, puntando decisamente su occasioni spettacolari.

Il 3 febbraio 1938 gli riuscì di riunire la Radiorchestra luganese e quella del-la Radio della Svizzera romanda per offrire degna accoglienza a Pietro Mascagni, il

Presenze artistiche e culturali dal nord

207 Pierre Codiroli, Tra fascio e balestra. Un’acerba contesa culturale (1941-1945), Locarno, Ar-mando Dadò Editore, 1992, pp. 105-106.

208 L.C. [Luigi Caglio], Il Circolo italiano di lettura alle soglie della stagione 1942-43, «Corriere del Ticino», 23 ottobre 1942, p. 2.

209 Walter Jesinghaus, Il duo Dallapiccola-Materassi, «Gazzetta Ticinese», 16 marzo 1943, p. 2.

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quale vi diresse la Sinfonia «Dal nuovo mondo» di Dvořák, la sinfonia del rossiniano Guillaume Tell e le più note pagine dalle sue opere (la sinfonia de Le maschere, il “so-gno” del Guglielmo Ratcliff, la Danza esotica, gli intermezzi di Cavalleria rusticana e dell’Amico Fritz). La presenza in città di una personalità tanto rappresentativa, oltre a garantire il successo, mobilitò le autorità politiche che gli riservarono un ricevimento ufficiale nella sede del municipio e un discorso del maggior scrittore ticinese, France-sco Chiesa, in apertura del concerto a salutare «l’italiano che lancia libero e sonoro il canto del suo petto generoso; e trova eco pronta nell’orecchio nostro e aperti i cuori di questa Svizzera italiana che tutta vorrebbe essere qui a dirle evviva e grazie, o Maestro, ed a salutare la perenne giovinezza delle sue forze e della sua opera».210

A dire il vero fin dall’inizio della mobilitazione generale, che richiamava a tur-no i cittadini abili al dovere di prestare lunghi periodi di servizio militare, la radio si trovò in una situazione di palese precarietà. Se altre istituzioni riuscivano a far fronte ai vuoti causati dalle partenze con avvicendamenti interni del personale, ben diversa era la situazione dei complessi artistici per i quali l’affiatamento era possibile solo grazie alla stabilità dei ruoli. Non meraviglia quindi che, già nelle prime settimane dallo scoppio della guerra, si avvertissero i primi segni della destabilizzazione: «Le orchestre non sono al completo, siccome parecchi musicisti hanno dovuto deporre lo strumento per imbracciare il fucile. La maggior parte dei programmi preceden-temente allestiti ha dovuto così essere eliminata».211 L’attività artistica radiofonica in quel periodo fu quindi garantita avventurosamente, anche per l’impossibilità di contare su direttori e solisti ospiti impediti nei movimenti a causa della chiusura delle frontiere e dei pericoli nei movimenti. Solo con la motivazione fu possibile colmare le lacune, rendendosi conto che la rsi rappresentava un baluardo come voce libera in lingua italiana. Benché privata della sua autonomia, a causa della sospensione della concessione attribuita alla ssr e del passaggio del controllo delle trasmissioni al Di-partimento federale delle poste e delle ferrovie (con la conseguente necessità di fare i programmi tenendo costantemente conto del complesso di indicazioni e di norme imposte dalle autorità politiche e militari),212 la centralità assunta in quegli anni dai notiziari che riferivano sullo sviluppo dei teatri bellici non solo attirò verso la radio schiere sempre più vaste di pubblico, ma, nonostante l’applicazione della censura pre-occupata di evitare motivi di contestazione con i governi dei vicini paesi dell’Asse, ne fece un riferimento anche per gli ascoltatori d’oltre frontiera ai quali la pur prudente informazione proveniente dalla Svizzera era vietata al pari dei programmi diffusi dalle stazioni nemiche. La piccola radio luganese, apparentemente marginale, veniva con ciò a trovarsi più che mai al centro dell’attenzione.

Lo stato fascista, per sua natura, non si è mai disinteressato della nostra stazione, l’unica di lingua italiana che fosse libera e neutrale. Attraverso i sindacati tentò di esercitare un controllo sull’attività degli artisti italiani scritturati all’estero, attraver-so le società degli autori cercò di applicare le leggi razziali. La rsi non s’adagiò e prese le sue misure. Nell’atmosfera di quegli anni era impresa difficile conciliare la

Carlo Piccardi

210 Agliati, Il Teatro Apollo, pp. 550-554.211 La settimana musicale, «Radioprogramma», vii, 39 (23 settembre 1939), p. 6.212 Gianpiero Pedrazzi, 50 anni di Radio della Svizzera italiana, Lugano, rsi, 1983, pp. 54-55.

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(37) Wladimir Vogel con Felice Filippini, autore del libretto della Meditazione su una maschera di Amedeo Modigliani presentata in prima esecuzione nella cerimonia d’inaugurazione dello studio rsi di Lugano-Besso il 31 marzo 1962 (Fondo Ricerche Musicali nella Svizzera italiana presso l’Archivio di Stato a Bellinzona); (38) Wladimir Vogel con Rolf Lieberman e rispetti-ve consorti a Venezia in occasione del Festival internazionale di musica contemporanea nel 1959 (Fondo Ricerche Musicali nella Svizzera italiana presso l’Archivio di Stato a Bellinzona).

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(39) Richard Strauss alla prova generale del concerto a lui dedicato dalla rsi l’11 giugno 1947 (Archivio di Stato del Cantone Ticino, Fondo Christian Schifer); (40) Copertina del «Radioprogramma» del 22 febbraio 1947, con l’annuncio di un programma diretto da Bern-hard Paumgartner; (41) Copertina del «Radioprogramma» del 7 giugno 1947, con l’annuncio del concerto dell’11 giugno diretto da Richard Strauss.

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vigile difesa delle libere istituzioni svizzere con l’imperativo della concessione fede-rale: evitare tutto ciò che può compromettere le buone relazioni con gli altri paesi. Guardando indietro sembra quasi un miracolo che non si siano avuti incidenti tali da procurare noie al nostro paese.213

In questo senso un momento simbolico era già stato rappresentato dall’occasione offerta a Benedetto Croce di parlare al microfono di Radio Monteceneri il 4 ottobre 1936, ancora una volta grazie ai buoni uffici di Delio Tessa e accompagnato a Lugano da Alessandro Casati, il senatore milanese che era stato ministro della pubblica istru-zione nel primo governo Mussolini ma che nel 1925 (come lo stesso Croce autore lo stesso anno del Manifesto degli intellettuali antifascisti) aveva interrotto la sua col-laborazione col fascismo e lasciato la politica, riprendendola nel 1943 come rappre-sentante del Partito Liberale nel Comitato di liberazione nazionale. «Per la Svizzera un grande onore, per il fascismo una sfida» avrebbe sostenuto il direttore dell’ente nella sua autobiografia, riportando anche l’affermazione del presidente della corsi, il consigliere di stato socialista Guglielmo Canevascini: «Se, in Italia e altrove, Benedet-to Croce non poteva esprimersi al microfono, egli lo poteva qui da noi».214 Croce vi tenne una lettura incentrata sul confronto tra «romanzo storico» e «vite romanzate», in una trattazione venata di sottintesi politici secondo cui «il romanzo storico, come la storiografia sulla quale si interessava, si riempì di quegli affetti e rivendicò la libertà contro la tirannia e l’assolutismo, propugnò l’indipendenza delle nazioni asservite, spirò nobiltà di ideali e di sacrifici [...] ammirazione per gli eroi e gli uomini di genio che innalzarono e ampliarono l’umanità», in contrapposizione alle vite romanzate considerate «una delle manifestazioni patologiche del periodo di vita europea seguito alla grande guerra», prive di «tutto quanto si attiene agli ideali e alle glorie dell’uomo, al suo lavoro, alle sue opere di pensiero e di azione, che vivono eterne, sempre attive nella storia dell’umanità, nella storia della civiltà».215 Tale presenza rappresentò un evento di forte valore simbolico, rimasta nell’immaginario come riferimento fonda-mentale nella costruzione del ricordo antifascista della nostra radio.216

Durante la guerra fu più difficile fruire di occasioni simili, per cui la rsi do-vette accontentarsi di far capo soprattutto a personalità italiane residenti in Svizzera, oltre agli stessi cittadini svizzeri. Oltretutto se dopo l’8 settembre 1943 furono nume-rosi gli artisti e gli intellettuali che varcarono il confine svizzero, per disposizioni am-

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213 I programmi della rsi, «Radioprogramma», xii, 28 (8 luglio 1944), p. 6. In quella situazione a volte poteva accadere che questioni di natura puramente amministrativa si trasformassero in polemica strumentalizzata politicamente. Fu il caso della diatriba sorta con il declassamento del violino di spalla della Radiorchestra, scatenata da alcuni membri della stessa, suoi sostenitori. Poiché il musicista in questione, italiano, era dichiaratamente fascista mentre il direttore dell’orchestra (Leopoldo Casella) e il direttore dell’ente (Felice Antonio Vitali) erano socialisti, ne nacque un diverbio amplificato sulla stampa che richiese l’intervento delle alte autorità. In seguito alla nomina di una commissione esterna giudicatrice ne sortì la ristrutturazione del complesso con la nomina di un nuovo maestro (Otmar Nussio) e il cambiamento di ruolo di Casella, assegnato alla posizione di secondo maestro (Felice An-tonio Vitali, Radio Monte Ceneri. Quello scomodo microfono, Locarno, Armando Dadò Editore, 1990, pp. 59-77, nonché Leila Ostini, La Radio della Svizzera Italiana: creazione e sviluppo (1930-1939), Fribourg, Institut d’histoire moderne et contemporaine, 1983, pp. 111-125).

214 Vitali, Radio Monte Ceneri, p. 43.215 Valsangiacomo, Dietro al microfono, p. 39.216 Ivi, p. 9.

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ministrative essi (salvo poche eccezioni) erano impossibilitati a dare il loro contributo ai programmi radiofonici.

Le indagini di Renata Broggini ne hanno identificato una moltitudine, dai lette-rati (Sem Benelli, Aldo Borlenghi, Piero Chiara, Giansiro Ferrata, Marco Forti, Franco Fortini, Tommaso Gallarati Scotti, Uberto Paolo Quintavalle, Luigi Santucci, Giancar-lo Vigorelli), agli artisti e architetti (Renato Angeli, Enrico Baj, Luigi Caccia Dominio-ni, Cioni Carpi de Resmini, Antonio Chessa, Vico Magistretti, Giuseppe Motti, Gu-glielmo Mozzoni), ai registi (Franco Brusati, Fabio Carpi, Luigi Comencini, Luciano Emmer, Alessandro Fersen, Dino Risi, Nelo Risi, Giorgio Strehler), agli studiosi (Aldo Andreotti, Paolo D’Ancona, D’Arco Silvio Avalle, Gianfranco Bianchi, Mario Bonfan-tini, Giorgio Colli, Alessandro Cutolo, Luigi Einaudi, Luciano Erba, Dante Isella, Ugo Guido Mondolfo, Ettore Passerin d’Entrèves, Luigi Preti, Roberto Piazza, Umberto Se-gre, Diego Valle), ai giornalisti e editori (Gianni Brera, Gaspare Cavarzerani di Nevea, Giorgio Cingoli, Giulio De Benedetti, Giulio Einaudi, Livio Garzanti, Enrico Jacchia, Ferruccio Lanfranchi, Arturo Lanocita, Alberto, Arnoldo e Giorgio Mondadori, Indro Montanelli, Giulio Cesare Olschki, Rubens Tedeschi, Saverio Tutino), ecc.

Fra i musicisti spiccano diversi nomi, fra cui quello di Giuseppe Di Stefano entrato come militare in fuga attraversando il fiume Tresa e poi assegnato a un campo di raccolta presso Faido, il quale ricorda la generosità della popolazione locale nel fo-raggiare gli internati di cioccolata e sigarette (conquistando col suo canto la simpatia delle «anziane signore soccorritrici»). Spostato ad Ammerswil e poi a Herzogenbuchsee egli ricorda la formazione del “complesso azzurro” formato con la collaborazione del trombettista Giacomo Pezzotta.217 Di Stefano col baritono Luigi Marchiò partecipò occasionalmente alle esecuzioni itineranti del trio classico italiano “Emme” creato da Cesare Carniti violinista del Teatro alla Scala, costituito dal pianista Ottorino Gentiluc-ci (insegnante al Conservatorio di Milano) e dal violoncellista Renzo Pizzorno dell’Or-chestra dell’eiar di Torino. D’altra parte a Langenthal Carniti era stato autorizzato a creare un complesso di «circa 60 internati, fra coro e orchestra» per concerti nei campi a scopo ricreativo e concerti pubblici per «ricavare le spese materiali» legate a quell’at-tività.218 Il giro nei campi militari cantando in orchestrine di rifugiati procurò a Di Stefano l’occasione di essere notato dal direttore di Radio Losanna, Edouard Moser, il quale lo presentò nel programma Au pays du Soleil propiziando le sue prime incisioni per i dischi de La voce del padrone.219 Drammatico fu l’espatrio dal Passo Moro del baritono Renato Capecchi, salvato dal congelamento dopo la traversata del ghiacciaio del Diestelalp.220 Fiorenzo Carpi, che pochi anni dopo sarebbe diventato il compositore delle musiche di scena per il Piccolo Teatro di Milano, entrato da Chiasso il 25 maggio 1944, fu assegnato al campo di Pont de la Morge andando a finire a suonare in una piccola orchestra a Sion.221 Claudio Scimone, allora bambino, entrò con la madre e la

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217 Broggini, Terra d’asilo, pp. 77 e 154.218 Ivi, p. 445.219 «A Radio Losanna diventai di casa e vi cantai anche in tre opere [...] tutte dirette da [Otto]

Ackermann. Ero felice! Avevo ventitré anni e la vita mi sorrideva come solo in quegli anni può farlo: spensieratamente, irresponsabilmente [...]. Nonostante la mia qualifica di internato militare italiano, fui invitato dall’ambasciatore americano a cantare nella cattedrale di Berna in occasione della morte del loro presidente Franklin Roosevelt» (Ivi, p. 223).

220 Ivi, pp. 86-87.221 Ivi, pp. 112, 184 e 600.

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sorella, potendo continuare gli studi nel Montalia Institut di St. Moritz.222 Pure bambi-no era allora Enrico Fubini, musicologo, passato avventurosamente dai monti innevati dell’Ossola con i genitori e la sorella.223 Grazie alle sue doti vocali Cesare Siepi trovò in Dante Primavesi, conosciuto alla Casa d’Italia, non solo un garante che gli permise di uscire dal campo, ma anche un mecenate che lo affidò alle cure del maestro di canto più noto della città, Arnaldo Filipello.224 Similmente il violoncellista Umberto Rossi venne liberato per intervento di Ada Salvioni di Lugano.225 Siepi si fece notare in più di un’occasione ricreativa. Filippo Sacchi nel suo diario parla di «un giovane basso italiano, internato e amico di Calgari, Siepi, [che] spara cannonate rossiniane e boitiane con bel-la voce» a una festa al Kursaal di Lugano il 7 agosto 1944.226 Le sue qualità gli aprirono le porte della radio che il 1° luglio 1945 lo ospitò in un concerto operistico diretto da Leopoldo Casella nell’interpretazione di brani da La sonnambula, Don Giovanni, Don Carlos e Vespri siciliani.227

In quel frangente la situazione problematica in cui si trovavano gli stati dell’As-se non si prestava a suscitare particolari proteste, ma negli anni precedenti in cui era spinta al massimo la loro tracotanza la disponibilità della Svizzera all’accoglienza dei perseguitati non era passata senza prese di posizione. Non è allora da sottacere il fatto che la Germania nazista tenesse anche la rsi sotto osservazione. In un articolo di Hermann Killer del 18 febbraio 1935 apparso sulla «Coburger National-Zeitung», che magnificava il dovere degli artisti tedeschi all’estero di svolgervi un’attiva politica culturale nella forma della propaganda per la Germania nazionalsocialista, si poteva leggere ad esempio:

Che non lo sia è dimostrato sempre da singoli casi. Ora uno di questi è rivelato ad esempio dalla collaborazione del Quartetto per archi di Dresda a un concerto di musica da camera della stazione radio di Lugano nella Svizzera meridionale. Proprio Hindemith doveva essere suonato, un passo falso che assume un significato particolarmente attuale in relazione alla politica culturale tedesca.228

Oltretutto, ad attirare l’attenzione sulla “pericolosità” di quanto in Ticino si poteva fare a contestazione della Germania nazista, è la recente segnalazione di Ottavio Be-somi della pubblicazione a Cassarate nel 1935 da parte di una non meglio identifica-ta Libreria Internazionale di due beffardi volumetti: Witze Karikaturen und sonstige Ergötzlichkeiten aus dem III. Reich raccolte da Otto Hoffmann e Das “Greuelmärchen” von einem deutschen Staatsbeamten di anonimo.229

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222 Ivi, pp. 108 e 158.223 Ivi, pp. 100 e 128.224 Ivi, pp. 214 e 222.225 Ivi, p. 293.226 Sacchi, Diario 1943-1944, pp. 210-211.227 «Radioprogramma», 1° luglio 1945.228 Joseph Wulf, Musik im Dritten Reich. Eine Dokumentation, Gütersloh, Sigbert Mohn Ver-

lag, 1963, p. 344. Inizialmente tollerata la musica di Paul Hindemith fu vieppiù al centro di attacchi che portarono il compositore alla decisione di espatriare prima in Svizzera nel 1938 e negli Stati Uniti nel 1940.

229 Ottavio Besomi, Due libelli antinazisti nel Ticino degli anni Trenta?, «Archivio Storico Tici-nese», 163 (giugno 2018), pp. 76-93.

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A conti chiusi

Viceversa dal 1945 in poi la partita si giocò a parti invertite. Rimasta fuori dal conflitto la Svizzera si trovava ora a garantire ospitalità a chi cadeva in disgrazia a causa dell’adesione al nazifascismo. Il violinista Georg Kulenkampff (1898-1948), che nella Germania di Hitler ebbe favorita una brillantissima carriera, dopo la guerra scelse astutamente di rintanarsi in quel di Lucerna. Di lì venne più volte a Lugano, ospitato nella casa di Otmar Nussio,230 a tenere alla radio un intero «ciclo di sei concerti eseguiti e commentati» da lui stesso, dal titolo Lo sviluppo dell’arte virtuosa del violino, accompagnato al pianoforte da Walter Lang e dall’orchestra diretta dallo stesso Nussio.231

In questo senso l’occasione più significativa venne dalla presenza di Richard Strauss (1864-1949), il quale dopo l’arrivo in Baviera delle truppe di occupazione americane, fu confrontato con il processo di “denazificazione” per il ruolo assun-to nell’ambito del regime quale presidente della Reichsmusikkammer, una specie di consiglio superiore della musica compiacente con la dittatura, nonché quale presi-dente dal 1934 al 1942 del Conseil Permanent pour la coopération internationale des Compositeurs de Musique creato quando Goebbels impose l’uscita della Germania dalla Società internazionale di musica contemporanea accusata di promuovere le for-me “degenerate” di musica.232

Più o meno indotto a lasciare l’amata Garmisch subendo la pressione di un maggiore americano, nel 1946 raggiunse con la moglie Zurigo, scegliendo poi altri luoghi di riposo svizzeri (Montreux e Pontresina) dove portò a termine le straordina-rie opere che siglano non solo il suo congedo dal mondo ma anche la coscienza del tramonto della cultura tedesca che, assolutizzata in una forma chiusa su se stessa e incapace di sciogliersi dall’unilateralità dello sguardo retrospettivo, sembrava soccom-bere insieme col regime che in modo delirante l’aveva spinta verso l’abisso. Nonostan-

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230 Otmar Nussio, una vita «tutta suoni e fortuna», pp. 161-162.231 «Radioprogramma», 27 ottobre 1945; 5 febbraio 1946; 2 marzo 1946.232 In verità Strauss per certi versi si batté contro il regime per mantenere il rapporto con

artisti ebrei, come fu il caso di Zweig da lui scelto quale librettista dell’opera Die schweigsame Frau, che riuscì a far rappresentare nel 1934 ottenendo direttamente ed eccezionalmente da Hitler che il suo nome non fosse cancellato dagli stampati. In proposito lo scrittore austriaco non mancò di trasmetterci questo articolato ritratto: «Nel suo egoismo artistico, che egli sempre apertamente e freddamente confessava, ogni regime gli era in ultima analisi indifferente. Aveva servito come direttore d’orchestra il Kaiser e istrumentate per lui marce militari, poi era stato nella stessa qua-lità a Vienna per l’imperatore d’Austria, e si era infine conservato persona gratissima tanto nella repubblica austriaca che in quella germanica. Andare incontro ai nazi era inoltre di vitale interesse per lui, giacché egli, dal punto di vista nazionalsocialista, aveva un passivo notevolissimo. Suo figlio aveva sposato un’ebrea ed egli aveva motivo di temere che i suoi adoratissimi nipotini potessero venir esclusi come reprobi dalle scuole; la sua ultima opera era compromessa dal mio nome, quelle precedenti dal nome non “puramente ariano” di Hofmannsthal, il suo editore era ebreo. Gli parve insomma urgente crearsi un sostegno alle spalle, e a questo mirò con la massima tenacia. Andò a dirigere ovunque i nuovi padroni ordinassero, mise in musica un inno per le olimpiadi e in pari tempo nelle sue liberissime epistole si espresse con me con ben poco entusiasmo per quell’incarico. In realtà, nel suo “sacro egoismo” d’artista egli si preoccupava di una cosa sola: conservare la viva efficacia dell’opera propria e ancor più vedere rappresentato il nuovo melodramma particolarmente caro al suo cuore» (Zweig, Il mondo di ieri, p. 896).

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te il fatto che qualche giornale svizzero si unisse al coro di disprezzo che in quei mesi gli fu riservato dalla stampa francese, americana e soprattutto britannica (la basilese «Nationalzeitung» era giunta a dichiarare «essere una vergogna il tollerare un Richard Strauss su suolo elvetico»), all’anziano compositore fu riservata nel nostro paese be-nevola ospitalità. A Lugano egli approdò il 29 marzo 1947, prendendo alloggio nella casa di cura San Rocco a Breganzona. La notizia dell’arrivo del grande compositore fu data a Nussio da due musicisti suoi amici allora pure presenti in città: Bernhard Paumgartner e Ernst Roth, quest’ultimo già dirigente dell’Universal Edition che ave-va dovuto lasciare Vienna per motivi razziali e che si era meritato il posto di direttore della casa editrice musicale inglese Boosey & Hawks. Paumgartner lo descrive insod-disfatto in questa sobria residenza, costretto a fare i conti con le necessità quotidiane. Il maestro dall’aspetto signorile, al quale una vita di successo aveva concesso tutti i lussi e che era stato tenuto al riparo da qualsiasi interferenza potesse turbare la sua vena creativa, era ridotto a subire le regole di un albergo che gli imponeva la disciplina collettiva, in particolare l’ora dei pasti, per di più mediocremente cucinati. A causa della limitazione all’esportazione di moneta in Germania e in Austria, il maestro doveva inoltre fronteggiare problemi di contante. Benché non avesse difficoltà ad ottenere prestazioni a credito da parte dei dirigenti dell’albergo e dei commercianti dai quali si serviva, tale condizione umiliante gli pesava. Lo si poteva sorprendere contrariato nelle visite quasi giornaliere al Caffé Huguenin, ritrovo alla moda a cui era trascinato dalla moglie Pauline all’ora della merenda, in cui suonava un’orchestrina che si faceva un punto d’onore nel riservargli qualche brano di musica seria ogni volta che nel locale appariva Strauss, il quale tuttavia se ne partiva poi ancor più scontento ed ostentatamente annoiato quando sul leggio dei musicanti facevano capolino le inevitabili note di Lehár, che egli non riusciva a sopportare.233

Nell’approssimarsi del suo ottantatreesimo compleanno, maturò l’iniziativa di dedicargli un concerto, dapprima inteso come semplice trasmissione di musiche sue ma poi, quando il maestro chiese a Nussio di preferire l’ascolto in sala anziché dall’al-toparlante, diventato pretesto per chiedergli di assumere lui direttamente il compito direttoriale. Strauss accettò a condizione di intervenire dalla prova generale in poi ad orchestra già preparata dal suo titolare. Il concerto, tenuto l’11 giugno (il giorno del compleanno del maestro), si apriva con la Serenata op. 7 per tredici strumenti a fiato, proseguiva con quattro liriche per soprano e orchestra interpretate da Annette Brun (Morgen, Allerseelen, Ich trage meine Minne, Das Rosenband) e si concludeva con la Suite op. 60 delle musiche di scena per Der Bürger als Edelmann. Il concerto, che si svolgeva nello studio del Campo Marzio, era preceduto da un’allocuzione di Bernhard Paumgartner.234 La cronaca che ne diede Vinicio Salati faceva stato di un doppio distacco, da un mondo in procinto di tramontare e dal distacco dello stesso maestro dalle sue opere di un tempo percepite come archiviate dalla storia:

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233 Bernhard Paumgartner, Richard Strauss in der Schweiz, «Oesterreichische Musikzeitschrift», 19 (1964), p. 380.

234 «Radioprogramma», 11 giugno 1947. La registrazione dell’intero concerto è stata conserva-ta dalla Fonoteca Nazionale Svizzera (numero di catalogo 18BD1492), mentre i quattro Lieder tra-scritti per voce e orchestra unitamente alla prolusione di Paumgartner sono stati riprodotti nel cd dell’Orchestra della Svizzera italiana diretta da Markus Poschner interamente dedicato a Strauss, realizzato dalla cpo nel 2015 (777 990-2).

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Ormai siamo decisamente entrati in una nuova era. E lo si capisce e lo si sente par-ticolarmente quando avviciniamo un uomo che è cresciuto in un’epoca anteriore alla nostra. Vogliamo dire ancora prima di questo secolo.[...] Riccardo Strauss, seduto in iscranna, guardava l’orchestra con una specie di bonomia frammista a indifferenza. Così almeno pareva. Ma poi, fissandolo meglio, vedemmo il suo occhio vivo, quasi sgusciasse lo sguardo attraverso un lontano pensiero. Il gesto di Strauss negli attacchi come nel dirigere era semplice, sobrio, parco, freddo quasi. Seguiva con attenzione lo spartito mentre con la destra batteva la misura. Gli attacchi li dava con un semplice sguardo da questo a quell’esecutore.Il pubblico presente, invitato, seguiva il Maestro con passione, più che la musica sua; si sentiva la curiosità e l’interessamento di essere con Riccardo Strauss e di vivere un’ora nella sua atmosfera e in sua compagnia.L’omaggio al Maestro fu dunque spontaneo e sincero ed egli ne rimase commosso.235

Per un altro verso queste parole non esprimevano solo il senso di distacco da un’espe-rienza passata alla storia ma, a guerra conclusa ormai da due anni, corrispondevano alla determinazione di voltare pagina venendo a sancire la fine di un periodo che, costringendo la nostra regione ad adattarsi a nuovi rapporti non sempre facili con i vicini, aveva creato occasioni a volte rilevanti come apertura degli orizzonti della conoscenza. Sicuramente della loro importanza non ci si rese sempre conto sul mo-mento. Tuttavia esse meritano di non scomparire dalla memoria e di essere segnalate come stimolo alla riflessione sull’importanza della disponibilità all’accoglienza, fonte di allargamento delle prospettive di pensiero e di arricchimento nel confronto con nuovi valori che, se nell’immediato raramente produssero risultati concreti, nella pre-sa di coscienza a cui oggi ci inducono rivelano come anche un piccolo paese grazie al moltiplicarsi delle relazioni possa uscire dalla marginalità e attingervi spinte per sviluppi persino sorprendenti, contribuendo anche da una posizione di periferia a dare il suo contributo di civiltà.

Carlo Piccardi

235 V.S. [Vinicio Salati], Con Riccardo Strauss alla RSI, «Radioprogramma», xv, 25 (21 giugno 1947), p. 3. Su altri aspetti del lungo soggiorno luganese di Strauss nella primavera del 1947 rimando al mio studio di qualche anno fa (Carlo Piccardi, Richard Strauss: tramonto a Lugano, «Il Cantonetto», lxi, 1-2, (febbraio 2014), pp. 19-26).