TEMPO PRESENTE - Fondazione Giacomo...

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N. 469-471 gennaio-marzo 2020 euro 7,50 TEMPO PRESENTE a. aghemo e. capuzzo a. casu r. catanoso e. d’auria e. f. m. emanuele c. palagiano g. pescosolido a. g. sabatini f. vander CARLO GHISALBERTI UN RICORDO * MEDITERRANEO REGIONE DI ACCOGLIENZA E DI RINASCITA * ELOGIO DEL DIRITTO DI CACCIARI E IRTI * LA CASA DEL POPOLO DI ROMA

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N. 469-471 gennaio-marzo 2020 euro 7,50

TEMPO PRESENTE

a. aghemo e. capuzzo a. casu r. catanoso e. d’auriae. f. m. emanuele c. palagiano g. pescosolido a. g. sabatini f. vander

CARLO GHISALBERTIUN RICORDO

*MEDITERRANEO

REGIONE DI ACCOGLIENZA E DI RINASCITA

*ELOGIO DEL DIRITTO

DI CACCIARI E IRTI

*LA CASA DEL POPOLO DI ROMA

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giorgio pAciFici - gAetANo pecorA - Vittorio pAVoNcellomArco SAbAtiNi - Attilio ScArpelliNi - Sergio VeNDitti

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Presidente: emmANuele FrANceSco mAriA emANuele

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TEMPO PRESENTE

Rivista mensile di culturaN. 469-471 gennaio-marzo 2020

PRIMA PAGINA

Carlo Ghisalbertiun ricordo

ANTONIO CASU, Carlo Ghisalberti funzionario parlamentare, p. 3

ALBERTO AGHEMO e ANGELO G. SABATINI, In memoria di Carlo Ghisalberti, p. 6

ESTER CAPUZZO, Carlo Ghisalberti e gli studi sugli ebrei italiani, p. 11

ELIO D’AURIA, Ghisalberti storico dell’unificazione nazionale, p. 17

COSIMO PALAGIANO, Per Carlo Ghisalberti, p. 30

GUIDO PESCOSOLIDO, Carlo Ghisalberti studioso di Silvio Spaventa, p. 33

UOMINI E IDEE

EMMANUELE FRANCESCO MARIA EMANUELE, La centralità geopolitica e culturaledel Mediterraneo, regione di accoglienza e di rinascita, p. 47

ROSARIA CATANOSO, Elogio del diritto, un dialogo con Massimo Cacciari e Natalino Irti, p. 52

FABIO VANDER, La Casa e la città, p. 57

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La Nuova Serie di «Tempo Presente» compie quarant’anni: un traguardo ambitoper una rivista di cultura, ancor più se “indipendente”, autonoma nella compagineredazionale non meno che nello spirito che la anima, lo stesso che guidò i suoi padri,Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, che fondarono il periodico nella sua primaserie, pubblicata dal 1956 al 1968, e poi Angelo G. Sabatini che nella scia dellaloro eredità ideale rilevò la testata e le diede nuova vita nel lontano febbraio del1980, da allora dirigendo la “Nuova Serie”.

Il logo presente nella prima e nell’ultima pagina della copertina – che quiriproponiamo – evidenzia questo evento, che intendiamo ricordare con iniziativediverse: convegnistiche, editoriali, culturali e civili. L’emergenza sanitaria globale ci costringe a procrastinare alcuni eventi già incalendario, ma assicuriamo ai lettori che il ritorno all’auspicata normalità non citroverà impreparati, bensì pronti ad offrire agli amici di «Tempo Presente» nuoveproposte di riflessione e non inutili provocazioni, nuovi spunti di dibattito civile,rinnovate occasioni di confronto ideale lungo la stretta via, sinora percorsa per un fintroppo breve tratto, che porta a una società aperta ed equa, alla ricerca della felicità,alla buona politica, alla cultura della libertà, alla libertà della cultura.

Su iniziativa del Cenacolo di Tommaso Moro, di Tempo Presentee della Fondazione Giacomo Matteotti,

il ricordo di Carlo Ghisalberti

si è tenuto in Roma il 19 febbraio 2020 presso la Sala della Sagrestia della Camera dei deputati.

Hanno partecipato Alberto Aghemo, Ester Capuzzo, Antonio Casu, Elio D’Auria,Cosimo Palagiano, Guido Pescosolido, Angelo G. Sabatini.

Roma, 18 dicembre 1929 - 15 dicembre 2019

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Non è senza emozione che introducoqueste testimonianze sulla figura esull’opera di Carlo Ghisalberti. Unmaestro, ma anche un amico. Non misoffermo sui tratti della sua personalità,ben nota a tutti i presenti. Mi siaconsentito dirvi che non lo sento assente.Ci accompagna non solo la sua opera distorico, tra i più importanti, ma anche lasua serenità e signorilità di modi, l’assenzadi qualunque dogmatismo, l’alto sensodelle Istituzioni.Ringrazio dunque tutti coloro chehanno raccolto questo invito e cheoffriranno la loro testimonianza in formaorale o scritta. I relatori, innanzitutto,scelti nella cerchia degli amici più cari:Alberto Aghemo, Ester Capuzzo, ElioD’Auria, Cosimo Palagiano, GuidoPescosolido e Angelo G. Sabatini.Ringrazio la moglie Magiù con le figlie ei familiari per la loro presenza. La rivistadi cultura “Tempo Presente”, che hacondiviso sin dall’inizio questa iniziativadell’Associazione culturale “Il Cenacolodi Tommaso Moro”, ospitandone icontributi in un prossimo numero. Eringrazio infine la Segretaria Generaledella Camera, Lucia Pagano, che ciconsente stasera di svolgere questarievocazione, e questa occasione diincontro, nella antica e solenne Sala dellaSacrestia, nel complesso monasticoaltomedievale di vicolo Valdina, nel cuoredi Campo Marzio.In effetti, in questa scelta c’è una

motivazione profonda, che attiene agliesordi professionali di Carlo.Troppo spesso, infatti, nel delinearne lafigura e l’opera, si omette di ricordarel’inizio del suo percorso professionale, dafunzionario parlamentare. Eppure, quegli esordi sono non soloprodromici ma coessenziali al suo itersuccessivo. Il primo atto, l’atto instaurativo del suoservizio al Parlamento, è la comunicazionedel Segretario Generale della Camera,avvocato Coraldo Piermani, relativa all’approvazione da parte della Commissioneesaminatrice della graduatoria del concorsopubblico, per esami e titoli, a dodici posti diSegretario parlamentare (nota del 26 ottobre1956). Siamo nella seconda legislatura: ilPresidente della Camera è Giovanni Leone,ed è in carica il primo Governo guidato daAntonio Segni.Il 7 novembre la graduatoria vienepubblicata, e Carlo risulta terzo (conpunti 42,62/50), in un concorso del qualesono vincitori anche Guglielmo Negri eLuciano Stramacci, che diverrannoVicesegretari generali della Camera.Dell’elenco fanno parte anche altri nominoti, come quelli di Beniamino Placido,Oberdan Fraddosio, Tullio Ancora, chesarà più tardi Commissario del Governoper il Lazio, Ferdinando Caracciolo,Giuseppe Carboni ed altri.Il giorno successivo (8 novembre) èinquadrato nella categoria dei funzionaridi concetto e nominato Segretario in

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Antonio Casu

Carlo Ghisalbertifunzionario parlamentare

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prova con decorrenza dal 16 novembre.Il relativo decreto reca la firma delPresidente della Camera. Il 20 novembre 1956 è assegnato all’Ufficio Commissioni parlamentari, cheall’epoca erano undici. Direttore dell’Ufficio era all’epoca Francesco Cosentino,che sarà Segretario Generale dal 1° aprile1964 al 15 aprile 1976. Ancora dunque siusava la dizione “Ufficio”, di anticamemoria parlamentare, e non quella di“Servizio”, che prenderà piede consuccessive riforme amministrative. NelBollettino dei Servizi si parla generica-mente di Ufficio Commissioni.L’assegnazione alla Commissione giustizia,su cui si sofferma nelle sue memorie,trova riscontro in fonti secondarie, tra cuila “Miscellanea di studi”, pubblicata insuo onore da Ester Capuzzo ed EnnioMaserati nel 2003. Presidente dellaCommissione era l’autorevole costituzio-nalista Egidio Tosato, già membrodell’Assemblea Costituente, espressionedella sinistra democristiana. Da Segretariodella Commissione giustizia, succedendonel ruolo a Nicola Ricciuti, deve misurarsicon tematiche particolarmente impegna-tive, dalle proposte di riforme dei codicialla semplificazione dell’ordinamentogiudiziario, dall’istituzione del Consigliosuperiore della magistratura alla rego-lamentazione dei patti agrari. La conferma in ruolo arriva circa unanno dopo, il 22 dicembre 1957, dunquesul finire della seconda legislatura,quando il governo era passato nelle manidi Adone Zoli, mentre ancora Leone ePiermani guidavano rispettivamente laCamera e l’amministrazione parlamentare.Il 31 ottobre 1959 – siamo ormai nellaterza legislatura repubblicana, al governoè tornato Antonio Segni, alla guida delsuo secondo Dicastero, e alla Presidenza

della Commissione giustizia si succedonoFrancesco Dominedò e GennaroCassiani, al quale rimarrà legato darapporti di amicizia –, alla scadenza delprimo triennio di permanenza nellaqualifica, Carlo matura il primo passaggiodi professionalità. Ogni anno, puntualmente, il prospettoper le note caratteristiche del personalene evidenzia: «ottime doti di cultura,buona volontà, zelo e diligenza,prontezza e vivacità di ingegno oltre aduna notevole preparazione culturale». Esi aggiunge una significativa notazionepersonale: «apprezzato e benvoluto dasuperiori ed inferiori» (così il Direttoredelle Commissioni, Cosentino, nelrapporto informativo del 31 ottobre1959). Era, il rapporto informativo,l’antesignano delle note di qualifica edelle schede di valutazione invalse inepoca successiva, fino ai giorni nostri.Con decreti presidenziali del 30novembre e 30 dicembre 1959 glivengono riconosciuti i servizi anteriori aifini del trattamento di quiescenza (tremesi come archivista di Stato al Ministerodell’interno e quattro anni di studiuniversitari).Il 1° luglio 1961 (terza legislatura, eterzo Governo Fanfani) Carlo matura ilsecondo avanzamento nella carrieragiuridica. Promosso primo segretario il 1°dicembre 1963 (siamo ora nella quartalegislatura, vigente il primo GovernoLeone, Presidente della Camera BrunettoBucciarelli Ducci, Segretario generaleancora Coraldo Piermani), all’incarico diSegretario della Commissione giustizia siaggiunge quello di Segretario dellaCommissione di vigilanza sulla RAI,allora presieduta dal democristianoFranco Restivo.

Antonio Casu

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L’annuale rapporto informativo neevidenzia non solo la «intelligenza vivace»e la «elevata cultura generale e specifica»,ma, significativamente, «il tatto con cuisvolge le mansioni d’ufficio», «il prestigiodi cui gode presso gli onorevoli deputati»,e «l’ascendente che esercita sugli inferiori».La sua cultura è un elementofondamentale del suo profilo profes-sionale, tanto che fin dalla fine del 1957Cosentino, nella sua qualità di Direttoredelle Commissioni, gli conferisce«l’incarico di sovrintendere allo schedariodei precedenti costituzionali e regolamen-tari, che ha riorganizzato applicando inmodo encomiabile i più moderni principidi sistematica scientifica» (Rapportoinformativo del 26 ottobre 1957). Unapropensione allo studio confermata tral’altro dalla qualità dei nuovi studi presentiin ciascun rapporto informativo annuale.Ottime doti intellettuali e culturali,dunque, si coniugano con un trattosignorile e rispettoso, e – come si èrilevato – con molto tatto nell’espleta-mento delle funzioni, qualità che gliprocurano ampio e diffuso consenso.Carlo Ghisalberti annota, nelle memorie,le ore di studio trascorse presso laBiblioteca della Camera dei deputati, alloradiretta da Silvio Furlani, ubicata al quartopiano di palazzo Montecitorio fino al 1988,anno del suo trasferimento nel complessodi San Macuto, nell’antica Insula sapientiae.In Biblioteca scrive il libro su “GianVincenzo Gravina giurista e storico”, cherisulterà in seguito decisivo, con altri scritti,per vincere il concorso universitario.

A Carlo, la Biblioteca della Camera hadedicato un aggiornamento dei suoiscritti e delle edizioni successive alla citata“Miscellanea” del 2003, mettendola adisposizione di studiosi, ricercatori edutenti.Per completare il suo profilo ricordoche, durante gli anni del suo servizioall’Istituzione parlamentare, gli vieneconferita l’onorificenza di Cavalieredell’Ordine al Merito della Repubblica il21 dicembre 1961 (terza legislatura, terzoGoverno Fanfani, Presidente dellaCamera Giovanni Leone, CoraldoPiermani sempre Segretario Generale) edi Cavaliere Ufficiale il 13 ottobre 1964(quarta legislatura, secondo GovernoMoro, Presidente della Camera èdiventato Brunetto Bucciarelli Ducci,mentre alla guida dell’amministrazionedella Camera Piermani è stato avvicendatoda Francesco Cosentino).Qualche mese prima, il 1° agosto 1964,nella stessa cornice politico-istituzionaleed amministrativa, Carlo Ghisalberti ècollocato, a domanda, in quiescenza.È questo il momento, dunque, in cuiCarlo perfeziona la sua decisione dicambiare il terreno d’impegno professio-nale. Quello che è certo, quello che la suavita e i suoi studi dimostrano, è che Carloha cambiato lavoro, ha cambiato ilterreno d’impegno, ma ha mantenutoinalterato, anzi potenziato, con l’età el’esperienza, il suo bagaglio di interessi, diconoscenze, di curiosità intellettuali,sempre al servizio delle Istituzionidemocratiche.

Carlo Ghisalberti funzionario parlamentare

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È difficile ricordare un grandescomparso. Quanto più alta è stata la suastatura intellettuale ed umana, tanto piùarduo è il compito per chi deve renderetestimonianza della grandezza di untempo passato, di un uomo passato, e alcontempo dare conto di un vuotoincolmabile e misurare la distanza con unpresente che appare, nel confronto,tristemente vuoto e inadeguato. Ancorapiù difficile trovare le giuste parole,rinvenire i ricordi corretti, superare gliabbagli di un’incerta memoria, vincerel’emozione, fuggire la retorica, superarela lusinga di una commemorazioneinevitabilmente alterata dall’ammirazioneper lo studioso e dal coinvolgente affettoche l’uomo Carlo Ghisalberti sollecitaoggi, scomparso, non meno di quantofacesse in vita con la sua prorompente,esuberante personalità.A rendere ancora più impervia l’impresac’è – qui e oggi – la presenza di autorevolistorici, prestigiosi studiosi, colleghi ediscepoli, a Lui legati da una consue-tudine antica e da una consolidatafamiliarità: tutti in grado di portare uncontributo alla sua memoria ben piùprofondo del nostro. In tale consapevolezza, dunque, milimiterò ad una breve testimonianza –condivisa con l’amico Angelo G. Sabatini– che passa attraverso i ricordi, vividiancorché lontani nel tempo, di unostudente e di un allora giovane redattoredi riviste di cultura.

La prima memoria risale all’inizio deglianni Settanta e si colloca in quellastraordinaria officina degli studiahumanitatis che fu la “Scuola diperfezionamento nelle scienze morali esociali” della Facoltà di Lettere e filosofiadell’allora Studium Urbis. La scuola,triennale e post-lauream, per un versosurrogava quella facoltà di Sociologia cheda più parti invocata ancora dovevaessere istituita, per altro verso sanciva apieno titolo la simbiosi – accademica escientifica, non meno che didattica – trai tradizionali studi storico-filosofici e lenuove discipline sociali prepotentemente“emergenti”: dalla sociologia e dallapsicologia (nelle loro diversedeclinazioni), all’antropologia culturale.Voluta e presieduta da Franco Lombardi,la “Scuola di Via dei Caudini” (cosìchiamata dalla sede, prossima alla CittàUniversitaria), era diretta e gestita daAngelo Sabatini, che ebbe un ruolodecisivo nella cooptazione del corpodocente. La Scuola riscosse unimmediato successo ed un consistenteriscontro in termini di immatricolazioni;era suddivisa in due sezioni che, altermine del triennio, rilasciavano diplomisuperiori di ricercatore nelle scienzestorico-morali, ovvero in quelle sociali.Responsabile per le scienze sociali fudesignato Gianni Statera; a dirigere ilsettore di quelle storiche Sabatini chiamòl’amico Rosario Romeo1, che insegnavapresso la Scuola Storia contemporanea,

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Alberto Aghemo e Angelo G. Sabatini

In memoria diCarlo Ghisalberti

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presto affiancato da due “giovani” (inrealtà erano tutti quarantenni, più o menocoetanei di Angelo) quanto brillantidocenti, peraltro già affermati: Paolo(Paolino) Ungari2 per la Storia del dirittoe Carlo Ghisalberti per la Storiacostituzionale. Credo che i nomitestimonino ampiamente l’indiscutibilevalore dell’offerta didattica e giustifichinoil successo che la “Scuola” riscosse inquei primi anni Settanta, prima che la«notte della ragione» cieca e sanguinariadegli “anni di piombo” avvelenasse ipozzi della Sapienza.In quella sede, in quel contesto ebbeluogo il mio incontro, mai dimenticato,con Carlo Ghisalberti. Era il 1974, unanno importante per la storia costituzio-nale, giacché vide la prima edizione di untesto formidabile e destinato a grandequanto meritata fortuna, anche al di fuoridell’ambito accademico: mi riferisco aquella Storia costituzionale d’Italia, edita daLaterza e più volte ripubblicata (l’ultimaedizione, se non erro, risale al 2002, aquasi trent’anni della prima). Ghisabertiaveva allora 45 anni e un curriculumbrillante: laureato in giurisprudenza conuna tesi in Storia del diritto italianodiscussa con Francesco Calasso, era statoper otto anni funzionario della Cameradei deputati rivestendo, tra l’altro,l’incarico di segretario della CommissioneGiustizia; aveva quindi insegnato Storiadel Diritto italiano nelle Università diMessina, Trieste e, successivamente,nell’Università di Roma, dove è stato poiordinario di Storia contemporanea. Sulla prima edizione di quell’operafondamentale preparai – con grandeprofitto personale e a seguito di unalettura inaspettatamente piacevole edavvincente – l’esame con il Maestro, cheal costituzionalismo aveva e avrebbe

anche in seguito applicato la sua vastacultura, una rara competenza ed uncomprovato rigore scientifico: virtù acca-demiche, certo, ma anche umane, sempresostenute da una mente – e da una prosa– decisamente brillanti. Senza tentare, inquesta sede un’elencazione esaustiva deisuoi alti contributi sul tema, mi limiteròqui a citare Costituzionalismo e classi socialialle origini del Risorgimento3, di pocosuccessivo (siamo nel 1976) e l’ampio emeditato Stato, nazione e Costituzionenell’Italia contemporanea4 del 1999.Del suo insegnamento mi restano – aldi là dell’indiscutibile valore scientifico –due cose: il ricordo di una personalitàforte quanto seducente (diciamolo: di unasimpatia tutta “romana”) e la copia dellibro, puntigliosamente annotata a matitae conservata con cura. La cura che si devea un testo importante ed amato, oltre chea un libro realizzato con una periziaeditoriale che oggi non esiste più, conl’elegante legatura in tela e la sobriasovracopertina delle “vecchie” edizioniLaterza, ancora intatta. Quello stesso libro mi è tornato tra lemani lo scorso anno, e non per caso.Nelle poche ma dense pagine di«Premessa» al volume collettaneo LaCostituzione italiana alla prova della politica edella storia 1948-2018, pubblicato dallaFondazione Giacomo Matteotti nellacollana “Studi di Storia e politica”(collana diretta da Ester Capuzzo,Antonio Casu e Angelo G. Sabatini) nel2019 per i tipi di Rubbettino, è sembratodoveroso, ad Angelo e a me, «[…]invitare alla lettura del volume con leparole ammonitrici che un grande storico(e caro amico), Carlo Ghisalberti, ponevaa conclusione della sua monumentale egiustamente celebrata Storia costituzionaled’Italia. È passato quasi mezzo secolo da

In memoria di Carlo Ghisalberti

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quando furono scritte, ma come sempresuccede con le riflessioni alte e meditate,restano tuttora di assoluta attualità:

Un testo costituzionale non basta acreare una democrazia. Questa, infatti,vive solo nella consapevolezza, da partedel popolo, della irrinunciabilità dei valoriche vi sono contenuti, del rispetto deiprincipi che vi sono codificati. Questaconsapevolezza, però, non può nasceredi un tratto, come conseguenza imme-diata della sua promulgazione da parte diun’assemblea costituente…5.

A qualche anno più tardi, ed alla miaesperienza di allora giovane redattore diriviste culturali risale la mia secondamemoria. Se si parla di riviste di cultura,il nome di Carlo Ghisalberti è, senzadubbio, indissolubilmente legato a«CLIO», la rivista trimestrale di studistorici fondata da Ruggero Moscati: latestata, assai prestigiosa e tribunaautorevole dei più qualificati studi storici,ebbe in lui l’animatore più attivo ed ildirettore più autorevole. Il che non gliimpedì, assecondando le lusinghe (e avolte le pressanti richieste) dell’amicoAngelo Sabatini, di collaborare, sia puroccasionalmente, con «Tempo Presente»,la rivista di cultura fondata nel 1956 daIgnazio Silone e Nicola Chiaromonte,che aveva cessato le pubblicazioni nel1968 (sulla coincidenza di queste due date– 1956-1968 – a diverso titolo “fatali”nella cultura politica e nella storia dellasinistra italiana e non solo, molto sipotrebbe riflettere, ma non è questa lasede). Sarebbe poi risorta nel 1980 grazieal determinato ed appassionato impulsodi Angelo che, rilevata la gloriosa testata,l’ha accompagnata al traguardo deiquarant’anni ininterrotti di pubblicazione

della “Nuova Serie”, impresa meritoriaquanto rara nel panorama nazionale delleriviste culturali: creature effimere,soprattutto se “indipendenti”. La collaborazione di Ghisalberti èpraticamente coeva alla rinascita di«Tempo Presente»: inizia infatti con ilsecondo fascicolo della “Nuova Serie”,nel 1980, con un intervento suGerusalemme, osservatorio medio-orientale,seguito da due articoli, entrambi risalential 1982, sempre dedicati al medesimotema, a testimonianza di un interesseacuto e di una profonda conoscenza diuna materia che allora animava come nonpoche il dibattito politico internazionalee che, a ben vedere, è tuttora al centrodelle dinamica geopolitica mediterranea,ancorché attutita dall’insorgere di altrifocolai di crisi in un’area, quella medio-orientale, strategicamente vitale quantostoricamente martoriata e teatro diinnumerevoli conflitti. Gerusalemme dopo il25 aprile esce nel fascicolo n. 17,dell’estate del 1982, subito seguito, nelnumero successivo della rivista, all’epocabimestrale, da un altro articolo, GiudicareIsraele. L’articolo del 1980, che richiamavanel titolo la sezione della rivista“Osservatorio” da lui inaugurata, eraquasi un reportage su una regioneall’Autore ben nota («tra speranze etimori», come annota): vi era appenatornato dopo due anni, ma la suaconoscenza di Israele risaliva al 1968,ovvero, come si ricorda in quelle pagine,all’anno successivo a quella «Guerra deiSei giorni che tanto aveva contribuito amodificare il quadro politico medio-orientale dando agli israeliani se nonl’illusione di una pace entro confini sicurie riconosciuti almeno talune linee diarmistizio o di tregua» secondo una lineadiplomatica culminata con gli accordi di

Alberto Aghemo e Angelo G. Sabatini

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Camp David e l’avvio di una gradualerestituzione del Sinai al governo di Sadat.Già nel titolo Gerusalemme dopo il 25 aprilefa riferimento alla data – il 25 aprile 1982,appunto – in cui si compie l’ultimo attodell’abbandono del Sinai da parte degliisraeliani mentre l’Egitto

«’auspice’ Sadat e con la mediazioneamericana […] ha dimostrato diriconoscere l’esistenza di Israele ed harinunciato ai folli disegni di annienta-mento dell’avversario».

L’articolo si chiude con un vibranteauspicio: che «le terre della Bibbia,riscattate dal deserto, possano tornare adessere, al di là degli opposti schieramentipolitici e militari, luoghi di pace e diincontro tra genti diverse». Da qui laconvinzione, ribadita nel già menzionatoGiudicare Israele, che «la politica dei ‘piccolipassi’ implicante la ricerca di accordisettoriali […] è tuttora senza alternative».Di tutt’altro tenore Il problema della

riforma della legge elettorale, apparso su«Tempo Presente» n.29, del 1987, unsaggio di ampio respiro che nel qualel’impronta del costituzionalista e dellostorico si impone di autorità sin dalleriflessione introduttiva:

«Dalla consapevolezza del legame traordinamento costituzionale e sistema direclutamento della classe politica derivaspontanea l’osservazione della difficoltà,se non addirittura dell’impossibilità dicreare, o anche soltanto di far vivere, unademocrazia, fondandone esclusivamentele basi su una legge elettorale».

Affrontando da par suo il tema delrapporto tra stabilità politica erappresentanza, in uno dei tanti cicli nei

quali, periodicamente, il tema dellariforma elettorale è tornato di prepotenzanell’agenda politica quasi a far veloall’ormai conclamata fase di declino deipartiti polirci, Ghisalberti può benconcludere che

«il discorso sulla governabilità daconseguire nella sua forma migliore nonè un discorso sulla moralità astratta edassoluta di una legge elettorale. È solouna riflessione sulla ricerca di un sistemache sembri più idoneo di altri».

Nel successivo articolo, dal titolo 1789-1989. Duecento anni dalla Rivoluzionefrancese, pubblicato per l’appunto nell’896,Ghisalberti presenta criticamente allettore un’ampia rassegna di letturedell’esperienza rivoluzionaria, evidenziandocome sia stata sostanzialmente la culturademocratica dell’Ottocento ad esaltare laRévolution come motore democratico-libertario e fortemente germinativo «delprocesso risorgimentale in Italia».L’ultimo contributo del Nostro a «TempoPresente» risale al 1992 e si presentacome un’acuta e amara riflessione, svoltaperaltro nell’ambito di un convegno sulmedesimo tema, su I partiti nella cultura delcambiamento7. Ghisalberti si interroga sullaquestione apparentemente abusata e sintroppo ricorrente, della “crisi delleistituzioni” – evidentemente già all’epocaben presente e fortemente percepita –per argomentare: «Qual è la crisi in cuioggi ci dibattiamo? È la crisi del consensoche è necessario nei rapporti tra unasocietà civile e un potere politico e unoStato». Una crisi che è quindi, soprattuttodei partiti, che tuttavia, pur spessomanifestamente inadeguati «sono neces-sari, sono indispensabili», ancorchéincapaci di rigenerarsi ed autoriformarsi

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(è appena il caso di ricordare che ildibattito si svolge mentre davanti al Paesedi sta dipanando la matassa maleolente diMani pulite, ancora appena avvertita, eTangentopoli sta per trascinare nella suarovina la Prima Repubblica). La conclu-sione del Nostro, nel contesto di questopiano irresistibilmente inclinato, èamaramente profetica:

«i partiti hanno una funzione diorientamento e una funzione di raccoltadell’opinione pubblica. Questa è la lorofunzione naturale; oltre a questo c’è solooccupazione dello Stato e della societàcivile, caccia di posti e prebende. Ciò chedeve finire, assolutamente».

È dunque possibile una riforma delsistema? La domanda non è retorica e larisposta non è di convenienza mapragmatica e, al fondo, disillusa:

«la modifica è possibile solo incidendosui meccanismi di reclutamento dellaclasse politica, stabilendo un rapportopiù stretto tra elettori ed eletti…».

Quanto è successo dopo – appena pocodopo – appartiene più alla cronaca chealla storia e l’ottimismo della Volontàautorevolmente manifestato da CarloGhisalberti ha ceduto terreno alpessimismo della Ragione, imposto da unamaro e disincantato Spirito del Tempo. Spiace che Carlo Ghisalberti abbiadovuto assistere – non da solo, in verità– al declino di quelle istituzioni che conrettitudine e straordinario talento peranni ha illustrato, come Civil Servantprima, come accademico poi, comeuomo sempre. Lo ha fatto da cittadino elo ha fatto, soprattutto da storico.Elemento, questo, non irrilevante se si

pone mente alle parole di Pasternak:«Cos’è la storia? Le sue radici sono insecoli di lavoro sistematico: la storia è lasoluzione dell’enigma della morte, cosìche questa possa essere sconfitta»8.

NOTE

1 Il grande storico di Giarre era già allora ilriconosciuto caposcuola della storiografia risorgi-mentale italiana. Tra le sue opere di maggiorrilievo si possono qui ricordare: Il Risorgimento inSicilia, Catania 1948; Dal Piemonte sabaudo all’Italialiberale, Torino 1963; Breve storia della grande industriain Italia 1861-1961, Bologna 1963; Mezzogiorno eSicilia nel Risorgimento, Napoli 1963; Cavour e il suotempo, Bari 1969-1984.2 Del brillante studioso milanese si devonoalmeno ricordare gli Studi di storia e di dirittocontemporaneo, scritti con Alberto Aquarone eStefano Rodotà, pubblicati dalle Edizioni diComunità nel 1968 e due brillanti saggi, entrambidel 1974: Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica delfascismo, edito da Morcelliana, e Storia del diritto difamiglia in Italia (1796-1942), per i tipi de il Mulino.3 In «Rivista di storia del diritto contemporaneo»,1976, fasc. 1.4 Edito a Napoli nel 1999, per le EdizioniScientifiche Italiane.5 C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia1849/1948, Laterza, Bari 1974, p. 431.6 «Tempo Presente», numero triplo 106-108,1989, p. 20 e sgg.7 «Tempo Presente», numero 142, 1992, p. 28 esgg.8 Boris Pasternak, Il dottor Zivago, Feltrinelli,Milano 1957, p. 217.

Alberto Aghemo e Angelo G. Sabatini

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Conosciamo tutti Carlo Ghisalberti perl’essere stato il maggiore studioso dellaseconda metà del Novecento dellevicende costituzionali del nostro paesedall’antico regime sino al 1948 e ancheoltre se consideriamo l’estensione sino al1994 cioè alla seconda Repubblica dellasua Storia costituzionale, opera che vaben oltre la ricostruzione dei meccanismie delle prassi istituzionali per diventarecon un respiro ben più ampio una storiadelle classi dirigenti, delle forze politichee dei partiti dal periodo preunitario all’etàrepubblicana secondo quella visione chegli era propria di non considerare mai ildato giuridico e istituzionale decontestua-lizzato dalla realtà storico-politica delmomento ma anzi estremamente inter-connesso con essa come, peraltro, avevagià dimostrato sin da Le costituzionigiacobine (1796-1799)1 del 1957 e successi-vamente Dall’antico regime al 1848. Leorigini costituzionali dell’Italia moderna2 del1974, aprendo in quella che era allora lasua disciplina nuove ed originali piste diricerca indagate, non soltanto con “lelenti del giurista” ma con un più vastosguardo storico-politico. Non soltanto levicende costituzionali sono state al centrodel lavoro storiografico di CarloGhisalberti ma anche quelle dei codiciche trovavano, potremmo dire, il loropunto d’arrivo nel volume La codificazionedel diritto in Italia 1865-19423, nel qualericostruiva le vicende dei diversi codicipostunitari e della normativa che li

integravano per sovvenire alle esigenze diuna società in progressiva e costanteevoluzione sullo sfondo dell’attivitàpolitica dei governi che dalla Sinistrastorica si erano susseguiti sino alVentennio fascista. Una ricostruzioneche, a sua volta, come per la storiacostituzionale, era stata preceduta daun’analisi delle vicende che dall’anticoregime all’Italia liberale avevano segnatoil passaggio dal pluralismo normativod’origine medioevale al nuovo sistema deldiritto realizzato dalla codificazionenapoleonica nel volume Unità nazionale eunificazione giuridica in Italia. La codificazionedel diritto nel Risorgimento (1979)4. Queste opere per la cui pubblicazioneCarlo Ghisalberti aveva a lungo studiatonella Biblioteca della Camera dei deputati,allora a Palazzo Montecitorio, eranocaratterizzate da innovazione e originalitàstoriografica, stante anche il prevalentetaglio medievistico che aveva allora laStoria del diritto e nella quale lo studiososi dedicava tra i primi allo studio dellastoria del diritto moderno. Si tratta diopere che, non dobbiamo dimenticarlo,hanno anche avuto un alto valoreformativo perché su di esse si sonoformate generazioni di studenti e difunzionari in vari settori dell’ammini-strazione pubblica.Nel tempo la sua produzione si sarebbetematicamente diversificata anche con ilsuo passaggio alla Storia contemporanea,disciplina che sentiva molto più vicina ai

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Ester Capuzzo

Carlo Ghisalbertie gli studi sugli ebrei italiani

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suoi ideali etico-politici di stampocrociano come testimoniato, a esempio,dagli scritti su Silvio Spaventa5 e da quellisulle vicende del confine orientale dallafine della Serenissima alla tragediadell’esodo giuliano-dalmata (Da Campoformioa Osimo. La frontiera orientale tra storia estoriografia6 e Adriatico e frontiera orientale dalRisorgimento alla Repubblica7).Non è tuttavia di questi scritti chedesidero parlare, altri lo faranno in altresedi, quanto piuttosto vorrei soffermarmisu quel filone di studi apparentementesecondario, ma intimamente legato al suoapproccio etico-politico alla storia e allasua parabola umana, dedicato alle vicendedegli ebrei italiani dal 1848 al 1938 e alloro rapporto con il sionismo. Filone chetrovava espressione a partire da unasaggio Sulla condizione degli ebrei d’Italiadall’emancipazione alla persecuzione, presentenel volume Istituzioni e Risorgi-mento. Idee eprotagonisti8, edito da Le Monnier nel 1991nella collana Quaderni di Storia diretti daGiovanni Spadolini e scritto in unperiodo in cui la storiografia contempo-raneistica scarsamente si dedicava astudiare la storia degli ebrei nel nostropaese a differenza di oggi che mostra,invece, un forte interesse quasiesclusivamente, però, focalizzato sulleleggi razziste e sulla Shoah.A questo scritto del 1991 cherappresentava l’ampliamento di unarelazione presentata al IV convegno diItalia Judaica svoltosi a Siena nel 19899,altri ne seguivano: Gli ebrei dall’integrazionenazionale all’antifascismo (1997)10; Sugli ebreid’Italia tra Ottocento e Novecento (2004)11;Ebrei italiani e sionismo. Appunti per unariflessione (2005)12; Risorgimento italiano eRisorgimento ebraico (2006)13; La legislazionerazziale del 193814. A questi si aggiun-gevano quelli dedicati a due personaggi

dell’ebraismo dell’età liberale e di quelloantifascista di grande rilievo come LuigiLuzzatti ed Enzo Sereni. Si trattava disaggi che in alcuni casi erano frutto diinterventi svolti in convegni organizzatiallo Yad Vashem15 e al Museo UmbertoNahon di Gerusalemme dalle associa-zioni degli Italkim cioè degli italiani diIsraele, e in particolare da Sergio I.Minerbi, a lui fortemente legato darapporti familiari, e da Sergio DellaPergola. E di questi temi e della lorostesura con la sua consueta ma anche raracapacità di condivisione Carlo Ghisalbertisoleva spesso chiacchierarne con il suocaro amico Amedeo Tagliacozzo.In questi saggi che possiamo dividere

ratio temporis in due grandi periodi diriferimento, da un lato l’etàrisorgimentale e liberale e dall’altro ilperiodo fascista, Carlo Ghisalbertiripercorreva le vicende degli ebrei italianinon in maniera evenemenziale ma conquell’approccio alla grande scala che gliera proprio alla luce delle trasformazionisubite dallo Stato italiano portato acompimento dal processo risorgimentaleche con la libertà degli italiani avevarealizzato anche la libertà degli ebrei e alquale, come scriveva in Risorgimentoitaliano e Risorgimento ebraico alcuni avevanopartecipato secondo le forme di quellache Arnaldo Momigliano aveva definitola «nazionalizzazione parallela»16. Nella sua visione etico-political’emancipazione ebraica era posta ariparazione di «una delle più rigorose edinfami situazioni di inferiorità giuridicaesistenti nella penisola italiana» e fissata«punto terminale dell’aspirazione allacessazione di quel clima vessatorio didiscriminazioni ereditate dalla tradizioneantisemita cattolica e mantenuto in vitaalla restaurazione»17 dopo l’uguaglianza

Ester Capuzzo

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vissuta dagli ebrei della penisola nell’etàfranco-rivoluzionaria e napoleonica.L’emancipazione, quindi, costituiva unodei tasselli del processo di liberalizzazionee di laicizzazione della società italiana perla quale lo Stato doveva essere la casa ditutti come avrebbe dimostrato l’etàliberale con il passaggio dall’eguaglianzadei cittadini all’eguaglianza dei culti e conl’affermarsi del separatismo e della libertàreligiosa. Attribuendo, infatti, alla mentalità laicae secolarizzante del Risorgimento, postaa fondamento dello Stato liberale,l’emancipazione e l’eguaglianza ottenuteprima dagli ebrei subalpini in forma extrastatutaria tra il 1848 e il 1851 e poi esteseagli ebrei di tutta la penisola dopol’unificazione nazionale, Carlo Ghisalbertimetteva in evidenza come lo Statoliberale con l’interpretazione avanzatadell’art. 1 dello Statuto albertino, avviatagià dalla costituzionalista subalpina, comesottolineava all’indomani del 1848 eripresa da quella dell’età liberale, avesseintrodotto un sistema di garanzie a favoredelle minoranze religiose, dal momentoche «lo Statuto nella lettera dei suoidisposti [rappresentava] un punto dipartenza verso più avanzati traguardipolitici e civili e non un limite invalicabileall’azione normativa del Parlamento,sicuro e maggiore interprete delle istanzeprogressive espresse dalla nazione»18. Ciòl’avrebbe portato a riflettere ancora sultema dell’emancipazione fondato sullacomune cittadinanza e sull’eguaglianza inun successivo saggio del 1992 intitolatoStato nazionale e minoranze tra XIX e XXsecolo19, nel quale partendo dall’emanci-pazione ebraica nel mondo asburgicoavviata dalla Patenti di tolleranza diGiuseppe II del 1781 delineava l’emanci-pazione egualitaria e liberale sancita dal

trionfo dei principi dell’Ottantanove,esportata nei paesi europei dalle truppefrancesi tra il 1796 e il 1799 e affermatadalla successiva legislazione napoleonicaper giungere alla Restaurazione, chefissava una situazione nella qualeovunque gli ebrei erano nuovamente«vittime di discriminazioni e interdi-zioni»20 e al 1848 che con i suoi grandirivolgimenti riproponeva «il tema dellaseconda emancipazione degli israeliti edel loro inserimento, per via di definitivaintegrazione o per completa assimila-zione, nel tessuto dei diversi Statinazionali»21. Ciò lo portava a sottolinearecome il processo emancipatorio degliebrei fosse ripreso dopo il fallimentodella rivoluzione quarantottescaidentificandosi nella penisola con la causarisorgimentale e nei paesi oltre le Alpicon le più avanzate posizioni delliberalismo e della democrazia22.Carlo Ghisalberti legava la posizioneassunta dall’Italia unita nei confronti diebrei e valdesi, le due minoranze religiosestoriche presenti nel nostro paese, a quelprincipio separatista dello Stato,affermatosi già nella politica cavouriana,che portava a ritenere che «la libertà dicredere e di praticare [fosse] un dirittonaturale, per nulla derivante dalloStato»23. Nel richiamo alla laicità eall’eticità dello Stato italiano, professatadalla parte più avanzata dell’ideologiapolitica risorgimentale e del mondoliberale, presente anche nel saggioLaicismo ed istituzioni in età giolittiana24(2003), non mancava di riferirsi, oltrechéagli hegeliani di Napoli «con alla lorotesta i fratelli Spaventa»25, ancheall’immagine egualitaria dei dirittiindividuali che l’Ottocento liberale avevaereditato dal giusnaturalismo, dall’illumi-nismo e dalla rivoluzione francese e che

Carlo Ghisalberti e gli studi sugli ebrei italiani

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trovava tra i paladini della libertà religiosaproprio un politico di ascendenzeebraiche come Luigi Luzzatti, a cui nel2007 dedicava attenzione con unsaggio26. Luzzatti, come scriveva CarloGhisalberti, attestava la posizione piùavanzata assunta dallo Stato liberalerispetto alla società civile e si facevaportatore, sebbene contestato dallacomunità d’appartenenza, di quell’egua-glianza senza differenze prodottodell’Ottocento maturo, alla quale nonpossiamo oggi guardare soltanto con gliocchi del nostro tempo che si nutrono,invece, di tante diversità. E come il luzzattiano “ebreo che ritornaa essere ebreo” in momenti di particolaregravità, Carlo Ghisalberti in alcunimomenti colloquiali soleva richiamare lasua partecipazione interiore alle vicendedella guerra dei Sei giorni del 1968 e delKippur nel 1973 che avevano vistocoinvolto lo Stato d’Israele.Era naturalmente il fascismo chesegnava una rottura con la tradizioneseparatista risorgimentale e delliberalismo laicizzante, su cui CarloGhisalberti insisteva in diversi saggicome, tra gli altri, in La legislazione razzialedel 1938, dove, sulla scorta degli studi diGuido Fubini e di Giulio Disegni,ascriveva al Concordato del 1929, chemodificava i rapporti con la Chiesacattolica, restituendole quella posizioneprivilegiata che l’unificazione nazionale leaveva tolto, il punto di svolta che dallaineguaglianza dei culti avrebbe portato inmeno di un decennio alla diseguaglianzadegli individui. Proprio in questo saggiosulla legislazione antiebraica, che la suafamiglia e la sua cerchia parentale a Romae a Ferrara subirono, affermava inmaniera ferma come il separatismorisorgimentale fosse stato la migliore

forma realizzabile nei rapporti tra poterepolitico e confessioni religiose e simostrava in un certo qual senso criticonella revisione del Concordato, realizzatadal governo Craxi, che seppure in modopiù idoneo alla democrazia riconosceva afianco del rapporto con la Chiesacattolica le intese con le altre confessionireligiose, si poneva, però, come unanegazione del liberalismo laicizzante cheera legato a un mondo meno complessoe articolato di quello tardo nove-centesco27. Anche nella questione del censimentodegli ebrei posto in atto nell’agosto del1938 dal fascismo come uno degli effettidell’antisemitismo di regime, CarloGhisalberti individuava un ulteriore vulnusrispetto allo Stato liberale per il qualel’appartenenza etnica, razziale o religiosadei suoi appartenenti non era mai stataoggetto di indagine statistica in quanto ilprincipio di eguaglianza di fronte allalegge non evidenziava le differenze degliindividui o dei gruppi28. Ciò a suo avvisoaveva permesso, al di là del dibattitoapertosi ormai da qualche decenniosull’integrazione e sull’assimila-zionenell’ambito della storiografia ebraica, ilcompleto inserimento degli ebrei italianinella società maggioritaria, da cuisarebbero stati espulsi anzi – come solevadire “cacciati” – nel 1938 dall’antisemitismo fascista e di fronte a ciòricordava come molti italiani sarebberorimasti indifferenti, non avrebberoreagito, si sarebbero insomma giratidall’altra parte, come spesso raccontaoggi la senatrice Liliana Segre, eaddirittura in forma riprovevole eamorale in diversi casi se ne sarebberoapprofittati a proprio vantaggio29. Critica, inoltre, era la posizione di CarloGhisalberti contro il governo Badoglio

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che non autonomamente ma costrettodagli alleati con un articolo del lungoarmistizio firmato con il governo del Sudil 29 settembre 1943, abrogava tardiva-mente con una norma esecutiva le leggiantiebraiche mostrando, come scriveva,l’insensibilità di un ceto di governoincapace di rendersi conto «della tragediafatta cadere dall’Italia sugli ebrei chevivevano in essa»30. Un’insensibilitàcongiunta a un’incapacità che avrebbemostrato anche la difficoltà dell’Italiarepubblicana a porre in atto il processodi reintegrazione nei posti di lavoro e deibeni confiscati ai suoi cittadini di fedeebraica dalla persecuzione fascista.Non un semplice cammeo i due saggidedicati a Enzo Sereni e «Le origini delfascismo» (2005) e Antifascismo e sionismo inEnzo Sereni (2008)31, uno dei protagonistidell’ebraismo e del sionismo italiani deiprimi decenni del Novecento, fondatoredel primo kibbùz italki Ghivàt Brenner,paracadutato nell’Italia occupata nel1944, catturato dai tedeschi e morto aDachau al cui milieu culturale, in un certoqual senso Carlo Ghisalberti era legato,non soltanto per le sue ascendenzeebraiche, ma anche per una comunanzadi rapporti familiari con ErnestoBonaiuti, il sacerdote modernista emaestro di Enzo Sereni, da parte delpadre, Alberto Maria32, e dello zioAlberto Pincherle.A ulteriore riprova dell’interessecrescente maturato nel tempo da CarloGhisalberti verso la storia ebraica erano,inoltre, una serie di recensioni pubblicatesu «Clio» la rivista da lui a lungo direttadi opere di studiosi che Carlo Ghisalbertiha sempre voluto valorizzare con grandee rara generosità anche nell’ambito deglistudi ebraici.

NOTE

1 C. Ghisalberti, Le costituzioni giacobine (1796-1799), Giuffré, Milano 1957.2 C. Ghisalberti, Dall’antico regime al 1848. Leorigini costituzionali dell’Italia moderna, Laterza,Roma-Bari 1974.3 C. Ghisalberti, La codificazione del diritto inItalia 1865-1942, Laterza, Roma-Bari 1985.4 C. Ghisalberti, Unità nazionale e unificazionegiuridica in Italia. La codificazione del diritto nelRisorgimento, Laterza, Roma-Bari 1979.5 Si vedano al riguardo i saggi L’idea dicostituzione in Silvio Spaventa e Silvio Spaventa eHegel: unità nazionale e Stato, Istituzioni eRisorgimento. Idee e protagonisti, Le Monnier,Firenze 1991, pp. 107-125 e pp. 126-150 e ilvolume Silvio Spaventa dal Risorgimento allo Statounitario, Vivarium, Napoli 2003.6 Da Campoformio a Osimo. La frontiera orientaletra storia e storiografia, Edizioni ScientificheItaliane, Napoli 2001.7 Adriatico e frontiera orientale dal Risorgimentoalla Repubblica, Edizioni Scientifiche Italiane,Napoli 2008.8 Sulla condizione degli ebrei d’Italiadall’emancipazione alla persecuzione, in Id.,Istituzioni e Risorgimento. Idee e protagonisti, cit.,pp. 227-244.9 Sulla condizione degli ebrei d’Italiadall’emancipazione alla persecuzione, in ItaliaJudaica. Gli ebrei nell’Italia unità, Atti del IVconvegno internazionale, Siena, 12-16 giugno1989, Roma, Ministero per i Beni culturali eAmbientali-Ufficio Centrale per i BeniArchivistici, 1993, pp. 19-31.10 Gli ebrei dall’integrazione nazionaleall’antifascismo, in «Clio», XXXIII (1997), 4,pp. 739-749.11 Sugli ebrei in Italia tra Ottocento e Novecento,in «Nuova Antologia», CXXXIX (2004), n.2232, pp. 279-286.12 Ebrei italiani e sionismo. Appunti per unariflessione, «Clio», XLI (2005), 1, pp. 169-178.13 Risorgimento italiano e Risorgimento ebraico, in«Clio», XLII (2006), 1, pp. 5-12.

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14 La legislazione razziale del 1938, in «Clio»,XLIV (2008), 4, pp. 687-695. Sul tema avevapubblicato anche Le leggi razziali, in IlParlamento italiano 1861-1988, XII/2: 1939-1945. Dal consenso al crollo, Nuova CEIInformatica, Milano 1990, pp. 199-200. 15 Come il convegno internazionale su«Enzo Sereni. A 100 anni dalla nascita, a 60dalla morte» svoltosi a Gerusalemme il 5-7aprile 2005 e quello su «La legislazionerazziale e l’educazione ebraica in Italia»svoltosi a Gerusalemme il 28-29 ottobre2008. 16 Risorgimento italiano e Risorgimento ebraico,cit., p. 5.17 La legislazione razziale del 1938, cit., p. 18 Sulla condizione degli ebrei d’Italiadall’emancipazione alla persecuzione, in Id.,Istituzioni e Risorgimento. Idee e protagonisti, cit.,p. 229.19 Stato nazionale e minoranze tra XIX e XXsecolo, in Stato nazionale ed emancipazione ebraica,a cura di F. Sofia e M. Toscano, BonacciEditore, Roma 1992, pp. 27-40.20 Stato nazionale e minoranze tra XIX e XXsecolo, cit., p. 36.21 Ivi, p. 37.22 Ivi, p. 38.23 Sulla condizione degli ebrei d’Italia

dall’emancipazione alla persecuzione, cit., p. 231.24 Laicismo ed istituzioni in età giolittiana, inL’Italia laica dalla fine del secolo alla prima guerramondiale, Atti del convegno di studi svoltosi aFirenze il 3-4 maggio 2002, Le Monnier,Firenze 2003, pp. 3-14.25 Sulla condizione degli ebrei d’Italiadall’emancipazione alla persecuzione, cit., p. 231.26 Luigi Luzzatti uomo politico, in «Clio», XLIII(2007), 4, pp. 641-652. Si era già occupatodello statista veneziano ma con un tagliodiverso nel saggio Luigi Luzzatti giuspubblicista,in «Clio», XXVIII (1992), 1, pp. 61-73.27 La legislazione razziale del 1938, cit., p. 694.28 Ivi, p. 695.29 Ivi, pp. 689-690.30 Enzo Sereni e «Le origini del fascismo», in«Clio», XXVIII (1992), 1, pp. 61-73.31 Antifascismo e sionismo in Enzo Sereni, in «Larassegna mensile di Israel», LXXIV (2008),1-2, pp. 209-218.32 Fa riferimento a questi rapporti F.Margiotta Broglio, Bonaiuti e Jemolo.Introduzione a Lettere di Ernesto Bonaiuti a CarloArturo Jemolo. 1921-1941, a cura di C.Fantappié, introd. di F. Margiotta Broglio,Roma, Ministero per i Beni Culturali eAmbientali-Ufficio Centrale per i BeniArchivistici, 1997, p. 9.

Ester Capuzzo

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Commemorare un amico scomparso,rievocando fatti e rapporti personali,può apparire non solo poco interessante,ma talvolta retorico, mentre è piùaderente alla sua personalitàpuntualizzare alcuni aspetti della suaproduzione scientifica il cui contributoha fatto fare un passo in avanti allaconoscenza storica. Con le sue ricerche ilGhisalberti ci ha indotto a pensare lastoria d’Italia anche da un punto di vistagenerale della storia costituzionale,soprattutto quella del Risorgimento equella sull’origine dei modellicostituzionali che avevano influito sulprocesso di unificazione giuridica delpaese dopo l’Unità. Il problema centraledegli studi del Ghisalberti, almeno inquesta parte delle sue ricerche, eramostrare come la forma costituzionaledello Stato avesse interagito col processodi unificazione politica e come ilcontrollo di questo, da parte dellaborghesia liberale, fosse avvenutoscegliendo la via dell’accentramentoamministrativo sull’esempio dellaFrancia napoleonica. Il suo contributoera stato determinante facendo caderetutte quelle illusioni sul decentramentoche avrebbero congiurato contro l’unitàdel paese, ma che ripresero nel secondodopoguerra nel dibattito politico cheportò alla decisone di attuarel’autonomia delle regioni a cui sono statevia via delegate competenze sempre piùampie.

La dinamica della nascita dello statonazionale come stato accentrato va,pertanto, valutata in rapporto allasituazione politico-militare che nel 1861portò all’unificazione politica del paese.Tant’è vero che un autorevole storico deldiritto come Guido Astuti non avevamancato di sottolineare come lasoluzione che fu trovata ai problemipolitico-costituzionali da parte dellaclasse politica liberale aveva finito con ilcondizionare “in modo determinante ilprocesso di unificazione amministrativae lo sviluppo dell’ordinamento internodel Regno d’Italia, nelle strutturefondamentali, negli istituti, negli organi enelle funzioni1. Di conseguenza,unificazione politica, forma monarchico-costituzionale dello Stato e accentra-mento amministrativo risultano tremomenti dello stesso problema. Aquesta scelta preesistevano ragioni cheerano in diretta relazione con le vicendeche avevano accompagnato la vita degliStati italiani prima dell’Unità e che sirichiamavano, nonostante le lontaneorigini di libertà comunali, alle fortitradizioni di accentramento amministra-tivo delle grandi monarchie europee.Legami che si erano venuti uniformandoal tempo delle conquiste napoleoniche eche avevano provveduto a diffonderequel principio di uniformizzazione dellavita amministrativa mediante l’unità dellalegislazione2. Ciò aveva rappresentato –come non aveva mancato di sottolineare

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Elio D’Auria

Ghisalberti storicodell’unificazione nazionale

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il Ghisalberti – un momento diprogresso civile per aver eliminato dallatradizione peninsulare antiche forme diparticolarismo giuridico, causa dellagrettezza del municipalismo che avevacaratterizzato la vita locale primadell’unità3. Tuttavia, a parte le tradizioni diaccentramento preesistenti nei vecchistati italiani pre-unitari le quali avevanofavorito l’innesto graduale del nuovoordinamento nell’Italia unita, l’aspettoda considerare come qualificante era cheil polo d’attrazione dell’unità politica erastato il Piemonte sabaudo il quale avevaesteso agli ex Stati e ai ducati le sue leggie le sue istituzioni amministrative. Nelregno sardo-piemontese si erano avutidei cambiamenti sin dal tempo di CarloAlberto che aveva iniziato ad introdurreimportanti riforme che faranno diTorino, nel breve volgere di qualchedecennio, uno degli stati più avanzatidella penisola. Ma era stato dal 1848, sindella concessione dello Statuto, che ilPiemonte aveva assunto la leadershipmorale e politica della penisola alla cuiazione riformatrice guardavano tutticoloro che avevano a cuore le sorti dellelibertà civili e politiche tipiche di unoStato di diritto. Ed era stato appunto inPiemonte che aveva preso corpoquell’assetto politico amministrativo chesarà poi quello dello Stato nazionale. Ilprimo importante aspetto era stato chela monarchia sabauda, in accordo con laparte più avanzata del liberalismopiemontese, era venuta evolvendosi nelsenso di una monarchia costituzionale.Lo Statuto era l’architrave su cuipoggiava tutta la politica delle riformeinaugurate dal d’Azeglio e poi piùincisivamente sviluppate da Cavourportando uno degli stati più reazionari

della penisola a divenire uno degli statipiù liberali. Tutto ciò si era basato sulconsolidamento del regime parlamentareal cui vertice stava una monarchiacostituzionale il cui compito era quellodi garantire un nuovo ordine giuridicosanzionato dalle leggi statutarie. Daquesto momento si può far risalire ilfatto che il movimento per l’unificazionepolitica e la forma costituzionale delloStato risultavano essere due assuntiinscindibili. Ciò si vide sin dal primomomento dell’entrata in vigore delloStatuto quando, nel biennio 1848-49,dopo la prima guerra d’indipendenza,era stata avanzata dalle forzedemocratiche l’idea di convocareun’Assemblea Costituente che sancissel’unificazione del Piemonte allaLombardia ed alle quattro provincievenete allora liberate. Richiestafortemente avversata da Cavour per ilquale il semplice accedere all’idea di unacostituente avrebbe significato aprire lastrada ad un processo di revisionestrutturale dello Statuto rompendo difatto l’equilibrio fra la corona e le forzepolitiche liberali4. Se si tiene presentequesto aspetto del problema si vedecome il principio dell’«onnipotenzaparlamentare» – e cioè che il Parlamento,in quanto espressione della volontàpopolare, aveva l’autorità di modificareed estendere lo Statuto mediante leggiordinarie – rappresentava la legittimitàdelle riforme. Queste erano possibili nelquadro della cornice statutaria mediantel’esercizio della libera discussioneparlamentare la cui sintesi politica erarappresentata da un esecutivostrettamente legato alla maggioranza chelo esprimeva. Si affermava, in sostanza,una forma di governo, detto governo digabinetto, espressione di una

Elio D’Auria

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maggioranza parlamentare attraverso lasanzione di un voto di fiducia, nonprevisto dallo Statuto, ma accettato dallaprassi, che poneva il parlamento alcentro del sistema politico5. Il problemasi era riproposto nel 1859 quando erastato il plebiscito lombardo a fornire aidemocratici l’occasione di chiedere unaCostituente. La scelta di annettere lenuove province mediante plebiscitosuperava le richieste dei mazziniani e cheil processo di unificazione sarebbeavvenuto mediante l’estensione delleistituzioni politiche e amministrative delPiemonte agli altri ex Stati dellapenisola6. Nei dodici anni precedenti ilPiemonte era andato molto in avantisulla via delle riforme. A questo puntoemerge l’aspetto fondamentale delproblema dell’unificazione: la necessitàpolitica di controllare la gradualefondazione del nuovo Stato mediante unrigido sistema di leggi e di regolamenticentralizzati a ragione della visione unpo’ liberale ed un po’ giacobina cheanimava gli uomini della Destra Storica esecondo i quali costituzione giuridica eistituzionale del nuovo Stato – comeaveva sottolineato il Ghisalberti –doveva “sopperire alle innumerevolicarenze della struttura sociale” soltantose poggiante su una forte “autorità delgoverno” e su una incisiva “efficaciadella legge”7.Le riforme del periodo carlo-albertinocostituiscono il necessario antecedentedi riferimento aprendo la strada allamodernizzazione delle strutture fonda-mentali dello Stato nei suoi aspettigiuridici e amministrativi. Basti ricordarel’importante opera di codificazione,attuata fra il 1837 e il 1842, del dirittocivile e del diritto penale e processualepenale, non solo civile ma anche militare,

che aveva rappresentato un primo passoin avanti verso la civiltà giuridica conl’affermare il principio della certezza deldiritto. Ma va anche ricordato ilcomplesso di norme emanate fra il 1832ed il 1838 che abolivano la feudalità e legiurisdizioni feudali in Sardegna; lariforma del 1847 che aveva per oggettol’ordinamento giudiziario con l’aboli-zione delle giurisdizioni speciali, ilriordino dei tribunali del contenziosoamministrativo e quella della giurisdi-zione ordinaria, altro passo importantesulla via della civiltà giuridica conl’introduzione del principio dell’unita-rietà del diritto e della giurisdizionesottratta ai fori speciali con l’attribuzionedel giudice naturale; la riforma, sempredel 1847, dell’ordinamento dei comuni edelle provincie con l’introduzione dellarappresentanza elettiva nelle ammini-strazioni locali; e, infine, la leggeelettorale del marzo del 1848 per laformazione della Camera dei Deputati8.Ma è alle riforme attuate durante il«decennio di preparazione» checostituiscono l’asse portante intorno alquale ruoterà quella uniformizzazionedelle strutture giuridiche e ammini-strative che, una volta compiutasil’unificazione politica, saranno trasferitea tutto il territorio nazionale9. Questeultime, evoluzione di quelle iniziatedurante il regno di Carlo Alberto,saranno quelle che modernizzerannodefinitivamente il Piemonte facendoloevolvere da monarchia legata all’Anticoregime verso una monarchia costitu-zionale in senso liberale10. Esse sonoprincipalmente legate ai nomi diSiccardi, D’Azeglio, Cavour. Particolar-mente importanti furono le leggiSiccardi dell’aprile e del giugno 1850 cheabolivano, le prime, i privilegi del foro

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ecclesiastico e delle immunità locali e, leseconde, che sancivano il divieto diacquisto di beni da parte degli entimorali, sia ecclesiastici sia civili, senza ilpreventivo assenso dell’autorità politica.A cui fecero seguito le leggi del febbraiodel 1851 sulla inamovibilità dei giudici lequali aprivano la strada ad una primaregolamentazione dell’indipendenzadella magistratura eliminando una dellecause principali che ostacolavano lacertezza del diritto con il consolida-mento del principio dell’attribuzione delgiudice naturale. Ma ugualmente impor-tanti furono le leggi volute dal D’Azegliodel dicembre del 1851 e del luglio 1852rispettivamente sulla riforma dellapubblica sicurezza e sul riordino deiservizi di polizia che passavano, daquesto momento in poi, alle dipendenzedel ministero dell’Interno. Infine, lefondamentali riforme volute da Cavourcon le leggi del marzo del 1853 sulriordino dell’amministrazione delloStato, dell’amministrazione del patrimonio,della contabilità generale e del bilanciodello Stato e sul controllo da parte dellaCorte dei Conti su tutti gli atti digoverno che prevedevano un impegnodi spesa. Inoltre, quelle del maggio del1855, sempre volute da Cavour, checompletando le leggi Siccardi, prevede-vano la soppressione delle corporazionireligiose e di alcuni enti ecclesiastici conla relativa istituzione di una cassaecclesiastica la quale aveva la funzione diassumere in amministrazione i beni deglienti soppressi ed era incaricata di pagarele pensioni ai religiosi e i supplementi dicongrua.Come si vede, già da una primaarticolazione di questo enormecomplesso di norme che modificavanosostanzialmente l’assetto dello Stato, il

Piemonte, rispetto a tutti gli altri statidella penisola, si era dotato di un corpo“organico di istituzioni e strutture”politiche e amministrative “pienamenteadeguate alle esigenze del governo edell’amministrazione di un grande Statonazionale”11. Ciò era potuto avvenirecon il consenso della monarchia cheaveva accettato e sostenuto le forzeliberali a patto che non fosse messa indiscussione l’istituzione monarchica eche soprattutto fosse stata essa stessa acapeggiare il movimento di unificazione.Risulta evidente come l’obiettivo diunificare il paese sotto la monarchiapiemontese rappresentava un limiteinvalicabile di ogni altra alternativa chepotesse mettere in pericolo questo fine.Il processo doveva essere graduale sullafalsariga del programma tracciato dallaborghesia liberale che lo aveva avviatoed a cui era demandato il compito diportarlo a soluzione. Se ciò era evidentesul piano politico tanto più dovevaesserlo sul piano delle strutturegiuridiche e amministrative, tutterispondenti ad una imponente opera dilegislazione la cui proiezione sociale erauna forte spinta alla modernizzazionedella società e dello Stato secondo ilmodello francese che la Francianapoleonica, prima, e la Francia dellarestaurazione, poi, avevano esportato intutta Europa. Si trattava, in sostanza, sulpiano politico, della negazione di tuttequelle aspirazioni federaliste o autono-miste emerse dopo il fallimento dell’esperimento neo-guelfo che si basavanosu nuove forme di autogoverno locale edi decentramento amministrativo tipichedel modello anglosassone, in parte,perché il sistema sociale non avevaancora sviluppato quel corpo di ceti eclassi in grado di gestire forme di

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autogoverno e, in parte, perché gliavvenimenti politici sia interni siainternazionali che avevano indicato lacadenza al processo di unificazionerichiedevano uno stretto controllopolitico12.Su tutto il continente europeol’influenza della Francia rivoluzionariaera stata più profonda di quanto nonappaia lasciando in eredità ai partiti unsenso della lotta politica che sicombatteva sulle basi stesse delloStato13. Ciò era vero anche in Italia doveil movimento nazionale avevaresuscitato quella divisione fra moderatie rivoluzionari retaggio delle “granderivoluzione”. Durante il “decennio dipreparazione” il liberalismo moderatoaveva assunto il ruolo di forza cernierarispetto alle forze anti sistema, sia quelledemocratico-mazziniane, da un lato, siaquelle cattolico-reazionarie, dall’altro, lequali ambedue, per opposte ragioni,negavano la forma monarchico-costituzionale del costituendo Statonazionale14. Riguardo alla strutturacostituzionale da dare al nuovo Statoemergeva qualcosa di più: esso dovevaessere l’estensione del vecchio Piemonteal resto della penisola sia nelle strutturepolitico-amministrative sia nella succes-sione dinastica. A ciò era servita lagrande azione riformatrice in sensomoderno iniziata sotto il regno di CarloAlberto e proseguita più tardi sottoquello di Vittorio Emanuele. L’esempioera ancora una volta quello della Francia.Questa volta della Francia dellaRestaurazione dove le forze liberaliavevano impresso un moto di rinnova-mento e di modernizzazione senzalasciare alle forze anti-sistema l’occa-sione di sostituirsi alla borghesia neltentativo di modificare le strutture

rappresentative dello Stato.Appare evidente come in Italia neldecennio che preparò l’unificazione illiberalismo moderato, mettendo inpratica l’esperienza maturata durante larivoluzione del 1848 e contribuendo afondare l’ossatura ideologica dellaDestra Storica il cui progetto di“secolarizzazione forzata e rapida dellasocietà civile fondata sul culto dello statoamministrativo propulsore dell’economia”,delineava un fine “coerentementecollettivo” della sua azione assumendoun ruolo centrale sia da un punto di vistapolitico sia della fondazione di nuovestrutture giuridiche capaci dicontrollarne il processo15. Una fortecentralizzazione di queste ultime,sebbene rappresentasse da un punto divista politico una scelta di civiltà agaranzia delle libertà individuali dopo laframmentazione ereditata dagli stati pre-unitari, era funzionale a questo scopo. La prova generale era stata “laprocedura usata per l’annessione dellaLombardia” che era servita a“prefigurare nei risultati la futurastruttura centralizzata e moregeometrico ordinata dell’erigendo Statounitario”16 dove, dopo un breve periododi regime eccezionale, era stataintrodotta la legislazione amministrativapiemontese; così come era poi avvenuto,con le dovute transitorie eccezioni, pertutti gli altri ex Stati pre-unitari a cuifurono estesi gli ordinamenti ammini-strativi del Piemonte. Proprio inoccasione dell’annessione dellaLombardia ed utilizzando lo strumentodella delega legislativa concessa dalparlamento al governo in occasione delvoto sui poteri eccezionali, auspice ilRattazzi (legge del 29 ottobre 1859), fuemanato un nuovo corpus di norme che

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completavano quelle approvate duranteil regno di Carlo Alberto le quali diederoavvio a quella sistemazione ed unifor-mizzazione del diritto pubblico chetroverà poi piena applicazione nelle leggidi unificazione del 1865. In primo luogosi provvide a promulgare una edizionecompleta del codice di procedura civileed a ripubblicare i nuovi testi del codicepenale, del codice di procedura penale edel codice penale militare. Ma, aspettopiù rilevante, si approfittò della delegaper emanare tutta una serie di decreti cheandavano nel senso di un riordinamentoorganico della legislazione concernentel’amministrazione dei servizi pubblici,della giustizia e dell’ordinamento giudi-ziario. In pratica, si trattava di undisegno organico che unificava erazionalizzava le materie trattate nelsenso di una centralizzazione delledecisioni come avvenne, ad esempio, perle leggi sull’amministrazione comunale eprovinciale le quali, definendo le nuovecircoscrizioni, ne disegnava una strutturasimile a quella dell’ordinamento franco-napoleonico che prevedeva uno strettocontrollo sugli organi periferici da partedegli organi centrali dello Stato. Inoltrefu data sistemazione organica a tutta lamateria concernente l’amministrazionepubblica che andava dalla pubblicaistruzione alla pubblica sicurezza, dalleopere pie all’amministrazione sanitaria,dai lavori pubblici alle miniere, dalriordinamento delle contabilità pubblicheal regolamento generale dello Stato, dalcontenzioso amministrativo al regolamentosui conflitti di giurisdizione. Al di sopradi tutto questo, quasi a sanzionare lavolontà di non perdere il controllo dellasituazione politica di cui le nuove leggierano la necessaria proiezione, fuemanata una nuova legge elettorale che,

con qualche ampliamento, richiamavaquella del 1848 a conferma di un sistemauninominale elettorale e doppio turnosull’esempio di quella introdotta nellaFrancia della Restaurazione17.Come appare evidente, già in procintodelle annessioni, si provvide a disegnareun sistema politico-amministrativo cheprefigurava uno stato nazionale-unitario.Non è il caso, in questa sede, diaffrontare il problema delle annessioni ele procedure utilizzate per adattare lalegislazione piemontese ai nuoviterritori. Basti ricordare che fu adottatoil principio di non smantellare imme-diatamente gli apparati esistenti negli exstati pre-unitari, ma di contemperare lapossibilità che questi continuassero avivere in attesa che si mettessero inessere strumenti «ponte» con lo scopo difacilitare l’estensione della macchinaamministrativa piemontese. Semmai ilproblema che più interessa è costituitodalla questione dei plebisciti che furonopensati anche in funzione di vanificare lerichieste del Partito d’Azione il cuiobiettivo era quello di mettere indiscussione lo Statuto e la politica delpartito liberale di aggregare intorno alPiemonte il nuovo Stato nazionale. Il cheavrebbe significato prefigurare uno Statodiverso con il mettere in discussione siala mediazione della classe politicamoderata sia quello della Corona. Inquesto passaggio sta un altro elementod’interpretazione dell’accentramentodello Stato che s’impose per la coinci-denza di circostanze politiche anche al dilà delle idee di alcuni autorevolirappresentanti del liberalismo moderato,come ad esempio Minghetti o dellostesso Cavour, per i quali la suaattuazione non era una scelta assoluta.Di fronte all’opposizione dei democra-

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tici, da un lato, e dei cattolici reazionari,dall’altro a Cavour non restò che seguirela linea della mediazione parlamentare.In questo senso i plebisciti erano intesicome la volontà dei cittadini egli ex Statidi aderire al progetto di costituzionedello Stato unitario e non, comerichiedevano i democratici, la base dipartenza per una modifica di “forme,istituzioni e procedure” del tuttonuove18. In tal modo unificazionepolitica, forma monarchicocostituzionale dello Stato eaccentramento amministrativo risulta-vano tre aspetti di uno stesso problema.Tanto è vero che le elezioni del 25 marzo1860 in cui venivano inclusi nelparlamento piemontese rappresentantidella Lombardia e delle province centrali(Romagne e Toscana) furono volute daCavour proprio per porre l’opinionepubblica di fronte al fatto compiuto diun parlamento i cui rappresentantipassavano da 204 a 387. La successivalegge del 17 dicembre 1860, indicendonuove elezioni per il 27 gennaio1861,accoglieva i rappresentanti delle Marche,dell’Umbria e di quelli dell’ex Regnodelle Due Sicilie portando il numero deideputati da 387 a 443 dando vita alprimo parlamento nazionale19. In questaprospettiva aveva senso – così comeaffermava la legge del 17 marzo 1861 –l’assunzione da parte di VittorioEmanuele II, sovrano del Regno Sardo-Piemontese, del titolo di Re d’Italia. Intal modo si riaffermava la continuitàdell’istituzione monarchico-costituzio-nale e che l’unità politica del Paese eraavvenuta sulla base della volontàpopolare che si era espressa attraversoun voto parlamentare.In sostanza, – come ha giustamentepuntualizzato il Ghisalberti – “l’unifica-

zione statale, sanzionata dal voto parla-mentare, costituì il naturale presuppostodell’unificazione legislativa eamministrativa posta in essere conun’imponente normativa nel decennio1861-1970”20. Essa si basava, oltre chesu presupposti di ordine costituzionale,su necessità di ordine politico.L’unificazione dello Stato era avvenutoin tempi molto rapidi e in maniera nonuniforme. Troppe erano le differenzeesistenti fra i diversi ex Stati che avevanoconcorso a formarla sia per struttureeconomiche, stratificazioni sociali ecostruzioni istituzionali. Un nuovo statonazionale che si affacciava alla vitapolitica europea in competizione con legrandi potenze continentali che avevanogià attraversato fasi di sviluppo e dimodernizzazione aveva bisogno di darsiun ordinamento univoco che sopperisseanche alla necessità di perequare ledifformità e le carenze fra le diverse partidel Paese21. A ciò si aggiungano fattoripropri del processo di unificazione ilquale vedeva una consistente parte delpaese in buona sostanza estranea ad essoe che aspettava il momento opportunoper tornare alla ribalta della vita politicacon il sostegno di collegamenti edappoggi internazionali che fecerotemere, nei primi anni, per l’esistenzastessa del nuovo Stato. Di conseguenzalo Stato si era assunto il compito digestire dall’alto il consolidamentodell’unità politica del Paese. I problemi sipresentavano immensi: grave deficitfinanziario, repressione del brigantaggioche funestava le provincie meridionali eche assumeva a tratti le forme di rivoltasociale e revanscismo politico, conteni-mento del clericalismo temporalisticoche non accettava la nuova entità statale,riconoscimento sul piano internazionale

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del nuovo Stato la cui posizione apparivaprecaria. Solo mediante un’imponenteopera di legislazione lo Stato aveva lapossibilità di giocare il ruolo dimediazione fra le parti, consolidarel’unità politica, modernizzare il paesenelle sue strutture sociali edeconomiche, mettere in moto unmeccanismo di partecipazione e diconsenso, ottenere un adeguatoriconoscimento sul piano internazionale.Per far ciò era necessario costruire unordinamento amministrativo efficiente.In questo quadro è illusorio pensareche una politica basata sul decentra-mento e sulle autonomie potesse averesuccesso22. Le ragioni erano molte ediverse ognuna delle quali basterebbe dasola a spiegare come era stato possibileche una classe politica liberale cheguardava agli stati più avanzati d’Europail cui ideale era il sistema anglosassonedel self-government e che aveva fatto larivoluzione nazionale sull’affermazionedelle libertà politiche e civili si fossesottratta a questi principi per sceglierel’esempio francese che metteva al centrodella propria azione lo Stato. In realtà,questa classe politica aveva comeobiettivo quello di non perdere il ruolodi forza propulsiva delle riforme le qualidovevano essere governate dall’altomediante una legislazione incisiva chetenesse conto di tutti gli aspetti di unasocietà civile complessa ed arretrata.Essa era giunta alla conclusione chel’autonomia e il decentramento avreb-bero gettato il paese in pasto aiparticolarismi locali, al municipalismopiù spinto, alla grettezza della vitaprovinciale, alla camorra e alla mafianelle provincie meridionali, oltre al fattodi fare il gioco dei conservatori e deirivoluzionari insieme, gli uni nostalgici

dell’Ancien Régime e gli altri portatori diidee repubblicane e democratiche23.Bisogna anche dire, però, a parte ognialtra considerazione, che quell’ideale diunitarietà e di uniformità dell’ordina-mento giuridico e amministrativo checostituì l’ossatura della Destra Storicadopo l’unità in uomini come Cavour,Minghetti, Farini, Ricasoli ed altri24 iquali per primi avevano sollevato ilproblema del decentramento avevaun’origine giacobina e rivoluzionaria chefaceva dello Stato di Diritto il momentopiù alto della vita pubblica come entitàin grado di perequare le differenze e lediseguaglianze esistenti in una societàche, vissuta per secoli all’insegna delparticolarismo, non aveva ancorasviluppato il senso del bene collettivo.Un esempio in questo senso fu ildibattito apertosi in Italia sul dirittopubblico ad opera di Silvio Spaventa,uno dei più autorevoli dottrinari dellaDestra, il quale aveva avuto il merito didefinire lo Stato Moderno e cosa lodifferenziasse dallo Stato di Dirittogermanico. Per Spaventa lo StatoModerno si caratterizzava per l’atten-zione alle forze sociali la cui azione ildiritto era chiamato a regolare. Dovenon si prestava attenzione alle forzesociali che con le loro spinte dal bassoinformavano i compiti ed il ruolo delloStato, lo Stato di diritto si trasformava inregime com’era avvenuto in Germania25.Mentre ciò che egli definiva StatoModerno, spesso confuso con lo Statoetico a causa della formazione hegelianadello Spaventa26, fortemente informatodi cultura francese, era esattamentel’opposto dello Stato di Diritto come siera sviluppato nella dottrina tedesca inquanto lo Stato non aveva un ruolopassivo di regolamentazione e di

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componimento dei conflitti, ma unruolo attivo nell’evitare sperequazioni ediseguaglianze. “La civiltà – disse in unfamoso discorso alla Camera in difesadel progetto di nazionalizzazione delleferrovie contro i monopoli privati – èl’unità della cultura e del benessere. Nonsi può dire popolo civile, dove solamentepochi sanno e godono, ma è veramentecivile quel popolo in cui sanno e godonoil maggior numero27. In queste paroledel maggior teorico della Destra sonoracchiuse le motivazioni dell’accentramentovisto non solo come un corpo di leggi eregolamenti tipico di una monarchiaamministrativa, ma come un mezzo pergiungere all’unitarietà del sistema deldiritto pubblico in contrapposizione alparticolarismo giuridico della tradizioneitaliana. In questo senso l’accentramentoamministrativo basato sulla certezza deldiritto era un passo in avanti verso laciviltà mentre il decentramento e i parti-colarismi locali un ritorno al passato.Una volta estesa a tutte le provinceannesse la legge Rattazzi del 1859, inseguito all’improvvisa morte di Cavour esuccessogli il Ricasoli, nell’ottobre del1861 fu approvata un’importante leggeche concedeva al governo ampi poteri dicoordinamento in vista dell’emanazionedi nuove leggi organiche concernentil’ordinamento amministrativo dello Stato.L’importanza di quest’ultimo provvedi-mento risiedeva nel fatto – comedimostrano i decreti dell’ottobre succes-sivo che ne definivano l’applicazione –che essa apriva definitivamente la stradaa quell’unificazione amministrativa chetrovò concreta applicazione nelle leggiRattazzi del 1865. Per intanto, caduto nelfebbraio del 1862 il Ricasoli e succes-sogli il Rattazzi stesso, questa tendenzafu subito evidente. Già nell’agosto

Rattazzi, in virtù del forte prestigio chegodeva in parlamento aveva fattoapprovare la legge che istituiva unaCorte dei Conti unica che aboliva lemagistrature contabili ancora funzionantinegli ex Stati con lo scopo di esercitarequella funzione di controllo preventivo econsuntivo sulla spesa pubblica e cherappresentava uno dei cardini delfunzionamento dello Stato. Attraverso laCorte, il parlamento era in grado diesercitare quel sindacato di controllosugli atti del governo e degli altri entiterritoriali intermedi deputati alla spesa.Caduto il 1° dicembre del 1862 ilgabinetto Rattazzi per una improvvisacrisi extra-parlamentare a seguito deifatti d’Aspromonte e successogli ilgabinetto Farini-Minghetti furono avviatitutta una serie di studi preparatori cheprendevano in esame l’intero ordina-mento giuridico-amministrativo delloStato28. Si trattò di un lavoro poderosoche aveva coinvolto studiosi e funzionaridi ogni parte del regno i quali erano statichiamati a dare il loro contributo alleriforme. Le commissioni incaricate, gliatti elaborati e le discussioni svolteportarono, in poco più di cinque anni,alla definitiva elaborazione diquell’imponente corpus di leggi chefurono alla base dei provvedimenti del1865. Fu un percorso lungo e complessoche aveva risentito della situazionepolitica a causa della caduta delministero Minghetti avvenuto inconseguenza del trasferimento dellacapitale da Torino a Firenze e che il LaMarmora, suo successore, ebbe il meritodi far approvare.Tuttavia la situazione politica sipresentava fluida soprattutto sul pianointerno per indeterminatezza e laframmentarietà delle strutture del nuovo

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Stato. Appariva ora ancora piùnecessario uscire dalla situazione diconfusione in cui versava l’ordinamentoa causa del coesistere di frammentistrutture normative appartenenti agli exStati annessi, soprattutto della Toscana edel Regno delle Due Sicilie, ancoratransitoriamente vigenti. Era divenutaindilazionabile il condurre ad unitàl’ordinamento giuridico e amministra-tivo in nome della certezza del dirittoche stava alla base di uno Statocostituzionale. La via che si seguì fuquelle della legge delega che non macòdi sollevare polemiche fra i diversi settoridella Camera con accuse al governo diaver violato la costituzione. Ma la naturaflessibile dello Statuto consentì allamaggioranza di superare l’impasseparlamentare ed approvare due impor-tanti leggi, quelle del 20 marzo e del 2aprile 1865, in base alle quali venivaconferita delega al governo di pubblicarecon decreti propri rispettivamente inuovi codici con annesse le leggicomplementari e un complesso dinorme organiche relative all’unificazioneamministrativa del regno. In base allalegge del 20 marzo 1865 venneropubblicate in sei testi allegati le normerelative all’unificazione amministrativadello Stato ed i relativi regolamenti diesecuzione riguardanti la legge comunalee provinciale, la legge sulla pubblicasicurezza, la legge sulla sanità pubblica,la legge sul Consiglio di Stato, la leggesul contenzioso amministrativo e lalegge sulle opere pubbliche. Con la leggedel 2 aprile 1865 furono pubblicati ilcodice civile, il codice di proceduracivile, il codice di commercio, il codiceper la marina mercantile, il codice diprocedura penale. Diversa sorte toccò alcodice penale per la cui approvazione

bisognò attendere il codice Zanardellidel 1889 per vedere unificata lalegislazione in materia criminale29.Si trattò della “più grandiosa operalegislativa” dal tempo delle riformenapoleoniche che comprendeva esuperava la legge Rattazzi del 1859. Solocon essa ispirata al principio dell’uni-tarietà della legislazione trovava compi-mento quell’unificazione politica che erastata la grande aspirazione delliberalismo italiano dell’80030.

NOTE

1 G. Astuti, L’unificazione amministrativa del Regnod’Italia, in “Atti del XL congresso di Storia delRisorgimento”, Torino 26-30 ottobre 1961,Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano,Roma 1963, p. 93 poi rifuso in G. Astuti,L’unificazione amministrativa del Regno d’Italia,Giuffrè, Milano 1963.2 Su questo v. R. Moscati, La tradizionedell’accentramento napoleonico negli Statiitaliani della Restaurazione, in “Atti del convegnoNapoleone e l’Italia”, Roma 8-13 ottobre 1969,Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1973, pp.265 e sgg. V. anche G. Astuti, Il Code Napolèonin Italia e la sua influenza sui codici degli Statiitaliani successori, in Ibid., pp. 175 e sgg. Ma v.anche C. Ghisalberti, L’influsso della Francianapoleonica sul sistema giuridico ed amministrativodell’Italia, in «Rivista di Storia del DirittoItaliano», vol. XLVIII, 1975, pp. 1-22(dell’estratto) poi riprodotto in C. GhisalbertiModelli costituzionali e Stato risorgimentale, Carucci,Roma 1987, pp. 37-54. Sull’estensione delmodello franco-napoleonico alle diversemonarchie pre-unitarie v. ancora G. Astuti,L’unificazione amministrativa del Regno d’Italia, cit., eC. Ghisalberti, L’unificazione amministrativa delRegno d’Italia, in «Rassegna Storica Toscana», a.III, 1958 poi rifuso nel volume Contributi allastoria delle amministrazioni pre-unitarie, Giuffrè,Milano 1963, pp. 219 e sgg.

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3 C. Ghisalberti, Dall’antico regine al 1848: le originicostituzionali dell’Italia moderna, Laterza, Bari 1974.4 T. Marchi, La formazione storico giuridica dello Statoitaliano, Parte I, Le annessioni della Lombardia e degliStati dell’Italia centrale, La Bodoniana, Parma 1924.Sulla questione dell’annessione della Lombardiae dei problemi di ordine politici e costituzionaliad essa connessi v. N. Raponi, Politica eamministrazione in Lombardia agli esordi dell’Unità: ilprogramma dei moderati, Giuffrè, Milano 1967.5 Su questo v. M. S. Giannini-A. C. Jemolo, LoStatuto albertino, Sansoni, Firenze 1946; G.Perticone, Il regime parlamentare nella storia delloStatuto albertino, Edizioni dell’Ateneo, Roma1960; G. Perticone, Il regime parlamentare nellastoria dello Statuto albertino, Roma 1960; G.Maranini, Storia del potere in Italia 1848-1967,Vallecchi, Firenze 1967. Per una recente messa apunto v. E. D’Auria, Sistema politico e sviluppicostituzionali nell’età della Destra, in «Il partitopolitico nella bella époque: Il dibattito sullaforma partito in Italia fra ‘880 e ‘900», Giuffrè,Milano 1990, pp. 87-107.6 La tesi sulla “continuità” dello Statopiemontese e quella opposta dell’avvenutaformazione di uno “Stato nuovo” ha vistochiamati in causa due scuole contrapposte. Per latesi della continuità v. S. Romano, I caratterigiuridici della formazione del Regno d’Italia, in «Rivistadi diritto internazionale», VI, 1912, pp. 345 e sgg.Per la tesi della realtà nuova v. D. Anzilotti, Laformazione del Regno d’Italia nei riguardi del dirittointernazionale, in «Rivista di diritto internazio-nale», a. VI, 1912, pp. 1 e sgg. Poi in Opere, vol. I,Padova, 1956, pp. 631 e sgg. Sulla tesidell’Anzilotti, richiamando la natura parlamen-tare del nuovo stato, concordò autorevolmenteV. E. Orlando, Sulla formazione dello Stato d’Italia,in Diritto Pubblico generale. Scritti vari codificati insistema (1881-1940), Giuffrè, Milano 1940, pp.313 e sgg. Contro la tesi della continuità v. ancheA. Brunialti, La costituzione italiana e i plebisciti, in«Nuova Antologia», I, genn. 1985, pp. 332 e sgg.7 C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia, 1849-1948, Laterza, Bari 1974, p. 105.8 Su tutto ciò per gli ampi riferimenti alle fontinormative del periodo v. C. Ghisalberti, Unitànazionale e unificazione giuridica in Italia, Laterza,Bari 1982, pp. 235-250.9 V. Piano Mortari, 1865. Unità politica e unitàgiuridica, in «Syculorum Gimnasium», I, 1969, pp.1-14.

10 R. Romeo, Dal Piemonte sabaudo all’Italialiberale, Einaudi, Torino 1964.11 G. Astuti, L’unificazione amministrative del Regnod’Italia, cit., p. 103.12 Nella storiografia italiana i terminiaccentramento e decentramento hanno assuntoun’accezione impropria rispetto al lorosignificato originario. In particolare, con unaproiezione che rifletteva il dibattito politicodell’Italia contemporanea, il termine accentra-mento ha assunto un significato regressivo econservatore mentre quello di decentramentouno progressivo e democratico. Su questo v. leconsiderazioni di B. Croce, Storia d’Italia dal 1871al 1915, Laterza, Bari 1959, pp. 25-26 e leargomentazioni di A. Aquarone, Alla ricercadell’Italia liberale, Edizioni Scientifiche Italiane,Napoli 1972, pp. 286 e sgg. Per un esempio delcarattere negativo attribuito alle scelteaccentratrici compiute dal liberalismo italianodurante gli anni della costruzione dello StatoUnitario v. E. Rotelli, L’alternativa delle autonomie.Istituzioni locali e tendenze politiche dell’Italia moderna,Milano 1968. Nella stessa direzione v. U.Allegretti, Profilo di storia costituzionale italiana. LoStato liberale. Il regime fascista, Cagliari, 1983.13 M. Duverger, Les partis politiques, LibrerieArmand Colin, Paris 1951 (trad. ital., I partitipolitici, Edizioni di Comunità, Milano 1961).14 E. D’Auria, Sistema politico e sviluppi costitu-zionali nell’età della Destra, cit., p. 88.15 V. in tal senso P. Farneti, Sistema politico e societàcivile. Saggi di teoria e di ricerca politica, Giappichelli,Torino 1971. In senso più generale sulla DestraStorica v. A. Berselli, La Destra Storica dopo l’Unità,2.voll., Il Mulino, Bologna 1988.16 V. C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia,cit., p. 94.17 Sul sistema elettorale sardo-piemontese v. C.Pischedda, Elezioni politiche nel Regno di Sardegna(1848-1859), Giappichelli, Torino 1965. Per unarassegna sui sistemi elettorali nella storia d’Italiae per l’ampia bibliografia riportata v. P. L. Ballini,Le elezioni nella storia d’Italia dall’Unità al fascismo.Profilo storico-statistico, Il Mulino, Bologna 1988.18 T. Marchi, Le luogotenenze generali (1848-1915)nel diritto costituzionale italiano, Edizioni dell’Atheneum, Roma 1918.19 Per un’analisi puntuale di queste elezioni v.P.L. Ballini, Le elezioni nella storia d’Italia dall’Unitàal fascismo, cit., pp. 51-60.20 C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia, cit., p. 105.

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21 Sui problemi dell’unificazione amministrativav. E. Passarin D’Entreves, I problemi dell’ unifica-zione italiana (1860-65), in «Quaderni di cultura estoria sociale», a. V, 1953, pp. 172 e sgg.; E.Passarin D’Entreves, L’ultima battaglia politica diCavour. Problemi dell’unificazione italiana, Ilte,Torino 1956; M. La Torre, Cento anni di vitapolitica e amministrativa italiana, NoccioliEditore, Firenze 1952; A Marongiu, Formazionestorica unitaria e ordinamento dello Stato italiano, IlMarzocco, Firenze [s.a, ma1954]; A. Caracciolo,Stato e società civile. Problemi dell’unificazione italiana,Torino, 1960. Su tutti v. R. Romeo, Cavour e il suotempo, t. III, Laterza, Bari 1984. V. anche S.Cassese (a cura di), L’amministrazione pubblica inItalia, Il Mulino, Bologna 1974; C. Schwarzem-berg, La formazione del Regno d’Italia: l’unitàamministrativa e legislativa, Il Mulino, Bologna 1974e P. Calandra, Storia dell’ammi-nistrazione pubblica inItalia, Il Mulino, Bologna 1978. Ma v. anche M.S.Giannini, Parlamento e amministrazione, in «Centoanni di ammini-strazione pubblica», EdizioniRoma, Roma 1962, pp. 145-158 poi raccolto in S.Cassese (a cura di), L’amministrazione pubblica in Italia,cit., pp. 213-234 e B. Sordi, Giustizia e amministrazionedell’Italia liberale, Giuffrè, Milano 1962.22 Sul decentramento v. R. Romeo, I problemi deldecentramento in Italia a metà del secolo XIX°,apparso nel volume La décentralisation, «VI°Colloque d’Histoire organisé par la Facultè desLettres et des Sciences Humaine d’Aix-en-Provence», Ophrys, Aix-en-Provence 1964, pp.41-51 poi ripreso nel volume collettaneo DalRegionalismo alla Regione, a cura di E. Rotelli, IlMulino, Bologna 1973 ed in cui il Romeo insiste,molto autorevolmente, sul fatto che istituzionidiverse avrebbero visto il fiorire di forze le piùarretrate della società italiana, soprattutto inrelazione ai problemi che travagliavano ilMezzogiorno. Vedilo ora riprodotto in R.Romeo, L’Italia unita e la prima guerra mondiale,Laterza, Bari 1978, pp. 55-65. Al contrario,ampia è stata la schiera di studiosi che si sonoschierati per il carattere negativo dell’accentra-mento. V. a questo riguardo le poco convincentiposizioni di G. Miglio, L’unificazione amministra-tiva, in AA. VV., La formazione dello Stato unitario,Giuffrè, Milano 1963, pp. 71 e sgg., ma nellostesso senso anche le più fini ed argomentateposizioni di C. Pavone, Amministrazione centrale eamministrazione periferica da Rattazzi a Ricasoli(1859-1866), Giuffrè, Milano 1964, ma che è

comunque apprezzabile per la vasta raccoltadocumentaria di cui è corredato. V. anche E.Ragionieri, Accentramento e autonomie nella storiadell’Italia unita, poi raccolto in Politica eamministrazione nella storia dell’Italia unita, Laterza,Bari 1967. Apprezzabile per lucidità analitica,sebbene non tenga sufficientemente conto delleragioni politiche delle scelte accentratrici ilcontributo di un giurista autorevole come F.Benvenuti, Mito e realtà dell’ordinamento giuridicoitaliano nel volume collettaneo a cura di F.Benvenuti e G. Miglio, L’unificazione amministra-tiva e i suoi protagonisti, Neri Pozza, Vicenza 1969,pp. 65-216.23 In questo senso E. Ragionieri, Politica eamministrazione nella storia dell’Italia unita, cit. pp.89 e sgg. Ma v. soprattutto G. Talamo, Il problemadelle diversità e degli squilibri regionali nella culturapolitica italiana dal periodo dell’unificazione alla cadutadella Destra, in AA. VV., «Gli squilibri regionali el’articolazione dell’intervento pubblico», Atti delconvegno di studio svoltosi a Torino e Saint-Vincent dal 3 al 7 settembre 1961, Giuffrè,Milano 1962, pp. 103-109. V. anche M. Salvadori,Il mito del buongoverno. La questione meridionale daCavour a Gramsci, Einaudi, Torino 1960 e. R.Romeo, Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale, cit.,pp. 242 e sgg. In questa stessa direzione R.Ruffilli, La questione regionale dall’unificazione alladittatura 1862-1942, Giuffrè, Milano 1971 edanche, sebbene con qualche nota piùproblematica, ancora R. Ruffilli, La questione deldecentramento nell’Italia liberale, nel volumecollettaneo L’organizzazione della politica. Cultura,istituzioni, partiti, nell’Europa liberale, a cura di N.Matteucci e P. Pombeni, Il Mulino, Bologna1988, pp. 429-448 poi riprodotto in R. Ruffilli,Istituzioni, società, Stato, vol. II, Nascita e crisi delloStato moderno: ideologie e istituzioni, Il Mulino,Bologna 1990, pp. 707-726. Nello stesso senso,ma con accenti più radicali, v. P. Costa, Lo Statoimmaginario. Metafore e paradigmi nella culturagiuridica italiana fra ottocento e novecento, Giuffrè,Milano 1986.24 G. Grosso, Cavour e le autonomie locali, nelvolume miscellaneo Cavour, 1861-1961, Bottegad’Erasmo, Torino 1962, pp. 15-33.25 S. Spaventa, Dal 1848 al 1861. Lettere, scritti edocumenti, raccolti e pubblicati da B. Croce,Laterza, Bari 1910, p. 319.26 C. Pavone, Amministrazione centrale e ammini-strazione periferica, cit. p. 197.

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27 S. Spaventa, La politica della Destra. Scritti ediscorsi raccolti da B. Croce, Laterza, Bari 1910,p. 228.28 Uno degli aspetti più importantidell’accentramento fu l’istituzione del prefettosull’esempio francese. Su questo v. A. Aquarone,Accentramento e prefetti nei primi anni dell’unità, in«Clio», a. III, 1967, pp. 358-387 e lo studio di R.C. Frieds, The Italian Prefects. A Study in

Administration Politics, Yale University Press, NewHaven 1963 (trad. ital. Il prefetto in Italia, Giuffrè,Milano 1967).29 A. Aquarone, L’unificazione legislativa e i codicidel 1865, Giuffrè, Milano 1960 e C. Ghisalberti,La codificazione del diritto in Italia, 1865-1942,Laterza, Bari 1985, pp. 29-75.30 G. Astuti, L’unificazione amministrativa del regnod’Italia, cit., p. 114.

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Diversamente dagli illustri oratori chemi hanno preceduto, non sono qui ingrado di commentare la lunga eluminosa attività scientifica e difunzionario di Carlo Ghisalberti, matutto quello che posso dire etestimoniare è la mia quasi giornalierafrequenza con lui e l’apprendimento daparte mia di alcuni concetti a lui cari eche esponeva con una chiarezza e unafermezza che mi entusiasmavano. Unodegli argomenti di discussione, e devodire centrale nei nostri discorsi, eraGerusalemme e la difficoltà di vita deisuoi abitanti. Le sue osservazioni eranoanche rese vive dalla conoscenza deiluoghi, che aveva visitato certo più voltenella sua vita. A me geografo quelleimmagini suscitavano una certaammirazione e devo dire anche un po’ diinvidia, anche perché, pur avendovisitato molti paesi e realtà del mondo,non ero ancora riuscito a recarmi neiluoghi santi e conoscere da vicino unpaese avamposto mediterraneo di unmondo in continuo stato di guerra omeglio di guerriglia. Il Professore facevasua la tensione continua di unapopolazione sempre in stato di allerta.Le sue osservazioni erano comunqueanche continuamente aggiornate dalleinformazioni che riceveva da un suocaro parente sul posto. Naturalmente sipassava anche a discutere dellasituazione ebraica nel passato e nelpresente.

Altri discorsi spaziavano in generalesulla situazione politica del nostro paesee in particolare su quella dell’università. L’amicizia e i colloqui di lavoro e divisione della vita e della politica si sonointensamente consolidati tra me e ilProfessor Carlo Ghisalberti all’inizio delnuovo secolo, quando insieme con ungruppo di docenti di storia, costituito daFausto Fonzi, Vincenzo Pacifici, EsterCapuzzo, Carlo Ricotti e M. AdelaideColumba Fonzi si trasferì nelcostituendo Dipartimento di GeografiaUmana. Il trasferimento che dapprimaera stato visto come un ripiego perdotare di un numero sufficiente dicolleghi l’Istituto di Geografia pertrasformarlo in un dipartimento, inrealtà non fu così, perché il contributodei colleghi definiti semplicemente“storici” fu per me essenziale motivo dicrescita scientifica. L’aggettivazione di“umana” data alla geografia venivaguardata con un certo fine umorismo daigeografi cosiddetti fisici che siautodefinivano geografi “disumani”.Questa distinzione della geografia non èstata da me mai completamene accettata,essendomi formato ad una scuola chenon ha mai negato il forte rapporto conla geografia fisica, che descrive il mondoche abitiamo. Già a suo tempo Lucio Gambi in unodei suoi primi scritti si pose il problemadei due valori, l’uno fisico e l’altroumano, della geografia e lo risolse da par

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Cosimo Palagiano

Per Carlo Ghisalberti

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suo, senza inopportune contraddizioni.Oggi, con l’apertura sempre piùconvinta dei geografi e degli storici versogli attuali urgenti problemi ambientali mipare che il raccordo con la geografiafisica debba essere ripreso.Un rapporto che certamente non si èmai interrotto è quella tra storia egeografia, ma anzi si è sempre piùrafforzato a livello anche internazionale.Per questo accolsi con grande piacere edinteresse l’incontro con i colleghi storicie soprattutto con Carlo Ghisalberti econ Ester Capuzzo, come ho dimostratoin due miei contributi scritti per lacollana della rivista Clio – diretta daGhisalberti – e precisamente in duefascicoli, uno, del 2001, ha per oggetto leCittà Sante e le Città Capitali viste sullosfondo del Giubileo nella storia, e l’altro,del 2003, è una miscellanea dedicata alProfessore, curata da Ester Capuzzo eEnnio Maserati. La consonanza di idee forse dovutaanche ad una eccellente base di studiseguiti con il desiderio e la curiosità perla conoscenza ci ha fatto diventaresubito amici. Quando lo incontravo nelluogo di lavoro o lo ascoltavo durantefrequenti telefonate, era sempre unpiacere e un motivo di apprendimento.Si compiacque di regalarmi i tre volumidel Senato nella Storia, editi dall’IstitutoPoligrafico e Zecca dello Stato. Libreriadello Stato (1997-1998), che testimo-niano la sua opera di studioso all’internodel Senato della Repubblica e comeprofondo conoscitore della storia deldiritto italiano. Egli scrisse un capitolodal titolo: Alle origini del Senato: modelli edesperienze (pp. 9-38), a mo’ diintroduzione al terzo dei questi volumi,che riguarda Il Senato nell’età modernacontemporanea. In questo contributo passa

in rassegna le varie costituzioni, dallaConvenzione di Filadelfia fino alloStatuto Albertino ed afferma “il senso eil valore che un sistema bicamerale,fondato cioè sulla presenza, accanto adun’assemblea elettiva, di un’altradifferentemente formata, avrebbe avutoin un regime liberale e costituzionale”. Sichiede inoltre se la formulazione di unsistema bicamerale sia frutto di unaimitazione o di una originale rielabo-razione di proposte straniere. Econclude:

“..per spiegare la composizione, leattribuzioni e il funzionamento di taluneistituzioni che si pretendono sorteindipendentemente dell’influenza odalle ricezione di un preesistentemodello straniero, si richiama egual-mente quello al fine di evidenziarne icaratteri differenti e di contestarne, ovepossibile, quelli similari” (p.7).

Queste riflessioni mi sembrano valideancora oggi, quando, nonostante lapresenza di una Unione Europea conproprie direttive, gli ordinamenti degliStati sono alquanto lontani da una lorouniformazione. Il decennio anagrafico che mi separavadal Professore non erano affatto unostacolo per eventuali divergenze nelleopinioni, che venivano discusse edeventualmente appianate, per ilreciproco rispetto e affetto.Il tempo per chi è avanti con gli annipare scorrere rapidamente, e forseancora più rapida appare la differenza diidee e modelli con le più giovanigenerazioni. Ma i nostri studenti e allievisono il nostro futuro.Li vediamo con affetto e compren-sione: abbiamo ancora tanto da inse-

Per Carlo Ghisalberti

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gnare loro e anche imparare da loro.La scuola è questa e per questo CarloGhisalberti è stato un maestro, e uno deipiù ragguardevoli della nostra Università.Alla gioia per averlo conosciuto sicontrappone il dispiacere per averloperduto. Restano la memoria per la suaaffabilità e competenza e gli scritti che ciha lasciato. Ad altri il compito dicommentarli. A me quello di onorarlocome amico e come collega.

Qualche citazione:

C. Ghisalberti, Alle origini del Senato:modelli ed esperienze, in “Il Senato nellaStoria. Il Senato nell’età moderna econtemporanea”, Poligrafico e Zecca delloStato. Libreria dello Stato, Roma 1997,pp. 7-38.

C. Palagiano, Le trasformazioni urbanistiche,pp. 109-126, in E. Capuzzo (ed), CittàSante – Città Capitali: il Giubileo nella storia.Atti del Congresso Internazionale Roma,8-10 ottobre 1999, in “Quaderni diClio”, Collana diretta da C. Ghisalberti,N.S. N. 5, 2001, pp. 214.

C. Palagiano, (2003), Un nuovo spazio perla storia e la geografia, 749-767, in E.Capuzzo, E. Maserati (eds), Per CarloGhisalberti. Miscellanea di studi, in“Quaderni di Clio”, ESI, Napoli 2003,pp. 793.

C. Palagiano, (2019), Geografia fisica egeografia umana di fronte ai concetti di valore,in “Accademia Nazionale dei Lincei. Attidei Convegni Lincei, 326, Natura, Storia,Uomini. Giornata di Studi in onore diLucio Gambi (Roma, 19 aprile 2017)”,Bardi Edizioni, Editore Commerciale,Roma 2019, pp. 37-63.

Cosimo Palagiano

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La scomparsa di Carlo Ghisalberti miha colpito sul piano sia degli affettipersonali, sia dell’attività scientifica, siadei riferimenti etico-politici nei quali cimuovemmo quasi sempre all’unisono.Lo conobbi nella seconda metà deglianni Settanta del secolo scorso quandoentrò a far parte, come storico del dirittoitaliano, dell’Istituto di Storia modernadella Facoltà di Lettere e Filosofiadell’Università di Roma “La Sapienza”.Io iniziai a collaborare nel 1974 comeassistente incaricato alla cattedra distoria moderna di Rosario Romeo, e poidal 1978 come assistente ordinario aquella di Ruggero Moscati, e fuattraverso Moscati e Romeo, i qualierano in stretti rapporti accademici epersonali anche con Angelo Sabatini eRenzo De Felice, che cominciai afrequentare Carlo Ghisalberti in Istitutoe poi anche fuori della Facoltà. Da quellafrequentazione nacque ben prestoun’amicizia che non si spense mai,neppure quando rallentammo i nostriincontri conviviali. Fu un’amiciziaalimentata dalla mia ammirazione per lesue doti di studioso e di uomo franco,leale, solare, generoso con allievi estudiosi più giovani quale allora io ero, edalla gratitudine che gli portavo per lastima di cui sempre volle onorarmi. Ed èanzitutto nel ricordo di quella amicizia edel calore umano trasmessomi ogniqualvolta lo incontravo, che il mio

pensiero si rivolge ora, commosso nelcomune ricordo, alla cara signoraMaggiù, e alle figlie, Marcella, Serena eValeria. Ma ci tengo a sottolineare cheCarlo Ghisalberti fu sempre istintiva-mente ben disposto verso tutti e nonsolo verso amici e congiunti. Con tutti iolo ricordo sempre gentile, garbato,contenuto, anche quando avrebbe avutobuoni motivi per perdere la calma. Nonlo sentii mai parlar male di chicchessia. Dotato di vasta e profonda culturagiuridica e storico-giuridica, percorseuna brillante carriera accademicacoronata dalla vincita di una cattedra diStoria del diritto italiano a soli 34 anni.Ma prima che docente universitario fuper otto anni funzionario della Cameradei deputati rivestendo, tra l’altro,l’incarico di segretario della Commis-sione Giustizia. E quell’esperienza gligiovò molto nel rafforzare le suecapacità di storico delle istituzioniparlamentari che sorreggono la suacelebre Storia costituzionale d’Italia,1848-1994 (prima edizione laterziana nel1974, poi più volte aggiornata finoall’undicesima edizione) e altri ben notilavori di storia delle istituzioni e dellacodificazione. Come storico del diritto italiano si eraformato alla scuola di FrancescoCalasso, col quale si laureò nel 1952, masarebbe riduttivo rinchiuderlo nelrecinto specialistico degli storici del

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Guido Pescosolido

Carlo Ghisalbertistudioso di Silvio Spaventa

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diritto in senso stretto. In realtà il suoprofilo era stato sin dagli inizi quello diun giovane dotato di solide basi dicultura classica e filosofica. La suasapienza giuridica e di storia istituzionaleera immersa in un più vasto contesto dicultura storico-politica che spiega perchéad un certo punto della sua carriera acca-demica poté passare agevolmente all’insegnamento e alla ricerca in un settorescientifico-disciplinare come quello diStoria contemporanea, molto più ampiodi quello di storia del diritto italiano. Maoltre che un grande storico, Ghisalbertifu anche un grande maestro, capace diinsegnare il metodo della ricerca storicaai suoi allievi, i migliori dei quali hannoraggiunto posizioni accademiche escientifiche di primo piano su scalanazionale. Assieme a Rosario Romeo, RuggeroMoscati, Renzo De Felice, EmiliaMorelli, Girolamo Arnaldi, e, più tardi,Alberto Aquarone e Aldo Garosci,formò all’interno dell’Istituto di storia

moderna e della Facoltà di Lettere eFilosofia un gruppo di storici diorientamento liberale e democratico,socialdemocratico e socialista, fortementeconnotato sul piano ideologico-politicoin senso anticomunista, e sul pianostrettamente storiografico in sensocrociano. Crociano d’altronde era ancheil suo primo maestro, Francesco Calasso. A differenza della maggior parte deglistorici accademici italiani, aveva il donodi una scrittura scorrevole, limpida,facilmente fruibile dal pubblico di nonaddetti ai lavori, e che contribuì nonpoco al grande successo di diverse sueopere. Ed è su una delle sue opere, soloper modo di dire “minori”, ma in cuinondimeno emerge la sua grandecapacità di calare la storia delleistituzioni nel contesto storico-politicogenerale, che vorrei soffermarmi inquesta particolare occasione. Si tratta delvolume su Silvio Spaventa tra Risorgimento eStato unitario, edito nel 2003 a Napolidall’Istituto Italiano per gli Studi

Guido Pescosolido

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Filosofici, nel quale Ghisalberti si misuracon una delle personalità più eminentidel patriottismo meridionale e dell’interoRisorgimento italiano.Non credo che egli avesse mai coltivatol’intenzione di scrivere una biografia nelsenso comune del termine del grandeuomo politico abruzzese. L’opera dataalle stampe nel 2003 certamente non loè. È tuttavia una riflessione acuta,illuminante e fortemente partecipe suicapisaldi teorici ed etici e sulle sceltefondamentali dell’impegno politico,istituzionale e civile di uno dei maggioriprotagonisti del Risorgimento e deiprimi decenni di vita dello Stato unitario;un protagonista il cui pensiero e la cuiopera Ghisalberti giudicava storicamentefra le più moderne della nostra storiarisorgimentale, l’abbandono dei cuivalori egli sentiva come una delle piùforti ragioni dello scadimento etico,politico e civile della storia nazionaleitaliana nel secondo dopoguerra. Carlo Ghisalberti, in sintonia conMoscati, Romeo, De Felice, Morelli,Aquarone, Sabatini e gli altri colleghi eamici laici della Facoltà di Lettere eFilosofia, viveva infatti nel culto delRisorgimento quale atto fondativo dellanostra moderna storia nazionale. E delRisorgimento Silvio Spaventa era statouno dei maggiori artefici, sia perl’apporto teorico e pratico portato allosviluppo del movimento nazionaleunitario nel Mezzogiorno, sia per iltributo personale di oltre sei anni dicarcere e oltre due di esilio seguiti allacondanna a morte emanata contro di luidal regime borbonico nell’ottobre del1852. Silvio Spaventa, in sintonia con ilfratello Bertrando, fu inoltre uno dei piùautorevoli appartenenti alla scuola delliberalismo hegeliano di Napoli e uno

dei maggiori teorici e costruttori delloStato costituzionale proiettato verso ilsuo graduale svolgimento in sensopienamente parlamentare, laico magarante della piena libertà delle religioni;analogamente Carlo Ghisalberti fu pertutta la sua vita un liberale laico fautoredella piena libertà religiosa, moderato,ma aperto alla piena e responsabilepartecipazione delle masse alla vitademocratica. Silvio Spaventa fu contra-rio all’autonomia universitaria e CarloGhisalberti non fece salti di gioiaquando questa fu introdotta nel sistemadelle università statali. Spaventa fu undeciso sostenitore dell’accentramentoamministrativo, e Carlo Ghisalberti nonfece certo mistero del suo giudizionegativo sugli effetti disgregativi e dege-nerativi, specie nel Mezzogiorno d’Italia,dell’istituzione delle regioni negli anniSettanta del Novecento e poi del trionfodel localismo più sfrenato nel quale oggiviviamo. Insomma un personaggio, lo Spaventa,sul cui pensiero e sulla cui operaGhisalberti riteneva si dovesse crociana-mente ritornare, soprattutto al cospettodella condizione politica e civile nellaquale l’Italia del ventunesimo secolo sistava cacciando. Il libro si apre con un’accurata rassegnadella storiografia su Silvio Spaventa apartire dal dibattito apertosi dopo la suamorte avvenuta nel 1893. Ghisalbertiricorda in particolare l’attenzioneportata al periodo risorgimentale 1848-61 da Alessandro D’Ancona, FrancescoMasi, Emilio Mona-celli, Francescod’Ovidio. A quel periodo guardò poianche Benedetto Croce con la raccolta dilette-re, scritti e documenti vari. Sin dalleprime commemorazioni e analisistoriche Spaventa fu consacra-to come

Carlo Ghisalberti studioso di Silvio Spaventa

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uno dei personaggi maggiori del nostroRisorgimento e dell’Italia liberale, per lavocazione unitaria manifestata sin dal1848, per il carcere e l’esilio subiti dalregime borbonico, per l’apporto dato alprocesso di unificazione e alla vita delloStato unitario in tutti i passaggi crucialidei governi della Destra storica, inparticolare dal 1873 al 1876 quando fuministro dei lavori pubblici ed affrontò ilproblema delle ferrovie. Di fondamen-tale importanza fu poi il dibattitoriaperto in età giolittiana dalla pubblica-zione de La politica della Destra diBenedetto Croce, che raccolse numerosiscritti e discorsi di Spaventa, e deiDiscorsi parlamentari a cura della Cameradei Deputati. Da esso, secondoGhisalberti, emerge per la prima volta atutto tondo il grande teorico dellapolitica e dello Stato, fautore dellanazionalizzazione delle ferrovie e dellalaicità dell’insegnamento, fornendo lecoordinate interpretative alle duesuccessive biografie di Paolo Alatri eElena Croce.Ghisalberti concentra quindi la suaattenzione sui due principali tentativistoriografici di appropriazione indebitadella figura di Silvio Spaventa. Il primofu quello fascista di Giovanni Gentile,che cercò di farne un precursore dellostato autoritario e poi totalitario: sullalinea di Croce e Omodeo, Ghisalbertirievoca invece i contenuti liberali distretta legalità e giustizia dell’ammi-nistrazione dello stato etico spaventiano,concretizzatisi nello stato liberaleitaliano, stato di diritto per antono-masia, senza nessuna possibilità diparentela con lo stato totalitario fascista.Il secondo, meno grave ma comunqueinfondato, fu condotto dalla sinistraitaliana del Novecento, che cercò di

farne un precursore delle collettiviz-zazioni e nazionalizzazioni richieste epromosse dalle forze politiche de-mocratiche e social-comuniste. Spaventa,precisa Ghisalberti, appartenne dichiara-tamente allo schieramento politicomoderato della Destra Storica, la cuiconcezione etica ed unitaria dello Statocomportava che fosse esso a garantirel’interesse generale dei cittadiniattraverso l’erogazione dei pubbliciservizi essenziali, in primis quelloferroviario, ma sempre in un contesto dimassima libertà imprenditoriale per lerimanenti attività produttive ecommerciali. Alla luce di tale analisi storiograficaGhisalberti verifica nei successivicapitoli del libro i momenti e i concettifondamentali dello sviluppo del pensieroe dell’azione dell’uomo politico abruz-zese. Lo snodo fondamentale dell’interopercorso risorgimentale di Spaventa gliappare il 1848 napoletano e la creazione,assieme al fratello Bertrando e ungruppo di patrioti meridionali del co-raggioso foglio Il Nazionale. Nella suabreve (1° marzo – 17 luglio 1848) maintensissima stagione, il foglio divenne ilriferimento fondamentale, teorico epratico, dell’opinione pubblica liberalemeridionale e in particolare per quelgruppo di patrioti che visse le speranze ele delusioni del 1848 a Napoli, ilconseguente carcere e l’esilio, il ritornovincente al seguito di Garibaldi esoprattutto di Vittorio Emanuele II, lacostruzione dello Stato nazionaleunitario. Dall’esame completo delperiodico, Ghisalberti trae in evidenza i5 punti programmatici d’azione delgruppo dei fondatori, contro il mo-deratismo del governo Serracapriola-Bozzelli allora in carica: 1) Consegui-

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mento dell’unità politica e moraled’Italia; 2) Svolgimento della costitu-zione in senso liberale; 3) formazione diuna lega degli Stati italiani e dellaGuardia Nazionale; 4) lotta al munici-palismo; 5) Assunzione di più elevate re-sponsabilità politiche da parte del cetointellettuale. Era un programma dal quale emergevatutta la problematicità del passaggio cheil movimento liberale meridionale stavavivendo di fronte al dilemma se accettarela costituzione molto restrittiva con-cessa da Ferdinando II e puntare solo alsuo svolgimento in senso liberale (cosache peraltro il re non aveva alcunaintenzione di permettere) senza quindimettere in discussione la sopravvivenzadella monarchia, oppure rompere con ladinastia borbonica e cercare subito unasoluzione unitaria rivoluzionaria su scalanazionale italiana, come proponeva ilmovimento mazziniano. Nel programmasi tentava la via del compromesso con lamonarchia attraverso la soluzioneconfederale del problema dell’unità(punti 1 e 3), ma è significativo chequest’ultima fosse posta al primo punto,prima anche di quello svolgimento insenso parlamentare della costituzione,che avrebbe potuto costituire la via disalvezza per la monarchia borbonica.Con l’attuazione dei punti program-matici 1) e 3), quindi con l’adesione delRegno delle Due Sicilie all’unità d’Italiama attraverso l’adesione a una legaconfederale che avrebbe permesso alladinastia borbonica di conservarne lasovranità, si sarebbe comunque trattatopur sempre per la monarchia di cedereuna quota di sovranità sia all’interno cheall’esterno, secondo un programmapolitico che sin da allora faceva degliSpaventa la punta più avanzata del

movimento liberale meridionale, unaparte del quale si sarebbe accontentataanche del solo svolgimento liberale dellacostituzione, senza confederazione. La posizione dei fratelli Spaventa eraconfermata anche dal recupero da partedel periodico della costituzione del 1799e dalla svalutazione di quella del 1820-21, dalla critica alla carboneria e alla suastrategia cospirativa e settaria, dallapartecipazione al dibattito sullaCostituzione quale unico strumento pertradurre la libertà etica in formegiuridiche e istituti idonei allaregolazione in senso moderno delrapporto tra governanti e governati.Queste posizioni erano proiettate anchesu scala nazionale spingendo per laconnotazione in senso parlamentaredella costituzione subalpina e in difesadel principio della concessione dellalibertà religiosa anche agli ebrei.Sorge il dubbio che la convergenza sulconfederalismo degli hegeliani fosse sindall’inizio puramente tattica, un dubbioche però allo stato attuale delladocumentazione non sembra risolvibilee d’altro canto fu il sovrano a scioglierloperché dopo l’allocuzione di Pio IX Nonsemel del 29 aprile 1848 la linea assuntadal Borbone fu infatti quella del rifiutodi qualunque cessione di sovranità sia sulfronte interno, negando la costituziona-lizzazione liberale dello Stato, sia, suquello esterno rifiutando l’adesione alla Iguerra di indipendenza e all’ipotesi diqualunque tipo di confederazione. Il 15maggio 1848 Ferdinando II sospese,come è noto, la costituzione concessa afebbraio e mai veramente applicata, esciolse con la forza il Parlamento. A quelpunto fu chiaro agli occhi delmovimento liberale che l’unica via persostituire il vecchio stato assolutistico

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con un moderno stato costituzionale eliberale, e l’antica nazione meridionale diprivilegiati con una moderna nazione dicittadini con pari diritti giuridici econdivisione almeno del poterelegislativo con il sovrano, fosse quelladella creazione di un grande statonazionale italiano, costituzionale eliberale, sotto la guida del Piemonte deiSavoia. Il ruolo dei fratelli Spaventanell’affermazione di questa linea, cheavrebbe poi portato all’Unità d’Italia, fudecisivo, assieme a quello di PasqualeStanislao Mancini, Francesco DeSanctis, e altri, come lo fu nel respingerel’ipotesi di un ritorno dei Murat in chiavecostituzionale in sostituzione deiBorbone indissolubilmente legati all’assolutismo. In questa strategia, una volta superatal’alternativa confederazione-unità afavore di quest’ultima, diveniva centralenel dislocamento delle forze politicheliberali l’idea di costituzione che siintendeva dare al nuovo stato unitario. Aquesto problema Ghisalberti dedica unintero capitolo e su di esso torna poiripetutamente nel corso del libro,delineando acutamente ed efficacementel’idea costituzionale di Silvio Spaventa.La fonte primaria di Ghisalberti sono dinuovo gli articoli de “Il Nazionale”, masovvengono anche diversi altri scrittispaventiani post-unitari. Secondo Ghisalberti,Spaventa muoveva filosoficamente dallavisione hegeliana della storia come storiadella libertà e vedeva nella costituzionelo strumento principe dell’affermazionedella libertà nella storia. Era inoltre con-vinto che ogni costituzione, qualunqueessa fosse, era destinata a svolgersi nelsenso della progressività mediantel’allargamento crescente della partecipa-zione dei cittadini alla vita politica. Era

tuttavia anche chiaro che le costituzioninon avevano assunto sino ad allora unaforma univoca, perché diverse erano lecondizioni storiche degli stati in cui esseerano state adottate, Italia compresa. Alfine di valutare i modelli costituzionaliprospettati e concretamente adottati daltardo Settecento fino a quello dello statoliberale italiano Spaventa non ritenevamolto produttiva la pura teorizzazionedottrinale, bensì la storicizzazione deiprocessi politici genetici delle costitu-zioni. Il grande dibattito sull’alternativatra costituzioni concesse dal sovrano ecostituzioni elaborate da un’assembleaeletta dal popolo non lo entusiasmava,perché in fondo era convinto che anchecon una carta concessa da un monarca sipotesse arrivare a un regime autentica-mente costituzionale e liberale. Il valoredel regime configurato in un testocostituzionale era dato non tanto dallanatura del soggetto emanatore quantodal suo reale contenuto. Egli non era unammiratore senza riserve del modellocostituzionale inglese, e non perché essoprevedeva l’esistenza del monarca, maperché era fondato ancora sul principiodella distinzione del popolo in ordini econtemplava realtà intermedie tra ilpotere dello Stato e quello dei cittadiniche non erano tutti uguali davanti allalegge. Tale fondamentale principio erainvece presente nelle costituzionirivoluzionarie di modello francese,inclusa quella napoletana del 1799,contro le quali non per caso l’Inghilterraaveva operato durante il ventennionapoleonico. Spaventa preferiva heghe-lianamente un rapporto puntuale ecompiuto tra lo Stato e la società civile,senza articolazioni intermedie ereditatedall’antico regime. Apprezzava tuttavianella costituzione inglese la limitazione

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del potere monarchico, la tutela deidiritti individuali rispetto alla possibileinvadenza dello Stato, la supremazia delparlamento in materia di procedimentigiudiziari riguardanti i deputati, cheerano princìpi comunque immensamentepiù avanzati rispetto a quelli previsti dairegimi assolutistici presenti nelContinente europeo prima e dopo laRivoluzione francese. Studiava inoltrecon attenzione la gestione inglese deirapporti tra Stato e Chiesa, e lasuperiorità del primo sulla seconda, mapreferiva il principio delle libere chiese inlibero Stato. Si allontanava poi dalmodello inglese quanto all’ordinamentoamministrativo, preferendo per l’Italia alself government inglese l’accentramento dimatrice francese e il ruolo centraliz-zatore della burocrazia. Era peròconsapevole, pur senza mai nominareVincenzo Cuoco, dell’astrattismo dellacostituzione napoletana del ‘99 mutuatameccanicamente da quella francese del1795, senza tener conto delle specifichecondizioni ed esigenze della societàmeridionale. Condannava ovviamentel’assolutismo della monarchia ammini-strativa della Restaurazione, ma nonapprezzava il carattere radicale dellaCostituzione del 1820-21 che, modellatapedissequamente su quelle di Cadice edel ‘99 napoletano, rompeva erroneamentecon la parte moderata del movimentoliberale. E fu proprio in conseguenza ditali convinzioni che accettò l’inizialeaccordo con la dinastia borbonicanonostante la ristrettezza della Carta del‘48, anche perché contava che la sipotesse modificare poi in sensoparlamentare senza dover ricorrere adun’apposita assemblea costituente. Neldibattito che si aprì allora sulle modalitàdi emendamento alla costituzione,

Spaventa fu infatti favorevole a ricono-scere al Parlamento in carica la facoltà dioperare in tale materia con attolegislativo ordinario.Dopo il 1848, come già ricordato,Spaventa abbandonò qualunque idea dicostituzione napoletana, inclusa quella ditipo murattiano, e ritenne il problemacostituzionale nel Mezzogiorno indisso-lubilmente congiunto a quello dell’unitàd’Italia, convergendo di fatto con lavisione democratico-mazziniana, allaquale lo avvicinava anche la preferenzadata alla forma accentrata dell’ordi-namento politico e amministrativo delnuovo Stato. Ovviamente Ghisalbertirichiama anche le sostanziali differenzedella posizione di Spaventa rispetto aquella di Mazzini. Spaventa non credettemai né alla possibilità né all’opportunitàdella instaurazione in Italia di unarepubblica. Pur puntando alla pienezzafinale della partecipazione politica dellemasse popolari, non fu mai favorevole asoluzioni immediate di tipo democratico-repubblicano. Riteneva in sintonia con ilpensiero di Hegel pre-quarantottesco,che solo lo stato unitario nella formacostituzionale garantisse la più altavalenza etica della vita civile e che solo loStato sabaudo, tra quelli esistenti nellapenisola potesse guidare e realizzarel’Unità d’Italia dandole contestualmenteun regime costituzionale, perché dopo il1849 era stato l’unico a conservarne uno. In un altro apposito capitoloGhisalberti si sofferma proprio sulrapporto di Spaventa con il pensierohegeliano, inizialmente di vicinanza e poidi distacco da esso in ordine ai modi e aitempi di realizzazione dell’unità. Egliripercorre infatti l’evoluzione ideologico-politica dei fratelli Spaventa alla lucedell’evoluzione del pensiero politico-

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istituzionale nei maggiori Stati europei ein particolare in Germania, la cuiframmentazione politico-territoriale inpresenza di una grande nazionelinguistica e culturale era analoga a quelladella penisola. Posto che per loro loStato, come per Savigny, era «la formaconcreta della spirituale comunanza diun popolo», Bertrando e Silvio eranopervenuti alla convinzione che lacreazione di uno Stato nazionale sulmodello di quello realizzato in Franciacon la grande Rivoluzione e sviluppatopoi dalla cultura tedesca con Hegel nellaprima parte dell’Ottocento, era perl’Italia l’unica via possibile diincivilimento e di progresso. Dal 1848-49 in poi tuttavia la strategia unitariatedesca assunse carattere gradualisticoattraverso la costituzionalizzazioneprogressiva e parziale di ciascuno deisingoli Stati della Confederazione diFrancoforte, strategia alla quale lo stessoHegel aderì. Tale strategia non fututtavia ritenuta valida da alcuno dei fra-telli e in particolare da Silvio che era lamente politica del sodalizio. Egliriteneva infatti che in Italia, data lapresenza austriaca e l’oggettivo rifiuto dicostituzionalizzazione da parte di tutti iregimi politici presenti nella penisolatranne il Regno di Sardegna, l’unità sipotesse raggiungere solo saltando taleprocesso graduale e realizzando invecesubito una compiuta unità saldamentecentralizzata che facesse pulizia di ogniresiduo feudale, corporativo o comun-que particolaristico e municipalistico si-mile a quello che ancora sopravvivevanella Germania post-quarantottesca.L’idea di Stato costituzionale di Spaventaera dunque francese non solo e nontanto per una aderenza dottrinale adesso, ma anche perché sembrava l’unico

realisticamente in grado di raggiungerel’Unità e soprattutto di consolidarla econservarla. Era uno Stato nel qualeamministrazione e politica, formalmentedivise, erano in realtà fuse per finalità diincivilimento etico e politico, chesanzionavano di fatto la superiorità dellapolitica sull’amministrazione e facevanodella burocrazia il suo strumento fonda-mentale. Il ruolo di Silvio Spaventa nell’annessione del Mezzogiorno allo Statounitario fu pertanto, assieme a quello dialtri meridionali, di prim’ordine, esoprattutto fu di prim’ordine, assieme aquello di Pasquale Stanislao Mancini,nell’abbandono del decentramentoamministrativo caro a tanta parte dellaDestra storica settentrionale, e nell’ado-zione con le leggi del 1865 del modelloistituzionale e amministrativo accentrato.La lotta guidata da Spaventa alla camorrae al brigantaggio postunitario ebbe ilsignificato di una difesa estrema dell’Unità appena raggiunta e ritenuta aragione gravemente in pericolo.Ghisalberti conviene con Spaventa suipericoli di dissoluzione dello Statoliberale e sulla necessità di una dittaturadel ceto più colto negli anni immedia-tamente successivi all’unità. L’azione diSpaventa come sottosegretario agliinterni e la repressione dei moti diTorino in occasione del trasferimentodella capitale a Firenze furono laconferma più clamorosa e dolorosa diquella necessità. Ma anche la sua operadi Ministro dei lavori pubblici dal 1873 al1876 fu condotta nel segno inflessibile diuna concezione dello Stato unitariorisorgimentale come portatore diincivilimento economico e sociale,strettamente connesso con quello etico,civile e politico dello Stato liberale. Era

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infatti profondamente convinto dellanecessità che lo sviluppo politico, severamente lo si voleva realizzare,dovesse essere sincrono a quello econo-mico e culturale. Il Risorgimento politicoavrebbe dovuto tradursi anche nellosviluppo economico, che avrebbesorretto a sua volta quello civile in uncircuito di reciproche influenze chetrovava la propria sintesi espressiva inuna sola parola: progresso. Proprioperché o sviluppo economico era unacomponente essenziale di quello etico-politico e civile, non poteva essereabbandonato alla completa mercé degliappetiti di gruppi capitalistici a caccia disolo profitto a scapito degli interessi edei diritti della collettività e quindirichiedeva un intervento “etico” delloStato. La libertà d’impresa doveva averedei limiti se non si voleva che essadivenisse un fattore di violazionedell’eticità e la partita cruciale nell’etàdella Destra la si giocava nella costruzio-ne della rete ferroviaria, già indicata aitempi di Cavour da Ilarione Petitti diRoreto, come l’asse portante non solodello sviluppo economico, ma anche diquello civile e morale, e quindi politicodell’Italia del Risorgimento. Per comprendere a fondo questaposizione di Spaventa, che, contro laSinistra favorevole alla privatizzazione,difese la sua proposta di nazionalizza-zione della rete fino a provocare lascissione dei toscani fedeli a UbaldinoPeruzzi e la conseguente caduta dellaDestra, Ghisalberti si basa su quantoesposto dall’hegeliano in Lo Stato e leferrovie. Scritti e discorsi sulle ferrovie comepubblico servizio (marzo-giugno 1876) cheegli inquadra poi nella più generaledifesa dell’operato della Destra storicacondotta da Spaventa dopo l’avvento al

potere della Sinistra in particolare nelfondamentale discorso su La politica el’amministrazione della Destra e l’opera dellaSinistra. Alla base della giustificazione dell’operato della sua parte politica, sia nellemolte battaglie vinte, dalla creazionestessa e dalla tenuta dello Stato unitario,anche a costo di dure scelte repressive ecomportamenti autoritari, sia in quelleperse, come la nazionalizzazione delleferrovie, stavano l’oggettiva precarietàdell’impalcatura costituzionale italiana,causata dalla ristretta partecipazionepopolare al Risorgimento e alla vita delloStato, e la particolare pericolosità dell’astensionismo e dell’ostilità cattolica.Fattori questi che avevano concorso anon far nascere in Italia un bipartitismoperfetto come quello inglese. Questosarebbe potuto nascere solo se avesseroavuto diritto al voto anche quelle classiche non appartenevano solo all’alta emedia borghesia che costituiva la basesociale sia della Destra che della Sinistrastorica. E tuttavia la scarsa partecipa-zione non si poteva eliminare se nonprevia costruzione di un’ampia e convintacoscienza nazionale che accettassel’esistenza dello Stato italiano e del suoregime liberale e potenzialmente demo-cratico. Per far questo l’Università esoprattutto la scuola popolare avrebberodovuto giocare un ruolo fondamentale.Per la prima quindi era necessaria lacreazione di atenei statali laici perassolvere al compito di una promozionedella ricerca e dei saperi che nonassumesse risvolti politici antina-zionali.Per la seconda occorreva dare impulsoall’alfabetizzazione attraverso la creazionedi scuole laiche e una leva di maestrielementari fedeli allo Stato liberale, che,in un paese con il 75% di analfabeti,

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avrebbe avuto sicura-mente bisogno ditempi abbastanza lunghi e di un sostan-ziale miglioramento della rete stradaleper poter raggiungere le località piùisolate. Ed era per questo che Spaventa,pur favorevole in linea di principioall’allargamento del suffragio finoall’universalità dei cittadini, riteneva chead esso si sarebbe potuti giungere sologradualmente in concomitanza dellosviluppo dell’alfabetizzazione e di unpieno riconoscimento del regime liberalee dell’esistenza stessa dello Stato italianoanche da parte delle forze politicheantisistema, in primis dei catto-lici. Fattoquindi il confronto con il panorama deisistemi elettorali dei maggiori paesieuropei egli propendeva per una riformaelettorale che allargasse il suffragio acoloro che avessero raggiunto i requisiti

culturali minimi previsti dalla legge. Queste convinzioni non erano quelle diun conservatore dei privilegi di classedella borghesia, ma quelli di uno statistapienamente convinto che lo Stato liberal-costituzionale italiano, espressione dellamoderna nazione politica post-rivolu-zionaria, fosse la meno imperfetta delleforme di ordinamento politico sino adallora sperimentate, e che l’obiettivoprimario da perseguire, al di là diqualunque interesse di singolo o di parte,fosse quello di conservarne e consoli-darne, per tutti i membri della comunitànazionale, i valori di libertà di cui era adun tempo portatore ed espressione. Ederano le stesse convinzioni che oltre unsecolo dopo Carlo Ghisalberti continuòa difendere, serenamente e senza tenten-namenti, per tutta la vita.

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Alcuni libri di Carlo Ghisalberti

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Da Storia costituzionale d’Italia 1849/1948

«Un testo costituzionale non basta a creare unademocrazia. Questa, infatti, vive solo nellaconsapevolezza, da parte del popolo, dellairrinunciabilità dei valori che vi sono contenuti, delrispetto dei principi che vi sono codificati. Questaconsapevolezza, però, non può nascere di un tratto,come conseguenza immediata della sua promulgazioneda parte di un’assemblea costituente».

«Il Risorgimento non contempla infatti l’idea dellatrasformazione sociale, o quantomeno della riforma deirapporti sociali esistenti: lo Stato Italiano, che emergedal processo risorgimentale, esprime una culturagiuridica e politica pienamente convergente sui valoridel liberalismo economico e dell’individualismoborghese, alla base della codificazione napoleonica.Diventa quindi perfettamente naturale che, nell’ambitodei lavori di preparazione della codificazione italiana,il codice francese rappresenti il modello ideale, illinguaggio giuridico di base, nella prospettiva dellacostruzione della codificazione nazionale».

Carlo Ghisalberti ha scritto

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Alcune pubblicazioni della Fondazione Giacomo Matteotti

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Collana Testimonianze e ricerche (3)A cura di Angelo G. Sabatini e Alberto Aghemo

Saggi di Emmanuele Francesco Maria Emanuele, Antonello Folco Biagini,Angelo G. Sabatini, Giovanna Motta, Patrizia Pampana, Francesca Russo,Elena Dumitru, Alessandro Vagnini, Fabio L. Grassi, Cornelia Bujin,

Giuseppe Motta, Andrea Carteny, Daniel Pommier Vincelli, Nadan Petrovic, Francesco Forte,Rossella Pace, Marco Cilento, Abdessamad El Jaouzy,

Beatrice Romiti, Alessandro Saggioro, Angela Bernardo, Leone Spita,Roberto Ruggieri, Giuliana Vinci, Fabiana Giacomotti, Alberto Aghemo

Il volume riporta gli esiti del progetto di ricerca sul tema “Mediterraneo: tradizione, patrimonio,prospettive. Una proposta per l’innovazione e lo sviluppo” condotto in collaborazione conautorevoli enti ed istituzioni, tra i quali la Fondazione Terzo Pilastro − Internazionale, la

Fondazione Sapienza e la Società Geografica Italiana. La ricerca affronta il tema del ruolo che iPaesi dell’area del Mediterraneo sono chiamati a svolgere nel campo della tutela e della

valorizzazione del patrimonio culturale, della cooperazione internazionale, delle reti infrastrutturali,delle antiche e nuove imprese, dello sviluppo delle risorse umane in una logica di convivenza,

accoglienza e mutuo riconoscimento, assecondando i driver dell’innovazione e delle attività vocatedei diversi territori.

Stampato in Italia nel mese di dicembre 2019 da F.lli Pittini sncISBN 978-88-940861-2-6

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Il Mediterraneo non è soltantoun’espressione geopolitica, ma anche esoprattutto una dimensione culturale,spirituale, creativa. Vogliamo ricordareche lungo le coste di questo meravi-glioso mare è nato tutto ciò che oggipervade il mondo che ci circonda, inOccidente e non solo: le religionimonoteiste, la democrazia, la scienza, learti, i commerci, la poesia, l’amore pergli altri. Tutto ciò è nato, lo si voglia onon lo si voglia ricordare, in questo riccoe stupefacente spazio in cui da sempre iconfini interagivano tra di loro epermeavano la vita del mondo che lifronteggiava con la meraviglia della lorocreatività. Con la mente rivolta alleorigini remote di questa grande regionedi civiltà, a questo Grande Mare stretto“in mezzo alle terre”, penso all’operaespansiva dei fenici, all’incrocio dellelingue lungo le rotte e le coste, ai calcolimatematici che vennero stimolatiproprio per agevolare la capacità diinteragire prima con l’Egitto, poi contutti quei mondi che costituivano, alloracome oggi, il più vasto mondo

mediterraneo. Penso alla Grecia cheirrorò tutto il Mediterraneo dellameraviglia dei suoi templi, che ancoraoggi sono la testimonianza di quellaepopea artistica, culturale e di culto cheha lasciato nella Sicilia, ad esempio,templi stupendi in misura maggiore diquanti non ve ne siano nella stessa terraellenica, loro patria di origine. Oggi, una visione “separata” dallarealtà fa sì che comunemente si pensiche l’Occidente sia il motore di tutto. Mal’Occidente è stata una invenzione diquel mondo, è germinato daltrasferimento di quei valori e di queiprincipi che, nati nella regionemediterranea, hanno toccato il mondocircostante e poi hanno attraversato glioceani, sino alla lontana America,lasciando tuttavia tracce tangibili anchenei Paesi dell’Est. Ancora ci lasciaammirati la capacità espansiva dellaciviltà di quel mondo mediterraneocomplesso e ricco, anche della suadiversità, cui faccio riferimento. Ebisogna prendere atto che lacommistione di quel mondo con le

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La centralità geopolitica e culturaledel Mediterraneo,

regione di accoglienza e di rinascita

Il saggio apre il volume Mediterraneo: tradizione, patrimonio, prospettive. Una propostaper l’innovazione e lo sviluppo, recentemente pubblicato dalla Fondazione Giacomo Matteotti,con il sostegno della Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale, nella collana “Testimonianze ericerche” a cura di Alberto Aghemo e Rossella Pace. Il testo è peraltro la trascrizione di una“Conversazione” videoregistrata sul medesimo tema, riprodotta in versione audiovisiva in aperturanel DVD che accompagna il volume.

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civiltà circostanti ha pervaso l’umanitàda sempre. Spesso amiamo credere chetutto è nato grazie a Marco Polo, che ciha fatto scoprire la Cina, ma la Cina eragià nella vita degli abitanti dell’area diquesto Grande Mare perché, al di là dellecoste del Mediterraneo, le stradecommerciali di quel mondo da secoli siintersecavano con le Vie della Seta, conle merci, le culture, le suggestioni cheprovenivano dal lontano Oriente. Anchele religioni hanno in qualche modomutuato in quell’area una dimensionecomune, nata da ispirazioni che sonosicuramente coeve, e per molti versi nondifformi nella portata del messaggiospirituale, e si sono in qualche modocongiunte in un credo universale che,piaccia o non piaccia, permane al fondodella spiritualità mediterranea, un fondoconnotato da quella matrice comune,indipendentemente dalle separatezze dioggi. Pochi sanno, ad esempio, chel’Islam aveva come punto di riferimentoAbramo, già nella prima esposizione diMaometto alla Mecca; pochi sanno chemolti riferimenti che sono alle radici delcredo religioso cristiano sono il portatoanche di ispirazioni che provenivano dallontano Oriente. In questa stagione digrande crisi del mondo in cuil’Occidente declina, in cui l’Europa è inaffanno, divisa al suo interno, e simanifesta l’incapacità di progettare e diproporre un modello che possa inqualche modo riprendere la strada di ciòche fu; nel momento in cui l’Orientesempre più si protende verso Ovest, macon strategia espansiva guidata da unavisione preminentemente economica,credo che la possibilità di un nuovoincontro, di un nuovo modo di interagiretra regioni e culture sia indispensabile.Ma credo anche che questo incontro,

questa interazione debbano verificarsi inuna concezione inclusiva, di scambio edi confronto e non, come oggi sembraprevalentemente accadere, in un clima diseparatezza forzata, che accentua lediversità e rifiuta di accettare valori,principi, parametri che governano altrimondi e altre fedi. È questo spirito diinclusione e di apertura al confronto chemi anima da sempre, perché miconsidero preminentemente un uomodel Mediterraneo, che ha avuto ilprivilegio di nascere in quell’isola, laSicilia, che, lo voglio ricordare, FedericoII che ne fu il re, preferì alla sua identitàoriginaria, che era quella di re dellaGermania e imperatore del SacroRomano Impero. Ebbene, Federico IIprivilegiò l’essere re di Sicilia e diGerusalemme e volle con questa sceltain qualche modo suggellare l’osmosi trale grandi culture dell’epoca; e seppe inseguito dimostrarlo guidando l’unicacrociata che non comportò lospargimento di una goccia di sangue. Ecco, questa visione della centralitàgeopolitica del nostro Mediterraneo, e inesso del Mezzogiorno d’Italia, fa sì cheio pensi sempre che Palermo, la città chemi ha dato i natali, possa diventare laBruxelles del Mediterraneo: possa cioèdiventare il centro da cui questomessaggio di inclusione e di innova-zione, in nome di una tradizione nobilequanto antica, possa partire, irradiarsi edessere recepito da altri. Il Sindaco diPalermo ha ritenuto, e gliene sono grato,non potendomi nominare cittadinoonorario della città in cui sono nato,nominarmi ambasciatore di PalermoCulturE nel mondo, guardando in primoluogo soprattutto a quell’universomediterraneo cui faccio riferimento. Misto impegnando a far sì che questo

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compito, che intendo assolvere, possadare utili esiti in tempi coevi anche conla mia vita. A questo fine sto lavorandoper realizzare un grande luogo di studioe di incontro tra la civiltà del mondoarabo e quella italiana, e siciliana inparticolare, perché, piaccia o meno, gliarabi sono stati nel nostro Paese per 330anni e hanno lasciato, al di là delle cupolerosse che caratterizzano le chiese diPalermo – San Giovanni degli Eremitine è la testimonianza più evidente –tracce palesi e permanenti non solonell’architettura, ma nella concezionedella vita e in una consistentedisponibilità di un dialogo. Vorrei, dunque, che lo strumento dellacultura divenisse la leva attraverso laquale poter nuovamente parlare unlinguaggio che, pur nella separatezzadelle aree e dei confini, pur nelladiversità delle istituzioni dei differentiPaesi, trovi un luogo comune nellacondivisione di progetti in cui simanifesti la grandiosità dell’essereumano. Questa iniziativa, al di là dellemere enunciazioni di principio, hocercato di porla in essere costantementeda quando, una decina di anni fa, allorain veste di presidente della FondazioneRoma, che operava – come la logica delnome diceva – nel territorio romano enelle aree limitrofe, riuscii a realizzare,grazie anche agli amici degli organideliberanti che mi hanno sostenuto, laFondazione del Mediterraneo (giàFondazione Terzo Pilastro – Italia eMediterraneo, oggi Fondazione TerzoPilastro – Internazionale). QuestaFondazione ha realizzato negli anni,oltre a iniziative e progetti di grandespessore, delle strutture articolate nelterritorio di riferimento e delle presenzeorganizzative e operative stabili a

Napoli, a Reggio Calabria, a Palermo, aCatania, a Madrid, a Valencia, a Rabat:dando così avvio a un percorso che inrealtà traduceva in concreto la possibilitàdi dimostrare che queste terre del nostroMezzogiorno, protese nel Mediterraneo,così ricche di storie e di passato, avesserola potenzialità anche oggi di trasferirecon efficacia e con generale arricchi-mento un grande messaggio culturale.Lentamente, negli anni, la Fondazionedel Mediterraneo si è espansa territo-rialmente, toccando e coinvolgendoregioni e culture molto lontane; siamoarrivati con un bellissimo master inRussia, dove hanno voluto conferirmi ilpremio Puskin e farmi parte di quellaaccademia in cui le religioni, ortodossa ecattolica, interagiscono e dialogano;siamo arrivati in Cina, dove sonodivenuto cittadino onorario di una dellecittà nel centro della Cina più colpitedalle tragedie sismiche, che abbiamosostenuto nel momento di massimobisogno. E poi abbiamo continuato,focalizzando i nostri interventi nelbacino mediterraneo: siamo presenti inGiordania, dove abbiamo creato unrapporto scientifico-accademico conl’università di Petra; e poi in Algeria,dove, ad Annaba, abbiamo contribuitoalla restauro della chiesa di Sant’Ago-stino d’Ippona; e poi, ancora, in Siria,dove abbiamo lavorato alacremente perricostruire dai danni materiali alcunidegli ospedali del Paese, con il progetto“Ospedali aperti” a Damasco, e dove, inprospettiva, vorremmo ricreare l’habitatdi alcune città, Aleppo in particolare.Sempre in Siria abbiamo contribuito, aJaramana, alla creazione di un campo dicalcio per la comunità locale e per iprofughi iracheni là ospitati.Proseguendo lungo questa strada,

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siamo presenti in Tunisia, dove a Nabeulabbiamo contribuito a un imponenteprogetto di irrigazione delle aree agricolepre-desertiche e dove abbiamo parteci-pato in maniera fattiva al festival di ElJem, una prestigiosa manifestazione chesi svolge in una località caratterizzata daun meraviglioso Colosseo, non diversa-mente bello da quello che ammiriamo aRoma. E ancora il Marocco, dove siamoparticolarmente attivi e dove intendiamosviluppare un ambizioso progettoarcheologico che consenta la riappa-rizione delle vestigia romane. Siamoanche in Giordania e Israele la creazionead Aqaba-Eilat, nelle locali scuolesuperiori, di un corso in cui bambiniarabi e israeliani studiano assieme, cosìcome a Tirana, in Albania, con lapartecipazione al restauro dell’Istitutodei Monumenti di Cultura (IMK).Assume per me un significato partico-lare la presenza della Fondazione aMalta, dove il lato portoghese della miafamiglia è stato per tempi immemori edove abbiamo realizzato un importantecentro per la ricerca sul cancro che portail mio nome, grazie all’affettuositàmanifestata dalla Presidente dellaRepubblica maltese dell’epoca. Siamo,infine, anche in Spagna e in Grecia, connumerosi progetti culturali e interventisui territori.L’attenzione a queste diverse realtàlocali scaturisce dall’esigenza di fare delMediterraneo un ponte con l’Europa,contribuire a gestire il fenomenomigratorio e riaffermare il ruolofondamentale che il Mediterraneopotrebbe tornare a giocare in unmomento di crisi dell’Occidente e dicomplesso confronto con l’Oriente. Inquesto contesto, il Meridione rappre-senta la naturale cerniera tra mondi che

si affacciano sul nostro mare, al qualebisogna guardare con l’intento diriconoscersi come comunità capace ditrasmettere valori improntati alla pace eal reciproco riconoscimento. È, dunque,necessario che quanti si affacciano suquesto mare si aprano alla culturadell’altro, ma ciò significa anche esoprattutto considerare il Mediterraneoquale motore per un miracolo chepacifichi l’Africa, l’Oriente e l’Occi-dente, e che permetta di edificare unaciviltà con un’economia solidale, aperta esostenibile, accettando di mettersi ingioco senza ripudiare le differenze, maaccettandole in una volontà di reciprocacomprensione, assecondando quellacoscienza mediterranea multipla maunitaria, che la scuola francese de «LesAnnales» poneva alla base della storia delMare Nostrum.In questo spirito ci siamo fattipromotori, nel maggio del 2018, delventennale della Multaqa (in arabo:“incontro amichevole”) ad Agrigento,inaugurata nel 1998 in questa stessa città.Le tre giornate, che prendevano il nomedi “Mediterraneo di Civiltà e di Pace”, siincentravano sul concetto di pace edialogo tra le culture e le religioni delMediterraneo, riaffermando che nessuna“palestra”, più di quella del Mediter-raneo, può mantenere vivi il bisogno di“buona volontà” tra gli uomini e lasperanza di pace. Oggi la pace è ancoralontana, ma lo sforzo che l’umanità devefare è quello di perpetuare diritti e valoriche sono alla base del concetto di civiltà,pur nella consapevolezza della crescentecomplessità imposta al mondo dallaglobalizzazione, dall’interconnessionedei sistemi di comunicazione e dai nuoviscenari che investono la scienza nonmeno che i commerci, le più avanzate

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tecnologie insieme a nuovi compor-tamenti.Alla luce di tali mutamenti abbiamo,con le nostre iniziative nel Mediterraneo,fattivamente dimostrato che si puòconcretamente portare a compimentoun disegno nuovo e al contempo antico,in una visione inclusiva che rendepossibile, nei fatti, l’interazione tra questimondi. Farlo in nome della comunematrice mediterranea non è impresa cosìardua, come qualcuno sostiene, bensìutile, necessaria e salvifica anche per ilpiù vasto Occidente oggi in crisi e perl’Oriente rampante, perché attraverso ildialogo si può riaprire, a mio modo divedere, una via nuova, che è la via della

comprensione, la via della pace, la viadell’inclusione e del riconoscimentodell’altro. Una via che, soprattutto sepercorsa con la solidarietà, la cultura,l’arte, e l’amore porta con sé l’abbatti-mento delle barriere che separano nellasocietà di oggi le classi sociali e, inprospettiva, anche quelle etniche ereligiose.

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Elogiare il diritto. Quale diritto? Perchéelogiarlo? Viviamo in un tempo, forse, incui si abusa della parola diritto, quasi acercare le garanzie per qualcosa disfuggente o che non sentiamoabbastanza tutelato. Diritto comeconflitto tra forze. Gruppi separati diuomini reclamano. Diritti civili. Dirittipolitici. Diritti sociali. Diritti umani.Emergono come baluardo da sventolareda questa o quella pars politica, senzarealmente aver chiaro a cosa ci si appelli.Si reclamano diritti, ritenendo che basticontrapporli ai doveri per sentirsi in pacecon se stessi, e per aver ragione nelrivendicar qualcosa. Si lotta affinchél’insieme delle norme giuridiche presentiin un ordinamento vengano rispettate. Sieduca perché la scuola e gli enti diformazione contribuiscano ad impartirealle nuove generazioni i regolamenti chedeterminano una disciplina. Si associa ildiritto al potere, all’essere in grado difare o non fare qualcosa. Cosa sinasconde dietro al fare, se non lapolitica? Banale. Assolutamente no. Delresto, non dimentichiamo come siacompito della politica e del suo fareevitare che l’individuo si senta solo1. Lacittadinanza, infatti, secondo Aristotele,prende forma dalla ‹‹ partecipazione aitribunali o alle magistrature››; luoghidella legge e del diritto. Permane ancoraqualcosa di impensato e di incompiuto

in quel fare politico, che deve esseresviscerano e compreso. Del resto,‹‹l’attività del fare, sino all’età moderna, èstata contrassegnata in termini semprenegativi di ‹‹inquietudine››, nec-otium,ascholia. Cosicché, il senso del fare èrimasto ‹‹intimamente legato alla semprefondamentale distinzione greca tra coseche sono per sé e cose che devono laloro esistenza all’uomo, tra cose chesono physei e cose che sono nomōs››2.Indagare questa distinzione non èaffatto semplice. Una differenza quasisvilita nel nostro lessico. Recuperare ilsenso ed il significato dei termini physei enomōs è possibile solo ritornando aiprimordi della nostra civiltà occidentale.Ri-semantizzare tali espressioni èriqualificare l’umano, come colui che siain grado di ‹‹conferire il Nomos der Erde,ordine al conflitto, forma alla realtà››3. Inquesti termini possiamo intendere ilpercorso compiuto da Cacciari ed Irtinel saggio Elogio del diritto4 Un’operadensa, filosoficamente temeraria, con unintento educativo, considerandone propriol’accezione etimologica, il tirar fuori tuttala storia che sottende ai termini propridel lessico giuridico. Una storia che risalea quel ‹‹paio di Greci stravaganti››secondo l’accezione cara ad Husserl chehanno dato ‹‹l’avvio a una trasforma-zione dell’esistenza umana››5. Cacciari ed Irti, dialogano insieme a

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Elogio del diritto, un dialogocon Massimo Cacciari e Natalino Irti

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Werner Jaeger6, si passano il testimone,dal destino di dike a quello di nomos, dallafilosofia al diritto, attraversando lafilologia e il mito. Le radici della nostraciviltà sono tutte racchiuse nel valoresemantico di questi termini, nel lorosignificato ontologico, prima ancora cheetimologico. Jaeger, infatti, lo esprime a chiarelettere: la paternità della filosofia deldiritto spetta ai greci. E scrive: ‹‹i Grecihanno intensamente speculato sullanatura del diritto e della giustizia, assaiprima che avessero creato una filosofiadel diritto nel significato nostro deltermine››7. Già dai primordi della civiltà,in quella tradizione orale tramandata daipoemi omerici si manifesta la fiduciariposta nella giustizia come fondamentodi ogni più alta forma di vita umana8.Nell’Iliade e nell’Odissea rintracciamol’aspetto tecnico della giustizia, rispettoalle considerazioni generali intorno alla

sua dottrina. Omero, quindi, rappresentala giustizia come un principio generale;Dike e Eirene sono divinità cherimandano ad un ordine sacro legalitario.In Esiodo, Giove riveste l’incarnazionedivina della maestà della giustizia; laquale non è solo un’istituzione umana,ma è lo strumento con il quale Gioveconserva ed incarna la sua volontà. DaOmero ad Esiodo si passa da unaconcezione autoritaria ad una razionaledel diritto, ponendo in luce l’uguaglianzadi fronte alla legge ed il suo carattereobbligatorio. I tempi sono importanti,proprio perché sono momenti dicambiamenti e di evoluzioni sociali evaloriali. Una nuova areté pervade icodici etici, dalla virtù della forza si passaalla temperanza. Dikaiosyne è la qualitàmorale dell’uomo giusto, che obbediscealle leggi. Infatti: ‹‹la evoluzione socialeche mutò l’ordinamento feudale delprimitivo mondo greco durante il

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settimo e sesto secolo fu condotta sottol’insegna delle dike e del nomos o dell’isonomia›› .Jaeger percorre la storia del concettodella giustizia dei Greci da Omero aSolone al fine di sottolineare il legamedella giustizia e del diritto con la naturadella realtà10. I greci, infatti, conside-ravano il diritto e la giustizia il centrodella cultura umana e la chiave dellaposizione dell’uomo nel cosmo. Laprimitiva fase del pensiero giuridico,quale prodotto di un periodo storico, hadato vita alle più famose codificazionidel diritto nelle città greche. Con ifilosofi della scuola di Mileto –conosciuti come fisiocrati o naturalisti, ilpensiero giuridico compie la primaspeculazione filosofica. Talete, Anassi-mandro ed Anassimene si sonointeressati del mondo esterno, delcontinuo nascere e perire presente innatura, facendo coincidere la natura delpensiero giuridico greco con l’aspettoontologico della realtà. Eraclito porterà acompimento tali riflessioni, intendendoil principio dell’universo come una leggeo una giustizia cosmica, collegando lalegge umana e la vita della comunità conquesto ordine divino. Il retroterrastorico è costituito dal sorgere dellanuova polis, tra il settimo e sesto secolo,e che culmina nella democrazia ateniesedel quinto secolo. La legge della polis è ilnomos. La polis educa l’uomo. Ma chieduca la polis? Questo è il grandeproblema che si protrarrà dai sofisti finoa Platone, passando per la condanna amorte di Socrate. Quest’ultimo è, infatti,l’emblema dell’uomo giusto. La legge,adesso, non segue più la natura, ma le èimposta dall’uomo. Il diritto, per Gorgiae per Protagora, è specificamenteumano. Nel periodo di crisi della polis,

durante il quale Platone scrive, il diritto èpercepito come un’arbitraria restrizioneimposta alla natura umana, la qualesceglie ciò che aggrada piuttosto chequanto prescritto da ideali econvenzioni. Ormai vissuti soggettiva-mente ed arbitrariamente. Ecco perchéPlatone, prima nella Repubblica e poi nelleLeggi, senta fondante il compito dieducare filosoficamente il legislatore. PerPlatone, con la condanna del filosofo daparte della polis, si dovrà trovare unconnubio tra l’attività legislativa praticala filosofia teoretica. In altre parole: ‹‹latendenza prevalente del pensierogiuridico greco, dalla origine al culminedella filosofia del diritto, fu quella diriferire il diritto all’essere; in altri termini,di riferirlo all’unità obiettiva del mondocome kosmos, come ordine ideale ditutti i valori e fondamento della vita edella libertà umana. I sofisti afferma-rono recisamente il carattere e l’originesubbiettiva della legge, ed assunsero unatteggiamento pragmatistico nei con-fronti della sua validità. Ma i grandifilosofi del periodo seguente ritornaronoalla originaria relazione tra la legge el’essere, e tentarono di fondarla solida-mente sulla loro concezione della verarealtà››11.Contro l’esistenza di una scienza deldiritto, considerata come una disciplinatra altri rami del sapere, insieme a Jaeger,il filosofo ed il giurista riattualizzano iluoghi storici nei quali si è manifestatauna fede inconcussa nella giustizia, qualefondamento di ogni più alta forma divita umana. Le poleis del V secolo, leesperienze della democrazia direttaateniese sono state le forme nelle qualigiustizia e physis rappresentavano duefacce del medesimo kosmo. Nelpensiero greco la giustizia è dono

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supremo degli dei, strumento con ilquale gli uomini interpretano la loroposizione all’interno di un ordinecosmologico ben pensato e ben scritto.Nei poemi omerici un ruolo di primopiano è rivestito da Dike, figlia di Zeus, edella sua seconda sposa Themis, lagrande dea che governa12. Giunto alpotere Zeus si mostra come colui cherealizza Themis, distinguendosi dall’origine di quest’ultima, e Zeus rimarràsovrano fino a quando obbedirà aThemis13. Più tardi arriverà Nomos,quale consuetudine incarnata nel dirittocodificato, rimedio alle fatali discordienate nella polis. Da quel momento, saràpatrimonio culturale dell’occidente lariflessione su cosa sia la vera giustizia, esu come il Nomos, la norma di volta involta vincente risponda alla domanda diverità che Dike pone ai singoli e allesocietà. Dike e Nomos si inseguono, siavvicendano, si combattono in modoincessante. Questa è la storia dell’occidente. La filosofia del dirittosarebbe, quindi, arrivata molto dopo; lariduzione compiuta dal positivismogiuridico ha allontanato il concetto didiritto dai suoi riferimenti con lafilosofia. Questo ha generato unadecadenza dello stesso vivere umano. Lascienza giuridica ha prodotto “diritti difatto” e la filosofia ha perso la suafunzione originariamente universale, dicomprensione dell’umano nel suocomplesso. Il più grave errore compiutodal senso comune, nei riguardi dellafilosofia, è stato considerarla unaspeculazione su concetti fuori dal tempo.Di ciò, Cacciari ne è ben conscio,ritenendo che: ‹‹il linguaggio dellafilosofia è ineffettuale non quando nonattinge a una (impossibile) perfezione,ma quando si dimostra inservibile a fare

chiarezza sull’intrinseca aporeticità delnostro esserci, quando fallisce non nelguarirla ma nel descriverla adegua-tamente››14. Riconoscere e comprendere la crisi delmodello giuridico, affermatosi a partiredalla crisi della polis greca, significaristabilire la funzione universale dellafilosofia. Ed al riguardo Cacciari esplicitacome: ‹‹il mythos non è che ilpresupposto, la possibilità di concepirela dimensione Themis-Dike cometrascendente l’ambito determinato siaterritorialmente che eticamente deinomoi, e tuttavia, insieme, costitutivodella loro forma e del loro valore, èproblema che la ragione soltanto èchiamata a porre e risolvere››15. Cacciari ed Irti ritengono indispensa-bile ripercorrere quel sentiero intricato,vissuto dalla storia del diritto, fino amescolarsi con la storia della filosofiapolitica, e con la dottrina giuridica.Gli autori, quindi, ridisegnando icontorni che assumono Nomos e Dikenella nostra epoca, non possono piùimmaginarne la loro unità. Questo èl’alone tragico che contorna ladimensione odierna.Irti nota come la dissoluzione del

Nomos, preconizzata da Spengler16,abbia raggiunto il suo punto massimonel tempo della tecnica, durante il qualeanche le leggi positive si frammentano,come fossero cose, ed oggetti d’uso.Adesso l’artificialità è la caratteristica delmondo del diritto17. Lo Stato appare,così, un ente affaccendato a mantenereed a difendere la propria autoritànormativa. Tutto è ridotto a nomoi:potere, ordine, eccezione, emergenze. Lanorma ha valore solo per il suo esserobbedita. Quasi fossimo dentro unracconto kafkiano, innanzi allo sradica-

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mento ontologico del nomos, l’individuosi trova a dover obbedire a leggifacilmente manipolabili. Si passadall’universalità, ad un astratto univer-salismo. Osserva Irti come, nel mondomoderno, non ci sia una veritas che diaragione delle singole norme e ne offragiustificazione18. All’individuo, privatodel senso originario rivestito dallalegalità, dal diritto positivo, dallagiustizia, dal diritto naturale, si apre unorizzonte di politeismo giuridico cherischia di soffocarlo e schiacciarlo. Cosaresta? La lotta. La re-sistenza. La rivolta.Il dissenso. La voce. La parola. Il logos èrimasto il solo strumento attraverso ilquale ricostruire quella social catena,utile a riconoscerci in un ethos comune,nella nostra differenza.

NOTE

1 M. Cacciari, Duemilauno. Politica e futuro,Feltrinelli, Milano 2001, p. 50: ‹‹cos’è fare politicase non dire al tuo prossimo che non è solo?››.2 H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1988,p. 13.3 G. Cantarano, La comunità impolitica,Giappichelli, Torino 2018, p. 22.4 M. Cacciari, N. Irti, Elogio del diritto, La nave diTeseo, Milano 2019.5 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e lafenomenologia trascendentale. Introduzione alla filosofiafenomenologica, il Saggiatore, Milano 1983, p. 347.6 Il saggio di Werner Jaeger appare per la primavolta nel 1947, con il titolo Praise of law, tra gliStudi in onore di Roscoe Pound.7 M. Cacciari, N. Irti, Elogio del diritto, cit. p. 12.8 Ivi p. 13.9 Ivi p. 17.10 Ivi p. 20: ‹‹lo vediamo dapprima espresso intermini religiosi come il nesso tra la giustiziaumana e il divino governo del mondo e con lavolontà di Giove, la suprema saggezza.Gradatamente sorge un più razionale concettodella giustizia e della sua fondamentaleimportanza per la vita umana; ma la terminologiareligiosa è mantenuta persino da pensatorigiuristi come Solone, perché gli occorronoqueste categorie per mettere in rilievo la strettarelazione tra la giustizia e la natura della realtà››.11 Ivi p. 50.12 Ivi p. 70.13 Ivi p. 78.14 M. Cacciari, Labirinto filosofico, Adelphi,Milano, 2014, pp. 203-204.15 M. Cacciari, N. Irti, Elogio del diritto, cit. p. 83.16 O. Spengler, Il tramonto dell’occidente, Longanesi,Milano 2008. 17 M. Cacciari, N. Irti, Elogio del diritto, cit. p. 117.18 Ivi pp. 134-135.

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Merita di essere ricordata la storia dellaCasa del Popolo di Roma. Merita diessere ricordata proprio perchécolpevolmente dimenticata. E invece si ètrattato di una storia gloriosa, durante ilventennio intenso e decisivo che va dal1906, anno di fondazione in una zonaallora in espansione, vicino al Colosseo,al 1926 quando fu prima devastata e poirequisita dal fascismo.Bene ha fatto quindi Giuseppe Sircanaa ricostruire questa storia (Nel cuore rossodi Roma. Il Celio e la Casa del Popolo. Lottesociali, politica e cultura. 1906-1926, Roma,Ediesse, 2016, pp. 157), perché si trattadi una pagina importante non solo delmovimento operaio e sindacale romano,ma con una valenza nazionale proprioper le implicazioni di una istituzione cosìviva e presente giusto nel cuore dellacittà politica, ma anche della capitale delcattolicesimo. La metropoli capitale delnuovo stato unitario aveva anche uncuore rosso.Anni di svolta quelli che precedettero larealizzazione della Casa del Popolo, anniin cui il movimento operaio italianomuoveva i suoi primi passi e cercava didarsi forme di organizzazione cheavessero ramificazione non solo neiposti di lavoro, anche nel territorio, chefossero cioè punto di riferimento per lelotte politiche e sindacali, ma anchepunto d’incontro per il tempo libero, perla promozione morale e culturale delle

masse popolari. Sul finire dell’Ottocentoaveva cominciato a svilupparsi la rete disocietà di mutuo soccorso, lecooperative, le leghe di resistenza, leCamere del lavoro; le Case del popolofurono parte di questo tessuto dirappresentanza e resistenza politica esociale, con la funzione specifica digarantire un luogo fisico, una “casa”appunto dove ritrovarsi, discutere,svolgere pratiche, ma anche divertirsi,imparare a leggere e scrivere,riconoscersi insomma come soggettoportatore di diritti, di idee, di speranze.Un movimento operaio maturo e forteè il risultato dell’insieme di questeistituzioni e di queste funzioni.Se le prime notizie di Case del popolo alivello nazionale risalgono al 1893, nellaRoma d’inizio ‘900 mancava ancora unluogo così. Certamente il ritardoderivava anche dall’arretratezza delmovimento operaio romano a sua voltadipendente dal fatto che, come scriveSircana, “Roma non aveva avuto unprocesso di urbanizzazione accompa-gnato da un parallelo sviluppo indu-striale”. Qui però la catena di fatalirimandi si interrompe, perché quella dinon dare da subito adeguato stimolo allacrescita economica e industriale dellacapitale costituì una “deliberata sceltadelle classi dirigenti”, interessate arisparmiare per quanto possibile allacittà politica gli “‘impeti’ di grandi masse

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La Casa e la città

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operaie”. Questo tappo però con i primi del‘900, negli anni cioè dell’entente cordiale fraGiolitti e Turati, finalmente saltò e Romacominciò a dotarsi di un apparatoproduttivo più moderno ed esteso.La Casa del Popolo nacque in questoclima di sviluppo e di lotte. L’idea fu diEnrico Ferri, capo storico del socialismoitaliano, che la lanciò in occasione del 1maggio del 1905; a tempi di record, in unsolo anno, nell’ottobre 1906 Roma ebbela Casa del Popolo, collocata fra viaCapo d’Africa e via Marco Aurelio, alCelio. Una struttura ingente, di oltre1600 metri quadri, su due piani, con unafacciata monumentale, ancor oggi benleggibile e poi sale riunioni, cortili, unsalone per comizi capace di ospitareanche quattromila persone.L’inaugurazione avvenne trionfalmenteospitando il IX Congresso nazionale delPartito socialista. La Casa non fu peròsolo dei socialisti, ma anche di anarchici(particolarmente forti in quegli anni) erepubblicani; dal 1921 avrebbe ospitatoanche la sede romana del PCd’I. Un esempio di convivenza a sinistrache in un paese come l’Italia non potevadurare, come vedremo presto. Ma ora preme ricordare che la Casa delPopolo fu soprattutto la sede delleorganizzazioni del lavoro. Dellecategorie più forti a Roma, edili etipografi, ma ovviamente anche dellaCamera del Lavoro, fondata già nel 1892.Divenne un polo di attrazione per tuttoil movimento operaio romano e nonsolo, fu “teatro di importanti eventi:congressi, assemblee, comizi, conferenze,riunioni di organi dirigenti, comitati diagitazione, ma anche feste e tratte-nimenti ecc.”.Ma veniamo alle divisioni, senza lequali non c’è sinistra italiana.

Già nei primi anni ‘10 si consolidava lacapitale distinzione fra sindacalistirivoluzionari e riformisti, con la Cameradel Lavoro di Roma su posizioni disinistra e quindi in polemica con laCGdL nazionale; con la guerra poi lafaglia interventisti/pacifisti avrebberiguardato anche la Casa del Popolo, chesi spaccò fra la maggioranza socialista ela rumorosa minoranza interventista disinistra, comprensiva di anarchiciconvinti che con la guerra totale sipotesse arrivare prima alla rivoluzione.Nel settembre 1916 giunse addirittura lascissione della Camera del Lavoro, se neformarono due: una dei neutralisti legataalla CGdL, un’altra interventista. E fuuna spaccatura che durò ancora per annidopo il 1918. Un dopo-guerra per altro turbolentoanche a Roma, fra manifestazioni,scioperi, repressioni. Va comunquesegnalato che alle elezioni politiche del1919, le prime con legge proporzionale,il PSI divenne il primo partito nellacapitale, con oltre il 26% dei voti, unrisultato eclatante e senza precedenti;“L’Avanti!” poté titolare, con evidenteriferimento alla capitale del cattoli-cesimo: Una rocca espugnata.Ma già nel 1921 l’ombra nera delfascismo cominciò a scendere anche suRoma. Le violenze cominciavano adiffondersi. La reazione popolare fuperò all’inizio vigorosa. Le due Cameredel Lavoro invitarono infatti giovani elavoratori a mobilitarsi; alcune migliaia siorganizzarono in sezioni e battaglionidegli Arditi del Popolo in molti quartieripopolari, da San Lorenzo, a Testaccio, aTrastevere, ma anche ai Castelli e aCivitavecchia. Finché ci furono loro lastrada al fascismo fu sbarrata, lesquadracce ebbero sempre la lezione che

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meritavano e nell’unico linguaggio cheerano in grado di comprendere. Maanche qui le divisioni a sinistra sirivelarono presto tristi ed esiziali.Nonostante infatti gli Arditi scrivesseroalcune pagine gloriose della primaresistenza al fascismo, il movimentocominciò a svilupparsi “nell’incom-prensione e nell’ostilità dei partiti dellasinistra ‘accecati dal settarismo, dapregiudiziali dottrinarie, da piccolicalcoli politici, da diffidenza sospet-tosa’”, come scrisse Paolo Sprianoripreso da Sircana.Questi atteggiamenti stupidi e suicidiaprirono la strada al fascismo. Quandoqualche forma di resipiscenza tornò adaffacciarsi era ormai troppo tardi.Nell’agosto 1923 le due Camere dellavoro si ricomposero nella Camera delLavoro Unificata di Roma, con sedesempre nella Casa del Popolo. Ma ormaila marcia su Roma c’era stata.Fra 1925 e 1926 la Casa del Popolo futeatro degli ultimi flebili tentativi diresistenza al fascismo ormai al potere.Circondati da agenti, esercito e bandefasciste il 5 aprile 1925 GiovanniAmendola, accompagnato dal figlio

Giorgio, tenne con Filippo Turati allaCasa una estrema manifestazione adifesa delle libertà democratiche; persinoun esponente del partito Popolare presela parola, ma ormai la resistenzaantifascista andava spegnendosi.Comunque quella di quel giorno ful’ultima libera assemblea tenutasi allaCasa del Popolo.La Casa fu confiscata dal regime e poiceduta all’Opera nazionale dopolavoro.Del resto è meglio tacere: nel 1943 laCasa fu occupata dagli sfollati, dopo il1945 passò all’ENAL, i tentativi direstituirla ai legittimi proprietari, cioèsindacati e organizzazioni popolari,fallirono nei decenni a seguire. Solo nel2015 la giunta regionale del Lazio diZingaretti riaprì la sede collocandovi gliuffici di Lazio Innova, società per losviluppo del territorio e delle imprese.Ma forse è tempo che la sinistraromana e la Camera del Lavoro torninoa farsi avanti, a rivendicare se non lasede, almeno l’agibilità degli spazi, dausarsi per assemblee, iniziative, feste.Sarebbe il modo migliore per recuperareil senso di una storia, di una identità, diuna ragion d’essere.

La Casa e la città

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la Fondazione giacomo matteotti e la Fondazione di Studi storici Filippo turatiper i tipi di pisa university press presentano

13° ed ultimo volume delle opere di giacomo matteotti, realizzato sulla base di documenti inediti recentemente rinvenuti presso

l’Archivio storico della biblioteca della camera dei deputati

A cura e con un’introduzione di Stefano carettipremessa di maurizio Degl’innocenti,

con saggi di Angelo g. Sabatini e Alberto Aghemo ed una postfazione di paolo evangelisti

371 pagine, € 28,00 - gennaio 2020iSbN 978-88-3399-267-7

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La Nuova Serie di «Tempo Presente» compie quarant’anni: un traguardoambito per una rivista di cultura, ancor più se “indipendente”, autonoma

nella compagine redazionale non meno che nello spirito che la anima, lo stessoche guidò i suoi padri, Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, che fondarono ilperiodico, pubblicato dal 1956 al 1968, e poi Angelo G. Sabatini che nellascia della loro eredità ideale rilevò la testata e le diede nuova vita nel lontano

febbraio del 1980, da allora dirigendo la “Nuova Serie”.

Il logo che qui riproponiamo evidenzia questo evento, che intendiamo ricordarecon iniziative diverse: convegnistiche, editoriali, culturali e civili.

Superata l’emergenza sanitaria globale, offriremo agli amici di «TempoPresente» nuove proposte di riflessione e non inutili provocazioni, nuovi spuntidi dibattito civile, rinnovate occasioni di confronto ideale lungo la stretta via,sinora percorsa per un fin troppo breve tratto, che porta a una società apertaed equa, alla ricerca della felicità, alla buona politica, alla cultura della

libertà, alla libertà della cultura.