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2. Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte nel tempo della malafedeAPPUNTI Mercoledì 17 ottobre ore 16-18

Cominciamo da tre citazioni che ci danno la tonalità assiologica di questo incontro sui due “spiriti liberi” di oggi, Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, e su quello che Chiaromonte ha chiamato “il tempo della malafede”.

“Il bisogno di verità e di sincerità che mi ha allontanato dalla politica dei partiti, è l’impulso principale che mi sostiene nel lavoro letterario….La creazione artistica è stata per me una lotta nella quale il mio spirito…ha cercato di mettere ordine e ha creato un mondo a sé, un mondo semplice, chiaro, evidente, un mondo fittizio ma vero, in ogni caso più vero del mondo reale e apparente, di cui riproduce la verità nascosta e proibita”.(Silone 1937, Lettera a Reiner Biemel, trad. it. B. Vitelli, ora in Silone (1999), Vol. I, p. 1375.

“L’indifferenza alla verità è il più terribile dei flagelli che possano sconvolgere una società” (N. Chiaromonte (1936), Sul fascismo, “Giustizia e libertà”, SPC p. 98)

“Quel che colpisce l’Italia dopo il fascismo è quanto poco sia cambiata. Gli italiani…hanno mantenuto le apparenze prescritte da una delle fondamentali leggi non scritte del comportamento nazionale, una legge basata sulla generale indifferenza per ogni distinzione netta fra apparenza e realtà”(N. Chiaromonte (1948) Il gesuita, Partisan Revew, SPC 142)

A queste aggiungiamo quella che abbiamo già citato come la divisa della rivista “Tempo presente”, fondata e diretta fra il 1956 e il 1968 da Silone e Chiaromonte:

“La cultura, infatti, non è il terreno della verità, ma della disputa intorno alla verità”(N. Chiaromonte aprile 1956, numero d’apertura di “Tempo presente”, SPC 236-257, p. 256)

Avremo modo di commentare queste citazioni, che ci aiuteranno a mettere a fuoco il concetto di malafede – peculiarmente differente in Chiaromonte (e Silone) da quello di Sartre.

Anticipiamo soltanto un richiamo al filo comune di queste lezioni come appare nel titolo: La mente prigioniera. L’espressione è di Milosz (prossima volta): dicevamo che il suo grande libro descrive i meccanismi di asservimento intellettuale e morale della mente al pensiero totalitario. Chiaromonte dedica un saggio a questo concetto (come Milosz dedica a Chiaromonte una poesia e svariate pagine….): il concetto di malafede di C. traduce esattamente quello di “mente prigioniera” e si

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approssima a quello di “idéologie” di Jeanne Hersch. Possiamo dire approssimativamente che, considerato in estensione, il tempo della malafede

è il tempo delle ideologie della guerra fredda (NB dunque non solo le ideologie totalitarie, propriamente “idolatriche”, ma anche – se ricordate un tema discusso la volta scorsa – l’aspetto arbitraristico e relativistico della libertà senza vincoli ideali che sta nel mainstream delle teorie della democrazia)- Nel linguaggio di Silone: idolatria e nichilismo.

TESTO di Silone:

“Come il nichilismo, sebbene in senso opposto, anche l’idolatria è una fuga di fronte alle difficoltà dell’esistenza e alla mancanza di certezze irresistibili*. Che gli idoli protettori siano cercati di preferenza nell’ambito della politica, non c’è da stupire. Questa è stata a giusta ragione definita il destino dei tempi moderni”.

*NB Il senso non banale di questa frase. In Chiaromonte, la “malafede” non è negazione di ogni certezza, ma al contrario vivere di credenze infondate, sapendo che lo sono

I. Silone (1963), Nichilisti e idolatri. Dopo il neorealismo, “Tempo presente”, settembre-ottobre 1963, ora in: I. Silone (1999), Romanzi e saggi, a c. di B. Falcetto, Meridiani Mondadori, Milano, vol. II, p. 1200

ma che l’aspetto interessante del concetto in intensione è che illumina in profondità un tempo che va ben oltre quello (Bauman “liquidità” DM “erosione dell’idealità”, ottusione o apatia dell’esperienza di valore nella sfera pubblica).

Questo ci riconduce al tempo loro e al tempo nostro, per un inquadramento dei due autori.

Pagina di Milosz su Silone e Chiaromonte

1. Rimozione e rilancio di Ignazio Silone

Il mio incontro con Ignazio Silone è stato molto tardivo. Silone è entrato a far parte della mia vita come ultimo – non per grandezza ma in ordine cronologico – di un magro drappello di grandi scrittori che stanno, insieme ai filosofi, fra quelli che chiamo gli spiriti liberi. Dante, i Cherubini e i Serafini.

Gli spiriti ardenti (o piuttosto, lucidamente amanti)– perché ciò che hanno scoperto accende in noi la cognizione del valore, cioè di una dimensione del mondo che lo libera dalla presa di due delle massime tentazioni che hanno irretito gli uomini

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del Novecento, e uso già le due parole siloniane, che designano i due volti della “malafede”: l’idolatria e il nichilismo.

La cognizione del valore - di qualunque importanza, minima o massima – è di per sé, per usare un goffo e meraviglioso germanesimo, “felicitante”, per questo parlo di spiriti amanti, perché il loro è un dono che rallegra. Ma di scoperta e spesso faticosa cognizione si tratta, e non c’è cognizione del valore che non passi anche attraverso la cognizione del dolore (e del male) – perciò dico lucidamente amanti, non solo luminosi e illuminanti, ma anche spiriti netti come lame, taglienti.

Rientrano in questo drappello un Albert Camus, un Czeslaw Milosz, un Vassilij Grossman, e altri…. NB fra questi Jeanne Hersch in veste di scrittrice.

Questo dell’incontro tardivo solo in parte è un dettaglio personale insignificante, se almeno per Silone – come temo – il mio è un caso statisticamente comune nella mia generazione. Silone è nato con il secolo scorso, esattamente nel 1900, ed è morto nel 1978, quando la mia generazione era nei suoi vent’anni.

Nel 1968 era uscita a stampa e poi anche ridotto per le scene il suo grande testo teatrale, L’avventura di un povero cristiano, forse la sua ultima opera di vastissimo respiro, riassuntiva dei temi della sua vita e della sua ricerca morale, politica e spirituale1. Non credo che molti della mia generazione se ne siano accorti. Come mai?

C’è una ragione di questo, e Silone stesso ci aiuta a capirla. Ha a che vedere con la “malafede”.

Ignazio Silone è un uomo per la cui vita passa la storia intera del Novecento: Silone ne è stato uno dei protagonisti attivi e visibili sulla scena internazionale, fra la nascita del partito Comunista d’Italia nel ’19, alla quale contribuisce come dirigente della gioventù socialista, e l’uscita, nel 1930, dal Partito e dall’Internazionale comunista di cui era stato uno dei dirigenti, a fianco di Togliatti, in seguito all’incontro con la realtà brutale dello stalinismo, nel 1927, e in particolare con quella della menzogna politica; la sua rinascita come scrittore e la fama mondiale che lo avvolge fin dal primo romanzo, Fontamara, uscito nel 1933 (nella versione tedesca, pubblicata in Svizzera prima di quella italiana) quasi subito tradotto in una ventina d’altre lingue; quasi identico è il successo che tocca ad alcuni dei successivi romanzi: 1 I. Silone, L’avventura di un povero cristiano (1968), ora in Silone (1999), Vol. II., pp. 539-745. Fu messa in scena sulla piazza di San Miniato, in occasione della XIII Festa del Teatro, a cura dell’Istituto del Dramma Popolare, nell’adattamento di Valerio Zurlini, che ne curò anche la regia: in scena un venticinquenne Giancarlo Giannini nei panni del “vecchio” eremita divenuto Celestino V, e a fargli da antagonista, come Cardinal Caetani e futuro Bonifacio VIII, Gianni Santuccio. La produzione girò l’Italia, e fu recensita, in generale assai tiepidamente, dai critici di allora. Si veda per una bella rassegna L. D’Eramo (1972), L’opera di Ignazio Silone, Saggio critico e guida bibliografica, Mondadori, Milano

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1933 Fontamara1937 Pane e Vino1938, 1962 La scuola dei dittatori (Dialogo)1942, 1950 Il seme sotto la neve1950, Uscita di sicurezza in The God that Failed (Scritti di Arthur Koestler,

Ignazio Silone, Richard Wright, André Gide, Louis Fischer, Stephen Spender. Trad it. Per le Edizioni di Comunità (Olivetti!!!) Edizione con numerosi altri saggi nel 1962.

1952 Una manciata di more1955 la profonda revisione di 1955, Vino e Pane1956 Il segreto di Luca1962 La volpe e le camelie1968 L’avventura di un povero cristiano

Silone (1999), Romanzi e saggi, a c. di B. Falcetto, Meridiani Mondadori, Milano, vol. I – 1927-1944; vol. II – 1945-1978

Ma la storia del Novecento non si “riflette” semplicemente nella sua opera: in essa viene non solo rappresentata, ma pensata e sviscerata in tutte le grandi sfide (morali, politiche, spirituali ed esistenziali) che essa pone, sfide vissute dall’uomo e dal militante comunista prima che rappresentate dallo scrittore e analizzate dal saggista.

Silone infatti è uno dei pochi scrittori italiani che sono anche a tutti gli effetti pensatori, e uno di quelli ancora più rari la cui esperienza personale abbraccia, sul piano degli eventi esterni, le dimensioni mondiali della storia, e sull’asse della vita interiore e dell’esistenza personale, l’intera gamma delle esperienze di valori di cui una sensibilità umana è capace: dalla sfera vitale della fame e delle altre privazioni della miseria fino alla sfera delle ultime cose e del sacro, passando per le sfere della morale e della politica.

Per questo troveremo nell’opera l’essenziale di ciò che il Novecento ha portato alla nostra conoscenza del bene e del male.

E forse anche la ragione per cui Silone non trovò grazia – o non quella che avrebbe meritato – in patria. Non la trovò, nonostante il mutamento del mondo dopo la sua morte, con il crollo dell’impero sovietico e tutto quello che ne è seguito, abbia reso semmai più attuale la sua profonda riflessione sui totalitarismi.

Primo Zoom: Due storie sulla verità. Mosca 1927

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In Uscita di sicurezza – Silone ci racconta due storie sulla verità. La prima è un ricordo d’infanzia. Una rappresentazione di marionette che inscena il diavolo e un bambino. Il diavolo perseguita il bambino, che terrorizzato si nasconde sotto il letto. Allora il diavolo si rivolge alla platea dei piccoli spettatori: “Dove si è nascosto? L’avete visto?” – La platea nega a gran voce, unanime. Non c’è, è fuggito, è andato a Lisbona!

Più tardi il prete del catechismo rimprovera i bambini perché hanno detto una bugia. Non bisogna mentire!

“- ‘Neppure al diavolo?’ - Domandammo noi interdetti.

Bisogna sapere che qualche giorno prima, sotto gli occhi di tutti, era stata perpetrata una grande ingiustizia, consistente in un falso giuramento di fronte al pretore da parte di testimoni prezzolati, che avevano accusato di essere colpevole la vittima innocente dell’aggressione di un signorotto (anzi del cane di questi). Perciò un ragazzo domanda al prete:

“Anche di fronte al pretore?”

E per tutta risposta riceve questa:

“Io sono qui per insegnarvi la dottrina cristiana e non per fare pettegolezzi. Quello che succede fuori dalla chiesa non mi interessa” .

Questa è la classica forma del nichilismo conformista – la perfetta discrepanza fra la parola e l’azione, che svuota completamente di senso le asserzioni morali cf. le citazioni iniziali su apparenza e realtà.

L’altra scena introduce alla scena madre del ’27, quella in cui Silone e Togliatti, a Mosca, a una sessione del Comintern, si oppongono all’ingiunzione di votare un documento di condanna di Trotski senza averlo letto. Illustrazione dell’idolatria

E’ una scena omerica. Il delegato comunista inglese espone un dilemma: le Trade Unions impongono alle sezioni locali di non partecipare al movimento minoritario diretto dai comunisti. Che debbono fare i sindacalisti comunisti? Se accettano rischiano lo scioglimento della minoranza comunista, se rifiutano, rischiano l’espulsione dei comunisti dalle Trade Unions. Il delegato russo propone l’uovo di Colombo: i sindacalisti comunisti dicano di accettare e poi facciano il contrario. Allora il comunista inglese sbotta:

“Ma sarebbe una bugia!”

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“Una risata clamorosa accolse l’ingenua obiezione, una risata franca, cordiale, interminabile, di cui i tetri uffici dell’internazionale comunista non avevano certo mai udito l’eguale, una risata che si propagò rapidamente a tutta Mosca, perché la spassosa incredibile risposta dell’inglese fu subito telefonata a Stalin e agli uffici più importanti dello Stato, provocando, dovunque arrivava, come più tardi apprendemmo, nuove ondate di stupore e ilarità” .

La scena madre stessa la Pravda e l’irrisione del vero.

2. Il rilancio. Ritorni di fama in Italia

La fortuna letteraria di Silone a) nel dopoguerra italiano b) nell’era post-ideologica

a) Nel 1950 esce a Londra – e quasi contemporaneamente anche in edizione italiana – Il dio che ha fallito, una raccolta di saggi di Arthur Koestler, Ignazio Silone Richard Wright, André Gide, Louis Fischer, Stephen Spender.

Nel gennaio di quell’anno esce sull’Unità un articolo dal titolo Contributo alla psicologia di un rinnegato, “una specie di repertorio di ingiurie destinato a un largo e proverbiale uso ad opera dell' intellighentsja di estrema sinistra, ogni qualvolta si parlerà del romanziere di Fontamara…”. L’autore è Palmiro Togliatti, colui che tanti anni prima, nel ’27, aveva prima condiviso con Silone lo sconcerto e l’opposizione al metodo staliniano di far votare nei congressi dell’Internazionale la condanna degli avversari sulla base di documenti ignoti ai votanti (si trattava di Trotzki quella volta), e poi aveva inghiottito la pillola e sostenuto Stalin.

Nel maggio esce su “Rinascita” un lungo saggio di Togliatti dedicato a I sei che hanno fallito2.

Gli fanno eco molti intellettuali italiani. Fra di essi – e non è la sola ferita – un filosofo, Antonio Banfi, che scrive su “L’anticomunismo dei traditori”:

la tesi storicistica cara al suo marxismo, che oppone

2 R. Crossman (1950), Ed., The God That Failed, London: Hamilton. In italiano fu pubblicato nel ’50 dalle Edizioni di Comunità. P. Togliatti, Contributo alla psicologia di un rinnegato, “L’Unità”. 6 gennaio 1950. Roderigo di Castiglia (nom de plume di Togliatti), I sei che hanno fallito, “Rinascita” maggio 1950. Qui Togliatti accusa in particolare Silone di opportunismo ("Il suo caso", scrive, "è quello dello studente italiano sovversivo che cerca di farsi strada nei partiti operai") e di "doppio gioco".” (N. Ajello, E Togliatti si vestì da crociato, “La Repubblica”, 26/1/1992). Quello che più colpisce però non è la reazione del politico, ma quella del filosofo.

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“La grande realtà storica del comunismo, che in ciascuno che vi partecipi seriamente esalta tutte le forze dell’umanità”

alle

“velleità ideologiche” di “egoisti dottrinari”, i quali “isolati, falliti, esasperati e nostalgici non hanno altra via a ricostruire almeno un fantasma della propria personalità che avvilendo il proprio corruccio nel tradimento”.

Caratteristico esempio di “malafede” nel senso di Chiaromonte (un aspetto dell’”idolatria” - Banfi, poveretto, è certo psicologicamente in buona fede, non è “cinico”):

opporre la loro “debolezza” non alla forza, come sarebbe logico e veridico, ma, hegelianamente, all’”universale”:

“tradimento di deboli che non attira che deboli e non ha cruccio di universalità umana”.

(cit. da F. Ciafalone, Prefazione a Il dio che ha fallito, Bompiani 1980, p. 18).

Banfi esemplifica, in questo suo empito tacitiano, un cavallo di battaglia di Silone: la “tirannia delle parole”, questa volta non nella versione “melmosa” del linguaggio giornalistico, ma in quella “alta” della tradizione retorica di cui si nutre l’intellettuale novecentesco italiano.

Ma come può Banfi aver letto il resoconto delle sedute del Komintern contenuto nel testo siloniano, e rispondere così? Non è questo il vero – angoscioso – thriller?

b) L’era post-ideologica

Silone non avrà in patria una fortuna paragonabile a quella che ebbe, e continuò fino all’ultimo ad avere, nel resto del mondo, e anche questo non fu per nulla un caso, ma qualcosa di essenziale alla storia della cultura italiana del Novecento, di essenziale dunque alla comprensione di noi stessi, della nostra formazione: ad esempio la natura dei rapporti fra politica e letteratura (o filosofia) nell’Italia del secondo Novecento.

Non la trovò al punto che la fine del suo secolo ha sì portato un revival, italiano e mondiale, dell’interesse per Silone: ma non per lo scrittore e il pensatore. No: ma per il militante comunista, e nella forma più consona, invece, al secolo che è il nostro. Un revival spettacolare, da video pieno di effetti speciali, ma simile a un

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remake di un vecchio film di spie. Silone era una spia, appunto. Un informatore dell’Ovra, la polizia segreta fascista3.

D. Biocca e M. Canali (2000), L’informatore: Silone, i comunisti e la polizia, Luni, Milano-Trento.

A. Sofri, Il caso Silone nell’Italia dei delatori, “La Repubblica”, 14 /04/2000E. Bettizza, Silone una spia per pettegoli, “La Stampa”, 15/04/2000S. Yukari, Silone, “falsità”, “doppiezza”: una voce in difesa, “Il Ponte”,

settembre 2001, 112-136E. Leake (2003), The Reinvention of Ignazio Silone, University of Toronto

Press, Toronto.

L’uomo che aveva tenuto testa a Stalin contraddicendolo, l’esule confinato in Svizzera per sfuggire alle galere fasciste, e soprattutto lo scrittore che aveva fatto del “bisogno di sincerità e verità”4 la propria vocazione, derubricato a delatore.

3 D. Biocca e M. Canali (2000), L’informatore: Silone, i comunisti e la polizia, Luni, Milano-Trento. L’esistenza di rapporti fra Silone e il modesto funzionario Bellone, che però Silone e il fratello avevano conosciuto ben prima che diventasse un funzionari dello Stato fascista, quando dopo il terremoto del 1915 era stato nominato loro tutore, e aveva quindi con i ragazzi un rapporto di tipo quasi-paterno. E’ da allora che data la corrispondenza fra i due, come una delle lettere ritrovate attesta, facendola risalire comunque a ben prima del ’28, l’anno di arresto del fratello di Silone, al secolo Secondino Tranquuilli, e cioè Romolo Tranquilli, che morì in carcere tre anni dopo, e che aveva finora giustificato agli occhi degli stuidiosi la ripresa dei rapporti epistolari e delle note informative in quegli anni. Dopo l’uscita del libro c’è stato un ampio dibattito fra colpevolisti e innocentisti. Fra i primi, Canfora che alza realpoliticamnete le spalle, Fofi secondo cui la colpa lo rende ancora più umano, e Sofri con un articolo dei più contorti e torbidi – a mio parre – che letteratura giornalistica ricordi (A. Sofri, Il caso Silone nell’Italia dei delatori, “La Repubblica”, 14 /04/2000. Fra gli innocentisti, oltre ai veri contributi saggistici dei veri studiosi (si veda ad esempio l’opera di *** Yukari, oltre a B. Falcetto che abbiamo molto citato, e altri ) – l’articolo di quotidiano più vivido e convincente è quello di E. Bettizza, Silone una spia per pettegoli, “La Stampa”, 15/04/2000, che porta fra gli argomenti a discolpa: la nullità informativa delle “delazioni” documentate; la ridicola ignoranza che esse tradiscono dei nomi, delle cariche, delle relazioni fra i capi dell’Internazionale comunista, indegna di uno dei massimi fra loro; la circostanza che queste delazioni, a differenza di quelle di altri noti, non portarono a nessuna cattura; infine la circostanza che Togliatti, il quale si fece, nei mesi in cui fu al Ministero della Giustizia, organizzare contatti e interrogatori ai massimi ex-dirigenti dell’Ovra, non venne a capo di nulla – perché certo se avesse potuto lanciare a Silone un’accusa tanto pesante, come abbiamo visto, non avrebbe mancato di farlo. 4 “Il bisogno di verità e di sincerità che mi ha allontanato dalla politica dei partiti, è l’impulso principale che mi sostiene nel lavoro letterario. Non solo non ho voluto ritrattare niente del mio precedente non-conformismo politico, ma credo di averlo approfondito molto, di avergli dato un contenuto che lo rende inconciliabile e irriducibile a tutti i compromessi. La creazione artistica è stata per me una lotta nella quale il mio spirito, liberato dalle angosce precedenti, allontanato, affrancato, appartato da un mondo confuso ed equivoco, ha cercato di mettere ordine e ha creato un mondo a sé, un mondo semplice, chiaro, evidente, un mondo fittizio ma vero, in ogni caso più vero del mondo reale e apparente, di cui riproduce la verità nascosta e proibita.

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L’uomo che aveva squarciato tutti i veli sul “doppiofondo” del “tempo della malafede” si rivelava un uomo in malafede, anzi qualcosa di meglio, per il gusto del nostro secolo: un uomo senza identità, un uomo letteralmente senza volto cioè con il volto mimetico della Medusa dantesca, che insegna l’indifferenza delle identità morali e l’indiscernibilità del bene dal male;

un inventore di se stesso, cioè un uomo dotato semplicemente di un’identità narrativa – un paradigma di ciò che siamo tutti, secondo questo diffuso (ma piuttosto nauseabondo) modo di pensare. In ogni caso, al secolo, una spia anticomunista al servizio dei fascisti.

Non è un thriller psico-storico appassionante?

Se ci resta il tempo lo risolveremo alla fine. Ma con la vita di Silone, la sua fortuna, la sua riscoperta in questa luce post-ideologica abbiamo dato qualche esempio dell’esperienza di disvalore che tutta l’opera di Silone illumina, e che Chiaromonte chiama “malafede”. Perciò proviamo ora con l’aiuto di Chiaromonte a delimitarne il concetto

3. Nicola Chiaromonte, un Socrate da ritrovare. Vita e opere

Il respiro di una vita (1905-1972) Slide Biblio:

Libri pubblicati in vita:

(1960, 1971) La situazione drammatica, Bompiani (Saggi teatrali)

(1971) Credere e non credere, Bompiani (versione italiana di The Paradox of History, 1970, London; 1985, Philadelphia: Pennsylvania University Press, Foreword by J. Franck, Postface by M. Mc Carthy)5

Contiene i grandi saggi su Sthendal, Tolstoi, Martin du Garde, Malraux, Pasternak e poi il saggio An Age of Bad Faith, Il tempo della malafede

Grandi curatele:

Il mondo apparente è così falso (intendo dire il mondo ufficiale il mondo dei fotografi, delle agenzie di informazione, dei giornali illustrati) che uno dei doveri essenziali dell’arte è di ricreare il mondo, di mostrare il meccanismo interiore ed essenziale del mondo e di mostrarlo vivente” . I. Silone (1937), Lettera a Reiner Biemel, trad. it. B. Vitelli, ora in Silone (1999), Vol. I, p. 1375.5

Rispetto all’edizione inglese, The Paradox of History (1970, London: Weidenfelds and Nicholson; 1985, Philadelphia: Pennsylvania University Press, Foreword by J. Franck, Postface by M. Mc Carthy, Credere e non credere contiene due saggi in più: Crisi vera e falsa religione e Credere e non credere

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(1966) Critica della violenza / di Andrea Caffi ; con prefazione di Nicola Chiaromonte, Milano : Bompiani, ©1966

(1968) Opere di Albert Camus / introduzione di Nicola Chiaromonte, Milano : V. Bompiani, stampa 1968

Raccolte postume

(1976) Scritti politici e civili ; a cura di Miriam Chiaromonte ; introduzione di Leo Valiani ; con una testimonianza di Ignazio Silone, Milano : Bompiani, 1976

(1976) Scritti sul teatro; introduzione di Mary McCarthy ; a cura di Miriam Chiaromonte, Torino : Einaudi, 1976

(1978) Silenzio e parole, Milano : Rizzoli (Silone il rustico (1952), pp. 207-211)

(1992) Il tarlo della coscienza; a cura di Miriam Chiaromonte, Bologna : Il mulino

(1995) Che cosa rimane : taccuini 1955-1971; a cura di Miriam Chiaromonte, Bologna: Il mulino

(2012) Cosa sperare? : il carteggio tra Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte: un dialogo sulla rivoluzione, 1932-1955 / a cura di Marco Bresciani ; prefazione di Michele Battini, Napoli ; Roma : Edizioni scientifiche italiane, 2012

(2013) Il tempo della malafede e altri scritti; a cura di Vittorio Giacopini, [Roma] : Edizioni dell'Asino, 2013

(2013) Fra me e te la verità – Lettere a Muska, a c. di Wojciech Karpinski e C. Panizza, Forlì: Una Città.

Biografie:

Gino Bianco (1999) Nicola Chiaromonte e il tempo della malafede, Manduria [etc.] : P. Lacaita

Cesare Panizza (2017) Nicola Chiaromonte – Una biografia, Roma: Donzell

Vita1932 inizia a collaborare dall’Italia ai Quaderni di “Giustizia e libertà” (Parigi)

1934 ripara a Parigi. Giustizia e libertà. La fronda con Mario Levi, Renzo Giua e Alessandro Caffi: quando un movimento diventa partito. L’incontro con Silone in Svizzera.

1936 Guerra civile spagnola. Malraux, L’Espoir, il personaggio di Scali. Il coraggio mai ostentato e la meditazione su etica e politica l’assolutizzazione etica dell’azione politica, modo dell’idolatria. Cf. André Malraux o il demone dell’azione.

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Lascia la Spagna per contrasto con la direzione che i comunisti avevano preso delle forze repubblicane

1940-41, Marsiglia, poi Nordafrica (morte della prima moglie Annie Pohl, passi di N. Ginzburg; incontro e amicizia con Albert Camus), raggiunge New York.

A Casablanca incontra anche Leo Valiani, che lo ricorda nell’Intro a SPC: grande lettore di Platone e Husserl

Valiani ricorda così la loro differenza:

“La mia formazione era, se così si può dire, più convenzionale: io avevo abbracciato, giovanissimo ancora, la linea Hegel -Marx-Croce-Gramsci e l’avevo appena integrata con la riflessione sulle critiche di Carlo Rosselli” (6).

Anche Valiani sottolinea i due aspetti principali di questa libertà dallo storicismo hegeliano e dall’assolutizzazione “etica” dell’azione politica : lo stesso tema dei Justes di Camus. “La bontà di un’idea, di una causa, non poteva giustificare l’impiego di mezzi iniqui… La regola che considerava valida in ogni caso era quella d’esprimere la verità tutt’intera, senza rivestimenti e senza tatticismi”

1941 Portando con sé il testo de L’Iliade ou le poème de la force di S. Weil raggiunge New York

L’Iliade di Simone Weil ((Il Mondo, 30 maggio 1953, in Silenzio e parole, 213-217, 1953, Recensione a La source grecque nelle opere di Gallimard curate da Camus ricorda l’incontro con questo testo appena pubblicato sui Cahiers du Sud:

“ ‘Nous ne sommes géomèrres que devant la matière’ – l’idea cioè che la ragione di noi moderni, esatta e penetrante com’è di fronte al mondo fisico…sembra disarmata di fronte al mono umano, incapace di misurare, comprendere, ‘contemplare’ la forza quando la forza si manifesta nell’uomo e fra gli uomini” (216).

Che è l’altra faccia – quella weiliana – della ricerca di una fondazione razionale del pensiero pratico, rispetto alla faccia Husserliana:

Vera e falsa religione, in Credere e non credere: La battaglia di Husserl per la rifondazione razionale del pensiero pratico

1941-1949 Collabora con Partisan Review, politics, New Republic, Italia Libera con Gaetano Salvemini.

Mary McCarthy, che era fra l’altro critico teatrale della “Parrisan Revew” parla dell’incontro con N.C. come “probabilmente l’evento cruciale della mia vita” (Panizza, 191).

M.McCarthy (1949): l’Oasi, in “Horizon”, satira feroce degli intellettuali newyorkesi l’anarchico italiano Monteverdi, fondatore di una comunità di

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platonici che si ritirano fra le montagne del New England per vivere secondo i suoi insegnamenti, mentre il mondo sta sull’orlo di una guerra atomica. La problematica di Malraux, in ottica americana: vita, morale e politica….

Contributo essenziale “nell’orientare la ricerca avviata da Dwight MacDonald di un nuovo canone di pensiero, alternativo a quello della tradizione marxista” (Panizza 194).

Cf. On the Kind of Socialism Called “Scientific”, “politics”, gennaio 1946, pp. 27-9: il marxismo colpevole di aver elevato la storia a idolo e l’azione politica ad assoluto etico(Panizza 195).

L’ironia della storia, l’utopismo feroce del bolscevismo che si rovescia “nell’indeterminato prolungamento di uno stato d’eccezione e di emergenza che in nome della liberazione futura giustificava le azioni più efferate.

All’origine di tutto ciò l’errore di Marx di non voler riconoscere che l’adesione al socialismo era anzitutto un fatto morale, qualcosa che deriva da quella nozione di giustizia di cui ogni uomo ha esperienza per il fatto stesso della vita associata, per poi ricorrervi surrettiziamente…. Senza mai dare una definizione di società giusta. Finendo così per fare del socialismo – in fondo una verità di ragione – un atto di fede, che a Chiaromonte ricordava un po’ la scommessa pascaliana” (Panizza p. 195).

NB. C,. guadagna a “politics” la collaborazione a distanza di Albert Camus, Ignazio Silone e Andrea Caffi, introduce Simone Weil… ““politics” venne così configurandosi come un interessantissimo laboratorio di cosmopolitismo, in grado di mantenere aperto un dialogo fra le due sponde dell’Atlantico….su quanto stesse accadendo in Europa, sulla natura del secondo conflitto mondiale e sulle sue conseguenze per il futuro del socialismo” (Panizza, 191)

1948-1952 lavora all’Unesco a Parigi

Rientra a Roma dove collabora al Mondo di M. Pannunzio, come critico teatrale

1956-1968 Fondazione e co-direzione (con Silone) di Tempo presente.

Leo Valiani , Introduzione (1976): la nobiltà della loro battaglia, mai appiattita su un polo della guerra fredda

1968-1972 Critico teatrale de L’Espresso

4. Il teorico e critico della malafede

Premessa: Il Silone di Chiaromonte

Silone il rustico (“Il Mondo, 23 agosto 1953, Silenzio e parole 207-211).

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Sfata lo stereotipo di Silone regionalista:

“..Sarebbe un equivoco veramente risibile. Non è per descrivere l’Abruzzo natio che egli si mise a scrivere, ma per render conto a se stesso e agli altri che cosa rimanesse della fede socialista una volta annientata dai fatti la speranza di realizzarla secondo la ragion di Stato. Né Silone fu mai, a essere esatti, scrittore antifascista, ma, fin dal principio e sino ad oggi, scrittore socialista, o, per meglio dire, del socialismo. Egli non era profugo solo dall’Italia di Mussolini, ma soprattutto da Partito Comunista e dalla Russia di Stalin: dall’Internazionale, nel senso pieno della parola. Questo ne fece, fin dal principio, uno scrittore eminentemente cosmopolita o, più precisamente, europeo. E di tutti i profughi dal comunismo, Silone è il solo che sia rimasto fermo alla questione iniziale, che era la trasformazione del mondo secondo giustizia, e, più concretamente, il riscatto dei miseri. Altrettanto non si potrebbe dire né di Arthur Koestler, per il quale la questione del comunismo era stata unicamente ideologica: dibattito dell’intellettuale moderno con se stesso, e così la trattò; né di George Orwell, che finì nella misantropia swiftiana della Fattoria degli animali e nella nausea globale di 1984” (208).

La “malafede” secondo Silone

“La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure di incredulità. E’ un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza…in mancanza di altre genuine. (….)Credenza genuina…è quella fondata su una qualche evidenza naturale e diretta, su un fatto primo d’esperienza esteriore o interiore, su un accordo spontaneo con ciò che gli altri attorno a noi manifestano in atti e in parole di credere…(….) …ciò che si deve credere è già stabilito di forza: è ciò cui conviene adattarsi per motivi di utilità; e, avendo accettato l’utilità come criterio, si è anche accettato che la vita consista nella ricerca dell’utile….e che la questione del vero e del falso non abbia altra importanza che “teorica”, vale a dire, nulla.E’ quindi, la nostra, l’epoca delle “menzogne utili”, finzioni del cui carattere di finzione è perfettamente consapevole sia chi le fabbrica sia chi le accetta…La moneta cattiva scaccia la buona. Le “menzogne utili” corrodono le “verità inutili”….(….) In questo consiste la malafede contemporanea e, al tempo stresso, il significato di ciò che si chiama nihilismo: nel tenersi alla forma di quella che fu una credenza autentica senza più assumerne la sostanza, ma solo perché non ce n’è un’altra cui ci si possa affidare” (N. Chiaromonte, Il tempo della malafede (1970), in (1993) Credere e non credere, Il Mulino pp. 185-195).

Si vede che questa caratterizzazione non è solo diversa, è addirittura opposta a quella di Sartre.

Russo differenza fra i Cahiers de la drôle de guerre e L’Etre et le Néant. Ben nota la seconda: razionalizzazione, “mera strutturazione giustificativa a

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posteriori della decisione” – per definizione sempre assoluta o infondata l’angoscia della responsabilità dell’essere “condannati a essere liberi”

Ma in C. all’opposto la malafede è adesione, o fanatica o cinica, ma anche soltanto abituale, impersonale, automatica, di una credenza (di valore) non fondata in esperienza, non vissuta o viva

Due diverse figure dell’inautenticità in regime di assenza o in regime di datità del vero e conoscibile assiologico (SENZA o CON “dono dei vincoli”)

Credenza “morta” o “vuota” vedi testo ulteriore illuminante. Ciò che è RIMOSSO non è, come in Sartre, l’arbitrio (libero) della propria decisione, ma al contrario la (ricerca di ) evidenza e ragioni, giustificazione.

Malafede: in Sartre un peccato contro il volere e l’io: omessa assunzione. In C. un peccato contro la conoscenza: omessa attenzione, esperienza, ricerca.

La malafede come terreno della vita quotidiana:

“La domanda se ciò che si fa sia bene o male, quale senso abbia, è presente e inquietante proprio perché è rinviata, o meglio, repressa. Il carattere opaco e dubbioso della situazione è rivelato proprio dal fatto che non sembra esservi ragione alcuna di opporvisi. Ma neppure di accettarla. Ci sono, invece, molte ragioni di subirla. Ma sono ragioni di convenienza, più che di coscienza. La coscienza (nel senso di adesione consapevole a ciò che si fa) è sospesa. E’ in tale esperienza di sospensione, di opacità, di dubbio, che consiste la grave prova cui la situazione moderna sottopone i “valori”; non solo le credenze tradizionali, ma l’idea stessa che sia necessario credere a qualcosa, e che la differenza fra credere a quello che si fa e si è, e non credervi, sia una differenza reale. (…)Un’esistenza letteralmente “incredibile”. E un’esistenza incredibile significa un’esistenza che si protrae in stato di continua malafede”. (N. Chiaromonte, La situazione di massa e i valori nobili (SPC, 236-257)

Questa caratterizzazione spiega anche la nozione di “cultura” come terreno della disputa intorno alla verità”

Chiaromonte spiega: la ragion d’essere di ciò che chiamiamo “cultura” è precisamente “la verità vissuta e partecipata”. Ora, di quanta vera “cultura”, cioè “verità vissuta e partecipata”, o per lo meno cercata, nelle “dispute” intorno alla verità cioè nella discussione e nel dubbio abbiamo vissuto tutti noi, negli anni che sono stati i nostri?

C’è, infine, un altro saggio che i curatori hanno raccolto sotto il titolo Il tempo della malafede, e che si compone di scritti dei primi anni ’50:

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Il tempo della malafede in SPC 180-207:

1. L’ortodossia dei miscredenti 2. I martiri della “linea”3. Il comunista dilettante4. Jean Paul Sartre, il comunista impossibile5. Arte e comunismo (in parte su Malraux)

Il primo saggio va al dunque del concetto c. di malafede. A parte subjecti: non si tratta di un dogmatismo – come quelli basati su una

fede – perché si tratta di un’ortodossia di miscredenti. A parte objecti: non c’è immobilità intellettuale, ma solo sua proclamazione

(orto-dossia), che assicura “l’infinito diritto di agire secondo la più mutevole convenienza” (184).

I saggi 2 e 3 approfondiscono questi punti facendo vedere come risponda a questa caratterizzazione – l’ortodossia dei miscredenti – anche la posizione dell’intellettuale simpatizzante (3. Il comunista dilettante) e del più brillante di essi: Sartre, il non-ortodosso per eccellenza.

Benché solo accennata, c’è in filigrana una fenomenologia della fede, contrapposta a quella della setta, e anche un rigetto della comune equiparazione tout court fra Chiesa e chiesa comunista. Fino a che è “viva” o vissuta la fede, la chiesa coesiste con la ricerca di verità (l’eremita, lo spirituale etc la dimensione approfondita alla fine in Fra me e te la verità

Fenomenologia del “comunista dilettante”

“C’è il comunista militante, persona seria benché intollerabile”. C’è poi il comunista dilettante” (191). Pagina da riportare assieme a quella di Jeanne Hersch: l’ambiguità, basata sul presupposto che si possa aderire a un sistema, ma non del tutto, che si possa essere “come la ragazza della storiella, che era solo un pochino incinta” (192).

“Essendo, com’è [il marxismo dei comunisti dilettanti] una forma particolarmente feroce d’astrazione e offrendo al tempo stesso, come offre, una maniera astratta di uscire una volta per tutte dall’astrazione appunto, l’ortodossia comunista non può trovare migliore ambiente che la testa di un intellettuale moderno” (192).

Dove il punto è uno di quelli portanti del pensiero assiologico: aderire a un “ideale” senza aver approfondito l’esperienza e il pensiero del suo contenuto materiale: che cos’è giustizia? Che cos’è una società giusta? – e quindi essere pronto a “stare dalla parte” del “socialismo reale”:

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“Egli è, inoma, un comunista indipendente e, in certo qual modo, spassionato: l’ideale comunista gli sembra il solo plausibile, ma, nell’ambito di questo ideale, egli intende rimanere libero. I suoi punti di contatto con il comunismo ufficiale sono due: 1) egli considera ovvio che lo Stato sovietico è uno stato socialista, quindi fondamentalmente giusto. Però, “giusto”, per lui, non significa “d’accordo con la giustizia”: il sistema sovietico, malgrado i suoi meriti, gli sembra, anzi, intollerabile, ma anche fatale: 2) per lui è ovvio che il partito comunista…è il partito della giustizia sociale e della pace, non tuttavia senza gravi pecche, errori e pericoli. Egli è quindi d’accordo in linea di principio con queste due istituzioni, ma non senza riserve. La mentalità totalitaria, d’altra parte, gli è non solo estranea, ma anche ripugnante. Ciò lo mette in una posizione delicata, ed egli di ciò si rende conto. Ma, d’altra parte, egli sa che la Storia non è affare di anime candide” (192)

Questo diventa esercizio dialettico esplicito nello scritto di Sartre Les communistes et la Paix (1952), e diventa articolo dialettico esplicito nel suo allievo Jeanson.

“A procedere in tal modo, Sartre è incoraggiato dal fondamento primo della sua filosofia: la teoria che l’uomo nel mondo è in una situazione di “malafede” inevitabile, in quanto non può esistere senza negare l’infinita molteplicità del reale, ma, al tempo stesso, non può essere senza aver coscienza della sua negazione. Da qui deriva il singolare postulato dell’etica sartriana: che “la morale è impossibile” e quindi la morale più autentica è la morale dell’ambiguità” (198)

5. Leggere Silone. Poesia e verità

La sola idea comune a Sartre e a Chiaromonte sulla malafede, dunque, è che questa sia una figura dell’inautenticità. Ma dunque anche i concetti di autenticità sono profondamente diversi nei due autori.

Silone e la ricerca di sé attraverso la narrativa. L’autenticità non è oggetto di una teoria, ma della ricerca di sé – della propria integrità (che è più di veridicità e più di sincerità) che Silone compie attraverso la narrativa. Qui il vero discorso su Silone dovrebbe cominciare.

La tesi di Leake. Invece dobbiamo chiuderlo, e lo chiudiamo esaminando il testo su cui E. Leake basa la sua tesi su Silone la spia. Secondo L. Silone si è “confessato” in Pane e vino attraverso la figura di Murica, il giovane che prima si unisce alla cospirazione antifascista e poi diventa informatore segreto della polizia.

La figura di Pietro Spina. Questo percorso di conoscenza Silone lo porta a compimento attraverso le avventure di Pietro Spina. Pane e vino racconta la crisi di identità personale e morale di un giovane i cui occhi vedono la realtà

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insieme atroce e meschina di un “dio che ha fallito” (il tema della verità) prima che la mente si sia liberata dalla sua prigione. E nel Il seme sotto la neve questa avventura si conclude – peraltro in modo “cristico”. L’integrità di Pietro – l’anima – si salva a prezzo della vita, per scelta.

Silone prima di Weil: un cristiano senza chiesa. Sappiamo che Simone Weil lesse e amò Pane e vino. La dimensione tragica dell’esperienza morale, che è ancora la radice della vitalità del cristianesimo rispetto al pensiero etico puramente filosofico.

“Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male”.

Vediamo il seguito di questa frase:

“Il Cristo non è venuto a cancellare il male, ma a operare una discriminazione del bene e del male. Tale è di conseguenza il dovere di coloro che lo seguono”6.

C’è un passo dell’edizione prima, “salvato” poi nel testo teatrale Ed egli si nascose che certamente l’avrà profondamente colpita.

Riprende il dialogo fra Spina e Luigi Murica, il clandestino antifascista che diventa informatore della polizia fascista, e alla fine si riscatta rifiutando la salvezza da parte dei fascisti, e accettando di morire per mano loro.

Dice dunque Murica a Spina: SLIDE

“Tu, Pietro, forse non hai mai conosciuto la vera tristezza del male, né la disperata prigionia dell’irreparabilità del male….Senza questa crisi mortale da me trascorsa, io non sarei mai diventato un uomo: tuttavia…. Questo approfondimento della coscienza, questo tardivo sentimento morale, per me ha un sapore amaro disgustoso umiliante. Ah, io non credo che l’orrore per questa dipendenza tragica del bene e del male potrà mai abbandonarmi nel resto dei miei giorni”7.

Il tema dostoevskiano. Nella figura di Murica si sente risuonare il tema evangelico e dostoevskiano del “solo chi cade può risorgere”. Murica, attraverso l’esperienza del male rinasce spiritualmente, torna alla vita di rivoltoso ormai in chiave “religiosa” – e finisce come un martire antico, anzi come Cristo stesso, avvolto nel manto di un tappetaccio di questura, con in testa un vaso da notte e una scopa in segno di regalità, ucciso a calci dai questurini fascisti.

6 Non mi è stato finora possible ritrovare negli scritti di Londra (1942) questa frase, che riporta Simone Pétremant nella sua grande biografia weiliana, analizzando appunto gli scritti di Londra (S. Pétrement, La vie de Simone Weil, Paris: Fayard 1973, p. 662).7 cit. da E. Paccagnini, Il tradimento messo in scena, “Il Sole-24 ore” 23/04/2000

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Il filone cristico. Cristologica è tutta questa parte, che scopriamo, alla fine del romanzo, essere all’origine del titolo, Pane e vino. E’ in occasione della riunione dei parenti e amici della famiglia del giovane ucciso dagli sbirri fascisti in una sorta di parodia della crocifissione, che il padre contadino dice:

“E’ lui che mi ha aiutato a seminare, a sarchiare, a mietere, a trebbiare, a macinare il grano di cui è fatto questo pane. Prendete e mangiate, questo è il suo pane….E’ lui che mi ha aiutato a potare, insolfare, sarchiare, vendemmiare la vigna dalla quale viene questo vino. Bevete, quest’è il suo vino”8.

La differenza da Dostoevskij. E’ Silone, Murica? Attenzione, c’è un dettaglio essenziale. Silone non è dostoevskiano. Non lo è almeno su un punto cruciale. Lo nota con la consueta finezza Margherita Pieracci Harwell:

“Silone non appartiene a quella famiglia di spiriti che fanno capo a Pascal o alla “scommessa”, né a quella di Dostoewskij che dichiara che fra Cristo e la verità – se tale scelta si ponesse – sceglierebbe Cristo”9.

L’assiologia e la veglia critica. Margherita questo lo desume da molti passi siloniani, ma uno ha particolare importanza per il nostro teorema della cognizione del valore, dell’approfondimento cognitivo che non rinuncia mai all’elemento vitale della conoscenza, la veglia critica, che non tollera dialettici riassorbimenti di ciò che pare semplicemente il contrario del vero.

L’avventura di un povero cristiano. Si tratta del pezzo di avventura siloniana che lo conduce a scrivere L’avventura di un povero Cristiano, cioè a risalire di un millennio il cristianesimo primitivo della Marsica, per ritrovare addirittura le radici ribelli, dei gioachimiti e dei francescani scalzi, e del loro emulo Pietro da Morrone, che per un attimo la congiura di potenti fece assurgere al soglio pontificio, illudendo l’intera cristianità che una palingenesi della Chiesa corrotta e mondana fosse in atto, che il Regno dunque stesse discendendo in terra.Ebbene, proprio nelle pagine introduttive a quest’opera, e appena concluso il

Concilio Vaticano Secondo, Silone spiega perché resterà un cristiano senza chiesa – esattamente come Simone Weil, e per gli stessi motivi.

“Si capisce che l’ingenuità perduta difficilmente si recupera e che neanche può essere decentemente rimpianta. La si può simulare? Dopo essere passati per quell’esperienza, tornare a fingere di accettare un sistema di dogmi la cui validità non è più riconosciuta in assoluto, sarebbe sopraffare la ragione, violare la coscienza,

8 Silone (1999), Vol. I, p.505.9 M. Pieracci Harwell (1991), Un cristiano senza chiesa e altri saggi, Studium, Roma, p. 21.

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mentire a sé e agli altri, offendere Dio. Nessuno ce lo può chiedere: nessuna lusinga o violenza, nessuno sforzo di volontà può imporcelo. Fortunatamente Cristo è più grande della Chiesa”10.

Non si può rinunciare alla ragione – è “immorale”. Appena concluso il Concilio Vaticano Secondo, Silone spiega perché resterà un cristiano senza chiesa – esattamente come Simone Weil, e per gli stessi motivi. Non certo per indifferenza al contenuto assiologico profondo del cristianesimo, che non è solo morale: è anche “tragico” almeno nel senso della “mescolanza del bene e del male” che è il vero male, ma insieme è ineliminabile dalle cose del mondo, ed esige l’excruciante lavoro quotidiano di discernimento, il quale, come Murica dimostra, passa all’interno di noi stessi e può essere mortale.

Silone semplicemente un umanista integrale, come Chiaromonte? No.

Già limitativo per Chiaromonte….Se il seme non muore…. L’esito di questa avventura di conoscenza per

eccellenza – la conoscenza di sé attraverso la ricerca o piuttosto la lotta per discernere il bene dal male nel mondo e in sé - non è necessariamente, e certo non è per alcuni, la pace dell’integrità, dell’unità o interezza ritrovata nella libertà, intesa come autonomia morale e sovranità della persona su se stessa, (NB: “IL CENTRO AUTONOMO DI VITA” di Silone) nella figura di un umanesimo laico e liberale.

Ce lo fa vedere la scena centrale – a mio parere- de Il seme sotto la neve, dove vediamo che il conflitto fra ciò che la filosofia chiamerebbe destinazione (o vocazione, elezione, progetto) e destino (o fato, fatticità, finitudine) è in realtà un intreccio: quando Pietro Spina spiega alla nonna, che lo ha riaccolto e nascosto in casa fuggiasco e braccato, e gli obietta che lui la sua croce se l’è scelta:

“Credi, nonna, che possano esservi vite arbitrarie? Dico questo pur non credendo al destino….Forse ognuno, secondo la materia di cui è fatto, attira a sé fin dai primi anni le esperienze decisive che danno impronta all’anima, fanno che Muzio sia Muzio, e non Caio”

(Io vorrei aggiungere: fanno che Spina sia Spina, e non Murica).

Il giovane Silone voleva diventare santo. Conobbe i gesuiti. Il ragazzo ribelle, che per non sopportare l’ingiustizia leggeva Tolstoij ai contadini della lega. Si strappò via la fede in odio alla menzogna, ma incontrò chi della sincerità era preparato a ridere. Eppure i gesuiti, eppure i marxisti, avevano anche ragioni non solo apparenti, ma avvolgenti come fili. Prosegue Pietro:

10 Silone (1999), Vol. II, pp. 563-64

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“Vi sono dolori che concentrano intorno a sé tutte le forze riposte dell’essere, tutte le energie vitali, e restano confitti e articolati in noi come la spina dorsale sul corpo, come i fili di un tessuto. Certo, si può, ma distruggendo il tessuto”11.

C’è una verità che il cristianesimo ha messo in luce, e la morale laica no. Che illuminare si può e si deve, discernere anche, il bene intrecciato al male. Ma a volte, discernere è distruggersi, morire. E però bisogna essere disposti a farlo. Se il grano non muore….

Questa è tutta un’altra idea da quella dostoevskiana che Murica incarna, dove proprio essere peccatore è necessario per essere santo. Quel sacrificio di espiazione, per sublime che sia, è tutta un’altra morte. Infatti nel romanzo quella di Murica è morte definitiva. Il grano muore e basta.

11 Silone (1999), Vol. I, p. 643.

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