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Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale ISTITUTO SUPERIORE INTERDIOCESANO DI SCIENZE RELIGIOSE “DUNS SCOTO”
Nola - Acerra
CORSO DI TEORIA DELLA SCUOLA E LEGISLAZIONE SCOLASTICA
Teoria della Scuola e Legislazione scolastica – Dispense a cura del prof. Michele Montella
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4^ Lezione venerdì 22, venerdì 29 marzo 2019
SGUARDO STORICO AI MODELLI SCOLASTICI
Il modello gerarchico
Premessa. Lettura di passi dal romanzo “Fontamara” di Ignazio Silone e dal romanzo
“Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi (cfr Appendice).
Il mezzogiorno alla vigilia del Fascismo. Cominciamo la presente lezione, che si
occuperà del modello legislativo fascista, con due famosi brani, tratti dai romanzi
“Fontamara” di Ignazio Silone e da “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi: il
primo riguarda l’interrogatorio ai cafoni di Fontamara da parte di alcuni fascisti del
luogo; il secondo riguarda l’incipit solenne del libro, in cui l’autore ritorna con la
memoria ai suoi contadini.
Entrambi i romanzi ci raccontano l’epoca fascista vista dagli occhi dei derelitti, di quelli
che non contano nulla e che in alcune narrazioni storiche vengono dimenticati e
svalorizzati. Così leggendo i brani comprendiamo da quali profonde esigenze si
muovevano i legislatori del tempo e verifichiamo anche come la maggior parte delle
risposte furono inconcludenti e lontane dai problemi reali delle moltitudini popolari del
Sud Italia. Si pensò certo alle classi dirigenti e alla necessità di dotare il paese di
strutture istituzionali funzionanti ed efficienti, ma si dimenticò che tali strutture
avrebbero dovuto funzionare anche per le classi meno abbienti, che furono invece quasi
del tutto inascoltate.
I due brani, come tutti interi i libri, hanno il potere di descrivere, con immediata
evidenza e suggestive immagini letterarie, la vita dei cafoni, simbolo delle plebi del
Mezzogiorno, che non avevano tratto dal Risorgimento e dal periodo immediatamente
successivo all’Unità d’Italia alcun vantaggio, rimanendo massa umana senza coscienza
e preda dello sfruttamento baronale dei padroni del Sud. Silone scriverà nella prefazione
al romanzo: “Io so bene che il nome di cafone nel linguaggio corrente del mio paese,
sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e di dileggio; ma io
l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più
vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore”1.
Anche Carlo Levi scriverà qualcosa di simile, quando con la memoria andrà “a
quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato,
eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino
vive nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella
presenza della morte”2.
1 Ignazio Silone, Fontamara, prefazione, Milano 1974, p.6
2 Carlo levi, Cristo si è fermato a Eboli, Torino 1945 p.3.
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Partiamo dalla descrizione dei problemi del Sud Italia, perché essi, più di altri,
s’incrociarono con la questione educativa e con il bisogno reale che il Paese aveva di
alfabetizzare le plebi meridionali, coniugando un piano sistematico educativo con un
rinnovamento delle politiche economiche, bisogno che non solo non fu soddisfatto ma
venne coscientemente evitato e rifiutato. Durante il fascismo, più che in qualsiasi altro
momento della storia dell’Italia unita, infatti, l’Educazione statale fu utilizzata per
l’asservimento dei cittadini e delle masse e divenne uno dei principali ambiti di
oppressione e di appiattimento culturale. La voce di romanzieri come Ignazio Silone o
come Carlo Levi, dei quali offriamo alcuni documenti letterari, servono appunto a farci
comprendere il clima culturale dei tempi e il sistema di menzogne politiche a cui si
ridusse la politica meridionalista del governo fascista.
Con l’avvento del Fascismo la realtà del Sud Italia subì un profondo peggioramento,
portando alla luce la condizione dei popoli meridionali che avevano perso tutto, anche il
senso della patria, aggravando ancor di più il panorama economico, sociale e culturale
dell’Italia intera, e non solo di quella del Sud, di quei tempi, che vanno dall’ultimo
governo Giolitti alla seconda Guerra Mondiale. Di fronte al Nord del Paese che aveva
visto le trasformazioni sociali e industriali, le innovazioni tecnologiche, i nuovi sistemi
di coltivazione, il Sud rimase la terra incoltivabile, arida e senza speranza dei contadini.
In quel periodo si registrarono ancora altissimi tassi di analfabetismo e una miseria
generalizzata, accentuata dalla fiscalità centralizzata e dal protezionismo governativo.
Le ondate di emigrazioni, in particolare la cosiddetta “grande emigrazione” prefascista
di milioni di emigranti nei decenni successivi all’Unità tra il 1876 e il 1915, avevano
creato le condizioni per un immobilismo delle strutture sociali, che si rilevò drammatico
durante il Fascismo, nonostante la propaganda e il tentativo di occultare i numeri reali.
Con quasi tre milioni di emigranti solo dalle regioni del Sud, Campania, Calabria e
Sicilia, i decenni successivi alla prima Guerra Mondiale furono caratterizzati da una
politica che affermava la necessità dell’emigrazioni; lo stesso Mussolini affermava
l’esigenza fisiologica dell’emigrazioni, coprendo, in tal modo, con gli slogan
dell’espansionismo e della tutela nazionalista, una profonda espressione di debolezza
gestionale. In generale, in questo periodo tutti gli aspetti sociali precari e negativi: dalle
difficoltà economiche, alle rigidità finanziarie, da una scuola priva di un piano culturale
ed economico degno di una nazione europea, ma anche non ancora asservita
all’ideologia, ad una società ancora divisa e frammentata diventano, grazie ad
un’accorta campagna di pseudo educazione, espressioni di vitalità della razza italiana
nel mondo. La finalità fascista riguardava l’identificazione della nazione con il regime,
per cui anche gli emigranti, i contadini, gli studenti diventarono strumenti di una
sistematica operazione di mistificazione culturale, che copriva l’assenza di una politica
seria di riequilibrio. Venne operata una riconversione autoritaria dello Stato attraverso la
costruzione totalitaria della società civile che si trasformerà ben presto in una dittatura
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globale che faceva sua l’ideologia reazionaria di massa che divenne così pervasiva da
cancellare completamente la percezione negli strati popolari di un’opposizione al
Fascismo, pur abbastanza viva nel tessuto culturale del Paese, sebbene nascosta e
guardinga.
Crisi del modello liberale e fascistizzazione del sistema. Il ventennio fascista
trasformò così il nostro Paese in una dittatura aspra e, per certi aspetti, ridicolmente
tragica, perché senza cultura e basata su riti e principi obsoleti, che puntava a far
emergere bisogni popolari inespressi e faceva propri i desideri delle classi sociali forti,
in particolare l’esercito, i grandi industriali del nord e i possidenti terrieri. La graduale
fascistizzazione dell’Italia avvenne grazie alle paure serpeggianti nel Paese a causa
degli scontri nelle industrie, dei problemi irrisolti lasciati in eredità dalla guerra, in
conseguenza delle inadempienze della sinistra storica e dell’opacità dei comportamenti
della destra liberale, incapace di esprimere le esigenze degli strati borghesi e
imprenditoriali della società, com’era avvenuto fino a pochi anni prima.
Nell’ottobre del 1922 Mussolini formò il suo primo governo, al quale diedero man forte
alcuni ministri liberali; ottenne il voto di fiducia di un ampio fronte parlamentare, che
non comprese la pericolosità insita nei programmi fascisti. I liberali pensavano di usare
i fascisti per i loro scopi di mantenimento del potere, ma non si resero conto che la
nascita e lo sviluppo di grandi partiti di massa avevano già, e irrimediabilmente,
compromesso la capacità del mondo liberale di incidere nella vita sociale. Nell’ambito
di un ipocrita rispetto dei poteri costituzionali, tra il 1922 e il 1925, Mussolini svolse un
sistematico processo di trasformazione statale, dalle strutture giuridiche ed
ordinamentali, all’organizzazione istituzionale, gettando le basi della dittatura:
rafforzamento del potere esecutivo, indebolimento delle prerogative del Parlamento,
integrazione delle strutture militari e politiche fasciste nell’apparato statale, riduzione
del pluralismo politico per imporre il partito unico, eliminazione delle libertà
costituzionali come quelle di stampa, di associazione e di sciopero. La società,
l'informazione, la scuola vennero rese prone ai voleri del Duce; gli oppositori furono
picchiati, incarcerati, inviati al confino o costretti all'esilio; più tardi, nel '38, furono
anche promulgate le leggi razziali, che privarono gli Ebrei dei diritti civili. Nel 1922
viene costituito il Gran Consiglio del Fascismo e l’anno seguente lo squadrismo viene
istituzionalizzato nella Milizia volontaria per la Sicurezza Nazionale, con il doppio
scopo, da parte di Mussolini, di potersene servire contro i nemici politici ed esercitare
un controllo diretto sul braccio armato del suo stesso movimento.
Tale operazione nasceva e si perpetuava all’insegna dell’ignoranza storico-culturale, in
base a criteri di rozzezza civile e di scarso valore comunitario. Mussolini aveva bisogno
di legittimare il suo potere e di costruirne un’immagine spendibile nei confronti
dell’Europa e nei rapporti con gli strati della popolazione più avveduti e più critici.
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Sentiva che il momento della collocazione culturale del Movimento Fascista e poi dello
Stato Fascista era arrivato e che non si poteva più a lungo procrastinare il
soddisfacimento dell’esigenza di consegnare alle generazioni più giovani un patrimonio
di valori e un sistema educativo coerente con le idee politiche e con la visione dello
Stato tipiche della dittatura, così si accinse a preparare le premesse per un ripensamento
culturale del regime e vi attese con il massimo impegno. Bisognava ricercare un
modello di trasmissione valoriale che individuasse nella scuola il principale elemento di
indottrinamento. Per fare questo non si poteva facilmente cancellare il modello liberale,
anche perché in quest’ultimo molte caratteristiche potevano coniugarsi con facilità al
progetto culturale del Fascismo: il principio della libertà dell’istruzione, una scuola
volta soprattutto all’educazione delle classi dirigenti, la gerarchizzazione degli ordini e
delle istituzioni educative. Ciò che invece doveva essere rinnovato e quasi rifondato era
la tipologia del rapporto tra le masse e lo Stato; la configurazione di tale rapporto
doveva acquisire la caratteristica della pervasività, della coralità, della popolarità, tutti
elementi sconosciuti al pensiero elitario liberale.
Il dibattito europeo sulla scuola. In questi anni il dibattito europeo sulla scuola era in
fermento e da più parti si esprimeva l’esigenza di un cambiamento che, a partire dal
Positivismo, potesse dare respiro nuovo ad una istituzione troppo legata a moduli
conservatori e poco rispondente ai bisogni delle masse più consapevoli che si
affacciavano come protagoniste del periodo storico. Dopo i primi decenni in cui l’Italia
era stata un centro della cultura europea, soprattutto grazie ai legami degli intellettuali e
degli artisti italiani con le avanguardie artistiche, si passò gradualmente ad un profondo
degrado in nome di un anti positivismo che aveva contagiato quasi tutti gli intellettuali
di allora. In realtà il Positivismo aveva cercato di svecchiare una scuola ormai ripiegata
sulla perpetuazione di stanchi e obsoleti ritmi meccanici, dovuti alla cristallizzazione
dell’ispirazione liberale della Legge Casati. Esso richiedeva alla Legge di riconoscer
che solo la scuola poteva generare l’emancipazione del pensiero e reagire alla
stagnazione di un’egemonia religiosa di marca assai conservatrice che pervadeva buona
parte delle pratiche didattiche. Uomini come Roberto Ardigò e Aristide Gabelli si fecero
strada per la prima volta idee concrete di cittadinanza e di un’educazione che sapesse
infondere il desiderio di formare cittadini attivi che partissero dall’osservazione e
dall’induzione per apprendere le conoscenze. Per fare questo c’era bisogno di ripensare
il modo stesso di organizzare l’istituzione scolastica, legata ancora al formalismo dei
moduli risorgimentali, poco inclini ad individuare le linee di progresso insite nello
studio della realtà concreta.
La critica idealista a questa scuola aveva invece condotto i circoli di pensiero italiani
sempre più lontani dai dinamismi politici interessati ad un cambiamento delle strutture
istruttive di un paese moderno. L’idealismo, in se stesso, era portatore di alcune
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esigenze riformatrici, ma le inscriveva in un ambito che svalorizzava la stessa didattica
come ripensamento dell’organizzazione dell’insegnamento.
A dire il vero già Benedetto Croce aveva tentato di riformare la Pubblica istruzione
nell’ultimo governo Giolitti, dal giugno del 1920 fino al luglio del 1921, così come un
vasto movimento intellettuale aveva fatto della riforma della scuola un oggetto di
dibattito assai interessante, legato alla necessità di restituire allo Stato una funzione
orientativa importante. Questa esigenza legava ancora gli intellettuali italiani a quelli
europei, ma si fermava sulla soglia della riflessione di grandi riforme che avessero la
funzione di fondare un nuovo statalismo, messo così a dura prova dalla guerra
mondiale. Così la visone idealistica accomunò pensatori ed intellettuali.
Lo stesso Croce si complimenta con il suo amico all’indomani della conclusione
dell’iter legislativo e ravvisa nella Legge Gentile alcuni elementi presenti nell’impianto
legislativo che il filoso abruzzese andava pensando, in particolare un’articolazione
attenta alla dialettica culturale e alla coerenza fra i vari ordinamenti. Così lo stesso
Gentile ammetteva onestamente il ruolo che il Croce e gli altri intellettuali di quel
tempo, come Giuseppe Lombardo Radice, Ernesto Codignola, Gaetano Salvemini,
avevano avuto per l’elaborazione della legge, in ordine all’ispirazione generale, alla
collocazione culturale e al movimento di idee e concezioni pedagogiche che aveva
arricchito il dibattito nei primi vent’anni del Novecento. Una prima vera rottura si ebbe
con la pubblicazione del Manifesto degli intellettuali fascisti, che aprì gli occhi di Croce
e di altri pensatori ed osservatori politici sulla vera natura dell’idealismo come ispiratore
di una scuola fascista. La pubblicazione avvenuta nel 1925, condusse ad una profonda
crisi nell’ambito del pensiero politico degli intellettuali del Paese, in quanto la
giustificazione culturale dell’ideologia fascista, così illiberale e violenta, non poteva
essere più coniugata con un dialogo franco di tipo giuridico – filosofico, basato sulla
reciprocità di intenti. Infatti di lì a qualche mese (aprile 1925 il manifesto gentiliano e
maggio 1925 quello crociano) la pubblicazione de Il Manifesto degli Intellettuali
antifascisti, in risposta a quello redatto da Gentile, allontanerà per sempre i due filosofi.
Tuttavia quel crocevia di analisi legislative e pedagogiche rimarrà uno dei momenti più
importanti della storia legislativa del nostro paese.
Il modello fascista. L’operazione di stabilizzazione politica che la Riforma Gentile
offriva al regime era stata pensata intorno a quattro perni fondamentali: il radicamento
del pensiero fascista nelle masse, sebbene Gentile non avesse in mente un’impostazione
fascista, ma filosofica e della filosofia dell’idealismo; lo smembramento o almeno la
riduzione delle organizzazioni associazionistiche non fasciste, in particolare quelle
cattoliche (Azione Cattolica) e quelle social - comuniste; un forte accentramento dei
poteri, che si esprimeva con una marcata gerarchizzazione e, infine, la presentazione di
una nuova veste del Fascismo: rassicurante, moderata, in grado di poter accreditarsi
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come socialmente stabile. I quattro perni costituirono gli aspetti esteriori del modello
educativo che, in questa maniera rappresentava una realtà ampiamente diffusa in tutte le
classi sociali, quindi popolare e attenta ai bisogni del ceto medio; una realtà educativa
che presentava il vantaggio di proporre forme di aggregazione nuove non definite da
vincoli dogmatici; infine un modello educativo razionale, autoreferenziale e perciò
stabile e chiuso ad ogni innovazione, in grado di rassicurare i cittadini circa le sue
potenzialità di riproposizione perenne degli equilibri sociali che si erano creati.
Gentile pur immaginando una scuola ancora di stampo liberale fu affascinato dal
fascismo, perché vi vedeva una realizzazione dello Spirito assoluto e dei principi della
sua visione del mondo; egli sviluppò l’idea, che per alcuni anni lo sostenne
nell’appoggio a Mussolini, che il vero liberalismo era quello sfociato nel movimento
fascista e che gli stessi liberali avevano ormai perso il contatto con le loro radici; per
questo motivo aderì al Fascismo senza esitazioni, come dimostra questa lettera datata
maggio 1923: Caro Presidente, dando oggi la mia formale adesione al Partito Fascista,
La prego di consentirmi una breve dichiarazione, per dirLe che con questa adesione ho
creduto di compiere un atto doveroso e di sincerità e di onestà. Liberale per profonda e
salda convinzione, in questi mesi da che ho l’onore di collaborazione all’alta Sua opera
di Governo e di assistere così da vicino allo sviluppo dei principi che informano la Sua
politica, mi son dovuto persuadere che il liberalismo, com’io l’intendo e come lo
intendevano gli uomini della gloriosa Destra che guidò l’Italia del Risorgimento, il
liberalismo della libertà nella legge e perciò nello Stato forte e nello Stato concepito
come una realtà etica, non è oggi rappresentato in Italia dai liberali, che sono più o
meno apertamente contro di Lei, ma per l’appunto, da Lei. E perciò mi son pure
persuaso che fra i liberali d’oggi e i fascisti che conoscono il pensiero del Suo
fascismo, un liberale autentico che sdegni gli equivoci e ami stare al suo posto, deve
schierarsi al fianco di lei.3
La scuola era il primo e più importante fattore di appoggio allo Stato fascista e il duce
non poteva permettersi di lasciare incustodite le mura che ne difendevano i confini, né
di mostrare indifferenza verso la generazione degli insegnanti che rappresentavano una
forza vitale per il futuro fascista e la sua sopravvivenza. Per questo motivo anche il
graduale, ma costante avvicinamento del regime alla Chiesa cattolica faceva parte della
globalità dell’operazione, a tal punto che nel modello che si sta presentando
l’insegnamento della Religione cattolica diventava uno strumento dalle altissime
potenzialità per consentire alla strategia del consenso un successo immediato e forte.
L’opera di Giovanni Gentile e la sua graduale dismissione. L’idealismo si prestava
bene a costituire lo sfondo integratore del modello di scuola che il regime stava
3 Giovanni Gentile, La riforma della scuola in Italia, Firenze, Le Lettere, 1989, pp. 94-95.
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preparando, almeno nella prima fase di approccio ad una riforma scolastica globale: una
scuola connotata da una forte spinta etica nella quale l’individuo si ritrovava come parte
di un tutto. In questo orizzonte Gentile non aveva elaborato una riforma fascista, ma
aveva lavorato affinché il Fascismo se ne potesse riappropriare.
Giovanni Gentile fu Ministro dell’Istruzione dall’ottobre del 1922 al luglio del 1924 e
realizzò con la collaborazione di Lombardo radice una riforma già auspicata da
Benedetto Croce e da altri pedagogisti, come abbiamo visto.
La passione culturale, la volontà di liberare la scuola dai pedantismi culturali e da un
carattere trasmissivo dell’impostazione pedagogica dei maestri furono tra gli aspetti
rispettabili della riforma. Ma la pesante dittatura e la stessa visione pedagogica del
filosofo non permisero l’avvio di un reale rinnovamento dell’impianto liberale.
Il sistema gentiliano si riconosceva nell’idea di una nobiltà umana del fare scuola, che
avvicinava lo studente agli ambiti sacrali della produzione di cultura. Gli assunti
filosofici della visione gentiliana si esprimevano nel concetto di una società organizzata
intorno all’idea dello Spirito assoluto. Lo Spirito informa di sé la realtà e le grandi
personalità; queste ultime ricevono l’ispirazione, attraverso la storia concreta, di dirigere
le masse, come diritto. Fu tale rapporto tra filosofia e società che condusse Gentile ad
approvare, almeno in un primo tempo il Fascismo.
La libertà dell’individuo poteva espandersi liberamente solo nella libertà dello Stato e
ciò consentiva alla dittatura di poter affermare i diritti dello Stato su quelli
dell’individuo. Secondo Gentile lo Spirito compie un’operazione di autoposizione, che
avviene dialetticamente ponendo gli oggetti e riassorbendoli in sé, perché quando Esso
conosce non può che realizzare se stesso e quel che conosce è la stessa realtà che
realizza. Solo all’interno della speculazione filosofica la pedagogia può trovare un
riferimento e un valore, che altrimenti non avrebbe perché non esiste per Gentile una
scienza pedagogica.
Lo Stato dunque, nella concezione gentiliana, si occupa di riforma legislativa all’interno
di un pensiero filosofico che vede l’atto dell’educare come una riproposizione che lo
Spirito fa di se stesso. Il filosofo ritiene che l’educazione debba essere umanistica e
filosofica e di impronta storicista, per cui la stessa riforma della scuola dovrà adeguarsi
alla storicizzazione delle discipline. Quando Gentile varò la sua riforma nel 1923
dunque, ebbe in mente una scuola italiana completamente ripensata e ristrutturata
secondo un’organizzazione gerarchica degli ordini e una realizzazione dialettica dei
passaggi da un ordine all’altro e da un ciclo all’altro, come mai era stato prima. La
centralità gerarchica dell’istruzione classica era posta alla base della preparazione
culturale del giovane fascista e non tenne in alcun conto i movimenti culturali che in
tutta Europa e negli Stati Uniti stavano per rinnovare completamente il panorama
pedagogico e quindi l’impianto legislativo. La Riforma Gentile fu chiusa in un contesto
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di forte arretratezza culturale e rispecchiò pienamente l’isolamento dell’Italia fra le
nazioni europee.
D’altro canto la collocazione culturale nell’area liberale della Riforma fu un’operazione
solo di facciata, poco digerita dalle gerarchie fasciste, che infatti di lì a poco
cominceranno a smontare l’impalcatura gentiliana, accentuandone il conservatorismo,
ma riducendone la sistematicità, che indubbiamente possedeva e che le permise di
diventare punto di riferimento della scuola in Italia fino agli anni Cinquanta. Anche
l’autonomia dell’organizzazione universitaria fu garantita fino agli anni Trenta, quando
il Ministro De Vecchi assoggettò anche quella istituzione al volere di una politica poco
avveduta e preoccupata solo del consenso. I primi segnali di questa insofferenza si
videro già con il peggioramento delle condizioni degli insegnanti che subirono le
conseguenze della divisione selettiva che ispirava la Legge, per cui si avvertì una
dequalificazione del corpo insegnante come risposta alla valorizzazione della scuola
classica. Gli stessi corpi organizzati come l’Opera Nazionale Balilla, da organismi di
supporto e di completamente educativo diventarono già nel 1926 istituzioni per
controllare l’Educazione Fisica e poi, nel 1929, entrò a far parte del Ministero
dell’Educazione nazionale sotto il cui controllo fu posta. Subito dopo il Concordato del
1929, che assestò, come abbiamo visto (cfr anche Documento Catalano), un colpo grave
all’autonomia scolastica, introducendo un vero e proprio sistema di educazione
religiosa, venne introdotto l’obbligo per gli insegnanti universitari di giuramento al Re e
al Fascismo; ma ancora più grave venne introdotto l’obbligo di possedere la tessera del
Partito fascista per tutti gli insegnanti. Nel 1934 con la Legge n. 2132 la cultura militare
divenne obbligatoria per i corsi inferiori, quelli superiori e per le Università e qualche
anno più tardi iniziò una campagna per il consenso che fu pervasiva e dal forte impatto
sociale: vennero create ad arte cerimonie, riti, calendari, manifestazioni che
inneggiavano al Fascismo a cui furono obbligate tutte le scuole del Regno. Nel 1938
con le Leggi razziali si raggiunse il punto più basso della fascistizzazione; con il Regio
Decreto n. 1390 del 5 settembre 1938 furono esclusi dalla scuola insegnanti e studenti
ebrei. Ancora oggi leggere i primi tre articoli del Decreto è un’esperienza spaventosa
che provoca profonda vergogna: “Ritenuta la necessità assoluta ed urgente di dettare
disposizioni per la difesa della razza nella scuola italiana abbiamo decretato (il Re) e
decretiamo Art. 1. All'ufficio di insegnante nelle scuole statali o parastatali di qualsiasi
ordine e grado e nelle scuole non governative, ai cui studi sia riconosciuto effetto
legale, non potranno essere ammesse persone di razza ebraica, anche se siano state
comprese in graduatorie di concorso anteriormente al presente decreto; né potranno
essere ammesse all'assistentato universitario, né al conseguimento dell'abilitazione alla
libera docenza. Art. 2. Alle scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia
riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica. Art. 3. A
datare dal 16 ottobre 1938-XVI tutti gli insegnanti di razza ebraica che appartengano
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ai ruoli per le scuole di cui al precedente art. 1, saranno sospesi dal servizio; sono a tal
fine equiparati al personale insegnante i presidi e direttori delle scuole anzidette, gli
aiuti e assistenti universitari, il personale di vigilanza nelle scuole elementari.
Analogamente i liberi docenti di razza ebraica saranno sospesi dall'esercizio della
libera docenza.”4
A firmare la Legge, oltre a Mussolini, fu Giuseppe Bottai che divenne ministro nel 1936
e scrisse nel 1939 il documento programmatico denominato Carta della Scuola. Questo
ultimo documento illustra bene a quel livello la macchina del consenso fascista arrivò,
smantellando la Riforma Gentile e subordinando completamente l’ispirazione scolastica
al regime. Nelle sue 29 considerazioni infatti si riconosce il disegno di una
modificazione legislativa che adeguasse la scuola alla politica razziale, accentuando
l’aspetto militaristico, la scarsa considerazione in cui era tenuta la donna e introducendo
delle distinzioni tra scuola rurale e scuola urbana che avevano come scopo quello di
contenere l’urbanizzazione e superare la miseria e la forte disoccupazione in cui il
fascismo aveva trascinato l’Italia e riuscire a rispondere all’imminente cultura di guerra
sostrato indispensabile per le campagne militari coloniali e l’entrata nella guerra
mondiale.
Bilancio della riforma. La riforma Gentile, se vista con occhi scevri da giudizi
antistorici, viene ancora oggi riconosciuta più come una forma di dispositivo statalista
che totalitarista. La sua caratteristica accentratrice e la sua tendenza ad essere pervasiva
nel controllo, a tutti i livelli, dei procedimenti burocratici, che lascia poco margine
all’autonomia scolastica e alle esigenze culturali delle comunità locali, esprimeva,
all’origine, un’esigenza di rendere omogeneo il sistema scolastico e tutelarlo dal rischio
di frammentazione tra opposte istanze e tentava di valorizzare, anche se in modo del
tutto negativo, sia la qualità professionale del corpo docente ed ispettivo sia
l’autorevolezza dei corsi di studi.
Da altri punti di vista la riforma gentiliana fu invece espressione di un cupo classismo e
di vero e proprio razzismo di classe e di genere che imponeva la valorizzazione delle
classi dirigenti ai danni delle classi meno abbienti; basti pensare, in questo senso alla
“scuola complementare”, una specie di scuola di serie B fatta apposta per gli studenti
che dovevano essere avviati al lavoro e stabiliva la separazione dei sessi, attraverso
l’istituzione delle scuola femminili, i licei femminili, meno importanti di quelli maschili
e caratterizzati da una politica selettiva evidente ed umiliante per le donne.
Gradualmente la Riforma gentiliana fu modificata, assumendo sempre di più un aspetto
fascistoide nel rifiuto dell’austerità dell’impostazione e nella svalorizzazione della
caratteristica umanistica.
4 Regio Decreto legge 5 settembre 1938-XVI, n. 1390 Provvedimenti per la difesa della razza
nella scuola fascista.
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L’articolazione della scuola nella riforma gentiliana 5 . La composizione
dell’ordinamento vedeva un’istruzione elementare, un’istruzione liceale (liceo classico e
liceo scientifico), un’istruzione tecnica, di avviamento professionale e un’istruzione
universitaria. Tra un ordine e l’altro i passaggi non erano liberi, ma sempre vincolati ad
esami. In particolare l’iscrizione all’università comportava solo per i licenziati del
Classico l’accesso a tutte le facoltà, mentre la scelta cominciava a restringersi già con i
diplomati del Liceo Scientifico. La scuola per eccellenza dunque era considerata il
Liceo Classico e da essa si formavano i quadri dirigenti del Paese, mentre la scuola di
Avviamento era considerata quella da cui sarebbero usciti i quadri operai o di lavoro
dopo il quattordicesimo anno di età. Gli Istituti Tecnici e gli Istituti Magistrali avevano
la stessa caratteristica delle scuole secondarie di avviamento al lavoro; tuttavia
contemplavano la possibilità di iscrizioni ad alcune facoltà universitarie. Per i giovani
invece che si iscrivevano al Liceo Artistico c’era la possibilità di proseguire gli studi
solo all’Accademia di Belle Arti o alla facoltà di Architettura.
La scuola elementare era resa obbligatoria e gratuita e distribuita su due canali: un
primo ciclo, cosiddetto inferiore che durava tre anni, dalla prima alla terza classe e un
secondo ciclo cosiddetto superiore che durava due anni, dalla quarta alla quinta
elementare. Il passaggio dal triennio al biennio elementare era sottoposto al
superamento di un esame.
La scuola elementare trovava compimento in un altro esame che dava la possibilità di
conseguire il "certificato di compimento". Il proseguimento degli studi per coloro che
volevano accedere a nuovi ordini era irreggimentato nei passaggi già individuati: si
trattava di sostenere un esame di ammissione al Ginnasio e dopo tre anni si sosteneva
una nuova prova al fine di essere ammesso all’ultimo biennio. Al quinto anno di scuola
ginnasiale si era sottoposti agli esami conclusivi della scuola ginnasiale, che avevano il
nome di "esami di ammissione al liceo". Il superamento di questi esami permetteva
l’iscrizione al Liceo Classico, triennale. Infine, il conseguimento del diploma di
5 La riforma Gentile è rappresentata da una serie di decreti e di atti normativi, spesso votati
senza un dibattito parlamentare, a partire dal 1923: RR. DD. 31 dicembre 1922 n. 1679; 16
luglio 1923, n. 1753; 6 maggio 1923, n. 1054, 30 settembre 1923, n. 2102 e 1 ottobre 1923, n.
2185.
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maturità classica permetteva l’accesso a tutte le facoltà universitarie. Il giovane che
arrivava all’Università aveva quindi superato un numero di sbarramenti non
indifferente: sei esami nei primi tredici anni di studi.
In sintesi l’alunno che usciva dalla scuola elementare poteva optare in relazione a
quattro percorsi: il Ginnasio (durata cinque anni) che dava l’accesso ai licei: classico,
scientifico (c’era poi anche una scelta marginale per il cosiddetto liceo femminile);
l’istituto tecnico che durava cinque anni (tre inferiori e quattro superiore); l’istituto
magistrale creato come scuola per i maestri di scuola elementare e, infine la scuola
complementare di avviamento professionale di durata triennale che preparava
all’ingresso nel mondo del lavoro.
Breve sguardo ai programmi. Per comprendere bene la Riforma gentiliana e ciò che
essa comportò per gli equilibri della legislazione scolastica, bisogna, seppur
brevemente, accennare ai programmi della riforma, perché attraverso di essi possiamo
riconoscere i modelli di base, le finalità sottese all’impalcatura culturale e il
cambiamento sociale di cui la Riforma fu un volano. Il disegno ingegneristico della
costruzione istituzionale della Riforma si servì delle modificazioni formali degli ordini e
dei gradi scolastici che la Legge prescrisse per avviare un processo di profonda
revisione dell’idea stessa di società; così come lo studio delle normative di governo
della scuola sono utili per comprendere fino a che punto le prassi didattiche furono
modificate, rispetto all’impianto liberale e per così dire casatiano della scuola.
Il lavoro a cui Gentile si accinse fu in gran parte dovuto a Giuseppe Lombardo
Radice, che redasse i programmi della scuola elementare, dando da un lato un discreto
contributo alla modernizzazione teorica di alcuni nodi problematici della visione
liberale: per esempio era sua l’idea di una didattica che aiutasse a sviluppare il pensiero
critico, l’interesse per le esperienze più che per la trasmissione di nozioni, dall’altro
impostò l’educazione centrata su una nuova tipologia di cittadino italiano marcatamente
conservatore, dedito ai valori della guerra e della patria come rigeneratrice di una nuova
educazione popolare.
Tali idee spesso contraddittorie resistettero all’interno del sistema fascista fino a quando
il regime non sentì il bisogno di rendere più lineare la sua presenza nella scuola italiana,
riducendo di molto alcune idee pedagogiche più moderne di Lombardo Radice ed
esaltandone quelle più becere e forse più lontane dal suo vero pensare. Dopo alcuni anni
infatti il filosofo si rassegnò ad uscire di scena e ad essere emarginato culturalmente.
I programmi delle cinque classi della scuola elementare risentivano di una forte
ispirazione ideologica, in quanto affermavano il concetto di "patria - nazione" secondo i
principi di uno stato etico in sostituzione del concetto di patria liberale- risorgimentale.
La scuola elementare si caratterizzò dal punto di vista espressivo, perché doveva
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influenzare l’aspetto emotivo e creativo6. Grande importanza fu data all'insegnamento
della Religione cattolica7 che finì per diventare fondamentale nei curricoli scolastici, a
causa della sua forte presa morale e di educazione popolare. Fu dato spazio ai giochi e
alle attività artistiche, attraverso discipline come il canto, il disegno, la calligrafia, la
recitazione che dovevano servire a creare un rapporto intenso e di tipo spirituale con il
maestro.
L’opera del maestro fu vista in maniera ambigua; infatti mentre da un lato il maestro era
colui che possedeva la sapienza come strumento didattico essenziale e caratterizzante la
sua figura, come fonte di riconoscimento istituzionale e di comunicazione nell’ambito
delle attività dello Spirito, dall’altra era ritenuto una rotella dell’ingranaggio del
consenso e quindi assolutamente subalterno al sistema.
La preferenza data all'istruzione letteraria e umanistica (sebbene si negasse valore alla
psicologia) rispetto a quella tecnica e scientifica ebbe come conseguenza il netto
aumento delle ore degli insegnamenti letterari, compreso il latino, su quelli scientifici.
Bisogna inoltre dire che per la prima volta la riforma Gentile dette un ordinamento e dei
programmi alla Scuola Materna (per bambini dai quattro ai sei anni), preparatoria alle
6 R.D. 1923 / 2185 . All'art. 8: L 'istruzione del grado inferiore comprende oltre gli esercizi del
grado preparatorio (ecc.); 1 preghiere ecc.; 2 letture e scritture; 3 insegnamento dell'aritmetica
ecc.; 4 esercizi orali di traduzione dal dialetto, facili esercizi di esposizione per iscritto;
recitazione di inni nazionali e di poesie; 5 nozioni varie, con sopralluoghi per la diretta
esperienza del lavoro agricolo ed industriale; conoscenza di opere d'arte, ricordi e monumenti;
6 rudimenti di geografia ecc. Così all'art. 9: Il grado superiore fino alla classe quinta,
comprende, oltre lo svolgimento sistematico delle materie del grado inferiore, con particolare
estensione delle letture storiche di religione cattolica, avendo riguardo alla tradizione
agiografica locale e nazionale: 1 lezione sulla morale e sul dogma cattolico ecc.; 2 lettura di
libri utili ad orientare il fanciullo rispetto ai problemi della vita domestica e sociale; 3 storia e
geografia ecc. nozioni [sui paesi] verso i quali sono orientati e si orientano le correnti
migratorie e temporanee della regione; 4 nozioni e letture sull'ordinamento dello Stato ecc.; 5
calcoli ecc.; 6 elementi di scienze; formazione di raccolte con esemplari procurati nelle gite
scolastiche ecc.; 7 disegno ecc.; 8 ginnastica in ordine chiuso ed esercizi da giovane
esploratore.
7 R.D. 1° ottobre 1923, 2185 Ordinamento dei gradi scolastici e dei programmi didattici
dell'istruzione elementare. Art. 3. A fondamento e coronamento della istruzione elementare in
ogni suo grado è posto l'insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta nella
tradizione cattolica. All'istruzione religiosa sara' provveduto, nei giorni e nelle ore stabilite a
norma del regolamento, per mezzo di insegnanti delle classi, i quali siano reputati idonei a
questo ufficio e lo accettino, o di altre persone la cui idoneita' sia riconosciuta dal R.
Provveditore agli studi, sentito il Consiglio Scolastico. Per l'idoneita' ad impartire l'istruzione
religiosa cosi' dei maestri come delle altre persone il R. Provveditore si atterra' al conforme
parere della competente Autorita' ecclesiastica. Sono esentati dall'istruzione religiosa nella
scuola i fanciulli i cui genitori dichiarano di volervi provvedere personalmente.
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elementari, sempre a carattere ricreativo 8 , riscoprendo il valore dell’infanzia e
l’importanza dell’educazione di questa fascia di età.
I programmi non erano propri dell’insegnamento, ma piuttosto dell’esame e quindi
rappresentavano come le tappe finali della preparazione. Agli insegnanti spettava
stabilire in quale maniera raggiungere quella preparazione.
Risulta chiaro da questi brevi elementi riportati come l’impianto programmatico
risentiva molto di un certo populismo, incardinato sulla tradizione popolare e sulla
letteratura, dove per letteratura s’intende un miscuglio spiritualista di poesia, di fede e di
scienza. L’accuratezza e il dettaglio con cui sono composti, soprattutto in riferimento
alla scuola elementare e alle composizioni linguistiche, mostra il disegno unificatore
dell’intero sistema che vedeva nella capacità espressiva uno dei segni distintivi della
persona colta e socialmente elevata.
LA RIFORMA GENTILE
Scheda di approfondimento
Fonte http://www2.indire.it/materiali_dirigenti/1_bertonelli.pdf
Il contesto
1917: la rivoluzione bolscevica
1918: la fine della I guerra mondiale
1919: il trattato di Versailles, la repubblica di Weimar e l’avventura dannunziana a
Fiume. Don Sturzo e l’appello ai “liberi e forti”: nasce il Partito popolare italiano.
Mussolini fonda i “Fasci di combattimento”. Prime elezioni a suffragio universale
maschile: forte affermazione di socialisti e popolari, bruciante scacco del movimento
mussoliniano
1920-1921: l’occupazione delle fabbriche, l’ultimo governo Giolitti, il Congresso di
Livorno, la scissione socialista e la nascita del Partito comunista. Nuove elezioni
politiche: i fascisti entrano in Parlamento. Nascita del Partito nazionale fascista. Rottura
del Patto di pacificazione tra socialisti e fascisti
1922: marcia su Roma (28 ottobre), incarico di Vittorio Emanuele III a Mussolini (30
ottobre) che forma il nuovo governo
1923: la legge maggioritaria Acerbo
1924: il “listone” e il successo del PNF alle elezioni Il delitto Matteotti e l’Aventino
parlamentare
1925: discorso del 3 gennaio: il fascismo verso il regime
8 R.D. 1923 / 2185 Articolo 7 L’Istruzione del grado preparatorio ha carattere ricreativo e tende a disciplinare le prime manifestazioni dell’intelligenza e del carattere del bambino. Essa comprende oltre alle preghiere più semplici: canto e audizione musicale, disegno spontaneo, giuochi ginnastici, facili esercizi di costruzione, di plastica e di altri lavori manuali; giardinaggio e allevamento di animali domestici; rudimenti delle nozioni di più generale possesso e correzione di pregiudizi e superstizioni popolari.
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Le radici della riforma
La riforma Gentile viene varata a circa un anno dalla marcia su Roma, quando il
fascismo non ha ancora assunto le vesti di regime che indosserà dopo il delitto
Matteotti (10 giugno 1924).
La riforma si attua in una situazione segnata ancora dal rispetto formale delle norme
dello Statuto Albertino e del sistema parlamentare.
La genesi della riforma Gentile non può essere ricondotta strictu sensu all’affermazione
del fascismo. Le radici ideologiche e culturali della riforma affondano nel terreno del
liberalismo e del neoidealismo italiani.
Benedetto Croce, ministro della P. I. nell’ultimo governo Giolitti (1920-21), non era
riuscito a portare a termine la riforma scolastica. Il suo progetto viene rielaborato, esteso
e poi condotto in porto da Giovanni Gentile, ministro della P. I. nel primo governo
Mussolini (1922).
La questione
La formazione della classe dirigente
Il problema, presente sin dalla nascita dello Stato unitario nella riforma Casati, si
ripropone nel peculiare contesto del primo dopoguerra. Lo shock del conflitto, il
conseguente scompaginamento sociale, la sconfitta del “biennio rosso”, la crisi dei
partiti postrisorgimentali, l’avvento del fascismo pongono ora le premesse per
ridiscutere i nodi della formazione della classe dirigente.
Le soluzioni adottate
La fonte giuridica della riforma di Gentile è la legge del 3 dicembre 1922 che
conferisce una “Delegazione di pieni poteri al Governo del Re per il riordinamento
del sistema tributario e della pubblica amministrazione”. In forza di questa delega
legislativa - che consente di evitare la discussione parlamentare - Giovanni Gentile
(ministro dal 31 ottobre 1922 al 1° luglio 1924) emana tra il maggio e l'ottobre del 1923
tre regi decreti che rivedono incisivamente l’intero ordinamento dell’istruzione.
L’istruzione elementare
- L’istruzione elementare si distingue in tre gradi: preparatorio (3 anni), inferiore (3
anni), superiore (2 anni).
- Le classi oltre la 5a prendono il nome di “classi integrative di avviamento
professionale”.
- “A fondamento e coronamento dell’istruzione elementare è posto l’insegnamento
della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta nella tradizione cattolica”. Le
famiglie possono chiedere l’esonero, dichiarando di provvedervi personalmente.
- Esami annuali e Certificazioni: di promozione, di studi elementari inferiori (dopo la
3a), di compimento (dopo la 5a), di adempimento dell’obbligo e di idoneità al lavoro
dopo le 3 classi integrative di avviamento professionale.
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L’istruzione media
Sono istituti medi di 1° grado: scuola complementare, ginnasio, corso inferiore
dell’istituto tecnico e dell’istituto magistrale.
- Sono istituti medi di 2° grado: liceo, corso superiore dell’istituto tecnico e
dell’istituto magistrale, liceo scientifico e liceo femminile.
- I professori sono nominati attraverso concorsi per titoli ed esami. I presidi sono scelti
dal ministro tra i professori ordinari con almeno 4 anni di servizio. Dalla scelta sono
escluse le donne.
- Presidi e professori vanno in pensione a 70 anni.
L’istruzione complementare
- “Fa seguito a quella elementare e la compie”. Dura 3 anni
L’istruzione classica
- “Ha per fine di preparare alle Università ed agli Istituti superiori”. È di due gradi:
ginnasi e licei. - Il ginnasio è di 5 anni: 3 di corso inferiore, 2 di corso superiore.
Materie del ginnasio inferiore: italiano, latino, storia e geografia, matematica, una
lingua straniera dal secondo anno.
Materie del ginnasio superiore: italiano, latino, greco, storia e geografia, matematica,
lingua straniera.
- Il liceo è di 3 anni.
Materie del liceo classico: lettere italiane, latine e greche, filosofia, storia ed economia
politica, matematica e fisica, scienze naturali, chimica e geografia, storia dell’arte.
L’istruzione tecnica
- “Ha per fine di preparare ad alcune professioni”.
- L’istituto tecnico è di 8 anni. Nei 4 anni del corso inferiore è previsto anche
l’insegnamento del latino; i 4 anni del corso superiore si articolano in due Sezioni
(indirizzi): commercio e ragioneria, agrimensura. La prima Sezione prepara
“all’esercizio di uffici amministrativi e commerciali”, la seconda “prepara alla
professione di geometra”. Le materie comuni alle due Sezioni sono: lettere italiane e
storia, matematica e fisica, scienze naturali e geografia.
L’istruzione magistrale
- “Ha per fine di preparare” i maestri. L’istituto magistrale è di 7 anni.
- I primi 4 costituiscono il corso inferiore, gli altri 3 quello superiore. Nel corso
inferiore le materie di insegnamento sono: italiano, latino (dal 2° anno), storia e
geografia, matematica, lingua straniera, disegno, musica e canto corale, strumento
musicale. In quello superiore: lettere italiane, lettere latine e storia, filosofia e
pedagogia, matematica e fisica, scienze naturali, geografia ed igiene, disegno,
musica e canto corale, strumento musicale.
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I licei scientifici
- “Hanno per fine di approfondire l’istruzione dei giovani che aspirino agli studi
universitari nelle Facoltà di scienze e di medicina e chirurgia”. La durata del corso,
senza primo grado specifico, è di 4 anni.
- Le materie sono: lettere italiane e latine, storia, filosofia ed economia politica,
matematica e fisica, scienze naturali, chimica e geografia, lingua e letteratura
straniera, disegno.
I licei femminili
- “Hanno per fine di impartire un complemento di cultura generale alle giovanette
che non aspirino agli studi superiori”. La durata del corso è di 3 anni.
- Materie: lettere italiane e latine, storia e geografia, filosofia, diritto ed economia,
2 lingue straniere (1 facoltativa), storia dell’arte, disegno, economia domestica,
musica e canto, strumento musicale, danza.
Gli esami
- Gli esami sono di ammissione, idoneità, promozione, licenza, abilitazione e
maturità.
- Ammissione: alla 1a classe delle scuole medie di 1° e di 2° grado e alla 4a ginnasio.
Chi intende iscriversi al liceo scientifico o femminile deve aver superato un corso medio
di 1° grado o aver conseguito l’ammissione a una media di 1° grado almeno 4 anni
prima.
- Idoneità: prevista per gli alunni provenienti da scuola pareggiata, che vogliano
accedere a classi per le quali non è necessario l’esame di ammissione.
- Licenza: al termine della scuola complementare e del liceo femminile.
- Abilitazione: al termine degli Istituti magistrali e tecnici.
- Maturità: per l’accesso alle Università e agli Istituti superiori (escluso Magistero).
- Promozione: in tutti gli altri casi (pagelle bimestrali, scrutinio finale, rinvio alla
sessione autunnale con due insufficienze).
APPENDICE - DOCUMENTI LETTERARI PER LO STUDIO E I
LABORATORI
Fontamara di Ignazio Silone9
Breve premessa. Siamo nel 1929. Fontamara è un paesino della Marsica, storica
regione abruzzese al confine con il Lazio. Il suo nome è immaginario e richiama quello
9 Silone Ignazio, Fontamara, Milano 1974 pp. 135 - 139
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che accade nel romanzo, ma le tribolazioni che affannano le vite dei suoi abitanti sono
esattamente le stesse di chi abitava i monti di L’Aquila negli anni del fascismo. Al
tempo stesso Fontamara è l’emblema dell’universo contadino in generale: i cafoni
(termine che Silone intende come dignitoso) sono tali e quali in Abruzzo come in Puglia
o in Sicilia, finanche nell’intero Sud del mondo, e parlano tutti la stessa lingua.
Questi uomini in camicia nera, d'altronde noi li conoscevamo. Per farsi coraggio essi
avevano bisogno di venire dì notte. La maggior parte puzzavano di vino, eppure a
guardarli da vicino, negli occhi, non osavano sostenere lo sguardo. Anche loro erano
povera gente. Ma una categoria speciale di povera gente, senza terra, senza mestieri, o
con molti mestieri, che è lo stesso, ribelli al lavoro pesante; troppo deboli e vili per
ribellarsi ai ricchi e alle autorità, essi preferivano di servirli per ottenere il permesso di
rubare e opprimere gli altri poveri, i cafoni, i fittavoli, i piccoli proprietari.
Incontrandoli per strada e di giorno, essi erano umili e ossequiosi, di notte e in gruppo
cattivi, malvagi, traditori. Sempre essi erano stati al servizio di chi comanda e sempre
lo saranno. Ma il loro raggruppamento in un esercito speciale, con una divisa speciale,
e un armamento speciale, era una novità di pochi anni. Sono essi i cosiddetti fascisti.
La loro prepotenza aveva anche un'altra facilitazione. Ognuno di noi, fisicamente, va-
leva almeno tre di loro; ma cosa c'era di comune tra noi? che legame c'era? Noi
eravamo tutti nella stessa piazzetta ed eravamo nati tutti a Fontamara; ecco cosa c'era
di comune tra noi cafoni, ma niente altro. Oltre a questo, ognuno pensava al caso suo;
ognuno pensava al modo di uscire, lui, dal quadrato degli uomini armati e di lasciarvi
magari gli altri; ognuno di noi era un capo di famiglia, pensava alla propria famiglia.
Forse solo Berardo pensava diversamente, ma lui non aveva né terra né moglie.
Nel frattempo si era fatto tardi.
«Be'», gridò Berardo minaccioso «ci sbrighiamo?»
L'omino panciuto rimase impressionato dal tono di quella voce e disse:
«Adesso cominciamo l'esame.»
«L'esame? Che esame? Siamo a scuola?»
Nel quadrato si fece un varco della larghezza di un metro e ai suoi lati si posero
l'omino panciuto e Filippo il Bello. Proprio come fanno i pastori negli stazzi, per la
mungitura delle pecore.
Così cominciò l'esame.
Il primo a essere chiamato fu proprio Teofilo il sacrestano.
«Chi evviva?» gli domandò bruscamente l'omino con la fascia tricolore.
Teofilo sembrò cadere dalle nuvole.
«Chi evviva?» ripeté irritato il rappresentante delle autorità.
Teofilo girò il volto spaurito verso di noi, come per avere un suggerimento, ma ognuno
di noi ne sapeva quanto lui. E siccome il poveraccio continuava a dar segni di non
saper rispondere, l'omino si rivolse a Filippo il Bello che aveva un gran registro tra le
mani e gli ordinò: «Scrivi accanto al suo nome: "refrattario".»
Teofilo se ne andò assai costernato. Il secondo a essere chiamato fu Anacleto il sartore.
«Chi evviva?» gli domandò il panciuto.
Anacleto, che aveva avuto il tempo di riflettere, rispose: «Evviva Maria.»
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«Quale Maria?» gli chiese Filippo il Bello. Anacleto riflette un po', sembrò esitare e poi
precisò: «Quella di Loreto.»
«Scrivi» ordinò l'omino al cantoniere con voce sprezzante «"refrattario".» Anacleto non
voleva andarsene: egli si dichiarò disposto a menzionare la Madonna di Pompei,
piuttosto che quella di Loreto; ma fu spinto via in malo modo. Il terzo a essere chiamato
fu il vecchio Braciola. Anche lui aveva la risposta pronta e gridò: «Viva San Rocco.»
Ma neppure quella risposta soddisfece l'omino che ordinò al cantoniere: «Scrivi:
"refrattario".» Fu il turno di Cipolla. «Chi evviva?» gli fu domandato. «Scusate, cosa
significa?» egli si azzardò a chiedere. «Rispondi sinceramente quello che pensi» gli
ordinò l'omino. «Chi evviva?» «Evviva il pane e il vino» fu la risposta sincera di Ci-
polla. Anche lui fu segnato come "refrattario" Ognuno di noi aspettava il suo turno e
nessuno sapeva indovinare che cosa il rappresentante dell'autorità volesse che noi ri-
spondessimo alla sua strana domanda di chi evviva.
La nostra maggiore preoccupazione naturalmente era se, rispondendo male, si dovesse
poi pagare qualche cosa. Nessuno di noi sapeva che cosa significava "refrattario"; ma
era più che verosimile che volesse dire "deve pagare". Un pretesto, insomma, come un
altro per appiopparci una nuova tassa. Per conto mio cercai di avvicinarmi a
Baldissera, che era di noi la persona più istruita e conosceva le cerimonie, per essere
da lui consigliato sulla risposta; ma lui mi guardò con un sorriso di compassione, come
di chi la sa lunga, però solo per suo conto.
«Chi evviva?» chiese a Baldissera l'omino della legge.
Il vecchio scarparo si tolse il cappello e gridò: «Evviva la Regina Margherita.»
L'effetto non fu del tutto quello che Baldissera si aspettava. I militi scoppiarono a ridere
e l'omino gli fece osservare: «E morta. La Regina Margherita è già morta.»
«È morta?» chiese Baldissera addoloratissimo. «Impossibile.»
«Scrivi», fece l'omino a Filippo il Bello con un sorriso di disprezzo «"costituzionale".»
Baldissera se ne parti scuotendo la testa per quel susseguirsi di avvenimenti
inesplicabili. A lui seguì Antonio La Zappa, il quale, opportunamente istruito da
Berardo, gridò: «Abbasso i ladri.»
E provocò le proteste generali degli uomini neri che la presero per un'offesa personale.
«Scrivi» fece il panciuto a Filippo il Bello «anarchico».
La Zappa se ne andò ridendo e fu la volta di Spaventa. «Abbasso i vagabondi» gridò
Spaventa, sollevando nuovi urli nelle file degli esaminatori. E anche lui fu segnato
come "anarchico". «Chi evviva» domandò il panciuto a Della Croce. Anche lui era però
uno scolaro di Berardo e non sapeva dire evviva, ma solo abbasso. Perciò rispose:
«Abbasso le tasse.» E quella volta, bisogna dirlo a onor del vero, gli uomini neri e
l'omino non protestarono. Ma anche Della Croce fu segnato come "anarchico", perché,
spiegò l'omino, certe cose non si dicono. Maggiore impressione fece Raffaele Scarpone,
gridando quasi sul muso del rappresentante della legge: «Abbasso chi ti dà la paga.»
L'omino ne fu esterrefatto, come per un sacrilegio, e voleva farlo arrestare; ma Raffaele
aveva avuto cura di pronunziarsi solo dopo essere uscito dal quadrato, e in due salti
spari dietro la chiesa e nessuno lo vide più.
Quali tratti dei fascisti si mostrano ai contadini fontamaresi? Quale mentalità
politica emerge?
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Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi10
Per la gente di Lucania, Roma non è nulla: è la capitale dei signori, il centro di uno
Stato straniero e malefico. Napoli potrebbe essere la loro capitale, e lo è davvero, la
capitale della miseria, nei visi pallidi, negli occhi febbrili dei suoi abitatori, nel “bassi”
dalla porta aperta per caldo, l’estate, con le donne discinte che dormono a un tavolo,
nei gradoni di Toledo; ma a Napoli non ci sta più, da gran tempo, nessun re; e ci si
passa soltanto per imbarcarsi. Il Regno è finito: il regno di queste genti senza speranza
non è di questa terra. L’altro mondo è l’America. Anche l’America ha, per i contadini,
una doppia natura. E’ una terra dove si va a lavorare, dove si suda e si fatica, dove il
poco denaro è risparmiato con mille stenti e privazioni, dove qualche volta si muore, e
senza contraddizione, è il paradiso, la terra promessa del Regno. Non Roma o Napoli,
ma New York sarebbe la vera capitale dei contadini di Lucania, se mai questi uomini
senza Stato potessero averne una. E lo è nel solo modo possibile per loro, in un modo
mitologico. Per la sua doppia natura, come luogo di lavoro essa è indifferente: ci si
vive come si vivrebbe altrove, come bestie legate a un carro, e non importa in che
strade lo si debba tirare; come paradiso, Gerusalemme celeste, oh! Allora, quella non
si può toccare, si può soltanto contemplarla, di là dal mare, senza mescolarvisi. I
contadini vanno in America, e rimangono quello che sono: molti vi si fermano, e i loro
figli diventano americani: ma gli altri, quelli che ritornano, dopo vent’anni, sono
identici a quando erano partiti. In tre mesi le poche parole d’inglese sono dimenticate,
le poche superficiali abitudini abbandonate, il contadino è quello di prima, come una
pietra su cui sia passata per molto tempo l’acqua di un fiume in piena e che il primo
sole in pochi minuti riasciuga.”
Quali aspetti della vita descritta dallo scrittore attengono alla mentalità contadina?
Quali elementi sono caratteristici della cultura contadina?
10 Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Torino, 1845 p.108