Gabriele D’Annunzio e Ignazio Silone - Comunità Italiana · Lanciani; Leda Papaleo Ruffo;...

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Suplemento da Revista Comunità Italiana. Não pode ser vendido separadamente. ano VII - numero 56 Gabriele D’Annunzio e Ignazio Silone: così vicini così lontani INSERTO DELLA RIVISTA COMUNITÀITALIANA - SOTTO L’EGIDA DEI DIPARTIMENTI DI ITALIANO DELLE UNIVERSITÀ PUBBLICHE BRASILIANE

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Gabriele D’Annunzio e Ignazio Silone:così vicini così lontani

Inserto della rIvIsta ComunItàItalIana - sotto l’egIda deI dIpartImentI dI ItalIano delle unIversItà pubblIChe brasIlIane

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Istituto Italiano di CulturaEditora Comunità

Rio de Janeiro - Brasil

[email protected]

Direttori responsabiliAndrea Santurbano

Patricia Peterle

DirettoriAlessandra Rondini

Marco Galeotti

GraficoAlberto Carvalho

CopertinaArchivio

ComItato dI redaZIoneAnna Palma; Annita Gullo (UFRJ); Arcangelo Carrera; Cristiana Cocco (UFF); Cristiane Magalhães; Doris Natia Cavallari (USP); Elisabetta Santoro (USP); Ernesto Livorni (Wisconsin-Madison); Esman Dias (UFPE); Fabio Andrade (UFPE); Fabrizio Fassio; Flora De Paoli Faria (UFRJ); Francesca Papi; Giovanni Zambito; Giuzy D’Alconzo; Hilário Antonio Amaral (UNESP); Katia d’Errico; Laura Pacelli; Livia Apa (Istituto Orientale di Napoli); Maria Lizete dos Santos (UFRJ); Maria Pace Chiavari (IIC-RJ); Massimo Morasso; Mauricio Santana Dias (UFF); Paola Micheli (Siena); Paolo Spedicato (UFES); Sonia Cristina Reis (UFRJ); Wander Melo Miranda (UFMG)

ComItato edItorIaleAffonso Romano de Sant’Anna; Alberto Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia Maraini; Elsa Savino; Everardo Norões; Floriano Martins; Francesco Alberoni; Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio; Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo; Luciana Stegagno Picchio; Maria Helena Kühner; Marina Colasanti; Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio Michele; Victor Mateus

gruppo dI traduZIonI

Antonella Genna; NUPLITT - Núcleo de pesquisa em literatura e tradução da UFSC (Universidade Federal de Santa Catarina): Andréia Guerini, Cláudia Borges de Faveri, Marie-Hèlene C. Torres, Mauri Furlan, Walter Carlos Costa e Werner Heidermann.

rICerCa

Federico Bertolazzi; Nello Avella; Rino Caputo; Università Roma II “Tor Vergata”

esemplarI anterIorI

Redazione e AmministrazioneRua Marquês de Caxias, 31Centro - Niterói - RJ - 24030-050Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468Mosaico italiano è aperto ai contributi e alle ricerche di studiosi ed esperti brasiliani, italiani e stranieri. I collaboratori esprimono, nella massima libertà, personali opinioni che non riflettono necessariamente il pensiero della direzione.

sI rIngraZIano

ABPI, ACIB, Imprensa Oficial do Estado do Rio de Janeiro, UFBA, UFF, UFRJ, IIC, USP e UNESP.

stampatore

Editora Comunità Ltda.

ISSN 1676-3220

D’Annunzio e Silone, così vicini così lontani

La Redazione

Scorrendo l’almanacco letterario italiano, il 2008 appare come un

anno particolarmente ricco di anniversari. Dal centena-rio della nascita di scrittori come Cesare Pavese, Elio Vittorini e Tommaso Landol-fi, al centenario della morte dell’autore del celeberrimo libro Cuore, Edmondo De Amicis. Spesso, però, le commemorazioni di questo tipo sconfinano in un’una-nime esaltazione degli au-tori in questione, quando più giusto sarebbe appro-fittare di queste scadenze per verificare, ri-discutere e sottoporre al vaglio del tem-po la loro incidenza storica, artistica e intellettuale.

In tale ottica va inqua-drata la scelta di dedicare questo numero di Mosaico a due autori, Gabriele D’An-nunzio e Ignazio Silone, di cui ricorrono, rispettivamen-te, i settanta e i trenta anni dalla morte. Ma ciò non può bastare. Perché, infatti, dare spazio a loro e non ad al-tri protagonisti (almeno per

ora) altrettanto autore-voli del mondo lettera-

rio, magari quegli stessi citati in apertura? Proviamo allora a formulare una serie di motivi che possano suffragare una scelta di questo tipo. Innan-zitutto, D’Annunzio e Silone possono, oltre ogni ragione-vole mancanza di uniformi-tà nelle valutazioni critiche, sfuggire al rischio di “cele-brazione” unanime, tante e diverse sono state le opinio-ni, e soprattutto le omissioni, espresse nei loro confronti.

D’Annunzio può vanta-re a suo carico avversioni e stroncature a vari livelli: dai contemporanei Pascoli e Car-ducci, che vedevano in lui un pericoloso concorrente, a Croce, di cui è celebre l’ac-cusa di “dilentattismo” poe-tico; da Gramsci, che vede in lui l’incarnazione di tutti i mali del secolo, per arrivare ad altri critici e studiosi più recenti, che lo hanno bolla-to come abile compilatore e imitatore di stili e tendenze, nonché come fiancheggia-tore del fascismo. Persino Fernando Pessoa, nel poe-ma Ultimatum, lo include sarcasticamente tra i poeti da escludere: “Fora tu, Ra-

pagnetta-Annunzio, banali-dade em caracteres gregos”. D’altro canto, D’Annunzio è apprezzato da fior di autori. Basti pensare che viene tra-dotto da Walter Benjamin e inserito da Borges nell’archi-vio personale del Pierre Me-nard, autore del Chisciotte. È curioso, inoltre, come Kafka, con la consueta abilità ana-litica, in un articolo monda-no scritto dall’Italia per un giornale praghese, fornisce di lui un ritratto diverso dalla mitografia creatasi: qui è un D’Annunzio che “piccolo e debole, sgambetta apparen-temente timido”.

Silone, da parte sua, ha sofferto ben più di semplici stroncature: è stato – e conti-nua ancora oggi ad esserlo – addirittura ignorato da buona parte della critica. Il perché è da ricercare probabilmente nell’essere egli un personag-gio scomodo e poco inqua-drabile in schemi precon-cetti, soprattutto ideologici. “Cristiano senza chiesa e so-cialista senza partito”, come amava definirsi, Silone ha finito col non trovare ospita-lità in nessuna “parrocchia”. Certo, nel suo caso è difficile scindere l’uomo dallo scritto-re, l’attivista dall’intellettuale, ma avrebbe comunque meri-tato più spazio il tentativo, benché in un’ottica non cro-ciana, di valutarne la cifra ar-tistica. Così, prevalentemente snobbato in patria, il nome di Silone si è ritagliato un ruolo di primo piano nello scena-rio internazionale. Basti dire che Albert Camus ne pren-deva ad esempio i romanzi, Carlos Lacerda ne reclamava una collaborazione giorna-listica, Jean-Paul Sartre volle

incontrarlo e tante altre per-sonalità del mondo culturale e politico intrattenevano una fitta corrispondenza con lui, tanto da risultare il carteggio siloniano uno straordinario documento storico.

Insomma, attorno a D’An-nunzio e Silone si può ritaglia-re un piccolo e paradigmatico universo umano e artistico, di cui cercheranno di dare con-to i qualificati contributi di ri-cercatori italiani e brasiliani, contenuti in questo numero. Universo che li vede nascere molto vicini, entrambi in ter-ra d’Abruzzo, a un centinaio di chilometri di distanza, in località separate da appena due lettere: Pescara e Pescina. Alla prima, aperta sul mare e che cominciava allora a na-scere come città, lega i suoi natali Gabriele D’Annunzio; nella seconda, chiusa nella piana montana del Fucino e distrutta da un terremoto nel 1915, viene alla luce Silone. L’estroversione dell’uno e l’introversione dell’altro deri-vano forse anche da questo, dalle due facce di una stessa anima regionale (la maritti-ma e la montana), alla quale entrambi resteranno sempre molto legati. Scrive Silone in una lettera del 1937 indiriz-zata a Rainer Biemel: “Pro-vengo dalla stessa regione che ha dato alle lettere, tra gli altri, Ovidio e d’Annunzio. D’Annunzio ha dato delle belle descrizioni superficiali e sensuali degli Abruzzi, at-tingendo le immagini dalla mitologia greca, dal rinasci-mento, dai primitivi, attingen-do un po’ da tutto il mondo. Egli ha dato agli Abruzzi una sembianza verbale meravi-gliosa. Confrontate gli Abruz-

zi di D’Annunzio con quelli di Il pane e il vino (il secondo romanzo di Si-lone, ndr) e avrete il viso apparente e il viso segreto di una regione dell’Italia meridionale”.

Quando Silone nasceva scrittore, D’Annunzio era al suo crepuscolo dorato del Vittoriale. Le differenze generazionali, ideologiche, artistiche, come si evince anche dalla lettera citata, non mancano. Si può anzi dire che siano due perso-naggi agli antipodi, eppur accomunati, oltre che dalle origini, dalle incompren-sioni (giustificate o no che siano) di buona parte della critica. D’Annunzio bollato spesso come fascista, quan-do piuttosto è il fascismo, sorto dopo, ad essere dan-nunziano, tanto che il vate sopporterà male questa usurpazione e simpatizze-rà ben poco con Mussolini, ritirandosi ben presto, con dignità da esteta, dalla sce-na. E Silone, “testa dura” da abruzzese anche lui, non avrà mai peli sulla lingua nel gridare con forza le sue opinioni. La sua condanna all’Unione Sovietica per i fatti d’Ungheria del ’56 fu tempestiva e inappellabile, al contrario, per esempio, di Sartre. Recentemente lo stesso presidente della re-pubblica italiana, Giorgio Napolitano, ha fatto pubbli-ca abiura per l’adesione al-lora data dal PCI al governo di Mosca. Verrebbe da dire – per usare una metafora di quel mondo contadino tan-to caro a Silone –, quando uno ha seminato, l’altro ha già fatto il raccolto.

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Gabriele d’Annunzio, un’avventura tra mito e poesia

Aurora Fornoni Bernardini

Gabriele d’Annunzio, nato a Pescara il 12 marzo 1863, era figlio

di un proprietario rurale degli Abruzzi, certo signor Francesco Rapagnetta. Si-curamente il cognome non era tra i più poetici, per cui il giovane vate, giunto il mo-mento di pubblicare la sua prima raccolta di poesie (Pri-mo Vere) scelse il cognome di uno zio e lo rese legale. La madre, Luisa de Benedictis, sin da piccolo lo trattò da ge-nio. Fece di tutto affinché il rampollo, all’età di 11 anni, frequentasse la scuola me-dia nel Collegio Cicognini, in Toscana, considerato uno dei migliori della penisola. Indubbiamente il giovane Gabriele si fece onore. Non solo in italiano e francese, ma anche e specialmente in greco. Più tardi lesse i clas-sici greci nell’originale e da essi attinse una serie di motti ispiratori che all’epoca fu-rono chiamati plagio. Oggi, meno. Anche se “alza la pro-ra e salpa verso il mare”, uno dei suoi versi più conosciuti (decasillabo in portoghese ma endecasillabo in italiano) è la riproduzione del verso di un antico poeta, c’è sempre la trasposizione in un’altra lingua, e anche questo me-stiere è importante. (Lo dico

perché ricordo d’aver letto un libro di Mario Praz dedi-cato ai plagi di d’Annunzio, oltre che i più equidistanti Chiara, Mengaldo e Buscaro-li). D’accordo, l’originalità è importante, ma è importante pure il saperla esprimere.

Insomma, plagi a parte, c’è anche molta autenticità nell’opera di d’Annunzio, sia in prosa che in verso, che ne fa uno dei grandi scrittori ita-liani. Ad Haroldo de Campos, per esempio, piaceva partico-larmente il romanzo Il fuoco, che, insieme a Il piacere e L’ innocente e alle pièces La fiaccola sotto il moggio e La figlia di Iorio è uno dei suoi capolavori. Ne Il fuoco lo impressionavano le metafore insolite e una nuova dimen-sione del tempo.

Finito il liceo classico al Liceo G.B.Vico di Chieti, giunse a Roma nel 1881, già famoso per il successo del suo primo libro, ben accolto dalla critica e ben incentivato dallo stesso autore che fece diffondere la notizia della propria morte a causa di una caduta da cavallo. Da ciò si intravede lo spirito comuni-cativo del futuro edificatore del proprio mito personale, artistico e politico.

A Roma s’iscrisse alla Fa-coltà di Lettere e partecipò alla vita mondana. Sono le avventure galanti alle quali s’abbandona le fonti d’ispira-zione delle sue nuove opere.

Dopo aver rotto il fidan-zamento con la figlia di un suo professore alla quale dedica Il piacere (1889) si sposa, per riparazione, con una nobildonna dalla qua-le ha tre figli. Si trasferisce in seguito a Napoli dove collabora a giornali e rivi-ste e, ispirato dalla lettura di Dostoievskij, scrive Gio-vanni Episcopo (1891). Con un’altra nobildonna, a cui dedica L’innocente (1892), ha altri due figli. Nel 1892 gli muore il padre ed egli torna negli Abruzzi dove la natura lo riconforta. Scrive il trionfo della morte (1894) e La vergine delle rocce

(l895). Visita la Grecia e nel 1896 conosce, a Vene-zia, l’artista Eleonora Duse con la quale ha un lungo rapporto sentimentale e a cui dedica Il fuoco (1900). É lei che gl’ispira La città morta (1899) , La Gioconda (idem) e Francesca da Rimi-ni (1901). Sempre nel 1900 si presenta come candidato socialista a Firenze, ma non è eletto. Scrive La gloria che prevede, in un certo senso, l’avvento di Mussolini.

Finito il rapporto con la Duse, dal 1910 al 1915, d’Annunzio, perseguitato dai creditori, vive in Francia dove conosce Anatole France, Claude Debussy, Ida Rubin-stein e André Gide che, nel suo diario lo descrive cosi:

“Il s´informe des Français, parle de Régnier, de Paul Adam – et comme je lui dis, en riant: ‘Mais vous avez tout lu!’ – Tout – repond-il avec une grande grâce (...) – nous lisons tout dans l’espoir qui renaît toujours de trouver en-fin le chef-d’oeuvre que tous nous attendons tellement...”

Di ritorno in patria, dopo l’inizio della prima guerra mondiale, fa infuocati di-scorsi interventisti, contro l’Austria e la Germania. Gli eventi precipitano. Si presenta come volontario. Diventa pilota, perde un occhio urtando contro una mitragliatrice in aeropla-

no. Nel 1918 partecipa alla “Beffa di Buccari” per alle-viare l’animo degli italiani, abbattuto dopo il disastro di Caporetto (1917), la prima grande sconfitta degli allea-ti sul fronte italiano. Sempre nel 1918, come comandan-te di una squadra di nove aeroplani militari, lancia volantini su Vienna. Desi-derando che l’Italia assuma il controllo della città di Fiume, proposto durante la conferenza di pace di Parigi nel 1919, capeggia lui stes-so un’armata nazionalista volontaria di duemila uomi-ni e assedia la città, obbli-gando alla ritirata le forze occupanti americane, fran-cesi, inglesi. Dichiara Fiu-me uno stato indipendente (Reggenza Italiana del Car-naro), sotto il suo comando. Durante un anno intero ten-tò di stabilire alleanze con i gruppi separatisti dei Bal-cani e scrisse con il gram-sciano Alceste d’Ambris la Costituzione che stabiliva uno stato corporativista, composto da nove corpora-zioni che rappresentavano i diversi settori dell’ econo-mia (e una decima corpora-zione che rappresentava gli “esseri umani superiori” os-

sia, gli eroi, i poeti, i profeti e i musicisti...)

Questo tipo di governo e i metodi usati interesseranno molto a Mussolini che li intro-durrà nello stato fascista, as-sieme ai grandi rituali nazio-nalisti e una forte repressione contro ogni dissidenza.

Dopo il trattato di Rapallo con la Jugoslavia, nel 1920, il governo italiano decise per la resa dei volontari e Giolitti, il primo ministro, ordinò che si bombardasse il palazzo dove si trovava d’Annunzio, che consegnò la città, senza resistere.

Nel 1924, durante il Fasci-smo ma non per molto, Fiume tornò ad essere italiana.

Dopo l’episodio di Fiume d’Annunzio si ritirò in una villa sul lago di Garda (Il Vit-toriale) che sarebbe ritornata allo Stato dopo la sua morte (1938), e si dedicò a scrivere e a dirigere la Reale Accade-mia Italiana. Non si coinvol-se con il regime fascista, ma resta vivo il suo appoggio alla politica espansionista di Mussolini.

Letterariamente rappre-sentò il punto alto della cor-rente che in Italia si chiamò “Decadentismo”. Fu deci-samente un grande nome della letteratura italiana, con alcuni capolavori (cita-ti) e conobbe alti e bassi nel giudizio della critica. Per esempio, questo è il verdet-to, forse datato, di Benedetto Croce: “D’Annunzio è insu-perabile quando descrive una sensazione, un’impres-sione visiva, quando capta la più lieve sfumatura di un sentimento, ma tutto questo senza che si noti un impe-gno, un coinvolgimento del poeta capace di andar più in là della sua epidermide...” ( in Intervento n.85, 1988).

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Note sui primi scritti di Gabriele D’Annunzio

Rafael Zamperetti Copetti

Già all’inizio del saggio scritto a titolo di intro-duzione per uno dei

volumi di versi dannunziani della collana I Meridiani del-la Mondadori, intitolato Versi d’amore e di gloria (l’ultima edizione è del 2006), il criti-co Luciano Anceschi avverte che se veramente vogliamo affrontare la scrittura di D’An-nunzio non dobbiamo legger-la in moto unilineare. Anzi, dobbiamo coglierla in tutta la sua interezza; la sua scrittura, dice, “incomincia a rivelare qualche ragione del suo es-serci nel rilievo di un ritmo”.

Gabriele d’Annunzio nac-que a Pescara il 12 marzo 1863 e morì a Gardone il 1° marzo 1938. Primo figlio ma-schio di una modesta famiglia abruzzese, viene adottato dal-lo zio Antonio D’Annunzio, il cui cognome eleggerà per accompagnarlo lungo tutto il suo percorso. In seguito alla morte dello zio, la sua fami-glia erediterà una certa quan-tità di terra e anche un’im-portante somma pecuniaria, proprietà che durante gli anni successivi verranno sperpera-te dal padre Francesco Paolo. Tanto che in diverse occasioni

il poeta sarà costretto ad aiu-tare la famiglia, anche se lui stesso aveva costantemente gravissimi problemi per quan-to riguarda debiti con editori e amici.

Il giovane trascorre la sua infanzia tra Villa del Fuoco, una proprietà della sua fami-glia, e Pescara, dove compie i primi studi. Il percorso for-mativo del poeta continuerà presso il Reale Collegio Ci-cognini di Prato. È in questo periodo che il ragazzo verrà sottratto “da un ambiente intellettualmente arretrato e chiuso”, fatto che “gli permet-te di venire in contatto con i rampolli della migliore bor-ghesia italiana e, soprattutto,

di creare un notevole baga-glio culturale”, scrive Egea Roncoroni in una cronologia dannunziana curata dalla casa editrice Mondadori. È durante questo periodo che avviene il suo esordio come autore di poesie.

Nel 1879 viene pubbli-cato, a spese del genitore, l’ode All’Augusto sovrano d’Italia Umberto I di Savoia. Forse è possibile affermare che il titolo di quest’opera giovanile di d’Annunzio sia già un’indicazione di alcune ricorrenze o, se si preferi-sce, di qualche tendenza al preziosismo che in un certo senso caratterizzerà la sua produzione letteraria.

Nello stesso anno esce sempre a spese del genitore una raccolta di versi intitolata Primo vere, ispirata alle Odi barbare di Giosuè Carducci. Compongono quest’opera anche alcuni esercizi di tra-duzione di autori classici, tra cui Orazio e Tibullo. Inizial-mente, D’Annunzio li racco-glie sotto il titolo Imitazioni, e poi Tradimenti.

Anche se un poco astratti e con una pronuncia lieve-mente forzata, scrive Ance-schi, questi primi esercizi di traduzioni di D’Annunzio contengono “qualche origina-rio segreto di una officina che non ha mancato mai di dare a se stessa un alto prestigio, ma anche qualche piccola aper-tura per trovare alcuni aspetti determinabili di un enigma la cui intenzione verso il sor-prendente è una maschera tutt’altro che leggera”.

Diversi critici e storici del-la letteratura italiana suggeri-scono che il D’Annnuzio sia lo scrittore più noto e magari più letto della generazione postcarducciana. Sapegno, per esempio, attribuisce que-

sta notorietà anche alle vicen-de della vita che il poeta vor-rebbe ricinte di un fascino di leggenda. In tutti i modi, Pri-mo vere sarebbe l’opera che lo avrebbe messo in evidenza come la grande promessa del-la letteratura italiana, grazie anche alla pubblicità avvenu-ta con la positiva recensione del carducciano Giuseppe Chiarini pubblicata sulle pa-gine del giornale romano Fan-fulla della domenica.

Primo vere sarà ripubbli-cato con modifiche significa-tive già nel 1880. Un curioso espediente pubblicitario, al quale il poeta ricorre in oc-casione dell’uscita della sua seconda edizione, sembra caratteristico della sua futura personalità, secondo quanto scrive Roncoroni. D’Annun-zio crea una notizia basata sulla simulazione della sua morte, in modo che, insieme alla smentita dell’accaduto, possa inviare ai giornali l’an-nuncio della pubblicazione della seconda edizione del volume in questione.

Anceschi, in un commen-to contrastivo tra le poesie Praeludiun della prima edi-zione di 1879 di Primo vere e Preludio che l’ha sostituito nel volume del 1880 e nelle edizioni susseguenti – questi ultimi secondo quanto scri-ve avrebbero condannato la poesia del 1879 ad esse-re aggiunte tra le sue poesie rifiutate –, oltre a mettere in evidenza l’importanza che il termine preludio assume nell’opera di D’Annunzio, ci spiega che “tra le due com-posizioni c’è forse un tempo di lavoro poetico molto più intenso di quanto sembrereb-be possibile nel breve tratto di tempo che si pone tra loro”. Il critico evidenzia che questo frattempo è un periodo nel

quale “ci dovette essere un grandissimo, forsennato lavo-ro del poeta su se stesso, non senza [...] dubbi, esitazioni, disperazioni, e un divorante uso della biblioteca universa-le della poesia”.

Quel che veramente im-porta in questo discorso dell’Anceschi si riferisce al fatto che egli non ritiene che queste osservazioni riguardi-no una questione di qualità ma, invece, che concernano una possibile relazione con un certo “ritrovo di certe gestazioni, certi movimen-ti embrionali, qualche cosa di vivo e di immaturo”. In questo senso, l’Anceschi in-dividua in questi “preludi” giovanili del poeta abruzze-se versi come “Scossa da’l vento molle la selva d’ tigli frondosa / dolce sussurra ...” e anche giochi verbali come “Io son l’idalia Diva...”.

A partire da questo punto di vista, anche se ci sono pun-ti di contatto tra Primo vere e le sopramenzionate Odi bar-bare, le quali, come Sapegno avverte, sono al vertice della parabola poetica del Carduc-ci, le critiche dirette a queste ultime non sono ovviamente del tutto applicabili all’ope-ra dannunziana. Frattanto, le opinioni dell’Anceschi e del Sapegno sulle Odi sembrano in un certo senso coincidenti.

Sapegno osserva che in grande parte delle Odi bar-bare (1877-1889), e in spe-ciale in un’altra sua opera intitolata Rime e ritmi (1898), il linguaggio carducciano, li-berandosi della forza inconte-nibile e dell’energia dei tempi più fertili, si fa “liscio, prezio-so e decorativo”, e di conse-guenza tende all’astratto e al generico. Insomma, quel che sopravvive è una letteratura maturata fino all’estrema raf-

finatezza, nella quale l’artista vince il poeta.

Per quanto riguarda i versi del Preludio, Anceschi stabi-lisce una differenza fonda-mentale in opposizione alla scrittura carducciana: il me-tro, dice, “sarà, sì, nei suoi numeri esterni, e sia pure li-beramente, d’estrazione car-ducciana, la lingua veramen-te non lo è più. E veramente sembra che non basti più, a questo punto, osservare che il verso carducciano s’inquieta, si fa sensibile a nuove emo-zioni, s’impreziosisce”. La parola di D’Annunzio, invece “è inquieta sotto uno schema rigido, e il sistema verbale gioca su due registri: può a tutta prima apparire ortodosso mentre poi più profondamen-te si rivela inquieto, scosso, in movimento, e rispetto ai mo-delli immediati, mostra nuovi riferenti di cultura. E l’ordine delle connotazioni, delle al-lusioni, e il colore dei suoni si van facendo diversi”.

Un altro aspetto importan-te, sorto dal confronto fra il te-sto del 1879 e quello del 1880 e che è sottolineato da Ance-schi – considerando anche l’insieme della seconda edi-zione di Primo vere – riguar-da gli sviluppi sorti a partire dalla pratica del fare letterario, i quali avrebbero, sempre se-condo l’opinione del saggista, qualche relazione con la ca-ratterizzazione di una identità letteraria che metterebbe in evidenza il “lento affinarsi del-la interna coscienza critica”. In questo senso, Primo vere po-trebbe essere percepito come una forma di apprendimento, nel senso che “l’apprendista aveva intravisto molte formule segrete del mago che divente-rà poi senza conoscerne an-cora la forza e le possibilità” della sua opera.

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Gabriele D’Annunzio e la vita nell’arte

Adriana Iozzi-Klein

Gabriele D’Annunzio, complessa figura di po-eta, romanziere e uomo

d’azione, è stato protagoni-sta e interprete tempestivo, instancabile, del clima di fine secolo XIX in Italia. Su-bito applaudito dal pubblico e dalla critica, D’Annunzio si cimentò in vari generi let-terari: fu poeta, giornalista, tragediografo e romanziere di successo. Nei suoi libri, insieme con il disprezzo del-la vita banale giornaliera, si presentano con spregiudica-tezza senza precedenti la pre-dicazione del piacere e della gioia, la celebrazione dell’im-maturità e del dilettantismo, che dissolve l’unità della co-scienza borghese in una sorta di “collezione” di frammenti di vita esaltanti ed effimeri, in chiara opposizione agli stere-otipi sentimentali e etici della cultura ottocentesca.

La sua attività letteraria si intrecciò sempre a uno stile di vita che impose come modello dapprima nei salotti borghesi dell’epoca e, successivamen-te, a livello anche politico e nazionale. Tra viaggi, duelli, amori, fughe, incursioni aeree e sottomarine divenne il vate ufficiale e l’emblema della Italia umbertina e fascista. Ec-centrico scrittore, abile poeta, eroe e “cialtrone”, nel giudi-zio di tanti, D’Annunzio è una figura problematica che mette ancora oggi alla prova lettori e critici di tutte le parti.

In ogni caso a lui va ri-conosciuto senza dubbio un ruolo fondante nel processo di rinnovamento della cultu-ra e della letteratura italiana del Novecento e va ammira-ta la sua autentica esperien-za vitale costruita fra parola e azione, fantasia e politica. Seppure in via polemica e per antitesi, con D’Annunzio sentiranno di doversi con-frontare quasi tutti i poeti e scrittori della generazione successiva.

Nato a Pescara nel 1863, in una famiglia borghese, mo-strò precoce indole letteraria, pubblicando il suo primo libro di poesie (Primo vere) all’età di sedici anni. Trascor-se gli anni formativi, dal ’74 all’81, al Collegio Cicognini di Prato. Trasferitosi a Roma per frequentare la Facoltà di lettere, senza mai conclude-re gli studi, D’Annunzio si

lasciò ben presto attrarre dai circoli mondani della capita-le e, grazie anche alla attivi-tà giornalistica, si introdusse negli ambienti più aristocrati-ci ed esclusivi.

Le sue prime prose si-gnificative sono narrative di cornice verista, pubblicate sotto il titolo di Novelle del-la Pescara (raccolte più tardi, nel 1902), ambientate in un Abruzzo arcaico e carico di umori sensuali, che danno inizio a un periodo detto il “periodo romano”, denso di interessi mondani e cultura-li. In questi anni D’Annunzio ebbe amori tanto travolgenti quanto effimeri; tentò l’av-ventura politica, ottenendo l’elezione al Parlamento e scrisse moltissimo sia in pro-sa che in poesia. Nel 1882, appena diciannovenne, ave-va pubblicato il secondo li-bro di versi (Canto Novo) e i racconti Terra vergine, che lo avevano fatto conoscere dal vasto pubblico.

Il matrimonio con la du-chessa Maria Hardouin di Gallese e la frequentazione della Roma mondana ne fece-ro un intellettuale e un uomo ricercato e ammirato. La fama piena gli giunse con la pub-blicazione del romanzo Il piacere (1889), considerato la testimonianza più cospicua dell’estetismo italiano.

Per sfuggire ai creditori che lo incalzavano, si trasferì a Napoli nel 1891 e iniziò a

lavorare come collaboratore al “Corriere di Napoli”. In quegli anni pubblicò la no-vella lunga Giovanni Episco-po (1891), il romanzo L’inno-cente (1892), la raccolta di liriche Elegie romane (1892), le liriche del Poema paradi-siaco (1893) e il romanzo Trionfo della morte (1894).

Alla fine del secolo D’An-nunzio si stabilì a Settignano in Toscana, nella villa della Capponcina, dove condusse una vita di lusso e raffinatez-za incarnando l’ideale uma-no dell’esteta che tanta parte ha nella cultura decadente. Lì scrisse l’opera teatrale La Gio-conda, che ottenne notevole successo, e nel 1900 il suo romanzo Il fuoco, che fece scandalo per le rivelazioni sugli amori con l’attrice Eleo-nora Duse. Nel 1903 pubbli-cò tre libri delle Laudi: Maia, Elettra e Alcyone, considerati l’espressione più matura e autentica della sua vena po-etica. Produsse ancora varie opere teatrali, tra le quali La figlia di Jorio (1904), La fiac-cola sotto il moggio (1905) e La nave (1908). Nel 1910, anno della pubblicazione del romanzo Forse che si forse che no, fu costretto a fuggi-re in Francia (in “volontario esilio” come disse lui stesso con sconfinata impudenza), a causa dei debiti risultanti dalla sua vita dispendiosa.

Ritornò in Italia nel 1915 e partecipò attivamente alla propaganda interventista. Costretto all’immobilità per un certo periodo, a causa di un incidente occorsogli du-rante una battaglia in cui ave-va perso un occhio, scrisse il Notturno, una serie di prose intimistiche ritenute tra i suoi scritti più sinceri e intensi. Nel settembre del 1919, a capo di volontari e di forze

regolari, e in opposizione al governo italiano occupò mi-litarmente la città di Fiume, abbandonata di fronte all’in-tervento dell’esercito italiano nel dicembre del 1920.

Dopo questo episodio, D’Annunzio si stabilì sul Lago di Garda, a Gardone Riviera, in una magnifica vil-la-museo, da lui denominata il “Vittoriale degli Italiani”, dove trascorse gli ultimi anni in un isolamento splendido, concentrato a raccogliere oggetti e immagini legati alla propria vita e alla propria sensibilità, fino alla morte che lo raggiunse nel 1938. A quest’ultimo periodo risale il Libro segreto, che insieme al Notturno oggi gode di molta attenzione da parte della cri-tica italiana.

La personalità di D’An-nunzio evade talmente dai limiti della letteratura che è difficile separare il giudizio sull’uomo da quello sullo scrittore. Ad una notorietà sconfinata, a un prestigio im-menso, ad una sorta di culto nazionale finché era in vita, tanto da farlo divenire poeta-

vate, hanno fatto rapidamen-te seguito, specie dopo la fine del fascismo, un’ostilità, un disprezzo, un’irrisione, altrettanto generalizzati. Per limitarci al piano strettamen-te letterario, e per tracciare le fasi salienti della sua fortuna critica, è necessario partire dalla posizione di Benedetto Croce, che, pur riconoscen-do le straordinarie doti del-la sua scrittura, ne stronca l’estetismo definendolo pa-tologico, pericoloso, immo-rale, nonché artisticamente discutibile. Negli anni del secondo dopoguerra pesano su D’Annunzio, in modo più o meno consapevoli, giudi-zi di valore sulle sue scelte ideologiche. Si deve prima a Walter Binni, che allarga la prospettiva dello studio dell’opera di D’Annunzio collocandola in relazione con il movimento interna-zionale del Decadentismo, e dopo a Petronio e Carlo Sa-linari la ripresa di un’anali-si critica più equilibrata che prova ad inquadrare stori-camente la varietà di motivi ispiratori della sua opera. In

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un momento posteriore, l’at-tenzione della critica è indi-rizzata all’indagine dei le-gami della produzione dan-nunziana con il simbolismo francese e alla messa in luce dello spessore espressivo e fonosimbolico della sua poe-sia e dei valori strutturali dei suoi romanzi. Negli ultimi decenni si è fatta largo una sorta di rilettura di D’Annun-zio come anticipatore di una poetica di tipo postmoderno, tanto per la riutilizazzione costitutiva di materiali e stili della tradizione, quanto per la riduzione della storia a dato prevalentemente miti-co-estetico.

D’Annunzio, tuttavia, rap-presenta nel panorama della letteratura italiana forse l’au-tore più “internazionale”, l’uomo italiano più vicino alla cultura europea del suo tempo; e non perché si ispi-rasse alle pose e ai lavori degli autori stranieri in voga all’epoca, dal decadente vi-vere dei simbolisti francesi alla cupa introspezione psi-cologica dei russi, passando per i crudi realismi alla Zola. Egli, ridimensionando il rap-porto artista-società e speri-mentando soluzioni formali di eccezionale ampiezza, ha saputo trasmettere ai suoi lettori di ogni epoca quella voracità con cui assorbiva la vita e di cui riempiva invaria-bilmente le sue opere.

Sensibile assimilatore del-le trasformazioni culturali della sua epoca, D’Annunzio è stato capace fino alla fine di fiutare le mode letterarie e i gusti del grande pubblico e di creare di sè un’immagine di poeta-eroe – fatta di ma-schere, di rituali, di artifici, a cominciare ovviamente da quelli verbali – in consonanza con l’immaginario collettivo

di una nuova massa desidero-sa di nuovi miti. Infatti sulle sue pagine intere generazio-ni di rampolli della piccola borghesia hanno potuto rea-lizzare i suoi lussuriosi sogni proibiti e imbottirsi di velleità guerresche e imperialistiche.

Già nel Piacere, suo pri-mo romanzo, è possibile rin-tracciare gli interessi lettera-ri ed estetici che saranno ca-ratteristici di gran parte della letteratura dannunziana. Ap-pare già ben riconoscibile la volontà di creare una figura maschile protagonista che ricalchi da vicino le aspira-zioni, i sogni e le tendenze del D’Annunzio uomo. In effetti, l’interesse fondamen-tale non sembra quello di realizzare una storia d’amo-re nel tipico intreccio a tre, né di creare figure femminili autenticamente originali ma piuttosto quello di offrire il ritratto più vivido e inten-so possibile di un giovane aristocratico, di uno spirito eletto, di sublime sensibilità in grado di proporre una vi-sione assolutamente nuova e diversa della vita.

Questo super-uomo dan-nunziano trascorre la propria esistenza nel rispetto di leggi personali di carattere este-tizzante, quali il culto della bellezza, insieme a una con-cezione elitaria e raffinata della vita, vissuta come vera costruzione artistica: “biso-gna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte”, sarà la massima di Andrea Sperelli, protagonista del romanzo.

Influenzato dal pensiero di Nietzsche, che interpreta però in modo molto libero, D’Annunzio crea e interpreta lui stesso un modello uma-no, caratterizzato da energia vitale e accesa sensualità, dal culto della forza e dalla

ricerca di sensazioni violen-te come nei protagonisti de L’innocente (1892), Il trionfo della morte (1894) e Le vergi-ni delle rocce (1895).

Uno dei risultati più im-pressionanti dell’apparizione di D’Annunzio nel mondo letterario, che Il piacere ave-va reso travolgente, fu la cre-azione di un vero e proprio “pubblico dannunziano” condizionato non tanto dai contenuti quanto dalla for-ma divistica che lo scrittore aveva costruito attorno alla propria immagine. Egli aveva inventato uno stile immagi-noso e appariscente di vita da “grande divo”, con cui nutriva il bisogno di sogni, di misteri, di “vivere un’altra vita”, di oggetti e comporta-menti-culto che stava conno-tando in Italia la nuova cultu-ra di massa.

Innalzata a valore uni-co (“il verso è tutto”, sarà il concetto-base che regge la vicenda de Il piacere), l’arte, al di là dell’etica e della sto-ria, è forzata continuamente a superare se stessa e a tra-sformarsi in azione, secon-do quello che D’Annunzio chiamerà “l’intimo connubio dell’arte con la vita”.

Ma, è importante ricorda-re, si tratta innanzi tutto di una coerente concezione estetica. Anche in politica, più che a ideali precisi, D’Annunzio si rifà al suo gusto estetico. Elet-to deputato nell’estrema de-stra, passerà clamorosamente all’estrema sinistra con le pa-role: “Come uomo d’intellet-to, vado verso la vita”. Per lui quello che conta è sopratutto il bel gesto. Da ciò si spiegano forse le posizioni contrastanti che nella ricezione dell’ope-ra di D’Annunzio oscillano fra l’amore incondizionato e l’odio assoluto.

Un granello d’incenso sotto il naso di d’Annunzio

Raffaella Castagnola

Potrebbe anche sembra-re una delle tante lette-re alle amiche, muse a

amanti, con le quali Gabriele d’Annunzio si intrattenne nel corso della sua intensa vita sentimentale e pubblica. Ma il documento, recentemente apparso sul mercato dell’an-tiquariato1 e acquistato da un collezionista che genero-samente ci consente subito di renderlo pubblico, è uno di quelli che non passano inosservati. Il suo contenuto intimo e segreto è una confes-sione del poeta sulla propria produzione in versi, confron-tata coi modelli della tradi-zione letteraria italiana; è, nel contempo, una riflessione sul lavoro di alcuni critici e su quello dei suoi traduttori; è, infine, un’autocelebrazione. Ma è anche, per noi lettori, un’occasione rara per adden-trarci nel laboratorio della scrittura dannunziana.

La lettera del 10 marzo 1913, priva di busta ma in-viata da Arcachon, è dedicata ad una “cara cara amica”, che non viene mai nominata, ma che si può facilmente identifi-care con Elena Goldschmidt-

Franchetti, nata a Firenze nel 1870 e morta in Francia, a Montmorillon vicino a Poi-tiers nel 1948, sposata in prime nozze con Guillaume Beer e in seconde nozze con Alfred Droin2. Quando si oc-cupava di letteratura – come autrice e come critico – usava lo pseudonimo di Jean Dornis e con tale nome è conosciu-ta soprattutto per i numerosi saggi sulla letteratura contem-poranea3, apparsi in volume e sulle più prestigiose riviste letterarie parigine, e per le monografie dedicate all’ami-co Leconte de Lisle4. Accan-to alla produzione critica c’è

quella creativa, con romanzi e novelle, pubblicati da edi-tori parigini5. A lei si risale proprio in virtù dell’allusione ad un suo lavoro su Leconte de Lisle, autore di quei Poè-mes barbares citati da d’An-nunzio all’inizio della lettera: il poeta si riferiva con tutta probabilità all’ultimo saggio Sur Leconte de Lisle, appena terminato e che sarebbe usci-to di lì a poco, nel giugno del 1913 su “La Vie”6. Ma le letture che accomunano i due amici7 sono anche altre e ri-guardano lo stesso d’Annun-zio, tradotto in Francia da Ge-orges Hérelle. L’anno prima, infatti, erano apparse le Poé-sies 1878-1893, per l’editore Calmann Lévy di Parigi8. E questo lavoro - come gli altri di Hérelle, per lungo tempo traduttore dell’opera dannun-ziana - aveva suscitato l’in-teresse della critica francese verso un autore italiano, che, per necessità, aveva scelto il “volontario esilio” dall’Italia e si era pertanto adoperato ad inserirsi nel mondo culturale della capitale.

In Francia d’Annunzio era giunto per sfuggire ai debiti e ai creditori della Capponcina; lì si era ricostituito, tra Parigi e la Landa di Arcachon, una vita da Principe del Rinasci-mento. Alcuni salotti buo-ni dell’aristocrazia parigina gli erano stati aperti. Ma era anche riuscito ad entrare nei teatri più prestigiosi e ad atti-rare l’attenzione della stampa quotidiana e periodica, anche se non sempre le sue pièces avevano ottenuto gli auspicati favori del pubblico. Certo a lui si avvicinarono in molti – intellettuali e artisti, scrittori e critici – come documenta l’ampio epistolario di quel periodo e come testimonia anche la consistenze produ-

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zione critica su d’Annunzio, vivente l’autore, da parte del-la critica francese. Jean Dornis fu uno di questi. Alcuni anni dopo questa lettera, nel 1925, uscirà la monografia Essai sur Gabriele d’Annunzio, edita a Parigi da Perrin, di cui si con-serva ancora oggi al Vittoriale un esemplare con dedica al poeta da parte dell’autore9. Ma già prima di quella pub-blicazione l’attenzione di Dornis si era concentrata sul-la letteratura italiana contem-poranea, con tre volumi, sul-la poesia, sul romanzo e sul teatro10. D’Annunzio capisce l’importanza di questi lavori, che ampliano le conoscenze della letteratura italiana in Francia, e dedica dunque par-ticolare attenzione alle letture e alle indagini esegetiche del-la sua amica. Segnala perciò le linee direttive di una nuo-va ricerca e di una riflessione che possano orientarsi oltre la solita “leggerezza frettolosa”, oltre le superficialità delle fa-cili etichette, come quella del “virtuoso” suonatore di flauto. Spiega allora il suo percorso di poeta e delinea il disegno complessivo delle Laudi: “Ma l’unità della mia opera è di-mostrata da questo: che nel-le Laudi si sviluppano tutti i germi già esistenti nel Canto novo e l’ebrezza pánica, che agita quel poema di un adole-scente, si allarga e si solleva smisuratamente nel libro di Alcione e nella Laus Vitae”.

Traccia a grandi linee lo sviluppo dei temi, panici e tragici: “Un’altra osserva-zione opportuna è quella su l’elemento tragico che invade le due raccolte, in ispecie, delle Elegie Romane e del Po-ema Paradisiaco”.

Riflette poi sull’esercizio della traduzione, che purtrop-po non rende il ritmo e la me-

lodia, né esplicita l’attento la-voro metrico e formale: “Que-ste Poesie tradotte non sono se non miseri scheletri. La virtù delle parole originali è intera-mente perduta, ed è perduta la melodia. Sono indicati, a capo di ciascuna, i metri; ma l’indicazione è muta”.

Indugia allora molto pro-prio su questo punto: sulla sua personale ricerca formale e musicale, inizialmente ispi-rata ai classici della letteratu-ra italiana, da Dante a Polizia-no e a Lorenzo il Magnifico, ma poi sempre di più libera dai primi modelli, fino alla conquista dell’invenzione di nuovi ritmi e metri, fino alla realizzazione di una propria forma originale e inimitabi-le: “Come nel Canto novo ho trattato con la più rigorosa di-sciplina i metri oraziani, così nell’Isotteo ho rinnovellato tutti i nostri metri tradizionali, dall’Alighieri al Poliziano, dal Petrarca a Lorenzo il Magni-fico; per giungere finalmente nelle Laudi a inventare i miei metri, con lo stesso procedi-mento musicale di Pindaro. Ogni ode è una invenzione totale, inimitabile”.

D’Annunzio – ormai alle soglie dei cinquant’anni – è consapevole di essere già, a sua volta, un modello per i suoi contemporanei. Sa che questo suo lavoro di lima, a tavolino, ben si accompagna all’abbondanza dell’ispira-zione: la spontaneità convive magicamente con la sapien-za, l’impeto con la misura: “[…] Queste osservazioni su la mia prosodia gioveranno a dichiarare da qual freno d’arte siano contenute quella violenza e quell’abbondan-za d’inspirazione che - nella traduzione -possono far cre-dere a non so che disordine o sprezzatura. La spontaneità

e la sapienza, l’impeto e la misura: cose che sembrano inconciliabili e che più l’una volta ho conciliate”.

Non si sente però sempre capito fino in fondo dai suoi lettori e dai suoi critici. Si sente perciò autorizzato ad autocelebrarsi, dichiarando, senza alcun velo di reticenza o di modestia, che “poiché nessuno sa lodarmi come io vorrei e dovrei essere lodato, bisogna che di tratto in trat-to bruci io stesso un granello d’incenso sotto il mio naso delicato!”.

Un’altra curiosità riguarda la citazione nella lettera di un autore, che d’Annunzio defi-nisce come suo “avversario”, anche se stima per i giudizi acuti e pertinenti. Si tratta di Antonio Bruers, che aveva appena pubblicato, nel 1912, un lavoro su Giosue Carducci, Gabriele D’Annunzio e la futu-ra poesia11. D’Annunzio spe-disce il volumetto12 all’amica, come per invitarla a seguire le tracce di quella linea di inda-gine e di ricerca sulle forme poetiche e sui ritmi, che muo-vono da Carducci per arrivare ai contemporanei.

Ciò che qui fa riflettere è proprio quel termine di “av-versario”: perché Bruers, che qui appare come uno dei tan-ti attenti e severi critici delle forme poetiche contempora-nee, diventerà negli anni del tramonto del Vate, quelli del Vittoriale, uno dei più vali-di sostenitori e collaboratori di d’Annunzio. Sarà infatti lui l’uomo che, nell’ultima dimora di Gardone, aiuterà il vecchio poeta nell’ardua sistemazione dell’immenso archivio e della biblioteca, nella classificazione degli autografi e delle bozze con correzioni, degli appunti, e dell’enorme epistolario13.

Mia cara cara amica,so che avete finito il gran lavoro sul poeta dei Poèmes barbares, e lo attendo con molto desiderio.Fui a Parigi per due o tre giorni. Assistetti alla corsa di una mia levriera, e ripartii subito. Ma tornerò

entro questo mese, e la mia prima visita sarà per voi. Non ho dimenticato l’ultima, che fu tanto dolce.A proposito del volume di Poesie tradotto da G. Hérelle, prima di tutto è necessario stabilire che

si tratta della mia opera poetica giovanile, dal 1878 al 1893, cioè dai miei anni di collegio all’anno del Trionfo della morte.

Dico questo perché alcuni critici, con la solita leggerezza frettolosa, hanno mostrato di credere che si trattasse di un florilegio della intera mia opera poetica. La quale, in verità, non ha la sua fioritura suprema se non nelle Laudi, nei quattro volumi delle Laudi, a cui spero di potere aggiungere gli ultimi tre, col favore delle Pleiadi.

Ma l’unità della mia opera è dimostrata da questo: che nelle Laudi si sviluppano tutti i germi già esistenti nel Canto novo e l’ebrezza pánica, che agita quel poema di un adolescente, si allarga e si sol-leva smisuratamente nel libro di Alcione e nella Laus Vitae.

Un’altra osservazione opportuna è quella su l’elemento tragico che invade le due raccolte, in ispecie, delle Elegie Romane e del Poema Paradisiaco. Ho visto che questa tragicità ha colpito anche un critico superficiale il quale parla di << une sorte d’inspiration shakespearienne >>. Il dolorosissimo Poema Paradisiaco appartiene appunto a quel periodo atroce delle mia vita ond’escì Il Trionfo della morte.

Vi mando un piccolo libro di un ignoto che si chiama Antonio Bruers - ed è un mio avversario -; ove sono alcune pagine tra le più profonde che sono state scritte sulla mia opera nazionale. Per molti, in Francia, io non sono se non un “virtuoso”, un seducente sonatore di flauto. È tempo di rivelare le corren-ti spirituali che attraversano la massa delle mie rappresentazioni. Se avete tempo leggete questo libro di buona fede. È la prima volta che un avversario mi rende giustizia e parla di me come si deve parlare d’un artista che per trent’anni ha dato l’esempio del più duro sforzo e della più costante aspirazione.

Queste Poesie tradotte non sono se non miseri scheletri. La virtù delle parole originali è interamen-te perduta, ed è perduta la melodia. Sono indicati, a capo di ciascuna, i metri; ma l’indicazione è muta.

Converrà dir qualche parola della severità delle mie ricerche formali e musicali. Come nel Canto novo ho trattato con la più rigorosa disciplina i metri oraziani, così nell’Isotteo ho rinnovellato tutti i nostri metri tradizionali, dall’Alighieri al Poliziano, dal Petrarca a Lorenzo il Magnifico; per giungere finalmente nelle Laudi a inventare i miei metri, con lo stesso procedimento musicale di Pindaro. Ogni ode è una invenzione totale, inimitabile.

A questo proposito, vi mando un esemplare del Più che l’amore, nella cui prefazione troverete una pagina curiosa.

Queste osservazioni su la mia prosodia gioveranno a dichiarare da qual freno d’arte siano contenu-te quella violenza e quell’abbondanza d’inspirazione che - nella traduzione -possono far credere a non so che disordine o sprezzatura. La spontaneità e la sapienza, l’impeto e la misura: cose che sembrano inconciliabili e che più l’una volta ho conciliate.

Cara amica, poiché nessuno sa lodarmi come io vorrei e dovrei essere lodato, bisogna che di tratto in tratto bruci io stesso un granello d’incenso sotto il mio naso delicato!!!

Per le Canzoni di gesta vi mando due buoni articoli; e vorrei mandarvi una Illustrazione ove sono stampate alcune lettere commoventi di eroi, degli eroi da me celebrati; ma non ritrovo il fascicolo.

Scrivo in gran fretta. Non rileggo la lettera , che dev’essere molto confusa. Grazie della costante bontà che voi avete per me, cara e grande sorella. Vi bacio le mani con profonda

tenerezza.Gabriele d’Annunzio

Arcachon10 marzo 1913

Documenti

1) Lettera autografa, di tredici carte, senza busta, su carta con motto “Per non dormire”. Datata “Arcachon 10 marzo 1913”.

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1 - Compare nell’ultimo cata-logo della Libreria Antiquaria Freddi di Torino.2 - Che sia Jean Dornis, pseu-donimo di Elena Goldschmidt, lo si deduce dall’allusione, pro-prio all’inizio della lettera, ad un suo recente lavoro su Charles-Marie Leconte de Lisle, autore dei citati Poèmes barbares. Fu inizialmente incoraggiata da Leconte de Lisle a pubblicare i suoi primi romanzi e raccolte di novelle. Si dedicò poi alla critica letteraria, adoperandosi per far conoscere in Francia la letteratura italiana contempo-ranea. Scrisse anche numerosi saggi su scrittori francesi, con particolare attenzione a Le-conte de Lisle. Su Jean Dornis si veda la succinta voce, a cura di L. Martal, nel Dictionnaire de Bibliographie Française, Paris, Librairie Letouzey, 1967, tomo XI, p. 610. Per maggiori notizie bibliografiche, cfr. H. Talvart – J. Place, Bibliographie des auteu-rs modernes de langue françai-se (1801-1927), vol. IV, Paris, Ed. de la Cronique des Lettres Française, 1933, pp. 293-295.3 - Fra i volumi cfr. La sensibilité dans la poésie française (1885-1912), Paris, Fayard, s.d. (una copia al Vittoriale, Monco VIII).4 - Tra i numerosi saggi si citano

quelli in volume: Leconte de Lisle intime, Paris, Lemerre, 1895 (una copia è conservata al Vittoriale, Monco XLI); Essai sur Leconte de Lisle, Paris, Ollendorff, 1909.5 - J. Dornis, La voie doulou-reuse, Paris, Calmann Lévy, 1894 (una copia è conservata al Vittoriale, Monco X) ; Les frè-res d’élection, Paris, Ollendorff, 1896 (Vittoriale, Labirinto XLIX); a force de vivre, Paris, Ollen-dorff, 1901 (Vittoriale, Labirinto XLIX); Le voile du temple, Paris, Ollendorff, 1906 (una copia con segni di lettura al Vittoriale, Monco XXXV).6 - Nel numero del 28 giungo 1913.7 - Al Vittoriale non esistono do-cumenti epistolari che attestino questa relazione di amicizia e di lavoro (ringrazio per l’infor-mazione Mariangela Calugini, responsabile degli archivi del Vittoriale). Nella collezione privata in cui si trova la lettera qui citata, c’è un secondo do-cumento (qui riprodotto), del 24 ottobre 1918, prima della grande offensiva lanciata dal generale Diaz, che si conclude-rà poi con la battaglia di Vitto-rio Veneto. Nel breve messag-gio “A madame Alfred Droin”, d’Annunzio ricorda il Volo su Vienna, dell’agosto di quell’an-

no. Su queste ultime fasi della guerra e sulla partecipazione di d’Annunzio, cfr. A. Andreo-li, Il vivere inimitabile. Vita di Gabriele d’Annunzio, Milano, Mondadori, 2000, p. 557.8 - G. D’Annunzio, Poésies 1878-1893, traduit de l’italien par G.H., Paris, Calmann Lévy, 1912.9 - J. Dornis, Essai sur Gabriele d’Annunzio, Paris, Perrin, 1925 (esemplare con dedica auto-grafa: Vittoriale, Monco XXIV).10 - J. Dornis, La poésie italien-ne contemporaine, Paris, Ol-lendorff, 1898 (una copia, con dedica autografa a d’Annunzio, è al Vittoriale: Monco XXVI); Le théâtre italien contemporain, Paris, Ollendorff, 1904 (una copia con dedica autografa a d’A. è nella medesima colle-zione privata in cui si trova la lettera qui citata); Le roman italien contemporain, Paris, Ol-lendorff, 1907 (una copia, con dedica autografa a d’Annunzio, al Vittoriale: Monco XXV).11 - A. Bruers, Giosue Carduc-ci, Gabriele D’Annunzio e la futura poesia, Roma, L’idea mo-derna, 1912.12 - È una piccola monografia di 67 pagine.13 - Cfr. A. Andreoli, Il vivere inimitabile. Vita di Gabriele d’Annunzio, cit., p. 627.

Madame Alfred Droinà Paris.Très chère amie,Marie Murat vous apporte, à vous et au noble poète, au poète héros, mes penséesles plus affectueuses, et un signe de mon amitié : le bracelet de Vienna, qui n’estque la reproduction de la plaque fixée à mon moteur fidèle. “Ibis redibis”Notre action commence à minuit. Je baise vos mains et j’embrasse mon camarade,avant la bataille.“Victoire, tu ne seras pas mutilée”.“Vittoria nostra, non sarai mutilata”Tout votre

Gabriele d’Annunzio.Ce 24 octobre 1918

2) Lettera autografa, su carta “Sufficit animus I squadriglia navale”, 1 carta recto e verso, datata 24 ottobre 1918. Busta “Madame Alfred Droin à Paris”, con sigillo “Per non dormire”. Lo sguardo “clinico”:

estetica e impegno nella produzione letteraria

di Ignazio SilonePatricia Peterle

Il libro, come ogni manife-stazione artistica, è gene-rato all’interno di un dato

contesto sociale, politico, economico e culturale, e, in questo senso, può essere vi-sto come parte integrante di una determinata epoca, che a sua volta è raffigurata at-traverso quelle pagine. Tutta-via, l’opera narrativa non ha il dovere di svelare il mondo oggettivamente: questo vi è contenuto in forma molte volte indiretta. La letteratu-ra, come molti hanno già affermato, può rappresentare un invito, allo stesso tempo allegro e doloroso, ad un processo di ricerca, ancor-ché di conoscenza e presa di coscienza. L’intervento nella sfera pubblica è uno dei pos-sibili nodi della trama esi-stente fra scrittura e società e fra scrittore e intellettuale. La testimonianza dell’esperien-za, della storia, della vita di un paese, di una città, di una metropoli, fino ad arrivare ad una nazione, può entrare a far parte della quotidiani-tà. Cioè, può oltrepassare le frontiere del particolare per attingere un piano più globa-le e addirittura universale.

Ignazio Silone, nelle sue prime pubblicazioni, pre-

senta uno sguardo per così dire “clinico”. Uno sguardo, cioè, attento, abile e intuiti-vo che fa parte ed è frutto del suo inserimento nella società italiana sotto il fascismo. La scelta dell’attributo “clinico”, quindi, vuole sottolineare e mettere a fuoco l’esercizio svolto da lui, ma anche da altri scrittori e artisti di lettura e rilettura di questa società e del suo contesto, i cui aspetti vengono recuperati per essere poi rappresentati e riseman-tizzati nelle opere narrative. Un processo intenso, a volte viscerale, che spesso viene accompagnato da un «tono di opposizione», risultato dello schieramento antifascista del-lo scrittore, nonché della scel-ta di temi e situazioni che si oppongono alla «omogenea e armonica» realtà italiana pro-

posta dalla cultura ufficiale, sempre ottimista e celebrati-va per definizione. La lette-ratura è lo spazio e la parola è il mezzo per l’espressione di una profonda inquietudi-ne nei riguardi della società italiana. A questo proposito, si possono citare le parole di Pavese, tenendo però conto della sua diversa traiettoria esistenziale: «La letteratura è una difesa contro gli attacchi della vita».

Pensare alla produzione letteraria e saggistica di Igna-zio Silone significa riflettere su un ventaglio tematico che intesse una complessa trama di rapporti tra realtà, storia e finzione. Un insieme di articolazioni che permet-te all’autore di costruire un universo letterario caratte-rizzato dal segno dell’espe-rienza vissuta e testimonia-ta. Il bisogno di scrivere e quindi di parlare nasce da una crisi esistenziale e di valori, la quale viene raffor-zata dall’allontanamento dal Partito e dalla conseguente espulsione. Nell’intervista dell’11 aprile 1954, conces-sa alla rivista La fiera lettera-ria e più tardi pubblicata da Mondadori, Silone risponde ad alcune domande sul suo mestiere di scrittore:

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Perché scrivi? Per comunicare.A quali lettori pensi di preferen-za, mentre scrivi? A uomini, a donne solitari, disposti a riflet-tere e inquieti.Cosa pensi di offrirgli con i tuoi libri? Un po’ di compagnia.E ai lettori occasionali? Una pulce nell’orecchio.

Creare e stabilire dei ca-nali di comunicazione, offri-re un po’ di compagnia e, in alcuni casi, inquietare sono alcune delle intenzioni di Si-lone, come uomo di cultura nell’esercizio del suo ruolo di scrittore. Infatti, già dai titoli di Fontamara (1933), Pane e vino (1936)1 e Il seme sotto la neve (1942), i cosiddetti romanzi della prima fase, si può fare una piccola ma profonda rifles-sione alla luce dell’invito silen-zioso che essi fanno al lettore. Si tratta di opere che prendono spunto dall’ambiente conta-dino abruzzese – la Marsica è una presenza costante nei suoi scritti – e che vengono segnate da innumerevoli assenze, come la mancanza di cibo, d’acqua o di rispetto dei più potenti verso questo strato più povero della popolazione. Fontamara è un toponimo che trae origine dal-le parole fonte e amara. Amara perché tale è la vicenda affron-tata dagli abitanti di questo pa-ese immaginario, sempre più sfruttati nel loro vivere quoti-diano; anzi, la storia ha un esi-to ben più che amaro, finendo con la violenta distruzione del villaggio. I due elementi basici del mangiare contadino, a loro volta, formano il titolo del se-condo romanzo che riprende lo scenario delle contrade del Fucino. Pietro Spina, perso-naggio protagonista di Vino e Pane, riappare poi nella terza opera dell’esilio, la quale vie-ne caratterizzata da una fragile ma esistente speranza: il seme

che cerca di crescere sotto la neve – chiaro parallelismo con l’esperienza vissuta dallo stes-so protagonista.

«Un’opera d’arte è frutto dell’esperienza e della vita inti-ma di chi la crea. Non può es-sere strumento di propaganda: è evidente. Suo scopo non può essere il persuadere: è risapu-to. La storia dell’arte è la sto-ria dello spirito che ha trovato una forma di espressione». È lo stesso Silone a ribattere in que-ste poche parole ciò che alcuni critici avevano affermato in un primo momento a proposito delle sue opere, che cioè era-no e servivano come metodo di propaganda politica. Nel caso dello scrittore abruzzese, l’esperienza dell’uomo e del cittadino non possono essere messe da parte o dimenticate; al contrario, esse fanno parte e delineano un sentiero comples-so e tortuoso da lui percorso: prima i rapporti con la lega dei contadini, gli scritti pubblicati sull’Avanti!, la Gioventù Socia-lista, poi l’Unione Socialista ro-mana, l’Avanguardia, Il lavora-tore e, infine, il Partito Comuni-sta e l’esilio. Quest’ultimo ebbe nella sua vita un peso e un’in-fluenza fondamentali, come viene testimoniato in alcuni testi e, in particolare, nel libro Uscita di sicurezza (1965), in cui Silone afferma che il Partito assunse il posto della famiglia (il padre era già morto, e nella strage del terremoto del 1915 morirono anche la madre e un fratello, restandogli la non-na e il fratello Romolo) e della Chiesa. Tutte queste vicende, in un modo o nell’altro, non pos-sono non apparire tra le righe della scrittura siloniana, che si forma e prende corpo proprio a partire dalle sofferenze, dalle delusioni e dalle crisi, anche esistenziali, vissute. Nella lette-ra del 2 settembre 1941, indi-

rizzata a Rainer Biemel, Silone esprime il suo pensiero circa l’arte e il mestiere di scrivere. In essa, egli accenna alla crisi fisica e spirituale che lo aveva colpito nel 1930 e dichiara che il sentimento per la verità e per la sincerità è tra le motivazioni principali del suo lavoro lette-rario. Questo bisogno, infatti, lo spinge a costruire e narrare un mondo «semplice, chiaro e evidente» e a interessarsi ai rapporti di forza che lo delinea-no. È così che si presenta l’uni-verso narrativo siloniano, in-centrato sui cafoni, specchio di una realtà che similmente vede altrove protagonisti i fellahin, i coolies, i peones, i mugic.

Le testimonianze di Silone si concretizzano, dunque, anche attraverso le parole dei loro per-sonaggi, i quali non possono es-sere visti solo come dei tentativi di descrivere alcune immagini “opache” della realtà italiana. In Fontamara, il primo romanzo, il potere e la forza dell’oppresso-re appaiono in tanti momenti della narrativa; si può afferma-re che essi sono dei movimenti costanti. Sono tutti elementi che esemplificano le varie forme di oppressione esistenti nel quoti-diano del villaggio immagina-rio. Ci sono inoltre dei perso-naggi che rappresentano il pote-re costituito e istituzionalizzato: il “podestà”, che sta allo Stato così come Don Abbacchio sta ad una Chiesa “non cristiana”, che provvede solo ai suoi in-teressi, e Don Circostanza che rappresenta una specie di giusti-zia. Ciò nondimeno, l’impronta della repressione cresce man mano che la narrativa si svolge e culmina nel periodo romano e, in particolare, nel carcere. I capitoli finali riportano l’impu-nità dello stesso sistema; le sce-ne di tortura e l’abuso del potere sottolineano e, a loro volta, de-nunciano ciò che si nasconde

dietro ad un’apparente norma-lità, che, ironicamente, traspare anche dal nome della locanda dove si sistemano i due perso-naggi cafoni: Buon Ladrone. In questa narrativa di esordio, il potere dell’oppressione si mani-festa sin dalla prima pagina con la mancanza della luce e con-tinua a passi sempre più grandi fino al climax della morte di Berardo Viola nel carcere roma-no. Per dirla con Foucault: «La prigione è solo il luogo in cui il potere può manifestarsi allo stato bruto, nelle sue dimensio-ni pur eccessive, e giustificarsi come potere morale ‘Ho ben ragione di punire, poiché sapete che è scorretto rubare, uccide-re, […]’». È, infatti, con questa giustificazione che Berardo, personaggio-chiave, viene tor-turato fino alla morte e il paese di Fontamara, dopo tante disav-venture, assalito e distrutto.

Ignazio Silone, per la sua esperienza di vita e per i suoi scritti, può essere considerato uno scrittore attivo e compro-messo con la realtà del suo pa-ese; i suoi romanzi contengo-no una riflessione profonda e interrogativi sull’esilio, la mar-ginalità e la sofferenza dell’ita-liano del sud. Nella nota che precede l’inizio del secondo romanzo, Vino e Pane (1937), l’autore lascia trapelare per il lettore una piccola parte dei suoi interrogativi e della forza che può avere la parola, cioè l’espressione massima del lin-guaggio umano. Questo libro può essere considerato, forse, la sua opera più compromessa e impegnata. Il protagonista, figlio di una famiglia benestan-te, proprietaria terriera, lascia il suo paese con appena due sol-di in tasca; all’eredità che passa di generazione in generazione preferisce la via della lotta, mo-tivato dai suoi ideali. Diventa un intellettuale che si vede co-

stretto non solo a distanziarsi dalla sua comunità, ma anche dalla sua patria. Torna in Italia e alla terra natale solo clandesti-namente, spinto da un profon-do sentimento di nostalgia, che si contrappone al suo precario stato fisico. Egli, adesso tisico, a causa delle innumerevoli av-venture e disavventure vissute, e limitato nell’attività di lotta, passa ad affrontare un’altra bat-taglia, quella per la sopravvi-venza. Una sopravvivenza che non è solamente fisica, poiché alla tubercolosi si accompagna una malattia dello spirito; uno spirito inquieto e tormentato, che è sempre disposto a com-battere: un dilemma eterno, questo, per l’intellettuale.

La libertà non ci è data in al-cun modo, essa va conquistata e ad ogni momento dev’essere riaffermata: questa è una condi-zione imprescindibile per l’agi-re dell’intellettuale, come affer-ma Sartre (fatte salve le diversità di pensiero che pur esistono, e si riveleranno sostanziali duran-te i fatti d’Ungheria, fra Sartre e Silone); e l’engagement fa sì che l’intellettuale s’interessi di questioni che apparentemente non appartengono alla sua sfe-ra d’azione. Tale è il compito che si prefigge il protagonista di Vino e Pane, interessarsi di quello che non sembra essere di sua competenza. La società contadina meridionale, con-dannata dal fato, come se fosse oggetto di una legge naturale, alla miseria, all’ingiustizia, allo sfruttamento e all’esclusione, è il centro dei pensieri e delle azioni di Pietro Spina. Contadi-ni segnati nelle mani e nel viso da solchi che denunciano la loro sofferenza muta, contadini che hanno le loro vite scandite dall’aurora e dal crepuscolo, che lottano per la sopravviven-za quotidiana, ad un ritmo di vita quasi meccanico che non

permette la presenza di alcun tipo di riflessione critica: a que-sto determinato gruppo sociale non è offerta l’opportunità di pensare alla propria condizio-ne. Il malessere esiste e tutti lo sanno, ma non si fa nulla per mutarlo o trasformarlo.

Nel tratteggiare e dare te-stimonianza di una fase di vita italiana durante i primi anni Trenta, con le persecuzioni e le censure derivanti da un regime totalitario, lo scrittore italiano denuncia la miseria, la negli-genza e la mancanza di rispetto reciproco. Il piccolo paese rap-presentato dallo sguardo atten-to e “clinico” può essere visto come il simulacro di tutta una società e di un mondo dei quali fa parte. Silone utilizza la paro-la, più precisamente la parola scritta della finzione narrativa, con l’obiettivo di descrivere un periodo della storia italiana, a sua volta paradigmatica di una realtà esistente in altri paesi eu-ropei. In questo modo, i luoghi e le persone, a prima vista parti-colaristici, passano a far parte di una macro-visione trascendente i limiti geografici e linguistici.

RifeRimenti bibliogRafici

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1 - Titolo poi mutato in Vino e pane.

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Imperativo morale e cristianesimo popolare nella parabola esistenziale

e letteraria di Ignazio Silone– una breve riflessione –

Brunello Natale De Cusatis

conformista» – mirabilmente descritto nel celebre capitolo Incontro con uno strano pre-te di Uscita di sicurezza – è facilmente riconoscibile sia nel don Nicola di Una man-ciata di more (1952), sia nel don Benedetto di Vino e pane (1955) e sia nel don Serafino de Il segreto di Luca (1956).

Non è qui il caso di riper-correre nei dettagli gli anni delle numerose esperienze politiche di Ignazio Silone: da quando s’iscrisse, giovanissi-mo, alla Lega dei Contadini di Pescina dei Marsi, fino all’in-gresso, prima, e all’uscita, poi, dal Partito Comunista d’Italia, nel 1931, cui sarebbero se-guiti gli anni delle polemiche anticomuniste, tanto all’estero quanto in Italia, divenendo Si-lone uno dei leader contrari al cosiddetto frontismo PSI-PCI, ossia, alla creazione di uno schieramento di sinistra im-perniato sul Partito Comunista. È importante, tuttavia, a soste-gno della tesi di una religiosità sostanzialmente mai venutagli meno, ricordare come, già nel 1942, in Svizzera, in occasio-ne di una sua conferenza dal titolo Situazione degli ex, Silo-ne, oltre a illustrare le sue idee, ad attaccare il marxismo – la cui involuzione dogmatica era

da lui ritenuta «una delle tra-gedie della nostra epoca» – e ad auspicare il federalismo per l’Europa alla fine del conflitto, con un «Terzo Fronte» da con-trapporsi sia al Fascismo che all’ingerenza delle Democra-zie Alleate, avrebbe riscoper-to, Silone, «l’eredità cristiana»: espressione, questa, più tardi da lui ripresa, nel 1968, per ti-tolare uno dei quattro paragra-fi, il terzo per l’esattezza, della prima parte de L’avventura di un povero cristiano – prima parte da intendersi, non come un’introduzione al dramma di papa Celestino V, ma piuttosto come un vero e proprio sag-gio-racconto a mo’, si direbbe, di un’autobiografia interiore in cui Ignazio Silone avrebbe rimarcato i propri connotati di «cristiano post-risorgimentale e post-marxista».

Difatti, una volta rientrato nell’ottobre del 1944 in Italia e immediatamente dopo la Libe-razione, lo scrittore abruzzese avrebbe messo in mostra il suo anticonformismo, non solo prendendo posizione contro l’antifascismo di facciata e contro ogni tipo d’epurazione – celebre, in tal senso, è il suo articolo, pubblicato sull’«Avan-ti!», Superare l’antifascismo –, ma anche assumendo un’aper-tura, seppur abbastanza critica, verso la Chiesa.

Ora, il «realismo evange-lico» e il «messianismo», di cui parla Giancarlo Vigorelli, trovano una giustificazione nel fatto che Silone non era per nulla interessato alle so-vrastrutture, ma agli uomini di fede vissuta. In sostanza, come scrivono Francesco de Core e Ottorino Gurgo in Silone, un alfabeto (2003), «era affascinato dagli esempi concreti, non dalle ideologie. […] Cercava i santi in carne e ossa, quelli che non hanno

aureola attorno al capo, come spiegò lui stesso: esseri “oscu-ri, ignorati da tutti e in nulla eccezionali”, ma capaci di reggere il mondo».

Ebbene, in tutti i roman-zi dello scrittore abruzzese i personaggi, per così dire, privilegiati possiedono una valenza altamente simbolica, fatta oltre che di denuncia sociale anche di solidarietà e pietà cristiana – con l’ine-quivocabile presenza, quindi, a un tempo, di una coscienza libertaria moderna e di ele-menti di cristianesimo anti-co –, e che finiscono sia per rappresentare dei «piccoli-grandi eroi che si battono per l’avvento del Regno e per la centralità dell’individuo fuori della regola sociale, se la re-gola è retriva e codina» (Ibid.), sia per ricalcare l’itinerario dell’Imitazione di Cristo.

E questo lo si ritrova pure nei romanzi pubblicati pri-ma del suo rientro in Italia. Si pensi, ad esempio, al Be-rardo Viola di Fontamara, il quale, dopo l’interrogatorio e le torture subite dalla milizia fascista, viene ricondotto in cella trascinato – scrive Silo-ne – «per le gambe e per le braccia, come Cristo quando fu deposto dalla croce». O anche al Pietro Spina de Il seme sotto la neve – vero al-ter ego letterario dello stesso Silone, per rappresentare la fi-gura dell’uomo perseguitato e in fuga, clandestino in patria e vittima dell’ingiustizia uma-na – il quale, nell’atto di tra-vestirsi da prete per cercare di sottrarsi alla cattura, finisce, in un certo senso, per ricupe-rare un’antica vocazione al sacerdozio quale militanza.

In sostanza, come sempre accade agli scrittori di vena religiosa che uniscono fede messianica e utopia libertaria

– è il caso, ad esempio, del fi-losofo tedesco di origine ebrai-ca Martin Buber, con il quale, per via della sua “concezione dialogica” tra cielo e terra e, quindi, della santificazione del quotidiano, Ignazio Silone ha una sicura consonanza –, lo scrittore abruzzese è portato a rielaborare gli ideali cristiani alla luce del dilemma tra la di-sobbedienza all’autorità gerar-chica costituita e la coscienza di chi crede. Da qui un tipo di Cristianesimo – quello di Silo-ne, appunto – assolutamente non dogmatico, ma ispirato ai valori primigeni dell’amore di-sinteressato e solidale, dell’ab-battimento delle disuguaglian-ze sociali e del rigetto di qua-lunque tipo di compromesso, come viene fuori emblema-ticamente da quell’autentico capolavoro letterario – a metà strada tra romanzo, dramma teatrale e saggio – che è L’av-ventura di un povero cristiano.

Il «povero cristiano» – com’è a tutti noto – è nien-temeno che Pietro Angelerio del Morrone, il quale fu papa, con il nome di Celestino V, durante solo cinque mesi, dal luglio al dicembre del 1294: il papa del «gran rifiuto», condannato da Dante, che at-tribuì quel gesto a «viltà», ma esaltato da Petrarca.

Ebbene, la vicenda di Ce-lestino V ha dato modo a Si-lone, non solo di connettersi allusivamente con i “casi” del suo tempo – in particolare quelli di Papa Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II –, ma anche di commisurare la sua propria ideologia ai ter-mini della religione.

Nel fare assurgere Celesti-no V a simbolo di rinuncia al potere o, meglio ancora, a sim-bolo dell’inconciliabilità tra la santità e il potere, Ignazio Si-lone altro non fa che postulare

d’immediato in un chiarore nel buio della tragedia che Silone stava vivendo, anche perché quel prete «straordi-nario» interpretava e viveva il Cristianesimo in modo au-tentico, ossia, caratterizzato da sincera carità e da giusti-zia sociale, due aspetti che Silone sentiva assolutamente congeniali. Ciò spiega il per-ché il fondatore dei Figli della Divina Provvidenza ebbe un ruolo fondamentale nella for-mazione siloniana.

A questo riguardo, Irwing Howe – autorevole critico americano, all’epoca professo-re alla City University di New York e che si occupò in varie occasioni dell’opera di Igna-zio Silone – in un articolo del dicembre del 1969, apparso sul prestigioso «The New York Times Book Review», ebbe modo di rimarcare l’impor-tanza fondamentale e decisiva avuta da don Orione nell’evo-luzione del pensiero dello scrittore abruzzese, poiché – scrive Howe – «figura che perseguiterà la sua fantasia, il prete francescano che vive come un cristiano delle origini e che in questo si accosta alla situazione del rivoluzionario, che si è liberato del dogma». Difatti, questo «sacerdote non

Nel lontano 1965, più precisamente in occa-sione di una recensione,

apparsa sulla rivista milanese «Il Tempo», al celeberrimo saggio siloniano Uscita di si-curezza, pubblicato proprio in quell’anno, il noto critico Giancarlo Vigorelli scriveva di Ignazio Silone: «Quest’uo-mo che ha legato il suo nome alla storia e alla polemica po-litica di quasi cinquant’anni e questo scrittore che ha scritto i suoi libri parallelamente alle esperienze politiche e che deve la sua fama al loro mes-saggio social-politico, risulta uno scrittore essenzialmente religioso. Quello che pareva un naturalismo è un realismo evangelico, e quello che risul-tava un populismo è piuttosto un messianismo».

Sono queste di Giancarlo Vigorelli delle considerazioni importanti e significative, di cui peraltro troviamo confer-ma nella vita dello stesso Silo-ne, a partire da quando, all’in-domani dell’essere rimasto orfano – prima di padre (nel 1911) e poi di madre (1915), a seguito del devastante terre-moto della Marsica –, occorse l’incontro con don Luigi Orio-ne e la sua congregazione.

Tale incontro si trasformò

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– nelle sue stesse parole poste a chiusura di Quel che rimane, quarto e ultimo paragrafo del-la prima parte dell’opera –

«un cristianesimo demi-tizzato, ridotto alla sua so-stanza morale e, per quello che strada facendo è andato perduto, un grande rispetto e scarsa nostalgia. Che più? A ben riflettere e proprio per tutto dire, rimane il Pater No-ster. Sul sentimento cristiano della fraternità e un istinti-vo attaccamento alla povera gente, sopravvive anche […] la fedeltà al socialismo. So bene che questo termine vie-ne ora abusato per significare le cose più strane e opposte; ciò mi costringe ad aggiunge-re che io l’intendo nel senso più tradizionale: l’economia al servizio dell’uomo, e non dello Stato o d’una qualsiasi politica di potenza».

Confessione lungamente soppesata se è vero, com’è vero, che essa era stata antici-pata qualche anno prima, nel 1961, in occasione di un’in-tervista rilasciata a «L’Expres-se» parigino e nel corso della quale Silone si era definito un «cristiano senza chiesa» e un «socialista senza partito», ov-vero, diversamente detto, un uomo alla costante ricerca, a un tempo, di una pratica so-ciale del Cristianesimo e di un’anima e una speranza cri-stiana nel socialismo.

Con questo suo messaggio – poiché di vero messaggio si tratta, proprio a seguito di quel «messianismo» di cui ha avuto modo di parlare Gian-carlo Vigorelli – Ignazio Silo-ne entra a far parte di diritto di quella ridotta schiera, così ridotta e scomoda da essere praticamente inascoltata, che ha avvertito l’esigenza di ri-

correre a una «chiamata degli spiriti». Una “chiamata”, ov-viamente, fatta da un laico:

«Le vicende politiche – scri-veva Silone – hanno fatalmen-te riacceso il vecchio contrasto fra clericalismo e laicismo; ma dal punto di vista dei principi esso si va volgendo nei termini anacronistici del secolo scor-so. Accade perciò di vedere incolpata la… teologia, defi-nita incompatibile coi principi democratici, volendo ignorare che nella stessa Italia la mede-sima teologia non ha impedito a dei cattolici di battersi per la libertà. Stupisce che in tale errore possano cadere molti intellettuali del paese di Ma-chiavelli, che per primo separò la teologia dalla politica».

E ancora:

«[…] non ci sentiamo né credenti, né atei, tanto meno scettici […]. Un sacro rispetto del trascendente ci impedisce di menzionarlo invano e di usarne come una droga. Ri-durre Dio a un problema mi parrebbe blasfemo».

Una laicità, quindi – pa-rafrasando le parole di Lan-franco di Mario, autore di un interessante articolo presente nel bellissimo volume, cura-to da Aldo Forbice, Silone, la libertà. Un intellettuale sco-modo contro tutti i totalitari-smi (2007) – che s’ispira sia a valori e principi propri dello spirito del Cristianesimo sia a quell’antico ius naturae, ripro-posto da Carlo Antoni, noto storico crociano della filosofia . Un diritto naturale – sempre nelle parole Silone – che

«non è cosa che si pos-sa ricevere in regalo […] Si può vivere anche in paese

di dittatura ed essere libero, a una semplice condizione, basta lottare contro la ditta-tura. L’uomo che pensa con la propria testa e conserva il suo cuore incorrotto è libero. L’uomo che lotta per ciò che egli ritiene giusto è libero. Per contro, si può vivere nel pae-se più democratico della terra, ma se si è interiormente pigri, ottusi, servili, non si è liberi».

RifeRimenti bibliogRfici

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L’arte di conoscersi: Severina, l’ultimo

romanzo di Ignazio Silone

Doris N. Cavallari

«Sarà il mio ultimo romanzo, una cosa breve, ma lo devo scrivere»

«perché l’ultimo?»«Non ho più romanzi in me»

Ignazio Silone

L’ultimo romanzo di Si-lone fu pubblicato nel 1981, tre anni dopo la

morte dell’autore, scomparso il 22 agosto del 1978. Rivisto dalla moglie Darina Silone e dal critico Geno Pampaloni, La speranza di suor Severina (titolo dato dall’autore) op-pure Severina (titolo con cui venne pubblicato) è il ro-manzo più breve di Silone e finisce un po’ all’improvviso, con la morte della protagoni-sta. Muore l’autore e anche l’ultima delle sue voci, create per provare a capire “la con-dizione dell’uomo nell’ingra-naggio del mondo attuale” (SILONE, 1971:187).

Darina Silone descrive il processo di creazione del testo e gli ultimi momenti della vita dell’autore, con i suoi ricordi, le sue angosce e la preoccupazione di lasciar sola la moglie che avrebbe ereditato le persecuzioni dei suoi nemici.

Come successe con Fon-tamara, Silone scrisse il ro-manzo in tempi brevissimi,

mentre si trovava in Svizze-ra (questa volta a Ginevra), per una cura a causa della salute debole. Con Fonta-mara, scritto nel 1930 a Da-vos, nasceva un romanziere, Ignazio Silone, che rinunciò al nome di battesimo (Se-condo Tranquilli) e trovò un modo, in esilio, di legarsi ai suoi compagni marsicani e ai compagni di ideali marxisti. Dopo vari romanzi saggi e articoli, prodotti in mezzo a incomprensioni, preconcetti e ostracismo in patria, Silo-ne produsse Severina, come

già detto, in breve tempo, in Svizzera, poco prima di morire in quel paese. Dari-na racconta nella postfazio-ne dell’opera che l’autore le disse che stava scrivendo un piccolo testo, il suo ultimo romanzo, perché non aveva in sé altri romanzi.

Con Severina abbiamo per la prima volta una don-na come protagonista. La giovane idealista è una suo-ra che insegna latino in una scuola religiosa e testimonia l’uccisione crudele di un operaio scioperante durante la repressione della mani-festazione dei lavoratori. La suora è esortata dalle autorità ecclesiastiche (a tutti i livelli) a non testimoniare contro i poliziotti che hanno ucciso il ragazzo e, decisa a parlare, è poi costretta a farlo davanti a una corte messa in piazza, davanti a tutti.

Fedele ai suoi principi, Severina riesce a non la-sciarsi dissuadere e raccon-ta quello che ha visto, ma, dopo una profonda crisi, de-

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cide alla fine di abbandonare la vita monastica, per essere più attuante nel mondo sen-za la protezione dei muri di un convento.

Severina è la più debole e la più forte protagonista dell’opera siloniana, perché la sua fragilità fisica si con-trappone alla sua grande for-za interiore. Scopre che la sua vocazione esistenziale è più potente della fede che le aveva fatta scegliere la vita religiosa. Affronta da sola la potenza di istituzioni qua-le la chiesa e la polizia per difendere la verità e la giu-stizia. È accusata dalla sua superiora di compromettere la scuola gestita dal loro or-dine e Suor Severina, avvili-ta per le accuse, s’ammala gravemente e, dopo la gua-rigione, confessa a un prete amico, Don Gabriele (anche lui in crisi con la chiesa), che le ingiustizie le hanno quasi fatto perdere la fede, ma conclude:

A mie spese, ho impara-to almeno questo: per darsi, bisogna anzitutto posseder-si. L’occuparsi di sé quando è necessario adesso non mi sembra più un perditempo. In fin dei conti, esiste forse un’occupazione superiore e più necessaria di quella della coscienza che noi possiamo acquistare di noi stessi e del significato della nostra esi-stenza sulla terra? (SE, p.59)

A differenza di altri prota-gonisti famosi dell’opera si-loniana, come Berardo Viola e Pietro Spina, che si “getta-no allo sbaraglio” in momen-ti difficili della vita italiana, Severina non solo agisce con la coscienza, ma ha tempo di riflettere sull’importanza dei suoi atti e sulle lezioni

che le vicende esistenzia-li portano con sé. Severina è in grado di cambiare vita per “occuparsi di sé quando è necessario” per poi aiutare gli altri.

Dopo la lettura di questo romanzo ci sembra di poter affermare che Severina as-sume il ruolo di personag-gio sintesi di tutta l’opera siloniana, poiché come tutti gli altri protagonisti non si arrende all’ipocrisia sociale, all’ingiustizia e alle conve-nienze personali in nome di una azione cosciente nel mondo. Tornata a casa, non riesce a trovare lavoro e cer-ca di avvicinarsi a persone semplici come Lamberto, uno studente, ex bracciante, che ha perso il lavoro nel-le terre del Fucino1 a causa della modernizzazione e dei nuovi tipi di coltivazione, destinati all’industria.

Il progresso che aumenta la miseria dei contadini era già stato ritratto in Fontama-ra, tramite la figura dell’Im-presario, uomo “senza fac-cia” descritto dai cafoni con le caratteristiche del padrone moderno che, per “fare l’America” dovunque vada, considera tutti intor-no a sé come pezzi dell’in-granaggio sociale scartabi-li quando inutili per i suoi propositi. In Severina, Lam-berto rappresenta la classe dei braccianti che lottano per il diritto al lavoro e per condizioni degne di vita. A differenza dei contadini di Fontamara, specialmente di Berardo, è più maturo e meno ingenuo — ed anche meno egoista della gran par-te dei contadini delle opere dell’esilio — perché riesce a partecipare a un movimen-to di classe organizzato e si colloca completamente

contro qualsiasi tipo di con-fronto fisico

Noi siamo dei protestatori pacifici. Protestiamo contro la violenza, fisica o morale che sia. Non pensiamo che il fine giustifichi i mezzi. Siamo per la resistenza passiva, al mas-simo per la disobbedienza ci-vile, mai per le armi. Le nostre armi sono parole quando oc-corrono. (SILONE, SE, p.100)

Se pensiamo alle opinio-ni dei cafoni di Fontamara per i quali la parola, soprat-tutto scritta, è vista come un’arma dei potenti contro i cafoni che non la domi-nano e perciò sono sempre in svantaggio — perché “La gente istruita è sofistica e si arrabbia per le parole” (SI-LONE, FA, p.39) —, è facile capire la maturità dimostrata dai personaggi nell’ultimo romanzo di Silone, nel quale la parola diventa l’arma dei lavoratori.

Un altro aspetto che ri-manda ai testi precedenti di Silone è il dialogo fra Seve-rina e suo padre, al ritorno alla casa paterna. Lei in-contra un padre affettuoso, ma incapace di capire le sue scelte e che, oltretutto, rimpiange il fatto che i suoi figli non continueranno le tradizioni famigliari nel la-voro della terra. L’incontro fa ricordare quello di Pietro Spina con sua nonna, donna Maria Vicenza, in Il seme sot-to la neve. Nel dialogo con i genitori, i protagonisti con-fessano le proprie angosce, ma l’amore che li lega non è sufficiente a rompere le bar-riere culturali tra il mondo antico e quello attuale e po-liticamente attivo scelto dai figli. Nelle opere dell’esilio, il momento politico (il fa-

scismo prima della seconda guerra) determina l’azione dei protagonisti che devono decidere rapidamente quale posizione prendere.

Pietro e sua nonna sem-brano condannati da una incolmabile distanza ideo-logico-culturale che finisce per separare definitivamente il loro destino, data la situa-zione politica italiana in quel momento. In Severina, d’al-tra parte, la vicenda è meno drammatica; in questo caso la casa paterna è un rifugio sicuro, tuttavia è Severina che sente la necessità di cer-care una ragione esistenziale per mettere in pratica la pro-pria vocazione di “cristiana senza chiesa e socialista sen-za partito”.

Come Spina, Severina non può essere d’accordo con la massificazione cultu-rale e con la standardizza-zione proposta dalla chiesa e dallo stato che tolgono la capacità di crescere di indivi-dui e di interi gruppi sociali. Ambedue i protagonisti cer-cano di rompere il silenzio davanti alle ingiustizie. In Il seme sotto la neve le azioni del protagonista siloniano l’allontanano dalle medio-cri idee sociali sull’eroismo, talmente deboli che bastano alcuni punti interrogativi per sconvolgere tutta la comuni-tà di Acquaviva (paese dove l’attivista si nasconde dalla polizia fascista). Spina “cor-rompe” un monumento alla patria trasformando le affer-mazioni in domande: Lo stato è tutto? Obbedire? Credere? Tutti morirono per la patria? (SN. p. 371).

Un altro romanzo che la-vora intensamente con la ne-cessità di rompere il silenzio è Il segreto di Luca, secondo romanzo del dopoguerra, nel

quale l’attivista Andrea Cipria-ni, tornato nella città natale come candidato, si dimentica la politica per cercare la veri-tà sul caso di Luca Sabatini, condannato all’ergastolo per un delitto non commesso. Andrea cerca di far parlare una comunità contadina per chiarire le causa delle ingiu-stizie. Tutti i protagonisti silo-niani provano l’angoscia del ritorno e dell’avversione per le idee nuove che portano con sé. Severina, come Pietro Spina in Vino e Pane e Il seme sotto la neve, come Rocco di Donatis in Una manciata di more o Andrea Cipriani in Il segreto di Luca, rifiuta la con-venienza del silenzio e cerca nel dialogo un modo di capi-re e farsi capire e di costrui-re un mondo più giusto. Per Severina la coscienza libera è il rimedio contro la schiavitù di idee preconcette perché, come afferma all’amico don Gabriele:

Nessuna vocazione è vera se esige il sacrifizio della ra-gione, nessun voto di obbe-dienza vale se è contro la coscienza. Il trauma mi liberò. Non potete immaginarvi, pa-dre, come ci si sente sicuri, li-beri, sciolti, sollevati, se il pro-prio essere reale riesce a sot-trarsi alla schiavitù dell’essere immaginario. Nessuno potrà più privarmi di questo nuovo semplice puro senso che ora la vita ha per me. (SE, p. 86)

Affrontare tutti per non tradire sé stessi, avvicinarsi a quelli che lottano per un mondo più giusto, voler ca-pire come l’ingranaggio bu-rocratico della chiesa e dello stato riducono l’umanità de-gli individui e delle società e, infine, cercare rapporti più etici e amicizie più vere sono

gli scopi di tutti i protagoni-sti siloniani, nelle cui voci s’odono le speranze e le idee dell’autore, che insiste sulla rappresentazione di un’auto-nomia riflessiva in grado di esprimere la vita interiore dei personaggi, i loro aneliti e le loro scelte esistenziali.

L’essenza del socialismo di Silone richiede lo spirito critico e attuante nella società rappresentata. Come ben os-servava Luce D’Eramo, Silone, nella sua arte, mette al centro la persona, la sua storia parti-colare e la sua ricerca di una società più libera. Ma, dato che la libertà sociale è sempre più difficile, l’autore si dedica a rappresentare l’unica libertà veramente possibile, quella interiore, raggiunta dai suoi protagonisti “dopo tante pene e tanti lutti” (FA, p. 197). Seve-rina è dunque la sintesi delle aspirazioni siloniane di liber-tà e arricchimento interiore e, forse per questo, l’autore sen-tiva che stava scrivendo il suo ultimo romanzo.

RifeRimenti bibliogRafici

silone, i. Fontamara. MilA-no: MondAdori, 1962.silone, i. iL seme sotto La neVe. MilAno: MondAdori, 1985.silone, i. seVerina. A CurA di Geno pAMpAloni e dArinA silone. MilAno: MondAdori, 1981.silone, i. iL segreto di LuCa. MilAno: rizzoli, 1989.d’erAMo, l. L’opera di ignazio siLone: saggio CritiCo e guida bibLiograFiCa. MilAno: MondAdori, 1971.

1 - Le terre del Fucino erano la grande speranza del popo-lo di Fontamara, nel romanzo omonimo, per sfuggire alla miseria secolare della vita.

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Uno sguardo su Silone

Intervista a Vittoriano Esposito, uno dei maggiori studiosi dell’opera siloniana

a cura di Patricia Peterle

Patricia Peterle – Nell’in-contro che abbiamo avuto nel mese di gennaio, in

Italia, Lei ha detto che Silone definiva le sue tematiche “ap-parentemente politiche”, ma nella realtà erano “anti-politi-che”. In che modo tutta la sua produzione, sia letteraria che intellettuale, dialoga con que-sta affermazione?Vittoriano Esposito – L’uso del termine “politico”, in Silone, va inteso in un significato particolare, soprattutto per-ché comporta l’accezione di anti-partitico. Nelle sue battaglie contro le istituzio-ni sociali rientravano anche i Partiti per come erano uf-ficialmente organizzati: con appositi apparati, sfere diri-genti, correnti ideologiche, tesseramenti e attivisti prez-zolati. Ad un certo punto della sua vita, egli si schierò contro la cosiddetta partito-crazia, contro gli schemati-smi troppo rigidi della ide-ologia, contro le strutture dogmatiche, in politica così come nella sfera religiosa. Silone amava la libertà come spontanea circolazione delle idee. Sotto questo aspetto, senza dubbio, le sue opere erano essenzialmente poli-tiche, anche quando scon-finavano nelle tematiche etico-religiose, sempre così strettamente collegate alle urgenze di rinnovamento storico-sociale.P.P. – Il cosiddetto “caso Silo-ne”, in un certo modo, ha ripor-tato sui giornali, suscitando grandi discussioni, il nome e la figura di Ignazio Silone. Dario Biocca e Mauro Canali, i due studiosi che hanno accusato Silone di essere una spia della polizia politica fascista, hanno scritto articoli e libri che sono stati poi controbattuti da Lei, da Giuseppe Tamburrano, da

Norberto Bobbio, da Indro Mon-tanelli e da tanti altri. Senza dubbio, questa polemica na-zionale, che è diventata anche internazionale, è servita per rompere il “silenzio” che se-gna gli studi siloniani in Italia. A che punto è questa polemica oggi in Italia?V.E. – Io sono solito distingue-re un primo da un secondo “caso Silone”. A mio parere, già nel dopoguerra Silone, rientrato in Italia dall’esilio, costituiva un “caso” incom-prensibile, più o meno pa-ragonabile – per gli effetti letterari – a quello di Verga e di Svevo, rivalutati in Italia – mi permetto di osservare – dopo quasi cinquant’anni dalla loro morte. Critici di primo piano, come Petro-nio e Salinari, si rifiutavano perfino di leggerlo oppure lo sottovalutavano, d’accor-do col verdetto di Togliatti, capo del Partito Comunista, che lo aveva definito un “rin-negato” per le vicende lega-te alla ben nota “uscita di sicurezza”. Solo dopo la sua scomparsa (agosto 1978), si parlò della opportunità di “rivalutarlo”.

Verso la fine del seco-lo, l’esplosione del nuo-vo “caso”: Biocca e Cana-li, dapprima con interventi giornalistici e poi con saggi monografici, accesero nuove polemiche accusando Silone di essere stato un informa-tore dell’Ovra, sulla base di documenti polizieschi. Ne è nata una querelle su giorna-li e in volumi, che ha avuto la durata di un decennio ed ha avviato l’indagine critica verso ben altre prospettive. Attualmente sembra che la polemica si sia placata. In fondo, poi, la discussione in-teressava più la storia politica che la critica letteraria.

P.P. – Quale bilancio può fare Lei della cri-tica italiana e degli orientamenti di essa nei riguardi della produzione di Igna-zio Silone, ricono-sciuta soprattutto all’estero?V.E. – Davvero de-licata è la questio-ne di un possibile “bilancio” della critica italiana sulla figura e sull’opera com-plessiva di Silo-ne, soprattutto perché egli sfug-ge a tutti i ca-noni di valuta-zione comune, sia estetica che politica. La notorietà internazionale, di cui era già carico Silone al suo rientro in Italia, ha dato fastidio a molti critici italiani perché si temeva che venis-se suffragata e alimentata da ragioni di natura politica. Si pensi che i suoi primi roman-zi e le novelle raccolte col titolo Un viaggio a Parigi, già tradotti con enorme successo in più lingue, erano del tutto sconosciuti in Italia.

Per comprendere la stra-nezza del “caso”, si conside-ri che un critico serio come Natalino Sapegno (Università “La Sapienza” di Roma), nel suo magistrale Compendio di storia della letteratura ita-liana, uscito nell’immediato dopoguerra, annotava solo a pie’ di pagina che Silone do-veva la sua fortuna a ragioni politiche; e Luigi Russo (Uni-versità di Pisa), a distanza di anni ormai, gli negava addi-rittura l’attributo di scrittore. In seguito, purtroppo, la cri-tica italiana si è sempre divi-sa tra fautori e detrattori, tra coloro che lo hanno compre-

so e ammirato ed esaltato e coloro che lo hanno rifiutato sdegnosamente.

Di qui le ragioni, a nostro avviso, più che sufficienti per definire un primo “caso” Silone, già nel dopoguerra, subito dopo il suo ritorno dall’esilio in Svizzera. Suc-cessivamente, le ragioni si sono complicate, a causa delle aspre battaglie che egli ha dovuto fronteggiare, come uomo e come scrittore. An-che se diamo l’impressione di voler abusare di una sua ben nota asserzione, fatta ad una rivista francese (“Socialista senza partito, cristiano senza chiesa”), in effetti crediamo che il suo destino sia stato sempre di un gran solitario (e tale rimarrà in futuro): egli stesso, forse, volle per sé un destino impossibile, batten-dosi per un socialismo cri-stiano, umanistico, liberale e insieme libertario. Questa fu la sua più grande utopia. E si può comprendere perché non tutti i critici abbiano sa-puto apprezzarla.

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I semi di carta (As sementes de papel) è una mostra che è stata presentata all’Universidade Estadual Paulista (UNESP), campus di Assis, nell’ambito del convegno “30 anos da morte de Ignazio Silone: o escritor, o homem, o intelectual”. L’obiettivo principale è presentare al

pubblico brasiliano questo scrittore italiano, a partire dalla ricostruzione del suo percorso perso-nale raccontato per immagini.

La realizzazione di questa mostra è stata possibile grazie al patrocinio del Centro Studi Igna-zio Silone, a Pescina (AQ), che ha gentilmente concesso l’utilizzo del materiale conservato nel proprio archivio fotografico.

“La libertà ... è la possibilità di dubitare, la possibilità di sbagliare, la possi-bilità di cercare, di sperimentare, di dire di no a una qualsiasi autorità, letteraria

artistica filosofica religiosa sociale, e anche politica”Ignazio Silone, Vino e pane

Don Orione La figura di Don Luigi Orione sarà un segno indelebile nella vita dei fratelli Tranquilli. Silone vede nel gesto del prete di aiutare i bambini sopravvissuti al terremoto del 1915 un atto che resterà per sempre registrato nella sua memoria. Don Orione sarà un modello per Silone di fede e di vero “cristiano”

Scrivere per Silone non è stato un piacere estetico e personale, ma sì una dolorosa e solitaria continuazione di una lotta anche ideologica, anche dopo la sua espulsione dal Partito Comunista d’Italia.

Foto gentilmente concesse dall’archivio Ignazio SiloneFoto gentilmente concesse dall’archivio Ignazio Silone

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28Gennaio / 2005

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Foto gentilmente concesse dall’archivio Ignazio SiloneFoto gentilmente concesse dall’archivio Ignazio Silone

I temi centrali delle opere siloniane sono le denunce dell’abbandono delle autorità, dello Stato, i cafoni, la libertà dell’individuo. Tematiche che sono anche universali.

All’inizio degli anni 30, a 30 anni, è espulso dal Partito Comunista d’Italia; un allontanamento che l’autore presentiva già da prima. La crisi esistenziale, risultato della delusione col Partito, fa “nascere” un nuovo uomo e uno scrittore.

“Un socialista senza partito e un cristiano senza chiesa”

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30Gennaio / 2005

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Foto gentilmente concesse dall’archivio Ignazio SiloneFoto gentilmente concesse dall’archivio Ignazio Silone

Il riconoscimento e la fama internazionale di Silone come uno dei più grandi nomi della cultura italiana del secolo XX è innegabile, però la critica italiana, per molto tempo, ha mantenuto il silenzio nei confronti delle sue opere.

All’inizio degli anni ‘40, Silone rientra in Italia con un nuovo amore, Darina Laracy,

con cui si sposa nel 1945. Lei gli rimarrà vicino fino agli

ultimi istanti di vita.

Nel 1941, Silone è eletto deputato per il collegio

elettorale abruzzese, con un numero significativo di voti. Nel 1953, si candida

come deputato per il PSDI, ma non raggiunge il numero di voti sufficienti.

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Foto gentilmente concesse dall’archivio Ignazio SiloneFoto gentilmente concesse dall’archivio Ignazio Silone

Darina Laracy curerà insieme al critico italiano Geno Pampaloni la pubblicazione postuma del libro lasciato incompiuto da Silone, Severina.

“Se ho scritto libri, ripeto, è stato per provare a capire e far sì che altri capiscano. Non ho assolutamente certezza di essere arrivato alla fine delle mie riflessioni”

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Francesco Alberoni

cruciverba

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SOLu

ZiON

icr

uciv

erba

Curiosità: Il cammello può resistere tre giorni in totale astinenza. Quando non ha nessun ali-mento assimila il grasso accumulato nella gob-ba, la cui pelle si piega da un lato come un sacco vuoto.

Dietro l’indignazione l’ombra del totalitarismoVi sono delle persone

che vi raccontano i lo-

ro sogni, i loro ideali,

i loro programmi, le mete, gli

obiettivi che vogliono raggiun-

gere, le cose che stanno facen-

do. E il loro volto si illumina

facendovi partecipare del loro

entusiasmo, della loro voglia

di creare. Vi sono invece per-

sone che vedono solo gli aspet-

ti oscuri e negativi del mondo.

Severi e indignati denunciano

e condannano dovunque so-

prusi, malvagità, corruzione e

complotti. I primi ci ricorda-

no un architetto che illustra un

suo progetto, gli altri un inqui-

sitore che elenca le iniquità de-

gli eretici. In politica gli accu-

satori sono spesso acclamati e

seguiti perché danno sfogo al

malcontento popolare, alla vo-

glia di vendetta e coltivano l’il-

lusione secondo cui tutti i guai

e i problemi del mondo sono

il frutto dell’opera di alcuni

nemici, tolti di mezzo i quali

tutto si metterà a funzionare a

meraviglia. Alimentano la cre-

denza illusoria che l’uomo sia

buono per natura e che per fare

il bene non è necessario inven-

tare, lavorare, costruire, ma ba-

sta distruggere il nemico.

E’ così che la fantasia popo-

lare immagina i rivoluzionari,

coloro che cambiano il mondo.

In realtà le più grandi trasfor-

mazioni, le più importanti sco-

perte scientifiche sono state fatte

da persone che non hanno perso

tempo a criticare o condannare

le idee degli altri, ma hanno co-

struito una loro teoria originale.

Keplero non ha mai criticato o

insultato i suoi colleghi convin-

ti che le orbite dei pianeti fosse-

ro dei cerchi, ha rifatto i conti

ed ha dimostrato che sono delle

ellissi. Da allora la questione è

stata risolta per sempre. Ma c’è

un altro motivo per diffidare dei

critici-critici e degli inquisitori.

Coloro che si pongono delle me-

te concrete, dei compiti defini-

ti, che fanno dei programmi pre-

cisi, quando riescono a realiz-

zarli sono lieti, appagati. Finita

una cosa passano ad un’altra e

lasciano dietro di sé progresso e

benessere. Invece gli inquisitori

che vogliono purificare il mon-

do dal male non possono essere

mai sazi perche il male del mon-

do è infinito e, per eliminarlo,

dovrebbero avere il potere tota-

le. L’inquisitore, il critico-criti-

co, poiché non vuol raggiunge-

re qualcosa di concreto e di li-

mitato sembra non voglia nulla,

ma in realtà vuole tutto. La sua

negazione del male nasconde

un’infinita volontà di potenza.

E’ questa la radice psicologica

del totalitarismo. E quando van-

no al potere essi infatti agiscono

in modo totalitario.

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