Presentazione standard di PowerPoint - ecostat.unical.it ITALIANA... · recente dell’economia...
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Informazioni sul Corso:
Docente: Lidia Mannarino
Studio: Dipartimento di Economia, Statistica e Finanza, Cubo 0C, primo piano.
Email: [email protected]
Tel: 0984 492405;
Sito web: http://www.ecostat.unical.it/mannarino/
Informazioni sulla didattica: sul mio sito web. La pagina offrirà
tutte le informazioni sul Corso, comprese quelle relative ad
eventuali variazioni dell’orario delle lezioni e del ricevimento
studenti. Sulla stessa pagina verranno rese disponibili le
presentazioni in power point utilizzate nelle lezioni.
Ricevimento studenti, ogni giovedì dalle ore 11.00 alle ore 13.00
presso il mio studio.
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Informazioni sul Corso: Esame
L’esame è scritto.
La durata dell’esame è di 60 minuti.
Dettagli sulla modalità d’esame sarà fornita a
metà corso.
Salvo variazioni, le date degli appelli sono le seguenti:
08/06/2017;
06/07/2017;
12/09/2017
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Informazioni sul Corso: riferimenti bibliografici
Testi Consigliati:
Saltari E., Travaglini G. (2009). L’economia italiana del
nuovo millennio, Carocci Editore.
Saltari E., Travaglini G. (2006). Le radici del declino
economico: occupazione e produttività in Italia
nell’ultimo decennio,UTET.
Boitani A. (2017). Sette luoghi comuni sull’economia,
Editori Laterza.
Altro materiale sarà distribuito a lezione.
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Programma:
Prima Parte:
La prima parte del corso sarà indirizzata a
fornire una visione complessiva del
funzionamento del nostro sistema economico e
una prima consapevolezza dei problemi
strutturali che lo affliggono.
Allo stesso tempo il corso si propone di ricostruire i mutamenti intervenuti negli ultimi decenni nel sistema economico, e quindi di guardare alle origini dei problemi strutturali che oggi occorre affrontare.
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Programma:
Seconda Parte:
La seconda parte sarà rivolta alla ricostruzione,
all’analisi e all’interpretazione dei principali fatti
stilizzati che hanno caratterizzato la storia
recente dell’economia italiana.
Tale analisi costituisce la base su cui viene
costruita la diagnosi dei problemi dell’economia
italiana.
Su tale analisi è in corso un dibattito sulle origini
del declino economico dell’Italia.
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Alcune statistiche
Negli ultimi decenni il tasso di crescita dell’economia italiana (PIL) è stato basso sia rispetto all’esperienza del secondo dopoguerra, sia nel confronto con gli altri paesi europei
L’Italia nel periodo 2001-2008 ha la crescita più bassa della produttività del lavoro (0,4% medio annuo contro l’1,7% della media dei trenta paesi). (OECD)
Se si considera invece il grado di innovazione tecnologica e organizzativa (ciò che viene definita la produttività totale dei fattori), si scopre che l’Italia si trova all’ultimo posto nella classifica OECD.
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Un brevissimo ripasso: PIL
Pil nominale (Prodotto Interno Lordo) ai prezzi di
mercato: il PIL è un indicatore di tutto ciò che viene
prodotto nel sistema economico, sia in termini di beni
materiali che di servizi, sia dal settore pubblico che dal
settore privato, in un determinato periodo di tempo.
Rappresenta una grandezza molto importante per valutare
lo stato di salute di un’economia perché un incremento di
questa variabile macroeconomica corrisponde alla crescita
di un paese.
Pil reale a prezzi costanti rispetto ad un anno base
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Il calcolo del PIL Il PIL viene calcolato secondo i seguenti tre metodi:
1. Metodo della distribuzione del reddito: si
somma tutto ciò che viene distribuito sotto forma di
retribuzioni ai fattori della produzione, lavoro
(salari) e capitale (profitti) in modo da evidenziare
come vengono distribuiti i redditi all’interno del
paese.
2. Metodo del valore aggiunto: si somma tutto
ciò che viene prodotto dai singoli settori
(agricoltura, industria e servizi) in modo da
rappresentare le caratteristiche produttive di un
paese.
10
…..
3. Metodo della domanda aggregata: si
sommano i consumi, gli investimenti, la spesa
pubblica e la differenza tra importazioni ed
esportazioni in modo da avere una prospettiva
dal lato della domanda.
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Perché tre metodi
Dal punto di vista delle politiche economiche è
rilevante la prospettiva con cui si considera il
PIL.
Per esempio, per vedere l’applicazione di
politiche economiche che riguardino
determinati settori produttivi, un valore
importante è quello del PIL secondo il metodo
del valore aggiunto che mostra se la
specializzazione del paese è nel settore terziario,
commerciale o industriale;
12
…….
per vedere l’applicazione di politiche
economiche in termini di distribuzione del
reddito è rilevante il PIL calcolato in modo da
evidenziare la retribuzione dei diversi fattori
produttivi;
infine, per vedere l’applicazione di politiche
economiche che riguardino la domanda, è
importante il PIL suddiviso tra consumi,
investimenti e spesa pubblica.
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PIL PRO-CAPITE
PIL pro capite = PIL / numero abitanti del paese
Il PIL viene rapportato alla popolazione media
residente nell’anno e fornisce un dato che
costituisce una misura facilmente confrontabile.
Nei confronti internazionali viene utilizzato il
PIL pro capite misurato in parità di potere
d’acquisto (Ppa), che consente una migliore
comparabilità internazionale in quanto viene
depurata l’influenza dei differenti livelli dei
prezzi nei vari paesi.
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Una breve introduzione in pochi grafici
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Pil reale italiano dal 1960 al 2016.
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Fluttuazioni di breve periodo
1970 -1975 prima crisi petrolifera,
1979 -1982 recessione come conseguenza della
seconda crisi petrolifera.
1992 – 1994 recessione avviatasi con la crisi di
fiducia sulla tenuta della finanza pubblica
italiana e uscita della lira dallo SME.
L’ultimo periodo (a partire dal 2007) segna,
infine, il più recente e delicato passaggio della
“quasi stagnazione” in cui ancora oggi si trova la
nostra economia.
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Il lungo periodo
Eppure dal 1960 ad oggi la produzione aggregata
è difatti cresciuta in Italia più di 4 volte.
L’Italia è economicamente cresciuta negli ultimi
60 anni, anche se in maniera non omogenea,
nonostante il suo:
dualismo geografico ed economico,
la sua specializzazione produttiva nei settori
tradizionali,
le ataviche carenze infrastrutturali,
17
…..
la sua inefficiente organizzazione dei mercati dei
beni, dei servizi, e della rigidità del mercato del
lavoro.
Anche se appesantito negli anni il nostro Paese
permane però ancora oggi tra le economie a più
alto livello di reddito pro-capite.
Allora qual è il problema???
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Tassi di crescita del Pil reale Elaborazioni su dati AMECO
Italia Germania Francia Spagna
Stati
Uniti
1961 -1970 5.7 4.5 5.7 7.4 4.3
1971 -1980 3.8 2.9 3.6 3.6 3.2
1981 - 1990 2.4 2.3 2.5 2.9 3.4
1991 - 2000 1.7 3.2 2.1 2.8 3.4
2001 - 2010 0.3 0.9 1.2 2.2 1.7
2011 - 2016 -0.4 1.6 1.0 0.4 2.0
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La regola del 70: quando è che un tasso di
crescita è “alto” o “basso”?
+2%, +5%, +0.9%: come si fa a dire se un tasso di crescita è alto o basso?
La “regola del 70” ci dice: Quanti anni occorrono per raddoppiare il Pil
Numero di anni = [70 diviso il tasso di crescita (in punti percentuali)]
Se Pil cresce dell’1%, ci vogliono 70 anni per raddoppiarlo
Orizzonte generazionale di “stagnazione”
Così è stata l’Italia degli ultimi 20 anni!
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Dai dati della tabella si evince che l’Italia a
partire dagli anni Novanta tende a staccarsi dai
paesi leader continentali.
l’economia americana a differenza di quella
europea riesce a mantenere in media un tasso
di crescita sostenuto, certamente notevole per
un’economia di mercato matura come quella
statunitense
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PIL PRO-CAPITE
Fornisce una misura, per quanto parziale, del
cambiamento nel tenore di vita che si manifesta
al trascorrere del tempo nei diversi paesi.
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Evoluzione delPil pro capite in Italia, EU 15 e
US (=100)
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Distanza dagli USA
E’ sorprendente quanto sia cresciuto in Italia il
tenore di vita negli ultimi sessanta anni. Ma…
In termini di distanza relativa dall’economia
Usa, nel 1960 il prodotto pro capite italiano era
pari al 57 per cento di quello statunitense e al di
sotto dalla media europea. Fino alla metà degli
anni Novanta l’Italia ha ridotto la distanza fino a
raggiungere quasi l’80% del pil USA.
Dalla metà degli anni Novanta il gap si è
costantemente allargato fino a ridiscendere al
60% del prodotto pro capite medio statunitense.
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Distanza dalla Unione Europea
La distanza italiana dalla media europea si è
ridotta, anche se dopo una serie di sorpassi e
contro sorpassi quest’ultima rimane superiore di
circa 3 punti percentuali.
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1995 l’anno a partire dal quale siamo andati peggio degli
altri:
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L’incapacità di crescere: la produttività
La crescita relativa dell’Italia è sempre stata
inferiore agli altri quattro grandi paesi europei a
partire dal 1995.
Dal 1995 al 2007 meno 15 punti di Pil rispetto
agli altri grandi paesi europei (1 punto
percentuale all’anno)
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L’opposto di quanto avvenne dal 1950 al 1995:
+23 punti rispetto agli altri. Dal 1995, ci siamo
rimangiati più di metà della rincorsa
Fino al 2007 non si trattava ancora della riduzione
del livello assoluto del tenore di vita dell’italiano
medio, ma di una riduzione persistente della
nostra capacità di aumentarlo agli stessi ritmi di
paesi confrontabili con il nostro.
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Perché?
Nel 1995 l’Italia aveva completato la convergenza e
si trovava sulla frontiera produttiva.
❖ Ipotesi interpretativa: l’Italia è il paese europeo che meno ha saputo adattarsi ai grandi cambiamenti maturati tra gli anni ’80 e ’90:
• rivoluzione tecnologica (ICT)
• seconda globalizzazione dei mercati di beni, servizi e capitali
• accelerazione integrazione europea fino alla moneta unica
• India e Cina come principali attori economici
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Tante cose non vanno in Italia … Scuola e università istruiscono poco e quindi non
aiutano la mobilità sociale
Pubblica Amministrazione inefficiente
I politici sono ritenuti una casta auto-referenziale (fa leggi, inclusa quella elettorale, in modo da rispondere solo a se stessa e non agli elettori)
Molte imprese investono poco e non fanno ricerca. Soprattutto le piccole
Avvocati, notai, banche, assicurazioni, benzinai e tassisti sono troppo tutelati da leggi e regolamenti compiacenti.
Tutto vero e tutto dannoso per la crescita. Ma …
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.. MA quelli elencati sono mali atavici d’Italia ..
Il funzionamento di
Scuola e università
Pubblica amministrazione
Sistema politico
Sistema (pubblico e privato) di ricerca e innovazione
Servizi alle imprese e ai consumatori
Dualismo territoriale (Nord-Sud) è sempre stato lacunoso in Italia …
Anche quando eravamo i cinesi d’Europa.
Per spiegare le “barrette negative” dopo il 1995, bisogna rispondere alla domanda: cosa è andato storto dopo il 1995 e che invece andava bene prima del 1995?
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Cosa è cambiato a partire dagli anni Novanta?
Non sembra azzardato definire epocali i
cambiamenti che si sono verificati negli anni
Novanta. Essi segnano un discrimine non solo
nella storia economica italiana ma anche in
quella dell’economia mondiale. È sufficiente
fare un elenco di questi cambiamenti per
comprenderne la portata effettiva.
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Shock e produttività
Alcuni shock recenti hanno mutato in modo
radicale le regole di governo dell’economia
italiana
Questi shock hanno accentuato le debolezze
strutturali dell’economia italiana e causato la
stagnazione della produttività.
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E’ opinione ormai diffusa che l’andamento, a
partire dalla prima metà degli anni novanta,
dell’economia italiana rifletta problemi
strutturali irrisolti, resi più pressanti dai notevoli
cambiamenti che hanno caratterizzato
l’economia mondiale.
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Il deficit di crescita dell’economia italiana negli
ultimi decenni è riconducibile a caratteristiche
strutturali del sistema produttivo, per molti versi
immutate da decenni, che sono risultate inadatte a
fronteggiare le nuove pressioni competitive e a
sfruttare appieno le opportunità offerte
dall’innovazione tecnologica e dall’integrazione
economica europea e mondiale.
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Gli shock “globali” degli anni novanta
1. Globalizzazione. Integrazione del mercato del
lavoro (immigrazione), dei mercati dei beni e di
quelli finanziari. Nuovi competitors: Cina e India
2. Nuove tecnologie (ICT): Una rivoluzione che
non ha interessato soltanto il come si produce ma
anche il che cosa, e la stessa organizzazione dei
processi produttivi.
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1. La Globalizzazione
Negli ultimi due decenni il processo di
integrazione economica internazionale, indicato
comunemente con il termine “globalizzazione”,
si è intensificato in misura considerevole.
Cosa ha comportato ciò per l’economia italiana?
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La concorrenza sui mercati
internazionali e vantaggio comparato
La struttura dei vantaggi comparati è stata profondamente modificata dall’ingresso di un consistente gruppo di paesi quali la Cina, l’India e i paesi ex-comunisti, dotati di un’ampia forza lavoro ma di un limitato stock di capitale.
Si stima che, in seguito al loro ingresso nel commercio internazionale, la forza lavoro attiva nell’economia globale sia sostanzialmente raddoppiata (Freeman, 2006).
In base alla teoria della proporzione dei fattori, ciò dovrebbe determinare una concorrenza più elevata per le produzioni a maggiore intensità di lavoro e, in particolare, di lavoro non qualificato. D’altro canto, le imprese operanti in settori a maggiore intensità di capitale o di altri fattori più scarsi nella nuova economia globale avrebbero maggiori opportunità di mercato.
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Un limite alla capacità competitiva del sistema
produttivo italiano è rappresentato dalla scarsa
specializzazione nei prodotti a elevato contenuto
tecnologico, causa ed effetto degli scarsi
investimenti in ricerca e sviluppo (R&S).
In prospettiva, al pari dei settori tradizionali,
anche produzioni a tecnologia medio-alta, come
la meccanica e i mezzi di trasporto, potrebbero
soffrire la già significativa e crescente
concorrenza dei paesi emergenti (Felettigh et al.,
2006).
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2. La rivoluzione tecnologica
Il processo di convergenza delle economie
europee rispetto agli Stati Uniti in termini di
prodotto pro capite e di produttività del lavoro,
avviatosi negli anni cinquanta e proseguito fino
all’inizio degli anni settanta, sembra essersi
interrotto dalla seconda metà degli anni
novanta.
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Da allora gli Stati Uniti hanno visto crescere
output e produttività del lavoro a ritmi molto più
sostenuti che in passato e ben superiori a quelli
registrati nei principali paesi europei. Questa
accelerazione è stata attribuita in larga misura
all’introduzione delle TIC (cfr.Jorgenson e
Stiroh, 2000; Oliner e Sichel, 2000; OECD,
2003a; Visco, 2004).
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I paesi europei, e l’Italia in particolare, hanno tratto vantaggio assai più tardi degli Stati Uniti del nuovo paradigma tecnologico associato con le TIC (OECD, 2003a; Rossi, 2003; Visco, 2004).
Secondo uno studio di Bugamelli e Pagano (2004) per il periodo 1995-97 le imprese manifatturiere italiane mostravano un ritardo medio nell’adozione di TIC di circa sette anni rispetto alle imprese statunitensi.
Ciò rifletteva non tanto una specializzazione produttiva sbilanciata verso i settori tradizionali, meno propensi a investire in TIC, quanto la carenza di lavoratori qualificati e gli alti costi di aggiustamento che seguono la necessaria riorganizzazione delle attività dell’impresa (Bresnahan, Brynjolfsson e Hitt, 2002; Black e Lynch, 2001 e 2004).
Conclusioni simili erano raggiunte da Fabiani, Schivardi e Trento (2005) che individuavano nella dimensione di impresa e nella disponibilità di personale qualificato i fattori determinanti per l’adozione di TIC.
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Questo ritardo è stato in parte colmato nel corso di questo decennio.
Nel gennaio del 2008, la diffusione delle TIC “di base” (computer, posta elettronica, connessione a Internet) ha raggiunto livelli prossimi alla saturazione, con incidenze superiori al 90 per cento sul totale delle imprese informatizzate, indipendentemente dalla dimensione delle imprese e dalla loro localizzazione (Istat,2008).
È altrettanto elevato l’utilizzo di Internet per finalità a basso contenuto interattivo, come l’accesso a servizi bancari o finanziari, per la fruizione di servizi informativi offerti on-line dalla Pubblica Amministrazione o per promuovere i propri prodotti e servizi attraverso il sito web.
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Ma…..
La frontiera tecnologica si è nel frattempo spostata in avanti e, nonostante la sempre più ampia diffusione delle TIC di base, permane un ritardo dell’Italia nell’utilizzo delle tecnologie e dei servizi più avanzati. Ne è un esempio la banda larga (Ciapanna e Sabbatini, 2008)
I principali fattori che concorrono a determinare questa situazione sono un problema culturale, che discende dalla scarsa alfabetizzazione informatica della popolazione, un problema orografico, reso più acuto dall’assenza di incentivi economici a investire in aree poco convenienti, e un problema strategico connesso con la situazione di monopolio per l’ultimo miglio.
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Gli shock “locali”
3. L’Euro. Politica monetaria. La perdita della
sovranità monetaria. BCE e entrata in vigore
dell’euro dal 1999. Rinuncia al Tasso di cambio:
svalutazioni competitive
4. Cambiamento del quadro contrattuale che
regola il mercato del lavoro: l’insieme delle
riforme del mercato del lavoro che in Italia va
sotto il nome di pacchetto Treu e legge Biagi.
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3. L’integrazione europea Grazie alla libera circolazione dei fattori della produzione, la
realizzazione di un mercato unico europeo dovrebbe aver sostenuto gli scambi commerciali, promosso la concorrenza, favorito la specializzazione nelle produzioni di vantaggio comparato. L’introduzione dell’euro nel gennaio 1999 ha rappresentato il culmine di tale processo. I benefici connessi con l’adozione di una valuta comune – la riduzione dei costi di transazione, l’eliminazione del rischio di tasso di cambio all’interno dell’area, la maggiore trasparenza nei prezzi e nei costi – dovrebbero aver agito da ulteriore stimolo al commercio internazionale e agli investimenti diretti esteri.
L’adozione dell’euro ha anche posto fine alla possibilità per i singoli paesi di ricorrere a svalutazioni per fronteggiare perdite di competitività.
L’adozione dell’euro ha anche significato perdita di sovranità della politica monetaria e vincoli stringenti imposti alla politica di bilancio pubblico.
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4. La riforme del mercato del lavoro In Italia i risultati sono stati molto favorevoli in termini di occupazione, aumentata
complessivamente del 15 per cento tra il 1995 e il 2007, e di partecipazione, soprattutto femminile.
Questi andamenti contrastano con quelli insoddisfacenti della produttività. In parte, vi ha contribuito la dinamica contenuta del costo di utilizzo del lavoro, che ha frenato la crescita dell’intensità di capitale.
In parte, gli stessi nuovi assetti del mercato del lavoro potrebbero aver influenzato negativamente il grado di efficienza produttiva e organizzativa delle imprese italiane.
Tra i molti canali che connettono la produttività delle imprese al funzionamento del mercato del lavoro, due aspetti meritano attenzione:
a) la diffusione dei contratti di lavoro a termine
b) il ruolo della contrattazione decentrata.
In base all’evidenza disponibile, l’utilizzo dei contratti a termine si correlerebbe negativamente con la produttività del lavoro, probabilmente per la minor accumulazione di capitale umano per i lavoratori impegnati in azienda per un periodo limitato, mentre l’adozione di politiche retributive aziendali, in particolare se includono premi variabili, si assocerebbe a una crescita della produttività maggiore.
50
Sebbene qualitativamente simili, le conseguenze
di questi shock variano tra i paesi avanzati per la
dimensione dell’impatto, che è dipeso dalle
specifiche caratteristiche strutturali
dell’economia: per l’Italia esso è stato
complessivamente più pesante. I dati aggregati
mostrano una situazione di preoccupante ritardo
di crescita, evidente nei difetti di efficienza del
sistema produttivo e di competitività dei prodotti
italiani.
51
I paesi scandinavi ci sono riusciti abbastanza bene;
altri hanno avuto più difficolta ad adattarsi al
nuovo mondo.
L’Italia è, tra i grandi paesi europei, quello che
meno e’ riuscito a realizzare le riconversioni
produttive, sociali e culturali necessarie a
trasformare ciascuno di questi shock da ostacolo a
opportunità di crescita.
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Ridotta «capacità sociale di crescita»
Nella ricerca delle motivazioni per la ridotta ≪capacita sociale di crescita≫ dell’Italia si deve distinguere tra:
1. l’indebolimento dei fattori di crescita presenti fino agli anni Ottanta e
2. le storiche debolezze italiane dell’economia, delle istituzioni e della società che non hanno impedito (alcune addirittura hanno favorito) il precedente processo di convergenza ma che, nelle condizioni internazionali e tecnologiche successive al 1992, sono divenute freni alla crescita.
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I fattori di crescita perduti
(Toniolo G.(2013))
In una prospettiva di lungo termine, tre sono i
principali mutamenti avvenuti nell’economia
italiana dalla fine degli anni Ottanta che possono
avere influito negativamente sulla crescita:
(1) la riduzione delle dimensioni, dell’influenza
e della produttività delle grandi imprese;
(2) l’aumento del rapporto debito/PIL
(3) il passaggio dalla sottovalutazione alla
sopravvalutazione del tasso di cambio reale.
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(1) Il ruolo delle grandi imprese
L’Italia è storicamente caratterizzata dalla diffusa presenza di piccole imprese: all’inizio degli anni ’60 la dimensione media era 49 addetti (70 Francia, 78 Germania).
❖ La flessibilità delle piccole imprese è alla base dell’economia italiana; tuttavia esse traggono vantaggio dalla presenza delle grandi (subforniture, R&S, investimenti diretti).
La riduzione delle dimensioni delle grandi imprese ha comportato un calo della loro capacita di ricerca e sviluppo in un periodo in cui la rapida elaborazione e adozione di nuove tecniche e stata più importante che in passato.
❖ Negli ultimi decenni la dimensione media è calata ovunque ma in misura superiore in Italia.
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(2) Il rapporto debito/PIL
Storicamente l’Italia ha avuto un debito elevato
❖ Alcuni economisti sostengono che livelli
crescenti di debito pubblico producano un
progressivo rallentamento della crescita del PIL:
Un elevato debito spinge i tassi in alto, provoca
elevata tassazione e può spiazzare gli investimenti
privati.
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(3) Gli effetti del cambio
❖ Fino agli anni ’90 il cambio reale era rimasto
vicino alla parità o sottovalutato.
❖ Un cambio sottovalutato aiuta la crescita
spostando risorse verso i settori orientati all’export,
che più facilmente accrescono la propria
produttività. Il prezzo da pagare è l’inflazione.
❖ L’introduzione dell’euro ha sottratto al policy
maker questa leva. Il sistema produttivo non ha
reagito mantenendo i costi unitari in linea con i
competitori.
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Le debolezze persistenti
Nonostante il lungo cammino percorso, alcuni elementi di debolezza dell’economia italiana sono da considerare atavici non trovando soluzione:
❖ il divario territoriale nord-sud
❖ basso capitale umano e sociale
❖ scarsa competizione nei mercati interni dei prodotti e del lavoro
❖ scarsa attività di ricerca e sviluppo
❖ esili mercati dei capitali
❖ sistema bancario definito “foresta pietrificata”
❖ Pubblica amministrazione inefficiente
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Il ruolo delle debolezze
Queste debolezze sono importanti nello spiegare la bassa crescita dell’ultimo ventennio.
Domanda:
Perché, se non hanno impedito il processo di convergenza in passato?
❖ Finché esiste un divario di produttività è relativamente semplice importare tecnologia dall’estero e spostare il lavoro verso i settori ad alta produttività.
❖ In prossimità della frontiera diventano importanti fattori di crescita diversi, come istituzioni adeguate, infrastrutture fisiche e non, ricerca, capitale umano. Esempio ICT.
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Un caso esemplare: l’istruzione
Nei 150 anni successivi all’unità il numero medio pro capite di anni di frequenza scolastica è passato da 1 a 10,8.
Ma non è stato sufficiente a raggiungere la convergenza con i principali paesi europei.
❖ La fase di catching up richiede per lo più conoscenze pratiche e informali; una bassa scolarizzazione non penalizza.
Nella fase attuale la scarsità di capitale umano impedisce l’adattamento alla globalizzazione.
❖ Miglioramento negli ultimi 10 anni, ma
(1) tempo per raggiungere una quota di laureati simile alla media OCSE e
(2) (2) bassa qualità delle nozioni degli studenti (indagine PISA).
60
Perché l’Italia resiste al cambiamento?
Possibili spiegazioni:
❖ ampia distanza tra diversi gruppi di interesse/partiti,
aggravata dalla fine delle ideologie e dalla
dissoluzione dei partiti politici tradizionali
❖ difficoltà per le imprese ad allocare efficacemente i
talenti imprenditoriali a causa di forme di governo a
controllo familiare
❖ mancanza di una leadership politica in grado di
riformare il settore pubblico
❖ un assetto istituzionale che rende difficile assumere
decisioni politiche rilevanti