Piero Chiara - Il Piatto Piange

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Il piatto piange

Il piatto piange

di Piero Chiara

Edizione di riferimento:Mondadori, Milano 1962

SommarioI5II8III11IV13V15VI17VII20VIII22IX24X28XI30XII34XIII37XIV39XV43XVI46XVII49XVIII51XIX54XX57XXI60XXII62XXIII66XXIV69XXV71XXVI73XXVII76NOTA78

I

Si giocava dazzardo in quegli anni, come si era sempre giocato, con accanimento e passione; perch non cera, n cera mai stato a Luino altro modo per poter sfogare senza pericolo lavidit di danaro, il dispetto verso gli altri e, per i giovani, lesuberanza dellet e la voglia di vivere.Nei paesi la vita sotto la cenere. Per vivere come si vorrebbe da giovani ci vuole danaro; e di danaro ne corre poco. Allora si gioca per moltiplicarlo e si finisce col fare del gioco un fine, una mania nella quale si stempera la noia dei pomeriggi e delle sere.Non ci si accorge che a due passi, fuori dalle finestre, c il lago e la campagna. Si sta legati ai tavoli a denti stretti e neppure si pensa che lo studio, o un mestiere qualsiasi, potrebbero rompere quellinceppo che si maledice e si adora, e aprire una strada nel mondo a chi nascendo si trovato davanti lacqua del lago e dietro le montagne, quasi a indicare che per uscire dal paese bisogna compiere una traversata o una salita, fare uno sforzo insomma senza sapere se ne valga la pena.Qualcuno che si ribella o che viene scosso dalla necessit, se ne va a lavorare o a far ribalderie allestero, o almeno fuori da quei limiti. Gli altri continuano a giocare, a studiarsi, a guardarsi vivere lun laltro. Di tempo in tempo trovano qualche nuova forzatura del dialetto o inventano un soprannome che affligger una famiglia per due generazioni. Passano una stagione dopo laltra e aspettano il ritorno di quelli che sono partiti per poterli ascoltare quando raccontano in cerchio al Metropole o al Caff Clerici.Forse lunica benevolenza che i luinesi abbiano tra loro proprio quella di ascoltarsi in quei racconti e di accettarli per veri.Ricordo quando il Monti, detto Tonchino, raccontava le sue avventure in Indocina dove per le strade, dopo i temporali, scavalcava serpenti; il Lanfranchi quando parlava di Parigi dove aveva fatto il sarto, tanto che tagliava ancora alla moda parigina dei suoi tempi; il Carletto, detto Cdega per la troppa carne che aveva sul collo, quando descriveva lInghilterra e le miniere dove aveva lavorato, o suo fratello Gianni quando parlava dellAmerica dovera andato come cameriere di bordo sopra una nave.Certe volte arrivava da lontano, magari dallEstremo Oriente o dalla Bolivia, un tale che nessuno conosceva o che solo qualche anziano ricordava per nome: era subito circondato al caff e finiva per raccontare, aggiungendo nuove contrade e nuove esperienze alla nostra curiosit. Si alimentavano, a quei discorsi, i sogni di quelli che non si sarebbero mai mossi e degli altri che un giorno, senza salutare nessuno, avrebbero preso la strada di quei miraggi.Si pu dire che da noi il mondo veniva conosciuto non sui libri o sulle carte geografiche, ma dai racconti di quelli che erano stati fuori e attraverso le loro avventure. Cera per noi unInghilterra che era quella del Cdega, unAmerica che era quella di suo fratello Gianni, unIndocina che era quella del Tonchino e due o tre tipi di Parigi: quella del Lanfranchi sarto o quella del Carlo Rapazzini che vi era rimasto dieci anni come taxista. Erano vedute diverse, ma pi vere di quelle che a me tocc poi di scoprire nei libri, oppure andandovi di persona. A Parigi debbo dire che mi fu sempre molto facile trovare le donne, le strade, i metro e i boulevards del Lanfranchi o del Rapazzini, mentre avevo difficolt a riscontrarvi le cose lette o studiate.Era una specie di ereditariet, perch Luino terra di emigranti; e perfino le donne hanno una storia di viaggi e di avventure da raccontare. I Battaglia, pionieri dellindustria meccanica tessile, ancora prima della guerra 1915-1918 fornirono macchine per tessitura alla Russia, allIndocina, alla Persia e ad altri paesi. Mandavano le macchine, ma prima mandavano capimastri e muratori luinesi a costruire lo stabilimento, e appena impiantata la fabbrica arrivavano da Luino le maestre di telaio, le orditrici e le incannatrici a istruire le maestranze del luogo. Donne di Luino, di Voldomino e di Germignaga andarono cos in terre lontane per anni; e durante lultima guerra i nostri soldati che erano a Smolensk o in altre citt lungo il Don, ritrovarono i luoghi descritti loro nellinfanzia dalle madri, e certe volte famiglie di operai che ricordavano ancora quelle donne di Luino.Cerano poi, specialmente nei paesi delle vallate che scendono verso Luino, i muratori, glimbianchini e gli stuccatori che da secoli andavano in Francia, in Svizzera e in Germania a lavorare, seguendo itinerari familiari. E tanti cuochi e camerieri, quasi tutti delle valli di Dumenza, o di Colmegna e Maccagno, che arrivavano fino in Inghilterra. Qualcuno di questi che tornava coi soldi e si comperava un ristorante o un albergo, lo dotava di posate che portavano inciso il nome dei pi grandi alberghi dEuropa. Le avevano rubate pazientemente, un poco alla volta, gi col pensiero di mettersi un giorno per conto proprio nel mestiere.Fu un imbianchino di Dumenza, tal Vincenzo Peruggia, che nel 1911, trovandosi a lavorare al Louvre, rub la Gioconda di Leonardo da Vinci. Se la port a Luino arrotolata nella sua valigia demigrante, poi a Dumenza dove ogni tanto, dopo mangiato, la tirava fuori da sotto il letto e la mostrava ai familiari. Sarebbe ancora a Dumenza la Gioconda se il Peruggia un giorno non avesse pensato di venderla. Appena la srotol allAlbergo Tripolitania di Firenze dove aveva appuntamento col direttore della Galleria degli Uffizi, venne arrestato e la Gioconda torn a Parigi.I luinesi, cos irrequieti e avventurosi, quando non potevano andare a lavorare o a cercar fortuna in Francia o altrove, oppure fino a quando non avevano trovato la forza o il pretesto per lasciare il paese, si azzannavano tra loro nel gioco, derubandosi ferocemente, accordandosi in due per spogliare un terzo o in tre per spogliare un quarto, e mutando poi composizione, finch - uno alla volta - si erano spogliati e rifatti tutti quanti, salvo qualcuno che finiva col vendere lautocarro o la bottega, o magari il letto della madre, come fece il mio amico Protaso, un giorno che la povera donna era in giro a cercargli un posto di lavoro. Protaso, che sarebbe tutto un capitolo di vita luinese, con la sua lunga attesa al paese e poi con i suoi viaggi di soldato e di prigioniero in Australia e in Inghilterra, le sue avventure paurose e il triste ritorno al porticciolo, in vista della casa e della barca dellunico suo zio, che poi lo trad lasciando la casa ad altri e costituendo erede Protaso, col fratello Quintino, della barca che era andata in pezzi prima dellapertura del testamento.Preso in quelle follie e in quel ritmo veloce di spogliazioni al tavolo da gioco, io stesso andai una volta, per una settimana, a far vita a Milano con una pelliccia di castorino che avevo vinto al Furiga e con in tasca una quantit di aquilotti (quei bei pezzi da cinque lire dargento) che avevo raccolti al tavolo stesso dove in pagamento del suo debito il Furiga mi aveva dato la pelliccia. Come il Furiga potesse avere un cappotto con linterno di pelliccia era un mistero forse spiegabile con le lunghe assenze di una sua sorella dalla casa e dal paese. So che appena tornato a Luino riaffondai nel gioco e la pelliccia cominci a passare da uno allaltro.Si giocava specialmente dinverno. E in quegli anni quasi soltanto al Metropole, fino a mezzanotte di sopra, nel bar o in una saletta, e a ramino per lo pi, gioco permesso dallautorit e che serviva per dare il fumo negli occhi al Commissario di Pubblica Sicurezza o a qualche altro ficcanaso. Dopo mezzanotte, chiuso il locale, in otto o dieci si scendeva in cantina dove il proprietario, un certo Sberzi, gi cameriere in Inghilterra, aveva attrezzato, o meglio camuffato, un locale che appariva come una sala per il ping-pong, con in pi un certo numero di sedie. Su quel tavolone si gettava un tappeto verde e in mezzo appariva il mazzo delle trecentododici carte dello chemin de fer, posato sopra un cartone che serviva in luogo del sabot per farlo girare da un banchiere allaltro.Noi accostavamo le sedie cercando di stare a monte di quel giocatore che si riteneva pi scabroso, e il gioco incominciava. Gettoni non se ne adoperavano, ma danaro contante: aquilotti, decioni (quelli dargento con la biga), patacche da venti lire (col re soldato sul recto e sul verso la scritta meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora). Venivano poi sul tavolo, con lavanzare del gioco, i verdoni o biglietti da cinquanta lire ed i biglietti da cento che gi a Luino si chiamavano sacchi. Correvano anche, ma pi rari, i biglietti da cinquecento e quelli da mille lire, grandi come tovaglioli e chiamati garibaldini perch ne erano rimasti ben pochi in circolazione.Quando eravamo in pi di nove si facevano due tavoli; ma di solito il tavolo era unico. Fra gli altri vi sedeva sempre con maggiore frequenza il Rimediotti, un vecchio baro di quasi ottantanni, cognato del gestore del Dazio, che riusciva ancora a montare qualche breve serie nella speranza di agguantarla al volo con una offerta al banchiere e di trarne i suoi tre o quattro colpi sicuri. Ma capitava spesso che per lincomprensione del banchiere o per qualche sospetto che si cominciava ad avere, la serie capitasse a uno che se la godeva. In quel caso il Rimediotti domandava umilmente di aggiungere un suo aquilotto per non restare a bocca asciutta, e sempre gli veniva consentito.

Capit un inverno che il Commissario di Pubblica Sicurezza, anzich denunciarci, fece compagnia con noi giocando notti intere e perdendo dei mezzi stipendi.Giocavano con noi, oltre a quelli che ho detto, il ragioniere Queroni (la cui moglie, amante del notaio Brudaglia, si scopr molto tempo dopo che non era moglie del Queroni ma proprio del Brudaglia, e che i due amici avevano invertito le parti per qualche oscura ragione), il Pisoni, assicuratore e rappresentante della Societ degli Autori, il Peppino Kinzler, un paio di Ispettori di Dogana, il Cmola, il Tolini detto Tetn, tre o quattro altri figli di famiglia e infine lalbergatore stesso Sberzi, che era un dritto quale ci voleva per destreggiarsi coi luinesi ed a Luino, sotto il livello stradale, anzi sotto il livello del lago che batte contro il muraglione del Metropole e in primavera allaga le cantine.II

Una di quelle notti, di primavera o fine inverno, il lago era entrato nelle cantine e cerano almeno dieci centimetri dacqua sul pavimento. Ma non per questo si poteva rinunciare a quel nascondiglio che era al sicuro da ogni incursione della forza pubblica. Infatti il Metropole, a chi fosse passato dopo mezzanotte, appariva quale un castello disabitato, con le tapparelle e le saracinesche abbassate, le porte e i cancelli chiusi. Nessuna luce trapelava allesterno, anche perch lo spiraglio della nostra cantina era accecato con stracci e tele di sacco pressate nella feritoia sotto lo scalino della porta laterale. Noi respiravamo laria che entrava dalla porta, proveniente dai lucernari che davano verso il lago; e la porta era sempre aperta perch un cameriere andava e veniva con panini imbottiti, birra e liquori. Ogni tanto qualcuno usciva per andare alla toilette di sopra, ma poi orinava, per dispetto allo Sberzi e per far pi presto, nel primo andito, contro la porta della dispensa o del corridoio, ben chiuso, dove cerano le bottiglie piene.Nel caso che la polizia avesse pensato di sorprenderci, eravamo pronti ad andarcene, al primo allarme, in una camera dei piani superiori, ciascuno la sua, gi fissata, dove se anche ci avessero trovato eravamo al sicuro da quella sorpresa in flagranza che la legge richiede per il gioco dazzardo. Quella precauzione era leredit che ci aveva lasciato un pretore, frequentatore - anni avanti - della nostra cantina e vera natura perdente, come diceva il Rimediotti per qualificare quel tipo di giocatore che sembra nato con la sfortuna addosso.Quella notte, sul pavimento cerano come ho detto almeno dieci centimetri dacqua, infiltrata dal lago che era cresciuto di livello sul finire dell'inverno. Per non bagnarci i piedi si raggiungeva il posto camminando su unasse che andava dallultimo gradino della scala alla soglia del locale: di l si saltava sul tavolo per poi calare ciascuno sulla nostra sedia, badando a non mettere i piedi a terra, e tenendoli invece appoggiati ai pioli delle sedie vicine. Il Rimediotti veniva portato sulle spalle dal Cometta che calzava stivali tutto lanno perch era capitano dei Balilla.Cos appollaiati si giocava con trasporto quando lo Sberzi, verso luna, e avendo mandato a letto la moglie, entr nel gioco buttando dalla soglia cento lire sul tavolo e gridando:Banco!Macch banco gli rispose il Pisoni (lunico che fisicamente non lo temeva). Prima vengono quelli che sono al tavolo. Banco per me!Lo Sberzi fin col sedersi; e tirati fuori vari biglietti da cento cominci a puntare forte, sempre contro il banco. In breve si trov senza soldi e tent di giocare sulla parola. Ma noi, Coprire glimponevamo, contenti di umiliarlo e per ripagarlo della prepotenza con la quale certe sere ci proibiva di giocare, secondo il suo capriccio. Dovette salire in camera a prendere altri soldi, e torn gi pi torvo, forse perch la moglie aveva capito che stava perdendo.Per prima cosa pretese, a titolo di cagnotte, un supplemento straordinario della solita tassa che si paga nei locali pubblici per giocare; poi riprese posto facendosi largo coi gomiti e puntando con accanimento contro il banco. In breve si rifece e cominci a dire:Voi siete gente di campagna, pajk, melguntt. Proprio a me volete insegnare a giocare. Io ho sbollettato dei lords in Inghilterra.Quando facevi lo sguattero a Londra? gli domandava il Pisoni.Era una gara a provocarlo, forti del fatto che chi vince non si offende mai; e lui, livido, a rinfacciarci colpo su colpo le nostre perdite. Cominci anche a scoreggiare. Cosa che faceva andare in bestia il vecchio Rimediotti.Lei al tavolo non ci sa stare gli diceva. Ma lo Sberzi faceva peggio.Nove gridava abbattendo il massimo punto, e lo sottolineava con un rumore forte, ostentato.Pare di essere a Roma quando portano i ciechi diceva il Rimediotti scuotendo la testa. Aveva spiegato una volta che a Roma per accompagnare i ciechi per strada usano lanterne che in luogo della fiamma hanno un moccolo di merda.Si rideva e ci si insultava fra mille oscenit, lo Sberzi da una parte e noi dallaltra, tutti solidali contro di lui che era un uomo grande e grosso, prepotente.Finch, esaudendoci la sorte, ricominci con nostra gioia a perdere; e fu un precipizio. Dovette andare unaltra volta in camera a prender soldi. Torn e combatt per un paio dore con gran coraggio; ma a poco a poco fu lasciato nudo come un verme.Giocata che ebbe lultima puntata fu espulso dal tavolo come cosa inutile e rimase sulla soglia a guardare, subendo i nostri lazzi pi crudeli.Intanto si era fatto quasi mattina e nessuno aveva pi sigarette. Il cameriere era andato a dormire e lo Sberzi non ci avrebbe venduto un pacchetto a nessun prezzo. Non si poteva, come altre volte, raccogliere le cicche buttate in terra di prima sera, perch lacqua le aveva disfatte. Pi irritati quindi erano i nostri nervi mentre il mazzo girava e col mazzo la sorte, spostando soldi dalluno allaltro.Dun tratto lo Sberzi, entrando in acqua fino alle caviglie, venne verso il tavolo gridando:Basta! Non voglio pi che si giochi. Il mio albergo non una bisca! Fuori di qui! Non voglio aver da fare con la Questura. Siete tutti dei bari. Ho visto cose che non mi piacciono. Basta! Fuori!E cos dicendo scuoteva le nostre sedie, poi afferrava il tavolo facendo il terremoto.Mai visto un essere simile in sessantanni che sto ai tavoli di gioco mormorava il Rimediotti.Qualcuno prest cento lire allo Sberzi che ammansito rientr nel gorgo. Ma poco dopo, ridotto di nuovo a secco, riprese ad espellerci ed ebbe lidea di chiederci un altro supplemento di tassa per il gioco. Siccome nessuno ascoltava, sempre pesticciando nellacqua che copriva il pavimento si accost di nuovo al tavolo e cominci, per impedirci di rifare il mazzo, a sottrarci le carte che ad ogni mano venivano messe da parte. E non solo le ritirava, ma sempre gridando che era lultima volta che si giocava da lui, e scoreggiando disperatamente, stracciava le carte man mano che le agguantava, spargendo nellacqua i quadratini che in breve, galleggiando, ne coprirono tutta la superficie.Ce ne volle per spezzettare trecentododici carte, ma infine ci riusc, con quella forza che gli permetteva di stracciarne anche venti in un sol colpo. Era un segno solenne di ripudio del passato che quasi non ci dispiaceva. E lo Sberzi, finalmente calmo e silenzioso, aveva laria di uno che avesse fatto giustizia per sempre.Disgrazia volle che il capitano dei balilla Dario Cometta gli offrisse in prestito cinquecento lire. Con quei soldi freschi in mano lo Sberzi rivide la possibilit di riprendere tutto quello che aveva perso. Cambi allora di tono, e dicendo che aveva deciso di concederci ancora unora di gioco, and sopra a cercare altre carte. Scese con cinque vecchi mazzi da ramino che vennero mescolati insieme per fare lunico blocco delle trecentododici carte che occorrono per lo chemin de fer. E riattaccammo fra i pi lepidi scherni allo Sberzi che ormai in disdetta ricominci a perdere.Ha la scalogna in favore notava soddisfatto il Rimediotti.Allo chemin de fer la condotta di gioco che conta.Il gioco in s non richiede alcuna abilit. Non ci sono calcoli da fare, sparigli da tenere a mente o mosse da prevedere. Ci vuole solo carattere, cio ponderatezza, freno. Bisogna saper seguire il gioco e capirne landamento. Intuire quando le carte tendono a dare la serie o quando si ostinano nelle intermittenze, quando il banco da passare o quando da tenere.Per esempio, pessima cosa giocare contro il banco dopo aver passato la mano. Perch se si perde il colpo uno smacco, e lo smacco pu essere la porta dentrata della sfortuna. Altro errore grave quello di chi, essendo andato alla punta ed avendo perso il colpo, batte anche il secondo e il terzo, e magari il quarto e il quinto fino a lasciarci il capitale di gioco. cosa troppo imprudente andare contro una serie con pi di un colpo: se anche la serie si esaurisce prima del capitale, non si pu che ricuperare i propri soldi. Sarebbe come uscire di casa senza ombrello sotto la pioggia avendo calcolato che dopo il primo passo o il secondo la pioggia cesser. pi facile che continui. Mentre invece normale uscire di casa senza ombrello quando non piove ancora, pensando che il tempo pu tenere. In poche parole, ci che in corso facile che continui.Allo chemin de fer, come al baccarat, il giocatore deve andare in cerca della serie. E allo chemin in particolare deve aspettare che la serie gli nasca tra le mani, e solo eccezionalmente - quando in grande vena - pu andare a rilevarla se un timoroso la passa, dopo aver tenuto un paio di colpi o tre. Bisogna, in conclusione, non aver paura di arrischiare quando si vince e sapersi contenere e anche ritirare quando si perde.Ma la regola sovrana sempre quella che insegna a capire se si in serata giusta o no e a saper distinguere tra gli avversari la vittima di turno.E tutto questo per osservazione obbiettiva dellandamento del gioco e del comportamento dei giocatori, senza far caso ai presentimenti che sono quasi sempre ingannatori. Dopo un paio di giri il vero giocatore ha gi odorato che aria tira: ha gi capito chi vincer e chi perder. Non si dice di andar via se non va subito bene, perch qualche volta a met partita le cose cambiano per un motivo misterioso, ma si pu imporsi della prudenza, chiudersi, non azzardare troppo, fare un gioco dattesa. La cosa pi inutile cambiare posto. La sfortuna, quando c, segue come una puzza il giocatore sfortunato. luomo che segna, non la carta.E mai cercare di smantellare i vincenti, ma gettarsi addosso ai perdenti, contro i quali il gioco viene sempre facile. Ed anche contro quelli che ci subiscono moralmente o fisicamente. Specialmente, contro quelli che con noi di solito perdono. In loro c la sensazione di non poterci mai battere. E allora gi! Quando sei incudine statti, quando sei martello batti.III

Quella sera lo Sberzi avrebbe potuto perdere tutto il Metropole se fosse stato possibile venderlo l per l Perch gli era venuta la volutt di perdere: cosa che qualche volta prende il giocatore passionale. il gusto di toccare il fondo, di vedere fino a che punto pu andar male; e forse la falsa giustificazione di volersi procurare una batosta che serva per sempre da lezione. In quella situazione il giocatore si fa sotto come un capretto al macellaio e d sangue fin che ne ha.Lo Sberzi era cos quella sera; e certe volte si danneggiava da s tirando carta quando non era il caso, quasi per volutt di perdere, per imbarazzare lavversario e mettergli degli scrupoli.Dopo averlo tanto gabbato e offeso, tutti ormai lo compiangevano, perch una sera simile poteva capitare a chiunque una volta nella vita. Con gli occhi sbarrati, deciso a tutto, lo Sberzi chiedeva continuamente banco anche quando non era di mano, offriva sempre di raddoppiare luscita del banchiere, si impazientiva quando il mazzo era finito e bisognava mescolare le carte. In quellattesa tutti potevano guardarlo con comodo e lui si sentiva nudo davvero, anche di panni.Da una breve assenza era tornato con in mano due biglietti da mille lire che fecero ammutolire la tavolata. Se li mise davanti battendoci sopra una manata e ci guard come una massa di ladri gridando:Vedremo chi me li prende!Fece una risata minacciosa; per farsi coraggio, ricominci ad offenderci, a chiamarci pidocchi se non si stava alle sue puntate troppo forti, a dirci merdosi (Sent chi parla! esclamava il Rimediotti), morti di fame, e ancora pajk, melguntt, cio contadini, villani, eccetera.Intanto il primo mille lire si era sciolto nelle sue mani come neve. Non osavamo pi tenere davanti i soldi vinti per paura che in un gesto da pazzo ce li prendesse e li stracciasse, o almeno che si rendesse conto di quanto aveva perso. Si era fatto, dintorno a lui, il silenzio e lo spazio che si forma intorno ad uno che muore per strada.Basta, basta consigliava il Cmola impietosito l come pikgk a vun che caga.(Si parlava cos, allora. Ora pu darsi si parli pi pulito e pi generico. Ma tra di noi il parlare era tutto; e la preminenza, il rispetto, venivano sostenuti dalla forza del parlare. Uomini come il Cmola, il Kinzler, il Tonchino - o donne come Mamarosa - non parlavano mai liscio, ma sempre in modo fiorito, penetrante, immaginoso e senza eufemismi. La nostra vita e i nostri discorsi erano vani; ma proprio per questo avevamo bisogno di parole precise e di frasi ingegnose).Quel silenzio, e i rantoli dello Sberzi che rantolava proprio come un moribondo, richiamarono dimprovviso cinque facce che apparvero una sopra laltra nel vano buio della porta. Erano lIspettore di Dogana Spampinato con gli occhiali a pince-nez, il Campagnanino, il Peppino Kinzler, il Poldino Baranzelli e il ragionier Queroni, seniore della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale. Quei cinque giocavano a poker in una cantina adiacente alla nostra senza che noi ce ne accorgessimo. Per la verit giocavano gi da una decina di ore quando eravamo discesi. Ed anzi, il Poldino stava a quel tavolo da un giorno e una notte, nutrendosi di panini e di birre. Gli altri giocatori si erano scambiati pi volte, ma lui non aveva mai mollato, con quella ostinazione che aveva nel gioco anche quando non perdeva.Il Poldino era lultimo dei Baranzelli della Maiadora, quellosteria e cascinale sulla strada di Fornasette, sotto il Roggiolo, dove i luinesi da un secolo vanno a far mangiate ed a giocare a bocce.In un cascinale vicino io sono stato baglito dalla Lena e cullato al suono delle bocce contro lasse e delle bestemmie dei giocatori di morra.Losteria poi era andata a finire male e fu chiusa. I fratelli del Poldino si erano dati a vari mestieri e lui aveva continuato a condurre quel po di campagna che aveva ed a fare qualche trasporto tra Luino e quelle frazioni, Poppino, Longhirolo, Pianazzo. Aveva un carretto e un cavallo, oltre a una vecchia motocicletta Indian che usava per le sue scorrerie di giovanotto. La Indian era stata portata dallAmerica dieci anni prima dal Gianni Battaglia, il nostro campione motociclista. Aveva un manubrio simile alla ringhiera di un balconcino barocco e la sella con lo schienale. Andava forte, con un battito smorzato, e veniva spesso accoppiata dal Poldino ad una navicella o side-car per gli usi e le necessit del suo commercio e dei suoi amori.I cinque del poker avevano interrotto il gioco per venire a vedere lo Sberzi che poco prima con chiss quale faccia aveva ottenuto da loro le duemila lire. Arrivati costoro, e dovendosi rifare il mazzo, ci fu una sosta. Ci si accorse che erano ormai le sei del mattino. LIspettore di Dogana, per non mollare il tavolo, aveva lasciato passare senza visita il treno delle cinque che arrivava da Bellinzona, come altre volte gli era capitato.Il Poldino, dopo una cinquantina di ore, era soddisfatto del gioco. Aveva vinto ed era stato lui a prestare la somma allo Sberzi che gli aveva firmato un assegno. Dei cinque, la vittima era stato il Queroni, e lo si vedeva dalla faccia pi lunga del solito.Alla loro presenza il nostro gioco riprese e lo Sberzi, guardato anche dal suo recente creditore, non pot che perdere. Il secondo pezzo da mille lire si suddivise e si sfarin rapidamente, e quando lultimo spezzato usc dalle mani fredde dello Sberzi, fu come se non esistessero pi danari. Il tavolo era pulito, e noi, con le tasche piene e le facce di circostanza, cercavamo di convincere lo Sberzi che non cera rimedio, che tutto era inutile. Unaltra volta, forse...Vigliacchi! esplose lo Sberzi voi siete nati con tre chiappe, ma di qui non andrete via, dovete continuare a giocare; fra poco aprono le banche ed io andr a prendere tanti danari de impieniv el c, ladri, bari, con voi bisogna tenere il coltello sotto il tavolo!Furono vane minacce. Ci alzammo e barcollando risalimmo nel bar. Il bigliardo, coperto del suo telo, apparve come la promessa di un letto. Qualcuno alz una tapparella. Dalle spalle del Monte Lema scendeva un raggio di sole a sfiorare la riva del lago. Un altro raggio simpigliava tra le listelle e si posava sul parquet. Fuori faceva freddo. Forse era di nuovo brinato.Doveva essere la fine di febbraio o i primi di marzo. Sulle piante ancora nude, davanti allalbergo, pigolavano gli uccelli: cip, cip, cip. Il Poldino si volt di scatto: erano pi di cinquanta ore che al tavolo sentiva dire cip al suo vicino di destra.Cip, parole, vedo, buio, controbuio, passo, il piatto piange, servito, e poche altre sono le parole del poker.Alla luce del sole la faccia dello Sberzi che in cantina aveva un colore verde limone, apparve di un pallore mai visto. Ci guardava uno dopo laltro inebetito, credo per calcolare quanto del suo avesse in tasca ciascuno di noi. Non aveva pi parole; e non si capiva se era lui a trattenerci con quellaspetto o se eravamo noi a girargli intorno per godere fino allultimo della sua disfatta, in attesa di qualche gesto disperato che potesse dare la misura del nostro trionfo.Intanto il Pisoni aveva aperto la porta laterale, quella che d in giardino, verso il Carmine; e ad uno ad uno sfilammo fuori. Per primi si avviarono il Campagnanino e il Queroni. Il Campagnanino, che aveva la bicicletta, stava in sella col piede sul rialzo del viale ad aspettare il Queroni. Questi, che era un uomo di oltre un quintale, anziano e solenne, si adattava a sedere di traverso sulla canna della bicicletta, data lora mattutina, pur di rincasare in fretta. Abitavano tutti e due a Germignaga.Equilibrata la massa, infilarono il viale alberato, lentamente, come per ubbidire malvolentieri al gesto imperioso del Garibaldi che proprio davanti al Metropole, dal suo monumento di sasso, a spada sguainata ordina ai suoi volontari di correre verso Germignaga allinseguimento del nemico. Nel primo tratto, che un falso piano, si vedeva il Campagnanino dimenarsi sulla sella per spingere avanti il peso del Queroni; ma poi, appena passata la chiesa, era la massa del Queroni che trascinava tutto il carico nella leggera discesa fin di l del fiume. Era sempre verso quellora di prima mattina, col sole radente, che essi passavano sul ponte a ruota libera e con dolci sobbalzi, proiettando lombra dallalto sui mulinelli bianchi e verdi del Tresa. Dopo di loro sincamminarono gli altri. Con le mani in tasca, ognuno per conto suo, i giocatori si disperdevano. Fatti pochi passi, si sarebbero scambiati per gente che andava al lavoro dal Battaglia o dal Ratti. Con le spalle tirate su per il fresco, il passo svelto e la testa bassa, andavano verso le loro case rimuginando la solita scusa per la famiglia, quelli che ancora ne avevano bisogno, perch la gran parte non dava pi giustificazioni tanto era evidente, e innocente, il loro vivere.IV

Col Peppino Kinzler e il Poldino, non ancora deciso a rincasare, mi fermai presso la balaustrata della Tramvia Varesina, proprio dove usciva il torrente Luina da sotto il cunicolo che ora stato ricoperto: quel torrente che viene gi dalle Motte a piccole cascate e passa nei botri del Molinetto per poi infognarsi alle Scuole e uscir fuori di fianco al Metropole, carico di tutti gli escrementi luinesi. L stavamo, senza affacciarci al delta infame e cercando di metterci in quel raggio di sole che andava a cadere sulla spiaggia. Dopo una notte di gioco si ha sempre freddo.Stavamo cos, come passeri impallonati, quando di colpo il Poldino si port la mano alla fronte e diede un grido:Il cavallo! Il cavallo!Quale cavallo? domandammo insieme io e il Peppino.Il mio cavallo, il mio cavallo piagnucolava il Poldino. Dio, il mio cavallo! Sono tre giorni che non gli do da bere n da mangiare. Dio, mi morto il cavallo.Il Poldino aveva lasciato tre giorni prima la Maiadora per venirsene qualche ora a Luino. Trovato da giocare, il cavallo era rimasto dimenticato e senza nessuno che lo governasse. Il cavallo, insieme alla motocicletta, era tutta la sua ricchezza, oltre lassegno dello Sberzi che aveva in tasca al caldo.Pi per godere lo spettacolo della disperazione del Poldino che per dargli qualche aiuto, lo accompagnammo alla Maiadora.A passo veloce, prendendo per i colli sopra glIncantavi e passando per viottole bagnate di guazza, arrivammo in mezzora ai cascinali dei Baranzelli. Il Poldino si avvicinava in silenzio alle sue case, con lo sguardo vitreo, e pronto ad accasciarsi.La porta della stalla era sfondata e del cavallo non cera traccia.Usciti come spettri uno di qua e laltro di l, io vidi il cavallo che pascolava in un prato, dietro le cascine diroccate dove stava una volta la mia balia.Ecco l il cavallo gridai.Corse il Poldino, vide il cavallo e giunte le mani alz gli occhi al cielo senza dir nulla.La bestia, che conosceva il padrone, quando aveva sentito fame e sete aveva sfondato la porta con un doppietto delle zampe posteriori e tagliata coi denti la fune della capezza si era liberata. Uscendo allaperto aveva salvato se stessa e la met del capitale del Poldino.Lasciammo, io e il Peppino, che il Baranzelli si pacificasse col suo cavallo e tanto per fare qualche cosa entrammo dentro i locali abbandonati dellantica osteria a bere, se si poteva, un po dacqua.Presso il banco di zinco scurito, dove spuntava il rubinetto, era appesa al muro una di quelle cassette a scomparti dove si tengono le carte da gioco, e sul tavolo giaceva, impolverata, la lavagnetta con attaccato lo zampino di coniglio.Tolto dalla cassetta un mazzo di quaranta carte, di quelle da scopa, quasi irriconoscibili, e tenendole in mano con disgusto:Guarda qui, guarda qui diceva il Peppino con la sua pronuncia stentata da tedesco guarda qui cosa si trova: ancora da giocare! Semper cart, semper cart! L un gran destin!E al solito, dopo ogni discorso, il Peppino fece la sua risata secca e cattiva, da pappagallo, beccando laria col suo grande naso magro e cartilaginoso.Dal momento che erano le carte a correrci dietro dappertutto, ci portammo rassegnati alla finestra per giocare alcune mani di scopa dassi, intanto che il sole scaldava un po laria; ed anche per non rincasare ad ore sospette. Andando a casa a mezzogiorno si poteva dire daver dormito in qualche paese dove si era stati a far festa, o presso un amico di fuori.A mezzogiorno iniziammo la discesa per i colli verso Luino, dopo aver lasciato il Poldino come un naufrago nei suoi deserti possedimenti.Non sincontrava nessuno n per le strade n per i campi; e passando, onde accorciare la strada, tra filari di vigne spoglie, profittammo della solitudine per accosciarci a qualche metro luno dallaltro a far quello che avevamo sempre rimandato durante tante ore di gioco.In quella posizione si vedeva Luino a filo terra e la sponda arcuata che si slanciava, leggera e vaporosa, nel lago punteggiato di barbagli. Qualche nebbia saliva dintorno tra i roccoli. E il Peppino, con la sua voce chioccia da tedesco, e stentata per la posizione del corpo, diceva:Ma t, ma t, guarda che l pur anca bel a fa sta vita! Gigum, mgnum, un quai dane ghe lmm semper, lavrum pok o nagtt, quant gh de cudeg cudgum, psum linverno al kalt, dest ndemm a nd. E adess semm ch a vard l laag cun la belarita fresca in sui ciapp!E dopo una pausa per prendere fiato, la sua risata secca di arpia appollaiata, senza eco nellaperta campagna.Cos andava la vita in quei tempi e cos and ancora per anni, da una guerra allaltra, mentre altri fatti, altre gioie e tristezze venivano a complicare lesistenza di quei giocatori.V

Il Majestic, che prima della guerra mondiale (quella del 15) aveva un grande parco intorno, alza ancora - sopra la grondaia e al centro della facciata - una cimasa a forma di diadema sulla quale si riesce anche oggi a distinguere qualche lettera di quel nome imponente che i turisti leggevano dal lago, arrivando coi battelli a ruota da Stresa o da Locarno. Il Metropole dove giocavamo noi, allora chiamato Kursaal, non era che una dipendenza del Majestic: un bel padiglione di stile liberty con terrazza sul lago e il giardino dai bassi cancelli che si aprivano in corrispondenza con le porte del Majestic, al di l della strada.Tutte queste costruzioni sono antiche, e nellepoca turistica furono soltanto ampliate. Cerano gi ai tempi del 48. Ed proprio davanti al Majestic che Garibaldi ebbe lo scontro con gli austriaci. Solo che allora il Majestic si chiamava Albergo della Beccaccia o Beccazza e doveva essere molto pi piccolo; ma il parco era il medesimo e il muro di cinta ancora quello che abbiamo fatto in tempo a vedere da ragazzi.Ora il Majestic ridotto ad abitazione di gente modesta. Al pianterreno, verso il parco, ha un deposito di vino. Verso il viale ha aperto una fila di negozietti e un piccolo caff. Tra questo caff e un saloncino da barbiere murata la lapide che ricorda il garibaldino Francesco Daverio, un altro che dopo Garibaldi volle tentare uno sbarco al nostro paese con le armi in pugno, senza aver capito che Luino era un paese freddo a quelle iniziative.Nelle memorie di un volontario che partecip al fatto darmi di Garibaldi, si racconta che uno di Pavia rest colpito da una palla austriaca proprio mentre stava per scavalcare il muro dellalbergo. Per questo, di fianco al Majestic, nella piazzetta, c il monumento a Garibaldi che qualche anno fa hanno arretrato di alcuni metri per ampliare il posteggio delle automobili, di modo che ora il Condottiero, anzich indicare con la sciabola ai suoi uomini il lungo viale dove si ritirava il nemico, insegna lentrata del cortile di un fotografo. Dietro il monumento sono incisi i nomi dei quattro o cinque morti di quello scontro, fra i quali - indistinguibile - quello colpito sul muro.LAlbergo della Beccaccia era in quelloccasione quartier generale di Garibaldi, che vi and appena sbarcato.Era partito coi suoi uomini quella mattina da Arona dopo essersi impossessato di due battelli a vapore. Verso sera, avendo vagato a lungo per il lago, fu davanti a Luino. Dal parapetto duno di quei grossi battelli, guard il nostro paese che fumava tranquillamente nella sera dai suoi pochi camini e calcol quanto gli poteva fornire di viveri e di danari. Guard senza amore n dispetto questo paese, dove dovevamo nascere solo una settantina danni dopo, e non gli sfuggi lAlbergo della Beccaccia, proprio di fronte al lago, dove lui previde il suo quartiere dellindomani e noi la nostra bisca invernale. Sapeva che il giorno dopo vi avrebbe portato la guerra e la libert (per dieci giorni), ma che avrebbe sequestrato la cassa del Comune e tutto il deposito del sale. Il sale, che era conservato a Maccagno, parte lo us per pagare gli esercenti di Luino che gli fornirono i viveri, parte lo mand a vendere in Piemonte.Non sapeva Garibaldi, ma poteva immaginarselo, che alcuni dei suoi uomini avrebbero lasciato la pelle a Luino, dove sbarc il pomeriggio del giorno dopo e and direttamente dal farmacista Ulderico Clerici ad ordinare un medicinale per la febbre che aveva indosso da qualche giorno. Il farmacista, che doveva essere un austriacante, gli prepar una pozione a base di gialappa e Garibaldi dopo qualche ora era a letto, alla Beccaccia, con la diarrea.Dalla Beccaccia fu snidato da un drappello di soldati austriaci (anche di loro ne restarono morti tre o quattro); ma ritorn qualche ora dopo, con un contrattacco, a riprendere possesso del suo comodo.Per quei corridoi, per quelle scale dove si erano sbudellati austriaci e garibaldini, praticavamo - tanti anni dopo - noi giocatori in seguito allo sfratto che ci aveva dovuto dare lo Sberzi dal suo albergo. Ma questa nuova sede fu trovata e collaudata pi tardi, dopo un lungo periodo di dispersione e daltri passatempi.

Se allo Sberzi, dopo lo smacco di quella notte, fosse stato possibile riprendere i buoni rapporti con noi, se ai tavoli del Metropole nei lunghi pomeriggi di primavera si fosse ancora potuto provare il piacere di sedersi in quattro o pi con qualcuno dietro a guardare, e prendere in mano quel mazzo che disperde ogni noia e ogni pensiero; se la scala della cantina, a una certa ora di notte, ci avesse potuto ancora inghiottire per la grande partita allo chemin, tutto sarebbe stato dimenticato. Le perdite, le rabbie, i proponimenti di metterci a qualche lavoro, tutto sarebbe svanito; e sarebbe tornato quel piacere, che volutt vera e propria, di vincere e di perdere.Quello del perdere in verit non un piacere, ma serve come preparazione, per quanto dolorosa, alla gioia del vincere. Il Queroni, quando vinceva, era solito dire: Io non gioco per guadagnare, gioco per divertirmi. Per quand perdi me diverti un Cristo!.Il piacere di vincere pi puro che mai quando soltanto speranza, cio al momento in cui ci si siede al tavolo. In quellattimo c una corrente di simpatia che sincrocia dai quattro lati. La fortuna in alto, sospesa sopra i giocatori. Non si sa ancora come andr, e si cerca di essere gentili, con unaria di sfida ma amichevole e - se si buoni giocatori - con una serenit che sar difficile mantenere a lungo.Bel momento quando il mazzo ancora in mezzo al tavolo e corrono solo parole di cortesia, e le trattative sulla posta e sulla durata del gioco; quando il giocatore cerca di propiziarsi la sorte con mille scaramanzie, come il dichiarare che non in vena, che vuole perdere, che sa gi come andr, e spesso riconoscendo cavallerescamente il culo dellavversario. Perch da noi la fortuna, la chiamano culo, e forse non solo da noi. Non vedo il rapporto, ma si dice sempre cos, ancora adesso, e qualche volta addirittura boeucc.Lesclamazione che culo!, che sprizzava sovente dai tavoli di gioco, faceva battere il cuore a qualche tipo che in un angolo leggeva il giornale. Ma era un equivoco, un falso allarme. Per noi giocatori voleva dire la fortuna e nientaltro; e forse non era che una specie di vendetta degli sfortunati che si sfogavano associando i vincenti ad una categoria disprezzata.Bel momento dunque quando ci si mette al tavolo, ma ancora pi bello quando esce la prima spartizione di carte, quando si prendono in mano e si palpano un poco prima di guardarle, come una lettera che pu contenere soldi, o lannuncio di un guadagno, di un amore. In quel momento tutti i pensieri estranei se ne vanno: le noie di casa, lavvenire, la minaccia di un impiego o di un mestiere. Si davanti alla sorte con tutta la fiducia che si ha ogni volta, allatto di tentarla.Un simile stato di grazia, dopo quella notte in cui lo Sberzi aveva perso tanto, non era pi possibile. Si era parlato molto di quei fatti e le cose erano state cos ingrandite da fare scandalo.Il Commissario, che non era pi quel napoletano che giocava con noi, aveva mandato a chiamare lo Sberzi e laveva diffidato.Non potendo giocare ad altro che al bigliardo, che in quel tempo non era in auge tra noi - perch ogni gioco nei paesi ha i suoi momenti di favore e di sfavore - si disertava il Metropole. Non che negli altri esercizi si potesse giocare: erano tutti spaventati. Ma almeno non si aveva davanti la faccia triste dello Sberzi e non si destavano inutili sospetti.VI

In quel vagare da un luogo allaltro, in quel niente da fare, sembr unidea andare in gruppo al Casino di Mamma Rosa, dove si era sempre andati ma alla spicciolata e di sera, e dove invece si cominci a passare il pomeriggio in chiacchiere e flanella sotto lo sguardo benevolo della padrona, la celebre Mamma Rosa che da una ventina danni esercitava quel ritrovo tranquillo, quellisola di silenzio nel silenzio del borgo.La Mamma Rosa o Mamarosa come si diceva a Luino in una parola sola, era una milanesona che dopo la prima guerra si era stabilita a Luino, dalla citt dove aveva passato la sua giovent e aveva fatto la sua pratica. Se fosse stata anche lei del mestiere nessuno poteva dirlo; certo era tenutaria nata e si capiva dal comportamento sicuro, sfrontato, e a volte violento. Ma era buona di cuore, generosa e materna al punto di essere chiamata con quel nome affettuoso, ancora vivo nella memoria dei luinesi, che se non fossero state chiuse le case continuerebbero a dire andiamo a Mamarosa, bench da tanti anni la donna, il cui solo nome era gi una promessa di piacere, morta e dimenticata.Come mai in una cittadina di sette o ottomila abitanti ci fosse un cos buon Casino, si spiega col fatto che Luino luogo di confine, con una guarnigione dalmeno un centinaio di guardie di finanza sparse nel territorio, con molti comandi della Benemerita e un numeroso personale ferroviario italiano e svizzero. Dalla Svizzera vicina poi, dove mancava la comodit del Casino, affluivano molti che venivano a Luino solo per quello. Si distinguevano a vista docchio dentro il Casino per la loro discrezione e per laria un po mortificata che prendevano: pareva volessero farsi perdonare luso di un nostro privilegio o forse addirittura delle nostre donne. Le sentivano proprio nostre ed avevano la sensazione di cornificarci, tanto che accettavano quasi con piacere la doppia tariffa richiesta da Mamarosa, certo con un intento di riparazione morale e non per avidit di guadagno. Ul casott da Luin, come dicevano gli svizzeri, fu per loro un bel punto di contatto con lItalia, e per Mamarosa un vanto che la metteva fra gli esportatori; ed anche una buona fonte di guadagno, cos che pur avendo abbandonato la grande piazza di Milano, non aveva - come si dice - voltato le spalle al pane: Chi volta el c a Milan volta el c al pan.Chiusa ormai per sempre nel Casino di Luino, dove era ingrassata fino a toccare i centotrentacinque chili, Mamarosa aveva una gran nostalgia per il suo Milano; e ne parlava il dialetto, quello dei bassifondi, con un allargamento di bocca e una forza di epiteti da togliere la parola a qualunque luinese, e figurarsi agli svizzeri. La sua mole, la sua voce rauca e profonda, e un nervo di bue che aveva sempre sul piano di marmo del suo banco - e che lei chiamava il lapis - la tenevano circondata da un gran rispetto. Coi capelli cortissimi pettinati alla maschio sulla nuca piatta, senza collo, allargata - con le braccia che sembravano colonnette di balaustra - fino a strabordare dalle sponde del suo pulpito, Mamarosa era considerata una specie di capessa del paese, una autorit preposta al mondo maschile luinese del quale controllava lefficacia e le reazioni davanti alla carne.Distingueva i clienti in locali (ai quali consentiva illimitata flanella), forestieri e svizzeri, con tariffe crescenti. Ma con tutti era equanime ed onesta. Coi giovani poi indulgente e bonaria al punto di far credito. A certuni, sempre senza soldi, finiva col dare delle salite gratis, tanto era compassionevole ed anche convinta di non poter negare un genere di prima necessit. Era perfino religiosa, sebbene non praticasse, almeno apparentemente; e lo si capiva dal fatto che ogni anno il suo nome figurava, con una grossa cifra, in cima alla lista delle offerte per la chiesa.I suoi detti, le sue parole, le sue ingiurie, sono corsi sulla bocca di pi generazioni, e in bene rest la sua memoria dopo che per un gran diabete o altro male non capito dai medici, mor nella sua camera, dentro il suo Casino, come una regina nel suo palazzo.Essere benvisto da Mamarosa, esserne soltanto notato magari con una grossa ingiuria, era un onore per la giovent ed anche per gli uomini che frequentavano la casa rossa, dun rosso sangue di bue, protetta da un alto muraglione e rimasta con un contorno di stradine campestri, bench fosse nel mezzo del paese, tra la Chiesa del Carmine e la Stazione Internazionale.Raramente si vedeva camminare Mamarosa in viaggio di trasferimento dalla cassa al giardinetto interno o alle sue camere private, che erano a pianterreno; si muoveva dondolando con agilit e con laria di essere sempre in pericolo duna caduta, dun mancamento di piede o di un appoggio a quella sua massa enorme e delicata.Chi entrava in sala comune se la trovava di fronte, incastrata nel suo banco, fatto sulla sua misura, e del quale chiudeva lo sportello facendo forza sulla carne che dilagava fuori. E l restava per ore e ore, immobile, o beccheggiando un poco con la testa, quasi di sonno, le dita abbandonate sul marmo come aglioli sulla mensola dun salumiere. Col suo sguardo apparentemente vuoto ma indagatore, rilevava il cliente che le passava davanti e che andava prudentemente a sedersi sul divano come chi passa svelto e con rispetto davanti a un altare.Se nasceva qualche discussione o tumulto di gente alticcia, Mamarosa impugnava il suo lapis e faceva mostra di voler uscire dal banco: bastava per riportare tutto allordine. Poche volte dovette uscire davvero. Di solito era fin troppo una botta del suo nervo di bue sul marmo.Solo negli ultimi anni, quando era gi sofferente, si tenne di fianco due grossi mastini dalla faccia terribile ma innocui come lei e dormiglioni.L dentro, in quel chiuso impedito ad ogni sguardo estraneo e pure piuttosto accogliente con lo sfogo del giardinetto dove si stava destate, i giovani luinesi di alcune generazioni passarono tante giornate oziando e conversando. Tra le nove e mezzanotte era tempo di lavoro nel Casino, ma nei lunghi pomeriggi destate o di mezza stagione si parlava pigramente, si ripassavano - in tuttaltra luce - le notizie e i casi di fuori, ci si immedesimava nella vita delle tre o quattro ragazze e delle donne che le governavano.In quel frangente dellinterdetto dato allo Sberzi, molti giocatori vi trovarono rifugio dimenticando per un poco le carte e passando ad unaltra aria non meno torbida di quella della cantina, pur di non stare allaperto e di non perdere contatto con le cose proibite o tollerate, cio con le uniche cose che sembravano avere un sapore.Era, per i giovani, un altro modo di essere uomini, un altro mezzo per conoscere di che materia erano fatti.Il mondo, con tutta la ricchezza dei suoi vizi, aveva aperto per loro un altro libro oltre quello del gioco. E la buona Mamarosa era la maestra che ritrovavano, un po di anni dopo aver lasciata quella della scuola elementare. Una maestra venuta da Milano, dal Bottonuto, da via Bergamini o dai Fiori Chiari.Il vizio non aveva altri mezzi allinfuori del Casino e del gioco per apparire a noi che lavevamo atteso come un grado superiore della nostra istruzione, perci gli facevamo credito, ma senza troppa convinzione, paghi della distrazione che ci offriva e delle aperture che praticava nel nostro orizzonte.Mamarosa era in fondo pi importante e pi vera delle volutt che ci procurava. Era un esemplare della vita autentica, una storia concentrata di quella grande citt di Milano cos incomprensibile per gente di paese come noi.Era salita da chiss quale fondo, aveva conosciuto uomini e cose prima di arrivare alla potenza di quel monopolio, e meritava attenzione. E se il Casino, con tutto quello che vi si faceva, era unistituzione permessa e rispettata dalle autorit, Mamarosa pi che la padrona o la rappresentante di unimpresa privata ci sembrava unemanazione governativa tra la Sanit Pubblica e lIstruzione.In paese veniva considerata senza rancore e con una certa indulgenza anche dalle madri e dalle mogli, che probabilmente intuivano quale rimedio poteva essere a ben altri guai. Stava in mezzo alle nostre case con la sua Casa ed era ormai, come il Municipio, la Chiesa e la Stazione Internazionale, un passaggio obbligato. Le donne perbene, quando dovevano transitare davanti al suo cancelletto di lamiera, guardavano dallaltra parte; e se potevano, sbirciavano per vedere chi andava e veniva.Funziona pensavano allora tutto regolare. Il mondo quello che e tutto ci che deve avvenire avviene.I ragazzi, esclusi da quella soglia, giravano al largo incuriositi e pensavano a qualche ricchissimo interno orientale, a qualche paradiso terrestre. Non immaginavano quanto un Casino somigliasse a un ospedale o al massimo a uno stabilimento di cure. Se ne sarebbero accorti quando, con la carta didentit alla mano, il giorno del diciottesimo compleanno, avrebbero varcato quella soglia.I coscritti, per snebbiarsi del tutto, andavano cantando a Mamarosa come allassalto di una trincea. Traversavano il paese, specialmente quelli dei paesi dintorno, cantando a tempo di marcia:

Guard l,su quel cantnca gh fra, ca gh fra,la cuscrizin.

Su e giper sti scaln,a Luino, a Luino,a mustr i cuin.

E adess chel semmquanci ann ca ghemm,a Mamarosa, a Mamarosa,vogliamo andar!

Ma uscivano poi mogi e sfiatati come se portassero nel cuore unamarezza che sarebbe scoppiata pi tardi, anni dopo, in una guerra vera nella quale potevano essere presi, senza sapere dellamore pi di quellinganno, di quella trappola dal boccone cos insipido e scarso.VII

E dire che Mamarosa, e in genere il Casino di Luino, fu un lato della nostra vita, della vita di uomini destinati a fare una decina di anni di guerra, a seminare le ossa per mezzo mondo o a tornare trasformati davanti a questa casa rossa che stava chiudendo, quasi a segno che il mondo cambiava davvero e tutto era cos sbagliato che bisognava cominciare a sbagliare in un altro modo.Da Mamarosa andavano tutti, giovani e anziani. Il Bertinelli perfino, che aveva almeno cinquantanni e che girava con carretto e cavallo a rifornire di selz, di gazzosa e di ghiaccio le osterie. In maniche di camicia e con la borsetta dei soldi a tracolla, entrava nel Casino per portare qualche cassa di bottigliette. Ma la sua sosta era piuttosto lunga perch anche lui si toglieva la sua sete, mentre fuori il cavallo brucava la siepe di sambuco che faceva da schermo pudico allingresso, e il ghiaccio colava dal carretto.Da Mamarosa a qualcuno era capitato dincontrare il proprio padre, qualche sera, dopo il banchetto di una classe di vecchi coscritti o commilitoni del Piave e della Bainsizza. Nel vino e nella compagnia eroica avevano trovato il coraggio di un ritorno alla giovent, tanto vero che da noi Mamarosa e giovent erano termini equivalenti.Figura fissa di chez Mamarosa (come diceva il Cdega che veniva dalla Francia) era il fotografo Caligari, fotografo da piazza che teneva la macchina avvitata sopra un alto treppiedi, allombra degli ippocastani che stanno davanti allimbarcadero. Caligari lavorava coi clienti di passaggio: gitanti del milanese o gente delle valli che scendeva per il mercato. La sua macchina era di quelle a soffietto, di legno chiaro e lucido, col panno nero da andarci sotto per mettere a fuoco, e col prolungamento di una cassetta dove stavano nascosti gli acidi per lo sviluppo e la provvista della carta sensibile.Sviluppava, come tanti altri fotografi del suo genere, frugando col braccio dentro la cassetta, a tastoni, e cavando fuori poi la fotografia grondante di acido che andava a sciacquare sotto la fontanella. Perch la luce non entrasse a velare la carta, il suo braccio traversava una manicaccia nera che gli saliva fino al gomito quando frugava dentro, come una levatrice, girando intorno gli occhi impensieriti.Nei pomeriggi di poco lavoro, che erano tutti quelli della settimana, andava con quel trespolo al Casino dove era ammesso come in casa sua. Sia perch le donne erano sue clienti e si facevano riprendere nei loro chimoni e vestaglie, e sia perch il Caligari esponeva in piazza, attaccate in fila con le mollette di legno stendipanni, le fotografie fatte l dentro.Era la piccola pubblicit delle due aziende. Ma la pi grande, il Casino, si serviva anche di un altro mezzo. Quando, in fine di quindicina e dopo partite alla chetichella le ragazze che avevano terminato il loro turno, arrivavano le nuove, Mamarosa andava a prenderle alla stazione con la carrozza del Ballinari. Apparentemente per non lasciarle in giro da sole, ma in verit per farle vedere in paese. La carrozza, ripiena di carne e di valigette, andava mollemente lungo i marciapiedi e ne uscivano sguardi dinvito che Mamarosa teneva a freno con severit.Certe volte, in piena estate, capitava che verso il dar gi del sole Mamarosa uscisse di casa, sempre in carrozza, con un paio delle sue ragazze per andarsi a sedere mezzora fuori dun caff. Faceva prendere onestamente un poco di aria a quelle poverette che erano pallide e afflosciate, non tanto per le fatiche di Luino, ma per quelle che avevano sulle spalle dopo mesi e mesi di Bottonuto, di Chiaravalle, di Fiori Chiari e della Vetra, dopo essersi decomposte in quei colombari, tra uno specchio e laltro, con la fotografia della mamma o del figlio sul com e la Madonna di Caravaggio incorniciata di madreperla. Mamarosa, che non voleva privarle di una boccata daria buona di Luino prima di rispedirle a Milano, se le portava in giro come figlie da marito, attenta ad evitare ogni contatto o mancanza di rispetto di quelli che stavano al caff, e non venendo del resto importunata anche perch nessuno voleva far vedere di essere troppo domestico di quellambiente, tranne qualche spregiudicato che andava a dar la mano a Mamarosa, pi per esibizione che per altro, e che veniva appena degnato dattenzione dalla donna.Mamarosa guardava passare la gente, riconosceva i suoi clienti e fingeva dignorarli, vecchia del mestiere e pratica del mondo comera.Erano le sue sole uscite in tutto lanno, lunico svago - anche per lei - duna vita passata al chiuso, senza piaceri e senza libert. Non era vecchia, ma si capiva che da molto tempo aveva rinunciato ai veri godimenti, se mai ne aveva avuti con quella sua figura di donna cannone e quella voce rauca di ergastolano. Chi governa il piacere, al piacere deve saper rinunciare. Ed certo che Mamarosa aveva fatto questa rinunzia fin dallinizio della sua clausura; tanto vero che una volta, al Pozzi Martino, un omaccio di cento chili che per capriccio aveva preso a corteggiarla e si dichiarava pronto a soddisfarla, rispose:Ma va a d via el c, Martin! Te capisset no che mi senti nanca p a riv el batl?VIII

Quando penso a questa donna che si sacrificata per noi, stando l dentro fino alla morte a impallidire e a ingrassare, per il godimento degli altri, e guadagnando soldi che non poteva nemmeno spendere (a meno che non avesse il sogno, onesto, di andare a passare la vecchiaia in riviera), mi dispiace che non sia possibile farle un monumento, vicino a quello di Garibaldi, che in fondo a Luino venuto solo di scappata e per i suoi bisogni, portandosi anche via quattrocentocinquanta lire austriache (tutte quelle che aveva trovato nelle casse del Municipio) e chiss quante razioni di pane, vino e formaggio. E il sale. Ci sono ancora le ricevute in casa Strigelli.

Compagna inseparabile di Mamarosa, segretaria, supplente e dama di compagnia, era unaltra donna come lei, chiamata Bambina. Altrettanto bonaria, pettinata ugualmente alla maschio e assai somigliante alla padrona. Di diverso aveva il naso, schiacciato come quello dei pugilatori, e la corporatura meno imponente. Formava con Mamarosa una coppia rara, combinatasi chiss dove e quando; a meno che non fossero della stessa famiglia, insieme ad una vecchia chiamata Agnese che viveva pure nella casa. Questa Agnese era una vera nonna, con unaria piuttosto contadina. Doveva esser della campagna intorno a Milano, forse unantica serva aumentata di grado per la lunga fedelt. Era lei che curava la cucina e faceva da guardarobiera.Lazienda sembrava destinata a fiorire in perpetuo sotto la guida sicura di Mamarosa. Invece Mamarosa mor, quasi improvvisamente; e mor bene, perch ottenne di essere confessata e comunicata dal Prevosto che and a portarle i conforti della religione al capezzale.La povera donna si era avvicinata alla morte inavvertitamente, e quando era agli estremi - e chiese il prete - non si poteva pi trasportarla allospedale o in altro luogo. I suoi centotrentacinque chili, aumentati per il gonfiore degli ultimi giorni, e il genere della malattia, che faceva dipendere dallo stato del cuore i suoi ultimi momenti di lucidit, impedivano ogni spostamento.Al Prevosto, uomo quasi santo e di gran talento, si pose il quesito: lasciarla morire in peccato mortale o entrare dentro la casa con i Sacramenti.Pare che qualcuno corresse allArcivescovado e che venisse data unautorizzazione non molto chiara, ma tale da non impedire al Prevosto - un milanese anche lui, un omone rotondo come una botte e dalla voce grassa, che fisicamente somigliava come un fratello a Mamarosa - di risolvere il caso. Tanto che a unora di buona mattina, e con indosso tutto loccorrente, il Prevosto sinfil dentro il cancelletto coperto di lamiera e suon il campanello dove si era posato, negli anni, lindice di quasi tutti i suoi parrocchiani. Aprirono, capirono subito, e gli fecero strada fino alla camera del pianterreno dove giaceva Mamarosa, che vedendolo non seppe rinunziare a una delle sue uscite:Te mancavet propi dm ti! gli disse.Pare che il Prevosto avesse, fin dalla soglia, fatto certi potenti esorcismi previsti dai Canoni, e fosse munito di una reliquia necessaria in simili casi. Certo che rimase a lungo con la moribonda, lasciandola completamente trasformata, con un viso mai visto, raddolcito e sereno; e perfino con la voce cambiata, una voce diventata acuta e labile insieme, infantile. facile, conoscendo Mamarosa, immaginare il colloquio. Di sicuro parlarono in milanese, perch lei non parl mai altra lingua e il Prevosto - anche sul pulpito - traduceva in italiano dal milanese disconoscendo la zeta e dicendo sempre:La grassia di Dio... la salvessa dellanima... la penitensa, la penitensa, ragasse!Sintesero dunque molto bene, e al Prevosto, che parlava con lesse ma era un sapiente pieno dindulgenza, non fu difficile trovare in fondo allanima di Mamarosa linnocenza, che cera, e lui lo sapeva, tanto che era entrato l dentro sicuro di trovarla e non era stato deluso.In quella stanza dalle persiane chiuse da anni come se vi fosse sempre stato un morto, e che erano gi chiuse per dopo, quando avrebbero preparato la camera ardente, non debbono essere corse molte parole prima del gesto del Prevosto che assolveva e benediceva.Da una porta che intanto si era dischiusa si affacciarono la Bambina e lAgnese, e dietro di loro le ragazze. Una si era messa in testa un pizzo nero che non era altro che un pezzo di taffet, un cache-col. Nel girarsi il Prevosto vide il gruppo, le facce, lambiente che prima non aveva guardato; e nelluscire gli corse lo sguardo al trono abbandonato di Mamarosa, in fondo al salone, sopra il quale spiccava il cartello della tariffa. Tre voci, tre prezzi: semplice, doppia, mezzora. Era uguale alla sua tariffa: semplice, solenne, cantata. Fu contento di constatare che la sua prestazione pi gravosa, la Confessione, era fuori tariffa e non costava nulla.Usc, come era entrato, senza che nessuno osasse accompagnarlo.Allontanatosi il Prevosto, fu sbarrata la porta e tolto il contatto al campanello per evitare che qualche svizzero ignaro scegliesse quel momento per una visita. LAgnese e la Bambina si misero ai lati della moribonda e le ragazze ai piedi del letto.Mamarosa, con la vocina spenta che le era venuta (forse perch aveva pianto per la prima volta dopo linfanzia) disse:N mai f del mal. U f sto mest... Se podevi f, se podevi f cs? Sunt nasda... sunt cressda in di casott... Ma n mai f del mal... ho jut tanta gent. El Signur el me perdnna... l di l, el Prevost... che l de Milan... cmpagn de mi.LAgnese approvava con la testa, la Bambina stringeva le labbra. Le ragazze piangevano: o, almeno, avrebbero dovuto piangere, a quellepitaffio che Mamarosa si scolpiva lentamente, con la voce fioca, nellaria pesante della stanza.Dalla vicina Chiesa del Carmine, dopo che Mamarosa ebbe detto cmpagn de mi, quasi intendendo che da quella gran citt veniva tutto, il male e il bene, senza colpa, cominciarono a suonare pochi tocchi di quella campanella che pare di ferro tanto scarsa di eco. Era il Prevosto, che arrivato alla Prepositurale aveva spedito il sacrista al Carmine per dare un saluto a chi sapeva lui. Glielaveva chiesto Mamarosa.Famm sun linguna; al Crmen, che ghe tgni...In quella chiesa, o nel conventino che ha di fianco, moriva un cinquecentanni prima il Beato Jacopino da Luino, lunico santo del nostro paese: un caro fraticello cercotto che aveva messo in piedi la chiesetta a forza di elemosine. scritto nelle carte del Capitolo che mentre moriva aveva degli angeli intorno. Mamarosa, a pochi passi di distanza, moriva anche lei, e abbastanza bene, con intorno la Bambina, lAgnese, le ragazze.IX

Pass lestate, e al cominciare dellautunno la compagnia dei giocatori si raccolse ora in un caff ora in un altro, intorno ai giochi pi leciti e pi stucchevoli. Ma bastava che la parola chemin venisse fatta scivolare nel gruppo perch ricominciasse a serpeggiare la febbre. Il Nove splendeva in alto come un sole; e non cerano scope dassi, ramini, scalequaranta, tressetti semplici o ciapa no e neppure tarocchi o mitigatti che potessero farci dimenticare lemozione del grande mazzo di trecentododici carte che butta come una sorgente gli otto, i nove e tutte le altre potenti combinazioni, governate da un fluido che la sorte pura, lazzardo.Dallo Sberzi nessuno si sognava di tornare; gli altri caff erano da escludere. Non ci rest che istituire una bisca clandestina, nascosta in una casa ospitale.Ci pens il Cmola, invasato del gioco, a stringere accordi col Rimediotti, il vecchio volpone che da anni si era ritirato a passare la sua triste vecchiaia in casa dun fratello, appaltatore del Dazio Comunale.Il Rimediotti era una specie di ladro internazionale che parlava un po tutte le lingue, conosceva tutti i Casin dEuropa e aveva avuto amicizia con ogni sorta di gente celebre.Aveva conosciuto Tamagno quando noi non eravamo ancora nati e gli era stato amico; - tanto che alla sua morte accorse da Biarritz. Arriv nella villa del tenore, a Varese, mentre lo stavano imbalsamando; e si imbatt, dentro la stanza, in un secchio pieno delle interiora dellamico.Ladro vero il Rimediotti non era stato mai, sebbene giocatore di professione, cio baro e prestigiatore. Ma aveva fatto anche altri mestieri, come limpresario di riviste e di balletti ungheresi e lappaltatore del Tiro al Piccione sulla riviera francese. Il Tiro al Piccione uno sport ma anche un gioco, perch c chi scommette ad ogni sparo e chi tiene banco, con regolari imbrogli e intese segrete col tiratore.Rimediotti del gioco conosceva a fondo il lato psicologico, interno, quello che operava in noi come una inquietudine dellet o della stagione.Di raro era apparso al nostro tavolo quando si giocava al Metropole. Pareva che oramai le carte gli ripugnassero. Teneva a malincuore il posto per qualcuno che andava alla toilette o che doveva assentarsi per dieci minuti, e non dava mai consigli ai giocatori anche se gli capitava di stare delle ore a guardar giocare gli altri. Pareva, ed era, un vecchio tranquillo, disgustato della vita e amante solo della pipa e del caff. Suo cognato, titolare del Dazio, era un vedovo con moltissimi figli e figlie tutti grandi, uno dissimile dallaltro ed occupati - quando lavoravano - nei mestieri pi disparati.Uno era vigile urbano, un altro calzolaio, un terzo spedizioniere, un quarto meccanico-dentista e lultimo ancora indeciso sul mestiere da scegliere. Le figlie erano impiegate al Dazio e aiutavano il padre a far bollette; ma anche loro cos varie daspetto da non sembrare sorelle.Il primo sospetto era che quei figli fossero di diverse covate; ma nessuno indag mai il mistero di quella famiglia nella quale era venuto a vivere il Rimediotti, e nessuno aveva mai messo piede nellappartamento che abitavano da tanti anni al primo piano del grande caseggiato ex Majestic, ex Beccazza: un lunghissimo appartamento che andava da un capo allaltro della facciata, con tutte le stanze in fila comunicanti una con laltra.Tanto doveva essere confortevole come albergo quel caseggiato, tanto era squallido come casa di abitazione, spogliato e ridotto come un vecchio ospedale. Agli appartamenti si saliva da scale che dovettero essere quelle di servizio, scure, strette ed anche sporche; i vari quartieri, grandi o piccoli, erano tutti a file di stanze, una che dava nellaltra. Quello abitato dai parenti del Rimediotti e dove il vecchio era stato accolto non si sa se per affetto o in cambio di una modesta pensione, occupava il piano nobile ed incominciava con un salotto.In quellappartamento facemmo ingresso, su istruzione del Cmola, uno alla volta per non dare nellocchio, una sera di domenica. Appena dentro luscio, nel salotto, un tavolo rotondo con otto o nove sedie ci aspettava, coperto da un tappeto di quelli figurati con scene di turchi e illuminato da una lampada, col piatto bianco di porcellana pieghettata. Il salotto faceva da anticamera a tutto il quartiere ed era seguito dalla cucina, dal gabinetto e da non si sa quante camere. Nessuno di noi sinoltr mai verso quellinterno dove, a gioco finito, si ritiravano uno dopo laltro i due fratelli Rimediotti.In mezzo al tavolo era gi pronto un bel mazzo di trecentododici carte, Modiano o Armanino, gi depurato degli jolly e collocato sopra una pattina di cartone che serviva per farlo girare torno torno.In meno dun quarto dora eravamo gi in otto. Cerano i pi ostinati, cio il Fioroli, prestinaio in un paese vicino, il Bottelli ex squadrista cacciato via dalla Milizia Confinaria e sistemato come fuochista del Municipio, il Furiga (quello della pelliccia), anche lui ex squadrista e impiegato ai Sindacati dellAgricoltura, il solito ispettore di Dogana, il Queroni, un cartolaio anarchico, il Cmola e il Tolini detto Tetn. Il gioco riusc equilibrato e piacevole, senza grossi sbilanci, e la bisca fu collaudata.Ogni sera, dopo le ventuno, come frati che vanno alluffizio, uno dopo laltro cinfilavamo nel portone e su per la scala del nostro buon rifugio.Poco per volta convennero tutti i giocatori del Metropole intorno a quel tavolo che era sempre pieno di braccia in movimento. Andando via si lasciavano sul tappeto alcune lire a testa per la luce; ed era lunica spesa, perch non si poteva bere nulla, neppure acqua. Per orinare bisognava scendere in cortile o uscire nella strada. Si poteva soltanto fumare.Il fratello del Rimediotti, il daziere, era sempre presente al nostro gioco. Si teneva in piedi, ad una certa distanza dal tavolo, tutto floscio, malinconico e stanco, e cos silenzioso che si finiva col dimenticarlo. Neppure i casi di carte pi incredibili lo interessavano. Seguiva il gioco come per un dovere, o proprio perch non sapeva che altro fare. Molto tempo dopo si seppe che non conosceva neppure lo chemin e che non distingueva un re da un fante. Il Rimediotti, che stava al tavolo e giocava moderatamente, non lo guardava mai.Intanto lo Sberzi, che ci vedeva andar via dal suo esercizio uno alla volta dopo aver bevuto il caff, aveva sospettato che in qualche posto ci andavamo a riunire. Pensa, osserva, indaga, in capo a otto giorni scopri il nostro covo. Ma non disse nulla e non venne mai a disturbarci nella nuova sede.Ormai ci eravamo abituati al passo dei rari inquilini dei piani di sopra che rincasavano a ore fisse, e sapevamo che al marted e al venerd il maestro Tirelli, capomusica, rientrava a mezzanotte. Preparava il programma della banda cittadina per lestate, nella palestra delle scuole elementari, istruendo il bel complesso che era uno dei vanti del nostro paese. In quelle due sere, alla mezzanotte in punto, si sentiva aprire il portone.Tirelli diceva il Rimediotti, come dicesse un gatto, il vento, una cosa da non confondere con un pericolo; e infatti poco dopo si sentiva un passetto leggero e regolare che saliva, poi il tric trac della serratura del piano di sopra.Il maestro Tirelli, sempre vestito di scuro e serissimo come un menagramo, era luomo pi innocuo del mondo. Poteva sapere qualunque cosa e non avrebbe mai commesso indiscrezione. Il suo passaggio per le scale era quasi un controllo della nostra sicurezza. Passando, ci rassicurava. Voleva dire che tutto procedeva bene. Lui certo sapeva, e da buon padre di famiglia non approvava; ma non si permetteva di giudicare, e passava senza curiosit davanti al nostro covo.Solo per prudenza noi appendevamo il cappello del Queroni alla chiave della porta, nel caso impossibile che il Tirelli o altri ci avesse a mettere locchio.Il nostro gioco non avrebbe avuto alcun disturbo se a varie ore, dopo mezzanotte, non fossero dovuti passare per il salotto i vari nipoti del Rimediotti che tornavano dai loro spassi o dalle loro occupazioni.Prima passava Clementino: Ciao pap, ciao sio (tutta la famiglia era milanese), ciao Cmola, buonasera dottore (allIspettore di Dogana). Salutava alcuni in particolare e tutti in generale con un sorriso di comprensione, senza guardare il gioco, poi infilava la porta della cucina e si inoltrava nel buio verso il suo letto lontano.Una mezzora dopo arrivava sua sorella Carluccia, di fretta e un po scarmigliata. Era continuamente innamorata e aveva sempre laria di essere appena sfuggita dalle mani di qualche appassionata guardia di finanza. La Carluccia passava rapida, per non farsi studiare troppo, gettandoci un cordiale buonasera. Poco dopo il suo passaggio si sentiva la cascata del W.C., enorme nel silenzio; poi, con gli ultimi sibili dellacqua, tutto taceva. E la voce del Cmola, incalzante, annunciava:Il banco di duecento.Ogni tanto si sentiva sfriggere un fiammifero, scricchiolare una sedia, o le voci che dicevano otto, nove, cista (niente di fatto, punti zero), baccarat (punti pari), carta, banco suiv, tutto per me, col tavolo, passo. Parole che corrono allo chemin, intercalate dalle solite esclamazioni e dalle cattiverie inevitabili tra giocatori.Dopo mezzanotte rientrava lAndrea, vigile urbano e secondo dei fratelli. Salutava gli amici, il pap, lo zio e poi si avviava al suo letto in fondo allappartamento.Alle ore piccole arrivava la Rosetta, con gli occhi pesti, pallida e un po stravolta. Girava in atto di schifo attorno al tavolo e sinfilava in cucina con un sorriso storto verso chi alzava il capo a guardarla. Anche lei tirava la catena (la tiravano solo le donne) poi non dava pi segni di vita. Aveva pi di quarantanni, e nel suo aspetto di donna sfiorita si nascondevano grosse disavventure; ma anche uno spirito aggressivo, passionale, capace ancora di stringere qualcuno nella morsa. Come tutte le donne dominate dallamore, disprezzava il gioco e i giocatori.Dopo la Rosetta, a poco distanza passava Alfredo, lo spedizioniere, che faceva gli straordinari; poi Corrado, il meccanico-dentista, che lasciava indietro un odore di chiodi di garofano. Ultimissimo, in punta di piedi, arrivava - alle ore quasi dellalba - Peppetto, amante di una vedova, che nonostante la mala guardata del padre aveva il coraggio di fermarsi a vedere il gioco. Era per cacciarlo a dormire che il padrone di casa se ne andava finalmente a letto, dopo tanto pencolare sopra il tavolo.Ma il Rimediotti resisteva fino allultimo. Come un serpe cauto la sua mano andava mettendo insieme, quasi per ozio, le carte giocate, e senza parere le disponeva secondo lordine della taille rasoir o squence infernale. Naturalmente non riusciva a montare tutto il mazzo, ma bastavano una trentina di carte ad assicurargli due o tre colpi vinti nel mazzo successivo. Di quelli si contentava, rischiando solo raramente qualche minima posta contro i perdenti.Pur subodorando la trappola, nessuno si rifiutava di accettare la sua uscita quando era di mano. Gli riconoscevano tutti il diritto a quel balzello nascosto: per la sua et di ottantanni circa, per simpatia verso limbroglio ben fatto, ma pi che altro per rispetto al suo splendido passato di dissolutezza. In fondo era lui che cinsegnava a stare al tavolo. Da lui imparammo la terminologia del gioco e le sue regole precise; ed anche se pochi poterono imparare quello che del resto non simpara, cio il contegno freddo, la pacatezza, la signorilit, tutti appresero qualche cosa.Solo io tuttavia dovevo conoscere - qualche anno pi tardi - il segreto della taille rasoir o squence infernale, cio la regola secondo la quale si pu ordinare un mazzo di carte da chemin o da baccarat in modo che dallultima uscita di ogni mano possibile stabilire se il colpo successivo sar vinto o perso dal banco. Una simile taglia di carte, che resiste anche a due o tre scarti e a qualche alzata, stata a ragione chiamata a rasoio, perch recide le vene ai giocatori ingenui e li dissangua.Si tratta di una sequenza di carte veramente infernale, perch chi ne conosce la legge gioca quando il colpo vincente, passa la mano quando arriva quello perdente e va alla punta quando lingenuo, detto stazzo, assume il colpo infausto fidando nella sorte gi segnata.I tre, i quattro colpi, infilati in un mazzo intiero da mano abile, possono fare un danno relativo. Grave quando in una bisca, o circolo privato, il baro riesce a montare tutto un mazzo con la complicit di un cameriere o di altri giocatori che con qualche trucco arrivano a sostituire il sabot. Allora chi capita in mezzo perde tutto quello che pu perdere.Mai giocare raccomandava il Rimediotti con gente che non si conosce o in bische clandestine. Quasi sempre c il baro.Queste cose il Rimediotti me le diceva anni dopo, quando era vicino alla morte, nel chiedermi dei piccoli prestiti. Ridotto allo stremo, non mi restitu mai quei pochi soldi, ma mi lasci consigli preziosi che mi indussero ad abbandonare per sempre le carte; e un quadernetto, intitolato Le mie preghiere, nel quale aveva annotato i suoi segreti di baro o tricheur e le sue osservazioni sul gioco. Erano un paio di piccoli quinterni, scritti chiaramente, con i numeri della squence infernale e gli accorgimenti per vincere al Faraone, alla Zecchinetta (o Toppa), al poker, allecart. Vi si descrivevano tutti i tipi di filage; che sono le maniere per dare una carta diversa da quella che si presenta nel mazzo. Vi si insegnava il filage au marbre, la main serre, ouverte, en dessous e en dessus. Si svelavano tutte le alzate false o alzate morte, e quindi - naturalmente - le varie maniere per scartare solo in apparenza: tourniquet, mischiata allamericana, alla tedesca, alla russa, eccetera.La terminologia era francese, perch il francese la lingua del gioco; e poi il Rimediotti aveva vissuto tanto in Francia che nel suo discorso erano frequentissime le parole e le frasi intere in quella lingua che parlava quasi con rimpianto in un paese daspro dialetto.Di quel quadernetto (mi rimasto insieme ad una coppia di dadi sofisticati che mi rimise in punto di morte), andrebbe trascritta almeno la prefazione che incomincia cos:

Questo non un trattato sulle probabilit, ma una guida per correggere la sorte ed assicurare un guadagno.Non un testo dell'imbroglio, ma un manuale utile ad insegnare la difesa dai tanti accorgimenti escogitati dallingegno umano per lo sfruttamento del gioco.Non un'opera scritta a tutela del fesso, che giusto che venga punito e salassato, ma per mettere il galantuomo amante del gioco su un piede di parit con il frippone che tenta di derubarlo.Ho visto giocare Edoardo VII quando era Principe di Galles. Barava per capriccio, ma con nobilt. Lo stesso vidi fare a Re Giorgio di Grecia; mentre Re Milano di Serbia (padre di Alessandro Obrenovic), ubriacone, crapulone e giocatore senza regola, mangi il patrimonio suo, quello della moglie e quello della nazione. Altra cosa erano il milanese Cesare Perelli, l'inglese Hower, Agesilao Greco, il Barone Rodan...

Non posso continuare, innanzi tutto perch qui vengono dei nomi illustri e poi perch la parte principale dellopera, cio la cabala della sequenza infernale, non pu essere resa pubblica senza pericolo. Rovinerebbe quei pochi che la conoscono e la praticano, e creerebbe una quantit di piccoli bari da strapazzo che farebbero un danno incalcolabile alla borsa degli amici, finendo col distruggere un nobile e meraviglioso gioco come il baccarat chemin de fer.Il povero Rimediotti mor malamente in tempo di guerra, al suono degli allarmi, di notte, con i dadi falsi nel cassetto del comodino, in un odore di uomo vecchio e di piscia.Quando giocava con noi erano gli ultimi suoi tempi buoni. Seduto al tavolo, con la pipa in una mano e con laltra che muoveva le carte leggera come unala, Rimediotti era nel suo mondo. Si sentiva a Montecarlo ai tempi della sua giovent, quando correvano solo marenghi doro sui tavoli, o a Biarritz, a Ostenda, a Baden-Baden, a Spa, a Wiesbaden, dove erano passate le sue mani prodigiose.Era come un grande direttore dorchestra che in vecchiaia istruisce il coro di una piccola parrocchia con lo stesso amore e la stessa maestria di quando comandava a bacchetta due o trecento elementi della Scala, ma anche senza potersi trattenere dal rammentare ai suoi nuovi allievi chi era stato e quel che aveva fatto nel mondo. E raccontava del grande baro Faini che riusciva a far uscire dalla capocchia a disco di un lungo lapis un Luigi doro simulando cos la puntata dopo che il numero era gi annunciato alla roulette e incassando trentacinque Luigi al colpo, fino a che una donna lo trad. Raccontava la storia di una terribile partita a poker da lui giocata a Nizza con un americano e due spagnoli, finita a rivoltellate, con tutti e tre i suoi compagni di gioco morti sotto il tavolo. I due spagnoli avevano creduto che lamericano barasse e gli avevano sparato a bruciapelo dopo un alterco; ma poi uno dei due capi che il baro era laltro compagno e gli spar mandandolo a finire sotto la sua sedia da dove il caduto prima di spirare spar in alto, contro il sedile, trapassando verticalmente il suo uccisore. La verit era che nessuno dei tre barava; barava lui, il Rimediotti.X

Quelle sere, andato a dormire il fratello del Rimediotti con lultimo dei suoi figli nottambuli, noi eravamo ai primi cedimenti. Cominciavano i prestiti, le contestazioni, le questioni tra quelli che volevano andar via perch vincenti e gli altri che volevano trattenerli per rifarsi.Era lora che veniva fuori la polizza del Bottelli: una polizza degli ex Combattenti, di lire mille, che dava una rendita annuale del 5% e che poteva essere scontata in qualunque banca per il suo valore nominale, purch quietanzata dal titolare. Il Bottelli laveva quietanzata da un pezzo per darla in pagamento di un debito di gioco a uno di noi. Il nuovo possessore, invece di incassarla, la cedette a sua volta ad un altro giocatore per novecento lire di debito. Girando da una mano allaltra, era ormai valutata settecento lire, e per tale somma veniva presa e passata in mancanza di contanti.Quando veniva fuori la polizza del Bottelli voleva dire che il gioco era quasi alla fine e stava per prenderci quel momento di sonno che viene verso lalba, quando anche le sentinelle si addormentano. Poi ritornavano le energie, si snebbiavano i cervelli e il gioco dava i suoi ultimi bagliori.Gi dalle imposte trapelava la prima luce e dal vecchio parco giungevano gli zirlii e i trilli degli uccelli, abituati a venirsene - appena svegli - nei cortili e sui davanzali del caseggiato in cerca di briciole. Erano quei frulli di ali e quei cip-cip ad avvertirci che la notte aveva smesso di nasconderci e che non ci restavano che le ore di prima messa per sgattaiolare a casa senza essere visti.Ma la coda del gioco lunga. Ancora un giro, ancora un mazzo chiedono i perdenti, e i vincenti, mai stanchi di vincere, concedono.Capitava, in quelle ore, di sentire allimprovviso un rumore nella attigua cucina. Era una tazza posata su un piattino da qualcuno non ancora ben desto, un pentolino messo sul gas o una sedia smossa. Se era domenica mattina, poco dopo appariva dallinterno il Clementino, pallido, assonnato, con i pollici infilati nelle cinghie di un vecchio sacco da montagna che aveva in spalla. Pareva la larva di uno dei garibaldini sbudellati in quelle stanze dagli austriaci tanti anni prima. Da quellabbigliamento era facile capire che il Clementino partiva per una camminata in montagna. Andava al S. Martino o al Cuvignone, con la colazione nel sacco, come faceva ogni domenica. Ciao sio, ciao Cmola, ciao questo, ciao quello, e se ne andava gi per le scale con i suoi vecchi scarponi chiodati.Distratti da quellapparizione, riprendevamo il gioco con minor lena. Non passava molto che dalla cucina veniva qualche altro rumore di caffettiere e cucchiaini, e dopo poco ecco apparire la Carluccia tutta rassettata che andava a messa.A differenza della sorella, ormai al di l di ogni preoccupazione per lanima, la Carluccia faceva dentro e fuori dal peccato che la buttava dalle braccia delle guardie di finanza a quelle di Dio in un moto continuo. Passava dal nostro locale col viso accomodato alla preghiera e ci salutava con un sorriso estraneo, dintesa, come per dire: State tranquilli che ora di sera sar nel gorgo come voi o forse di pi.Il passaggio della Carluccia portava una piccola sosta. Cera sempre qualcuno che apriva il libro dei pettegolezzi, e con poco riguardo allo zio ormai inebetito dal sonno, leggeva la vita alla ragazza. Poi il gioco, sempre pi stancamente, riprendeva. Dalle persiane chiuse trapelava il sole e gli uccelli si erano zittiti. Cominciava a circolare la gente e dalla strada arrivava il rumore di qualche camion o di qualche motocicletta.Di colpo, certo senza essersi lavato e senza aver fatto la minima colazione, appariva lAndrea, vigile urbano. In divisa completa, con la mano al cinturone e la rivoltella nella fondina nera allaltezza del fegato, lAndrea andava a fare le contravvenzioni della domenica. Al vederci si rimescolava un po dentro, nel fondo della sua coscienza di agente dellordine messo di fronte a una irregolarit, a un reato. Ma poich il cane non mangia la selvaggina del padrone, fiutava e tirava avanti.Di solito era il richiamo involontario di quella montura poliziesca a maturare la nostra decisione di smettere il gioco. Non aspettavamo la levata, certo spettacolare, della Rosetta e del resto della famiglia; riposte le carte, liquidati i conti con glinevitabili riporti a credito, salutavamo il Rimediotti che andava anche lui a dormire dopo che la gran parte dei suoi si erano gi alzati, aumentando la confusione della famiglia, dove ognuno faceva per s, come se quella casa fosse ancora lAlbergo della Beccaccia.XI

Si avvicinava il Natale di giorno in giorno, e senza il ripiego delle carte la noia delle lunghe sere invernali ci avrebbe fatto paura. Lo Sberzi, solo nel suo vasto albergo, vedeva invece andare avanti linverno senza speranza. Non tentava di riprenderci; e se di giorno si capitava nel suo locale ci guardava con aria misteriosa, come aspettando da noi qualche cosa. Era diventato gentile e quieto, forse perch la stagione estiva gli era andata bene col turismo che cominciava a risorgere, o forse anche perch aveva capito che i luinesi erano ossi duri da mordere e che con loro era meglio venire a patti. Davanti allalbergo aveva collocato un cuoco di legno, uno dei primi che si vedevano, che faceva lo stesso gesto del Garibaldi che aveva di fronte e invitava imperiosamente gli avventori alla tavola.Pi duna volta, sentendo qualche rumore allesterno della nostra bisca, pensammo che lo Sberzi stesse per arrivare alluscio, deciso a sottomettersi ed a rientrare nel gioco. Invece tenne duro fin che torn la primavera a disperderci e a ricondurre qualcuno di noi al suo bigliardo o alle sedie davanti allentrata, nelle quali si stava insaccati a guardare di qua e di l, a far chiacchiere e commenti sulla vita del paese.Se un maggiolino cadeva dai rami dei tigli su un tavolino di ferro, si stava a guardare gli sforzi che faceva per rimettersi sulle gambe; poi, quando riprendeva il volo, qualcuno lo seguiva con lo sguardo nel cielo sempre sereno.Consumiamo il fondo dei pantaloni invece di consumare le scarpe diceva il Queroni che non era stato squadrista ma era ufficiale della Milizia. Bisogna marciare, altrimenti si marcisce!Ma neppure lui marciava; ingrassava lentamente, anno per anno, seduto su quelle vecchie poltrone di vimini col mento sul petto e le gambe larghe.Sembravano finiti per sempre i tempi quando anche a Luino le passioni politiche avevano sparso sangue. Due martiri fascisti erano ricordati in due lapidi, sul posto dove caddero. Dietro il monumento di Garibaldi cera il nome dei caduti del '48, e sul viale di fianco al cimitero cresceva un filare di piante ognuna delle quali era imprigionata in un treppiede di ferro con infissa una targhetta di bronzo. Vi si leggeva, ad ogni pianta, il nome di un caduto nella grande guerra. In piazza Risorgimento quegli stessi morti erano ricordati in un monumento di bronzo che ora non c pi perch dovettero fonderlo durante la guerra successiva.Pochi credevano ai martiri fascisti, troppo recenti, e nessuno era mai andato a leggere dietro il monumento di Garibaldi il nome dei suoi soldati morti a Luino. Della grande guerra invece era ancora vivo il ricordo anche perch un paio di pazzi, impazziti nelle battaglie del Carso, erano sempre per le strade e per le osterie. Uno di questi, il Brovelli, certe notti si buttava per terra sotto la luce di un fanale in mezzo alla piazza e incominciava a gridare come se fosse ancora in trincea. Da un lato della piazza, oltre gli ippocastani, cera il lago oscuro e gonfio. Sugli altri lati, ritirati nellombra, i vecchi alberghi diventati case dabitazione, coi negozi a pianterreno e le tende arrotolate sotto i balconi. In mezzo, nel tondo di luce, il Brovelli steso per terra urlava ordini, chiamava i compagni, imprecava contro gli ufficiali, e finalmente, dopo aver fatto il gesto di chi lancia delle bombe a mano stando bocconi per terra, si gettava allassalto. Correva carponi fino allalone dombra e l si rizzava, di fronte al buio. Gli moriva in bocca lultimo urlo, restava un lungo momento assorto come in ascolto, poi improvvisamente si avviava verso qualche osteria ancora aperta.Cera sempre qualcuno che gli pagava da bere e lo faceva parlare. Due volte su tre raccontava che in guerra, mentre un giorno stava andando di corpo in un angolo morto, gli era passata una palla di cannone tra le gambe.Per fortuna diceva avevo messo le braccia sotto la piega dei ginocchi e stavo alto da terra un po pi del solito, altrimenti (e faceva con la mano il gesto di prendere una mosca) addio binocolo!

Col Brovelli e con gli altri, pi di cento, rimasti sui campi di battaglia, Luino aveva pagato la sua parte pur essendo un paese poco interventista fin dai tempi di Garibaldi e forse prima. C negli archivi una lettera o rapporto di un tal Giovanni Cattaneo, scritto in occasione dei moti del 48, nel quale si inveisce rabbiosamente contro i luinesi che non avevano nessuna voglia di assalire la caserma austriaca. Bisogna vedere come se la prende quel Cattaneo con lex capitano austriaco Rinaldo Solera, luinese, che nel marzo di quellanno andava in giro smorzando gli animi invece di accenderli alla rivolta.Cercava, il Solera, di far capire al popolo che le cose cambiano da sole quando il momento, e che non c necessit di martiri. Di quel Solera, il cui figlio fu Sindaco di Luino e cittadino benemerito, il Cattaneo diceva che era una spia dellAustria, e che insieme al Prevosto, al cancelliere Bettoni della Pretura, a Rinaldo Rattazini, certo Spalla e alcuni altri, era del partito di quelli che vogliono sempre salvare lordine. Ed era vero, perch il Solera e i suoi amici riuscirono a far partire da Luino in punta di piedi i quaranta gendarmi austriaci della guarnigione, mentre il Cattaneo voleva che quei poveri soldati, in gran parte anziani e con moglie e figli, venissero scannati.A Luino ci furono due interventisti degni di storia, al tempo della grande guerra, quella dalla quale doveva tornare col suo binocolo ma pazzo, il Brovelli.Interventista fu allora un certo Caprini, ancora vivo e ormai ottuagenario. Raccontano che questo Caprini al tempo della dichiarazione di guerra agli Imperi Centrali fece un gran discorso davanti al monumento di