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N on vi è città italiana che non abbia una piazza o una strada dedi- cata ai decorati di Medaglia d’Oro al Valor Militare, a suggellare un attestato di stima, di rispettosa riconoscenza, se non d’affetto. Ma è tutto abbastanza vago, abbastanza teorico. La gente sa po- chissimo, quasi nulla, di Medaglie d’Oro. Non ne ricorda i nomi e, oggi, quantomeno fra i più giovani, persino Enrico Toti, il bersa- gliere che privo di una gamba sceglie di combattere e, prima di morire, scaglia la stampella contro il nemico, forse non è tra i personaggi più noti. Il fatto è che le Medaglie d’Oro sono divenute un’astrazione: più che uomini che hanno compiuto atti di grande coraggio, sovente a prezzo della vita, essi sono percepiti come figure estranee dal comune sentire. L’aver operato quasi sempre in uno scenario di guerra non aiuta, perché la guerra evoca pensieri o ricordi fastidiosi, talvolta imbaraz- zanti, tant’è che il suo ripudio, consacrato dalla Carta costituzionale, ormai è entrato fortunatamente nel nostro patrimonio culturale. Nondimeno le Medaglie d’Oro meri- terebbero un’attenzione meno velata, e non perché esse affermino la portata del co- raggio e del sacrificio, ma per il fatto che esse rappresentano una scelta morale, una scelta tra valori antagonistici che privilegia non l’interesse individuale, ma quello senza vincoli, che a tutti appartiene. PerS RIVISTA ITALIANA DI INTELLIGENCE UNA CARRIERA DIFFICILE DA UOMO PER BENE A EROE G IAMPAOLO R UGARLI

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Non vi è città italiana che non abbia una piazza o una strada dedi-cata ai decorati di Medaglia d’Oro al Valor Militare, a suggellareun attestato di stima, di rispettosa riconoscenza, se non d’affetto.Ma è tutto abbastanza vago, abbastanza teorico. La gente sa po-chissimo, quasi nulla, di Medaglie d’Oro. Non ne ricorda i nomi e,oggi, quantomeno fra i più giovani, persino Enrico Toti, il bersa-gliere che privo di una gamba sceglie di combattere e, prima di

morire, scaglia la stampella contro il nemico, forse non è tra i personaggi più noti. Il fatto è che le Medaglie d’Oro sono divenute un’astrazione: più che uomini che hannocompiuto atti di grande coraggio, sovente a prezzo della vita, essi sono percepiti comefigure estranee dal comune sentire. L’aver operato quasi sempre in uno scenario diguerra non aiuta, perché la guerra evoca pensieri o ricordi fastidiosi, talvolta imbaraz-zanti, tant’è che il suo ripudio, consacrato dalla Carta costituzionale, ormai è entratofortunatamente nel nostro patrimonio culturale. Nondimeno le Medaglie d’Oro meri-terebbero un’attenzione meno velata, e non perché esse affermino la portata del co-raggio e del sacrificio, ma per il fatto che esse rappresentano una scelta morale, unascelta tra valori antagonistici che privilegia non l’interesse individuale, ma quello senzavincoli, che a tutti appartiene.

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proprie responsabilità. Per giustificare la sua pusillanimità, il po-vero curato afferma che «il coraggio uno non se lo può dare»;quanto dire che è in questione un dato genetico, magari eredita-rio, un dato non diverso dal colore degli occhi. Chi è un vile è con-dannato a rimanere tale ed è assurdo pretendere che usi violenzaalla sua natura, mentre l’intrepido non ha poi grande merito perle sue prodezze, poiché è stato partorito con l’istinto della forza.Non me ne voglia Manzoni, ma la tesi di don Abbondio appare vul-nerabile e per certi versi falsa e immorale. Se c’è qualcosa che unopuò e, occorrendo, deve darsi, questo è il coraggio. Tutti noi, co-muni mortali, portiamo nel nostro istinto la paura, tant’è che ionon so di bambini che affrontano impavidi il medico armato di si-ringa. I bambini sono spaventati dall’idea dell’ago che di lì a pocoli trafiggerà, e piangono. Non vi sono eccezioni. Per fortuna ac-canto ai bambini c’è la loro mamma, pronta a spiegare che l’inie-zione è un male da affrontare, se si vuole guarire, soggiungendoche un ometto stringe i denti e non strilla di fronte all’inevitabile,tanto più che ogni esplosione di paura accresce la sofferenza.Allo stesso modo, chi viene condotto al patibolo sa o dovrebbesapere che, per quanto supplichi, pianga o inveisca, la sentenzasarà in ogni caso eseguita e lui avrà ottenuto il solo risultato direndere la sua morte poco dignitosa. Sarebbe facile dimostrareche di innato non c’è che il timore, mentre il coraggio deve essereconquistato con il ragionamento e con la forza della volontà. DonAbbondio ha torto, perché il ‘darsi coraggio’ è, o dovrebbe essere,un obbligo di chi vuol essere persona consapevole e responsabile(naturalmente, se c’è una Divina Provvidenza tanto meglio, fermorestando che nostro primo dovere è chiedere aiuto a noi stessiprima che agli altri). Dunque, per giudicare il valore di un eroe oc-corre riconoscere alla volontà il suo ruolo centrale, indispensabileper vincere le umane paure.Date queste premesse, forse possiamo guardare alle Medaglied’Oro al Valor Militare in luce diversa da quella tradizionale: nonabbiamo a che fare, grazie a Dio, con altrettanti supermen, macon gente qualsiasi, con creature verosimilmente desiderose nondi gesta leggendarie, bensì di una passeggiata, della pace dome-stica, del calore degli affetti. Voglio dire che la condizione di par-tenza dei veri, autentici eroi è la più assoluta normalità. Comenormale dovrebbe essere la divulgazione di tale cultura soprat-tutto nei giovani. I quindici racconti che verranno via via proposti,volutamente narrati con il linguaggio e le emozioni dell’epoca nella

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Non vorrei essere troppo pessimista: se l’Italia è fatta, non tutti gliitaliani hanno ancora completato il percorso, soprattutto in terminidi amor di Patria, intesa come la casa di tutti, il bene inalienabilee che, dunque, merita amore, rispetto, lealtà. Non ci vuole poimolto: basterebbe identificarsi, senza se e senza ma, in quei pochima alti princìpi che sono alla base della nostra storia unitaria e re-pubblicana. La lezione delle Medaglie d’Oro è tutta qua. Purtroppola retorica della burocrazia e – ahimé – anche di Manzoni, hannocreato involuti fraintesi, agevolando il fenomeno discutibile del-l’assunzione delle Medaglie d’Oro in un empireo dove vanno di paripasso la gloria più desolante e l’oblio più cupo. L’accostamento trala burocrazia e Manzoni può sembrare singolare, ma è suggeritodalle ragioni che proverò a riassumere. Il conferimento della de-corazione è sempre accompagnato dalla così detta ‘motivazione’.Si tratta, come dice la stessa parola, di un breve testo dove sonosintetizzati i fatti che hanno condotto all’attribuzione della Meda-glia. Ed è prassi ineccepibile, perché conforme a un fondamentalecanone di diritto (un atto amministrativo deve essere sempre mo-tivato) e perché pone al riparo da possibili arbitrii. Ciò che nelle motivazioni, pur figlie del loro tempo, può determi-nare distacco dal quotidiano appare essere il linguaggio – di so-vente aulico e al limite dell’iperbole – che, contro ogni buonaintenzione, suscita sensazioni di realtà astratte.C’è tutto il gusto di un tempo ormai lontano: il dannunzianesimoè un capitolo che, adesso, appartiene soltanto alle storie letterarie,e – per quanto riguarda la narrativa di guerra – Remarque, Hasek,Hemingway, per ricordarne alcuni, hanno contribuito a riportarela retorica in alvei più tangibili. Accade perciò che le motivazioni,suonando come bolsi panegirici, possano finire per offuscare erendere poco credibili proprio le vicende che vorrebbero illuminareed esaltare. I toni celebrativi – sia pure a livello inconscio – fini-scono per alimentare la persuasione che le Medaglie d’Oro appar-tengano a un mondo che non è il nostro. Figure nelle quali èevidente la polvere del passato e che sono ammirevoli per il co-raggio ma, purtroppo, rimangono sostanzialmente estranee allasensibilità dei più. Come se non bastassero i rataplàn dell’ufficia-lità, ci si mette anche Alessandro Manzoni ad avvalorare la teoriadell’intrepidezza come dono quasi divino, precluso alla gente qual-siasi. Don Lisander mette sulla bocca di don Abbondio una scelle-rata battuta, che è passata in proverbio e che, purtroppo, èdivenuta un eccellente alibi per tutti quelli che si sottraggono alle

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ciascuno dei Decorati, senza nulla concedere alla fantasia: il risul-tato finale sarebbe stato un testo documentato, ma sostanzial-mente catafratto nella verbalizzazione di fatti e incapace di donareai protagonisti la loro umanità. Alla retorica delle motivazioni si sa-rebbe aggiunto un ulteriore monumento che, pur involontaria-mente, avrebbe sommato magniloquenza a magniloquenza. La seconda. Le vicende dei Nostri sono abbastanza inesplorate.Dei loro giochi, delle loro scuole, delle loro amicizie, dei loro affettisi sa pochissimo. E allora era lecito domandare alla fantasia di sup-plire a ciò che mancava, avendo cura, ben s’intende, di non usaremai violenza alla verità storica e, quindi, scrivendo anziché dei rac-conti rigorosamente biografici, dei racconti liberamente ispiratialla vita dei personaggi prescelti. È parsa preferibile la seconda al-ternativa. I racconti, dove sono in questione le pagine della storiapatria, non inventano mai, però, dove consentito, cercano di avereil respiro di un romanzo che si svolge in un cinquantennio. Un ro-manzo che è di informazione, di avventura, di amore, di guerra...in una parola sola (a condizione di intenderla correttamente) di in-telligence. Nei testi proposti, frontalmente o di striscio, sono discena i messaggi in bottiglia, i piccioni viaggiatori e i colombi-gramma, il pionierismo dell’aeroplano e del paracadute, l’Abissinia,la corte del Negus e la depressa Dancalia, i carri armati di latta, ilcristianesimo monofisita, un violino di Stradivari, la tragedia del-l’Armenia, Lindbergh, il patto Kellog, Gea della Garisenda e IsadoraDuncan, la Basilicata di Carlo Levi, la Siria e il generale De Gaulle,la radio a galena, i cosacchi nella Carnia, il Forte Bravetta e l’eccidiodelle Ardeatine. È solo una semplificazione, e vorrei avvertire che la mia fantasia èestranea a tutti i temi ricordati. I racconti sono anche una sorta diriepilogo della storia italiana, nell’arco della prima metà del Nove-cento. In modo un po’ grossolano possono isolarsi tre grandi capi-toli, che si riferiscono alla Grande guerra, alla Seconda guerramondiale e alla Resistenza. Non tutto è pacifico, non tutto è li-neare, non tutto ha il luccichìo che sarebbe auspicabile. Su tali pe-riodi sono stati versati i proverbiali fiumi d’inchiostro, per cui cisoffermeremo solo brevemente su di essi. Quanto alla Grande guerra, la rotta di Caporetto fu dovuta ancheallo scollamento esistente tra i Comandi e l’intelligence. Disertoriaustriaci avevano fornito gli indicatori dell’attacco imminente: nonfurono ritenuti attendibili. Purtroppo sono vere le decimazioni disoldati, accusati di codardia.

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quale si sviluppano, sono stati scritti tenendo presente proprio lanormalità delle Medaglie d’Oro. E, quindi, non sono tanto storie digesta (anche se le gesta hanno spesso occupato la scena), quantostorie di uomini chiamati a terribili prove, qualche volta in modocasuale. Come è palese, quindici racconti non bastano per narrarele vicende di tutti i Decorati, così è stato indispensabile stabilireun criterio per determinare non le avventure più interessanti o piùimportanti, ma quelle meno note: si è imposta subito una distin-zione tra chi aveva combattuto al fronte, ossia sulla linea del fuocoe chi, oltrepassata quella linea, aveva combattuto alle spalle delnemico, in territorio occupato. È sembrato che la seconda even-tualità fosse la più negletta e che i suoi protagonisti dovessero es-sere meglio conosciuti. Enrico Toti, Salvo D’Acquisto, Luigi Durandde la Penne e altri godono di una certa celebrità, a volte propiziatadal cinema o dalla televisione, ma i cirenei, chiamati alla guerrasenza bandiera – per usare una felice espressione di EdgardoSogno – sono ignorati. Inoltre, una nuvola indistinta ha circondatoa lungo il mondo dei cosiddetti Servizi segreti, facendo dimenti-care che, in pace e in guerra e a tutte le latitudini, un Paese privodi un’intelligence efficiente procede come una nave senza bussola.A comprova, nella storia di tutte le più grandi battaglie apparesempre una notizia che ne determina l’esito. In guerra, in partico-lare, l’Agente segreto è un combattente tale e quale agli altri; ma,se scoperto e catturato, non ha davanti a sé il campo di prigionia,ha davanti a sé il plotone di esecuzione o la forca, senza speranzedi remissione. Farsi paracadutare al di là delle linee nemiche perraccogliere informazioni, non è che uno dei tanti momenti delleoperazioni belliche. Non c’è inganno, non c’è proditorietà. C’è unsoldato che, in solitudine e assumendo solo sopra di sé terribili ri-schi, cerca di fare ciò che oggi parzialmente viene demandato alletecnologie. La nube, alla quale accennavo, con buona probabilitàha contribuito a mettere la sordina alle vicende di coloro che sisono assunti lo spinoso compito di svolgere attività informativein territorio occupato dal nemico. E se la memoria delle Medaglie d’Oro conferite sui campi di batta-glia vive in una luce crepuscolare, è facile immaginare il buio cheavvolge quelle derivate da azioni segrete. Ecco perché i raccontiqui riuniti sono stati dedicati proprio a questi ultimi.Astrattamente erano consentite due strade. La prima. Sulla traccia della motivazione della Medaglia, si potevaricostruire, con la scrupolosità dello storico, l’itinerario seguìto da

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Darsi coraggio si può e si deve, in presenza di una forte motiva-zione morale, ma diventa molto più difficile quando ci si trova inun contesto in cui il collante viene meno. Armando Diaz ebbe, tral’altro, il merito di restituire la speranza e il morale agli uomini inarmi, e il conflitto fu concluso vittoriosamente. Quanto alla Se-conda guerra mondiale, gran parte degli italiani era convinta che,dopo il crollo della Francia, le operazioni belliche avrebbero avutouna breve durata, e la prospettiva di sedere tra i vincitori, al tavolodella pace, appariva a tutti allettante e remunerativa. Il cosiddettofronte interno cominciò a sgretolarsi quando fu chiaro che la vit-toria appariva sempre più lontana, mentre infittivano divieti e re-strizioni (anche alimentari), e le nostre città subivano senzasperanze le bombe delle ‘fortezze volanti’. II terzo capitolo è la Re-sistenza, ed è il più arduo. L’armistizio dell’8 settembre 1943 fusottoscritto nel peggiore dei modi: si lasciò il tempo all’ex alleatotedesco di occupare l’Italia; Mussolini venne liberato, si mandaronoallo sbando tanti nostri reparti, si rinunciò a difendere la Capitaleabbandonata dal re. Venne costituita nell’Italia settentrionale lacosiddetta Repubblica di Salò e, sotto comminatoria della penacapitale per i renitenti, furono richiamati alle armi tutti quelli chel’armistizio aveva spedito a casa. Due Italie si trovarono a combat-tere, una contro l’altra, anche perché il governo legittimo, quellonominato dalla monarchia, dichiarò guerra agli antichi alleati ot-tenendo, non senza difficoltà, dai nuovi il riconoscimento dellostato di cobelligeranza, e poté affiancare all’esercito vincitore unproprio contingente di militari. Era una situazione dolorosissima,tant’è che si è parlato, forse non impropriamente, di guerra civile.Moltissimi militari, venutisi a trovare al nord in una drammatica egenerale situazione di sfacelo, quando non furono deportati inGermania, preferirono nascondersi o prendere la strada delle mon-tagne, per costituire o integrare nuclei di guerriglia partigiana. Talinuclei formarono un movimento che ebbe il nome di Resistenza.Le cifre – intendo quanti furono i soldati della repubblica di Salòe quanti furono i partigiani – probabilmente non si sapranno mai,nella loro effettiva entità: sono state esagerate da un lato e dal-l’altro, nondimeno è certo che la Resistenza riuscì a rendere la vitamolto difficile agli avversari. A guerra finita, non venne eviden-ziato, come dovuto, l’apporto alla Resistenza dei militari (chespesso agirono in sintonia con il Comando dell’Italia meridionale,

E quindi, pur con intimo disagio, nel raccontare delle Medaglied’Oro non ho potuto ignorare la categoria del tradimento, tentandoanche di calarmi nei panni del delatore, a sentire e a ragionarecome il delatore, concludendo che certe bassezze possono essereispirate soltanto da una insana felicità di commettere il male. IIdoppio gioco è argomento di sapore pirandelliano, perché non misento di escludere che l’accettazione e la professione di opposteverità (quella del fascismo e quella della Resistenza) da taluni siastata vissuta in buona fede, anche se l’espressione ‘buona fede’ inquesto caso è sconcertante. Non è necessario scomodare la psico-logia per ammettere che, in uno stesso individuo, talvolta riesconoa coesistere diverse, contrastanti personalità. Se mi attardo in unariflessione non esattamente storica, è perché mi preme sottoli-neare che lo sfacelo succeduto all’armistizio, per alcuni fu anche losfacelo dell’anima. Ecco perché la delazione appare con frequenzanei miei racconti, trattandosi di una chiave che schiude tanti me-andri dell’anima, a tacere la circostanza, decisiva, che tale abomi-nevole prassi, nell’arco pressoché biennale della Repubblica di Salò,ebbe più fortuna di quanto si sarebbe desiderato. Tirando le somme dei tre capitoli di storia ai quali ho fatto cenno,ci si rende conto che l’insieme non è esaltante. La Grande guerra,pur conclusa vittoriosamente, reca in sé alcune ombre, tanto èvero che al successo militare seguì un periodo di gravi disordini edi inquietanti incertezze: terreno di coltura per l’avvento del fasci-smo. La Seconda guerra mondiale fu persa malamente: singoli epi-sodi di eroismo non riscattano una sciagurata avventura. Infine,la Resistenza è una bella pagina, che ha alleggerito il peso dellasconfitta, ma fu anche lotta fratricida. II bilancio è scomodo, maa venirne fuori peggio di tutti sono gli italiani. Non è in questionela congenita propensione a giocare a guelfi e ghibellini o l’attac-camento alla municipalità che spesso prevale sull’amor di Patria.C’è di peggio. C’è che taluni italiani non sono impeccabili. C’è cheil loro concetto di civiltà e onestà spesso lo ricavano non dalle leggidello Stato ma dalle loro personali convinzioni, c’è che la furbiziaè apprezzata più dell’intelligenza, c’è che gli ideali sono tenuti inscarsissima considerazione, c’è che ammirano il forte anziché ilgiusto, c’è che tra il dovere e il tornaconto scelgono frequente-mente il secondo. Con tali premesse un popolo non si eleva! Na-turalmente non siamo tutti così.

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cioè quella soggetta al governo voluto dal re). In realtà, la Resi-stenza sarebbe stata probabilmente un fenomeno meno incisivo,senza il contributo degli uomini in uniforme, che vi aderirono nellagiusta convinzione di muoversi nella più stretta legalità, in ade-renza al giuramento prestato. Consegue che, per i militari, e furonotanti, partecipare alla Resistenza significava tener fede a un giu-ramento e proseguire nell’adempimento del loro dovere, sia purein condizioni mutate e divenute immensamente più difficili. Nelcontesto di un Paese diviso in due – con l’esercito anglo-ameri-cano che, pur con lentezza, risaliva la penisola – l’attività di intel-ligence non fu meno importante della guerriglia.A volte le due attività si fondevano in un unicum senza distinzionedi fasi successive e conseguenti. Ecco perché la Resistenza fu sìguerra di popolo, ma fu pure, nell’accezione di Edgardo Sogno,guerra senza bandiera. L’invasore si fece valere nel peggiore deimodi: attuò rappresaglie feroci (e, a parte le fosse Ardeatine, allequali è dedicato un lungo racconto, rese tragicamente noti i nomidi Marzabotto, di Civitella, di Sant’Anna, di Boves e di altri luoghi),deportò in campi di sterminio (gli ebrei furono le vittime di ele-zione), torturò i prigionieri, bandì ogni norma di umana civiltà epersino di pietà. La tortura, grosso modo sino all’età dell’illumini-smo, ebbe una sua sinistra, aberrante liceità e, a comprova, la le-gislazione vigente prima di allora l’ammetteva, sia pure entro certilimiti e a certe condizioni. Ma – dopo Verri e Beccaria – fu banditacome inutile barbarie. Una confessione estorta con i tormenti, nonpuò avere alcuna credibilità. Sciaguratamente, in quegli anni ter-ribili la tortura ridivenne pratica orribile dei regimi totalitari, de-generando fino agli orrori dei campi, dei lager e dei gulag. Essa fupraticata largamente con finalità punitive ma, più ancora, con fi-nalità inquisitorie: alcuni seppero affrontare con animo impavidola tremenda prova, altri, verosimilmente i più, ne uscirono distrutti.Il delatore, certo, è persona ripugnante, ma altrettanto ripugnanteè chi cede ai supplizi cui lo sottopone un aguzzino? Si può chiederea tutti di comportarsi come il duro della canzone di Giorgio Stre-hler e di Fiorenzo Carpi, il quale non parla, benché riempito dibotte nel carcere di San Vittore? La delazione è un tema inquie-tante che attraversa capitoli della Resistenza. Vi sono casi in cuiparlare di doppio gioco è riduttivo: vi furono tripli, quadrupli gio-chi, avvenne di tutto, come la fine del conflitto rese evidente.

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A tali negative peculiarità fanno incredibile riscontro personaggied episodi per i quali l’aggettivo ‘eroico’ non è speso a sproposito:si pensi alla Repubblica partenopea e all’ammiraglio Francesco Ca-racciolo o al giurista Mario Pagano, oppure alle Cinque Giornatedi Milano e a Pasquale Sottocorno (tre anni dopo ad AmatoreSciesa) oppure ai Martiri di Belfiore (don Enrico Tazzoli, CarloPoma, Tito Speri e altri). En passant, il Risorgimento sembra ca-duto nell’oblio più assoluto, avvolto da una patina impermeabile,quasi fosse un incidente da dimenticare: laddove dal Risorgimentodovremmo ricavare preziosi insegnamenti. C’è eroismo persinonella sciagurata Seconda guerra mondiale: e si ricordino l’AmbaAlagi, Giarabub, El Alamein, Isbuscenskij, Mignano Montelungo... E si ricordino le Medaglie d’Oro, tutte, non soltanto quelle cui hodedicato i miei racconti. Dobbiamo dedurre che gli italiani sono capaci del peccato più im-mondo o della virtù più sublime? Che conoscono soltanto gliestremi e ignorano la quotidiana routine, l’anonimo agire delle per-sone perbene, contente di fare la loro parte nel modo migliore,senza altre pretese? Nonostante tutto io sono convinto che i ga-lantuomini siano prevalenti. Vi è una celebre frase di Bertolt Brecht: sarebbero felici tutti iPaesi che non hanno bisogno di eroi. Posso condividere. Ma l’uma-nità ha bisogno di persone perbene, di eroi che con la loro etereapresenza danno speranza al mondo. Venendo meno questo requi-sito apparentemente semplice, a portata di mano, l’aggregato so-ciale si sfalda. Le Medaglie d’Oro non portano scritto sulla cartad’identità, alla voce professione, ‘eroe’. Sono uomini, con tutti iloro pregi e tulle le loro debolezze che, chiamati a terribili prove,hanno saputo esaltare le proprie virtù.Lo stesso Nicola Calipari non inseguiva certamente sogni eroici:era un funzionario dello Stato, con la sua famiglia, i suoi amici,forse con una squadra di calcio del cuore. Gli fu detto di andare ariprendere una connazionale rapita in Iraq e di riportarla a casa.Lui lo fece, perché era il suo dovere e pagò con la vita la sua ret-titudine e la sua generosità. Calipari è un eroe? Sì, ma lo è inquanto persona perbene, di quelle che antepongono l’interesse al-trui al proprio tornaconto. Vorrei che le vicende delle Medaglied’Oro al Valor Militare qui raccontate, tutte a misura di creatureumane, non di semidei, inducessero tutti a riflettere sull’eroismodella normalità di cui si avverte un grande bisogno.

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