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isolamento e comunicazione

D’altro canto, la comunicazione rap-presenta la condizione senza la quale lerelazioni non possono nascere e svilup-parsi; l’uomo è infatti posto, sin dall’ini-zio della propria esistenza, in unadinamica di acquisizione dei processi co-municativi in gran parte non consape-vole. È altresì corretto affermare chel’uomo in assenza di comunicazione nonsia in grado di mantenere una benchéminima stabilità emotiva, in quanto, perriconoscere se stesso deve “comuni-carsi” agli altri, ossia relazionarsi, e ciònon può avvenire tramite il solo con-fronto con se stesso. Non può accrescela consapevolezza di sé senza un ri-mando, positivo o negativo che sia, daparte dell’altro.Da qui una domanda: che “potenziale”

può avere la relazione nella complessitàdella vita di un individuo (alla luce dell’hicet nunc), cosa comporta e in che modopuò modificarne l’esistenza?Abraham Maslow tra il 1943 e il 1954

concepì e divulgò il concetto di “gerar-chia dei bisogni” (1973). Tale gerarchiao scala di bisogni è suddivisa in cinquedifferenti livelli, che vanno dai più ele-mentari, in quanto necessari alla so-pravvivenza dell’individuo, ai più com-plessi, di carattere sociale. Alla basedella piramide si possono osservare i bi-sogni indispensabili alla vita, salendoverso la cima i bisogni meno indispen-sabili, ma più fini e che maggiormente

L’essere umano ha tra i suoi bisogni più concretiquello di relazionarsi per acquisire un senso d’iden-tità e appartenenza sociale, necessario alla vitastessa. Riflessioni nel momento in cui l’emergenzaci tiene lontani dagli altri

LA VITALE RELAZIONE TRA NOI E GLI ALTRI

“Nel regno degli esseri viventi non esistono cose, ma solo relazioni” (Bateson,1967) e le cose rappresentano il mezzo tramite cui si sviluppano le relazio-ni. Le relazioni rappresentano i fondamenti delle comunicazioni interperso-nali fin dai primi anni di vita e determinano il tono e le caratteristiche di talicomunicazioni nel corso di tutta l’esistenza.

L’isolamento, il mutismo, la non espressione, la paura, lo spaesamento, la preca-rietà (sentimenti che in questo momento stiamo vivendo) sono una maniera di rela-zionarsi, una forma di comunicazione più o meno evidente e con diversi significatiattribuibili a seconda del contesto in cui si manifestano. L’essere umano, per sua na-tura, non può interrompere il continuo relazionarsi con gli altri se non dopo la morte:neanche durante il sonno si perdono le facoltà relazionali con l’ambiente circostante,che sono indispensabili alla vita.

ANGELA MARIA VOLPICELLA

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isolamento e comunicazione

contraddistinguono l’essere umano da-gli animali: i bisogni di auto soddisfa-zione e realizzazione morale e sociale. Ibisogni di relazione sono rappresentatiesattamente al centro della piramide eassumono un ruolo assai determinante.Ecco che in quest’ottica l’argomento re-lazione deve essere valutato come ele-mento fondante, basilare, non escludibiledalla vita istintuale dell’uomo, che ha trai suoi bisogni più concreti proprio quellodi relazionarsi per acquisire un sensod’identità e appartenenza sociale, ne-cessari alla vita e al raggiungimento diobiettivi atti a soddisfare bisogni più ele-vati, come quelli di stima e autorealizza-zione, ma anche di quelli legati alle piùprecoci fasi dello sviluppo.Se si vuole completare il quadro ipo-

tizzato che vede le relazioni interperso-nali come cornice dell’intera vita umana,si pensi a come tale argomento sia pa-lesemente il fondamento di qualsivogliaoggetto di studio nel mondo umano: fi-nalità, obiettivi, metodi, mezzi e risorsedi uno studio letterario, giuridico, sociale,medico, scientifico, matematico e stati-stico, economico e via dicendo. Ognievoluzione umana ha visto porre fonda-menta di tipo relazionale, comunicativedi gruppo e collettività.

La relazione educativa

Alla luce di questa premessa, seppurparziale, è indubbio che il binomio con-cettuale “relazione ed educazione” fac-cia riferimento a una multiformità dicontenuti, di composite e complessepossibilità definitorie, tanto che si prestaa interpretazioni e ad analisi diversifi-cate, assumendo di volta in volta confi-gurazioni dissimili non solo in funzionedell’approccio teorico di afferenza ma

anche in virtù di taluni specifici presup-posti riguardanti: a) l’orientamento disci-plinare da cui la relazione educativaviene considerata (pedagogia piuttostoche sociologia, psicologia, psicoanalisi);b) i soggetti che la esperiscono (diadegenitore-figlio, insegnante-allievo, edu-catore-utente); c) l’epoca in cui si verifica(assunzione di modelli e strutture diversinei vari periodi storici); d) i fini che le siattribuiscono (ad esempio supportare losviluppo umano forgiando e accompa-gnando trasformazioni identitarie piutto-sto che tramandando modelli da unagenerazione all’altra). Dal punto di vista pedagogico, torna

favorevole la definizione fornita da PieroBertolini nel suo saggio del ’58 Fenome-nologia e pedagogia, dove descrive larelazione educativa in termini di “pro-spettazione di certi orizzonti, di certe vi-sioni, di certi valori verso cui tendere eper mezzo dei quali modificare il com-portamento umano in un perfeziona-mento continuo e sempre più alto”(Bertolini, 1958, p.105). In questo senso,il concetto rimanda a uno scambio reci-

proco dotato di significato che avvienetra due interiorità le quali, in assetto dico-esistenza, tendono verso un fine inprospettiva progettuale. Pertanto, se daun lato è asseribile l’assoluta unicità eoriginalità dell’uomo, dall’altro questi èimpensabile se non in una permanentereciprocità con gli altri esseri umani. Ber-tolini ha evidenziato quanto il valore dellarelazione educativa sia dipendente dallacapacità dell’educatore di situarsi nell’al-terità dell’altro, dal momento che solonella rivelazione e nella oggettivazionedell’alterità risulta accessibile per l’altro– l’educando – il riconoscimento di sé inquanto persona. Dallo stesso si ricavaanche che la relazione educativa si di-stingue da qualsiasi altra relazione per-ché fondata sull’intenzionalità educativae sulla messa in atto di procedure e per-corsi mirati al conseguimento di obiettivieducativi (cfr. Bertolini, 2006). Questoprocesso – che trasforma la percezionedi sé e dell’altro da sé da puro e sem-plice episodio (come ad esempio un’in-terazione sociale) in evento educa-tivamente significativo orientato verso

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isolamento e comunicazione

Tra i dispositivi di cui un adulto devedotarsi per esercitare il proprio ruolo “inquanto educatore” – in termini di auten-tica presenza educativa – vanno certa-mente annoverati anche il coinvolgimen-to personale, la responsabilità nel per-seguire con costanza una direzione for-mativa su di sé oltre che una coerenzanegli stili di vita praticati e prospettati al-l’educando.

Le prospettive pedagogiche – perprime – hanno il compito di avanzare in-terpretazioni basate su evidenze empiri-che che conducano a una lettura e aun’interpretazione dei problemi e dellenecessità quotidianamente vissute da in-dividui, gruppi, comunità, istituzioni e datutti i soggetti che, pur diversamentequalificati, sono implicati nei processi for-mativi. Tale operazione non può pre-scindere dall’individuazione degli indi-rizzi, delle direzioni e dei metodi educa-tivi più appropriati oltre che dalla com-prensione della componente intersog-gettiva tra i soggetti coinvolti che deter-mina l’unicità, l’irripetibilità e la qualitàdella relazione educativa. In questa direzione la “sfida educativa”

deve essere giocata soprattutto sul

una meta – richiede che uno dei due in-terlocutori sia un educatore, vale a direun esperto in relazione, sensibile e deltutto disponibile all’“oggetto/soggetto”che si offre alle sue percezioni, del tuttoscevro da intenti di stravolgimento. A volte ciò non trova piena realizza-

zione perché l’adulto non sempre è in-tenzionalmente orientato alla capacità diimmedesimazione, venendosi in talmodo a creare delle “distor-sioni” – o trasformazioni ar-bitrarie – della realtà (cfr.Bertolini, 1996). L’incontropedagogicamente orientatoda uno sforzo di “deconta-minazione” oltre che da unatensione psicologica edetica e sicuramente non dauna disposizione istintiva oda una spontaneità irrifles-siva, ciò connotandosi comeun fatto pedagogicamentesignificativo. Per conclu-dere, una sempre più cre-scente quantità di studi e diindagini inerenti il crescentesenso di indeterminatezza e di instabilitàesistenziale, evidenzia l’attuale difficoltàdi innescare fecondi processi educativiche non di rado risultano difficoltosi, fa-ticosi, a volte impervi, comportando –come conseguenza – un tendere al-l’elusione, se non all’abdicazione, daparte dell’educatore. È invece necessa-rio che gli adulti vengano riscoperti eriaccreditati nella loro funzione educa-tiva ma, soprattutto, è fondamentale chechi ha competenze in politica pubblicasi impegni alla loro formazione “inquanto persone solide”, capaci di co-struire l’humus entro cui accompagnaree favorire lo sviluppo delle nuove gene-razioni e, nel contempo, capaci di attri-buire il “giusto” senso al compito cuisono chiamati.

piano delle relazioni tra generazioni, in-tendendo con ciò dire che una vera sfidaeducativa può essere sostenuta sola-mente a fronte di un effettivo “scambiointergenerazionale”, dove giovani eadulti riescono a comunicare, a com-prendersi e a trasformarsi reciproca-mente, grazie a un’autentica positivainterrelazione tra stili e modelli di vita.Ciò significa che gli adulti accettano di

riconoscere e di interpre-tare correttamente la “spe-cificità generazionale” deigiovani e questi ultimi ac-cettano di riconoscere ne-gli adulti una presenzatestimoniale in termini nontanto di esperienze com-piute quanto piuttosto ditensione dell’umano versola “ricerca della verità” (Liz-zola, 2009, p.75).Insieme costruiremo una

ri-educazione.

BIBLIOGRAFIABateson G. (1967). Verso un’ecologia della

mente. Milano: AdelphiBertolini P. (1958). Fenomenologia e peda-

gogia. Bologna: Malipiero. Bertolini P. (1988). L’esistere pedagogico. Ra-

gioni e limiti di una pedagogia come scienza fe-nomeno logicamente fondata. Firenze: LaNuova Italia.

Bertolini P. (1996). Dizionario di pedagogia escienze dell’educazione. Bologna: Zanichelli.

Bertolini P. (2006). Introduzione. In: P. Ber-tolini (a cura di), Per un lessico di pedagogia fe-nomenologica. pp. 7-30. Trento: Erickson

Lizzola I. (2009). Di generazione in genera-zione. L’esperienza educativa tra consegna enuovo inizio. Milano: FrancoAngeli.

Maslow A.H. (1973). Motivazione e Perso-nalità. Roma: Astrolabio.

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Il percorso poetico di Amelia Rosselli

La poetessa racconta la sua Roma, le camere d’affitto, l’affetto del popolo tra-steverino, l’amicizia con Carlo Levi, Guttuso e Rocco Scotellaro. E il ricordoindelebile del padre Carlo, assassinato in Francia dai servizi segreti italiani

LA CITTÀ COME NOCE PROTETTIVA

Uno sguardo e un nome segnati dalla storia. Latraccia di vicende dolorose è lì, indelebile, trale parole pronunciate di filato e le righe vicineagli occhi. Era l’ottobre del ’48 quando Amelialasciò Firenze per venire a lavorare come tra-

duttrice a Roma. La sua storia, soprattutto quella della suainfanzia e adolescenza, la conoscono tutti. Per via del nomeappunto. Figlia di padre noto: Carlo Rosselli. Nella sua casain via del Corallo, Amelia Rosselli ricorda le vicende famoselegate all’uomo che fu uno dei fondatori del movimento “Giu-stizia e Libertà”, che organizzò la fuga di Turati e che fu as-sassinato, insieme al fratello Nello, in Francia nel ’37 per or-dine dei servizi segreti italiani. Parigi, Londra, New York, poiFirenze e Roma: fu proprio in quest’ultima città, dopo le fugheforzate in giro per il mondo durante la guerra, che Amelia Ros-selli cominciò a scrivere poesie.

Trovai per l’estate - racconta la poetessa - una camerettain via della Vite. Fu lì che cominciai a scrivere. Era una ca-mera celeste dove però non c’era acqua corrente. Andavodal vicino di casa con una bacinella per prendere l’acqua.Nella stanza c’erano solo un letto e una pila di libri accata-stati per terra.

L’influenza dell’ambiente culturale romano, l’amicizia stret-ta con Carlo Levi e Rocco Scotellaro furono fondamentaliper il suo avvio alla scrittura. Tra le sue raccolte di poesiaVariazioni belliche (1964), Serie Ospedaliera (1969), Docu-mento 1966-1973 (1976), Primi Scritti 1952-1963 (1980), Im-promptu (1981), Antologia poetica (1987) e Sleep (1992).

Intervista ad Amelia Rosselli di LAURA DETTI

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Il percorso poetico di Amelia Rosselli

scai un forte esaurimento nervoso. Hoconosciuto quindi Roma come trapian-tata tra camere d’affitto e entrate se-parate.

Ci racconti l’ambiente culturaleche ha cominciato a frequentare. Ecosa è diventata Roma oggi da quelpunto di vista?È stato fondamentale l’influsso di

personalità come Guttuso, Scotellaro eCarlo Levi. Gli ultimi due li incontrai aVenezia al Congresso dei partigiani.Levi era anche pittore, aveva uno stu-dio vicino Piazza del Gesù, Conobbianche l’ambiente critico letterario roma-no di scuola junghiana. A piazza delPopolo si incontravano invece pittori egalleristi, ma quel mondo mi ha influen-zato poco. Io andavo ormai per contomio nella scrittura di poesie. Tuttal’avanguardia che stava venendo fuori,soprattutto in pittura, era per me cam-pata e digerita. L’esperienza del “Grup-po 63” mi ha permesso solo di studiarelo strutturalismo. Quando fu tradotto inItalia, mi ricordò gli studi che avevo fat-

Cosa ha significato arrivare a Ro-ma dopo le esperienze in ambienticittadini così diversi dalla capitaleitaliana?I miei primi anni di vita a Roma sono

stati estremamente tristi e faticosi. So-no arrivata qui da Firenze, dove vive-vo nella casa paterna con mia nonna,madre di Carlo e Nello. Mia madre eraappena morta. Era a Londra, mentreio ero a Firenze. Arrivai in questa cittàe per un lungo periodo non aprii boc-ca, caddi in un mutismo apparente-mente inspiegabile. Quella morte fudolorosissima, persi addirittura la me-moria. Dallapiccola, il compositore, mitrovò un lavoro di mezza giornata alleedizioni “Comunità”. Il suo commentoalla partenza per Roma fu: “Roma larovinerà”. Non avevamo soldi perchémio padre, che era un socialista indi-pendente e benestante, visto il suo in-segnamento universitario, era dell’opi-nione che chi aveva i mezzi dovevametterli a disposizione della Resisten-za. Non ci aveva perciò lasciato soldi.Abitai qui in diverse camere d’affitto.Con uno stipendio di mezza giornataho visto e conosciuto Roma con l’otti-ca di una persona molto povera e dalpunto di vista di un “giovanotto”. Per-ché a Roma era impossibile affittareuna stanza a una donna sola. Non l’hovisto fare nel mio ambiente. All’inizioho abitato in via Nomentana. Era unviale triste di impiegati, non era riccocome lo è oggi. Ciò che mi colpì subi-to, vivendo in quella zona della città,fu la tetraggine del luogo. Ho poi il ri-cordo ben intatto degli autobus tetri,pieni di impiegati statali. Via Nomenta-na era isolante e triste. Vissi in gransolitudine per un periodo. Lavoravo econtinuavo a studiare musica e mi bu-

to molti anni prima. Roma era una cittàvivacissima allora. Se lo sia per un gio-vane di oggi non lo so, non si possonofare confronti. Devo dire che non sentoi giovani lamentarsi di mancanza di sti-moli culturali.

Come sono entrati nella sua poe-sia la vita e i luoghi di questa città?Tutto entra nella poesia. Non ho mai

preferito un poema all’altro. Piuttostoho cercato di non ripetere la formuladonna-poesia d’amore. Nel mio librocentrale, quello della maturità, ho con-tato cinque poesie d’amore, le altre so-no piuttosto deduzioni, dove si parlaanche della perdta dell’amore. Mi hacerto segnato la vita che ho fatto qui.Non mi sono mai allontanata da Roma.Solo per un periodo, nel ’76, dovetti an-dare per un periodo in Inghilterra, per-ché avevo avuto noie dal SID e dallaP2. Quando sono tornata ho capito cheall’Inghilterra, dove mancano il climamoderato e l’affetto spontaneo, preferi-vo il clima meridionale e il tipo di vitaaffettiva che c’è a Roma. Comperai una

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Il percorso poetico di Amelia Rosselli

casa a Trastevere e stetti lì dal ’54 al’70. Allora quel quartiere non era dimoda. Andai ad abitare lì perché nonsopportavo la borghesia commercialedel centro. Ho fatto fatica anche adabituarmi ai salotti borghesi, compresiquelli artstici, della capitale. Sonoscappata alla svelta da quel mondo.Ho scelto di proposito Trastevere. Allo-ra non si vedeva un intellettuale nean-che morto. Era un paesotto. Quandolasciavo Trastevere e attraversavoponte Garibaldi con l’autobus o ponteSisto a piedi mi sembrava di passaredalla campagna alla città. Era per meuno stacco un po’ drammatico. Ho vis-suto di queste piccole cose che eranopiù drammatiche per me che non nellarealtà. I miei bisogni affettivi venivanosoddisfatti dai piccoli gesti: andare amangiare insieme a pranzo o a cena,vedersi salutare per strada. Il clima af-fettivo del “popolino” di Trastevere -popolino non è un termine offensivo -mi aiutava. Vivere a Roma è stato perme come stare in una noce protettiva.Inoltre l’incontro con Scotellaro è statofondamentale per la poesia. Sono sta-te ritrovate poesie in italiano che man-davo a Scotellaro. Attraverso di lui hoscoperto i poeti italiani e ho imparatoa scrivere versi in italiano. Non è chenon sapessi l’italiano, non avevo l’am-bizione di diventare poeta. Con lamorte di Scotellaro esplose questo ta-lento e la poesia è divenuta da allora ilmio interesse primario.

E il resto della città, quello delleperiferie, lo ha mai incontrato?Di passaggio. Le periferie di Roma

mi sembrano ora molto tristi, non san-no di nulla. Mi limito a stare in centro equando devo andare in periferia sento

un po’ di uggia, di ansia. Per me Ro-ma è qualcosa di immaginario, è il suocentro storico, sia dal punto di vistaarchitettonico, sia dal punto di vista af-fettivo. Il resto assomiglia alle periferiedelle grandi città. La periferia di Lon-dra è più tetra. Lì la differenza tra po-vero e ricco è più forte, non è camuffa-ta come qui. Se si guarda Roma dal-l’aereo, si vedono un piccolo centro etante ali che partono da lì. Io comun-que amo il posto dove vivo, per il restonon posso dare giudizi. Mi faccio pe-netrare dal luogo in cui vivo e, se evitocerte parti di Roma, è perché nel buio,di notte, sono davvero tristi.

Com’è la situazione romana ri-spetto alla poesia?Quanto all’editoria, è disastrosa. C’è

una concentrazione di grossi e medieditori a Milano, Venezia e Torino. DaFirenze in giù il vuoto. Si fanno molteletture, ma non è certo questo che sti-moli la lettura del libro di poesia. Anzi,una caratteristica delle civiltà di massaè proprio quella di accontentarsi del-l’oggetto, dell’“animale” poeta. La gen-te vede il poeta recitare le sue poesie,le capisce a metà ma è soddisfatta: havisto la fonte e le basta. Non si sonoinfatti notati aumenti di vendite di libricon le letture. È un fatto piuttosto ne-gativo. Ciò che è positivo di questi in-contri pubblici è invece la possibilità discambiarci i libri, di fotocopiarli.

Siamo sommersi dalle parole. Vi-viamo in un’epoca della “comunica-zione” per eccellenza. Ma, nono-stante questo, sembra che il lin-guaggio stia attraversando una cri-si profonda. Si ritrova questa diffi-coltà nella poesia?

Ogni generazione si crea un propriolinguaggio sul piano artistico. Oggi illinguaggio non è in criisi, è rinato. Ionon sarei così pessimista. Penso chebisogna guardare le cose dal punto divista generazionale. Meno male cheogni vent’anni si rinnova il linguaggio.Non è che il linguaggio sia entrato incrisi, si è semplicemente rinnovato, siè staccato dalle vecchie abitudini,quelle accademiche.

In questo momento difficile perl’editoria, per la letteratura e per lacultura in genere pensa che la poe-sia possa continuare a parlare almondo e del mondo?Pier Paolo Pasolini ha avuto bisogno

del cinema per parlare di temi scabrosie per arrivare al pubblico delle masse.Eliot non ha operato così. Non ha sem-plificato il linguaggio. Ha inserito il par-lato e il narrativo della poesia. Sappia-mo tutti che oggi la letteratura non ap-partiene più soltanto alla borghesia eall’aristocrazia. Appartiene ai ceti medie alle masse. Anche per la poesia sipuò dire la stessa cosa E quindi il poe-ta deve fare i conti col pubblico che de-sidera avere. A meno che non si vogliaritornare ad arroccarsi sulla torred’avorio, a scrivere per pochi principot-ti, per una borghesia compiaciuta eschiavista. Ma ancora non c’è unagrande divulgazione letteraria. Nonperché l’operaio o il ceto medio nonsiano in grado di leggere i libri, anzi. Sifa molto di più col cinema o con la ra-dio. Ma il libro è comunque molto ama-to. Io ho amici operai. Regalo a loro idoppioni dei libri che ho. Odio lo spre-co. Invece in Italia l’unico modo di ca-pire le masse è rubare o sprecare.

(L’Unità, 27 giugno 1993)

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