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Parte II
Capitolo 1 I luoghi del dirigere. Leadership ed evoluzione del modello organizzativo nelle Pubbliche Amministrazioni
di Antonio Cocozza
Introduzione In questo saggio diamo conto dei risultati della ricerca sui Luoghi di vitalità
dirigenziale, realizzata nel periodo novembre 2001 - febbraio 2002, nell’ambito di
un’indagine più generale sui temi delle “Riforme amministrative e ruolo del dirigente:
“mercato” delle competenze e fattori di successo”, promossa dalla Scuola Superiore
della Pubblica Amministrazione.
Le variabili qui analizzate si propongono di prendere in esame quelle “realtà
plurali” che, in questi ultimi anni, hanno maggiormente operato in una logica di
innovazione strategica, organizzativa e gestionale, attraverso la definizione (e la
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pianificazione) di un “progetto mirato di cambiamento” dell’insieme
dell’amministrazione.
Questo tipo di scelta, ovvero la necessità di poter disporre di un “Progetto” è da
ricondurre ad un riscontro empirico messo in luce da una recente indagine dell’OCSE 1,
che è stato recepito come “assunto sociologico di base” nell’ipotesi di ricerca, secondo
il quale si ritiene che si possano riscontrare “inevitabili criticità” nel processo di
implementazione delle riforme nelle pubbliche amministrazioni, nella fase trasferimento
operativo e di concreta “messa in opera” dei cambiamenti.
In questa indagine si sostiene infatti che la sfida attuale che molte
amministrazioni pubbliche si trovano ad affrontare non è più data dall’interrogativo “se
cambiare”, ma l’accento è ormai sul “come cambiare”, in modo da migliorare l’efficacia
dell’amministrazione e la competitività del Paese.
Tali criticità chiamano in causa il ruolo del dirigente pubblico, quale attore
fondamentale per una gestione efficace dei cambiamenti, e si presentano come una serie
di “nodi critici”, che danno luogo a loro volta ad un mutamento oltreché politico e
amministrativo, di tipo culturale, organizzativo, gestionale e relazionale.
In questo senso, nella scelta del “campo d’indagine” si è inteso prestare una
particolare attenzione verso i luoghi vitali 2 di quelle amministrazioni che hanno
intrapreso (o già esteso e consolidato) un percorso di gestione del cambiamento,
“adottando” e “adattando” strumenti di pianificazione e tecniche di gestione ascrivibili,
in una classificazione tradizionale, nell’ambito di una cultura organizzativa di tipo
manageriale.
Si è proceduto, quindi, all’individuazione di tre amministrazioni, che
rispondessero ad alcuni “criteri strutturali” ritenuti particolarmente significativi ed
esplicativi per questo tipo di ricerca e cioè: presidio di funzioni vitali per la comunità
nazionale; erogazione di servizi d’importanza strategica; ruolo fondamentale svolto
dall’amministrazione, rispetto da altre amministrazioni, nel processo complessivo di
implementazione della riforma delle pubbliche amministrazioni italiane.
1 Si veda OECD, Cultural Change in Government: Promoting a high-performance culture. Public Management Service, 4 october 2002. 2 Per un approfondimento del concetto di “mondo vitale”, come libera espressione della soggettività individuale e associata (di piccoli gruppi), quale modalità necessaria, nelle società complesse, allo sviluppo di un’effettiva capacità di innovazione e di progettualità sociale, in opposizione/integrazione al concetto di sistema sociale fortemente istituzionalizzato e paralizzante, si veda A. Ardigò, Crisi di governabilità e mondi vitali, Cappelli, Bologna, 1980.
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In base a questa logica, le amministrazioni nelle quali si è svolta l’indagine sono
state: Ministero dell’Economia e delle Finanze; Ministero dell’Istruzione,
dell’Università e della Ricerca; Inps.
Si tratta di quei contesti organizzativi, dove l’esercizio delle funzioni
dirigenziali, al di là dei fattori soggettivi, ha prodotto azioni e programmi d’intervento
organizzativo (avviati e/o conclusi) tesi a:
a)migliorare il “clima organizzativo e relazionale”, incidendo sulla motivazione
dei collaboratori, mobilitando le risorse potenziali o nascoste dell’organizzazione;
b)intervenire sui livelli complessivi di efficacia e di efficienza
dell’amministrazione.
In linea con questa impostazione metodologica, per le ragioni sopra esposte, ci si
è proposto di realizzare un’analisi qualitativa di uno specifico “oggetto di ricerca”: Le
diverse tipologie di leadership in relazione alle possibili interazioni esistenti tra due
differenti tipologie di variabili, denominate come variabili istituzionali e variabili
organizzative, ritenute particolarmente esplicative del ruolo del dirigente, in questo
specifico contesto organizzativo.
La prima tipologia si connota per le seguenti caratteristiche “istituzionali”:
a)consapevolezza diffusa dell’importanza della mission affidata
all’amministrazione e alla struttura;
b) le culture professionali in essa presenti;
a)il capitale culturale ottenuto dall’investimento formativo (iniziale o
consolidato) realizzato negli ultimi anni.
Alla seconda tipologia appartengono, invece, determinati “comportamenti
organizzativi virtuosi ” del dirigente, che rappresentano una modalità innovativa di
pratica e di sviluppo di uno stile di leadership più adeguato ed efficace, capace di:
a)stimolare una competitività positiva, fra le strutture (Dipartimenti, Servizi,
Uffici) e fra i collaboratori;
b)promuovere la spinta all’autorealizzazione;
c)sviluppare una leadership partecipativa;
d)creare un clima organizzativo sereno e incentivante.
Nella realizzazione dell’indagine sono state adottate due diverse tipologie di
strumenti investigativi: la ricerca documentale e la ricerca empirica.
La ricerca documentale ha permesso di elaborare i primi due capitoli depresente
saggio, prendendo in esame due diverse fonti: le principali pubblicazioni e gli studi
4
condotti su questa materia dagli studiosi più importanti, in un’ottica interdisciplinare
negli ultimi tre anni; informazioni dirette, acquisite ad hoc per questa ricerca e studi
realizzati da altri in merito all’evoluzione dei modelli organizzativi delle tre
amministrazioni esaminate.
La ricerca empirica di tipo qualitativa è stata condotta, nel 2002, in alcune
“situazioni campione”, individuate nell’ambito delle tre amministrazioni interessate.
Dal punto di vista metodologico e degli strumenti d’indagine utilizzati, sono
state effettuate 12 interviste semi strutturate a dirigenti testimoni privilegiati, posti in
“posizioni organizzative chiave” nelle amministrazioni esaminate e sei sessioni di
“osservazione partecipante”
I risultati emersi dall’elaborazione delle informazioni raccolte e la relativa
attività di content analysis, i cui contenuti sono indicati nel terzo capitolo, possono
rappresentare un valido contributo per l’individuazione di possibili interventi di
miglioramento in alcune aree dell’azione organizzativa del dirigente, in uno scenario
politico-amministrativo in continua evoluzione.
Ringraziamenti
La ricerca si è potuta realizzare solo grazie alla piena disponibilità dimostrata dai
dirigenti del Ministero dell’Economia, del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e
della Ricerca e dell’Inps, sia nella realizzazione delle interviste, sia nell’aver concesso
alle ricercatrici di poter svolgere “l’osservazione partecipante, attraverso la presenza ad
una riunione interna, di carattere organizzativo.
La raccolta delle informazioni, la sua elaborazione e la relativa attività di content
analysis è stata realizzata con il prezioso contributo delle ricercatrici Maria Valentina
Giardina (giurista), Concetta Mercurio (sociologa del lavoro e dell’organizzazione) e
Sabrina Nulli (psicologa del lavoro e dell’organizzazione).
1.1. Le politiche di riforma delle pubbliche amministrazioni e
il ruolo del dirigente Appare opportuno partire dalla considerazione che gli obiettivi contenuti nelle
politiche di riforma delle pubbliche amministrazioni, avviate a partire degli anni ’90 del
secolo appena trascorso (e di cui si riferisce in altra parte di questo volume) in
definitiva, erano - e sono - ambiziosi; richiedono però un “salto di qualità”: l’evoluzione
da un modello (culturale, organizzativo , relazionale) ad un altro modello.
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Si tratta, dunque, a nostro avviso, di passare da un modello di tipo burocratico ad
un modello telocratico (dal greco telos, insieme di strumenti per il raggiungimento di un
fine/obiettivo) 3.
Uno schema di analisi organizzativa ispirato alla classica bipolarizzazione di
modelli teorici (solidarietà meccanica – solidarietà organica), già elaborata da
Durkheim4 e costruito sulla base di quanto indicato sia negli studi realizzati per
l’individuazione di un nuovo paradigma di management aziendale più partecipativo,
nell’ambito della ricerca-intervento relativa al progetto “Glacier” 5, sia sulla base di
quanto indicato da Butera in studi più recenti 6.
Allo scopo di favorire una maggiore comprensione di tale fenomeno, abbiamo
individuato gli elementi organizzativi, che riteniamo possano caratterizzare e
distinguere il passaggio dal modello burocratico al modello telocratico e sono stati
riportati nella tabella 1.
Tabella 1
L’EVOLUZIONE DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI DAL MODELLO
BUROCRATICO AL MODELLO TELOCRATICO
ELEMENTI ORGANIZZATIVI
MODELLO BUROCRATICO MODELLO TELOCRATICO
1. Ambiente di riferimento prevedibile Turbolento
2. Strategia atti amministrativi conservazione/mantenimento nicchia
obiettivi evolutiva/innovativa personalizzazione/qualità
3 Per una disamina più approfondita dell’evoluzione della cultura e dei modelli organizzativi nelle pubbliche amministrazioni e la formulazione di questo schema di analisi, si veda A. Cocozza, “Oltre l’ordinaria amministrazione. gestione delle risorse umane e relazioni sindacali nei processi di trasformazione delle pubbliche amministrazioni.”, Industria e Sindacato,n.10, 1997, pagg 13-20; Idem, “Management e innovazione nelle Pubbliche amministrazioni”, INPS - Sistema previdenza, n.179, 1997, pagg.3-5. 4 E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, E. Comunità, Milano, 1962. 5 Si vedano in particolare gli studi di Burns T., Stalker G., Direzione aziendale e innovazione, Franco Angeli, Milano, 1974. 6 Butera F., Dalle occupazioni industriali alle nuove professioni. Tendenze, paradigmi e metodi per l'analisi e la progettazione di aree professionali emergenti, Franco Angeli, Milano, 1987; Idem, L'industria, in D. De Masi, A.Bonzanini (a cura di), Trattato di sociologia del lavoro e dell'organizzazione, Volume II, L'industria, Franco Angeli, Milano, 1988; Idem, L'orologio e l'organismo. Il cambiamento organizzativo nella grande impresa in Italia, Franco Angeli, Milano, 1988; Idem, Il castello e la rete. Impresa, organizzazioni e professioni nell'Europa degli anni '90,Franco Angeli, Milano, 1990.
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3. Struttura piramide accentrata rigida compartimenti stagni
a rete decentrata flessibile circolarità/feedback
4. Sistema decisionale scarsa responsabilità scarsa delega poco tempestivo
responsabilità sugli obiettivi delega per competenza tempestività
5. Leadership autoritaria/laissez faire burocratica adattiva
partecipativa innovativa professionale
6. Sistema di relazioni sindacali
consociativo corporativismo
partecipativo obiettivi condivisi
Fonte: Cocozza 1997
Se questa è la sfida posta dalle politiche di riforma, occorre sottolineare che i
mutamenti organizzativi e culturali, connessi con il raggiungimento di tali obiettivi e
quindi il passaggio da un modello burocratico ad un modello telocratico, anche in linea
teorica, non sono meccanicamente ed omogeneamente trasferibili nelle specifiche realtà
delle diverse Pubbliche Amministrazioni in forza della sola norma legislativa
innovativa.
Non si può pensare di attuare il cambiamento attraverso la sola definizione di un
nuovo quadro normativo: la capacità della norma legislativa, ancorchè innovativa, di
indurre i mutamenti necessari nella cultura organizzativa e nei comportamenti
professionali, non è sufficiente allo scopo. A questo proposito è utile richiamare ed
evidenziare l’estrema varietà di situazioni e contesti (organizzativi, culturali e
relazionali) presenti non solo fra i Ministeri ma anche nell’ambito di una stessa struttura
ministeriale: la Pubblica amministrazione è costituita da realtà diverse e specifiche, per
questo non può essere analizzata al “singolare” ma al “plurale”, con categorie
interpretative riconducibili alla “unitarietà” e non alla ”unicità”, al ”decentramento”
piuttosto che alla sola “verticalizzazione burocratica” e alla “autonomia” invece che alla
“subordinazione gerarchica”.
Infatti, salvo alcune eccezioni, non sempre questi ambiziosi obiettivi sono stati
coerentemente perseguiti ed efficacemente realizzati, soprattutto perché nella fase di
implementazione delle riforme in molte Amministrazioni si sono incontrate rigidità,
resistenze al cambiamento e tendenze a conservare posizioni di potere, piccoli privilegi
e rendite acquisite nel sistema burocratico precedente.
7
In questo quadro va inserito lo stesso D.Lgs.n. 300/99 sulla riforma
dell’organizzazione del Governo che ridisegna la nuova geografia dei ministeri
riducendone il numero allo scopo di eliminare le duplicazioni e creare organismi più
coesi che possano tradurre meglio e più efficacemente la politica generale del Governo.
Anche questa riorganizzazione presenta non poche difficoltà nella fase di
implementazione, poiché per essere efficacemente attuata sono necessari interventi a
sostegno tesi a conferire una diversa distribuzione del potere organizzativo tra le
strutture, a modificare ruoli professionali e personali e ad attribuire attività e compiti in
base alle reali competenze professionali richieste dal nuovo modello organizzativo.
Occorre precisare che la riforma dei Ministeri è strettamente connessa ad un’altra
riforma che costituisce il perno centrale del processo di ammodernamento compiuto con
gli strumenti normativi: la riforma della dirigenza. La prima agisce sul piano strutturale,
la seconda su quello dell’ordinamento professionale.
In quest’ambito di consistenti riforme amministrative un ruolo importante e
significativo è conferito ai dirigenti, che diventano il cuore pulsante dell’intero sistema,
ai quali si chiede di contribuire a costruire una cultura organizzativa e gestionale di tipo
”manageriale”, capace di rispondere adeguatamente alle sfide poste dal nuovo scenario
economico, politico, sociale e professionale.
La scelta del modello manageriale comporta un nuovo stile di direzione che
richiede:
a) la preventiva determinazione da parte degli organi politici dei programmi,
degli obiettivi e delle priorità;
b) l’assegnazione delle risorse finanziarie, strumentali ed umane, adeguate agli
obiettivi assegnati;
c) la predeterminazione dei parametri di valutazione dei risultati con riferimento
agli obiettivi programmati.
A tale proposito si parla di passaggio dalla cultura della norma alla cultura del
risultato, o di un nuovo modo di concepire la norma come strumentale al perseguimento
degli obiettivi dell’Amministrazione 7.
Perché se è vero che, nell’amministrazione tradizionale, ai dirigenti veniva
chiesto di garantire il rispetto della legge e di esprimere una competenza essenzialmente
normativa e procedimentale, adesso, in questa nuova fase espansiva
7 Si veda Cerase P. F., “La nuova dirigenza pubblica”, Carocci, 1999, pag.242. Dell'Aringa C., Della Rocca G., Keller B., Strategic choices in reforming public service employment: an international handbook, Basingstoke, New York, 2001.
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dell’amministrazione, essi sono chiamati alla piena realizzazione degli obiettivi fissati
dall’autorità politica nella direzione di un’azione amministrativa orientata al
perseguimento degli interessi pubblici con efficacia, efficienza ed economicità.
Pienamente condivisibile è l’affermazione di nuovi poteri e nuove competenze in
favore dei dirigenti, come pure l’innesto di istituti amministrativi ispirati alla logica
manageriale ed efficientista con l’obiettivo di sviluppare concretamente una
responsabilità da risultato. Tuttavia, affinché il processo di “riconfigurazione” avanzi e
si sviluppi, è necessario che si modifichino anche le logiche di azione degli attori
dell’azione amministrativa, le loro scelte, culture, valori.
In sostanza, i cambiamenti introdotti con interventi normativi si presentano più
come uno spazio da esplorare che un insieme di norme da applicare; di qui l’importanza
di indagare sulle capacità di ciascun dirigente di interpretare e sostenere il cambiamento
poiché è su tali potenzialità che si giocano realmente le opportunità di innovazione.
Il cambiamento attiene, sostanzialmente, alla necessità di una ridefinizione della
professionalità dirigenziale, tale da indurre i nuovi dirigenti ad una sempre più
consapevole responsabilizzazione delle conseguenze del loro agire.
Le maggiori sfide professionali richieste ai dirigenti vengono proprio dalla
capacità di gestire il processo di cambiamento, cioè come condurre il mutamento.
Il governo di questi cambiamenti presuppone infatti la costruzione di
un’adeguata “cultura professionale” orientata al raggiungimento di risultati, tale da
permettere la graduale trasformazione dell’attuale modello organizzativo, molto spesso
ancora ispirato alla tradizione “burocratica” 8.
Si comprende allora come cruciale diventi la determinazione di una dirigenza in
grado di gestire il cambiamento, di sviluppare nuove competenze strategiche, non solo
all’interno dell’amministrazione (procedura e gestione) ma anche all’esterno, per
cogliere e gestire le esigenze di contesto, di misurarsi con gli imprevisti e gli scarti
improvvisi della società che cambia.
In altri termini, “ai politici spetterebbe la valutazione e l’individuazione degli
interessi meritevoli di tutela, il loro contemperamento e la loro sintesi politica”, mentre
“ai dirigenti dovrebbe competere la scelta degli strumenti tecnici per realizzare gli
obiettivi, l’esercizio dei poteri di gestione e l’adozione degli atti o provvedimenti
necessari per l’impiego ottimale delle diverse risorse organizzative” 9.
8 Cocozza A., op.cit., pag. 26.
9
1.2. Il quadro teorico e istituzionale 1.2.1. La leadership e il cambiamento organizzativo
In questo primo paragrafo si intende esaminare le principali interazioni esistenti
tra il nuovo quadro istituzionale ed amministrativo, il ruolo manageriale richiesto al
dirigente e la definizione di una leadership efficace nella gestione dei cambiamenti
organizzativi e dei processi di trasformazione delle Pubbliche Amministrazioni. Nei
paragrafi successivi saranno invece passati in rassegna i principali riferimenti teorici che
possono spiegare e supportare scientificamente le ipotesi di ricerca che hanno orientato
sia l’attività d’indagine documentale, sia la successiva “ricerca sul campo”. La riforma
della dirigenza statale si inserisce in uno scenario di grandi trasformazioni strutturali
delle Pubbliche Amministrazioni, che incontrano nella concreta “messa in opera” delle
riforme la presenza di “inevitabili criticità”, risolvibili necessariamente solo attraverso
l’attivazione di un “progetto di cambiamento mirato”.
A questo scopo, come già anticipato nell’introduzione, riteniamo utile richiamare
un importante studio dell’OCSE sui processi di cambiamento nelle Pubbliche
Amministrazioni dei Paesi tecnologicamente più avanzati, in cui si evidenziano appunto
“inevitabili criticità” da affrontare 10.
In questa indagine si sostiene infatti che la sfida attuale che molte
amministrazioni pubbliche si trovano ad affrontare non è più data dall’interrogativo “se
cambiare”, ma l’accento è ormai sul “come cambiare”, in modo da migliorare l’efficacia
dell’amministrazione e la competitività del Paese. È indispensabile una modifica dei
valori fondamentali, delle aspettative e delle culture politiche e gestionali dominanti in
ogni Ente - Amministrazione pubblica. Senza questa evoluzione, le riforme sono
destinate ad essere solo “nominali e di principio”, di carattere superficiale e destinati ad
incidere per nulla o solo nel breve periodo.
In questo processo, un ruolo di primaria importanza è assegnato alla dirigenza
pubblica e alla sua capacità progettuale.
In realtà secondo una ricerca di Jones e Thompson 11 l’implementazione
strategica del New Public Management si può realizzare più efficacemente attraverso il
modello progettuale delle “5R”.
9 Cerase F.P., op.cit., 242. 10 OECD, Cultural Change in Government: Promoting A High-Performance Culture. Public Management Service, 4 October 2002. 11 Jones L.L., Thompson F., L’implementazione strategica del New Public Management, in Azienda Pubblica n. 6, 1997. (Titolo originale The strategic implementation of the New Public Management, edizione it, a cura di Mussari R.).
10
I principi base delle 5R possono essere riassunti in base alla seguente
classificazione: ristrutturare, ovvero eliminare dall’organizzazione tutto quello che non
contribuisce al valore del servizio fornito alla collettività; riprogettare, ossia
riconfigurare le attività piuttosto che adottare soluzioni marginali; reinventare, ovvero
sviluppare nuove modalità di erogazione dei servizi; riallineare, ossia armonizzare
struttura organizzativa e strategia; ed infine; ripensare, accelerando i processi di analisi
e feedback.
Si tratta, dunque, di un modello progettuale capace di far fronte alla sfida posta
dalle riforme e fortemente orientato alla realizzazione di una serie di profondi
cambiamenti politici, strutturali e culturali.
In questo nuovo scenario, al dirigente pubblico è affidato il ruolo di attore
fondamentale per una gestione efficace del cambiamento e gli viene richiesto un nuovo
profilo manageriale, la cui valutazione è basata su due aggregati di variabili
fondamentali:
a)le competenze organizzative, cioè la capacità di attivare comportamenti
dirigenziali tesi a realizzare un’adeguata ed efficace combinazione delle risorse umane,
professionali, tecnologiche e finanziarie (in una logica di mix ottimale);
b)le prestazioni, cioè la capacità di trasformazione degli obiettivi ricevuti dal
vertice politico in risultati (amministrativi e gestionali) attraverso la propria attività di
direzione (che si dovrebbe articolare nelle attività di progettazione, pianificazione,
programmazione, controllo, monitoraggio e valutazione), così come verificate dal
sistema di controllo di gestione.
Si tratta, dunque, di costruire una cultura gestionale orientata al raggiungimento
di risultati e come viene ben evidenziato in una recente ricerca dell’OCSE, in questa
sfida si presentano due tipologie di problemi da affrontare: la misurazione della
performance e l’attribuzione dei risultati (così misurati), da rapportare al relativo
sistema premiante. In questa logica, una corretta politica gestionale richiede
l’allineamento di programmi e strutture ed un efficace (quanto imprescindibile)
coordinamento tra il livello politico e quello amministrativo.
In questo quadro, la creazione delle condizioni di “sostegno alla riforma” e la
costruzione di un’adeguata cultura manageriale del dirigente pubblico diventa una
politica e un’attività propedeutica fondamentale, poiché come ha notato Schick in uno
11
studio per il Governo Neo Zelandese 12, considerato un esempio da seguire per molti
Paesi europei: il processo di modernizzazione della pubblica amministrazione è un
processo continuo e inarrestabile.
A questo riguardo è significativo notare come, anche in quella realtà con grande
stupore da parte dello studioso, i più efficaci strumenti di gestione e incentivazione nel
sistema amministrativo siano stati introdotti molto dopo le leggi di riforma (State Sector
Act del 1988 e Public Finance Act del 1989).
Tutto ciò forse contribuisce a dimostrare che le innovazioni dovrebbero essere
fortemente condivise dai diversi attori di vertice presenti nell’amministrazione e
dovrebbero essere introdotte a partire da un adeguato coinvolgimento (informativo e
formativo) dei livelli operativi, poiché questa modalità gestionale spesso rappresenta il
“vero motore” del cambiamento.
In linea con questa impostazione, il tipo di leadership richiesto al dirigente
pubblico dovrà essere congruente con il nuovo assetto strutturale e culturale prospettato
dalle riforme e, inoltre, in questa fase di transizione, avere quelle capacità manageriali
che gli consentano di far fronte adeguatamente alle sfide di trasformazione indotte dalle
politiche di riforma. In quest’ambito, come abbiamo già visto, la gestione efficace dei
cambiamenti tende a dar luogo ad una vera e propria evoluzione, che permette il
passaggio da un modello organizzativo burocratico ad un modello teocratico. Tale
capacità gestionale si configura come un “un processo strategico” 13 sia perché tende ad
attivare un mutamento qualitativo che richiede, per compiersi, un arco di riferimento
temporale medio-lungo, sia perché le variabili e gli attori che entrano a far parte della
dinamica di trasformazione (consapevolmente o inconsapevolmente) finiscono con
l’essere fortemente (e necessariamente) interrelati tra loro. Come ha sostenuto
efficacemente Crozier, non è più la sola razionalità burocratica a condizionare i
comportamenti dei soggetti (individuali e istituzionali), ma le strategie e le azioni poste
in essere dai diversi attori e quelle dell’istituzione si confrontano direttamente tra loro
come in un’arena.
In altri termini, tale mutamento tende a favorire l’affermazione di un vero e
proprio nuovo paradigma di tipo culturale, organizzativo e gestionale, ma anche
professionale e relazionale.
12 Schick A., The spirit of reform: Managing the New Zealand State Sector in a time of change. A report prepared for the State service Commission and The Treasury, New Zealand, 1996. 13 Per processo si intende lo svolgimento (e l’interazione) nel tempo di un insieme di eventi che hanno tra loro una forte connessione sistemica e che al modificarsi danno luogo ad una considerevole evoluzione del quadro d’insieme.
12
Infatti in questo nuovo scenario, mentre nel modello burocratico si registra una
leadership che può oscillare da una tipologia autoritaria a quella laissez faire, o
assumere una modalità burocratica e/o adattiva; nel modello telocratico la leadership
risulta efficace se sa essere partecipativa (fa leva sul coinvolgimento e sulla
responsabilizzazione dei collaboratori), innovativa (è orientata alla qualità e alla
personalizzazione dei servizi forniti al cittadino e alla collettività) e professionale (basa
la sua azione sulla valorizzazione e lo sviluppo delle competenze proprie e dei suoi
collaboratori, attraverso la realizzazione di progetti formativi mirati e la definizione di
percorsi di carriera).
1.2.2. L'evoluzione del concetto di leadership
Negli anni quaranta, presso l’Ohio State University, fu fatta un importante
ricerca sugli stili di leadership, evidenziandone il carattere multidimensionale. A seguito
di questo studio ve ne furono altri, in particolare quelli di Blake e Mouton 14 che negli
anni sessanta hanno elaborato la Griglia Manageriale con la quale hanno evidenziato
che dalla combinazione di orientamenti fondamentali quali l'orientamento al compito
(maggiore attenzione del leader alla produzione), e l'orientamento alla relazione
(maggiore attenzione alle persone), derivano stili di leadership diversi.
Secondo un approccio situazionale la leadership deve, in qualche modo, adattarsi
alle situazioni contingenti e i requisiti richiesti al manager sono legati alla capacità di
diagnosi, indispensabile per comprendere le situazioni, coglierne specificità e quindi
scegliere lo stile da seguire.
Tra le teorie situazionali più note c'è la life-cycle theory di Hersey e Blanchard
che focalizza l'attenzione sulle capacità dei collaboratori rispetto alle quali il leader deve
adattare il proprio stile 15:
-stile prescrittivo: forte direttività e bassa relazione nello stabilire ruoli e compiti
e modalità di svolgimento; adatto nel caso in cui i collaboratori hanno scarsa
competenza ed esprimono insicurezza rispetto al compito da svolgere;
-stile di vendita: il leader ha un comportamento sia direttivito che relazionale, di
sostegno; adatto nel caso in cui i collaboratori non sono profesionalizzati ma al
contempo hanno fiducia in loro stessi;
14 Blake B.R., Mouton J., Gli stili di direzione, Etas, 1970. 15 Si veda Hersey P, Blanchard K, Leadership istituzionale, Sperling & Kupfer, 1984.
13
-stile coinvolgente: di tipo supportivo, centrato sulle relazioni, capace di
coinvolgere; adatto per collaboratori che hanno capacità sviluppate ma sono insicuri o
poco motivati;
-stile delegante: il comportamento del leader sarà poco direttivo e poco
relazionale, anche se individua i problemi, delega pienamente la responsabilità di gestire
l'obiettivo affidato; questo stile è adatto quando i collaboratori sono competenti ed
autonomi.
Lo stile di leadership così concettualizzato dovrà mantenere una flessibilità
dinamica, in grado di adattarsi, rispetto all'evoluzione nel tempo, delle caratteristiche e
delle competenze dei collaboratori.
Teorie successsive superano l'approccio situazionale introducendo la capacità del
leader di essere oltrechè adattivo, anche proattivo, ossia in grado di gestire e
determinare i cambiamenti.
Rispetto alla variabile del cambiamento, Bass individua due tipi di leadeship:
transazionale e trasformazionale 16.
La leadership transazionale è fondata sugli scambi tra leader e collaboratore in
un'ottica a breve termine, ossia nel coinvolgimento degli individui nel raggiungimento
di risultati immediati senza stimolare comportamenti di tipo strategico nel lungo
periodo. Si utilizzano strumenti quali la "ricompensa contingente" per aumentare il
livello della prestazione e della motivazione dei collaboratori; il leader così orientato,
tende al mantenimento delle situazioni esistenti pur cercando di migliorarle.
La leadership trasformazionale, invece, è orientata al cambiamento,
coinvolgendo i collaboratori, stimolandone l'automotivazione, attraverso il consenso e la
partecipazione nel raggiungimento di obiettivi. La motivazione degli individui nasce
dalla consapevolezza di riuscire a contribuire in modo personale al raggiungimento di
risultati raggiunti per manifestate competenze. Lo stile di questo tipo di leadership ruota
intorno a tre caratteristiche: il carisma, l'attenzione alle differenze, la stimolazione
intellettuale. Per carisma si può intendere la “capacità di ispiration” attraverso la quale
il leader riesce a interpretare i dati di realtà entro una visione ampia, ad attribuire
significati, a cogliere segnali deboli e soprattutto a rendere questo patrimonio condiviso
con i propri collaboratori, che a loro volta provano un sentimento di profonda
identificazione con il modo di vedere le cose loro proposte. L'attenzione alle differenze
invece consiste nella capacità del leader di utilizzare il potenziale dei collaboratori, di
16 Bass B.M., Psicologia e guida degli uomini nelle organizzazioni, Franco Angeli, 1975.
14
sviluppare l'apprendimento professionale e di conciliare i bisogni degli individui con gli
obiettivi dell'organizzazione. Infine, la stimolazione intellettuale, si riferisce alla
capacità del leader di essere creativo e di stimolare la creatività delle persone nella
ricerca di soluzioni innovative ai problemi (capacità problem solving).
La leadership transazionale agisce sugli schemi cognitivi degli individui e del
gruppo, promuovendo il cambiamento attraverso una lettura assertiva delle situazioni
esistenti, che vanno vissute non come vincoli ma come stimoli per la crescita e la
valorizzazione delle risorse a disposizione sia interne (risorse umane, tecnologiche,
economiche) che esterne (ambiente, mercato).
Questo tipo di stile è molto vicino al più attuale concetto di empowerment. In
accordo con Rappaport 17, possiamo definire il concetto di empowerment come “la
capacità di accrescere le possibilità dei singoli e dei gruppi di controllare attivamente la
propria vita”, e ancora, secondo quanto indicato da Zimmermann un “senso di
padronanza e controllo su ciò che riguarda la propria esistenza”. Tale concetto è
connesso a quello di potere, ridefinendo nel rapporto capo-collaboratore un tipo di
relazione fondata sullo scambio e sulla collaborazione piuttosto che sulla gerarchia.
Una empowering leadership, favorisce la reintegrazione dei processi lavorativi
evitando la frammentazione dei processi decisionali, tipica delle organizzazioni
burocratiche, e riduce la contrapposizione conflittuale tra gli individui e
l’organizzazione.
Il leader efficace, quindi, oltre ad avere determinate capacità relazionali deve
conoscere l’organizzazione e le sue logiche di azione, per interpretarne i valori
innovativi cercando di mediare con le diverse culture dei gruppi e degli individui.
Nel nuovo scenario politico, economico e sociale, come sostengono anche
Romani e Metsch, in un loro interessante volume dal titolo Dirigere diversamente. I
cinque riflessi del leader, il ritmo della vita privata e lavorativa è oggi enormemente
accelerato, l'ambiente è imprevedibile, i cambiamenti organizzativi e tecnologici sono
estremamente frequenti e pervasivi, le parole e i gesti stessi hanno perso i loro
significati tradizionali: abbiamo così l'obbligo di costruire nuovi riflessi.
In questa logica, dunque, dirigere diversamente significa sempre più acquisire
una “nuova consapevolezza” verso una leadership tendenzialmente più partecipativa,
che chiede di:
17 Rappaport J., In praise of paradox: a social policy of empowerment ever prevention, in American Journal of Community, 9/1981, 1-26.
15
- ascoltare (prima di parlare) per informarsi;
- sentire (prima di giudicare) e valutare;
- comprendere.(prima di spiegare) e decidere;
- accogliere (prima di resistere) e informare;
- addestrare gli altri e allenare se stessi.
Ma soprattutto induce ad accettare e a gestire il conflitto (accanto al consenso) e
il disordine (accanto all'ordine).
In linea con questa impostazione, “buon dirigente” potrà essere, quindi, colui che
tende ad essere anche il leader del gruppo di cui è responsabile, e non il solo capo
ufficio.
Come il direttore d’orchestra, è il leader efficace di un’organizzazione complessa
formata da un numero considerevole di specialisti, che sono sempre più i principali
responsabili dei risultati finali delle performance dell’amministrazione .
L’orchestra come metafora organizzativa nella storia del pensiero organizzativo
è stata utilizzata più volte, e all’inizio degli anni novanta Drucker (un importante
studioso di management strategico) ha sostenuto che le modalità organizzative delle
aziende innovative del futuro assomiglieranno sempre meno a quelle della tradizione
industriale e sempre più al modello rappresentato dall'orchestra sinfonica 18. Pur
ricordando che esistono diversi modelli di orchestra (sinfonica, moderna, da camera,
jazz), che danno luogo a differenti modalità organizzative, è utile sottolineare, in primo
luogo, come fatto significativo, che in questa tipologia organizzativa non esistono figure
gerarchiche intermedie rigidamente strutturate.
Il singolo musicista (specialista) nell'orchestra sinfonica in genere si rapporta
direttamente con lo spartito e con il direttore, e attraverso diverse fasi poste
(necessariamente) in sequenza tra di loro: studio individuale, concertazione e prove
d'insieme, contribuisce a realizzare il prodotto finale collettivo rappresentato dal
concerto. Nell'orchestra jazz invece, non essendoci un direttore formale, il musicista
improvvisa e segue il ritmo degli altri, quel ritmo che contribuisce direttamente a
determinare.
18 Drucker P., Aspettando l’avvento della nuova organizzazione, Harvard Business Review, mag-giu., 102-112, 1994; Idem, Il grande cambiamento. Imprese e manager nell’età dll’informazione, Sperling & Kupfer, Milano, 1996. Il direttore d’orchestra come leader efficace è analizzato in Cocozza A. “Concertazione, orchestra e ruolo del Direttore. Dalla cultura musicale a quella delle relazioni industriali” Industria & Sindacato, m.6, 1995, 19-15 In realtà la metafora dell’orchestra nella storia del pensiero scientifico è stata utilizzata per primo da Aristotele nel secondo Libro, in cui paragona la dinamica della politica al funzionamento di una orchestra.
16
Questo tipo di creazione-improvvisazione (non si parte da uno spartito
predefinito) da luogo alla famosa Jam session. Questa tipologia ricorda molto alcuni
processi produttivi innovativi altamente imprevedibili e rivolti ad un mercato
turbolento, dove il risultato dipende molto dagli operatori e dalla loro performance.
In tale direzione sembra andare anche Galbraith 19 quando sostiene che: “è del
tutto normale che il tecnico, il progettista o il venditore possono essere più importanti
per l'impresa del loro superiore diretto. Quando si verifica questa situazione, la persona
che si trova ad un livello di autorità superiore non dirige, bensì deve chiedere,
incoraggiare, persuadere e imparare. Un rapporto gerarchico viene ad essere sostituito
da un rapporto di cooperazione”.
Così nell'attuale contesto produttivo ed organizzativo il direttore d'orchestra può
fornire un modello di leadership capace di governare efficacemente organizzazioni
complesse, senza gerarchie intermedie e formate, essenzialmente, da professionisti.
Le caratteristiche di un leader attento a questi aspetti motivazionali, è
identificabile con uno stile partecipativo, una sorta di allenatore (coach) il cui profilo è
dato dalle seguenti quattro capacità 20:
a) la capacità di saper influenzare positivamente i propri collaboratori,
instaurando relazioni collaborative e non conflittuali;
b) la capacità di saper motivarli per il raggiungimento di determinati obiettivi;
c) la capacità di saper comunicare all'interno e all'esterno dell’organizzazione;
d) la capacità di saper diffondere a tutti i livelli dell’organizzazione una"visione
strategica" del cambiamento.
In questa logica evolutiva dei compiti, delle attività e delle competenze
professionali (soprattutto quelle relazionali), il nuovo ruolo del dirigente, come ha
efficacemente sostenuto Sergiovanni, può essere meglio definito, come colui che non
ritiene di poter dirigere i propri collaboratori, in una logica di “marcia trionfale”, ma con
una serie di azioni tendenti a “ concentrarsi a rimuovere gli ostacoli, a procurare
sostegno materiale ed emotivo, a prendersi cura dei dettagli che rendono il cammino più
19 Galbraith J.K., Storia dell’economia. Passato e presente, Rizzoli, Milano, 1998. 20 Per un’analisi del ruolo del leader nelle pubbliche amministrazioni, si veda in particolare Cocozza A., La valorizzazione dei collaboratori nella gestione organizzativa, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Roma, 2002. Per una disamina più approfondita del concetto, si veda Auteri E., Management delle risorse umane. Fondamenti professionali, Guerini e Associati, 1998; Tichy N. M., Devanna M. A., Il leader trasformazionale, Cedam, Padova, 1989; Shein E. H., Cultura d’azienda e leadership. Una prospettiva dinamica, Guerini e Associati, Milano, 1990; Sergiovanni T. J., Moral leadership, San Francisco, 1992; D’Egidio F., Moller C., Visione & Leadership. Per un cambiamento culturale teso all’eccellenza, Angeli, Milano, 1992; Sergiovanni T. J., Leadership for schoolhouse, Jossey-Bass, San Francisco, 1994; Cocozza A., “Modelli di leadership e gestione delle risorse umane”, II
17
facile, a condividere la partecipazione alla marcia ed alla soddisfazione alla fine del
viaggio, ad identificare una meta significativa per il prossimo viaggio” 21.
A conclusione di questa disamina sulla poliedricità del concetto di
leadership, riteniamo utile richiamare quanto è stato elaborato da un importante studioso
come Selznick, soprattutto per quanto attiene ai rischi che sono connessi con il ruolo di
leader di un’istituzione 22.
Egli individua la leadership come attività essenzialmente creativa,
distinguendola così da quella adattiva, e ritiene che svolga quattro funzioni
fondamentali:
a) la definizione della missione e del ruolo istituzionale;
b) l'incorporazione nella struttura sociale dell'organizzazione delle mete da
raggiungere, favorendo lo sviluppo di determinati modi di agire e di pensare;
c) la difesa dell’integrità istituzionale, ridefinendo costantemente gli obiettivi alla
luce dell'esperienza passata dell'organizzazione;
d) la composizione dei conflitti interni, non solo mediando fra gli interessi, ma
tentando di aumentare il consenso necessario al governo dell'organizzazione.
Ma nello svolgere questo delicato compito, la leadership può correre tre rischi
principali: la fuga nella tecnologia, l'opportunismo e l’utopismo. Il primo rischio lo si
corre quando si procede nella gestione dell'organizzazione con una eccessiva fiducia e
attenzione ai mezzi e alle tecnologie, sopravvalutando la loro portata risolutiva, non
esponendosi così a responsabilità, ma assumendo i fini e gli scopi da perseguire come
scontati, o decisi e imposti da un'altra entità esterna. In altri termini, quando si ha una
visione strategica ed organizzativa non sufficientemente autonoma e propositiva, si
corre fortemente il rischio di mettere in campo politiche inefficaci. L'opportunismo
invece si manifesta quando si perseguono nella gestione vantaggi immediati e a breve
termine, sottovalutando o non considerando i principi guida che scaturiscono
dall'identità storica dell'istituzione; così come nell'inseguire le pressioni esterne senza
un disegno strategico coerente con lo sviluppo dell'organizzazione, ovvero quando si
conduce una politica priva di identità convincente. Infine, ci si rifugia nell'utopismo,
quando si ha una eccessiva generalizzazione degli scopi e non si dispone di politiche
precise e coerenti. Ma se in realtà, così come effettivamente succede, s'impone
Corso concorso per dirigenti pubblici, SSPA, Materiale didattico, Roma, 2001. 21 Sergiovanni T.J Moral Leadership, San Francisco, 1992, 10. 22 Si veda Selznick P., Pianificazione regionale e partecipazione democratica. Il caso Tennesse Valley Autority, Angeli, Milano, 1974.
18
comunque la necessità di dover assumere scelte operative, ecco che si può incorrere nel
rischio di attuare decisioni di tipo opportunistico o semplicemente di tipo ideologico.
Queste ultime considerazioni risulteranno essere particolarmente utili ai
dirigenti, nel momento in cui si dovranno individuare i mutamenti da adottare e
predisporre successivamente, nella fase operativa, il Progetto di riorganizzazione e gli
specifici "programmi di azione" nella singola amministrazione. In questo caso, le
indicazioni sui rischi della leadership, qui individuate, potrebbero rappresentare precisi
moniti, ma contemporaneamente le linee guida da osservare con attenzione.
A conclusione di questa disamina sulla leadership, risulta essere di particolare
importanza il riferimento ad uno studio dell’OCSE 23 in cui si mettono in evidenza le
questioni critiche che emergono dall’analisi delle riforme che hanno interessato le
pubbliche amministrazioni dei principali Paesi industrializzati, negli ultimi due decenni.
In particolare ci si interroga su alcune politiche e interventi di fondamentale importanza:
come creare una cultura aperta al cambiamento nel settore pubblico, quali sono gli stili
di leadership necessari a realizzare i processi di riforma, come migliorare il processo di
comunicazione con i cittadini e come evitare i numerosi ostacoli che si incontrano sulla
strada dell’innovazione.
In questa logica un’esperienza significativa è quella descritta da Ingraham 24, che
analizza le attività realizzate nel Government Performance Project implementato negli
Stati Uniti. Il Progetto ha interessato tutti i livelli dell’Amministrazione, attraverso una
prospettiva tendente ad integrare sinergicamente i diversi sistemi di gestione: delle
risorse umane, finanziarie, delle infrastrutture. Anche in questo caso la dirigenza
pubblica ha un ruolo fondamentale ed è al centro del nuovo sistema gestionale, in
quanto si ritiene l’elemento strategico essenziale di ogni pubblica amministrazione
innovativa.
1.2.3.La cultura organizzativa come approccio di analisi organizzativa
Per cultura organizzativa, come è stato indicato da Shein: “s’intende l’insieme
strutturato di assunti di base che ha dimostrato di funzionare sufficientemente bene da
essere considerato valido e utile da trasmettere come modo corretto di percepire,
23 OECD, Government of the future, Paris, 2001. 24 Ingraham P.W., Linking Leadership To Performance In Public Organisations. Paper prepared for the PUMA/HRM Working Party Meeting, 25-26 june 2001.
19
pensare e sentire valori che orientano l’azione degli attori facenti parte
dell’organizzazione” 25.
La prospettiva culturale analizza ed interpreta l'organizzazione come un costrutto
umano, come un insieme di strategie d'azione che orientano le scelte degli individui. Il
comportamento organizzativo, come chiave di lettura, ci consente di individuare le
criticità del cambiamento visto come un processo di apprendimento e quindi di
innovazione culturale. Adottare la prospettiva culturale significa non limitarsi a rilevare
le conformità dei comportamenti degli individui rispetto alle regole formali
dell'organizzazione, ma comprende le ragioni sottostanti a determinate scelte
comportamentali. Dietro un comportamento esiste sempre una strategia.
A questo proposito risulta essere utile ricordare quanto scritto da M. Crozier 26,
sul funzionamento del sistema burocratico e sulle strategie degli attori. Egli riferisce che
le caratteristiche di questo tipo di organizzazione sono:
a) dominio di regole impersonali ed astratte, e conseguente diffusa debolezza
sostanziale della gerarchia;
b) mancanza di contatti organici tra le varie categorie professionali e
conseguente tendenza di queste a divenire dei compartimenti stagni dove la pressione
conformistica dei pari grado sostituisce la pressione gerarchica;
c) mancanza di competizione in termini di competenze professionali e
conseguente prevalere di giudizi interpersonali puramente psicologici e affettivi sul
carattere umano dei colleghi e superiori;
d) diffusa incapacità di mutamento, di adattamento al nuovo.
Questa incapacità non dipende soltanto dall'assenza di poteri legali e di
autonomia tecnica e finanziaria di intervento, ma anche dalla diffusione di una cultura
antitetica al mutamento.
Crozier inoltre, ritiene che un'analisi adeguata della condotta umana nelle
organizzazioni non può che essere un'analisi strategica, cioè indagare sulle strategie
razionali (individuali e collettive) che i soggetti perseguono all'interno
dell'organizzazione. Infatti, così viene descritto il fenomeno burocratico: “in
25 Per un approfondimento di questo concetto, si veda Shein E. H., Cultura d’azienda e leadership, op. cit.. 26 Crozier M., The Bureaucratic Phenomenon, Chicago University Press, Chicago, 1964; trad.it., Il fenomeno burocratico, Etas Kompass, Milano, 1969. A proposito di regolarità di comportamento osservate empiricamente, da assimilare al concetto di "modalità di azione collettiva", cioè a soluzioni contingenti adottate da attori relativamente autonomi, si veda Crozier M., Friedberg E., L’acteur et le sistème. Les contraintes de l’action collective, Editions du Seuil, Paris, 1977, trad. it., Attore sociale e sistema, Etas Kompass, Milano, 1978.
20
un'organizzazione burocratica, dove tutto é prescritto per regolamento, gli interessi
individuali passano attraverso la tutela dei margini di discrezionalità del proprio ruolo.
Il ritualismo del burocrate va visto non tanto come un adattamento passivo alle
pressioni del sistema, quanto come una strategia che il burocrate mette in atto per
difendere la sua libertà d'azione, il suo micropotere di fronte ai superiori e all'utenza.
Ma non esiste soltanto il ritualismo come strategia possibile. Esiste anche il distacco, il
disinteresse, la rinuncia consapevole a partecipare. La non partecipazione é anzi una
delle strategie più diffuse nelle organizzazioni burocratiche: i soggetti valutano che
farsi coinvolgere non vale la pena, che una strategia di fuga dalle responsabilità é
spesso il modo più conveniente per difendere la propria indipendenza”27.
L'organizzazione burocratica é miope, dunque, é un'organizzazione che non arriva a
correggersi in funzione dei suoi errori. Non é in grado di autoriformarsi se non investe
sulle risorse umane, a partire dal suo nucleo centrale, il mutamento organizzativo per
essere efficace deve essere accompagnato e sostenuto da un reale mutamento culturale,
oltreché politico e professionale. Gli individui attraverso il processo di definizione delle
modalità di interazione partecipano alla creazione delle regole dell'organizzazione
mantenendo la possibilità di perseguire fini diversi da quelli dell'organizzazione stessa.
La discrezionalità degli attori all'interno di strutture pre-definite, può generare
divergenze di obiettivi (obiettivi individuali/obiettivi istituzionali). Il superamento della
contrapposizione attore-organizzazione avviene attraverso un processo di
apprendimento, che scaturisce dalla continua interazione degli attori partecipi ad una
collettività. Tale processo rappresenta uno scambio il cui risultato è la costruzione di
conoscenza secondo valori condivisi. I soggetti utilizzano regole e artefatti già esistenti
ma contribuiscono al loro cambiamento.
Per promuovere l'implementazione di un nuovo modello strutturale organizzativo
il leader deve saper gestire il cambiamento culturale nella ridefinizione dei ruoli
professionali. La gestione efficace del cambiamento si realizza attraverso l'adozione di
un modello di leadership partecipativo e attraverso lo strumento della formazione come
momento di apprendimento e professionale e culturale.
1.2.4. La formazione
Le politiche dell’Unione Europea, negli ultimi anni, puntano sempre più allo
sviluppo ed alla formazione continua, che si protrae cioè per tutta la vita lavorativa dei
27 La citazione è in G. Bonazzi, Storia del pensiero organizzativo,Franco Angeli, Milano, 1993, p. 244.
21
soggetti, quale scelta fondamentale sia per le imprese che per i lavoratori, al fine di far
fronte alle sfide della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica 28. Nell’era della
net-economy occorre puntare alla “qualità del capitale umano”, dunque, all’efficacia ed
all’efficienza dei sistemi scolastici, quale elemento strategico per lo sviluppo della
persona ed il miglioramento delle sue competenze professionali e manageriali.
La life long learning è diventata uno strumento correlato alle politiche attive del
lavoro nell’U. E., in una logica di integrazione con le politiche educative, attuata
attraverso una “buona pratica” di concertazione e di Dialogo sociale, che ha fornito
ottimi risultati in casi importanti e significativi come l’Olanda e la Spagna.
Si tratta di politiche promozionali, tese a co-rispondere adeguatamente ai rapidi e
continui mutamenti che investono l’economia, le imprese, il lavoro e più in generale le
società globalizzate e tecnologicamente avanzate. Il ruolo della formazione continua
tende ad evolversi, in quanto rappresenta una scelta strategica fondamentale, un
investimento per l’incremento del “capitale sociale” di un dato territorio 29. Infatti, ciò è
sempre più vero per una pluralità di soggetti: per le imprese (che possono far fronte
meglio e più adeguatamente alle sfide poste dalla globalizzazione dei mercati e
dall’innovazione tecnologica ed organizzativa); per i lavoratori (che acquistano
maggiore agibilità e possono muoversi meglio in un mercato del lavoro fortemente
selettivo verso i giovani, differenziato tra le diverse zone del Paese e incerto perché
privo di adeguati servizi per l’impiego); per l’intera collettività (dal grado di
valorizzazione delle risorse umane dipende la possibilità di preservare un modello di
sviluppo socio-economico equilibrato).
In altri termini la formazione contribuisce alla costituzione del capitale della
persona e dell’impresa (e del territorio), ne è parte integrante, e come ha sostenuto
recentemente Bonazzi 30: “…si può distinguere tra capitale di risorse e capitale
istituzionale. Il capitale di risorse è formato da assetti e competenze che producono
valore e il suo fattore di successo sta nell’acquisizione di risorse rare e inimitabili. Il
28 Questi temi sono trattati tra l’altro in Cocozza A., Politiche formative e ruolo degli attori sociali, “Il Mulino”, 2003, n. 1, in corso di pubblicazione. 29 A queste conclusioni si può pervenire considerando le indicazioni contenute in due recenti importanti contributi, di tipo sociologico in Bagnasco A., Piselli F., Pizzorno A., Trigilia G., Il capitale sociale. Istruzioni per l’uso, Il Mulino, Bologna, 2001, ma anche di tipo economico in Sacco P. L., Zamagni S., a cura di, Complessità relazionale e comportamento economico, Il Mulino, Bologna, 2002. 30 Bonazzi G., “Teoria delle risorse e analisi organizzativa: un possibile incontro interdispliplinare”, Relazione al Convegno Ais-Elo “ Confini e trasgressioni di confini nella sociologia economica, del lavoro , dell’organizzazione”, Cagliari, 25-26 ottobre, 2002.
22
capitale istituzionale è formato invece da risorse sociali di sostegno che ottimizzano
l’uso delle risorse di capitale, come ad esempio la cultura del miglioramento continuo,
l’enfasi sull’innovazione, i programmi di formazione e sviluppo delle risorse umane”.
Un progetto formativo efficace può rappresentare una doppia opportunità, di
sviluppo organizzativo per l’impresa/l’amministrazione e di crescita professionale per il
personale, utile per fornire ai partecipanti ai corsi le competenze necessarie allo
svolgimento dei nuovi ruoli produttivi/amministrativi e dei nuovi compiti,
maggiormente orientati al raggiungimento di obiettivi condivisi.
Infatti, attraverso un’adeguata gestione del percorso formativo, che coinvolge in
precise responsabilità la direzione aziendale/l’amministrazione centrale e quella
periferica, si tratta di costruire quelle nuove competenze professionali ed organizzative,
intese come l’insieme delle conoscenze (area del sapere) e delle abilità (area del saper
fare), ormai assolutamente necessarie nelle mutate condizioni istituzionali,
organizzative e professionali.
Con la realizzazione progetti formativi mirati è possibile, inoltre, contribuire a
porre le basi per l’attivazione di comportamenti professionali (area del saper essere),
che possono sostenere l’affermazione e lo sviluppo di un “clima organizzativo e
relazionale positivo” e favorire il miglioramento della performance complessiva
dell’azienda/amministrazione a tutti i livelli.
Tali obiettivi, risultano essere particolarmente ambiziosi in aziende e
Amministrazioni Pubbliche fortemente impegnate in processi di ridefinizione delle
attività e di riorganizzazione delle strutture, in un’ottica di maggiore decentramento di
compiti e responsabilità, verso le strutture regionali e decentrate presenti sul territorio.
In questo nuovo scenario, anche nelle Pubbliche Amministrazioni la formazione
ha assunto in questi anni un ruolo sempre più strategico: un sostegno indispensabile
alla realizzazione delle politiche di riforma.
Questa funzione è stata rilevata anche nel V Rapporto annuale sulla
formazione31, divenuto ormai un utile strumento di analisi e di approfondimento del
mondo della formazione nel settore pubblico, sia dal punto di vista dei bisogni e delle
esigenze delle Amministrazioni, sia da quello degli strumenti di governo della
formazione.
31 Si veda il testo del Rapporto nel sito del Dipartimento della Funzione Pubblica, http://www.funzionepubblica.it/intranet/Formazione/Rapporto-a1/v-rapporto/1-100.PDF.
23
Il quadro che disegna il Rapporto è quello di un’offerta formativa diversificata e
innovativa, sempre più strumento indispensabile per un’efficace gestione dei processi di
cambiamento e di modernizzazione delle Amministrazioni pubbliche.
Anche se ancora in ritardo rispetto ad altri settori occupazionali sono aumentati
gli investimenti e i destinatari degli interventi formativi e l’utilizzo delle nuove
metodologie e, allo stesso tempo, emerge la necessità di rafforzare la capacità di
programmare sistematicamente le diverse azioni.
L’attuale fase della riforma, caratterizzata dalla realizzazione di interventi che
investono l’intera Pubblica Amministrazione, va supportata da misure destinate
innanzitutto alla formazione e valorizzazione del capitale umano, inteso come risorsa e
investimento, nonché alla preparazione di nuove professionalità e nuove competenze.
Nel Rapporto si sostiene che: ”L’obiettivo finale è quello di realizzare
un’Amministrazione con capacità gestionali, orientata al miglioramento qualitativo dei
servizi pubblici, più rispondente alle domande e alle aspettative dei cittadini e delle
imprese e aperta al confronto europeo e internazionale. Che sia, in definitiva, una risorsa
e non un costo per il Paese”.
Alla realizzazione di questi obiettivi ha sicuramente contribuito positivamente la
Direttiva sulla formazione e la valorizzazione del personale delle PA, adottata dal
Ministro Frattini, del dicembre 2001, in cui si conferma il ruolo strategico e
determinante della formazione.
La Direttiva si propone il raggiungimento dei seguenti obiettivi:
1. promuovere in tutte le amministrazioni la realizzazione di un’efficace analisi
dei fabbisogni formativi e la programmazione delle attività formative, per assicurare il
diritto individuale alla formazione permanente in coerenza con gli obiettivi istituzionali
delle singole amministrazioni;
2. coinvolgimento di tutti i dipendenti nei programmi di formazione, superando i
livelli percentuali attuali di investimento sul monte retributivo e garantendo un numero
minimo di ore di formazione per addetto e nel quadro del sistema delle relazioni
sindacali previsto dai contratti collettivi;
3. le attività formative dovranno rispondere a standard minimi di qualità e
assicurare il controllo del raggiungimento degli obiettivi di crescita professionale dei
partecipanti e di miglioramento dei servizi resi dalle pubbliche amministrazioni ai
cittadini;
24
4. la formazione dovrà essere sviluppata attraverso un sistema di governo, di
monitoraggio e controllo che consenta di valutarne l’efficacia e la qualità.
In realtà una vera e propria politica di valorizzazione e gestione delle risorse
umane nelle Pubbliche Amministrazioni finora non c’è stata, un’efficace innovativo non
ha ancora avuto l’agibilità politica e organizzativa adeguata.
In un’interessante indagine condotta dall’Aran 32 sui risultati della contrattazione
integrativa e sulla gestione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni, relativa
al quadriennio 1998-2001, risulta che le aree di ricerca analizzate, nei comparti più
significativi, sono state le seguenti:
1. analisi delle caratteristiche dello svolgimento della contrattazione integrativa e
formulazione di un bilancio dell’esperienza;
2. attori e modalità di svolgimento del processo negoziale;
3. contenuti principali e coerenza con gli obiettivi indicati dal Coordinamento di
settore e con il CCNL di comparto;
4. analisi del processo di avvicinamento al settore privato e superamento del
quadro regolativo precedente caratterizzato da: “doppia tutela”, obbligo a contrarre,
“pluralismo senza mercato” e tendenziale deresponsabilizzazione degli attori.
In particolare, dall’analisi dei dati emerge che le principali caratteristiche degli
attori (delle relazioni sindacali e della gestione delle risorse umane) nel pubblico
impiego risultano essere:
1. una debolezza dell’attore datoriale in materia di relazioni sindacali, ma
soprattutto per quanto riguarda l’attivazione di politiche di gestione del personale;
2. assenza di uffici specializzati per la gestione di queste due attività (nel 35%
dei casi non esiste nessun ufficio; solo nel 19,5% due uffici);
3. scarsa attenzione alle relazioni dirette (senza la mediazione sindacale) e scarsa
(in certi casi nulla) comunicazione tra Amministrazione e personale;
4.frammentazione della rappresentanza sul versante delle Organizzazioni
sindacali dei lavoratori (con la conseguenza di moltiplicare le occasioni di potenziale
conflittualità).
Le stesse tendenze sono state riscontrate in un’altra importante ricerca su “Le
direzioni del personale nelle amministrazioni centrali dello stato” 33, presentata nel
32 La ricerca in questione è reperibile in Bordogna L., “La contrattazione integrativa nelle amministrazioni pubbliche: i risultati della ricerca Aran sul quadriennio 1998-2001, Aran newsletter, 2001, n. 6, pp. I-XXXII
25
settembre 2002 dall’Istituto G. Tagliacarne, in cui emerge che molte amministrazioni
organizzano i compiti di gestione del personale nella Direzione Affari Generali, con
funzioni prevalentemente di tipo amministrativo, spesso frammentate in più uffici.
Su 26 amministrazioni, 8 hanno una Direzione del Personale autonoma, sotto la
responsabilità di una direzione generale. Poco presenti sono le funzioni, le tecniche e i
sistemi di pianificazione, selezione, valutazione delle risorse umane; sempre prevalenti
risultano le attività di relazioni sindacali e di amministrazione. Tuttavia, si evidenzia
anche un nucleo di amministrazioni che cerca di liberarsi da una cultura di gestione del
personale esclusivamente amministrativa, che cerca di introdurre nuovi strumenti di
gestione quali nuovi tipi di rapporti di lavoro, di selezione e valutazione: tutta la vasta
area che caratterizza l’autonomia e la professionalità di una Direzione del Personale. In
particolare, nel l’introduzione della ricerca di Feleppa dalla ricerca si sostiene
opportunamente che: “L’esigenza maggiormente avvertita è di valorizzare la Direzione
del Personale sia dal punto di vista organizzativo (collocandola in diretto collegamento
funzionale con i vertici dell’amministrazione), sia nell’assetto delle competenze e nel
ruolo agito nei confronti del personale, (migliorandone l’autorevolezza e le abilità
negoziali)”.
La ricerca conferma che sulle funzioni di promozione e sviluppo occorre
continuare a investire, agendo soprattutto sulla valorizzazione del mercato del lavoro
interno, sulla formazione legata ai reali fabbisogni organizzativi, sulle politiche di
sviluppo professionale della dirigenza.
1.3. Analisi dell’evoluzione dei modelli organizzativi del
Ministero dell’Istruzione, dell’Universita’ e della Ricerca, del
Ministero dell’Economia e dell’Inps. 1.3.1. Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Con l’avvio della XIV legislatura, nel giugno 2001, in ottemperanza del D.
Lgs.n.300/99, il Ministero della Pubblica Istruzione, ha assunto la denominazione di
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ed ha inglobato le competenze
dell’ex Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica.
Il riordino del Ministero della Pubblica Istruzione, come ampiamente illustrato
precedentemente, si inserisce nel quadro della “Riforma dell’organizzazione del
33 Il testo della ricerca è consultabile nel sito del Dipartimento della Funzione Pubblica,
26
Governo” avviata dal d. lgs.n.300/99, coinvolgendo, sotto diversi profili, il settore
dell’istruzione nella direzione del policentrismo.
L’esame che segue cercherà di tracciare le linee essenziali di tale riordino.
Le norme contenute negli artt. 49, 50 e 51 D.Lgs.n.300/99 disciplinano
l’accorpamento dei Ministeri della Pubblica Istruzione e dell’Università nel nuovo
“Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca” e sono entrate in vigore con
la XIV legislatura.
Peraltro, l’art. 75 del D. Lgs. 300/99, ha previsto il riordino della struttura
ministeriale limitatamente all’area della istruzione non universitaria, con effetto,
diversamente che per gli altri ministeri, dalla data di entrata in vigore dello stesso
D.Lgs.n.300/99.
L’organizzazione interna del Ministero, compresa la costituzione dei
Dipartimenti e l’individuazione delle attribuzioni da assegnare a ciascuno di essi, è stata
affidata a norme regolamentari da emanarsi ex art. 17, comma 4 bis, l. 400/88. Infine, la
disciplina degli uffici di livello inferiore è stata affidata a successivi decreti ministeriali
di natura non regolamentare (decreto ministeriale del 30 gennaio 2001).
Dunque la realizzazione del riordino dell’apparato dell’istruzione è avvenuta in
due fasi:
- la prima, è quella disciplinata dall’art. 75 del D.Lgs. n. 300/99, contenente le
disposizioni normative, in forza delle quali sono state assunte le linee guida per la
definizione dell’attuale Regolamento di organizzazione del Ministero della Pubblica
Istruzione (il d.p.r. 347/2000 contiene il “Regolamento recante norme di
organizzazione del Ministero della Pubblica Istruzione” che tratta il riordino
dell’amministrazione centrale e periferica della pubblica istruzione);
- la seconda, con l’inizio della XIV legislatura, che vede l’accorpamento del Ministero
della Pubblica Istruzione, già riformato e riorganizzato, con il Ministero
dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (anch’esso riordinato con il
d.p.r. 477/99).
Le ragioni dell’anticipata entrata in vigore delle norme riguardanti l’area
dell’istruzione non universitaria non stanno soltanto nell’opportunità di procedere ad
un’attuazione graduale della riforma, destinata a culminare nell’accorpamento della
nuova struttura ministeriale, ma devono essere identificate nella necessità di completare,
nel più breve tempo possibile, quella riforma dell’intero sistema di istruzione, che è
http://www.funzionepubblica.it/intranet/Pubblico-i/Risorse-um/Ricerca-su1/Ricerca_amm_centr.pdf.
27
costituita dall’autonomia delle istituzioni scolastiche, e di cui la riforma
dell’amministrazione scolastica – centrale e periferica – costituisce un capitolo decisivo.
Il processo di cambiamento del ruolo dell’amministrazione scolastica.
La scuola italiana è stata interessata quindi da due grandi processi riformatori.
Il primo di essi, interno al sistema di istruzione, ha riguardato l’autonomia delle
istituzioni scolastiche e ne ha implicato la completa riorganizzazione sulla base di un
diverso rapporto tra le strutture burocratiche destinate all’organizzazione e gestione del
servizio e le istituzioni – le scuole – destinate all’erogazione di detto servizio attraverso
un’attività professionale.
Il secondo di tali processi che ha interessato la scuola, come altri grandi sistemi
attraverso i quali si realizza la cura degli interessi di settore, è stata la riforma degli
apparati pubblici, sia sotto il profilo della diversa allocazione delle funzioni tra i diversi
livelli di governo del territorio, sia sotto il profilo del ridisegno dell’organizzazione
centrale e della sua riduzione.
La realizzazione di quella parte della riforma amministrativa che riguarda il
riordino degli apparati ministeriali ha inciso in modo significativo sulla logica del
sistema pubblico di istruzione.
Occorre ricordare che la formazione del sistema di istruzione come sistema
pubblico ha coinciso con la sua costituzione come sistema statale ed, in particolare,
come sistema di tipo burocratico.
Tale circostanza ha, nel tempo, condotto all’assunzione del modello ministeriale
come modello di organizzazione dello stesso sistema pubblico di istruzione.
Si è così progressivamente giunti alla creazione di una vera e propria
amministrazione scolastica: di strutture amministrative, cioè, funzionali all’esplicazione
dell’attività tecnica di istruzione, pensate e realizzate sul modello ministeriale, tant’è
che il Ministero della Pubblica Istruzione è stato da sempre indicato come il Ministero
con il più grande apparato burocratico dell’Amministrazione italiana, al centro del quale
stavano le burocrazie ministeriali, chiamate non soltanto ad individuare ed elaborare
programmi, ma soprattutto a gestire risorse e personale.
L’asse fondamentale del sistema era costituito dall’amministrazione ministeriale,
centrale e periferica, mentre le scuole costituivano soltanto una sorta di terminale
esterno, chiamato ad erogare un servizio in massima parte interamente determinato.
In modo del tutto speculare l’introduzione dell’autonomia delle istituzioni
scolastiche, si è fondata sull’idea che nel sistema di istruzione siano necessarie sinergie
28
operative ed interazioni tra gli apparati amministrativi – siano essi statali, regionali o
locali – e le istituzioni che assicurano il servizio di istruzione, e cioè le scuole ed il loro
sistema di relazioni.
L’autonomia delle istituzioni scolastiche ha cambiato la logica del sistema di
istruzione, facendo delle scuole il punto focale di tale sistema e non il punto terminale
“l’ufficio” che provvede alla semplice erogazione del servizio.
La riforma dell’autonomia scolastica è stata avvertita come un cambiamento
radicale nell’amministrazione scolastica ed ha determinato l’abbandono del c.d. modello
ministeriale di tipo verticale sostituendolo con un modello orizzontale, caratterizzato da
un insieme di comunità scolastiche nelle quali si fa istruzione, formazione, ricerca,
attraverso modelli flessibili, in vista del raggiungimento di obiettivi generali, fissati da
un centro chiamato a compiti strategici e liberato da compiti di gestione 34.
In questa evoluzione il dirigente scolastico assume una particolare funzione
critica, la sua conoscenza dei processi diventa fondamentale, la sua autorevolezza è
sempre più fondata sulla professionalità e meno sulla gerarchia, deve tendere ad
introdurre nel sistema scolastico una prospettiva di direzione innovativa: quella del
leader educativo.
La sua leadership si basa sulla capacità di saper comunicare all’interno e
all’esterno dell’istituto scolastico, di saper motivare i collaboratori e di saper diffondere
a tutti i livelli dell’organizzazione scolastica una “visione strategica del cambiamento”.
Infatti, in un sistema scolastico decentrato, basato su un “sistema rete di scuole
autonome”, il pieno ed effettivo riconoscimento del ruolo del dirigente rappresenta
l’elemento imprescindibile per il conseguimento di una nuova cultura necessaria sia per
la realizzazione degli spazi di autonomia didattica, sia per la gestione
dell’organizzazione e delle strutture, nonché delle risorse umane e strumentali, in
un’ottica di conseguimento dei risultati pianificati e attesi.
In questo quadro, una realizzazione non adeguata dell’amministrazione della
scuola avrebbe rischiato, pertanto, non solo di rendere meno efficace la riorganizzazione
degli apparati del governo ma di compromettere la riforma dell’intero sistema di
istruzione.
In definitiva, i cambiamenti finora descritti, possono essere identificati come dei
veri e propri mutamenti organizzativi e culturali, che s’inseriscono nell’ambito delle
politiche di riforma dell’insieme del sistema scolastico-educativo e si propongono di
34 Per i riferimenti ed il contesto normativo vedi Modulo istituzionale II.
29
attivare un importante e significativo processo di trasformazione, teso a perseguire
essenzialmente i seguenti obiettivi:
- maggiore efficacia ed efficienza del sistema;
- decentramento, autonomia e interazione sinergica con il territorio;
- partecipazione di tutte le componenti della comunità scolastica nella gestione del
cambiamento e positivo coinvolgimento degli stakeholders 35;
- responsabilizzazione diffusa dei (e tra) diversi attori sociali e istituzionali;
- maggiore qualità nei/dei servizi.
La logica ispiratrice di questi interventi è quella di rispondere adeguatamente,
almeno a livello normativo, alle sfide interne ed internazionali.
Queste politiche di riforma sono state adottate sulla base della crescente
consapevolezza che il settore dell’education, l’istruzione, la formazione del personale,
lo sviluppo e il miglioramento delle competenze, rappresentano ormai il principale
fattore strategico di competizione fra le imprese e le nazioni, ancora di più della
disponibilità di risorse naturali, di capitali e di tecnologie.
Il vero “vantaggio competitivo” (Porter), nell’era della net-economy, è
rappresentato dalla qualità del capitale umano che sarà sempre di più la nuova vera
ricchezza della nazione.
A questo proposito, come è stato efficacemente osservato da Rebora 36:
“acquista sempre più rilevanza il concetto di produzione di “valore pubblico”, come
orizzonte fondamentale di attenzione per i responsabili delle amministrazioni. Le
pubbliche amministrazioni legittimano la loro presenza quando producono valore per
la società, cioè si dimostrano capaci di ottenere risultati che “valgono” nella
percezione dei cittadini almeno quanto le risorse che impiegano e le restrizioni alla
libertà individuale che implicano”.
Il concetto di “valore pubblico”, come orizzonte fondamentale di attenzione per i
responsabili delle amministrazioni, vale, a maggior ragione, per la qualità della
conoscenza e dei servizi scolastici ed educativi che dovrebbero essere forniti in primo
luogo agli studenti ed indirettamente alle famiglie, alle imprese e alla comunità più in
generale.
35 Si tratta dei soggetti che hanno interesse diretto o indiretto al miglioramento della performance complessiva della scuola e del sistema educativo e formativo, studenti e famiglie, Amministrazioni locali, imprese, organizzazioni di rappresentanza e professionali, associazioni socioculturali. 36 Rebora G., Un decennio di riforme. Nuovi modelli organizzativi e processi di cambiamento delle amministrazioni pubbliche, Guerini e Associati, Milano, 1999, 25.
30
Infatti, anche se non sempre ce ne rendiamo conto, siamo già nel pieno sviluppo
della società della conoscenza, intesa come ”Patrimonio individuale e/o di gruppo, che
ha condiviso e condivide comuni esperienze, ampliabili e migliorabili nel tempo e nello
spazio”; essa rappresenta un elemento indispensabile per la crescita culturale, sociale,
economica e produttiva. Il suo grado di diffusione e il livello di qualità costituiscono il
”vantaggio competitivo reale”.
A questo scopo la scuola assume, dunque, un ruolo strategico di primaria
importanza.
Infatti, una società che non riconosce tale ruolo strategico al sistema scolastico,
educativo e formativo e non investe per migliorare il suo livello di efficacia, efficienza e
qualità, compromette il suo sviluppo futuro.
In questo nuovo scenario le politiche di riforma delle Pubbliche
Amministrazioni, il ri-orientamento e ri-adeguamento del sistema scolastico ed
educativo assumono una nuova dimensione strategica e la loro coerente e tempestiva
applicazione diventa un elemento strutturale improrogabile.
1.3.2. Il Regolamento di organizzazione e la nuova configurazione istituzionale del
MIUR
a) Generalità
Nel contesto sopra descritto va inserito il processo di riordino dell’ex MPI,
avviato nel luglio 2000 con l’approvazione del Regolamento di organizzazione (cui
hanno fatto seguito i rilievi della Corte dei Conti, del 6 settembre e del 12 ottobre) e con
la definitiva pubblicazione del nuovo testo sulla G.U.R.I. il 6 novembre 2000 (D.P.R.
347), e realizzato poi operativamente nel primo semestre del 2001 con la definizione
degli uffici di livello dirigenziale non generale (D.M. 30 gennaio 2001) e con
l’individuazione delle funzioni dell’amministrazione periferica (“Linee guida per
l’articolazione degli Uffici scolastici regionali” del 18 aprile 2001).
Di seguito si illustrano le linee generali del processo di riordino, lasciando al
successivo paragrafo l’esame analitico dei compiti dell’amministrazione centrale e
periferica, dal d.lgs. 300\99 fino alle indicazioni del Ministro Moratti del dicembre 2001
riguardo l’assetto dell’amministrazione periferica.
Il DPR 347\2000 si proponeva di definire adeguatamente il ruolo sia
dell’Amministrazione centrale, sia di quella periferica, in linea con i principi di
decentramento e di autonomia, allo scopo di snellire le procedure e le strutture
burocratiche e migliorare i risultati e la performance complessiva dell’insieme del
31
sistema scolastico ed educativo, così come previsto nel d. lgs. 300/99 che delinea la
nuova geografia dei ministeri.
Tale Regolamento, infatti, ridisegna il modello organizzativo delle strutture
centrali (unifica le molteplici strutture direzionali precedenti, attraverso la creazione di
due Dipartimenti e tre Servizi) e di quelle periferiche (supera i Provveditorati agli studi
provinciali e le Sovrintendenze regionali e crea i nuovi Uffici Scolastici regionali,
consolida le Istituzioni scolastiche autonome) in un’ottica di migliore integrazione
politico-amministrativa.
Gli elementi innovativi sono costituiti dalle nuove strutture (Dipartimenti,
Direzioni generali, Servizi e Direzioni scolastiche regionali) e dai nuovi ruoli
amministrativi e gestionali, rappresentati dai due Capi Dipartimento, dai dieci Dirigenti
Generali dell’Amministrazione centrale e dai Diciotto dirigenti regionali.
In questo nuovo scenario i dirigenti diventano necessariamente i protagonisti
della pianificazione e della gestione dei mutamenti organizzativi sia delle strutture
centrali, sia delle Direzioni scolastiche regionali e la loro azione (innovativa o
burocratica) può favorire il conseguimento di un maggiore livello di efficacia e di
efficienza della performance complessiva dell’amministrazione scolastica.
Il Regolamento, infatti, ridefinisce la missione istituzionale e il nuovo modello
organizzativo dei diversi livelli dell’Amministrazione e articola i ruoli istituzionali e i
compiti operativi, conferendo una maggiore organicità al disegno complessivo del
sistema:
- alle strutture centrali si richiede la definizione delle strategie, delle politiche e degli
obiettivi;
- a quelle regionali si richiede l’attività di coordinamento delle politiche educative in
raccordo con la Regione e di allocazione e gestione delle risorse sul territorio.
Inoltre alle Direzioni regionali, in particolare alle sue strutture articolate sul
territorio e ai Centri Servizi, si attribuisce un importante compito di consulenza e di
sostegno all’attività operativa delle Istituzioni scolastiche autonome, allo scopo di
perseguire con una maggiore efficacia ed efficienza organizzativa complessiva del
sistema, il presidio dei processi amministrativi ed organizzativi necessari a fornire
servizi educativi di qualità.
32
b) Ruolo, funzioni e compiti delle strutture decentrate dell’amministrazione scolastica
Come detto, il riordino del Ministero prende le mosse dalle previsioni contenute
nel Decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 di Riforma dell'organizzazione del
Governo che, su delega dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59, ha tra l’altro
fornito gli indirizzi per il riordino del Ministero della Pubblica Istruzione, prevedendo
all’art. 49 l’istituzione del MIUR.
Al nuovo dicastero sono attribuite le funzioni e i compiti spettanti allo Stato in
materia di istruzione scolastica ed istruzione superiore, di istruzione universitaria, di
ricerca scientifica e tecnologica e sono altresì trasferite, con le inerenti risorse
finanziarie, strumentali e di personale, le funzioni dei ministeri della pubblica istruzione
e della università e ricerca scientifica e tecnologica, eccettuate quelle attribuite ad altri
ministeri o ad agenzie, e fatte in ogni caso le funzioni conferite dalla vigente
legislazione alle regioni ed agli enti locali. Il decreto fa altresì salva l'autonomia delle
istituzioni scolastiche e l'autonomia delle istituzioni universitarie e degli enti di ricerca.
Al Ministero sono inoltre demandate le funzioni di vigilanza spettanti al
ministero della pubblica istruzione sull'agenzia per la formazione e l'istruzione
professionale.
All’art. 50, il D.Lgs. n. 300\99 individua le aree funzionali di intervento e in
particolare quelle di spettanza statale ma ad esso demandate ovvero: organizzazione
generale dell'istruzione scolastica, ordinamenti e programmi scolastici, stato giuridico
del personale; definizione dei criteri e dei parametri per l'organizzazione della rete
scolastica; criteri e parametri per l'attuazione delle politiche sociali nella scuola;
determinazione e assegnazione delle risorse finanziarie a carico del bilancio dello Stato
e del personale alle istituzioni scolastiche autonome; valutazione del sistema scolastico;
ricerca e sperimentazione delle innovazioni funzionali alle esigenze formative;
riconoscimento dei titoli di studio e delle certificazioni in ambito europeo e
internazionale e attivazione di politiche dell'educazione comuni ai paesi dell'Unione
europea; assetto complessivo dell'intero sistema formativo, individuazione degli
obiettivi e degli standard formativi e percorsi formativi in materia di istruzione
superiore e di formazione tecnica superiore; consulenza e supporto all'attività delle
istituzioni scolastiche autonome; competenze di cui alla legge 11 gennaio 1996, n.23;
istituzioni di cui all'articolo 137, comma 2, ed all'articolo 138, comma 3, del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 112.
33
Tra gli altri compiti demandati al Ministero si citano:
- compiti di indirizzo, programmazione e coordinamento della ricerca scientifica e
tecnologica nazionale;
- istruzione universitaria, ricerca scientifica e tecnologica: programmazione degli
interventi sul sistema universitario e degli enti di ricerca non strumentali;
- indirizzo e coordinamento, normazione generale e finanziamento delle università e
degli enti di ricerca non strumentali;
- monitoraggio e valutazione, anche mediante specifico Osservatorio, in materia
universitaria;
- attuazione delle norme comunitarie e internazionali in materia di istruzione
universitaria, armonizzazione europea e integrazione internazionale del sistema
universitario, anche in attuazione degli accordi culturali stipulati a cura del ministero
degli affari esteri;
- monitoraggio degli enti di ricerca non strumentali e supporto alla valutazione del
CIVR;
- completamento dell'autonomia universitaria; formazione di grado universitario;
razionalizzazione delle condizioni d'accesso all'istruzione universitaria;
- partecipazione alle attività relative all'accesso alle amministrazioni e alle professioni,
al raccordo tra istruzione universitaria, istruzione scolastica e formazione;
- valorizzazione e sostegno della ricerca libera nelle università e negli enti di ricerca;
- integrazione tra ricerca applicata e ricerca pubblica;
- coordinamento della partecipazione italiana a programmi nazionali e internazionali di
ricerca;
- indirizzo e sostegno della ricerca aerospaziale; cooperazione scientifica in ambito
nazionale, comunitario ed internazionale; promozione e sostegno della ricerca delle
imprese ivi compresa la gestione di apposito fondo per le agevolazioni anche con
riferimento alle aree depresse e all'integrazione con la ricerca pubblica.
Come già visto, nel novembre 2000, a norma dell'articolo 75 del decreto
legislativo 30 luglio 1999, n. 300, è stato emanato il DPR 6 novembre 2000, n. 347, con
il quale è stato adottato il "Regolamento recante norme di organizzazione del Ministero
della Pubblica Istruzione”, che è stato successivamente seguito dal D.M. 30 gennaio
2001, avente ad oggetto la "Riorganizzazione degli Uffici dirigenziali di livello non
generale".
34
Il DPR n. 347/2000 a livello centrale ha previsto una articolazione in due
Dipartimenti e tre servizi di livello dirigenziale generali, mentre a livello regionale ha
previsto una articolazione in uffici scolastici regionali.
I Dipartimenti assumono rispettivamente la denominazione di Dipartimento per
lo sviluppo dell'istruzione e di Dipartimento per i servizi nel territorio. Nell'ambito di
ciascun Dipartimento sono individuate aree di funzioni omogenee la cui direzione è
affidata a dirigenti di livello dirigenziale generale.
I servizi assumono la denominazione di Servizio per gli affari economici,
Servizio per l'automazione informatica e l'innovazione tecnologica e Servizio per la
comunicazione.
Il Ministero, a livello periferico, è articolato in Uffici scolastici regionali di
livello dirigenziale generale, uno per ciascuna regione. Tali Uffici si organizzano per
funzioni e, sul territorio provinciale, per servizi di consulenza e supporto alle istituzioni
scolastiche.
Per quanto concerne i compiti demandati ai Capi Dipartimento, il regolamento
prevede che essi svolgono compiti di coordinamento, direzione e controllo degli Uffici
compresi nel Dipartimento al fine di assicurare la continuità delle funzioni
dell'Amministrazione e sono responsabili dei risultati complessivamente raggiunti in
attuazione degli indirizzi del Ministro.
Le specifiche attribuzioni dei Capi Dipartimento sono individuate dal D.Lgs. n.
300/99, a cui il DPR n. 347/2000 rinvia.
In particolare, l’art. 5 D.Lgs. n. 300/99, nel quadro delle predette funzioni
coordinamento, direzione e controllo degli uffici di livello dirigenziale generale,
prevede che il Capo del Dipartimento:
a) determina i programmi per dare attuazione agli indirizzi del ministro;
b) alloca le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili per l'attuazione dei
programmi secondo principi di economicità, efficacia ed efficienza, nonché di
rispondenza del servizio al pubblico interesse;
c) svolge funzioni di propulsione, di coordinamento, di controllo e di vigilanza nei
confronti degli uffici del dipartimento;
d) promuove e mantiene relazioni con gli organi competenti dell’Unione Europea per la
trattazione di questioni e problemi attinenti al proprio dipartimento;
e) adotta gli atti per l'utilizzazione ottimale del personale secondo criteri di efficienza,
disponendo gli opportuni trasferimenti di personale all'interno del dipartimento;
35
f) è sentito dal ministro ai fini dell'esercizio del potere di proposta per il conferimento
degli incarichi di direzione degli uffici di livello dirigenziale generale, ai sensi
dell'articolo 19, comma 4, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29;
g) può proporre al ministro l'adozione dei provvedimenti di revoca degli incarichi di
direzione degli uffici di livello dirigenziale generale, ai sensi dell'articolo 19,
comma 7, del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 e, comunque, viene sentito
nel relativo procedimento;
h) è sentito dal ministro per l'esercizio delle attribuzioni a questi conferite dall'articolo
14, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29.
Ritornando alle previsioni del DPR n. 347/2000, il Capo del Dipartimento può
promuovere progetti che coinvolgono le competenze di più aree, affidandone il
coordinamento ad uno dei dirigenti di area.
Il Dipartimento per lo sviluppo dell'istruzione comprende i seguenti uffici di
livello dirigenziale generale:
a) Direzione generale per gli ordinamenti scolastici;
b) Direzione generale per la formazione e aggiornamento del personale della
scuola;
c) Direzione generale per le relazioni internazionali.
La Direzione generale per gli ordinamenti scolastici svolge, in particolare, i
compiti relativi agli ordinamenti, ai curricoli e ai programmi scolastici; alla definizione
delle classi di concorso e dei programmi delle prove concorsuali del personale della
scuola; alla ricerca e all’innovazione nei diversi gradi e settori dell’istruzione
avvalendosi a tal fine della collaborazione dell’Istituto nazionale di documentazione per
l’innovazione e la ricerca educativa; alla materia degli esami, delle certificazioni e del
riconoscimento di titoli di studio stranieri; all’individuazione delle priorità in materia di
valutazione e alla promozione di appositi progetti; alla vigilanza sull’Istituto nazionale
per la valutazione del sistema di istruzione e sull’Istituto nazionale di documentazione
per l’innovazione e la ricerca educativa. La Direzione generale per la formazione e
aggiornamento del personale della scuola provvede, in particolare, alla definizione degli
indirizzi generali nelle materie di competenza. La Direzione generale per le relazioni
internazionali cura, coordinandosi con i competenti uffici del Dipartimento per i servizi
nel territorio, le relazioni internazionali, inclusa la collaborazione con l’Unione europea
e con gli organismi internazionali.
36
Il Dipartimento fornisce le linee di indirizzo generale, nelle materie di propria
competenza, agli uffici scolastici regionali e ne verifica la coerenza di attuazione.
Nell’ambito del Dipartimento è istituito il servizio di segreteria del Consiglio superiore
della pubblica istruzione.
Il Dipartimento per i servizi nel territorio comprende i seguenti uffici di livello
dirigenziale generale:
a) Direzione generale per l’organizzazione dei servizi nel territorio;
b) Direzione generale per l’istruzione post-secondaria e degli adulti e per i
percorsi integrati;
c) Direzione generale del personale della scuola e dell’amministrazione;
d) Direzione generale per lo status dello studente, per le politiche giovanili e per
le attività motorie.
La Direzione generale per l’organizzazione dei servizi nel territorio svolge, in
particolare, i compiti relativi: alla definizione degli indirizzi per l’organizzazione dei
servizi nel territorio e per la valutazione della loro efficienza, al fine di garantire il
coordinamento dell’organizzazione e l’uniformità dei relativi livelli in tutto il territorio
nazionale; ai servizi per l’integrazione degli studenti in situazione di handicap e per
l’accoglienza e integrazione degli studenti immigrati; agli indirizzi in materia di
vigilanza sulle scuole e corsi di istruzione non statale e sulle scuole straniere in Italia;
alla vigilanza sull’Agenzia per la formazione e l’istruzione professionale di cui
all’articolo 88 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n.300 e sulla “Fondazione Museo
nazionale della scienza e della tecnologia “Leonardo da Vinci” di cui all’articolo 4 del
decreto legislativo 20 luglio 1999, n.258, alla vigilanza o sorveglianza di cui all’articolo
605, commi 2 e 3, del testo unico approvato con decreto legislativo 16 aprile 1994,
n.297, nei confronti degli altri enti ivi previsti; ai problemi generali del territorio, nel
rispetto delle competenze delle regioni, segnatamente quelli relativi al diritto allo studio,
al dimensionamento delle istituzioni scolastiche, alla distribuzione territoriale delle
scuole e degli indirizzi di studio, all’edilizia scolastica.
La Direzione generale per l’istruzione post-secondaria e degli adulti e per i
percorsi integrati, fatte comunque salve le competenze delle regioni, svolge le funzioni
dell’amministrazione della pubblica istruzione in materia di percorsi integrati di
istruzione e formazione; educazione ed istruzione permanente degli adulti; istruzione
superiore non universitaria, ivi compresa l’istruzione e formazione tecnica superiore.
37
La Direzione generale per lo status dello studente, per le politiche giovanili e per
le attività motorie svolge, in particolare, i compiti relativi: alla materia dello status dello
studente; agli indirizzi e alle strategie nazionali in materia di rapporti della scuola con lo
sport; alle strategie sulle attività e sull’associazionismo degli studenti e sulle politiche
sociali in favore dei giovani; al supporto dell’attività della conferenza nazionale dei
presidenti delle consulte provinciali degli studenti; ai rapporti con le associazioni dei
genitori e al supporto della loro attività.
La Direzione generale del personale della scuola e dell’amministrazione svolge,
in particolare, i compiti relativi: alla definizione degli indirizzi generali e alla disciplina
giuridica ed economica del rapporto di lavoro e di nuovi modelli di prestazione del
servizio del personale scolastico e, d’intesa con il Dipartimento per lo sviluppo
dell’istruzione, alla relativa contrattazione; all’attuazione delle direttive del Ministro in
materia di politiche del personale amministrativo e tecnico del Ministero, nonché al
reclutamento, alla formazione generale, alle relazioni sindacali, alla contrattazione e alla
mobilità.
Il Dipartimento per i servizi nel territorio, per la parte afferente ai rapporti
internazionali, nelle materie di propria competenza collabora con il Dipartimento per lo
sviluppo dell’istruzione. Al Dipartimento per i servizi nel territorio, inoltre, è affidata
l’organizzazione del servizio del contenzioso, per l’assolvimento delle funzioni
strumentali comuni ai dipartimenti e ai servizi dell’amministrazione centrale e per la
formulazione degli indirizzi in materia all’amministrazione periferica. Riguardo i
rapporti con le Direzioni Regionali, il Dipartimento per i servizi nel territorio fornisce le
linee di indirizzo generale, nelle materie di propria competenza, agli uffici regionali
scolastici e ne verifica la coerenza di attuazione.
I servizi sono uffici di livello dirigenziale generale non equiparati ad uffici
dirigenziali dipartimentali, per l’esercizio di funzioni strumentali di interesse comune ai
dipartimenti e agli uffici scolastici regionali. Essi si articolano in uffici di livello
dirigenziale non generale. I servizi forniscono il supporto necessario nei tempi utili per
l’efficace esercizio dell’azione amministrativa, secondo le direttive generali del
Ministro e quelle dei Capi dei dipartimenti.
Il Servizio per gli affari economico-finanziari svolge attività di consulenza ed
assistenza tecnica sulle materie giuridico-contabili di competenza dei diversi uffici
centrali e periferici; anche sulla base dei dati forniti dagli uffici competenti, predispone
le relazioni tecniche sui provvedimenti normativi; avvalendosi dei dati forniti dai
38
dipartimenti, dagli altri servizi e dagli uffici scolastici regionali, rileva il fabbisogno
finanziario del Ministero della pubblica istruzione. Sulla base delle direttive del
Ministro, cura la redazione del bilancio, le operazioni di variazione ed assestamento, la
redazione delle proposte per la legge finanziaria, l’attività di rendicontazione al
Parlamento ed agli organi di controllo; predispone i programmi di ripartizione delle
risorse finanziarie rinvenienti da leggi, fondi e provvedimenti che le destinano ad
obiettivi comuni dei dipartimenti, dei servizi e degli uffici; predispone gli atti connessi
con l’assegnazione delle risorse finanziarie ai vari centri di responsabilità ed ai centri di
costo; attende ai servizi generali dell’amministrazione centrale; coordina i programmi di
acquisizione delle risorse finanziarie, in relazione alle diverse fonti di finanziamento;
monitora e analizza i flussi finanziari; cura la gestione amministrativa e contabile delle
attività strumentali, contrattuali e convenzionali di carattere generale e comune agli
uffici dell’amministrazione centrale; dà consulenza legale all’amministrazione
periferica in materia contrattuale; fornisce le indicazioni necessarie per la gestione
amministrativa e contabile delle istituzioni scolastiche.
Il Servizio per l’automazione informatica e l’innovazione tecnologica cura i
rapporti con gli aggiudicatari delle gare per la fornitura dei servizi concernenti il sistema
informativo vigilando sull’applicazione dei contratti; cura i rapporti con i dipartimenti,
gli altri servizi e gli uffici scolastici regionali per l’utilizzazione del sistema informativo
e lo sviluppo di nuove procedure; pianifica le attività del sistema informativo con
riferimento alle applicazioni e agli sviluppi del sistema stesso; fornisce le necessarie
elaborazioni statistiche; formula piani per le politiche di innovazione tecnologica;
provvede alla definizione di standard tecnologici e alla consulenza alle scuole in materia
di strutture tecnologiche; conduce studi e sperimentazioni di nuove soluzioni
tecnologiche; provvede alla creazione di infrastrutture di supporto ai servizi in rete,
anche in collaborazione con enti e soggetti esterni. Presso il servizio è allocato l’ufficio
di statistica istituito presso il Ministero a norma dell’articolo 3 del decreto legislativo 6
settembre 1989, n. 322; tale ufficio, avvalendosi anche degli apporti del sistema
informativo, costituisce una struttura di servizio per tutte le articolazioni organizzative
del Ministero.
Il Servizio per la comunicazione coordina la comunicazione istituzionale anche
con riguardo agli strumenti multimediali e alla rete Intranet; coordina il sito Web
dell’amministrazione; promuove attività e convenzioni editoriali, pubblicitarie e
campagne di comunicazione; analizza le domande di servizi e prestazioni attinenti
39
l’informazione e la sua divulgazione; promuove monitoraggi e indagini demoscopiche;
è responsabile dell’ufficio relazioni col pubblico a livello centrale e coordina e indirizza
l’attività degli uffici relazioni col pubblico a livello periferico; cura i rapporti con il
Dipartimento informazione ed editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri.
In ciascun capoluogo di regione è istituito l’Ufficio scolastico regionale, di
livello dirigenziale generale, che costituisce un autonomo centro di responsabilità
amministrativa, al quale sono assegnate tutte le funzioni già spettanti agli uffici
periferici dell’amministrazione della pubblica istruzione a norma della vigente
legislazione. Esso assorbe gli uffici scolastici regionali di cui all’articolo 613 del testo
unico approvato con decreto legislativo n. 297 del 1994, che sono soppressi alla data di
entrata in vigore del DPR n. 347/2000, ed esercita le funzioni non trasferite alle
istituzioni scolastiche o non riservate all’amministrazione centrale, o non conferite alle
Regioni e agli enti locali.
L’Ufficio scolastico regionale, sentita la regione, si articola per funzioni e sul
territorio; a tale fine sono istituiti, a livello provinciale, con possibilità di articolazione a
livello subprovinciale, servizi di consulenza e supporto alle istituzioni scolastiche,
anche per funzioni specifiche.
L’ufficio scolastico regionale svolge le sue funzioni in raccordo con i
dipartimenti e con i servizi centrali. Esso vigila sull’attuazione degli ordinamenti
scolastici, sui livelli di efficacia dell’attività formativa e sull’osservanza degli standard
programmati; promuove la ricognizione delle esigenze formative e lo sviluppo della
relativa offerta sul territorio in collaborazione con la regione e gli enti locali; cura
l’attuazione delle politiche nazionali per gli studenti; formula al servizio per gli affari
economico-finanziari e ai dipartimenti le proprie proposte per l’assegnazione delle
risorse finanziarie e di personale; provvede alla costituzione della segreteria del
consiglio regionale dell’istruzione a norma dell’articolo 4 del decreto legislativo 30
giugno 1999, n. 233; cura i rapporti con l’amministrazione regionale e con gli enti
locali, per quanto di competenza statale e nel rispetto comunque dell’autonomia delle
istituzioni scolastiche, relativamente all’offerta formativa integrata, all’educazione degli
adulti; esercita la vigilanza sulle scuole e corsi di istruzione non statali e sulle scuole
straniere in Italia; fornisce assistenza e supporto alle istituzioni scolastiche e vigila sul
loro funzionamento nel rispetto dell’autonomia ad esse riconosciuta; assegna alle
istituzioni scolastiche le risorse finanziarie; assegna alle istituzioni scolastiche le risorse
di personale ed esercita tutte le competenze in materia, ivi comprese quelle attinenti alle
40
relazioni sindacali, non attribuite alle istituzioni scolastiche o non riservate
all’amministrazione centrale; assicura, con i modi e gli strumenti più opportuni, la
diffusione delle informazioni. Il dirigente preposto all’ufficio scolastico regionale, in
particolare, stipula i contratti individuali con i dirigenti scolastici ed emette i relativi atti
di incarico. Nell’esercizio dei propri compiti il dirigente dell’ufficio regionale si avvale
dei servizi funzionali e territoriali, nonché dell’Istituto regionale di ricerca educativa.
Presso ciascun ufficio scolastico regionale è costituito l’organo collegiale di cui
all’articolo 75, comma 3, del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, con funzioni di
raccordo tra politiche educative nazionali e locali. Esso è così composto: il dirigente
preposto all’ufficio scolastico regionale, che lo presiede; tre rappresentanti dello Stato,
di cui due scelti dal predetto dirigente tra il personale della scuola; due rappresentanti
della regione; due rappresentanti degli enti locali territoriali designati, rispettivamente,
dalle corrispondenti articolazioni regionali dell’Unione delle Province d’Italia (UPI) e
dell’Associazione Nazionale dei Comuni d’Italia (ANCI). Il predetto organo collegiale
si dota di un regolamento interno di organizzazione, sulla base degli indirizzi concordati
in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto
1997, n. 281, nel rispetto delle competenze definite dalle leggi statali e regionali.
Si riporta un quadro sinottico esplicativo dei ruoli e funzioni delle strutture
organizzative del MIUR.
Tabella 2 IL NUOVO MODELLO ORGANIZZATIVO DEL MIUR
STRUTTURE
ORGANIZZATIVE
RUOLI MISSION E ATTIVITÀ
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STRUTTURE
ORGANIZZATIVE
RUOLI MISSION E ATTIVITÀ
1. Ministero - Strutture
centrali
Ministro
Uffici di diretta
collaborazione
Capo Dipartimento
Organi di controllo
Indirizzo politico
Amministrativo
Strategie e Politiche
Obiettivi
➨ Capi Dipartimenti
Gestione Politiche
Progetti e Programmi
Obiettivi
➨ Dirigenti Dir. generali
➨ Dirigenti Servizi
➨ Dirigenti Regionali
Controllo
➨ Strategico
➨ Gestionale
➨ Attività Dirigenti
2. Direzione scolastica
regionale
Dirigente regionale Attuazione Politiche sul
territorio
Instaura rapporti di
collaborazione con la
Regione e gli Enti Locali
Allocazione risorse nella
regione
Coordinamento delle attività
dei Centri Servizi Integrati
Supporto e consulenza alle
Istituzioni scolastiche
autonome
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STRUTTURE
ORGANIZZATIVE
RUOLI MISSION E ATTIVITÀ
3. Istituzione scolastica
autonoma
Dirigente scolastico Fornisce i servizi
educativi
Organizza l’attività
educativa impiegando le
risorse in un’ottica di
efficacia/efficienza
Costituisce reti di
collaborazione con altre
Istituzioni scolastiche
Instaura rapporti di
collaborazione con Enti
Locali
Il modello organizzativo sopra descritto è stato implementato con vari interventi
per l’ulteriore definizione dell’assetto funzionale e strutturale a livello periferico.
Infatti nel periodo febbraio - aprile 2001, si è realizzato un confronto tra i
dirigenti dell’Amministrazione centrale e quelli regionali, finalizzato alla definizione e
alla condivisione di un documento che indicasse le “Linee guida per l’articolazione
degli Uffici scolastici regionali” (documento organizzativo).
Tale documento, approvato il 18 aprile 2001, nel rispetto del nuovo disegno delle
competenze delle Regioni e degli Enti Locali in materia di istruzione e formazione (d.
lgs. 112/98), si propone il superamento dell’articolazione organizzativa precedente
(Uffici scolastici regionali e Provveditorati provinciali) e la delineazione di in nuovo
modello organizzativo, ispirato ai principi di collaborazione tra i diversi attori
istituzionali, di maggiore efficacia organizzativa e di migliore integrazione dei processi
per l’erogazione dei servizi educativi.
Il documento organizzativo individua la mission della Direzione scolastica
regionale e prevede, nel rispetto dell’autonomia organizzativa del Dirigente regionale
(ex art. 6 del Regolamento di organizzazione), sia un’articolazione organizzativa per
macroaree funzionali della sede regionale, sia una presenza nel territorio, attraverso
l’istituzione di Unità Operative denominate Centri Servizi Amministrativi (CSA) e
43
Centri Servizi per lo sviluppo delle Istituzioni scolastiche autonome (CSI) , allo scopo
di realizzare “politiche educative integrate” sul territorio (Vedi Fig. 1).
La struttura regionale può avvalersi di modalità di funzionamento innovative per
“Progetti”, con moduli organizzativi ad hoc e un coordinamento funzionale (non
gerarchico-burocratico) e personale opportunamente selezionato, formato e orientato al
raggiungimento di uno specifico obiettivo. Inoltre il Direttore regionale ha la facoltà di
conferire a dirigenti e funzionari “Incarichi” di rappresentanza (in organismi collegiali
territoriali o presso altre amministrazioni) o di raccordo con i Dipartimenti e i Servizi
dell’Amministrazione centrale.
Figura 1. IL NUOVO SISTEMA DI RELAZIONI TRA I DIVERSI LIVELLI ISTITUZIONALI
La Direzione scolastica regionale, tenuto conto della dimensione della regione e
della relativa consistenza di personale in dotazione, organizza le proprie attività in
relazione alle seguenti cinque aree funzionali:
- Area di pianificazione, programmazione e integrazione delle politiche formative;
- Area di supporto e sviluppo delle Istituzioni scolastiche autonome;
- Area organizzazione e politiche di gestione delle risorse umane della scuola;
- Area amministrazione e gestione delle risorse finanziarie;
D irezion eR eg io n a le
M IU R
R eg io n e
Is titu zion esco las tica
P rovin c ia
C om un e
C S I
P ianificazio n eIn teg rata d elle
P o litich e
P ian ific azio ne e
a llo ca zio ne
risors e
R isorse
L inee G uid a
In d irizzi
C S A
44
- Area gestione delle risorse e servizi della Direzione regionale.
Nel documento organizzativo, non è indicata, in modo prescrittivo,
l’articolazione degli uffici da attivare nell’ambito delle singole aree funzionali, ma sono
solo elencate, opportunamente, le principali attività di competenza di ciascuna area.
La Direzione scolastica regionale, inoltre, come già anticipato, tenuto conto della
popolazione scolastica, della sua distribuzione e della relativa consistenza di personale
in dotazione, si articola sul territorio attraverso l’istituzione di Unità Operative
denominate Centri Servizi Amministrativi (CSA) e Centri Servizi per lo sviluppo delle
istituzioni scolastiche autonome (CSI).
I CSA rappresentano un’articolazione organizzativa dell’Amministrazione
scolastica sul territorio, in modo più diffuso e capillare della struttura precedente (i
Provveditorati agli studi provinciali) e assolvono funzioni di tipo amministrativo.
Svolgono un’attività essenzialmente di front line (accoglienza, formazione, acquisizione
di pratiche amministrative, rilascio di atti amministrativi) rivolta principalmente al
personale della scuola, ma anche agli utenti della scuola (studenti e famiglie), agli Enti
Locali, ad altre agenzie educative e formative e ai soggetti professionali presenti sul
territorio.
I CSA dovrebbero dotarsi, in futuro, di risorse umane con competenze adeguate
per fornire anche attività di assistenza e consulenza più mirata e specializzata.
I CIS, previsti come strumento di sostegno dello sviluppo dell’autonomia delle
Istituzioni scolastiche e di fatto istituiti solo in alcune regioni, sono stati sospesi con
provvedimento del Ministro Moratti del dicembre 2001 in vista della complessiva
ristrutturazione del Ministero.
Il modello organizzativo sopra descritto, come abbiamo già anticipato, si
appresta infatti ad essere rimodulato nel nuovo disegno organizzativo del MIUR di
riunificazione dell’ex MPI e dell’ex MIUR, con una riassetto basato su tre nuovi
Dipartimenti: Dipartimento dell’Istruzione, Dipartimento dell’Università e Dipartimento
della Ricerca.
Le strutture organizzative a livello regionale e territoriale del Dipartimento
dell’Istruzione, si articoleranno invece in Centri Servizi Amministrativi (CSA).
La configurazione organizzativa sopra illustrata - prevista dal decreto 347/2000 e
dal successivo decreto ministeriale 30/1/2001 che ha ridefinito gli uffici dirigenziali di
livello non generale - si appresta ad essere a breve nuovamente modificata. Il nuovo
regolamento (che abrogherà i DPR 347\2000 ed il DM 30\1\2001) unificherà le strutture
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e le risorse professionali dell’ex Ministero dell’istruzione e dell’ex Ministero
dell’università e della ricerca, cogliendo l’occasione per una razionalizzazione delle
strutture al fine di creare un modello organizzativo finalizzato a:
- integrare funzionalmente le diverse competenze nel campo dell’istruzione scolastica
e professionale, in quello dell’istruzione universitaria ed in quello della ricerca;
- evitare duplicazioni, accorpando le funzioni in comune ai tali settori, creando unità
organizzative di servizio trasversali alle diverse strutture;
- unificare i ruoli giuridici del personale.
Da quanto emerge dalle bozze del nuovo regolamento il nuovo MIUR sarà
costituito da tre Dipartimenti (Istruzione, Università e Ricerca), costituiti da un ridotto
numero di uffici di livello Dirigenziale generale. Sono inoltre previsti cinque Servizi a
supporto delle attività dei Dipartimenti.
1.3.3 Il Ministero dell’Economia e delle Finanze
Nelle diverse tappe che, sul finire degli anni’90, hanno condotto prima
all’unificazione del Ministero del Tesoro con quello del Bilancio e della
Programmazione Economica, e successivamente all’unificazione del “nuovo” Ministero
del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica con il Ministero delle
Finanze, la questione riguardante la razionalizzazione dell’esercizio delle funzioni
attinenti alla finanza pubblica, attraverso la l’unificazione dei compiti concernenti la
provvista finanziaria con quelli relativi al controllo e alla gestione della spesa è
presente, ma non è la sola.
Accanto ad essa vi è, infatti, la necessità della sistemazione delle funzioni
riguardanti la finanza pubblica nel nuovo centro di un sistema amministrativo
profondamente modificato, caratterizzato da una parte, dall’importanza crescente dei
vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea e dall’altra, dal rilievo decisivo
attribuito ai governi regionali e locali, a seguito del trasferimento ad essi di un numero
assai significativo di decisioni amministrative.
All’istituzione del Ministero dell’Economia e delle Finanze si è pervenuti
attraverso due leggi di delega e due diversi decreti delegati.
Con l’unificazione del Ministero del Tesoro con il Ministero del Bilancio, voluta
dalla Legge 3 aprile 1997, n. 94 e realizzata con il D.Lgs. n. 430/97, si è proceduto alla
prima decisiva opera di razionalizzazione degli strumenti di governo della finanza
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pubblica, in collegamento con la riforma della struttura del bilancio dello Stato, operato
dalla stessa L. n. 94/97.
Con la L.n.59/97 e con il D.Lgs. n. 300/99 si è, da una parte, completata l’opera
di razionalizzazione degli strumenti di governo della finanza pubblica attraverso
l’affidamento ad un unico centro di responsabilità dei compiti riguardanti la provvista
dei mezzi finanziari e l’uso della leva fiscale e di quelli concernenti la spesa pubblica,
ma si è, dall’altra, configurato il nuovo sistema della finanza pubblica come un capitolo
fondamentale della razionalizzazione dell’intero apparato amministrativo del governo, a
servizio e a garanzia di un assetto istituzionale in cui quello statale non è più l’unico
centro di decisione amministrativa.
Quindi le riforme realizzate con il D.Lgs. n. 430/97 e il D.Lgs. n. 300/99,
relativamente alle funzioni attinenti alla finanza pubblica, utilizzano in parte strumenti e
modelli identici, ma rispondono a scopi diversi. Con la L. n. 94/97 e il D.Lgs. n. 430/97
la riforma amministrativa ed il suo prodotto - l’unificazione dei due ministeri - sono
considerati come un capitolo di un più ampio programma di contenimento della spesa
pubblica; con la L. n. 59/97 e il DLgs. n. 300/99, la riforma complessiva degli apparati
pubblici è realizzata allo scopo di rendere più efficace il sistema della decisione politica,
ivi compresa quella che passa attraverso il governo degli strumenti finanziari e le scelte
riguardanti le politiche pubbliche di redistribuzione del reddito e di allocazione delle
risorse tra le grandi opzioni di spesa.
Il sistema di governo della finanza pubblica viene così completato e collegato
con il sistema complessivo di governo del Paese.
La riforma realizzata con il D.lgs. n. 300/99 presuppone quella posta in essere
con il D.Lgs. n. 430/97, ma inserisce il nuovo e potenziato assetto degli strumenti di
governo della finanza pubblica in uno scenario istituzionale modificato, a seguito
dell’attuazione del c.d. federalismo amministrativo e del significativo riordino del
centro del sistema amministrativo, allo scopo di assicurare, come è richiesto dalla legge
di delega, l’unità di indirizzo politico e amministrativo del governo.
In tale assetto si delinea un nuovo ruolo del Ministero dell’Economia e delle
Finanze, a sostegno di una funzione volta a garantire il raggiungimento degli obiettivi di
politica economica ed il rispetto dei vincoli derivanti dall’Unione Europea,
nell’interesse dei diversi livelli di governo in cui si articola il sistema istituzionale ed
amministrativo del Paese e con la partecipazione responsabile di essi.
47
1.3.4. La riforma del Ministero delle Finanze
Il D.Lgs. n. 300/99 contiene una serie di disposizioni dedicate alla
trasformazione dell’amministrazione finanziaria in un insieme coordinato di ministero
“snello” e di agenzie fiscali.
La ridefinizione delle funzioni e degli aspetti organizzativi della struttura
ministeriale può essere considerata l’ultima tappa del percorso che negli ultimi anni ha
portato al varo della riforma.
Il processo di riorganizzazione del ministero delle Finanze è stato accompagnato
da dissensi che sembravano non considerare la degradazione e la paralisi in cui versava.
Qualcuno si è chiesto per quale motivo, di fronte ad una crisi riguardante tutti
gli apparati pubblici, occorresse varare un regime particolare per l’amministrazione
delle entrate. La domanda traeva ulteriore legittimazione dal fatto che, essendo in corso
una riforma generale della Pubblica Amministrazione, di essa avrebbe potuto
avvantaggiarsi anche l’amministrazione finanziaria.
In realtà numerose sono le particolarità di quest’ultima, rispetto alle altre
amministrazioni statali, che giustificano una riforma autonoma, a cominciare dalla
specificità del potere pubblico in materia tributaria.
Difatti, pur agendo come qualsiasi soggetto dotato di autorità pubblica,
l’amministrazione dei tributi è priva di poteri dispositivi in ordine alla determinazione
della prestazione fiscale dovuta dai singoli; essa non può apprezzare quegli interessi che
indurrebbero a mitigare o ad accrescere il prelievo fiscale su determinati cespiti o su
date attività.
D’altra parte, se simili poteri fossero attribuiti alla amministrazione delle finanze,
i singoli uffici sarebbero investiti di un eccessivo potere di ingerenza nei diversi settori
della vita economica e sociale. La peculiarità concettuale del potere amministrativo
tributario sta, pertanto, nel dirigersi prevalentemente all’acquisizione delle conoscenze e
all’interpretazione della legislazione sostanziale piuttosto che al contemperamento di
interessi.
Sul piano operativo, la necessità di applicare i tributi in tutti i settori della vita
economica e sociale ha prodotto una grande varietà di schemi organizzativi all’interno
dell’amministrazione finanziaria, con una molteplicità di specializzazioni diversificate e
parallele, molte delle quali estremamente approfondite, ad esempio in tema di bilancio
societario, gestione delle liti, ecc…
48
Sul piano sociologico e politico, è ormai chiaro che il profondo malessere
esistente nel nostro Paese è dipeso non dai modelli astratti dei tributi, ma
dall’inadeguatezza della amministrazione a governare un sistema che l’evoluzione
economica rende sempre più complesso.
Tutto questo rende inadeguato all’amministrazione finanziaria il modello
generale di pubblico impiego che, nel corso degli anni, si è imposto rispetto alle regole
particolari stabilite per i singoli ministeri.
Le riforme che attualmente interessano il settore dell’amministrazione pubblica
da un lato sono volte a snellire questo modello generalista, dall’altro lato tendono a
rafforzare il processo di omogeneizzazione, con i percorsi di reclutamento e di carriera
in cui prende corpo l’istituto del ruolo unico della dirigenza.
Si tratta, come si è visto, di un istituto pensato sulla figura del manager dotato di
più sensibilità e conoscenze generali che di una conoscenza specifica di un determinato
settore, intercambiabile tra un’amministrazione e l’altra. E’ chiaramente opportuno che
le doti generali del manager pubblico ed principi di efficienza, economicità, trasparenza
e imparzialità pervadano anche l’amministrazione dei tributi, ma è necessario,
comunque, tener conto del fatto che quest’educazione manageriale di carattere generale
deve essere riferita ad un contesto operativo particolare, il quale richiede un solida
conoscenza dei principi generali dell’applicazione dei tributi e delle regole procedurali
e sostanziali che caratterizzano ciascun settore dell’ordinamento tributario.
L’amministrazione finanziaria, dunque, richiede, rispetto alle altre
amministrazioni, figure professionali meritevoli di riconoscimento dirigenziali non tanto
perché dirigono un numero consistente di impiegati di livello inferiore, ma perché
operano in prima persona su problemi di grande complessità 37.
1.3.5. La nuova organizzazione ed il sistema di relazioni tra Ministero delle Finanze e
Agenzie
Occorre dire che il riordino legislativo del Ministero delle Finanze ha formato
oggetto di due distinte fasi, temporalmente definite.
In una prima, coincidente con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 300/99 (occorre
notare come, a differenza degli altri ministeri che sono stati istituiti a decorrere dalla
data del decreto di nomina del nuovo Governo, costituito a seguito delle prime elezioni
politiche successive all’entrata in vigore del D.lgs. n. 300/99, la riforma del Ministero
37 Lupi R., Le agenzie delle entrate tra legalità e flessibilità, in Rassegna tributaria n. 5/1999, pag.1437.
49
delle finanze ha avuto immediata attuazione) sono state costituite le quattro agenzie
fiscali, con l’attribuzione al ministero dei compiti di coordinamento e di politica
generale della fiscalità, procedendo, al contempo, ad attribuire ai nuovi enti tutte le
funzioni gestionali e tecnico-operative.
Con l’inizio dell’attuale legislatura (a far data, quindi, dal 13 maggio 2001) si è
aperta, invece, la seconda fase: si è attuata, cioè, l’unificazione del Ministero delle
Finanze con il Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica.
Si tratta di un nuovo ministero che provvede a riunire gli ex Ministeri del Tesoro
e del Bilancio e quello delle Finanze. Ad esso sono attribuite “le funzioni e i compiti
spettanti allo Stato in materia di politica economica, finanziaria e di bilancio,
programmazione degli investimenti pubblici, coordinamento della spese pubblica e
verifica dei suoi andamenti, politiche fiscali e sistema tributario, […]. Il Ministero
svolge altresì compiti di vigilanza su enti e attività e le funzioni relative ai rapporti con
autorità di vigilanza e di controllo previsti dalla legge”(art. 23, 2° comma, D.Lgs. n.
300/99). In questo modo, dopo quasi sessanta anni, è stato istituito un ministero che si
occupa globalmente delle funzioni in tema di entrate e di spese dello Stato (un
superministero dell’economia) che, avvalendosi delle strutture dipartimentali, svolge
funzioni di spettanza statale nelle aree di funzioni indicate nell’art. 24 del decreto
delegato. Un unico soggetto titolare delle decisioni politiche in materia di entrate e di
spesa pubblica, notevolmente alleggerito nell’organizzazione centrale degli apparati,
snello e flessibile.
Per lo svolgimento delle funzioni operative è stato scelto, come detto, di
ricorrere al modello dell’agenzia pubblica, al fine di garantire, nei processi
amministrativi utilizzati per l’attività di accertamento e di riscossione delle entrate
tributarie, l’esistenza di strutture vicine a modelli privatistici, improntate a criteri di
efficienza ed efficacia.
Un modello quest’ultimo che dovrebbe consentire di assumere in modo
tempestivo le decisioni amministrative necessarie, garantendo l’erogazione dei servizi
indispensabili per dare concreta soddisfazione ai diritti garantiti ai cittadini dalla carta
costituzionale.
In modo sintetico, possiamo affermare che per effetto della riforma introdotta
con il D.lgs. n. 300/99 si è attuata concretamente la distinzione tra i compiti di indirizzo
politico ed amministrativo ( di esclusiva spettanza del Ministro) ed i compiti gestionali
(affidati alle agenzie fiscali), assegnando al nuovo Dipartimento per le politiche fiscali
50
tutte quelle attività che, per loro natura, non possono essere oggetto del trasferimento
funzionale alle agenzie. Si tratta di attribuzioni che attengono al “governo” della politica
fiscale e trovano puntuale riscontro nel regolamento di organizzazione, emanato con
D.P.R. n. 107 del 26 marzo 2001. Quest’ultimo regolamento, emanato in forza dell’art.
58 del D.Lgs. n. 300/99, 3° comma, detta le disposizioni concernenti l’organizzazione,
la disciplina degli uffici e le dotazioni organiche del ministero: con esso è stata prevista
l’articolazione interna del Dipartimento in otto uffici di livello dirigenziale generale. Si
tratta dell’ufficio studi e politiche economiche e fiscali, dell’ufficio studi e politiche
giuridico-tributarie, dell’ufficio agenzie ed enti della fiscalità, dell’ufficio
amministrazione delle risorse, dell’ufficio relazioni internazionali, dell’ufficio per il
federalismo fiscale, dell’ufficio per la comunicazione istituzionale ed infine dell’ufficio
per il coordinamento delle tecnologie informatiche. Al Capo Dipartimento competono i
poteri di coordinamento, di direzione e di controllo nei confronti dei singoli dirigenti
degli uffici interni, la gestione complessiva delle attività istituzionali e di rappresentanza
del dipartimento e, a mente dell’art. 3, 3° comma del regolamento, il compito di
promuovere “la creazione di strutture temporanee interfunzionali per la gestione di
progetti di particolare rilievo e i processi che richiedono contributi di più strutture
operative”.
Si tratta, evidentemente, di una nuova organizzazione ministeriale in grado di
assicurare la piena realizzazione di quella netta separazione, da più parti auspicata, tra il
vertice amministrativo (titolare di tutte le funzioni di controllo e di coordinamento) e le
strutture cui compete (in un contesto, peraltro, di piena autonomia) la gestione operativa
del complesso di attività connesse al prelievo fiscale.
Si viene così a creare una rete di relazioni tra Ministro, Dipartimento e Agenzie,
nella quale al Ministro spetta l’esercizio delle funzioni di indirizzo politico nei confronti
del Dipartimento e delle Agenzie, mentre al Dipartimento è assegnato il compito di
svolgere tutte le funzioni amministrative nei confronti delle agenzie, sia in attuazione
delle direttive del ministro, sia in base alle proprie funzioni di controllo e di vigilanza.
Emerge in tal modo un vero e proprio mutamento organizzativo che,
comportando la totale dismissione di tutte le funzioni gestionali da parte dell’apparato
ministeriale, si riflette direttamente sul sistema di relazioni tra ministero e Agenzia.
E’ per questo motivo che uno dei settori cruciali dell’attività del dipartimento
ministeriale è sicuramente quello della negoziazione, in sede di convenzione annuale,
51
degli obiettivi che le Agenzie sono tenute a realizzare e della successiva verifica dei
risultati della gestione.
L’aspetto della negoziazione e il grado di effettiva autonomia delle agenzie, nel
quadro del conseguimento di precisi risultati in termini di gettito fiscale, e più in
generale di efficienza gestionale, rappresentano i punti di maggiore interesse nello
sviluppo del futuro andamento dei rapporti funzionali tra ministero e Agenzie fiscali.
Nell’ambito di questo complesso sistema di relazioni, altro punto di rilievo è la
funzione di coordinamento nella quale vengono ricomprese tutte quelle attribuzioni,
proprie delle prerogative di indirizzo politico, che il vertice amministrativo detiene nei
confronti dell’attività gestionale propria delle Agenzie e che non rientrano nel quadro
dell’attività negoziata attraverso le convenzioni. Tale coordinamento deve essere inteso
sia come coordinamento esterno (nei confronti dei soggetti terzi operanti nel campo
della fiscalità) sia all’interno dei rapporti tra le stesse Agenzie.
Il cambiamento che investe l’Amministrazione finanziaria ha l’ambizione di
modificare e innovare il funzionamento delle strutture, dei meccanismi decisionali e
delle prassi lavorative.
Tutto questo richiede non solo l’apprendimento di nuovi metodi di lavoro e
l’acquisizione di nuove competenze, ma anche un cambiamento della mentalità, degli
stili di management e di comunicazione.
A tal fine è necessario che la riforma stessa venga condivisa e coinvolga,
ottenendo la partecipazione, tutto il management e i dipendenti.
Se l’opera di ridefinizione delle strutture e delle competenze del ministero
“snello” può considerarsi ultimata, è pur vero che rimangono da verificare le incognite
connesse al funzionamento del rapporto Ministero- Agenzie, nel quadro di una riforma
che ha portato ad un forte ridimensionamento del vertice amministrativo dell’apparato
fiscale ma, nel contempo, ha mantenuto le sue fondamentali funzioni di indirizzo e di
controllo gestionale.
1.3.6. Le Agenzie fiscali
La costituzione delle Agenzie fiscali rappresenta uno dei processi di maggiore
rilevanza e complessità nel quadro dell’opera di riorganizzazione del Ministero delle
Finanze.
L’art. 57 del D.Lgs. n. 300/99 attribuisce alle Agenzie fiscali le funzioni già di
competenza dei dipartimenti delle entrate, delle dogane e del territorio, prevedendo la
52
costituzione rispettivamente dell’Agenzia delle Entrate, Agenzia delle Dogane, Agenzia
del Territorio e Agenzia del demanio. In particolare il Dipartimento del territorio è stato
sdoppiato in due agenzie, viste le diverse funzioni svolte dalla parte più consistente,
dedicata ai servizi catastali, rispetto a quella meno numerosa, come addetti, adibita alla
gestione del demanio.
L’Agenzia delle Entrate persegue il miglior livello di adempimento degli
obblighi fiscali attraverso l’assistenza ai contribuenti e il contrasto degli inadempimenti
e dell’evasione; provvede ad amministrare e gestire la riscossione e il contenzioso dei
tributi diretti, dell’IVA e di tutte le entrate erariali di competenza del Dipartimento.
L’Agenzia delle Dogane amministra e gestisce la riscossione e il contenzioso dei
diritti doganali e della fiscalità interna negli scambi internazionali; opera in stretta
collaborazione con gli organi dell’Unione Europea; gestisce i laboratori doganali di
analisi e può offrire sul mercato le relative prestazioni.
L’Agenzia del Territorio gestisce i servizi relativi al catasto, i servizi
geotopografici e quelli relativi alle conservatorie; costituisce l’anagrafe dei beni
immobiliari esistenti sul territorio nazionale; opera in stretta collaborazione con gli enti
locali per favorire lo sviluppo di un sistema integrato di conoscenze sul territorio.
L’Agenzia del Demanio amministra i beni immobili dello Stato con il compito di
realizzarne e valorizzarne l’impiego; gestisce i programmi di vendita, di provvista, di
utilizzo e manutenzione di tali immobili.
Il decreto di riforma detta una disciplina generale per le agenzie, prevedendone,
tuttavia, l’applicazione solo in via residuale alle Agenzie fiscali, per le quali viene
introdotta una disciplina derogatoria.
Le Agenzie fiscali hanno, per espressa disposizione di legge, personalità di
diritto pubblico, godono di autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale,
organizzativa, contabile e finanziaria.
Esse operano, nell’esercizio delle funzioni pubbliche loro affidate, sulla base dei
principi di legalità, imparzialità e trasparenza, con criteri di efficienza, economicità ed
efficacia, nel perseguimento delle rispettive missioni, secondo un modello orientato su
obiettivi da raggiungere piuttosto che su adempimenti da attuare. Il che rivela il
passaggio, più volte sottolineato in corso di trattazione, da una amministrazione che
agisce per adempimenti ad un’amministrazione per obiettivi e risultati.
I rapporti tra ciascuna agenzia e il ministero sono regolati, per ogni esercizio
finanziario, da convenzioni stipulate in coerenza con il documento di indirizzo con il
53
quale il Ministro determina annualmente - in conformità a quanto stabilito nel
documento di programmazione economica e finanziaria approvato dal Parlamento - gli
sviluppi della politica fiscale, le linee generali e gli obiettivi della gestione tributaria, le
grandezze finanziarie e le altre condizioni in base alle quali si sviluppa l’attività delle
Agenzie.
In ciascuna convenzione sono indicati i servizi dovuti e gli obiettivi da
raggiungere; le direttive generali sui criteri di gestione e i vincoli da rispettare; le
strategie per il miglioramento, le risorse disponibili; gli indicatori e i parametri in base
ai quali misurare l’andamento della gestione, le modalità di verifica dei risultati di
gestione, le disposizioni necessarie per assicurare al Ministro la conoscenza dei fattori
gestionali.
Dal punto di vista dell’organizzazione interna l’art. 67 stabilisce che
costituiscono organi delle agenzie fiscali il direttore, il comitato direttivo ed il collegio
dei revisori dei conti. A questi organi è naturalmente attribuito il complesso dei compiti
previsti dalle norme vigenti.
Il Direttore è nominato con decreto del presidente della Repubblica, previa
deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro delle Finanze, sentita
la conferenza unificata Stato-Regioni-Autonomie locali, e dura in carico massimo
cinque anni. Egli rappresenta l’agenzia e la dirige, emana tutti i provvedimenti che non
siano di competenza di altri organi.
Il Comitato direttivo è nominato con le medesime modalità e per la stessa durata.
Secondo il dettato dell’art. 68, il comitato delibera, su proposta del direttore, lo Statuto,
i regolamenti e gli altri atti di carattere generale che regolano il funzionamento
dell’agenzia, i bilanci preventivi e consuntivi, i piani aziendali, ecc..
In particolare, assume una particolare posizione lo statuto, atto che viene
deliberato dal comitato direttivo dell’ente e successivamente approvato dal Ministro
competente. Non si tratta di un atto che provvede a disciplinare l’organizzazione interna
dell’agenzia fiscale (per essa, infatti, soccorrono in maniera dettagliata le disposizioni
legislative del D.Lgs. n. 300/99), bensì i fini istituzionali dell’ente, le attribuzioni degli
organi e i rapporti tra gli stessi. Questo costituisce un elemento di differenziazione delle
agenzie fiscali, in quanto gli statuti relativi alle altre agenzie sono emanati con
regolamento di delegificazione. Si tratta di statuti cosiddetti leggeri poiché individuano
la mission e delineano la struttura dell’agenzia, mentre l’organizzazione è definita in
dettaglio con disposizioni interne che si conformano alla conduzione aziendale
54
favorendo il decentramento delle responsabilità operative, la semplificazione dei
rapporti con i cittadini e il soddisfacimento delle necessità dei contribuenti, nel rispetto
dei criteri di economicità ed efficienza dei servizi.
Ma è soprattutto sul piano dell’autonomia patrimoniale che viene ad evidenziarsi
una delle più marcate differenze tra “l’Agenzia”, così come intesa nel D.Lgs. n. 300/99,
e le Agenzie fiscali (V. figura 2). Alla prima, in effetti, è assicurata un’autonomia di
bilancio nei limiti dei fondi stanziati in un’apposita unità previsionale di base del
ministero competente; alle seconde, invece, è riconosciuta una dotazione finanziaria
rappresentata dalle risorse trasferite dalle amministrazioni e dagli enti dei quali le
agenzie assumono le funzioni, dagli introiti derivanti dai contratti stipulati con le
amministrazioni per le prestazioni di collaborazione, consulenza, assistenza, servizio,
supporto, promozione ed, infine, da un finanziamento annuale a carico del ministero
competente, suddiviso in distinti capitoli per spese di gestione, spese di investimento e
quota incentivante connessa al raggiungimento degli obiettivi gestionali.
Figura 2
3.3. L’INPS
55
1.3.7. L’INPS: mission, funzioni e ruolo nel Welfare italiano
L’INPS (Istituto Nazionale della Previdenza sociale) rappresenta la realtà
organizzativa più importante nel sistema di welfare italiano e costituisce il cardine del
sistema previdenziale ed assistenziale.
Nel contesto della Pubblica Amministrazione l’INPS si colloca tra gli enti
pubblici non economici erogatori di servizi, cioè tra quegli enti che, pur non svolgendo
attività economica, si atteggiano per caratteristiche e modalità di funzionamento come
“aziende di servizio”.
La mission dell’INPS storicamente è stata costituita dalla gestione ed erogazione
di servizi connessi con la previdenza obbligatoria, a partire dalla riscossione dei relativi
contributi, allargandosi nel tempo anche a ricomprendere la gestione e l’erogazione
delle forme di assistenza con le quali lo Stato ha inteso fornire risposta alle situazioni di
crisi sul piano occupazionale, della riconversione industriale, o su quello più
strettamente “sociale”.
La ridefinizione della mission è avvenuta in seguito alla legge di riforma
pensionistica, L. n. 335/95, che ha allargato il “mercato della previdenza”, fino ad allora
quasi esclusivamente pubblico, a differenti soggetti pubblici e privati( in materia di
previdenza complementare), e ad altri interventi normativi in materia di unificazione
delle basi imponibili, della riscossione d’imposte e contributi, nonché del recupero
coattivo dei crediti.
In particolare, la L. n. 335/95, avendo introdotto elementi di variabilità nella
definizione del diritto alle prestazioni che si differenziano notevolmente a seconda delle
situazioni personali, ha spinto l’Istituto a riorganizzarsi per fornire servizi personalizzati
e attività di consulenza.
L’efficienza e l’efficacia del sistema di previdenza (obbligatorio e/o integrativo-
complementare) che costituisce il prodotto-servizio principale dell’INPS, sarà al centro
delle politiche dei governi poiché rappresenta una parte rilevante e significativa del
Welfare State dei paesi europei 38.
L’INPS, più di altri Enti, in questi anni, per l’attività che svolge è stato, ed è,
sotto i riflettori del Governo, del Parlamento e dell’opinione pubblica ed ha dovuto
affrontare le nuove sfide connesse al processo di cambiamento delle Pubbliche
Amministrazioni.
38 Cocozza A., “Oltre l’ordinaria amministrazione. Gestione delle risorse umane e relazioni sindacali nei processi di trasformazione delle pubbliche amministrazioni”, Industria e Sindacato, 1997, pag.12.
56
La complessa attività dell’Ente, che si manifesta essenzialmente nell’erogazione
delle prestazioni di natura previdenziale e assistenziale e nella riscossione dei tributi,
interessa praticamente tutti gli strati della popolazione e i settori dell’economia.
A ciò occorre aggiungere che, nel corso degli anni, sono stati affidati all’INPS
compiti progressivamente crescenti che hanno ampliato notevolmente la sfera
dell’attività istituzionale dell’Ente nel campo della sicurezza sociale.
Nel panorama tecnologico, socio-economico e del Welfare State in mutamento,
l’Inps si configura oggi come una impresa rete (V. figura 3) e come un importante polo
informatico pubblico, al centro di un network di soggetti privati e pubblici che
costituiscono il sistema previdenziale ed assistenziale italiano.
La recente legislazione in materia assistenziale ha affidato all’INPS il compito di
costituire e gestire una banca centrale di dati inerenti i redditi e di provvedere al calcolo
dell’indicatore della situazione economica (ISEE): in tale contesto l’Istituto può mettersi
al servizio di tutte quelle amministrazioni centrali e periferiche che distribuiscono quote
di stato sociale, non solo come portatore di dati ma come struttura intelligente capace di
integrarli, a seconda delle diverse tipologie di prestazioni, e di favorire una equa
distribuzione del Welfare.
Strumentale al perseguimento di questi obiettivi, per le diverse macroaree in cui
l’INPS svolga la sua attività, è la realizzazione del nuovo disegno organizzativo
dell’Ente, fondato sull’organizzazione del lavoro per processi, quale presupposto per la
ricompattazione delle attività che compongono il processo di gestione conto
Cocozza (2003) 7
Figura 3. Istituto N azionale della Previdenza Sociale
F igura 3. Istituto N azionale della Previdenza Sociale
V alorizzazione personaleV alorizzazione personale
Sviluppo “ azienda rete “Sviluppo “ azienda rete “ ( integrazione in terna ( integrazione in terna
e con l’am biente)e con l’am biente)
Integrazione conIntegrazione con le Pubbliche A m m in istrazion i le Pubbliche A m m in istrazion i
in o ttica d i sistem a paesein ottica d i sistem a paese
A m pliam entoA m pliam entocom petenze com petenze
IN P SIN P S
E quilibrio finanziarioE quilibrio finanziarioed econom icità di gestioneed econom icità di gestione
C LIEN T EC LIEN T EIN T E R N E TIN T E R N E T
P O R T A L E IN PSP O R T A L E IN PS
O rganizzazione per O rganizzazione per unità di processounità di processo
57
assicurato/pensionato e il processo conto/aziende. Tale modello è ispirato inoltre ai
principi di decentramento decisionale e territoriale, al governo dello sviluppo
organizzativo, al coinvolgimento generalizzato di tutti i livelli (strutture-ruoli) nel
conseguimento degli obiettivi, affinché l’Istituto si posizioni ai massimi livelli di qualità
e tempestività nell’erogazione e servizi e divenga punto di riferimento nell’ambito della
Pubblica Amministrazione.
1.3.8. L’assetto istituzionale dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale
a) Gli organi
Il modello gestionale delineato dalla L. n. 88/89, impronta la propria attività a
criteri di economicità, imprenditorialità ed efficienza. Questa scelta di fondo ha
comportato la ridefinizione del modello di operare, incentrato, oltre che sul rispetto
della legittimità degli atti, sulla cultura del risultato e di soddisfazione dei bisogni del
cittadino, nonché il coerente ridisegno di tutte le componenti dell’organizzazione.
Con la nuova configurazione organizzativa tracciata dal D.Lgs. n. 479/94, e dal
recente Regolamento di organizzazione ( Delibera n. 380/2000 del Consiglio di
Amministrazione dell’INPS), si passa ad un assetto fondato sulla distinzione netta tra
funzioni di indirizzo e vigilanza da un lato, e di gestione dall’altro, in cui le parti sociali
non sono più rappresentate, come in passato , negli organi di amministrazione (
Consiglio di Amministrazione), bensì nel Consiglio di Indirizzo e Vigilanza, che non
riveste funzioni di carattere gestionale.
Ai sensi delle succitate normative sono organi dell’Istituto:
- il Presidente
- il Consiglio di Amministrazione
- il Consiglio di Indirizzo e Vigilanza
- il Collegio dei Sindaci
- il Direttore Generale.
Il Presidente dell’INPS ha la rappresentanza legale dell’Ente, convoca e presiede
il Consiglio di Amministrazione, assiste alle sedute del Consiglio di Indirizzo e
Vigilanza, rappresenta l’Istituto nelle trattative sindacali a livello nazionale, assicura il
raccordo tra gli organi dell’INPS e cura i rapporti dell’Ente con istituzioni nazionali ed
estere.
Il Consiglio di Amministrazione, composto dal Presidente dell’Ente e da sei
esperti, di cui due scelti tra i dirigenti della Pubblica Amministrazione, definisce le
58
politiche e le strategie dell’INPS, predispone i piani pluriennali, il bilancio preventivo e
il conto consuntivo, approva i piani annuali di attività e di impiego dei fondi disponibili
nell’ambito della programmazione, definisce il Regolamento di organizzazione,
l’Ordinamento dei servizi e determina la dotazione organica dell’Istituto, approva i
regolamenti di amministrazione e contabilità, attribuisce gli incarichi di funzioni di
livello dirigenziale generale.
Il Consiglio di Indirizzo e Vigilanza, composto da rappresentanti delle
Confederazioni sindacali di lavoratori dipendenti e delle Organizzazioni dei datori di
lavoro e dei lavoratori autonomi, definisce i programmi e individua le linee di indirizzo
generale dell’Ente, determina gli obiettivi strategici pluriennali, approva il bilancio
preventivo ed il conto consuntivo, emana le direttive di carattere generale relative
all’attività dell’Istituto, esercita la funzione di vigilanza e controllo.
Il Direttore generale è responsabile dell’attuazione delle deliberazioni del
Consiglio di Amministrazione, sovrintende al personale e all’organizzazione dei servizi,
ha la responsabilità delle attività dirette al conseguimento dei risultati e degli obiettivi,
coordina e sovrintende gli uffici e le funzioni di livello generale centrale e le Direzioni
regionali.
Il Collegio dei Sindaci controlla l’amministrazione dell’Istituto, vigila
sull’osservanza della legge, accerta la regolare tenuta della contabilità e la
corrispondenza del bilancio alle scritture contabili.
L’Ente, infine, è sottoposto al controllo sulla gestione esercitato dalla Corte dei
Conti attraverso un magistrato che riferisce al Parlamento sull’efficienza economica e
finanziaria dell’attività svolta.
b) L’articolazione della struttura organizzativa dell’INPS
Il nuovo modello organizzativo dell’INPS, in base alle delibere del Consiglio di
Amministrazione n. 799 del 1998 e n. 380 del 2000, si articola su tre livelli. Si è,
pertanto, passati da un modello di azienda “lunga” e disomogenea sotto il profilo delle
modalità di organizzazione e produzione, ad un modello di azienda “corta” e “piatta”
fondata sul decentramento decisionale (il processo produttivo viene organizzato su un
unico livello di articolazione territoriale ed affidato ad una struttura di produzione snella
e sburocratizzata, l’Agenzia), e sulla semplificazione della piramide gerarchica.
Il primo dei tre livelli di cui consta l’architettura dell’Ente è rappresentato dalla
Direzione Generale, centro direzionale del sistema INPS, con sede a Roma, il cui ruolo
59
si sostanzia nel presidio della missione istituzionale, nel coordinamento e controllo delle
politiche gestionali sull’intero territorio nazionale, e nel supporto propositivo, di analisi
normativa e di conoscenza del quadro socio-economico e di contesto aziendale, agli
organi dell’Istituto.
Tali indirizzi configurano la Direzione Generale come il livello organizzativo
che, delegati i compiti operativi e di produzione agli altri livelli, garantisce lo
svolgimento dei processi diretti ad individuare i fini dell’azienda, innovare i servizi,
implementare le strategie, controllare e coordinare le attività. Essa si articola in sette
Direzioni Centrali, che coordinano il territorio con responsabilità globali su tutte le fasi
del ciclo produttivo, Progetti e Coordinamenti generali professionali.
Al secondo livello si situano le Direzioni regionali, con sede nei capoluoghi di
ogni regione, che costituiscono centri di coordinamento e di supporto alle strutture
operative operanti nella regione, di verifica delle attività produttive e di gestione delle
relative risorse.
Presso ciascuna Direzione regionale, inoltre, è costituita la conferenza regionale
dei Direttori, presieduta dal Direttore regionale, con la funzione di realizzare la
programmazione, l’integrazione e lo sviluppo equilibrato dei livelli di servizio in tutte le
strutture della regione.
Il nuovo Regolamento di Organizzazione, approvato con Delibera n. 380 del 5
luglio 2000, prevede come terzo livello di articolazione territoriale, le Direzioni
territoriali subregionali, comprendenti le Direzioni provinciali (facenti capo ad un
dirigente) e subprovinciali, preposte al coordinamento e al controllo della produzione e
dell’erogazione dei servizi all’interno delle rispettive strutture e presso le Agenzie di
produzione rientranti nel proprio comprensorio.
Le attività produttive, dunque, si svolgono all’interno delle Direzioni territoriali
subregionali, oppure sono decentrate presso le Agenzie di produzione (dirette da un
funzionario), e comprendono l’intero ciclo operativo mediante il quale si assolvono le
funzioni istituzionali di riscossione dei contributi, di erogazione delle prestazioni e delle
connesse attività amministrative e contabili. All’interno di questo livello, il Direttore
provinciale esercita le funzioni di governo delle risorse umane, strumentali e logistiche,
gestione della comunicazione esterna ed interna, controllo della produzione e della
qualità dei servizi, gestione degli assetti organizzativi e della rete informativa, gestione
e sviluppo dell’azione formativa, analisi e monitoraggio dei flussi contabili e finanziari,
gestione dell’attività di vigilanza e delle sofferenze creditizie.
60
L’attuale architettura organizzativa dell’Istituto si presenta, in tal modo, come
attuazione dei principi di sussidiarietà e di decentramento decisionale, realizzando
l’avvicinamento del servizio al cittadino/cliente con intervento del livello superiore solo
in caso di inerzia o di disfunzioni delle strutture operative.
1.3.9. La riorganizzazione per processi nell’INPS
L’INPS, a partire da primi anni ’90, per fronteggiare la mutazione qualitativa
della richiesta di servizio in un quadro generale di contenimento della spesa pubblica
che ha interessato tutte le Pubbliche Amministrazioni 39, ha avviato progetti di
riconsiderazione del modello organizzativo, tendendo a sviluppare un assetto basato
sulla riduzione dei livelli gerarchici, sull’integrazione delle attività, sull’ampliamento e
l’arricchimento delle posizioni di lavoro impegnate nel processo di erogazione del
servizio, sul decentramento territoriale dei servizi e sulla riduzione delle attività di
supporto al processo produttivo.
Leva principale del mutamento organizzativo nell’INPS, in una strategia
complessiva di qualità totale del servizio, è stata la soddisfazione del cliente.
Poter soddisfare le esigenze del cliente/cittadino diventa l’obiettivo strategico
dell’Ente pubblico, il che comporta un cambiamento nella mentalità e nella cultura
dell’organizzazione, ma anche nella struttura e nel modo di lavorare. Inoltre, la sempre
più accentuata contrazione delle risorse umane, per effetto dei numerosi pensionamenti
non supportati da un adeguato turn-over, e la profonda modifica dei livelli di sevizio
richiesti dal contesto socio-economico per effetto delle leggi di riforma previdenziale, e,
più in generale, dell’esigenza di un diverso ruolo della Pubblica Amministrazione,
comportano la necessità di una ottimizzazione nell’utilizzo delle risorse e di interventi
di razionalizzazione delle modalità organizzative ed operative.
Queste ragioni hanno condotto nel corso del 1996 alla definizione di un progetto
operativo, finanziato anche dal Dipartimento per la funzione pubblica, basato sulla
logica di lavoro per processi, che è stata oggetto di sperimentazione prima presso alcune
sedi pilota e successivamente nella generalità delle strutture dell’Istituto.
L’obiettivo fissato era quello di superare l’obsoleto modello funzionale per
pervenire ad una organizzazione per processi, in modo da raggiungere miglioramenti
radicali di performance nello svolgimento delle proprie attività istituzionali.
39 Ongaro E., “L’organizzazione per processi delle Amministrazioni Pubbliche”, in Sviluppo e Organizzazione, n.182, Milano, 2000.
61
Un’azienda lavora per processi se la sua organizzazione è strutturata sulle attività
piuttosto che sulle aree di competenza (funzioni). Un processo può essere definito come
l’insieme delle attività collegate necessarie per raggiungere un obiettivo aziendale, e
come l’insieme della attività da svolgere per soddisfare le esigenze del cliente.
Mentre nell’organizzazione funzionale vi è una divisione del lavoro per aree di
competenza ben delineate sulla base dell’erogazione di un determinato prodotto al
cliente, in cui ogni funzione lavora in maniera indipendente dalle altre, con il rischio di
carente comunicazione trasversale e, quindi, a “compartimenti stagni”,
nell’organizzazione per processi la divisione del lavoro si fonda sulle attività orientate
alla fornitura di servizi integrati ad una certa tipologia di cliente, in un’ottica, per
l’appunto, di processo, ossia globale, e non settorializzata e parcellizzata.
La visione globale dell’Istituto in termini di processo supera, dunque, la
preesistente descrizione delle attività per funzioni(raggruppamento per attività simili a
seconda dei tipi di compiti e competenze), in quanto ricostruisce le attività lavorative ed
il flusso delle informazioni partendo dal risultato, dalla soddisfazione del bisogno.
Assumere un approccio di processo vuol dire adottare il punto di vista del cliente/utente,
in quanto i processi rappresentano le strutture organizzative per mezzo delle quali un
ente pubblico o un’azienda espletano le attività destinate a produrre valore per i
cittadini/clienti.
Nel 1998 la logica organizzativa del lavoro per processi è stata recepita nel
regolamento di Organizzazione dell’INPS e, in applicazione delle previsioni di
attuazione del nuovo modello organizzativo, è stato definito un percorso, che ha
comportato nel corso degli anni successivi lo sviluppo di fasi e di attività per consentire
la costituzione di strutture integrate su segmenti dell’intero processo di lavoro e,
attualmente, una fase, non ancora interamente compiuta, di integrazione piena dei
segmenti del processo di lavoro con la conseguente configurazione di profili
professionali fungibili e polivalenti.
L’obiettivo primario della riforma dell’organizzazione del sistema INPS è quello
di dar vita ad un’Impresa rete che, superando le tradizionali strutture basate sulla
specializzazione e sulla stratificazione dei livelli gerarchici, si articoli per moduli
organizzativi semiautonomi (unità di processo) che gestiscono i processi primari e di
supporto dell’Ente, al cui interno le attività sono svolte da gruppi di operatori
responsabili del raggiungimento degli obiettivi e sostanzialmente autonomi nel definire
i comportamenti per raggiungerli.
62
In conclusione, il mutamento del ruolo dell’INPS da organismo deputato
all’applicazione della normativa previdenziale e assistenziale a soggetto imprenditore
orientato al soddisfacimento della domanda proveniente dal cliente/utente, ha reso
imprescindibile la modificazione della configurazione aziendale, attraverso l’abbandono
del pregresso modello funzionale/divisionale a più livelli gerarchici e l’adozione di un
modello innovativo per processi che colloca l’Ente in un’ottica di efficienza sistemica
finalizzata a fornire servizi rapidi, flessibili, a basso costo e in una logica orientata alla
c.d. customer satisfaction. (V. figura 4) 40.
1.3.10. L’individuazione dei processi svolti nelle strutture operative.
L’art.2 1 del Regolamento d’Organizzazione, approvato dal Consiglio
d’Amministrazione con deliberazione n. 380/2000, ha introdotto alcune innovazioni
concernenti le funzioni di produzione.
Esso stabilisce, infatti, che le attività produttive, che comprendono l’intero ciclo
operativo mediante il quale si assolvono le funzioni istituzionali di riscossione dei
contributi, l’erogazione delle prestazioni previdenziali e assistenziali e le connesse
40 I.N.P.S. L’esperienza INPS nell’ambito della Pianificazione e del controllo di Gestione. Relazione introduttiva al Convegno di Taormina (ME).
Cocozza (2003) 8
• SNELLIMENTO DELLE STRUTTURE CENTRALI E DECENTRAMENTO DI FUNZIONIPOTERI E RESPONSABILITA’ VERSO LE STRUTTURE PERIFERICHE
• DISTINZIONE TRA COMPITI RISERVATI AGLI ORGANI E COMPITI RISERVATI ALLADIRIGENZA
• FUNZIONALITA’ COMPLESSIVA DELL’ISTITUTO RISPETTO AI COMPITI E AIPROGRAMMI DIATTIVITA’, NEL PERSEGUIMENTO DEGLI OBIETTIVI DI EFFICIENZA, EFFICACIA EDECONOMICITA’
• AMPIA FLESSIBILITA’ PER GARANTIRE ADEGUATA AUTONOMIA OPERATIVA EGESTIONALE ALLA DIRIGENZA
• INTEGRAZIONE E COORDINAMENTO UNITARIO DEI PROCESSI DI COMUNICAZIONE, INLINEACON IL DOVERE DI COMUNICAZIONE INTERNA ED ESTERNA
• INTEGRAZIONE E COLLEGAMENTO DELL’ATTIVITA’ DELLE STRUTTURE, ANCHEATTRAVERSOL’INTERCONNESSIONE CON L’ESTERNO MEDIANTE SISTEMI INFORMATICI ESTATISTICI, COSI’DA GARANTIRE IL MONITORAGGIO E LA VALUTAZIONE DELL’ATTIVITA’ SVOLTA
• IMPARZIALITA’ E TRASPARENZA DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA
Figura 4 INDIRIZZI E OBIETTIVI DELLA RIORGANIZZAZIONE
Figura 4 INDIRIZZI E OBIETTIVI DELLA RIORGANIZZAZIONE
63
attività amministrative e contabili, si realizzano mediante Unità di Processo (struttura
organizzativa di base), riunite in teams (gruppi di processo) ed incaricate dei seguenti
Processi primari:
-processo assicurato-pensionato, quale complesso di attività inerenti alla
costituzione, variazione ed utilizzo del conto assicurativo, che si realizza sia con il
compimento delle richieste di servizio sia con la consulenza;
- processo conto-aziende, quale complesso di attività operative ed informative
che riguardanti tutti gli aspetti del rapporto contributivo, dalla fase costitutiva a quella
conclusiva, compresa la gestione dei crediti ed il loro recupero e tutti i rapporti di natura
tecnica, amministrativa e contabile nascenti dall’obbligo contributivo;
- processo prestazioni a sostegno del reddito, quale complesso di attività inerenti
alla diminuzione della capacità lavorativa, alla sospensione/cessazione del rapporto di
lavoro, nonché alle prestazioni a sostegno del reddito.
L’unità organizzativa di base, nell’organizzazione per processi, è stata
individuata nell’unità di processo, modulo organizzativo al cui interno operano persone
con responsabilità condivisa dei risultati e che detengono, collettivamente, tutte le
competenze necessarie per fornire i servizi richiesti dal cliente di riferimento.
L’operatore diviene, pertanto, “gestore di processo”, con una padronanza
complessiva delle stesso; ciò gli consente di rispondere in maniera efficace ai bisogni
manifestati dal cliente, sempre più attento ad un servizio che possa essergli fornito da un
“punto unitario di erogazione” (V. figura 5).
Mentre i processi primari sono quelli attraverso i quali l’organizzazione assicura
la realizzazione dei propri obiettivi strategici e, in sostanza, l’adempimento della propria
missione istituzionale, rivolgendosi ad un cliente esterno ad essa (il cittadino/utente), i
Processi abilitanti o di supporto si caratterizzano per essere al servizio dei processi
primari, al fine di garantirne la funzionalità, l’efficacia e l’efficienza. Essi, infatti, sono
finalizzati da un lato, alla definizione delle strategie di servizio, coordinamento,
controllo e supervisione dei processi primari, dall’altro, all’offerta di servizi a strutture e
ruoli interni, allo scopo di acquisire, gestire e sviluppare le risorse necessarie ai processi
primari.
Nella circolare n. 2 del 2001, emessa dalla Direzione Generale dell’Istituto, i
processi abilitanti o di supporto sono configurati come l’insieme delle attività
riconducibili alle seguenti aree:
64
- Area Risorse, quale complesso di attività inerenti alla gestione dei flussi
finanziari e contabili, in entrata e uscita, la gestione e lo sviluppo delle risorse umane, le
relazioni sindacali, l’acquisizione e la gestione delle risorse strumentali;
- Area Controllo, quale complesso di attività legate al monitoraggio costante
dell’efficienza, efficacia ed economicità della gestione della Sede secondo standard
prefissati, all’analisi dei processi e delle criticità che essi presentano, alla valutazione,
alla prevenzione dei rischi aziendali;
- Area Comunicazione, quale complesso di attività connesse all’organizzazione
dei servizi all’utenza.
1.3.11. I nuovi compiti della dirigenza dell’INPS
Con riferimento più diretto all’oggetto della nostra analisi, occorre dire che
l’adozione del modello di organizzazione per processi ha determinato la revisione del
ruolo della dirigenza all’interno del sistema INPS ed un ripensamento dei contenuti
delle funzioni manageriali, in aderenza alla nuova missione istituzionale dell’Ente ed in
linea con i principi sanciti dal D.Lgs. n. 29/93 e successive modifiche e integrazioni.
Un’azienda orientata al cliente, quale è oggi l’INPS, necessita di valori di
management fondati, da un lato, sul piano culturale, sulla responsabilità di risultato,
Cocozza (2003) 10
Figura 5L’ORGANIZZAZIONE PER PROCESSI
Figura 5L’ORGANIZZAZIONE PER PROCESSI
APPIATTIMENTODELLA STRUTTURA
ACCORCIAMENTODELLA STRUTTURA
AMPLIAMENTODELLE RESPONSABILITA’
Quale passaggio?
65
dall’altro, sullo sviluppo della capacità di fornire una risposta alle esigenze dei
cittadini/utenti in termini di qualità dei servizi e di prodotti innovativi.
In tale contesto, caratterizzato, peraltro dal trasferimento della funzione di
produzione in capo al responsabile di processo, (c.d. “process owner”, è colui che ha il
compito di collegare ed integrare le singole attività rientranti in un determinato
processo, controllarle e assicurarne la funzionalità. Il ruolo di responsabile di processo è
affidato a funzionari scelti tra gli appartenenti alle posizioni apicali che vengono
nominati dal Direttore Regionale sulla base delle loro competenze professionali, del
potenziale di capacità e del curriculum) si richiede al dirigente di essere un leader in
grado di gestire efficacemente le variabili e di adottare, all’interno degli obiettivi
assegnati, le scelte organizzative più idonee in rapporto alle risorse a disposizione, con
piena responsabilità del risultato complessivo.
Il suo obiettivo è quello di garantire la trasparenza e la qualità dei servizi e
l’economicità della gestione.
A tale scopo, tra i suoi compiti è fondamentale quello inerente all’analisi delle
esigenze del contesto ambientale in cui si trova ad operare e alla valutazione integrata
delle risorse di budget disponibili in termini di combinazione dei fattori produttivi
(risorse umane, tecnologiche, logistiche), nonché quello di sviluppo di meccanismi di
integrazione, sia nei rapporti con le altre istituzioni al fine di realizzare sinergie di
ottimizzazione dei servizi, sia nei rapporti con le parti sociali coinvolte nell’attività
istituzionale.
In coerenza con la logica della riorganizzazione per processi, la mappa delle
responsabilità gestionali della dirigenza dell’INPS va configurata in relazione alla
specificità dei ruoli ricoperti nei tre livelli di governo del sistema organizzativo.
Le responsabilità della dirigenza centrale (Dirigenza Generale) attengono ai
processi direzionali di sua pertinenza, sia in rapporto alle funzioni di consulenza degli
organi di vertice dell’Ente, sia a quelle di governo strategico complessivo delle attività
istituzionali.
Le responsabilità della dirigenza intermedia (Direzione Regionale) è connessa ai
compiti svolti in sede di pianificazione operativa, di gestione delle risorse, di controllo e
coordinamento dei processi di produzione per assicurare uniformità di comportamenti e
livelli standardizzati di servizio sul territorio di propria competenza.
La dirigenza periferica (Direzioni Provinciali e Subprovinciali) costituisce il vero
e proprio polo di responsabilità della gestione operativa, disponendo, attraverso lo
66
strumento del budget di gestione, di tutte le leve necessarie ad assicurare le azioni di
sviluppo organizzativo, l’efficiente utilizzazione delle risorse, il soddisfacimento delle
aspettative di servizio dell’utenza.
Nel nuovo sistema organizzativo, essenziale è, senz’altro, il rapporto
intercorrente tra dirigente e responsabile di processo.
L’art. 36 del regolamento di Organizzazione, oltre alle citate funzioni di carattere
prettamente manageriale, affida alla dirigenza il compito di dirigere, coordinare e
controllare l’attività dei responsabili di processo da essi dipendenti. L’articolo
successivo del Regolamento, inoltre, prescrive che i dirigenti sono responsabili dei
risultati dell’attività svolta dagli uffici ai quali sono preposti e sono revocati
dall’incarico in caso di risultati negativi dell’attività amministrativa.
A sua volta, l’art. 24 del Regolamento, con riferimento al responsabile di
processo, prevede che egli debba rispondere al Direttore provinciale o subprovinciale
competente al raggiungimento degli obiettivi di produzione e del rispetto degli standard
qualitativi e quantitativi nella produzione e nell’erogazione del servizio.
Dall’insieme delle disposizioni citate si evince che il dirigente, pur essendo
sganciato dalla gestione del singolo processo produttivo, è responsabile dei risultati
complessivi della gestione.
Le unità di processo sono semiautonome, nel senso che gestiscono con una certa
autonomia e discrezionalità nei confronti della dirigenza i singoli processi, ma il
responsabile di processo risponde al dirigente di struttura della realizzazione degli
obiettivi di produzione assegnati, della corretta applicazione delle direttive impartite dai
dirigenti, dell’uso delle risorse stanziate. Vi è, dunque, un’evoluzione della figura
dirigenziale conseguente al passaggio da un’organizzazione piramidale e parcellizzata
ad una piatta in cui si attenua il rapporto gerarchico: il dirigente non è più responsabile
del procedimento e del singolo prodotto, ma gestore di risorse, manager,
“corresponsabile” dei risultati dell’attività produttiva insieme al funzionariato, cui è
attribuita nel nuovo sistema la competenza ad emanare i provvedimenti relativi al
processo.
In tale contesto l’assegnazione del budget di gestione, quale insieme di obiettivi,
risorse e stanziamenti coerenti con l’esercizio delle funzioni e dei risultati da
conseguire, costituisce la premessa necessaria per valorizzare e fare emergere le
capacità di direzione e di organizzazione, di proposta e di innovazione, della dirigenza,
e per una verifica trasparente dei risultati gestionali e delle competenze manageriali.
67
Un ruolo fondamentale a sostegno dei processi di trasformazione culturale ed
organizzativo è stato svolto dall’attività di formazione che a partire dagli anni settanta
ha sostanzialmente “anticipato” e “sostenuto” fortemente i mutamenti strategici (V.
Figura 6).
DALLA CENTRALITA' DELLA PRODUZIONE ALLA CENTRALITA' DEL SERVIZIO
Benchmarking
Marketing
Qualità
Budget
Pianificazionee controllo
Sviluppoorganizzativo
Informatica
Figura 6 EVOLUZIONE DELLA STRATEGIA FORMATIVA
1970 1977 1983 1990 1993 1994 1998 2001
68
1.4. La ricerca sul campo 1.4.1. Premessa metodologica e ipotesi di ricerca
Nel desiderio di comprendere la realtà, con le sue contraddizioni e le sue
cristallizzate verità, si osserva uno spazio finito, attraverso definite categorie
interpretative.
Dalla visualizzazione di un “problema”, oggetto di un fenomeno sociale di
rilevante importanza collettiva, si passa all’osservazione della realtà e dell'agire umano.
Questo passaggio avviene secondo un metodo che orienta scelte e strumenti
d'indagine. Il metodo è il presupposto necessario per raggiungere un qualsiasi risultato
euristico condivisibile.
a) il problema
Il cambiamento organizzativo, culturale e gestionale come criticità per la
realizzazione delle politiche di riforma nelle Pubbliche Amministrazioni.
Il ruolo del dirigente quale attore fondamentale per una gestione efficace del
cambiamento.
b) le ipotesi
In seguito alla concettualizzazione teorica del problema sono state costruite le
seguenti ipotesi di lavoro:
1) che si possano riscontrare “inevitabili criticità” nel processo di
implementazione delle riforme nelle pubbliche amministrazioni, in
particolare nella fase trasferimento operativo e di concreta “messa in opera”
dei cambiamenti previsti nella nuovo quadro definito dalla norma
amministrativa.
2) che ci sia una specificità delle culture professionali all’interno dei ministeri
(o enti) e noi consideriamo una variabile importante nel cambiamento
(pertanto andiamo a verificare queste specificità);
3) che la formazione abbia un ruolo importante come strumento di sostegno e di
sviluppo per quanto ipotizzato nelle prime due ipotesi, ossia nel sostenere la
dirigenza nella gestione delle criticità del cambiamento e quindi
nell’implementazione della Riforma;
4) che la dirigenza abbia uno stile di leadership tendenzialmente partecipativo
in grado di:
- stimolare una competitività positiva, fra le strutture ( Dipartimenti, Servizi, Uffici) e
fra i collaboratori;
69
- promuovere la spinta all’autorealizzazione;
- creare un clima sereno e incentivante ( più motivante per le persone e per questo più
efficace ed efficiente/produttivo di un clima di tipo burocratico o conflittuale).
1.4.2 La realizzazione della ricerca
La ricerca si è svolta in due fasi, una di tipo documentale (esposta in precedenza)
ed una di tipo empirico.
Nell'ambito della fase documentale si è provveduto alla raccolta del "materiale
grigio", necessario per costruire un primo modello interpretativo le cui
concettualizzazioni teoriche intorno al problema ci hanno portato all'individuazione
delle principali variabili organizzative (mission, strategie, strutture, sistema decisionale,
leadership, comunicazione interna ed esterna, sistema di relazioni sindacali ed
informazioni sul personale) e quindi alla definizione delle ipotesi.
In questo quadro analitico, per “verificare o falsificare” sul campo le ipotesi di
ricerca, abbiamo svolto una ricerca empirica, poiché come ha sostenuto autorevolmente
K. Popper 41 “Per noi la scienza non ha niente a che fare con la ricerca della certezza,
della probabilità o della attendibilità. non siamo interessati allo stabilimento di teorie
scientifiche in quanto sicure , certe o probabili. Consapevoli della nostra fallibilità,
siamo interessati a criticarle e a controllarle con la speranza di scoprire dove
sbagliamo, di apprendere dagli errori e, se abbiamo fortuna, di pervenire a teorie
migliori”.
In linea con questa impostazione metodologica, la ricerca sul campo è stata
realizzata con i seguenti strumenti:
a)la somministrazione di una serie di 12 interviste semi strutturate 42 a testimoni
privilegiati, dirigenti posti in "posizioni organizzative chiave" nelle amministrazioni
osservate;
b)la realizzazione di sei sessioni di osservazione partecipante a riunioni interne,
per rilevarne dinamiche organizzative e relazionali e stili di direzione.
Nel percorso della ricerca si è scelto di effettuare le interviste oggetto di analisi
ad un campione di testimoni privilegiati che fosse il più possibile rappresentativo delle
complessità organizzative e gestionali delle amministrazioni. A questo scopo sono stati
41 Si veda K.Popper, Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972, pp 392-393. 42 Per la struttura dell’intervista vedere in Appendice.
70
intervistati Dirigenti Generali, Dirigenti Regionali (del Nord, del Sud e del Centro
Italia) e dirigenti presso le amministrazioni centrali.
Le informazioni raccolte nelle interviste ai testimoni privilegiati, sono state
elaborate tenendo conto delle quattro grandi aree tematiche presenti nell’articolazione
dello stesso strumento di indagine utilizzato, e cioè:
a)Mission, strategia e struttura organizzativa;
b)le culture professionali;
c)la leadership e la gestione delle risorse umane;
d)il comportamento organizzativo;
e)le metafore organizzative.
In particolare attraverso quest’ultimo parametro analitico, relativo alla
metaforizzazione dell'organizzazione, rifacendoci a quanto indicato da un importante
studioso degli aspetti culturali dell’organizzazione, come Morgan abbiamo tentato di
ottenere dagli intervistati un'immagine di sintesi della realtà nella quale essi sono
inseriti. L’abbiamo fatto chiedendo un piccolo sforzo di immaginazione, che attraverso
una metafora, evocasse l'immagine percepita dell’Amministrazione a cui
appartenevano43.
Come sostiene Morgan, “l'uso della metafora implica un modo di pensare e un
modo di concepire l'organizzazione, che stanno alla base del modo secondo cui noi
comprendiamo in maniera più generale il mondo”. L'autore si riferisce agli studiosi
delle organizzazioni che hanno utilizzato metafore nell'analizzare le diverse tipologie
organizzative, e hanno rapportato di volta in volta l’organizzazione a: macchine,
organismi, cervelli, sistemi politici, sistemi culturali, sistemi di potere, prigioni
psichiche, ecc... Questa ci permette di analizzare in uno schema teorico, quanto indicato
dagli intervistati, in quanto, come giustamente ci suggerisce Morgan: “uno degli aspetti
interessanti della metafora è rappresentato dal fatto che essa produce sempre una
rappresentazione. Nel mentre evidenzia certe interpretazioni tende a respingere nel
sottofondo altre possibili spiegazioni”.
Per l'elaborazione di tutte le informazioni raccolte è stata realizzata un’analisi
culturale e successivamente un interpretazione di tipo socio-antropologico basata sullo
studio del linguaggio (in termini di contenuti verbali e comportamentali) e del contesto
fisico in cui l'attore sociale agisce ed interagisce. L'interpretazione finale che ne emerge
43 Morgan G.,. Images of Organizations, Sage, 1980, Beverly Hills (Cal.),trad. it., Le metafore dell'organizzazione, Franco Angeli, Milano, 1989.
71
è il risultato di una lettura incrociata dei diversi contributi delle testimonianze e delle
osservazioni partecipanti.
1.4.3. I risultati della ricerca
La presentazione dei risultati di questa fase della ricerca, avrà come schema
espositivo le aree di intervista per agevolarne la lettura (vedi schema dell’intervista e
dell’osservazione partecipante in Appendice). Tuttavia gli argomenti trattati non sono
così schematicamente individuati nella realtà, dove, invece, si intrecciano in una rete di
informazioni (di tipo verbale e di contesto).
1.4.3.1. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze
a) Mission, strategia e struttura organizzativa
Il Ministero è il "centro motore" della politica economica finanziaria del Paese,
in termini di proposizioni e di verifica della sostenibilità di ogni iniziativa attua alla
stabilità economica.
La trasformazione in corso vede l'accorpamento dei Ministeri e la creazione dei
Dipartimenti, secondo una logica di organizzazione più flessibile e snella, in cui si
unificano le unità organizzative per funzioni riducendo così la parcellizzazione dei
compiti.
b) I Dipartimenti e le loro mission
Il Dipartimento del tesoro, cui è preposto il Direttore Generale del Tesoro,
svolge attività di analisi, studio, consulenza e verifica, supportando il Governo nelle
scelte di politica economica e finanziaria.
Il Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, "ha competenza nel
settore delle politiche di bilancio e del coordinamento e verifica degli andamenti della
spesa pubblica, sulla quale esercita i controlli e le verifiche previste dall'ordinamento,
provvedendo anche alla valutazione della fattibilità e della rilevanza economico-
finanziaria dei provvedimenti e delle iniziative di innovazione normativa, anche di
rilevanza comunitaria, alla verifica della quantificazione degli oneri e della loro
coerenza con gli obiettivi programmatici in materia di finanza pubblica".
Il Dipartimento per le Politiche di sviluppo e di coesione, offre una serie di
servizi a soggetti privati e pubblici per realizzare investimenti in infrastrutture, e per le
iniziative industriali; questo Dipartimento ha competenze in materia di
72
programmazione, coordinamento e verifica degli interventi per lo sviluppo economico,
territoriale e settoriale.
Il Dipartimento dell'Amministrazione generale, del personale e dei servizi del
Tesoro, la mission complessiva consiste nel supportare gli altri Dipartimenti con una
serie di servizi in materia di:
- amministrazione generale;
- di gestione dei servizi del Tesoro;
- coordinamento e sviluppo della qualità dei processi e dell'organizzazione;
- gestione risorse umane.
Il Dipartimento per le Politiche Fiscali, ha competenze specifiche "per la
definizione della normativa tributaria, per la stipula delle convenzioni con le quattro
agenzie fiscali (Entrate, Dogane, Territorio, Demanio) e per la vigilanza e il controllo
sul loro operato".
La scelta di questo modello organizzativo viene vissuto come il risultato di
compromessi politici piuttosto che di reali specificità interne. Un cambiamento voluto
dall'"alto" che rischia di fallire perché non coinvolge il "basso".
Le leve motivazionali diventano pertanto fondamentali strumenti gestionali della
dirigenza per scardinare quei meccanismi di resistenza che in modo autoreferenziale
sostengono il mantenimento dello status quo.
La dirigenza è consapevole che per il raggiungimento dei risultati è importante
un cambiamento di tipo culturale. Bisogna abbandonare un approccio al lavoro di tipo
amministrativo tradizionale e abbracciarne uno di tipo gestionale. L'assegnazione dei
compiti nel Ministero in passato non è avvenuto tenendo conto delle competenze
specifiche del singolo e ancora oggi questo penalizza un efficace raggiungimento dei
risultati e soprattutto il coinvolgimento motivazionale del personale. Come ha riferito
un dirigente intervistato: "Una delle cose che trovai quando arrivai quattro anni fa, era
una segmentazione eccessiva, abbiamo costruito un sistema di global service, per fare
questo ci è voluto un mutamento radicale ed è stato possibile perché abbiamo lavorato
per progetti, sconvolgendo l'appartenenza del personale, ho lavorato con i migliori
indipendentemente da come erano assegnati formalmente, occorre avere un po' di
fantasia, altrimenti..".
Si deve sostenere una cultura dell'innovazione e della continuità in cui la
gestione delle persone passi attraverso la loro valorizzazione (tenendo conto
dell'esistente bagaglio culturale e professionale del personale che si è formato in una
73
data struttura) per ottenere risultati, oltre che efficaci ed efficienti in termini strutturali,
anche gratificanti in termini culturali (creare un senso di appartenenza e di condivisione
dei successi).
A livello strutturale organizzativo si auspica (e qualcuno già utilizza) un
approccio organizzativo per "progetti", con gruppi di persone scelte per raggiungere un
determinato obiettivo, promovendo così un tipo di mobilità per compiti e ruoli
utilizzando leve motivazionali di tipo personale ed economico. Come emerge dalla
diretta testimonianza di un dirigente che sostiene: "Per non essere prigionieri degli
apparati occorre ribaltare il metodo cercando di far andare avanti la macchina per tutto
ciò che riguarda l'ordinario però impostare i lavori per progetti (..). Le leve per e la
motivazione innanzi tutto con gli strumenti dati dal contratto, cioè qualche progetto
finanziato, straordinario, non distribuito a pioggia e poi una gratificazione del ruolo,
dare la possibilità della gestione personale del lavoro, dare la fiducia…".
b) Le culture professionali
Quest'area di indagine ruota intorno all'ipotesi che le culture professionali siano
una variabile importante per una gestione efficace del cambiamento. Pertanto abbiamo
chiesto ai dirigenti intervistati come è vissuto il cambiamento relativo alla Riforma sulla
dirigenza e quale è il nuovo profilo professionale richiesto.
La riforma sulla dirigenza non ha avuto gli effetti sostanziali che si prefigurava.
"Quello del ruolo unico è un caso emblematico di distanza estrema tra quelli che erano i
propositi della riforma e quelli che sono stati invece gli effetti". Il "serbatoio" del ruolo
unico delle professionalità non viene utilizzato. La scelta dei dirigenti avviene
comunque dal mercato esterno. Questo perché nel ruolo unico sono finiti i soggetti non
confermati dalle Amministrazioni (non confermati entro l'8/09/99), pertanto è stato visto
non come mercato dove accedere per scegliere dei soggetti sulla base dei curriculum,
quanto come "un limbo dal quale si poteva anche non uscire". Tutto ciò ha generato
demotivazione e senso di inutilità tra i dirigenti. Per la realizzazione del cambiamento
della Pubblica Amministrazione serve un gruppo dirigente altamente motivato e
legittimato a svolgere un importante ruolo gestionale mentre l'attuale condizione lo
rende "demotivato e senza corpo".
E' opinione diffusa che la riforma del ruolo unico è stata calata in
un'amministrazione non ancora matura dal punto di vista culturale e gestionale delle
figure professionali dirigenziali.
74
Non è ancora diffusa la cultura della rotazione ma si favorisce la
specializzazione.
A sancire il fallimento della riforma dirigenziale, l’attualmente disegno di legge
in esame al Parlamento, che prevede il ripristino dei ruoli dirigenziali delle singole
amministrazioni.
La riforma del ruolo unico avrebbe avuto i risultati attesi, e quindi sarebbe stata
uno strumento di efficace gestione delle risorse umane, se calata in un'organizzazione in
cui il cambiamento culturale e strutturale fosse già ampiamente realizzato.
Il cambiamento culturale di un organizzazione passa attraverso la ridefinizione di
valori che avviene attraverso un processo di socializzazione gestito in modo
consapevole. Per cultura organizzativa s'intende l'insieme strutturato di assunti di base
che ha dimostrato di funzionare sufficientemente bene da essere considerato valido e
utile da trasmettere come modo corretto di percepire, pensare e sentire valori che
orientano l'azione degli attori facenti parte dell'organizzazione. Questa definizione ci
spiega come, affinché ci sia un cambiamento culturale, non basta la spinta normativa ma
bisogna utilizzare altre leve. Quindi consapevoli che il cambiamento debba avvenire
innanzi tutto in termini gestionali, abbiamo indagato sugli stili di leadership e sul clima
organizzativo all'interno del ministero.
c) La leadership e la gestione delle risorse umane
Per leadership intendiamo la capacità di influenzare positivamente gli altri.
Capacità che si estrinseca in stili differenti ciascuno dei quali ottiene un clima di lavoro
più o meno sereno o conflittuale. Uno stile autoritario in genere tende ad accentrare
qualsiasi decisione sulle azioni da intraprendere per raggiungere un determinato
risultato; tende ad essere personale nella lode e nella critica ma si astiene da un'attiva
partecipazione al lavoro di gruppo.
Al contrario uno stile partecipativo utilizza il confronto e la discussione nel
scegliere e pianificare le attività per raggiungere gli obiettivi condivisi. Si lavora in
gruppo e c'è autonomia nella divisione del lavoro all'interno del gruppo stesso. Il leader
partecipativo tende a criticare in modo oggettivo basandosi sui fatti.
Uno stile di direzione che crea armonia nella gestione delle risorse utilizza la
combinazione delle caratteristiche dei due diversi stili, partecipativo ed autoritario, a
secondo delle peculiarità situazionali che si trova a gestire.
75
Per la realizzazione efficace della riforma, si ipotizza che la gestione delle risorse
umane debba avere stili di direzione di tipo partecipativo e debba contribuire a creare
un clima adeguato in termini di motivazione del personale.
Sebbene qualcuno già svolga il ruolo gestionale in modo partecipativo,
attraverso la raccolta delle testimonianze, si è rilevato che attualmente nel Ministero
prevale ancora una mentalità che oscilla tra uno stile tendenzialmente di tipo autoritario
e talvolta comportamenti riconducibili ad uno stile ”laissez-faire”. I motivi di questo
sono riconducibili a diversi fattori tra cui:
- basse risorse economiche da destinare ad eventuali incentivi;
- una carente comunicazione interna;
- la mancanza di un senso di appartenenza;
- un senso di sfiducia e disorientamento dovuto al cambiamento strutturale non
sempre trasparente e quindi condivisile;
- una mentalità burocratico-formale.
Dalla testimonianza di un dirigente emerge un'alta consapevolezza sugli
strumenti da utilizzare per ottenere il coinvolgimento del personale: "una delle doti più
importanti consiste nel cogliere l'importanza del problema, essere gentili ma non
abbandonarsi, mantenere anche il ruolo, un minimo, ci vuole un giusto equilibrio (…)
analisi del problema e capacità decisionale,(..) fare le cose coinvolgendo le persone con
un atteggiamento partecipativo (…) bisogna avere fantasia”.
Lavorare per progetti, in gruppo, coinvolgere le persone in lavori di grande
utilità per il Paese, utilizzare incentivi economici, rompere il vincolo tra personale
assegnato e dirigente mobilitando le competenze sui progetti. Ad esempio, come
racconta un dirigente, motivare i componenti di un gruppo che hanno lavorato ad un
progetto, pubblicizzando metodi e risultati all'esterno attraverso la partecipazione a
convegni. Il dare visibilità ai risultati raggiunti, può avere un grosso significato in
termini di leva motivazionale: da una parte gratifica chi ha lavorato al progetto e
dall'altra si creano dei precedenti di "successi ottenuti" generando una memoria storica
del Ministero dal quale attingere per motivare il personale.
Ed ancora per motivare qualcuno suggerisce: “promuovere la rotazione del
dirigente ad esempio incentivandolo a svolgere incarichi strategici presso sedi
disagiate”. La nostra ipotesi iniziale inerente allo stile di leadership viene confermata
dalle interviste che testimoniano l'esistenza di un processo di cambiamento culturale
76
"lento ma inesorabile", citando un dirigente, la cui gestione da parte della dirigenza
necessità di un approccio innovativo rispetto a quello "amministrativo" tradizionale.
Il leader efficace è colui che interpreta i valori innovativi cercando di mediare
con le diverse culture dei gruppi e degli individui.
Lo stile gestionale si ripercuote inevitabilmente sul clima organizzativo che
abbiamo "misurato" osservando i comportamenti organizzativi.
d) Il comportamento organizzativo
Per clima organizzativo s'intende l'atmosfera psicologica che si percepisce e
risulta dalle operazioni strutturali: il clima va inteso sia come risultato che come
determinante del comportamento degli individui o dei gruppi all'interno della struttura e,
in particolare, dei processi lavorativi.
Il comportamento organizzativo si evince osservando quelli che sono gli
orientamenti dell'agire lavorativo attraverso l'analisi della comunicazione interna come
variabile interpretativa.
Da tutte le interviste i dirigenti ci raccontano che la comunicazione interna è
un'area di miglioramento da affrontare con tecnologie e corsi di formazione.
Comunicare in una struttura così grande è oggettivamente difficile ma lo è ancora di più
vista la consolidata consuetudine a non divulgare le informazioni spesso perché orientati
da valori quali la competizione e il senso di appartenenza al singolo ufficio piuttosto che
al Ministero. C'è un orientamento ancora alle singole procedure ed ai compiti piuttosto
che al risultato. Il fattore umano viene ancora vissuto come vincolo (troppe persone da
gestire la cui professionalità non viene valorizzata dal ruolo svolto), piuttosto che come
risorsa.
Per quanto riguarda la comunicazione tra dirigenti e collaboratori qualcosa sta
cambiando. Si sta diffondendo l'abitudine di svolgere ricorrenti riunioni legate alla
pianificazione di progetti, coinvolgendo il personale nelle attività e negli obiettivi da
raggiungere. Durante la partecipazione ad una riunione interna è stato interessante
rilevare gli orientamenti del leader rispetto al gruppo, in termini di comunicazione, sia
negli aspetti di contenuto che di relazione. Ciò che è emerso è uno stile di leadership
partecipativo che abbiamo individuato dall'osservazione delle seguenti variabili:
- buon orientamento al clima ed al gruppo dettata da una buona capacità di
ascolto e di mediazione tra i componenti del gruppo;
77
- una comunicazione in equilibrio ossia attenta ai contenuti (che cosa si dice: il
messaggio) quanto alla relazione (la modalità con la quale si emette un messaggio),
cercando di rispettare i tempi e gli obiettivi della riunione pur coinvolgendo gli altri e
raccogliendo i singoli contributi;
- buona capacità ad utilizzare uno stile informale ma comunque autorevole, in
grado di dare fiducia al gruppo riconoscendo meriti e limiti in modo oggettivo,
argomentando con dati e fatti concreti.
Sebbene questa prassi delle riunioni non sia ancora diffusissima la qualità di
quella alla quale abbiamo partecipato ci rende coscienti che la nostra indagine si è svolta
in una realtà complessa le cui generalizzazioni rischiano di non rappresentarla. Per
questo abbiamo preferito, come ulteriore contributo conoscitivo, una auto-
rappresentazione. Abbiamo voluto farci descrivere, attraverso una metafora, quella che
è l'auto percezione del dirigente rispetto al "mondo" in cui lavora e in cui proietta
quotidianamente aspettative, investendo anche emotivamente.
Le metafore descritte sono:
- Il "logos" della carta stampata (un'immagine astratta): non ha senso eppure va via
prendendo forma e correggendosi in corsa.
- Una macchina il cui funzionamento è fondamentale per il sistema Paese.
- Un carrozzone che al suo interno ha dei punti di eccellenza e andrebbe depauperata
dalle parti superflue.
L'immagine che viene data dai dirigenti ben rappresenta quella che è emersa
anche dalla nostra ricerca. Abbiamo di fronte una struttura che ha appena iniziato un
processo di cambiamento organizzativo e culturale voluto dalla Riforma. Un processo
lento le cui difficoltà sono dovute anche alle resistenze degli attori sociali che non
partecipando (e non essendo resi partecipi), alle ragioni e agli obiettivi del
cambiamento, non lo hanno scelto come strategia d'azione per migliorare il loro mondo
lavorativo. Il risultato è quello di una struttura ancora autoreferenziale, le cui parti non
si identificano con la mission istituzionale ma con gli obiettivi di sopravvivenza e di
legittimazione interna al singolo ufficio. I vertici dovranno adottare strategie volte al
superamento di vecchi meccanismi per una efficace implementazione della Riforma
nella pubblica amministrazione. Uno degli strumenti utilizzabili è la formazione
costante e continua rivolta a coinvolgere il personale affinché divenga attore
protagonista e promotore del cambiamento culturale.
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1.4.3.2. L’INPS
a) Mission, strategia e struttura organizzativa
In questa prima area si è intanto voluto individuare quanto fosse condivisa la
definizione di mission, proprio a partire da una puntuale descrizione che la stessa INPS
ne ha dato in occasione della conferenza nazionale su: L’esperienza INPS nell’ambito
della Pianificazione e del Controllo di Gestione, Relazione introduttiva alla
Conferenza, Taormina, 29-30 marzo 2001:
- corretta tenuta e aggiornamento costante dei conti assicurativi con disponibilità on-
line dei medesimi;
- tempestiva fornitura dei prodotti con attenzione alle componenti immateriali quali:
cortesia, accessibilità, facilità di accesso, amichevolezza, ecc..;
- fornitura dei servizi di consulenza;
- capacità di farsi carico dei problemi evidenziando le opportunità offerte dalla
legislazione;
- puntuale riscossione dei contributi con costante aggiornamento del conto aziendale
e verifica dei comportamenti aziendali con conseguente attenzione all’evasione
contributiva;
- messa a disposizione del Paese di banche dati aggiornate in materia di mercato del
lavoro e degli scenari previdenziali;
- monitoraggio costante dell’equilibrio finanziario delle gestioni fornendo
informazioni tecniche a supporto delle decisioni degli organi di governo;
- gestione in modo economico, efficiente ed efficace delle risorse necessarie per
adempiere alla missione fornendo il massimo valore al Sistema Paese, al cliente
assicurato e al cittadino;
- ricerca di sempre nuove modalità di fornitura di servizi attraverso l’Information
Technology.
Dalle interviste effettuate emerge che la mission stessa dell’Istituto ha subito
negli anni una grande trasformazione, pur mantenendo una importanza e una centralità
sociale, si è di fatto adeguata alle pluralità di cambiamenti dettati dal mercato esterno.
Tutti gli intervistati concordano nel dire che in passato l’Istituto aveva una mission
molto chiara: erogare le pensioni. Il tutto avveniva con una modalità meccanicistica per
cui l’Assicurato era “obbligato” a versare e l’Istituto si occupava di erogare. Nel corso
degli anni ottanta quest’ottica subisce profonde trasformazioni e conseguentemente
anche la struttura organizzativa: si passa dalla logica dell’utente a quella del cliente,
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dalla cultura degli adempimenti a quella di risultato, in cui si punta alla creazione di
valore per il cliente esterno, ma passando attraverso la soddisfazione e il
coinvolgimento del proprio cliente interno.
Secondo i testimoni privilegiati in questo cambiamento grande importanza, in
termini di “supporto a”, è da attribuire principalmente alla costante innovazione della
tecnologia informatica, che all’interno dell’INPS ha giocato un ruolo di primo piano ed
è stata ampiamente implementata a partite dagli anni ‘70. Attualmente l’Istituto
rappresenta un interlocutore privilegiato anche per Regioni, Comuni e altre
Amministrazioni Pubbliche proprio per questa sua rete informatica molto avanzata.
Ma un passaggio importante è messo in evidenza da un dirigente intervistato che
“proietta verso il futuro” la mission dell’INPS e delinea possibili evoluzioni che oggi
sono solo ”segnali deboli”, quali la previdenza complementare, le casse degli ordini
professionali, la mobilità, ecc..
Si è poi indagato su quali sono le strategie organizzative messe in atto per
realizzare la condivisione della mission e, quindi, il coinvolgimento del personale allo
scopo di raggiungere determinati obiettivi direttamente derivanti da politiche connesse
con la mission.
I nostri testimoni privilegiati sono tutti concordi nel dire che la particolare
tipologia di struttura organizzativa, e cioè “l’azienda corta”, in cui il livello decisionale
è ampiamente decentrato e partecipativo, è funzionale, almeno in linea teorica, al
raggiungimento degli obiettivi dell’Istituto.
Una struttura organizzativa definita da un nostro intervistato “flessibile ai
cambiamenti”, e cioè in grado di apprendere dalle proprie criticità per superarle in
maniera costruttiva. Criticità che tuttavia non mancano, soprattutto per che si trova a
gestire le grandi aree metropolitane definite “il tallone di Achille” della stessa struttura
organizzativa interna. In particolare la riorganizzazione per processi risulta molto
funzionale, e di conseguenza motivante per chi ne fa parte, fino ad una “soglia critica”
quantitativa oltre la quale non mancano problematicità sulle quali oggi si sta riflettendo
proprio per cercare di superarle.
Del resto, come dice un nostro testimone, “è proprio dalle situazioni difficili che
nascono opportunità di cambiamento e dunque di crescita”. Ad esempio oggi si sta
ipotizzando, per decongestionare le grandi aree metropolitane, di aumentare il numero
delle Sedi Territoriali in periferia.
80
E ancora, sempre riguardo alla attuale struttura organizzativa, non mancano le
criticità tra Centro e Periferia, il nodo riguarda proprio il potere decisionale che viene si
strategicamente decentrato, ma in termini che attualmente risultano troppo
marcatamente, ed esclusivamente, operativi. E’ per far fronte a questa problematica che
in Direzione Centrale c’è un Dirigente Generale con incarico specifico di monitoraggio,
coordinamento e gestione delle problematiche connesse al rapporto centro-periferia.
Di fatto anche l’Autonomia delle Sedi Regionali, completamente
responsabilizzate, è certamente una direzione verso la quale si tende, ma che al
momento rimane un disegno teorico non completamente tradotto nella prassi operativa.
b) Le culture professionali
Per indagare quest’area si è partiti dal chiedere ai nostri intervistati: come è
vissuto, all’interno dell’Istituto, il cambiamento normativo relativo alla riforma della
dirigenza.
Il cambiamento che ha coinvolto i dirigenti è di una tale portata da definirsi
epocale all’interno delle Pubbliche Amministrazioni. Inoltre, con l’introduzione
dell’organizzazione per processi, s’introduce una responsabilità legata direttamente al
risultato complessivo e si commisura al raggiungimento di tale risultato una quota
variabile della retribuzione del dirigente.
E’ stato, tuttavia, un cambiamento graduale e armonico, ampiamente supportato,
come afferma un dirigente della Direzione Generale: “l’Istituto si sta attrezzando
rispetto ai cambiamenti che la normativa produce, introducendo un Ufficio Ricerche,
che sarà di appoggio proprio nella trasposizione di questi input normativi nella prassi
quotidiana”.
Si sono rilevate posizioni molto simili su questo aspetto per i Direttori Regionali,
e cioè il livello legislativo è senza dubbio ritenuto un passaggio importante, con forti
connotazioni positive, ma naturalmente è superato nel senso che da solo non è
sufficiente per introdurre i cambiamenti auspicati.
Di fatto al dirigente INPS di oggi è richiesta “creatività e innovazione”, grande
“competenza nel coordinamento e nella facilitazione dei suoi collaboratori”, tutte
competenze che potremmo definire “manageriali” e che, di certo, non sono prodotte
soltanto dal livello legislativo.
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A sostegno di questa radicale trasformazione in realtà in INPS vi è stato un
preciso disegno organizzativo che ha permesso un consistente sostegno formativo alle
persone.
Uno degli intervistati afferma che: “Facciamo precedere la spiegazione delle
aspettative di ruolo, poi c’è la formazione a supporto, l’affiancamento nel ruolo,
cerchiamo di responsabilizzare in modo costruttivo attivando un confronto attivo”.
c) La leadership e la gestione delle risorse umane
A questo punto si è indagato sullo stile di leadership agito e sulle strategie di
gestione delle Risorse Umane, partendo dalla struttura del sistema premiante si è
analizzato come questo influisce sulla motivazione del personale
Su questi aspetti si è rilevato che di fatto esiste un sistema premiante che
potremmo definire “classico-contrattuale”, così articolato:
- una quota di base retributiva contrattuale;
- un’indennità che è relativa al ruolo (posizione occupata);
- un sistema di valutazione che assegna dei compensi in funzione della performance.
A questo proposito va precisato che al momento si premia essenzialmente la
“performance della struttura”, di fatto l’incentivo rimane un incentivo “a pioggia” che
non differenzia in modo significativo le differenze individuali.
Un sistema premiante, dunque, ancora da mettere a punto affinché possa
diventare effettivamente uno strumento gestionale efficace tale da essere utilizzato come
una vera leva motivazionale individuale.
E questo è un processo in corso poiché si sta, al momento, mettendo a punto
un sistema di mappatura delle competenze, sede per sede. Questo lavoro dovrebbe
produrre diversi risultati, e cioè: una base conoscitiva su cui avviare un valido sistema
premiante, uno strumento che mette il dirigente in condizione di valutare se i risultati
sono stati raggiunti e come, e infine una possibilità di fare una “diagnosi professionale”
dalla quale partire per organizzare interventi formativi ad hoc.
Direttamente collegata alla motivazione del personale troviamo la variabile che
né è un risultato diretto, e cioè il clima organizzativo.
In questa fase connotata da grandi trasformazioni, la percezione dei dirigenti
intervistati ripropone la molteplicità di vissuti presenti nell’Istituto. Si incontrano
definizioni come: “un clima di attesa improntato alla speranza per molti e allo
scetticismo per pochi, una situazione in cui è importante vincere l’inerzia iniziale di
82
abbandonare un modello superato, per passare alla fase in cui ci sarà la curiosità di
sperimentare il nuovo”, “un clima caratterizzato da non troppo fervore, da rilanciare”, è
soprattutto una prospettiva che si schiarisce proiettandosi verso la speranza.
Infine, non sono mancati riferimenti al fatto che il cambiamento è un momento
critico e che l’attuale dirigenza è un po’ avanti con l’età, fattori questi, gli psicologi e
sociologi ce lo insegnano, che non facilitano né accelerano questo processo.
d) Il comportamento organizzativo
A questo punto si è cercato di verificare la funzionalità in termini di
comportamenti organizzativi e si è chiesto ai Dirigenti di fornire informazioni sulla
Comunicazione Interna.
Si è constatato che anche questo processo è fortemente influenzato
dall’innovazione tecnologica che ha caratterizzato l’Istituto negli ultimi decenni.
Molta della comunicazione interna, infatti, tutta la normativa di prodotto ad
esempio, passa attraverso la rete Intranet. Un mezzo che presenta elevate potenzialità,
che attualmente però non è utilizzato al meglio. Proprio per le elevate potenzialità
permette di inviare “tutto a tutti”, e questo rappresenta, senz’altro, un successo in
termini di accesso all’informazione, ma rischia di diventare un “mare magnum” nel
quale è difficile muoversi.
Mediamente arrivano ad un Direttore Regionale 40-50 e-mail al giorno,
differenziare l’informazione importante e prioritaria rispetto alle tante decisamente
secondarie, diventa allora un dispendio di energia non di poco conto.
E ancora sembra molto interessante un particolare che descrive uno degli
intervistati: “Considerato che il dirigente ha la possibilità di verificare chi legge e che
cosa, di fatto quello che rileva è che si vanno spesso a leggere proprio quelle
informazioni che su un piano gestionale sono quelle che danno il minor contributo, a
favore magari di altre che soddisfano invece delle curiosità personali (dove è in
missione, chi, ecc.)”. Sembra un dato non particolarmente significativo, ma indica che
questo fenomeno non va nella direzione di ottimizzare il flusso comunicativo e
indirizzarlo verso un adeguato perseguimento degli obiettivi.
Per quanto attiene all’utilizzo delle riunioni come strumento di coordinamento
organizzativo, queste rappresentano una modalità piuttosto consolidata e, dunque,
strutturata all’interno dell’Istituto. Le riunioni sono utilizzate con una certa sistematicità
83
e organizzate ovviamente in funzione dei diversi obiettivi e quindi con i diversi
interlocutori (Conferenza dei dirigenti, Riunione di Area, ecc.).
Interessante e ricca di informazioni è proprio la modalità di gestione e
conduzione della riunione, resa possibile attraverso la presenza alla stessa, al fine di
completare con questo livello di dettaglio la Ricerca sul campo.
Quello che appare subito chiaro, partecipando a questa riunione all’INPS
(riunione d’Area che coinvolge il Vicedirettore Generale, i Direttori Generali delle
Direzioni centrali ), è che esiste ed è attuato uno stile partecipativo, frutto non solo di
una conoscenza teorica, ma di una ben più profonda e integrata pratica professionale. E’
evidente seguendo lo svolgimento della riunione che sono presenti un insieme di
competenze manageriali che hanno una “cultura” e un percorso che certamente non si
possono improvvisare.
A questo scopo sono state analizzate alcune delle variabili osservate che portano
a sostenere le seguenti considerazioni:
- una comunicazione verbale estremamente equilibrata tra i diversi interlocutori
rispettosa delle differenze individuali, con un modalità attenta ai contenuti, agli
obiettivi e ad una oculata gestione del tempo, ma contemporaneamente orientata
anche alle persone e alla creazione di un clima positivo;
- una capacità d’ascolto davvero sorprendente, con alti e bassi nei diversi momenti,
ma sempre di grande intensità;
- uno stile di leadership ottimale, un “direttore d’Orchestra”, che ha saputo facilitare
un clima di apertura e disponibilità pur partendo e integrando posizioni non sempre
vicine;
- e, per concludere, un ambiente fisico, nel quale si è svolta la riunione,
particolarmente accogliente e consono; comode poltrone disposte in cerchio.
Dovendo esprimere un parere sintetico, si potrebbe parlare di “una riunione da
manuale”.
Infine, è sembrato utile chiedere ai dirigenti testimoni privilegiati di indicare con
una metafora l’organizzazione di cui fanno parte, allo scopo di definire con
un'immagine di sintesi la realtà nella quale sono inseriti.
E’ stato richiesto un piccolo sforzo di immaginazione, che attraverso una
metafora, evocasse l'immagine percepita dell’INPS, ed ecco cosa è emerso:
- Vorrei che fossa una stella marina ma è ancora un pachiderma;
- una balena furba;
84
- la Direzione Centrale e le grandi Sedi è come se fossero la Fiat Mirafiori, mentre le
Sedi la Fiat di Melfi.
Queste metafore ben sintetizzano quello che emerge dalla Ricerca sul campo:
sicuramente l’INPS ha vissuto e sta vivendo profonde trasformazioni, ha avviato quel
processo disegnato dalle norme legislative che, come si è già sostenuto, prescrive il
passaggio da un modello burocratico ad uno telocratico/manageriale, che mette al centro
la responsabilità individuale in funzione di un risultato, ma certamente questo passaggio
non è percepito come definitivamente effettuato anche se “Melfi” e “La Balena Furba”
fanno ben sperare.
1.4.3.3. Il M.I.U.R.
a) Mission, strategia e struttura organizzativa
Nelle pagine precedenti si sono tracciate le linee essenziali della riforma del
sistema di Istruzione che si è articolata in due momenti: da una parte l’affermazione
dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, con il riconoscimento ad esse di autonomia
didattica, di ricerca, organizzativa, finanziaria, con il trasferimento di molte
competenze amministrative ed il conferimento al dirigente scolastico di maggiore
responsabilità verso i risultati e maggiore autonomia nel processo decisionale relativo
alla gestione delle risorse umane, finanziarie e tecniche; dall’altra, la riforma del centro
con una radicale riduzione dell’amministrazione statale della scuola, centrale e
(soprattutto) periferica, e con l’attribuzione ad essa di compiti volti alla fissazione di
obiettivi generali, alla realizzazione dei programmi e alla valutazione del sistema
scolastico.
In tale prospettiva il D.P.R. n. 347/2000 (che contiene il “Regolamento recante
norme di organizzazione del Ministero della Pubblica Istruzione”) ridisegna la missione
istituzionale e il modello organizzativo delle strutture centrali e di quelle periferiche in
un’ottica di migliore integrazione politico-amministrativa: alle strutture centrali si
richiede la definizione delle strategie, delle politiche e degli obiettivi, a quelle regionali
l’attività di coordinamento delle politiche e di gestione delle risorse sul territorio e un
importante compito di sostegno all’attività operativa delle Istituzioni scolastiche
autonome allo scopo di perseguire una maggiore efficacia ed efficienza organizzativa
complessiva del sistema nel presidio dei processi necessari a fornire i servizi educativi.
A livello di amministrazione centrale, come afferma un Dirigente intervistato, “la
mission consiste nel governo complessivo della massa del personale della scuola. Essa
85
include quindi sia la gestione del personale amministrativo ( all’incirca 7700 unità) sia
la direzione del corpo docente (circa un milione e duecentomila dipendenti). Si tratta
della direzione del personale più ampio d’Europa. Risulta evidente che si tratta di
attività del tutto diverse. Ed è proprio questa doppia funzione e la sua ripercussione a
livello di struttura organizzativa a rappresentare la criticità più rilevante.”
A livello regionale: “L’impegno principale è stato quello di supportare le
istituzioni scolastiche autonome nell’attività di progettazione, nell’attività di
ricognizione delle esigenze formative, sia per i dirigenti scolastici che per i docenti, e,
possibilmente, nell’attività di ricerca (su cui investiamo sempre molto poco)”.
Successivamente è stato chiesto ai testimoni privilegiati se ritengono l’attuale
struttura organizzativa funzionale al raggiungimento della mission e sono state rilevate
posizioni molto simili su questo aspetto: “la struttura organizzativa non si è rivelata
funzionale tanto è vero che già con il nuovo Regolamento di organizzazione, che è in
via di emanazione, questa struttura dipartimentale, per quanto nata da pochissimo, è già
parsa superata.
In particolare si ritiene che la struttura non è funzionale per due ordini di motivi:
in primo luogo poiché i Dipartimenti nascono per aggregazione di momenti omogenei
di attività proprio per assicurare la continuità dell’azione amministrativa rispetto ai
singoli uffici centrali, per cui la valutazione iniziale di costituire due strutture separate
si è rivelata fonte di sovrapposizioni perché la missione istituzionale è unica: è
l’istruzione. L’andare a suddividere all’interno dell’unica mission istituzionale tra chi si
deve occupare dell’aspetto organizzativo (Dipartimento per i servizi sul territorio) e chi,
invece, dei contenuti ordinamentali (Dipartimento per lo sviluppo dell’Istruzione) si è
rivelato un limite. I due momenti sono talmente collegati che sarebbe stato più
opportuno pensare ad un Dipartimento unico, come si arriverà a fare. Tutto ciò,
naturalmente, con riferimento al vecchio Ministero dell’Istruzione perché, quando il
nuovo modello andrà a regime, l’ordinamento conoscerà un unico Ministero
dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca che sarà organizzato sulla base di tre
nuovi dipartimenti: il Dipartimento dell’Istruzione, il Dipartimento dell’Università ed il
Dipartimento della Ricerca.”
Inoltre, si tenga presente che l’autonomia delle istituzioni scolastiche ha
cambiato la logica del sistema di istruzione. La riforma è stata avvertita come un
cambiamento radicale dell’amministrazione scolastica ed ha determinato l’abbandono
del c.d. modello di tipo verticale sostituendolo con un modello orizzontale,
86
caratterizzato da un insieme di comunità scolastiche nelle quali si fa istruzione,
formazione, ricerca attraverso modelli flessibili, in vista del raggiungimento di obiettivi
generali, fissati da un centro chiamato a compiti strategici e liberato da compiti di
gestione.
Con riferimento ai principali cambiamenti in tal senso di questi ultimi anni, un
dirigente ha sostenuto che: “Sicuramente con l’introduzione dell’autonomia scolastica la
nostra struttura è cambiata, non è più la stessa. Il sistema scolastico adesso si fonda sul
principio dell’autonomia scolastica, divenuto principio costituzionale, il che significa
darsi le regole da soli. Le regole se le danno dunque a livello regionale per adattare il
sistema scolastico alle specificità del territorio, ai contesti, alle esigenze.
Un consistente margine di autonomia è affidato ai direttori regionali, i quali
provvedono a gestire il budget di risorse loro affidato. Sicuramente i direttori regionali
sono molto più liberi ma vi è pur sempre una Direzione Generale, che va considerata
come un valore aggiunto, che ha competenza su tutto il territorio nazionale, che è dotata
di un centro autonomo di spesa (che attinge direttamente al bilancio dell’Istruzione), che
ha come proprio obiettivo specifico quello di essere più vicini alle esigenze specifiche
degli utenti sul territorio, che si rapporta direttamente con la regione e con gli enti locali
e che svolge una funzione di sostegno allo sviluppo dell’istituzione scolastica. Dunque
non più un rapporto di gerarchia ma un rapporto funzionale”.
Ed ancora, sempre riguardo all’attuale struttura organizzativa, non mancano le
criticità tra centro e periferia.
In particolare le strutture regionali osservano che: “La struttura non è ancora
rispondente alla mission perché il Ministero e l’amministrazione statale sono molto forti
nel momento in cui devono elaborare, predisporre le riforme e farle approvare, sono
molto deboli nel momento dell’attuazione ( d’altro canto è solo da un anno che si sono
istituite le Direzioni Regionali). Le disposizioni sono ottime da un punto di vista teorico
ma vi è ancora un’eccessiva presenza di indicazioni invasive da parte del centro.
Il Ministero dovrebbe svolgere un’attività molto più di indirizzo e molto meno di
gestione. La realtà è molto diversificata: in alcune Direzioni Generali, dove il Direttore
Generale ha questa “vocazione”, si vive un rapporto produttivo interessante, in altre,
caratterizzate da una tradizione più forte, si continua a ricevere indicazioni troppo
specifiche”.
Alla domanda se esistono modalità di verifica/valutazione dei risultati e come
vengono gestiti eventuali scostamenti, un Dirigente Generale risponde che: “Anche
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questo tipo di esperienza è del tutto nuova. Il sottoporre la propria attività a
monitoraggio e, conseguentemente, a valutazione deve essere progressivamente
accettata. Per il momento ci si è limitati ad organizzare un progetto che si chiama
PROMO ( programmazione e monitoraggio). Abbiamo fissato con una direttiva
dipartimentale dei macrobiettivi tratti dalla direttiva del Ministro, li abbiamo scomposti
in una serie di microbiettivi rispetto ai quali abbiamo chiesto ai direttori generali di
articolare una serie di azioni concrete per perseguirli. Attraverso questo schema di
microbiettivi da perseguire ed azioni concrete per realizzarli siamo in grado di effettuare
un monitoraggio periodico e di verificare lo stato dell’arte. Non bisogna dimenticare che
per il momento più che ai fini di una valutazione tutto questo serve a capire che tipo di
correttivi introdurre e, pertanto, la reazione da parte di alcuni uffici centrali, che hanno
visto questa valutazione come una forma di controllo, è del tutto immotivata”.
b) Le culture professionali
In seguito si è analizzato, attraverso la percezione valutativa che i singoli
dirigenti hanno, come viene vissuto il cambiamento relativo alla riforma della dirigenza.
Premesso che ogni mutamento dello status quo all’interno delle organizzazioni è
destinato a generare insoddisfazioni e resistenze perché può significare perdita di potere,
o perché può intaccare situazioni ed interessi consolidati, di ruolo, di identità sociale,
occorre dire che, da questo punto di vista, il M.I.U.R. non ha fatto eccezione a tale
principio.
Dall’osservazione condotta è emerso che la realtà del cambiamento è stata
affrontata in modo personale da ogni soggetto intervistato: dinanzi alla prospettiva del
mutamento organizzativo, una prima reazione osservata è quella di resistere, almeno
nella fase iniziale, con sentimenti di incertezza, di preoccupazione per i cambiamenti
pratici, di demotivazione di fondo o addirittura di frustrazione; un altro atteggiamento
riscontrato è il verificarsi di una condizione di stallo, di scarsa reattività di fronte al
cambiamento che induce ad azioni ostruzionistiche, a una rigida applicazione delle
norme, conducendo spesso all’individualismo, al depotenziamento della comunicazione
interna e alla mancata ricerca di coordinamento tra i membri del team; infine, una
ulteriore reazione è rappresentata da una forte razionalizzazione del processo di
cambiamento unitamente ad un atteggiamento di disponibilità e attivismo che genera la
ricerca di una visione condivisa su obiettivi e finalità e una maggiore attenzione ai
fenomeni comunicativi e relazionali all’interno del team.
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Strettamente collegato a quest’argomento vi è poi quello degli eventuali
interventi strategici compiuti a supporto di tale cambiamento.
L’aspetto più evidente è il mancato accompagnamento del processo di
riorganizzazione del M.I.U.R. con una politica di programmazione del fabbisogno di
risorse umane. Un Dirigente Generale fa notare che: “Il rischio concreto è che se non
verrà attuato in tempi brevi un turn-over con l’ingresso di nuove forze negli organici del
M.I.U.R., in modo particolare nel settore quadri, non potrà verificarsi quello scambio
generazionale tale da consentire il rinnovamento”.
E’ indubbiamente elemento costitutivo del quadro di riferimento la situazione di
emergenza del sistema della formazione: le nuove competenze professionali richieste ai
dirigenti dalla nuova missione e dal nuovo modello organizzativo avrebbero dovuto
essere sostenute e, in certi casi, attivate con un percorso formativo mirato.
In effetti, un altro settore di interventi, nel quale si sarebbe potuto agire
diversamente, è proprio quello inerente il tipo di formazione professionale strumentale
alla revisione organizzativa: in considerazione della carente predisposizione psicologica
al cambiamento e della consolidata abitudine allo svolgimento di un’attività
essenzialmente burocratica, sarebbe stato assai proficuo avviare dei percorsi formativi
finalizzati alla condivisione delle nuove competenze e conoscenze professionali nonché
a dinamiche interrelazionali che avrebbero consentito di realizzare un passaggio meno
traumatico al nuovo modello organizzativo.
Un autorevole intervistato fa, invece, presente che: “Le professionalità e le
competenze sono state acquisite per vocazione personale, per capacità personali. Sono
stati organizzati interventi interessanti da parte della amministrazione centrale per
quanto riguarda la formazione dei nuovi dirigenti ma i risultati non hanno restituito
delle persone particolarmente disponibili a raggiungere gli obiettivi con una logica di
squadra, caratterizzata da giuste dinamiche, e non tradizionalmente burocratica”.
c) La leadership e la gestione delle risorse umane
La normativa è intervenuta per favorire il passaggio da uno stile di direzione
tecnico-amministrativo che richiede una competenza essenzialmente normativa e
procedimentale, ad uno manageriale che richiede una “cultura professionale” orientata
al raggiungimento di risultati e al perseguimento degli interessi pubblici con efficacia,
efficienza ed economicità.
89
A questo proposito si è indagato sullo stile di leadership esistente. Un dirigente
ha sostenuto che: ”Vi sono tutte le premesse perché questo passaggio possa avvenire.
Tuttavia occorre fare una differenza tra la leadership politica e quella amministrativa in
quanto mentre la prima spinge molto perché questo possa avvenire, ed anche in tempi
adeguati, la seconda è più piegata su se stessa”.
Successivamente partendo dalla struttura del sistema premiante si è analizzato
come questo influisce sulla motivazione del personale.
Su questi aspetti si è rilevato, in base alle informazioni ricevute, che il sistema
premiante andrebbe rivisto, attivando uno stretto collegamento tra il riconoscimento di
incentivi monetari e la prefigurazione di sviluppi di carriera da un lato e il contributo
individuale fornito dalle risorse umane alla realizzazione degli obiettivi prefissati
dall’altro.
Mantenere l’attuale sistema che consta di concessioni “a pioggia” di benefici
economici sulla base dell’istituto contrattuale denominato “indennità da risultato”, che
assume una caratterizzazione variabile a seconda del risultato e quindi del minore
scostamento tra l’azione svolta e gli obiettivi prefissati, significa demotivare il
personale maggiormente impegnato nell’attività lavorativa ed impedire ai più meritevoli
di ricoprire ruoli richiedenti maggiore responsabilità, a discapito della capacità del
M.I.U.R. di assolvere alla propria missione istituzionale.
Un sicuro elemento di criticità può ravvisarsi nel fatto che il sistema adottato non
consente di valutare le performance dei singoli. Ciò potrebbe, alla lunga, demotivare il
personale più produttivo e spingere quello meno produttivo a lavorare meno.
“E’ un sistema premiante per lo meno discutibile”, sostiene un Dirigente
Generale, ”in tale ottica sarebbe decisiva l’introduzione di un sistema premiante
meritocratico”.
Un altro autorevole intervistato fa presente che: “Ogni qualvolta ho assunto
questo tipo di decisione, ho incontrato notevoli difficoltà, ho trovato la resistenza dei
rappresentanti del personale, i quali formalmente chiedono il riconoscimento dei meriti
ma poi, di fatto, non consentono al dirigente di metterlo in pratica”.
d) Il comportamento organizzativo
Altro punto cruciale è quello della comunicazione interna: la strategia
comunicativa adottata non si è rivelata efficace e su questo aspetto si sono rilevate
posizioni molto simili: “se la comunicazione all’esterno è affidata ad un apposito
90
servizio, all’interno si riscontrano i tradizionali problemi di comunicazione interna
comuni a tutte le grandi e complesse amministrazioni. I canali interni si riducono all’uso
del telefono, fax e posta elettronica.”
“Del resto”, afferma un Dirigente Generale, “molto dipende da noi perché a
livello nazionale il Ministero ha investito molto per la scuola mettendo a disposizione
strumenti che ci sono molto utili per comunicare direttamente con le istituzioni
scolastiche. Non solo le scuole sono tutte collegate tra di loro ma anche attraverso un
nostro sistema di rete, unificata e protetta, che ci mette nelle condizioni di raggiungere
tutte le istituzioni scolastiche. Un analogo sistema non esiste però a livello di
comunicazione interna. La comunicazione interna è assolutamente inesistente ed ogni
tipo di intervento nel settore è lasciato alla nostra iniziativa. E’ chiaro che non dovrebbe
essere così ma occorrerebbero degli investimenti specifici e questo costituisce un
elemento di criticità molto forte.”
Si è avuta l’occasione di approfondire l’aspetto del comportamento organizzativo
attraverso la partecipazione ad una riunione dei Dirigenti Regionali.
Le variabili osservate:
- una comunicazione verbale molto equilibrata tra i diversi interlocutori, i quali
hanno a turno preso la parola ed hanno esposto, molto efficacemente, i problemi
attinenti alle singole realtà regionali;
- una impostazione degli interventi attenta ai contenuti, agli obiettivi nonché alla
gestione del tempo;
- una capacità di ascolto buona e costante;
- uno stile di leadership direttivo ed insieme partecipativo, che ha saputo creare
un clima positivo,- pur nella totale diversità degli scenari descritti e delle
problematiche esposte dai Dirigenti Regionali-, e rispettoso delle posizioni di tutti;
- un ambiente fisico consono ad una riunione di così ampie dimensioni.
Infine, alla richiesta di una immagine di sintesi della struttura organizzativa nella
quale gli intervistati sono inseriti, ecco cosa è emerso:
- una nave borbonica;
- una serie di cerchi concentrici;
- una barca;
- i “Prigioni” di Michelangelo.
91
Dall’analisi condotta finora si può sostenere che il processo di riorganizzazione
del M.I.U.R. si sta realizzando attraverso un complesso programma teso a pianificare
congiuntamente un cambiamento culturale, organizzativo, tecnologico e di clima
relazionale, allo scopo di migliorare l’efficacia, l’efficienza e la qualità dei servizi
educativi erogati alla collettività.
In definitiva, si può affermare che a questo grande ed impegnativo processo di
innovazione e di mutamento mancano ancora alcuni importanti elementi che potrebbero
rappresentare altrettante “ aree critiche” laddove non trovassero una soluzione in tempi
ragionevoli.
La metafora che meglio delle altre sintetizza il risultato di questa ricerca sul
campo è senz’altro l’immagine della scultura di Michelangelo.
Nei “Prigioni”, come in altre opere, Michelangelo afferma con tutta evidenza
l’ansia faticosa di liberazione dello spirito dalla materia, perché la forza dell’idealità
consegua la vittoria, anche se, come accade nel “Prigione” del Louvre, la figura talvolta
è costretta a divincolarsi sotto i ceppi che la stringono.
Altri “ceppi” stringono evidentemente l’ansia di affermare e consolidare
l’innovazione e il mutamento nella Pubblica Amministrazione in generale. Ma come
Michelangelo riusciva a tirare fuori dal marmo le figure che già, a suo dire, vi si
trovavano all’interno, così è nella speranza di tutti gli intervistati che la costanza,
l’ingegno, la pazienza, la disponibilità di mezzi e soprattutto la consapevolezza che il
cammino intrapreso porterà a risultati certi e concreti, passo dopo passo, taglieranno
l’ambito traguardo.
1.4.4. Conclusioni
Rappresentare una sintesi efficace ed esaustiva di questa particolare ricerca sul
campo, non è operazione particolarmente agevole, se consideriamo la ricchezza delle
informazioni raccolte, ma soprattutto le grandi potenzialità di intervento derivanti dalle
indicazioni contenute nei risultati esposti.
Una tale varietà e pluralità di stimoli, provenienti dalle opinioni dei testimoni
privilegiati e dalla content analysis dei risultati dell’intervista e dell’osservazione
partecipante, risulta essere difficilmente sintetizzabile, pena l’esclusione-omissione ( in
questa fase ) di qualche aspetto importante e significativo.
92
Premessa questa avvertenza metodologica si è ritenuto di concludere la ricerca
seguendo lo schema anticipato nelle ipotesi di ricerca, e cioè dando conto della “verifica
sul campo” delle seguenti variabili:
a) che all’interno delle strutture oggetto della ricerca, vi fosse ampia
consapevolezza che la propria mission ha un valore per la società (per lo
sviluppo del benessere e di una migliore convivenza civile e sociale della
società);
b) che vi fosse una specificità delle culture professionali all’interno dei
ministeri (o enti), considerando questa una variabile importante nel
cambiamento;
c) che la formazione abbia avuto e abbia un ruolo importante come strumento di
sostegno e di sviluppo per quanto ipotizzato nelle prime due ipotesi, ossia nel
sostenere la dirigenza nella gestione delle criticità del cambiamento e quindi
nell’implementazione della Riforma;
d) che la dirigenza abbia adottato uno stile di leadership tendenzialmente
partecipativo in grado di:
- stimolare una competitività positiva, fra le strutture ( Dipartimenti, Servizi, Uffici) e
fra i collaboratori;
- promuovere la spinta all’autorealizzazione;
- creare un clima sereno e incentivante ( più motivante per le persone e per questo più
efficace ed efficiente/produttivo di un clima di tipo burocratico o conflittuale).
In linea di massima, dall’analisi dei dati e delle informazioni raccolte, per quanto
attiene alle prime due variabili di carattere “istituzionale” (consapevolezza della
strategicità della propria mission e specificità delle culture professionali) considerate
emergono alcune significative tendenze convergenti, mentre si notano scostamenti in
merito alle altre due variabili di carattere “organizzativo” (ruolo della formazione e stile
di leadership).
Questo tipo di tendenza non può certo essere estesa a tutte le pubbliche
amministrazioni, si limita ad “analizzare” ed “osservare” tre amministrazioni
significative, tre case studies, del resto lo stesso disegno di ricerca non lo ipotizzava.
In questo senso, i risultati di questa ricerca potrebbero rappresentare un aiuto e
un “supporto esplicativo” per comprendere meglio le possibili tendenze nel panorama
più vasto dell’insieme delle pubbliche amministrazioni, considerando, in particolare le
93
modalità di gestione dei processi di mutamento organizzativo, delle difficoltà e delle
resistenze al cambiamento incontrate.
In particolare, con riferimento alla consapevolezza, all’interno delle
amministrazioni e delle strutture oggetto della ricerca, che la propria mission abbia un “
funzione strategica ” per la crescita e lo sviluppo società, può senz’altro affermarsi che
questo costituisce un elemento di convergenza.
Tutti i dirigenti intervistati riconoscono la funzione strategica della mission
affidata alle rispettive strutture, che mantengono una importanza e una centralità sociale
fondamentale, in particolare in un contesto politico, economico e sociale interessato da
un processo di profondi e notevoli mutamenti di carattere culturale, organizzativo,
tecnologico e relazionale.
Infatti le pubbliche amministrazioni legittimano la loro presenza quando
producono “valore” per la società, cioè si dimostrano capaci di ottenere risultati che
“valgono” nella percezione dei cittadini.
In questo quadro il concetto di “valore pubblico” si pone come orizzonte
fondamentale di attenzione per i vertici delle amministrazioni che sono fortemente
consapevoli del ruolo e della responsabilità loro assegnata, nonché delle opportunità
offerte dai provvedimenti normativi innovativi.
Indubbiamente la riforma rappresenta, almeno nelle linee guida del legislatore,
una svolta epocale per la cultura organizzativa e per i relativi modelli organizzativi
operanti nella Pubblica Amministrazione.
A questo proposito, come è stato già anticipato, gli obiettivi contenuti in queste
politiche di riforma delle pubbliche amministrazioni sono ambiziosi, richiedono un
"salto di qualità": l'evoluzione da un modello ad un altro modello.
Si tratta di passare dal modello di tipo burocratico al modello telocratico.
La particolare rilevanza che assume questo gap, considerato come una sfida dai
dirigenti più innovativi, nella fase attuale di evoluzione verso un modello organizzativo
di tipo telocratico, viene messo opportunamente in luce dalla lettura dei dati relativi alla
prima area dell’intervista.
In essa si può rilevare la consapevolezza che i dirigenti hanno del proprio ruolo:
sanno di avere un ruolo centrale per la diffusione del cambiamento, riconoscono che
nel passaggio al nuovo assetto vi è stato (e vi è) un aumento delle opportunità di
formazione (sul piano personale e professionale per sé e per i propri collaboratori), una
maggiore visibilità sociale della propria azione all’interno della propria
94
amministrazione, ma mostrano perplessità circa un effettivo potere di gestione di questi
processi, ritenuti particolarmente complessi e defatiganti.
Infatti, a questo proposito, i risultati relativi alle problematiche connesse con la
gestione delle variabili “organizzative” mettono in evidenza una tendenza, che seppure
si suppone vada verso l’orizzonte indicato nelle ipotesi di ricerca, evidenzia tre diverse
velocità di marcia da parte delle amministrazioni considerate.
In particolare, si ricordano i seguenti fenomeni: le difficoltà incontrate nella
gestione dei cambiamenti connessi con l’introduzione di nuove modalità lavorative o di
strutture innovative; il clima relazionale tra vertice politico e vertice gestionale non
sempre fluido e trasparente, improntato ad una efficace logica integrativa e di
collaborazione reciproca.
In questa visione del governo del mutamento nell’amministrazione emergono i
sintomi di una classica “patologia organizzativa” nota nella letteratura organizzativa 44,
come problema della “adeguatezza strategia-struttura”.
A questo riguardo, secondo le scienze organizzative, in presenza di strategie
innovative per evitare rischi di collasso dovuto ad un intervento ri-organizzativo,
occorre operare in modo tale che vi sia accordo tra strategia gestionale e struttura
organizzativa e si possa introdurre adeguatamente a livello operativo i principi del
lavoro per progetti.
In altri termini: una determinata strategia gestionale implica la definizione di
una necessaria ed efficace coerenza tra struttura, cultura e processi organizzativi e
lavorativi.
Infatti, in linea teorica, sarebbe stato necessario accompagnare il processo di
riforma con la definizione di politiche gestionali innovative, la creazione di nuove
strutture organizzative ed un percorso formativo mirato per la formazione delle nuove
competenze professionali richieste ai dirigenti e al resto del personale delle pubbliche
amministrazioni.
Mettendo a confronto i risultati delle interviste si registra, invece, che solamente
in una delle amministrazioni esaminate la formazione ha rappresentato la “vera leva
strategica” fondamentale per realizzare il “progettato processo di modernizzazione
gestionale”, in particolar modo attraverso politiche tese ad un’adeguata integrazione e
44 Chandler A.D., La mano invisibile. La rivoluzione manageriale nell’economia americana, Franco Angeli, Milano,1981. Caselli L. , Impresa e cambiamento, in Caselli L., a cura di, Le parole e l’impresa. Guida alla lettura del cambiamento,Franco Angeli, Milano, 1995.
95
valorizzazione delle risorse umane nell’ambito del processo produttivo e dello sviluppo
delle competenze professionali.
In ogni modo, il ruolo della formazione è stato (ed è) sicuramente cruciale per il
buon esito della gestione del processo di riorganizzazione in atto in tutte le
amministrazioni esaminate, in quanto la crescita, non solo delle competenze
professionali “in senso proprio”, ma anche delle capacità individuali e di gruppo, e la
valorizzazione del personale, hanno costituito (e costituiscono) elementi imprescindibili
delle logiche di sviluppo organizzativo registrate.
Del resto, già in fase di definizione delle caratteristiche strutturali delle
amministrazioni che compongono il nostro “campo d’indagine”, avevamo ipotizzato, su
questi aspetti situazioni differenziate.
In particolare, l’aspetto più evidente è stato il mancato accompagnamento, in
qualche caso, del processo di ri-organizzazione con un’adeguata formazione
manageriale e professionale che tenesse conto della gradualità del processo di
avvicinamento al modello organizzativo prefissato e della necessità di operare
cambiamenti che garantissero una gestione non traumatica della transizione.
Del resto, è ormai diffusa e condivisa, l’affermazione che la risorsa umana
diventa sempre più centrale per il raggiungimento di un’adeguata performance e nel
contempo una fondamentale leva strategica ed un vero e proprio investimento.
A questo riguardo, invece, in molti ambiti della P.A. il ruolo della formazione
viene ancora oggi sottovalutato, come se si trattasse di un atto dovuto ovvero di un
adempimento che si aggiunge a tanti altri e non di un investimento per migliorare il
proprio futuro.
In particolare dalle interviste provenienti dalle realtà ministeriali è emerso un
grande fabbisogno formativo soprattutto per i dirigenti. Si è rilevato che gli investimenti
in formazione sono scarsi e che si tratta, in ogni caso, di interventi occasionali privi di
una continuità strategica e che riguardano per lo più l’addestramento in materie
specifiche; manca, insomma, un vero progetto formativo.
Si avverte fortemente il bisogno di interventi e piani formativi rivolti alla
diffusione di una nuova cultura lavorativa e quindi di un senso di appartenenza fondato
sui valori dettati dal cambiamento.
Inoltre gli intervistati sostengono che la formazione di un dirigente deve essere
continua: necessaria nella fase di ingresso nella realtà ministeriale e determinante negli
96
anni successivi, a supportare quello che è un ruolo gestionale di importanza strategica
per il raggiungimento di obiettivi di interesse collettivo.
Infine, in merito all’analisi dei “comportamenti organizzativi virtuosi” dei
dirigenti intervistati, si è rilevata una tendenza che se da una parte (Inps) si afferma e si
consolida uno stile di leadership tendenzialmente partecipativo, nelle altre due si
avviano nuove modalità di gestione e di valorizzazione del personale, ancora però
classificabili nell’ambito di uno stile tendenzialmente di tipo “direttivo” o “laissez
faire”.
Si mette in evidenza un contesto organizzativo e gestionale ancora bisognoso di
acquisire una “nuova consapevolezza” verso una leadership più efficace, che valorizzi
adeguatamente i collaboratori, che chiede di: ascoltare (prima di parlare) per informarsi;
sentire (prima di giudicare) e valutare; comprendere (prima di spiegare) e decidere;
accogliere (prima di resistere) e informare; addestrare gli altri e allenare se stessi.
In linea con questa impostazione, nel nuovo scenario politico, amministrativo ed
organizzativo il “buon dirigente” dovrebbe, dunque, tendere ad essere anche il leader
del gruppo di cui è responsabile, non solo il capo ufficio.
Per usare la metafora già indicata, come il direttore d’orchestra, anche lui è il
leader efficace di un’organizzazione complessa formata da un numero considerevole di
specialisti, che sono sempre più i principali responsabili dei risultati finali delle
performance dell’amministrazione 45.
Così nell'attuale contesto produttivo ed organizzativo solo il direttore
d'orchestra può fornire un modello di leadership capace di governare efficacemente
organizzazioni complesse, senza gerarchie intermedie e formate, essenzialmente, da
professionisti.
A riprova della presenza delle diverse velocità ipotizzate, nell’analisi del clima
presente all’interno delle amministrazioni esaminate, nella sua duplice accezione di
risultato e di determinante del comportamento degli individui e dei gruppi all’interno
delle strutture esaminate, si registra che: a fronte di pochi (dirigenti) che ritengono che
vi sia “un clima sereno ed incentivante”, il restante degli intervistati ritiene che “manca
del tutto una cultura di tipo solidale e di squadra che favorisca un clima motivante” e
sostiene che vi sia un clima “di attesa improntata alla speranza”, “di incertezza e
preoccupazione mista ad attenzione”.
45 Si veda Cocozza A., “Concertazione, orchestra e ruolo del Direttore. Dalla cultura musicale a quella delle relazioni industriali”, Industria & Sindacato, n. 6, , 1995, pp. 10-15.
97
A questo proposito, riteniamo necessario ricordare che, l’esito delle
trasformazioni in atto delle pubbliche amministrazioni, dipenderà soprattutto dalla
qualità e dalla motivazione dei suoi principali attori, cioè dai dirigenti.
In definitiva è bene ricordare che, le scelte di cambiamento, per essere efficaci,
dovranno necessariamente ispirarsi ai valori di fondo dell'amministrazione (intesa come
strutture e come sistema sociale e amministrativo) e si dovranno perseguire attraverso
programmi attuativi, che non sono solo basati sulla condivisione da parte dei dirigenti,
del personale, ma sono nel contempo l'espressione delle speranze e dei desideri delle
persone e lo strumento per il raggiungimento dei fini e della missione istituzionale.
Del resto è ormai noto che le amministrazioni pubbliche non rappresentano delle
semplici organizzazioni meccaniche, indicata spesso come la “macchina
amministrativa”, ma sono costituite oltre che da strutture, risorse, obiettivi e risultati
(come altre tipologie organizzative), da persone che hanno loro strategie e progetti, che
insieme danno vita ad un sistema sempre più complesso, sofisticato e orientato da valori
di fondo.
In queste organizzazioni si possono adeguare efficacemente le loro performance
alle sfide esterne e alla domanda interna, non solo perché si modificano i “processi
operativi” (cosa estremamente importante) ma perché si interviene coerentemente per
migliorare gli assunti di base della cultura organizzativa e si favorisce una maggiore e
migliore partecipazione di tutti gli attori sociali.
In definitiva, i risultati emersi dall’elaborazione delle informazioni raccolte e
dalla relativa attività di content analysis, possono rappresentare un valido contributo per
l’individuazione di possibili interventi di miglioramento in alcune aree dell’azione
organizzativa del dirigente, in uno scenario politico-amministrativo in continua
evoluzione.
In particolare, quanto è emerso dalla ricerca sul campo ci consente di proporre
alcune osservazioni in termini di strumenti e metodi per la realizzazione di un
cambiamento culturale e strutturale della pubblica amministrazione.
A questo fine, si ritiene di poter individuare le seguenti aree di miglioramento
per lo sviluppo organizzativo:
-la comunicazione, favorire la comunicazione con interventi di supporto
tecnologico ma soprattutto di tipo formativo per cambiare la cultura dell'informazione;
dare trasparenza al cambiamento strutturale rendendo partecipi tutti gli attori sociali;
98
-la formazione, organizzare la formazione in entrata allo scopo di socializzare i
nuovi collaboratori o dirigenti alla “cultura organizzativa dell’amministrazione”,
avviare percorsi formativi finalizzati alla condivisione delle nuove conoscenze e
competenze professionali nonché alle dinamiche interrelazionali, passare da una logica
di azione formativa a quella di progetto, per proporsi la costruzione (o il
consolidamento) di sistema strutturato di formazione continua;
-la visibilità dei risultati raggiunti, (organizzare conferenze; creare dei
precedenti di “successi ottenuti” generando così una memoria storica dalla quale
attingere per motivare il personale).
In conclusione, per il dirigente si tratta di governare un processo di evoluzione
estremamente impegnativo, che richiederà un investimento culturale, oltreché politico
ed organizzativo e un forte impegno personale, poiché come ricorda K. Weick il nuovo
principio che deve guidare l’azione degli attori (politici, manageriali, professionali e di
rappresentanza) nelle organizzazioni complesse, dovrà capovolgere l’affermazione
comune “Ci crederò quando l’avrò visto” e sostituirla con un’epistemologia che sostiene
invece : “Lo vedrò quando ci avrò creduto” 46.
46 Weick K., Le organizzazioni scolastiche come sistemi a legame debole, in Zan S., a cura di, Logiche di azione organizzative, Il Mulino, Bologna, 1988, p.357.
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103
Appendice
1. Schema intervista
a) MISSION, STRATEGIA E STRUTTURA ORGANIZZATIVA
- Mi può parlare della mission della struttura?
- Quali sono le strategie organizzative messe in essere per realizzare la condivisione
della mission e quindi il coinvolgimento del personale affinchè si raggiungano
determinati obiettivi?
- Quanto l'importanza della mission è motivante per chi fa parte di questa
organizzazione?
- L'attuale struttura organizzativa è funzionale al raggiungimento della mission?
- Quali sono le aree di miglioramento?
- Come sono assegnati i ruoli?
- Che tipo di orientamento viene dato al processo lavorativo (maggiore attenzione al
risultato/obiettivo o alle procedure; maggiore attenzione agli "atti" o alle attività)?
- Mi può parlare della modalità di verifica/valutazione dei risultati e come vengono
gestiti eventuali scostamenti?
b) LE CULTURE PROFESSIONALI
- Come viene vissuto il cambiamento normativo relativo alla riforma sulla dirigenza?
- Quali requisiti vengono richiesti ai dirigenti? E quali le caratteristiche attese (in
termini di conoscenze, competenze, esperienza, curriculum studiorum, ecc…)?
- Che cosa è cambiato in termini di ruolo e di attività per i dirigenti e che cosa è
rimasto immutato?
- Sono stati compiuti degli interventi strategici specifici a supporto del cambiamento?
- Il processo di formazione è mirato alla costruzione dei nuovi ruoli professionali?
c) LA LEADERSHIP E LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE
- Esiste un sistema premiante e quanto, come, influisce sulla motivazione del
personale?
- Quali altre leve vengono utilizzate per aumentare la motivazione?
- Esiste un processo di diagnosi-valutazione delle competenze? Quali sono le finalità
che l'amministrazione intende perseguire attraverso la valutazione e cosa si valuta
(valutazione di posizione, prestazione e potenziale)?
104
- La normativa è intervenuta per favorire la transazione da un modello di direzione
tecnico-amministrativo ad un modello di direzione manageriale, secondo lei la realtà
attuale dove si colloca rispetto a questi due modelli?
- Come definirebbe il clima organizzativo?
Sereno motivante
(orientato alla relazione)
Orientato agli obiettivi
(professionale) Negativo
- Può farmi qualche esempio?
d) IL COMPORTAMENTO ORGANIZZATIVO (*)
- La Comunicazione interna: come funziona? Se ci sono delle criticità…. quali
soluzioni si potrebbero adottare per risolverle?
- Quale è secondo lei il comportamento prevalente in questa struttura, (solidale,
partecipativo, di squadra oppure competitivo individuale)?
- Se lei dovesse descrivermi con un immagine questa struttura organizzativa, cosa le
verrebbe in mente?
2. Schema osservazione partecipante
Comunicazione Verbale
PROFESSIONALE
EFFICACE
Aggressiva UP-DOWN
Remissiva DOWN -UP
IN EQUILIBRIO ORIENTATA AL
CONTENUTO ORIENTATA ALLA RELAZIONE
Capacità di ascolto EFFICACE - EMPATICA
BUONA SCARSA
Comunicazione non verbale (atteggiamenti, tono di voce, postura, ecc..)
DI INTERESSE DISTACCATA OSTILE
ADEGUATA AL
CONTESTO FORMALE INFORMALE
(*) da approfondire con l’osservazione partecipante
105
Stile di Leadership PARTECIPATIVA DIRETTIVA LAISSEZ-FAIRE
Orientamento della Leadership
AL CLIMA, AL GRUPPO
AL RISULTATO, AL RAGGIUNGIMENTO DEGLI OBIETTIVI
Effetti della Leadership
PARTECIPAZIONE VIVACE – ELEVATA, FORTE MOTIVAZIONE
CARENZA D'ENTUSIASMO,
BASSA MOTIVAZIONE
RESISTENZA OSTILITÀ
Clima SPIRITO DI GRUPPO
SOLIDARIETÀ, APERTURA in termini di fiducia reciproca
SPIRITO INDIVIDUALISTA, COMPETIZIONE, CHIUSURA in termini di non fiducia reciproca