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1 Antonio Scalingi LA FORMA NEL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO NELLA SUA EVOLUZIONE STORICA ED ALLA LUCE DEI PIU’ ATTUALI ORIENTAMENTI DOTTRINALI E DELLE EVIDENZE GIURISPRUDENZIALI.

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Antonio Scalingi

LA FORMA NEL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO

NELLA SUA EVOLUZIONE STORICA ED ALLA LUCE DEI

PIU’ ATTUALI ORIENTAMENTI DOTTRINALI E DELLE

EVIDENZE GIURISPRUDENZIALI.

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INDICE:

CAPITOLO I : LA FORMA NELLA STORIA.

1.1 IL CONCETTO DI FORMA

1.2 IL PRINCIPIODEL NUDO CONSENSO E IL

DOGMA DELLA VOLONTA’

1.3 LA FORMA AD SUBSTANTIAM ED AD

PROBATIONEM

CAPITOLO II : LA FORMA DELL’ATTO

AMMINISTRATIVO.

2.1 ATTO AMMINISTRATIVO IN SENSO FORMALE

E IN SENSO MATERIALE .

2.2 ATTI AMMINISTRATIVI E FATTI

AMMINISTRATIVI .

CAPITOLO III : LA FORMA NELLA LEGGE 241/90.

3.1 LA FORMA DEL PROCEDIMENTO

AMMINISTRATIVO AI SENSI DELLA L. 241/90

3.2 L’INVALIDITA’ FORMALE DELL’ATTO

AMMINISTRATIVO

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3.3 LE NUOVE FORME DELL’ATTO

AMMINISTRATIVO ALLA LUCE DELLE NUOVE

TECNOLOGIE.

3.4 CASISTICA GIURISPRUDENZIALE.

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I CAPITOLO

1.1 Il concetto di forma.

L’indagine scientifica del presente lavoro è indirizzata a

esaminare, in primis, il concetto di forma e la sua evoluzione

giuridica nei secoli, attraverso l’analisi del concetto di forma

che si è modificato da semplice elemento di esternazione

della volontà dei soggetti assurgendo ad elemento essenziale

del negozio giuridico e successivamente come

manifestazione dell’attività amministrativa della Pubblica

Amministrazione.

Il cammino che viene percorso si svolge attraverso

l’indagine storica su l’istituto forma e sul suo significato,

cogliendo nel percorso intrapreso il ruolo sempre più

sostanziale della stessa per dare attuazione puntuale e precisa

alle volontà delle parti, assumendo anche la funzione di poter

dare ai soggetti parte gli elementi su cui porre le loro difese

contro atti che ledono i dritti e gli interessi in gioco.

Dopo un excursus sull’atto amministrativo in generale,

essenziale per introdurre ed inquadrare successivamente

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l’elemento della forma, l’indagine è rivolta in modo

particolare ad esaminare la stessa nel procedimento

amministrativo previsto dalla nuova formulazione della L.

241/90, ed a considerare tale elemento necessario a garantire

ed attuare pienamente il principio della trasparenza

dell’attività amministrativa, considerando le nuove forme

degli atti amministrativi alla luce delle attuali tecnologie, che

oggi producono l’atto amministrativo informatico.

La nozione di forma in epoca giustinianea ha avuto

applicazioni molto ampie e generalizzate, espressione del

momento storico di quella età. Ma i primi approcci

sistematici sul concetto di forma si hanno con i maestri

medievali, che analizzano gli elementi strutturali dei contratti

solenni, obbligatori o reali, e sono premessa per la creazione

della categoria dogmatica, che sarà sottoposta al processo di

modificazione da parte dei pandettisti, discostandosi anzi dal

significato che il termine forma aveva ricevuto nel linguaggio

giuridico romano.

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L’evoluzione del concetto di forma attiene indubbiamente

ad una elaborazione scientifica, che nasce dall’esigenza di

una nuova società che si andava affermando e costituiva la

risultante dell’incontro di molteplici motivi ed interessi

culturali.

La forma si erge ad elemento specificante e determinante

della materia ad substanzia e secondo Apel in riferimento alla

definizione di legatum data da Modestino , si distingueva la

donatio, che costituiva la materia ed il testamentum, cioè la

forma del negozio ed ancora Giaccio, analizzando la struttura

dell’usufrutto, insegnava che in essa andava distinta la

materia dalla forma.

La scienza del diritto, quindi, si è posta sempre l’esigenza

di distinguere un momento esterno formale da uno interno

sostanziale, per poter così adottare forme più aderenti alla

realtà sociale dell’epoca, trasformando le vecchie formule

negoziali, corrose da un’usura secolare.

Nello stesso periodo in Francia l’analisi strutturale del

rapporto obbligatorio dà risultati veramente significativi

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nell’ambito del tema che qui interessa, dando anche la prima

distinzione netta tra forma ad probationem e forma

obbligatoria o ad substantiam.

E’ nel Medioevo che si assiste alla distinzione tra il

concetto di forma e quello di substantia del contratto,

rendendo al primo un significato tecnico pieno, rispetto alla

nozione avuta nell’esperienza giuridica romana e per quattro

secoli l’elemento forma è sostanzialmente ancorata, in tema

di contratti alla nozione tecnica di forma intesa come

solemnitas verborum; è la stura che dovrà più tardi alla

Scuola Storica nel definire la forma del negozio giuridico,

come la confermazione esteriore della dichiarazione di

volontà.

1.2 Il principio del nudo consenso e il dogma della

volontà

Il fermento scientifico intorno alla categoria della

forma del negozio porterà ad attribuire quel significato

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tecnico alla stessa, che fu poi utilizzato e definito dalla

dottrina del negozio. Si avvertiva l’esigenza di individuare, al

di sotto della formalità contrattuali, l’effettiva operatività

della volontà, giungendo la scienza giuridica dell’Europa

continentale alle soglie dell’Illuminismo con due punti fermi,

che costituiscono le radici della categoria di cui sopra.

Infatti, il termine forma è entrato stabilmente nel

lessico giuridico col significato pregnante di “solemnitas

verborum” e cioè in definitiva di “ apparenza esteriore” del

contratto (solenne) onde lo stesso distinguere una forma da

una sostanza dell’atto o del rapporto suggeriva la possibilità

di identificare la seconda con la volontà delle parti (si

rammenti l’incisiva analisi degli elementi della stipulatio già

accennato da Baldo).

Intorno al Cinquecento con il proliferarsi di nuovi

schemi negoziali atipici, la scienza giuridica era portata a

riconoscere almeno in certi casi, efficacia vincolante

all’incontro della volontà, ma alcuni autori negavano ancora

valore obbligatorio ai patti nudi ed in generale ad non

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considerare indispensabili i requisiti formali nei rapporti

sinallagmatici (requisiti formali e non necessariamente

solenni), si pensi alla valutazione della “ vel factum” in tema

di contratti innominati, compiuta nel Quattrocento e nel

Cinquecento, quando ancora la pratica negoziale annetteva a

quelle forme una funzione essenziale per la formazione del

rapporto.

Il principio però del nudo consenso trova piena e

consapevole affermazione ed è accolto dalla scienza del

diritto come direttiva etica, prima ancora di essere enunciato

come canone tecnico-giuridico per la formazione e

l’interpretazione del rapporto contrattuale.

Nato, dunque, come conquista della scuola del diritto

naturale, il principio del nudo consenso è stato ben presto,

attraverso successiva generalizzazioni, assunto a base di tutto

il sistema contrattuale ( in esso comprendendo i pacta nuda)

sino a diventare la matrice diretta del dogma della volontà,

che costituisce il punto di incontro e di sutura tra illuminismo

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e Scuola Storica sul quale i pandettisti costruirono la teoria

del negozio.

Proprio in codesta prospettiva che occorre fissare le prime

consapevoli enunciazioni della categoria di forme del

negozio: categoria che si delinea già con sufficiente chiarezza

nella trattazione dei giusnaturalisti, allorquando essi

affermavano che i contratti possono essere distinti in formali

e non formali.

In questa epoca cominciano anche le prime classificazioni

e suddistinzioni del consenso, che saranno più recepite dai

pandettisti per la teoria del negozio.

Ed una volta che la scienza fa assurgere la volontà del

privato come fondamento ed essenza del negozio, si

comprende anche come la veste che il negozio assume debba

essere relegata a rango di un mero accidentale strumento

della volontà : questa ultima di per se stessa deve essere

considerata come l’unico elemento importante ed efficace

del negozio e soltanto perché essa è un fatto interiore,

invisibile, ha bisogno di un segno per il quale essa possa

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essere conosciuta dagli altri e secondo il Savigny lo stesso

si sostanzia nella dichiarazione, che ha il compito di

manifestare la volontà. Tale concezione condusse a

considerare la funzione della forma come strumento per la

manifestazione dell’intero volere, con la conseguenza di

individuare tutta la problematica del negozio ad una indagine

essenzialmente patologica, la quale avrebbe finito non solo

col minare l’esigua certezza dei rapporti giuridici tra privati ,

ma addirittura, al limite, avrebbe fatto dubitare della validità

stessa della categoria del negozio.

La scienza tedesca successiva al Savigny cercò in varia

misura di reagire ai pericoli provocati da un’accettazione

esasperata del dogma della volontà. Nascono così le teorie

cosiddette “dichiarazioniste”, secondo cui la dichiarazione

non è la mera relazione della volontà, in quanto questa sia

considerata interno stato d’animo, ma essa stessa volontà

attuale: di qui la deduzione così come un volere non

manifestato sfornita di volontà, non può produrre effetti

rilevanti per il diritto.

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Quanto alla problematica relativa alla categoria di forma

del negozio intesa nel senso che si è ora rammentato resta da

aggiungere un solo altro punto caratteristico nella misura in

cui denuncia la sua intima connessione al dogma della

volontà.

Ci si riferisce alla tradizionale distinzione, valida

nell’ambito dei negozi “privi di forma” tra manifestazione

espressa e manifestazione tacita della volontà.

Secondo Windscheid la manifestazione espressa consiste

in parole, gesti, segnali; tacita, quella che consiste in un

comportamento, che assicuri un’ illazione certa intorno

all’esistenza della volontà

E’ l’influenza palese del dogma della volontà emerge.

Infatti l’illazione viene intesa nel senso che essa dovrebbe

permettere all’interprete di arguire dall’atteggiamento

esteriore del soggetto l’esistenza e la direzione della volontà

interiore.

Da qui, il passo è stato breve per parlare anche di una

manifestazione tacita in quanto “presunta”: si avrebbe

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manifestazione presunta quando l’ordinamento giuridico trae

a priori dall’esistenza di uno o più fatti una data conseguenza

e il dogma della volontà emerge qui nel supporre esistente

necessariamente una data volontà, senza della quale non

sarebbe possibile giustificare certi effetti giuridici,

conformemente all’insegnamento giusnaturalistico, che nella

sovranità della volontà rassicura la fonte creatrice degli effetti

giuridici.

Identico atteggiamento mentale si rinviene nel porre il

problema, se in qual misura il silenzio possa rendere

riconoscibile la volontà ancorché non esternata in alcun

modo.

1.3 La forma ad substantiam ed ad probationem.

La classificazione dei negozi formali e non formali risale

ad epoca remota ed è stata codificata nel nostro codice

civile, che all’art. 1325 prevede tra i requisiti del contratto

la forma quando è prescritta dalla legge sotto pena di

nullità.

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A prima vista sembrerebbe che la forma non sia sempre

necessaria, anzi si considera la stessa come elemento

molte volte facoltativo, portando alla considerazione che i

negozi non formali possono fare a meno di una

estrinsecazione.

Il problema deve essere visto nell’ottica di considerare i

negozi tutti formali, nella misura in cui qualunque

comportamento umano destinato ad avere ripercussioni

nella società, richiede una forma rappresentativa, che lo

renda idoneo ad essere identificato ed interpretato.

Pertanto, ammesso il fondamento della distinzione nella

differente funzione che la forma negoziale può avere, si

può affermare che in certi casi la forma è richiesta ad

substantiam, ossia è vincolata; invece in altri casi è libera,

nel senso che qualsiasi forma adottata è utile per rendere

operante la volontà dei soggetti.

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II CAPITOLO

La forma dell’atto amministrativo

2.1. Atto amministrativo in senso formale e in senso

materiale

L’indagine scientifica, dopo aver passato in rassegna il

concetto di forma e la sua evoluzione giuridica nel tempo,

rivolge la sua attenzione sul tema del presente elaborato, che

è quello della forma dell’atto amministrativo.

Prima, però, di trattare il tema preposto, è essenziale

fornire la distinzione tra atto amministrativo in senso formale

e quello sostanziale , e tra atti amministrativi e fatti

amministrativi.

Di seguito si passerà a considerare gli elementi dell’atto

amministrativo, evidenziando il vizio dello stesso in ordine

alla forma ed al suo contenuto.

Nella terminologia giuridica si parla di atto

amministrativo in senso materiale e sostanziale e in senso

formale.

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Nel primo caso si ha riguardo al contenuto dell’atto; ed è

atto amministrativo ogni dichiarazione di volontà, giudizio

ecc. di una pubblica autorità (legislativa, giurisdizionale o

amministrativa), che contenga un atto di amministrazione, sia

cioè esplicazione dell’attività di amministrazione. Attività

che è, come noto, caratterizzata dal fine di provvedere in

materia immediata e concreta ad esigenze singole o collettive

per la cura dei pubblici interessi, onde il nome di

provvedimenti, largamente adottato per designare l’atto

amministrativo.

Nel secondo caso, si ha riguardo alla forma, e pertanto alla

figura dell’atto; ed è atto amministrativo ogni dichiarazione

di volontà, di giudizio di una pubblica autorità ( legislativa,

giurisdizionale o amministrativa) diverso dalla legge e della

sentenza. Questa diversità si manifesta e nella procedura di

formazione dell’atto e soprattutto, negli effetti giuridici, nella

forza giuridica propria all’atto amministrativo. I due criteri di

individuazione formale e materiale, possono escludersi e

molto spesso si combinano.

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L’atto amministrativo in senso formale si manifesta in

guisa assai diverse, assumendo denominazione corrispondenti

con una terminologia talora imposta dal legislatore, ma

comunque largamente seguite dalla dottrina e dalla prassi (

deliberazione, decreto, ordinanza, parer ecc.)

Sta di fatto che si definisce atto amministrativo la

dichiarazione concreta di volontà, di giudizio, di scienza di

un’autorità amministrativa nell’esplicazione dell’attività di

amministrazione, indicando tale definizione gli elementi

dell’atto stesso.

Il primo elemento è la dichiarazione che per quanto si

intende la manifestazione, la traduzione nel mondo esterno,

della propria volontà. La dichiarazione ha un contenuto e

questo può essere il più vario: l’attestazione di una notizia;

può essere l’espressione di un’opinione; un giudizio sopra un

fatto o un atto o una questione, come un parere; può essere un

atto di volontà ed il voluto può foggiarsi in guisa molteplici

dal comando, al divieto, all’autorizzazione al consenso ecc.

dando luogo, per massima parte, alla figura degli atti

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amministrativi speciali. Va notato anche che la dichiarazione

può essere individuale, quando riguarda un solo caso,

generale quando riguarda una plurità di persone non

individuabili, collettiva quando riguarda più persone, ma

individualmente determinate o determinabili( per esempio il

decreto con cui un’autorità nomina più persone vincitrici di

un concorso.

La dichiarazione deve provenire da un organo

amministrativo , sia esso dello Stato, sia di altra persona

giuridica pubblica amministrativa.

Con ciò restano esclusi degli atti amministrativi, che pur

essendo manifestazione di attività amministrativa,

provengono da pubbliche autorità non amministrative, ma

giurisdizionali e giudiziari segue..

2.2 Atti amministrativi e fatti amministrativi

Riguardo, poi, la categoria dei fatti amministrativi, questi

si sostanziano in fatti materiali, in operazioni di organi

dell’amministrazione nell’esercizio di attività amministrativa,

rivolti a produrre una modificazione nel mondo esteriore.

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Si possono avere fatti amministrativi indipendentemente

dall’emanazione di un atto amministrativo antecedente o gli

stessi per dare esecuzione a questo ultimo; essi sono retti

dalle stesse norme che valgono per gli atti amministrativi, in

quanto siano a loro applicabili.

Considerando l’atto amministrativo nelle sua figura più

importante, cioè quella di una dichiarazione di volontà, ci si

può trovare di fronte a due ipotesi distinte: che la volontà

manchi, e che la volontà sia viziata.

Questo ultimo aspetto è di rilievo per questa trattazione

scientifica, in quanto indaga sulla patologia della forma.

I vizi di forma possono essere relativi alla modalità

nell’esternazione dell’atto o all’inosservanza nella

formazione del procedimento amministrativo e costituiscono

violazione di legge, e di conseguenza sanzionati

dall’ordinamento giuridico.

Particolare attenzione merita il vizio di forma dell’atto

amministrativo, in quanto presume la sussistenza o meno di

una forma dell’atto amministrativo.

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Non si ritrova nel diritto amministrativo un obbligo di

forma degli atti stessi, ma la necessità della forma scritta si

rinviene nelle molteplici disposizioni, che disciplinano gli atti

dell’autorità amministrativa, producendo l’inosservanza di

tali disposizioni la nullità dell’atto per violazione di legge, in

quanto si deve ritenere che la forma sia stabilita ad

substantiam acti.

III CAPITOLO

3.1 La forma del procedimento amministrativo ai sensi

della L. 241/90.

Ora l’istituto della forma deve essere inquadrato nella

legge 241/90. Questa ultima è stata il frutto di una lunga

elaborazione giurisprudenziale principalmente del Consiglio

di Stato ed anche dottrinaria.

Nella sua prima formulazione il legislatore si era limitato a

dettare alcuni principi fondamentali, per lo più frutto di

consolidate posizioni giurisprudenziali.

Tali principi sono rivolti al perseguimento di una maggiore

efficienza e pubblicità dell’azione amministrativa, con il

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coinvolgimento dei soggetti pubblici e privati interessati nel

procedimento, essendo la pubblicità la novità più dirompente

della legge n. 241/90, che si attua attraverso esternazione

scritta dell’attività procedimentale amministrativa e si

sublima nella forma del provvedimento amministrativo.

Invero l’ottica dell’amministrazione pubblica nei confronti

del cittadino è passata da una posizione di supremazia, per la

quale una minor esternazione della volontà sull’azione

amministrativa, ad una maggiore coinvolgimento della parte

privata all’adottare gli atti e provvedimenti amministrativi.

Si attua, così, un processo di democratizzazione

dell’attività pubblica, che non molti anni fa era impensabile,

ma che ha avuto i primi germogli del cambiamento con la

legge 241/90, che ha posto in risalto le aspettative dei

cittadini prevedendo un modulo partecipativo degli stessi

all’attività amministrativa.

I tempi erano maturi, per assistere al cambio di rotta del

legislatore, che dopo 45 anni dalla fine della guerra,

abbandonando le posizioni di supremazia della Pubblica

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Amministrazione, antico retaggio del monarca sovrano, che

a sua discrezione concedeva ai sudditi quanto loro

richiedevano, per incamminarsi nel processo democratico

dell’attività amministrativa, così adempiendo compiutamente

al dettato Costituzionale, che per molto tempo era stato

disatteso.

E da ancora si coglie la necessità della forma nella legge n

340/2000 che all’art. 10 prevede, in sede di conferenza

preliminare l’accertamento delle condizioni per ottenere i

necessari atti di consenso, costringendo quindi i

rappresentanti delle amministrazioni coinvolte ed esternare in

via preventiva le loro conoscenze sulla fattibilità

dell’iniziativa del privato, comportando anche ciò la svolta in

senso effettivamente democratico del ruolo

dell’Amministrazione pubblica da soggetto passivo nel

riscontro della legittimità delle istanze degli amministrati ad

una funzione partecipativa e collaborativi con essi nello

svolgimento di un servizio pubblico.

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E con l’intervento della legge 11.02.2005 n. 15, portanti

modifiche ed integrazioni alla l. 241/90,che sostanzialmente

approva l’atto senato n 1281/202, presentato dal Presidente

del Consiglio dei Ministri e dal Ministro della Funzione

Pubblica, si hanno le disposizioni che in questo tema

interessano, ed attengono a ridurre le modalità per la

formazione del silenzio rifiuto ed introdurre il preavviso di

rigetto dell’istanza del privato e le regole dettate in materia

d’invalidità formale, non da ultimo stabilendo espressamente

l’uso della telematica nell’attività amministrativa con l’art 3

bis della novellata l. 241/90.

3.2 L’invalidità formale dell’atto amministrativo.

La tematica è stata dalla novellata legge affrontata con

specificità , pur costituendo uno dei punti maggiormente

controversi della l. 45 dell’11 febbraio 2005, che percorre

strade giuridiche, che già erano state battute dalla dottrina e

dalla giurisprudenza, fornendo all’azione autoritativa della

pubblica amministrazione strumenti per poter superare taluni

punti essenziali dell’azione stessa.

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Non si conosce ancora l’impatto che queste disposizioni

avranno sull’attività amministrativa , ma certamente

sorgeranno questioni circa la loro applicazione demandando

le stesse agli operatori del diritto.

Particolare attenzione si deve prestare al Capo IV-bis,

intitolato “sull’efficacia ed invalidità del provvedimento

amministrativo. Revoca e recesso”, ove all’art. 21 septies è

disciplinato l’istituto della nullità del provvedimento.

Una norma specifica in passato non si rinveniva anche

nella precedente formulazione della l. 241/90, e la categoria

della nullità costitutiva un’elaborazione specialmente

dottrinaria con applicazioni giurisprudenziali.

L’istituto prefato è da inquadrare nella categoria degli stati

patologici, classificati nel seguente modo: atto

amministrativo imperfetto, inefficace, ineseguibile, invalido,

irregolare.

In particolar modo si parla della nullità ,abbandonando

ogni altra qualificazione come su riportata, quando si è in

presenza di un provvedimento, che manca degli elementi

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essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione,

che è stato adottato in violazione o elisione del giudicato,

nonché negli altri casi stabiliti dalla legge.

La novellata legge 241/90 in tema di nullità si richiama

alla categoria identificata autonomamente solo dai sostenitori

della tesi negoziale del provvedimento; secondo il Virga si

verifica tale vizio, quando non vi è un cosiddetto elemento

essenziale dell’atto ( soggetto, oggetto, volontà, forme,

destinatario) o nel caso di norma imperativa o ancora nel caso

di atto amministrativo in contrasto con sentenza passata in

giudicato e comminando il legislatore per questo la sanzione

della nullità.

Tale autore non ritiene necessario differenziare la nullità

rispetto all’inesistenza, diversamente a quella parte della

dottrina che identifica le ipotesi di inesistenza nel difetto di

un elemento essenziale, che sia di gravità tale, da far venir

meno la riconoscibilità esteriore dell’atto come

provvedimento amministrativo: in questo ultimo caso non vi

sarebbe nemmeno un’apparenza di provvedimento.

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Altra parte della dottrina ha creato più recentemente la

categoria della nullità-inesistenza, consiste in un vizio

patologico intermedio tra l’inesistenza vera e propria e la

nullità.

Si rinviene tale categoria nell’ipotesi in cui vi sia carenza

di poter in concreto,caratterizzato dal fatto che pur esistendo

una norma in astratto che conferisce alla Pubblica

Amministrazione il poter in base al quale agisce lo stesso,

non sussiste materialmente, in quanto il provvedimento non

ha : la forma richiesta ad substantiam; è adottato in assenza

del giusto provvedimento; è adottato oltre il termine

perentoriamente stabilito dalla legge ed è sprovvisto dei

presupposti richiesti dalla legge.

Questa figura intermedia , però, pone delle problematiche

circa le conseguenze derivanti dal qualificare l’atto

amministrativo nullo o inesistente.

Invero, aderendo alla concezione dottrinale dei fautori

della distinzione sostanziale tra le due terminologie, si rileva

che nel caso di nullità dell’atto l’istituto della conversione

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dello stesso è ammesso, e per quanto riguarda, invece,

l’inesistenza si riscontra la non applicabilità di questo ultimo

rimedio.

Pertanto, l’operatore non ha indicazione circa

l’applicazione o meno del rimedio giuridico previsto per la

nullità dell’atto, nell’ipotesi in cui si verta nella figura della

nullità-inesistenza.

Un’occasione mancata dal legislatore per far chiarezza in

questo campo, che si badi non costituisce una distinzione

puramente terminologica, ma comporta , invece,

un’applicazione pratica riflettente sulle conseguenze dell’atto

amministrativo.

3.3 La negazione della forma: l’istituto del silenzio.

Dopo la distinzione posta nei paragrafi precedenti sulla

forma, l’indagine giuridica deve ora considerare se

l’elemento forma sia essenziale o meno per l’esplicazione

dell’attività amministrativa .

Se si considera che la forma indiretta , cioè il silenzio , ha

una valenza giuridica nella società, si è portati a considerare

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la forma come elemento non necessario ad esternare l’agire

della Pubblica Amministrazione.

Invero, il comportamento che attiene alla non

manifestazione espressa della Pubblica Amministrazione ha

comportato profondo interesse da parte sia della dottrina che

della giurisprudenza ad applicarsi a questo fenomeno, che ha

avuto negli anni continue trasformazioni.

La ragione di tale istituto risiede, ad avviso dell’autore ,

nella incapacità di valutare ed eventualmente soddisfare in

tempi ragionevoli le richieste dei cittadini o in alcuni casi di

non voler esprimere la volontà amministrativa su questioni

che possono procurare nocumento all’amministrazione.

Si poneva, però, il problema di codificare tale fenomeno e

dare valenza ben precisa alle varie tipologie di silenzi, che si

potevano avere.

Bisogna, inoltre, distinguere il silenzio dalla

manifestazione tacita, che si verifica quando le stesse si

possono ricavare da un provvedimento o da un

comportamento dell’autorità amministrativa, che sia univoco

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ed incompatibile con una volontà diversa, mentre il silenzio

manca assolutamente di una volontà espressa della Pubblica

Amministrazione.

Un antico brocardo afferma che il silenzio “ qui tacet,

neque negat, neque utique fatetur”, confermando che lo

stesso non può assumere di per sé alcun significato né

positivo né negativo.

Da ciò deriva che il silenzio non è né una manifestazione

tacita di volontà, né un comportamento giuridico, ma un

semplice fatto giuridico.

Tralasciando la distinzione delle varie tipologie di silenzio

alle altre trattazioni scientifiche, che sul tema si sono molto

soffermate, il dato essenziale che qui interessa è stabilire

quando lo stesso si verifica e secondo il Virga ricorre quando

si è di fronte ad una delle seguenti ipotesi: a) che la legge

attribuisca ad esso un valore positivo o negativo; b) che si

verifichi in circostanze tali da conferirgli il significato di un

atto concludente.

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Da ciò deriva l’esigenza di come inquadrare l’istituto del

silenzio alla luce dell’art. 2 della legge 241/90, ove è previsto

l’obbligo di concludere il procedimento con un

provvedimento espresso.

Vi è da considerare che antecedentemente alla legge

241/90 sussisteva l’incertezza circa i tempi di risposta

dell’ufficio per le richieste pervenute dai cittadini.

Agli interessati ad un procedimento amministrativo, non

solamente era preclusa la loro partecipazione alla stessa ma

non si aveva conosceva del responsabile del procedimento,

ma specialmente non si aveva certezza circa i tempi

occorrenti per la conclusione dello stesso.

Con la legge 241/90 l’art 2 ha posto un principio di

certezza del tempo dell’agire della pubblica amministrazione,

costituendone un principio inderogabile di ordine pubblico,

quindi indisponibile dalle parti e pertanto non suscettibile di

negoziazione estensiva o riduttiva.

Ed ancora, anche la legge Bassanini ha dato un contributo

al conseguimento degli obiettivi di efficienza ed efficacia

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dell’azione amministrativa, riaffermando all’art 20 comma 5,

lettera b) legge 59/97 la riduzione dei termini per la

conclusione dei procedimenti e la uniformazione dei tempi di

conclusione previsti in procedimenti tra loro analoghi, così

affermando la necessità che i termini previsti da ciascuna

Amministrazione, per la definizione dei procedimenti

amministrativi in tanto possono essere considerati legittimi se

ed in quanto si uniformano alle regole della celerità.

Ed in mancanza del rispetto della normativa il legislatore

ha previsto, all’art .17 comma 1 lett. f legge 59/97, forme di

indennizzo automatico a favore dei soggetti richiedenti il

provvedimento.

Pertanto, la forma va ribadendo la sua necessaria esistenza

per l’attività amministrativa, lasciando spazi ristretti

all’istituto del silenzio, dovuti anche alla conseguenza che

l’inosservanza del dovere concluder il procedimento nel

termini prescritto, determina la nascita del silenzio rifiuto,

consentendo, però, di ricorrere immediatamente al giudice

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amministrativo per l’accertamento dell’inadempimento

dell’obbligo di provvedere.

Il silenzio costituisce uno strumento di arbitrio, utilizzato

per attuare fini deviati dell’azione amministrativa,

esprimendo un fatto di disfunzione della stessa e consistente

nell’inadempimento di un dovere procedurale.

Pertanto, emerge l’esigenza che l’attività amministrativa

sia sempre svolta in forme espresse e che abbiano contenuti,

che permettano di ripercorrere tutte le fasi di formazione del

provvedimento, esternando la volontà pubblica in un

dispositivo esauriente e logico.

3.3 Le nuove forme dell’atto amministrativo alla luce

delle attuali tecnologie

Dato di maggior rilievo che si coglie nella novellata legge

241/90 è l’introduzione dell’art. 3 bis intitolato “Uso della

telematica”, con il quale si apre uno scenario nuovo

nell’esplicazione dell’attività amministrativa.

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La norma è resa necessaria per adeguare l’azione pubblica

ai tempi odierni, ove l’uso di tecnologie avanzate offre la

possibilità che le amministrazioni possono conseguire

maggiore efficienza nella loro attività.

L’art. 3 bis del nuovo testo della legge 241/90, pur nella

sua formulazione generica, dà ingresso all’elaborazione

dell’atto amministrativo in veste informatica .

I primi germogli dell’attività computerizzata sono nati per

poter risolvere l’esigenza delle Pubbliche Amministrazioni

di archiviare i dati ed protocollare la corrispondenza e

qualsiasi altro atto in entrata o in uscita, inerente all’attività

amministrativa.

Uno dei primi enti pubblici che si è dotato di un’efficiente

sistema informatico è stato l’Istituto Nazionale della

Previdenza Sociale, attesa la necessità di dover gestire una

miriade di informazioni di dati per fini istituzionali. Di

seguito, l’Amministrazione finanziaria sull’esperienza

dell’INPS, ha rivolto la sua attenzione al processo

informatico, indubbiamente avvertendo l’esigenza di avere

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una banca dati del contribuente, attraverso l’istituzione

dell’Anagrafe Tributaria.

Ma non solo la conservazione dei dati e l’utilizzazione del

protocollo informatico hanno avuto una valenza pregnante

per l’attività amministrativa, ma anche lo scambio in rete

delle informazioni tra le istituzioni pubbliche.

Ciò ha fatto si che il modello tradizionale dell’atto

amministrativo, fosse in parte modificato e per alcune

amministrazioni l’adottamento di forme nuove, che valutano

diversamente la sistematica dell’esposizione dell’atto stesso ,

ponendo il testo dispositivo prima rispetto alla parte

motivazionale, che sono alla base dell’atto.

Ma l’atto per potersi definire informatico, non solo deve

essere redatto con il sistema informatico, ma deve avere un

ulteriore requisito se inviato per via telematica, cioè quello

della certezza dell’autorità che lo ha emesso. rendendo così lo

stesso pienamente valido nei confronti delle parti a cui è

rivolto.

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Pertanto, si pone in rilievo un altro elemento della forma

dell’atto amministrativo, che consiste nella apposizione della

firma elettronica. Su questo dato , che costituisce il tassello

fondamentale per avere un atto amministrativo valido, la

scienza informatica è riuscita ad elaborare un sistema tecnico

per poter assicurare l’assoluta certezza della individuazione

dell’autorità emittente.

Tutto ciò, nelle forme previste del testo unico delle

disposizioni legislative e regolamentari in materia di

documentazione amministrativa di cui al D.P.R. 28 dicembre

200 n. 445, da ultimo modificato dal D.Lgs. 23 gennaio 2002

n. 10 .

Anzi nella novellata l. 241/90 all’art .22 comma 1° si dà la

definizione di documento amministrativo intendendo ogni

rappresentazione grafica, fotocinematografica,

elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di

atti, anche interni o non relativi ad uno specifico

provvedimento detenuti da una pubblica amministrazione e

concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente

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dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina

sostanziale. Pertanto, si dà attuazione anche con la

disposizione dell’art 3 bis, all’obiettivo generale della

riforma, che consiste nell’istaurare un rapporto tra cittadini e

pubblica amministrazione sempre più ispirato da principi di

efficienza, economicità ed imparzialità: un rapporto che pur

tenendo conto della peculiarità degli interessi da tener in

debito conto dalla pubblica amministrazione,

nell’esplicazione della sua attività, realizzi un modello di

collaborazione tra cittadini ed amministrazioni, per poter

confezionare il provvedimento amministrativo

Indubbiamente l’art. 3 bis della l. 241/90 costituisce una

norma solo di indirizzo, in quanto nessuna sanzione è

prevista per l’ipotesi in cui le amministrazioni non si

adeguino alle disposizioni circa il maggiore utilizzo di

strumenti telematici.

Il principio introdotto dall’art. 3 bis è di una certa portata

e rappresenta la conclusione di un lungo percorso iniziato con

la legge n. 59/1997, che all’art. 15 prevede che gli atti, dati e

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documenti informatici o telematici, i contratti stipulati nelle

medesime forme, nonché la loro archiviazione e trasmissione

con strumenti informatici, sono validi e rilevanti a tutti gli

effetti di legge. Tale disposizione rappresenta una pietra

miliare, ponendosi quale principio cardine, sul quale è stato

costruito tutto il sistema dalla firma digitale e dal documento

informatico oltre che dal protocollo informatico e dal sistema

di gestione informatico dei documenti e della novellata l.

241/90.

Si è avvertita, però, l’esigenza di adottare un regolamento

giuridico per il fenomeno informatico, al fine di dare garanzie

e validità ad atti o provvedimenti amministrativi, attraverso

l’utilizzo del sistema informatico.

Con legge delega sono stati affidati al Governo numerosi

compiti che riguardano i diversi tipi di firma elettronica,

l’attribuzione al dato e al documento informatico contenuto

nei sistemi informativi pubblici dei caratteri della primarietà

e dell’originalità, l’adeguamento della normativa alle

disposizioni comunitarie, la revisione della disciplina vigente

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al fine di creare la più vasta gamma di servizi resi per via

telematica dalle pubbliche amministrazioni, nonché

l’assicurazione ai cittadini e alle imprese di accedere a tali

servizi.

Tutto questo è stato trasfuso nel Codice della Pubblica

Amministrazione Digitale con D.Lgs. 7 marzo 2005 n.82, che

ha suscitato pesanti critiche da parte del Consiglio di Stato,

già per lo schema del decreto legislativo, con il parere n

11995/2005 reso nell’adunanza del 7 febbraio 2005.

Il legislatore, infatti, ha emanato la nuova normativa che in

alcuni punti potrà essere soggetta a disapplicazione

comunitaria ed anche ad incostituzionalità per eccesso di

delega. In particolar modo si rileva come in materia di

documento informatico, di firma digitale, di firma elettronica

leggera non si è avuta una evoluzione normativa, ma un

ancoraggio ai superati schemi previsti dal D.P.R. 513/97.

Emergono, però, anche elementi positivi nel Codice

suddetto, in tema di conservazione digitale dei documenti

contrattuali, amministrativi, contabili, fiscali ed inoltre le

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norme codicistiche di natura programmatica, che pongono il

servizio digitale al centro del processo di trasparenza

dell’azione amministrativa.

Una nuova normativa, che se anche non è esaustiva, in

quanto non comprensiva di disposizioni in materia di posta

elettronica ed in materia di Sistema Pubblico di Connettività,

ha intrapreso un processo di irreversibile cambiamento

tecnologico, che sarà proteso ad una nuova forma di

comunicazione ed formazione dell’attività amministrativo.

3.4 Casistica giurisprudenziale.

Pur avendo pochi mesi di vita la novellata legge 241/90,

durante questo periodo si è avuta una produzione

giurisprudenziale in merito all’applicazione dell’art. 21-

octies sia per la prima parte che per la seconda.

Di particolare importanza la sentenza del T.A,R, Sardegna

Sez. II, sentenza 25 marzo 2005 n 483 che prende in

considerazione l’articolo 21 octies della novellata legge

241/90, secondo cui le disposizioni dettate dallo stesso nella

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prima parte “non è applicabile nel caso in cui il

provvedimento direttamente lesivo della posizione soggettiva

fatta valere dal ricorrente ( nella specie, avente ad oggetto la

scelta dell’assetto viario ) abbia natura discrezionale, a nulla

rilevando che siano stati impugnati anche gli atti ( nella

specie occupazione d’urgenza ), che hanno natura vincolante,

passando poi a considerare che non si può applicare la

disposizione del prefato articolo nella parte seconda “ nel

caso in cui sulla base degli atti depositati

dall’Amministrazione e dagli elementi di diversa natura

acquisiti in giudizio, non possa ritenersi raggiunta la prova

richiesta dalla disposizione stessa e le soluzioni prospettate in

giudizio dal privato,non siano state mai concretamente

esaminate dall’Amministrazione”.

Altra interessante sentenza è quella del T.A,R. Campania,

Napoli Sez. IV, sentenza 12 aprile 2005 n. 3780 che prevede

l’annullabilità del provvedimento quando viene accertata

l’incompetenza relativa dell’organo adottante ( da non

confondere con l’incompetenza assoluta disciplinata dall’art

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21 septies, comma 1, della legge n. 241/90 ), non potendo

trovare applicazione la disposizione che ne preclude

l’annullamento laddove sia palese che il suo contenuto

dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello

adottato.

Questa ultima disposizione, infatti, si riferisce soltanto ai

casi in cui il provvedimento sia stato adottato in violazione di

norme sul procedimento o sulla forma, tra le quali non è

possibile includere le norme sulla competenza.

In ultimo il T.A.R. Campania, Salerno, Sez, I, sentenza 4

maggio 2005, n.760) ritenendo ammissibile la motivazione

postuma contenuta in una nota con la quale

l’Amministrazione intimata, aveva precisato le ragioni che

l’avevano indotta ad adottare l’atto impugnato, rileva che “

ai sensi dell’art. 21- octies, 2° comma, della l. 7 maggio 1990

n.241, introdotto dalla l. 11 febbraio 2005, n15 è ormai da

escludersi ogni patologica ricaduta dei vizi attinenti alla

forma degli atti amministrativi o a violazioni

procedimentali”.

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Ciò che si coglie da queste sentenze è l’orientamento di

salvare a tutti i costi il provvedimento amministrativo a

danno del cittadino, che assiste all’erosione delle sue garanzie

partecipative all’attività amministrativa.