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Andrea Pergolari Pasquale Festa Campanile ovvero La sindrome di Matusalemme Prefazione di Ottavio Jemma ARACNE

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Andrea Pergolari

Pasquale Festa Campanile

ovvero

La sindrome di Matusalemme

Prefazione di Ottavio Jemma

ARACNE

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(06) 93781065

ISBN 978–88–548–1926–9

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I edizione: luglio 2008

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INDICE

Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51

CAPITOLO I – La vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53CAPITOLO II – Le sceneggiature . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59CAPITOLO III – Lo stile, i temi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 73CAPITOLO IV – I film . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101CAPITOLO V – Il teatro e la letteratura . . . . . . . . . . . . . . . 249

Appendice. Cinema o letteratura? . . . . . . . . . . . . . . . . 263

FilmografiaRegie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 273Soggetti e sceneggiature . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 401

Teatro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 419

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 425

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PREFAZIONEdi Ottavio Jemma

Voglio dirlo subito, senza girarci intorno, senza contorteperifrasi introduttive che servano per arrivare con gradualità aun’affermazione che, ne sono certo, sorprenderà qualche “ani-ma bella” e strapperà a qualcuno un sorrisino di scetticismo.Rispetto al clima culturale del cinema italiano negli anni Ses-santa, Settanta e Ottanta, un cinema letteralmente affollato difalsi ribelli, Pasquale Festa Campanile è stato un ribelle forseinconsapevole, ma autentico.

Nella seconda metà degli anni Sessanta, il ragazzo giunto aRoma dal profondo sud, il ragazzo che aveva in pochissimotempo, con l’indubbio fascino personale e con il talento di cuiera straordinariamente dotato, letteralmente conquistato la cit-tà eterna, lasciandosene a sua volta conquistare; il ragazzoche, poco più che trentenne, poteva vantarsi di aver già guada-gnato la simpatia degli ambienti mondano–culturali della ca-pitale e raggiunto un lusinghiero successo collaborando allanascita di film straordinariamente popolari come Poveri mabelli, ma anche “importanti” come Il gattopardo, Rocco e isuoi fratelli, Le quattro giornate di Napoli, L’ape regina, oltread aver scritto un romanzo divenuto a sua volta un film famo-so, La nonna Sabella, si preparava a compiere un nuovo, de-cisivo salto della propria carriera e a farlo con spirito libero daogni tipo di calcolo.

Ebbe un primo approccio alla regia in cordata con Massi-mo Franciosa, dirigendo in coppia con lui Un tentativo senti-mentale, amara vicenda di un incontro sbagliato, e Le vocibianche, un ritratto causticamente feroce della Roma seicente-sca, libertina e ipocrita, prosperante all’ombra del governo pa-

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palino. Un ritratto attraverso il quale emergeva subito l’amoredi Pasqualino per questa città. Pasquale amava molto Roma,ma non la Roma turistica, la Roma dei monumenti, la Romaufficiale; amava la Roma popolare, la Roma segreta, quelladel Belli e di Trilussa, quella di Rugantino, dei Poveri ma bel-li, e spesso contendeva all’amico Gigi Magni (che con affet-tuoso puntiglio se ne risentiva perché lui sì, era un autentico“romano de’ Roma”) il titolo di aedo cinematografico dellacittà.

Ma dopo questi film, nell’arco di pochi mesi e dando subi-to prova che sarebbe stato un realizzatore instancabile, FestaCampanile affrontò la sua prima regia solitaria.

Gli sarebbe stato facile “schierarsi”, come andava — e ahi-mé ancora va — di moda, con qualcuno dei poteri dominanti,uno qualsiasi visto che aveva amici personali dappertutto, dal-l’area cattolica a quella liberal socialista, a quella marxista, esarebbe stato subito un regista acclamato, corteggiato dai po-tenti, coccolato dalla critica, promosso ai festival che in que-gli anni proliferavano come funghi in ogni parte del mondo.Com’era accaduto ad altri, molti dei quali certamente menobravi di lui.

Sia chiaro, non voglio affatto implicare qui l’idea che FestaCampanile fosse un teorico del disimpegno, ma c’è modo emodo di impegnarsi; e quello che a Pasqualino certamente nonpiaceva era il diffuso, spesso squallido appiattimento sulle li-nee indicate dalle veline degli uffici culturali dei partiti e sugliaffettuosi, paternalistici “suggerimenti” dei consiglieri più omeno ufficiali che sovraffollavano i salotti culturali del tempo.

Preferì iniziare rischiando. Preferì iniziare dal suo amore per la letteratura — un amo-

re che non lo abbandonerà mai per il resto della vita, assai piùvivo di quello che nutriva per il cinema — e portare sulloschermo un romanzo di Pratolini. Un romanzo difficile, unodegli ultimi del grande scrittore fiorentino, forse il primo mat-

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tone di quella più ampia costruzione dedicata a La storia, ri-masta purtroppo allo stadio di progetto.

Che cosa in quel romanzo aveva attratto Pasqualino? Forseproprio l’istintiva identificazione con i problemi del giovaneprotagonista: la possibilità di mettere a fuoco lo scontro tra leambizioni, gli entusiasmi di un ragazzo della provincia italia-na e la sua scoperta inevitabile, “necessaria”, di dover venirea patti con la natura corruttibile dell’uomo fino a trovare unanuova maturità e serenità, oltre la turbolenza dei sentimenti edelle passioni, nell’accettazione di quella che si può definire,come il titolo del romanzo e del film suggerisce, La costanzadella ragione.

Ma il coraggio di questa scelta, al di là della maggiore ominore felicità del risultato, non gli venne riconosciuto daquasi nessuno, o gli venne riconosciuto assai tiepidamente. Eper tutta la sua vita Festa Campanile sopportò non senza sof-ferenza che il suo lavoro fosse accolto, almeno qui in Italia,dai soloni della critica paludata, con vaghi sorrisi di “confor-to”, smorfie affettuose di perplessità, e ipocrite manifestazio-ni di simpatia per l’uomo, considerato sempre — ma che gen-tili! — “migliore delle sue opere”.

Ciò malgrado Festa Campanile non cambiò strada. A un certo punto avvertì perfettamente il pericolo, nel cine-

ma come nella letteratura e nella televisione di quegli anni, diuna involuzione dialettale e provinciale alla quale lui pureaveva contribuito, apparentemente diretta ad affermarne edesaltarne il carattere “nazional popolare”; e che invece semprepiù si andava identificando con un malinteso progetto di “di-vulgazione” culturale, ben presto divenuta “volgarizzazione”o, più semplicemente, “volgarità”, e di cui ancora oggi avver-tiamo, soprattutto nei palinsesti della nostra televisione, i disa-strosi effetti.

Decise invece di battere spericolatamente nuove strade suimodelli che venivano dall’estero, soprattutto da oltreoceano.

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Film come Adulterio all’italiana, Il marito è mio e l’am-mazzo quando mi pare, La cintura di castità, La matriarca,Scacco alla regina, Dove vai tutta nuda, Con quale amore conquanto amore, furono assaggi, tentativi magari non perfetta-mente riusciti e tuttavia, io credo, sempre intelligenti, all’in-terno di generi che non appartenevano propriamente alle radi-ci e consuetudini della nostra cultura: la commedia sofisticata,la commedia erotica, il giallo–rosa, il film in costume. Anchese quest’ultimo “genere” era stato nobilmente frequentato giàprima della guerra e subito dopo la guerra da autori comeAlessandro Blasetti, Renato Castellani, Mario Soldati, VittorioDe Sica.

Va notato che l’indubbia inclinazione di Festa Campanileper il film in costume (non vorrei sbagliare, ma credo ne ab-bia diretti nella sua intensa carriera registica circa una decina)non trae le sue radici da un mero gusto coreografico e sceno-grafico. C’era in Pasqualino un profondo e sincero amore perla Storia, ma rivissuta non tanto attraverso i grandi accadimen-ti e i grandi personaggi, quanto piuttosto attraverso il riflessoe l’influenza che quei personaggi e quegli accadimenti eserci-tarono sulla vita della gente comune: lo interessavano, insom-ma, le figure dei comprimari, dei personaggi di secondo pia-no, più di quelle dei protagonisti. Lo schema del Ladrone è, intal senso, esemplare. Ancora oggi l’invenzione di Caleb, il la-druncolo della Giudea del primo secolo che sfiora Gesù, il piùgrande personaggio della storia umana, scambiandolo per unlestofante solo un po’ più bravo di lui, e finisce per dividerneil tragico destino sulla croce, mi sembra davvero prodigiosa.Vorrei averla avuta io.

* * *

Fu proprio uno dei film che ho citato, La matriarca, a se-gnare il nostro incontro professionale.

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Come ci eravamo conosciuti?… Beh, è passato moltissimotempo, qualcosa come più di mezzo secolo, e i miei ricordi co-minciano, chiedo scusa, a essere un po’ confusi. Mi sembrache ci abbia presentato — sto parlando degli anni Cinquanta,seconda metà — un giovane produttore amico di entrambi,Luciano Perugia, che sarebbe poi stato il produttore esecutivodei primi cinque o sei film di Festa Campanile.

Come ho ricordato, Pasquale era già uno sceneggiatore af-fermato; aveva pubblicato un libro di successo, collaborava a«La fiera letteraria», a «Paragone». Io avevo avuto una breveesperienza di set (assistente di Luciano Emmer in Ragazze dipiazza di Spagna e in Eroi dell’Artide, poi assistente di CarloInfascelli nell’organizzazione generale di Canzoni di mezzosecolo). Ma fu un incontro che non ebbe seguito: la crisi delcinema (una delle tante periodiche) mi rigettò subito nei ran-ghi di coloro che del cinema si limitano a scrivere: diressi peralcuni anni, insieme con lo scrittore e giornalista RenatoGhiotto, un periodico prima mensile, poi trimestrale (Crona-che del cinema e della televisione); e ideai e curai per la RAITV il primo settimanale televisivo dedicato ai problemi delladonna, si chiamava Penelope.

Nell’anno in cui feci parte della commissione di selezionedei film per il festival veneziano, era il 1960, contribuii allascelta di Rocco e i suoi fratelli, che Pasqualino, insieme conaltri, aveva sceneggiato.

Ma l’occasione per cui ci ritrovammo (a oltre dieci anni dalnostro primo incontro!) fu un’altra: Pasqualino aveva letto unmio soggetto e gli era piaciuto; di quel soggetto non riuscì afare nulla, ma quando ebbe bisogno di rimettere le mani nelcopione de La matriarca — un copione scritto da Nicolò Fer-rari che non soddisfaceva né Festa Campanile, né il produtto-re Silvio Clementelli — Pasquale si ricordò di me.

Nella versione definitiva de La matriarca, del copione diFerrari rimase soltanto lo spunto da cui prende avvìo la vicen-

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da: una giovane e piacente vedova scopre che il marito, da vi-vo, l’ha tradita ripetutamente, e decide di prendersi una ven-detta postuma, rendendogli pan per focaccia “alla memoria”.Il resto fu tutto cambiato, episodi, situazioni, personaggi, dia-loghi. Ci divertimmo molto, con Pasqualino, a piluccare qua elà, tra le pagine del Kraft–Ebing per condire la storia con epi-sodi piccanti, stuzzicanti e, per l’epoca, abbastanza audaci. Ea film finito bisognò concedere alcuni metri alla censura. Masoprattutto, addirittura prima di girare il film, bisognò sacrifi-care alcune “intenzioni” all’autocensura che a quei tempi pro-duttori e distributori prudenzialmente praticavano. Si tratta dicirca quarant’anni fa!

La matriarca fu un successo, in Italia e all’estero, ed ebbe,come tutti i successi, un seguito, Con quale amore, con quan-to amore, non altrettanto fortunato, anche perché non si potépiù giovare della presenza di un attore affascinante e carisma-tico come Jean Louis Trintignant, e dal canto suo CatherineSpaak — essendo entrati in crisi i suoi personali rapporti conFesta Campanile — non riuscì più a dare, come nel primofilm, il meglio di se stessa.

Da allora, e fino alla sua prematura scomparsa, nel 1986,per quasi un ventennio, Pasquale e io non ci separammo più eil nostro fu certamente qualcosa di più che un inossidabile so-dalizio professionale: fu una robusta, profonda, vera amicizia.Una ventina circa di film realizzati, e parecchi altri progettatie abbandonati in corso lavori per i più svariati motivi, hannoscandito quell’amicizia.

Certo, durante quegli anni, lui non lavorò soltanto con me,né io soltanto con lui. Entrambi lavoravamo troppo per poter-ci permettere questo lusso. Ci furono quelli che ci piaceva de-finire scherzosamente adulterii professionali. Ma, come Pa-squale amava ripetere enunciando una massima da lui stesso,credo, coniata: meglio un amore senza fedeltà che una fedeltàsenza amore. E io mi sono sempre dichiarato d’accordo.

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Quando le donne avevano la coda fu addirittura il felicetentativo di un ritorno inequivoco alle origini mute del cine-ma, alla slapstick comedy di Mack Sennett e Hal Roach cheaveva tenuto a battesimo alcuni grandissimi, universali inter-preti del cinema americano come Keaton, Chaplin, “Fatty” Ar-buckle, Laurel e Hardy. E noi, più modestamente, tenemmo abattesimo o contribuimmo ad affermare con quel film un mi-nuscolo ma brillante drappello di straordinari protagonisti ecaratteristi della commedia italiana, Buzzanca, Mulè, Toffolo,Montagnani, Giuffrè.

Ricordo anche che avevamo elaborato per il film un ele-mentare lessico preistorico, poche decine di vocaboli che perqualche tempo entrarono nella moda del linguaggio giovanile.La donna veniva chiamata animala, e il bacio era lo slappo.Questo buffo lessico lo raccogliemmo persino in un minusco-lo dizionarietto che venne distribuito in alcune migliaia di co-pie alle signore intervenute alla “prima” delle principali cittàitaliane; ma io, la mia copia del dizionarietto, non ce l’ho più,e pagherei per riaverla.

All’origine di Quando le donne avevano la coda c’è comequasi tutti sanno un soggetto scritto da Umberto Eco. Il sogget-to era stato acquistato, mi pare di ricordare, da Luciano Peru-gia ed era passato poi nelle mani di Silvio Clementelli, lo stes-so produttore de La matriarca, con cui infine facemmo il film.

Quel soggetto me lo ricordo molto poco e purtroppo non cel’ho più in archivio. C’era l’ambientazione preistorica, c’eraun conflitto fra due tribù, c’era mi pare una storia d’amore…Ma l’invenzione dei sette cavernicoli che non hanno mai vistouna donna e per sbaglio ne catturano una in una trappola peranimali è tutta nostra; vorrei dire di Pasqualino e mia, ma nonoso, visto il numero esorbitante di nomi che affollano i titolidi testa!

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Comunque Eco non c’entrò più in nulla con il film e pensoche, dal suo punto di vista, abbia avuto buone ragioni per nonfirmarlo. Dal mio non posso fare a meno di rincrescermene;anche perché penso che se tra i firmatari ci fosse stato il suonome, certa critica avrebbe “letto” il film con più attenzione erispetto. Assai spesso i nomi contano più di quel che c’è die-tro. Come ha scritto l’umorista Antonio Amurri, del quale viparlerò più avanti, «l’unico metodo infallibile per conoscere ilprossimo è giudicarlo dalle apparenze». Sembra proprio lamassima alla quale si atteneva allora di preferenza la maggiorparte della nostra critica cinematografica…

* * *

Successivamente, con una libertà e vorrei dire un coraggioche trova rari riscontri nel nostro panorama intellettuale, Pa-squale si lasciò tentare persino dal thriller e dalla fantascien-za.

Ricordo che i produttori Turchetto e Montanari avevano ac-quistato i diritti di un giallo Mondadori dal titolo alquanto tru-culento: Violence and the fury che divenne in Italia il non me-no truculento Autostop rosso sangue (autore, l’americano Pe-ter Kane), e lo proposero a Pasquale e a me.

Io non ebbi alcuna difficoltà ad accogliere favorevolmentela proposta: avevo innanzitutto bisogno di soldi, e poi la nar-rativa gialla e nera è sempre stata il mio pane. Ero stato un fre-quentatore assiduo del genere fin da ragazzo: i primi libri im-portanti che ho letto nella mia vita furono un romanzo di Ed-gar Allan Poe (Le avventure di Arturo Gordon Pim) e Uno stu-dio in rosso, di Conan Doyle, una delle prime, anzi, credo ad-dirittura la prima, delle affascinanti inchieste di Sherlock Hol-mes. Li avevo trovati per caso in un vecchio stipo della casadi campagna di mio padre, insieme a una raccolta di fascicolidella editrice Nerbini dedicati alle avventure di Nick Carter

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(quello vero, “storico”, non quello reiventato e divertentissi-mo che Bonvi e De Maria crearono per la televisione e i fu-metti, alla fine degli anni Sessanta). Letture che mi segnarono,e quando già esercitavo da anni il mio mestiere di sce-neggiatore continuai a essere un lettore assiduo della collanadei “neri” Longanesi e di quella delle tre scimmiette Garzan-ti: ero convinto che nel racconto di Peter Kane avrei sguazza-to a mio perfetto agio.

Sapevo invece che le preferenze letterarie di Pasqualinoerano altre e francamente un po’ me ne preoccupai; ma lo vi-di affrontare l’avventura con il solito spirito disincantato, laconsueta assoluta allegria, disponibilità e apertura. Il film lo sipuò giudicare come si vuole, ma se non si hanno pregiudizi bi-sogna ammettere che Pasqualino se la cavò del tutto dignito-samente.

E perché no — chi può dirlo? — se avesse firmato, inveceche col suo nome, con un nome di fantasia, un nome america-no, come allora si usava, chessò, Paschal Holiday Steaple, for-se a qualcuno sarebbe venuto in mente di salutare la nascita diun filone nuovo del cinema italiano di ricalco, lo spaghettithriller…

Invece, naturalmente, i pregiudizi ci furono. Gli venne persin rimproverata, da Callisto Cosulich, mi pa-

re sul settimanale “ABC”, l’ambientazione californiana dellastoria, cui pareva al severo recensore, peraltro solitamentesensibile e preparato, che Festa Campanile, in quanto autoreitaliano, avesse fatto ricorso abusivamente. Il noto critico erain questo caso anche un mio vecchio e caro amico e dunquemi permisi di scrivergli (cosa che non ho mai più fatto in tut-ta la mia lunga vita professionale, salvo che in un altro paio dicasi) per protestare con lui circa quello che definii scherzosa-mente un arbitrario sequestro del passaporto. Come mai siproibiva al solo Festa Campanile di emigrare cinematografica-mente in California, ma nessuno si sognava — tanto per fare

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qualche esempio — di porre ostacoli all’espatrio di LilianaCavani in Austria con il suo Portiere di notte, o impedire aFellini di girovagare per mezza Europa con il suo Casanova,o infine vietare a Tinto Brass di installarsi con il suo Salon Kit-ty in un bordello della Berlino anni Trenta?

Mettendo da parte gli scherzi, mi preme sottolineare chespesso ci si attaccava ad argomenti del tutto pretestuosi per li-sciare il pelo, e uso naturalmente l’espressione per antifrasi, aun intellettuale che si era permesso di non “iscriversi” alla no-menklatura culturale ufficiale.

Ma, qualunque tentativo intraprendessimo, qualunque nuo-va strada ci venisse in mente di “assaggiare”, commedia slap-stick o sofisticata, thriller o erotica, non c’era mai in questotentativo nessuna esplicita e programmatica intenzionalità.Con Pasqualino non abbiamo mai parlato delle sue, o nostre,intenzioni.

Non ne parlammo nemmeno quando incontrammo profes-sionalmente un attore “problematico” come Tomás Milián, unattore introverso e intellettuale, un attore proveniente dall’Ac-tor’s Studio di Lee Strassberg, che aveva affascinato con lasua recitazione Jean Cocteau e Gian Carlo Menotti inducendo-li a “importarlo” in Europa, attraverso il Festival di Spoleto.

Ma in Italia, Milián aveva trovato il successo incarnandopersonaggi che erano proprio il contrario della sua vocazioneartistica: vere e proprie macchiette, addirittura maschere po-polari di un cinema grottesco, estremo, in quei generi che iochiamo “di ricalco” (rispetto, si capisce, ai modelli orginaliamericani): lo “spaghetti western” e il “poliziottesco”. El Cu-chillo, Tepepa, ma soprattutto il commissario Nico Giraldi,Monnezza, avevano dato a Milián successo e ricchezza, ma loavevano anche sprofondato in una crisi professionale e perso-nale da cui non sapeva uscire. Accettava qualsiasi cosa sem-brasse promettergli la possibilità di cambiare professional-mente pelle: un Bertolucci, un Antonioni, una commedia con

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Pozzetto, un’avventura con Bud Spencer, un thriller “minore”purché di produzione americana. Tutti ruoli nei quali, però, il“suo” pubblico lo rifiutava. E per riconquistarlo gli toccava dirindossare i panni colorati e la sboccataggine romanesca delMonnezza.

Non era la prima volta che Pasqualino e io lo incontrava-mo. Nel lontano 1969 avevamo realizzato con lui una comme-dia di ambiente “borghese”, Dove vai tutta nuda, in cui si spo-savano con qualche difficoltà intenzioni di satira sociologica emomenti di surreale sentimentalismo.

Ricordo che mancavano pochi giorni all’inizio delle ripre-se; l’idea della svampita disinibita che va in giro nuda era diFesta Campanile, pensata su misura per Maria Grazia Buccel-la, ma nel copione non c’era molto di più; Pasquale e MarioCecchi Gori, produttore del film, ne erano insoddisfatti (nonmi torna assolutamente in mente chi l’avesse scritto), e michiesero di irrobustirlo.

Ho già spiegato in altre occasioni che copiare non è un de-litto, che è anzi il sistema migliore se si vuole costruire e pro-cedere su un terreno sicuro e collaudato. Purché si copi dai mi-gliori. E in quel caso io, anche a corto di tempo, non trovai dimeglio che ispirarmi a un film che amo moltissimo: era traquelli che avevo contribuito a scegliere per la mostra di Vene-zia 1960, e secondo me, al di là di tutte le polemiche che quel-l’anno accompagnarono il festival, era quello che avrebbe ve-ramente meritato il Leone d’oro. Parlo de L’appartamento diBilly Wilder.

Cosicché — Dio mi perdoni per l’audacia dell’accosta-mento — caricai sulle spalle di Milián la situazione e, almenoin parte, il personaggio che era stato di Jack Lemmon e feciquel che potevo. Ma, data la fretta con cui lavorammo, non cifu tempo per stabilire con Milián un rapporto personale cheandasse oltre i limiti consentiti dalla serrata scaletta produtti-va.

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Tuttavia, almeno con il pubblico, ce la cavammo. Ricordoche una sera, poco dopo l’uscita del film, incrociai in piazzaUngheria Mario Cecchi Gori. Io ero a piedi e lui in macchina,ma quando mi vide abbassò il vetro del finestrino e, facendocon la mano il segno di “okay”, mi gridò con un sorriso: — Cisiamo salvati!

Le cose andarono diversamente nel caso di Manolesta.Credo che anche il personaggio che gli venne offerto da Pa-

squalino e dal produttore Luigi De Laurentiis rientrassse perMilián nella categoria “tentativi di evasione”. Ma si trattava inquesto caso di un’evasione parziale, perché Manolesta, il per-sonaggio da cui il film prendeva il nome, aveva un aspetto eun’anagrafe assai vicini a quelli delle sue maschere di maggiorsuccesso: un ladruncolo romano borgataro, ma anche una sor-ta di barbone, un anarchico istintivo innamorato del figlio (concui vive su un vecchio barcone abbandonato tra le anse del Te-vere), pronto a tutto per non farsene sottrarre la tutela dalle au-torità. E c’era anche una storia d’amore a dispetto con l’ispet-trice sociale che ha il compito di controllarlo, una simpatica,bravissima e vivacissima Giovanna Ralli.

Il tentativo di fuga si fermò a mezza strada anche per il ti-more di tutti (Milián incluso) che un eccesso di “poetico” sen-timentalismo potesse disilludere e allontanare bruscamente ilsuo pubblico.

Frequentandolo in quel periodo con una certa assiduità,nella sua piacevole casa liberty di via Orsini, imparai a rico-noscere, sotto la scorza un po’ ispida di Tomas, la sua natura-le gentilezza e fragilità e compresi perché i panni del Monnez-za e del commissario Giraldi gli stessero addosso con tanto di-sagio. Tutti sanno, credo, che Milián è cubano; ma forse pochisanno che il suo nome vero è Tomàs Quintin Rodriguez, e nac-que nel 1932 in una villa nelle vicinanze dell’Avana, maggio-re di quattro figli della nipote di un cardinale, vescovo dellacittà, e di un generale dell’esercito di Gerardo Machado, l’al-

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lora dittatore militare di Cuba. Una famiglia, dunque, semiari-stocratica o, almeno, di livello alto–borghese: Tomas fu addi-rittura educato in un collegio di salesiani.

Ma quasi nessuno sa che, abbattuta la dittatura di Machado,il generale Rodriguez fu privato del suo grado, e questa umi-liazione lo gettò in una profonda depressione da cui non riuscìa risollevarlo neppure la reintegrazione nel grado, quando Ful-genzio Batista prese il potere. In un momento di crisi, Rodri-guez si uccise sparandosi al petto sotto gli occhi di suo figlioTomas.

Credo che questo tragico ricordo lo abbia accompagnatoper tutta la sua vita e fosse la causa del caratteristico spleenche tingeva di grigio anche i suoi momenti di allegria. So cheTomas amò Manolesta, proprio perché, accanto allo spirito va-gamente picaresco del personaggio, gli consentiva in certi mo-menti della storia di esprimere questa vena malinconica, que-sto lato più segreto del suo carattere, soprattutto nei rapporticon il bambino.

* * *

Se un’idea, una storia, gli piaceva Pasquale partiva, comesi usa dire, in quarta, a testa bassa, a volte senza calcolare i ri-schi.

Successe con Gegè Bellavita, vicenda grottesca di un gio-vane con famiglia, “guardaporta” di uno stabile napoletano,che di nascosto dalla moglie di cui è sinceramente innamora-to, arrotonda il magro stipendio sfruttando le proprie superdo-ti di maschio per soddisfare le smanie di alcune trascurate in-quiline del palazzo. Pasquale ci credeva molto, io un po’ me-no, il produttore, Goffredo Lombardo, per niente.

Questa proposta si trasformò subito in una sorta di puntiglio-sa scommessa, quasi una sfida, tra Pasquale che voleva fare a tut-ti costi il film e Goffredo che glie lo voleva impedire. I due era-

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no molto amici e da moltissimo tempo; teste durissime entram-bi; assistere alle loro clamorose litigate era davvero uno spetta-colo divertente. Credo che le grida arrivassero fino alle scale de-gli uffici della Titanus, in via Sommacampagna. Alla fine Pa-squale la spuntò e il film si fece, ma Goffredo gli dette pochissi-mi soldi: fu girato in 16 mm. E il cast — pur di attori tutti assaibravi — non aveva alcuna chiamata. Il film ne soffrì molto.

Un dettaglio forse divertente solo per me: Riz Ortolani,grande musicista e grande amico, mi propose di scrivere insie-me una canzone per la colonna sonora del film; fui costretto asostenere, presso la SIAE, gli esami di paroliere per poterneincassare i diritti, ma vi garantisco che con quei diritti né Riz,né io ci siamo mai arricchiti!

Il film fu disertato dagli spettatori. Io stesso, quando andaia vederlo in sala pubblica, scappai dopo un quarto d’ora, let-teralmente furioso per l’orribile qualità della copia, effetto diun pessimo “trasporto” dal 16 al 35 millimetri. Talvolta, comeho detto, l’entusiasmo, lo slancio con cui affrontava tutte lecose, spingevano Pasqualino a sottovalutare le difficoltà.

Raccontare d’istinto storie divertenti, o commoventi, co-munque emozionanti, in questo consisteva, credo, l’inespres-so scopo e significato del nostro lavoro, e anche il nostro pia-cere nel farlo. Scoprire le linee psicologiche, o ideologiche, ostilistiche, o quel che volete, è o dovrebbe essere compito del-la critica. Ma, ho già detto anche questo, la critica, nei con-fronti del nostro lavoro, era allora alquanto distratta.

È opportuno che, a scanso di equivoci, io precisi a questopunto una cosa importante: non sto parlando di congiure; nonmi sogno nemmeno di pensare che vi fosse una sorta di con-giura organizzata contro una coppia di cani sciolti come Pa-squale e me; non eravamo, né abbiamo mai supposto di esse-re, così importanti.

Ma nel vasto schieramento di critici e giudici allineati lareazione di trattarci con paternalistica distanza, quasi arric-

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ciando il naso, era del tutto spontanea, naturale, vorrei dire au-tomatica. A quelle brave persone appariva istintivamente inop-pugnabile che, essendo non “inquadrati” da nessuna parte, noinon avremmo giammai potuto ideare e realizzare alcunché diveramente rilevante.

Ancora oggi, in una breve nota critico–biografica redatta peril sito Internet dedicato alla Basilicata1, la regione di provenien-za di Festa Campanile, l’estensore della medesima, dopo avervariamente rimproverato al “nostro” di avere in qualche mododimenticato i legami ombelicali con la sua madrepatria regiona-le, e di essersi forse lasciato «coinvolgere da attenzione e ten-sione tragica per la realtà del Sud» solo quando partecipò, nel1959–’60, alla stesura della sceneggiatura di Rocco e i suoi fra-telli, afferma che «le problematiche affrontate da Pasquale Fe-sta Campanile, fattosi anche regista, furono sempre quelle dellacittà e della società borghese, consumistica e vanesia, grottescaed espressionisticamente rappresentata, con inevitabili caduteverso un consueto erotismo». E, tra queste e altre lepidezze, ag-giunge più avanti: «Lo strumento espressivo di Pasquale FestaCampanile, insomma, dopo il primo romanzo, fu esclusivamen-te quello del cinema e dello spettacolo (compreso il gior-nalismo), nel quale fu tutto immerso, anche come protagonistadi cronache mondane, vagamente ricordando il d’Annunzio del-la “Cronaca bizantina”. E come d’Annunzio, abile nel coglierele mode e i gusti, tornò alla letteratura quando fiutò il momentoopportuno, cioè quando il cinema entrò in crisi, a partire dallametà degli anni 1970. […] Ogni due anni, perciò, scrisse e pub-blicò un libro di successo, auspice la condiscendenza di buonirecensori, giornali mondani e televisione, che seppero opportu-namente diffonderli in mezzo al pubblico. Oggi sono libri che

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1 www.basilicatanet.it, la voce “Pasquale Festa Campanile”, a cura di Giovanni Caserta.

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difficilmente trovano lettori, perché fortemente datati e, quindi,privi di ogni attualità e interesse».

Capito bene? E io, povero me, pensavo che personaggi co-me il Caleb del Ladrone, o il Giuseppe di Per amore, solo peramore, sgorgati dalla penna affettuosa e teneramente ironicadi Pasquale, fossero tra i più felici e meno dimenticabili dellanostra narrativa di quegli anni. Se questo è il trattamento chegli riserva la sua regione d’origine, povero Pasqualino, stiamodavvero freschi!

Occorrerebbe poi informare l’autore della nota che il cine-ma italiano, messo praticamene in ginocchio dall’avvento del-la televisione, cominciò ad andare in crisi ben prima degli an-ni Settanta.

Ma non per noi, non per Festa Campanile e per me, che, an-cora alla fine di quegli anni, oltre al grande successo ottenutodalla riduzione cinematografica de Il ladrone (1979), firmammoinsieme Qua la mano (1980), che è stato il primo film italiano avarcare sul nostro mercato la soglia degli undici miliardi d’in-casso (cifra paragonabile a circa cinquanta miliardi di lire, ven-ticinque milioni di euro di oggi) e l’anno successivo, il 1981,Culo e camicia che credo abbia persin sorpassato quell’incasso.

Pasqualino e io eravamo, come si può capire, piuttosto “ri-chiesti”.

A proposito di questi due film penso sia opportuno ricordareun paio di cose.

Qua la mano e Culo e camicia furono i primi movie–movierealizzati in Italia. Il movie–movie, che venne così chiamato an-che da noi all’americana (secondo una moda osservata in segui-to per tantissime altre cose), consisteva in uno spettacolo cine-matografico costituito da due film di durata inferiore alla media(un’ora circa ciascuno) e perfettamente autonomi l’uno dall’al-tro. Il modello di questa nuova formula era arrivato naturalmen-te dagli Stati Uniti: un film diretto da Stanley Donen il cui tito-lo originale era esattamente Movie Movie. Ma anche in questo

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caso, battendo sul tempo tutti, fu Pasqualino a inaugurare perl’Italia questo genere nuovo di prodotto cinematografico.

Le ragioni della nascita del movie–movie furono, credo, deltutto commerciali, produttive. Per strano che possa apparire,due film brevi, di un’ora ciascuno, si girano più alla svelta di unfilm lungo, di un’ora e quaranta o più; ed era anche più facile,oltre che più economico, “strappare” un impegno di otto–diecigiorni a uno dei sempre occupatissimi beniamini del pubblico,soprattutto i grandi comici, che non trovarli liberi e disponibiliper un arco lavorativo di sei–otto settimane.

C’era poi il vantaggio tutt’altro che trascurabile, di offrire alpubblico il doppio richiamo di due “mattatori” senza dover af-frontare il problema sempre spinoso di farli convivere nellagabbia di un’unica vicenda. Un sollievo, credetemi, anche perchi doveva ideare e scrivere il film.

Ma c’è qualcos’altro che desidero annotare sul merito diquesti due movie–movie. Riguarda la sensibilità di Pasqualinoper i temi più avanzati e meno comodi del dibattito culturale.Nell’episodio di Qua la mano che ha per protagonista Celenta-no si affronta l’argomento ecologico; in quello di Culo e cami-cia che ha per protagonista Pozzetto il tema, un tema che il no-stro cinema aveva sempre solo sfiorato buttandolo preferibil-mente in barzelletta, era l’omosessualità.

Né l’uno, né l’altro episodio avevano di certo la pretesa di fo-calizzare drammaticamente quei due importanti argomenti, madimostrano che Pasqualino non era sordo ai problemi che lo cir-condavano, anche se naturalmente preferiva affrontarli e trattar-li con mano leggera e con l’ironia che gli era propria, nei tonidella commedia.

* * *

Conviene far bene l’amore è tutt’un’altra storia… Che diredi questo film? Già nel suo Verso la commedia Andrea Pergola-

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ri aveva sottolineato che, nonostante abbia avuto alla sua uscitaalcune recensioni benevole, si può affermare dopo una stagio-natura ormai trentennale che anche questo film, come tutta laproduzione di Festa Campanile regista, sia stato sottostimatodalla critica.

Forse può interessare ricordare qui di passaggio che questofilm rappresentò per Pasquale l’occasione del suo ritorno allaletteratura. E qualcuno avrà forse notato che il film e il librouscirono più o meno contemporaneamente: il libro vide la lucenel 1975; il visto di censura del film è del marzo dello stesso an-no. Ebbene anche la elaborazione delle due cose fu contempo-ranea: Pasqualino e io ci riunivamo settimanalmente per discu-tere la storia e i personaggi; dopodiché lui scriveva il libro e ioil copione.

Pergolari ha avuto la cortesia, ma anche, vorrei aggiungere,l’acutezza di annotare che la paradossale soluzione reichiana al-la crisi energetica non fu scelta a pretesto per raccontare“un’inutile commediola erotica”, come scrive nel suo diziona-rio Paolo Mereghetti (il Morandini dimentica addirittura l’esi-stenza del film).

L’idea di ispirarsi alle teorie reichiane per realizzare un filmfu indiscutibilmente tutta sua, di Festa Campanile. E avremmotranquillamente potuto sfruttarla in una ambientazione da com-media “contemporanea”, più familiare forse alle inclinazioni diPasquale. Fu invece mia la proposta di spingerne gli sviluppinella direzione della fantascienza, ambientandola nella Roma diun non lontano futuro, oscurata dall’esaurimento delle fontienergetiche.

Pasqualino — com’è abbastanza noto — non amava e nonfrequentava la fantascienza, nei confronti della quale nutrivaforse un segreto pregiudizio. Credo addirittura che non sia fa-cile trovare molti esemplari di questo genere letterario tra lemigliaia di volumi della sua vastissima biblioteca. L’appas-sionato di questo genere sono io; ma a lui piaceva “rischiare”,

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amava le novità, e accolse la proposta come una divertentesfida.

Credo, tra l’altro, che proprio questa impostazione fanta-scientifica del paradosso energetico abbia impedito a Con-viene far bene l’amore, di “invecchiare”, e sono addiritturaconvinto che una sua ipotetica riprogrammazione nelle salepotrebbe dare qualche sorpresa. Magari con quel titolo cheallora fu bocciato perché ritenuto troppo esplicito (ed eracertamente meno elegante): Orgasmo da 1000 watt. Un tito-lo che oggi non scandalizzerebbe più nessuno.

Cosa posso aggiungere? Che per i tempi che correvano variconosciuto al nostro film anche un pizzico di coraggio?Quel cardinal Alberoni, per esempio, tratteggiato con grandefinezza da uno straordinario Mario Scaccia, così disponibile,e così pronto a “rivedere” il Decalogo dei comandamentisotto l’istigazione del folle, mefistofelico scienziato profes-sor Nobili, interpretato da un gustosissimo Gigi Proietti, nonè a dir poco, e ripeto, per i tempi che correvano, una gustosae piuttosto azzardata caricatura?

E non riesco proprio a vedere cosa ci sia di erotico inConviene far bene l’amore, a meno che non si scambi piut-tosto grossolanamente per “erotismo” la presenza degli inno-centissimi nudi di Eleonora Giorgi e Agostina Belli, oppurel’iterazione assolutamente grottesca delle copule a scopoenergetico con l’accensione, in un crescendo che ancora misembra esilarante, prima di una lampadina, poi di un lampa-dario, poi dell’intera illuminazione di una piazza.

Mi pare che in pochi film come in questo il sesso vengainvece così allegramente dissacrato e senza mai cadere nellavolgarità. Se ne accorse Kezich, che colse il senso e il valo-re della metafora sul futuro della società contenuta nel filme nel libro, ma dando un’indubbia preferenza al libro (forseperché aveva divertito persino l’autorevole professor CarloBo?).

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Quelli erano ancora tempi in cui, in Italia, sembrava non sipotesse fare del cinema “di serie intenzioni” che non fosse altempo stesso fortemente drammatico e di contenuti stretta-mente “politico–elettorali”.

Eppure, — niente di più che una curiosa coincidenza, si ca-pisce — un anno dopo l’uscita di questo piccolo film, dedicatoironicamente agli “incerti del progresso”, si verificò la tragediadi Seveso: ottantamila animali morti, centomila persone costret-te a lasciare le proprie case, un numero inprecisato di bambiniorrendamente sfigurati dalla cloracne, aborti spontanei e altro;chi ha l’età per ricordare, certamente ricorda.

La multinazionale Roche, proprietaria dello stabilimento IC-MESA, responsabile del disastro, se la cavò con il pagamentodi 200 miliardi di vecchie lire a titolo di risarcimento danni. Maancora oggi qualcuno nutre dubbi circa gli effettivi cicli di pro-duzione della fabbrica; si parla di agenti chimici destinati, viaSvizzera, a comporre il famigerato Agent Orange2.

Come ho già scritto in quello che a me piace definire un li-bro di chiacchiere3: «Si è fatto anche da noi, certamente, un ci-nema di denuncia, un cinema “impegnato”, “civile”. Ma, a benvedere, i suoi bersagli sono sempre stati piuttosto ovvi e circo-scritti; era un cinema che serviva in realtà gli interessi dell’unao dell’altra parte politica, perché questo è generalmente il rag-gio di autonomia intellettuale dei nostri autori cinematografici.Film consentiti da un implicito patto che potremmo definire conparola moderna (anch’essa d’importazione USA) “bipartisan”.

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2 Agente Arancio era il nome in codice, usato dall’esercito statunitense, per indicare unerbicida impiegato ampiamente dagli Stati Uniti durante la Guerra del Vietnam, tra il 1961 eil 1970. L’Agente Arancio è un liquido incolore: il suo nome deriva dal colore delle striscepresenti sui fusti usati per il suo trasporto. L’impiego militare ufficiale era per defogliare glialberi della foresta indocinese e impedire la copertura ai Viet Cong. Ma l’Agente Arancio hacome sottoprodotti delle diossine tossiche ritenute responsabili di malattie e difetti alla nasci-ta sia nella popolazione vietnamita che nei reduci di guerra statunitensi. Si è anche scopertoche ha proprietà cancerogene che colpiscono principalmente le donne.

3 Sunset Boulevard, edizioni Filema, Napoli 2005.