Osservatorio Critico della germanistica n.4

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Università degli Studi di Trento OSSERVATORIO CRITICO della germanistica II - 4 OSSERVATORIO CRITICO della germanistica Alessandro Costazza Alberto Martino, Storia delle teorie drammatiche nella Germania del Sette- cento. La Drammaturgia dell’Illuminismo, Milano, I.S.U., 1998, pp. 464, s.i.p. Trent’anni dopo la sua pub- blicazione viene ora riproposta dall’Università Cattolica di Milano una ri- stampa anastatica di que- st’opera di Alberto Martino che rappresenta ormai a li- vello internazionale - anche grazie all’ottima traduzione in tedesco condotta da Wolfgang Proß su una ver- sione ampliata e riveduta di questo lavoro, comparsa già nel 1972 - un testo classico sull’argomento e una pietra miliare nella ricerca sul teatro del Settecen- to. Già l’aspetto esteriore, piuttosto dimesso, di questa ristampa, soprattutto se parago- nato all’edizione tedesca dell’editore Niemeyer, nonché la qualità non sempre perfetta della resa tipografica, fanno sorge- re immediata la domanda, se un’opera di tale peso e valore non avrebbe meritato an- che in Italia una veste - e quindi probabil- mente anche una distribuzione - migliore. Ci si potrebbe chiedere, inoltre, se non sa- rebbe stato opportuno farne addirittura una nuova edizione, integrando la prima versio- ne con le aggiunte di quella tedesca rivedu- ta e aggiornata. Poiché anche una simile edizione sarebbe stata però comunque da- tata, appare in effetti condivisibile la scelta di ripresentare la versione originale, in modo da poterne misurare meglio il valore, proprio grazie alla distanza storica. Non è infatti cosa comune al giorno d’oggi, quan- do ogni anno vengono pub- blicate decine di nuove ri- cerche, dissertazioni o abi- litazioni su quasi ogni argo- mento della letteratura tede- sca, che un’opera critica rie- sca a mantenere intatta dopo trent’anni non solo la sua validità scientifica, ma an- che la sua freschezza, la sua leggibilità e il suo fascino. Proprio la leggibilità costi- tuisce infatti una delle caratteristiche più evidenti e più preziose di questo studio, in cui l’autore, senza mai abbassare per un at- timo il livello della discussione scientifica, è riuscito a ordinare un materiale immenso e magmatico in modo chiaro e comprensibi- le. L’organizzazione del materiale non è strettamente cronologica, bensì tematica, e non cerca di esaurire una dopo l’altra le po- sizioni dei diversi autori, che vengono presi in considerazione invece più volte, magari anche in riferimento agli stessi testi, ma in contesti diversi e sotto differenti punti di vi- sta. Se questo andamento del discorso può alle volte disorientare, soprattutto a causa del grandissimo numero degli scrittori trattati, di cui si finisce per dimenticare la posizione rispetto a un determinato argomento, pure esso rappresenta indubbiamente l’unico modo possibile per far “parlare” e “dialoga- re” tra loro anche al di là delle frontiere tem- porali e nazionali un numero così vasto di autori. Questa impostazione corrisponde d’altra

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Università degli Studi di Trento

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OSSERVATORIO CRITICOdella germanistica

Alessandro Costazza

Alberto Martino, Storiadelle teorie drammatichenella Germania del Sette-cento. La Drammaturgiadell’Illuminismo, Milano,I.S.U., 1998, pp. 464, s.i.p.

Trent’anni dopo la sua pub-blicazione viene orariproposta dall’UniversitàCattolica di Milano una ri-stampa anastatica di que-st’opera di Alberto Martinoche rappresenta ormai a li-vello internazionale - anchegrazie all’ottima traduzionein tedesco condotta daWolfgang Proß su una ver-sione ampliata e riveduta diquesto lavoro, comparsa già nel 1972 - untesto classico sull’argomento e una pietramiliare nella ricerca sul teatro del Settecen-to.Già l’aspetto esteriore, piuttosto dimesso,di questa ristampa, soprattutto se parago-nato all’edizione tedesca dell’editoreNiemeyer, nonché la qualità non sempreperfetta della resa tipografica, fanno sorge-re immediata la domanda, se un’opera ditale peso e valore non avrebbe meritato an-che in Italia una veste - e quindi probabil-mente anche una distribuzione - migliore.Ci si potrebbe chiedere, inoltre, se non sa-rebbe stato opportuno farne addirittura unanuova edizione, integrando la prima versio-ne con le aggiunte di quella tedesca rivedu-ta e aggiornata. Poiché anche una simileedizione sarebbe stata però comunque da-tata, appare in effetti condivisibile la sceltadi ripresentare la versione originale, inmodo da poterne misurare meglio il valore,proprio grazie alla distanza storica. Non èinfatti cosa comune al giorno d’oggi, quan-

do ogni anno vengono pub-blicate decine di nuove ri-cerche, dissertazioni o abi-litazioni su quasi ogni argo-mento della letteratura tede-sca, che un’opera critica rie-sca a mantenere intatta dopotrent’anni non solo la suavalidità scientifica, ma an-che la sua freschezza, la sualeggibilità e il suo fascino.Proprio la leggibilità costi-

tuisce infatti una delle caratteristiche piùevidenti e più preziose di questo studio, incui l’autore, senza mai abbassare per un at-timo il livello della discussione scientifica,è riuscito a ordinare un materiale immensoe magmatico in modo chiaro e comprensibi-le. L’organizzazione del materiale non èstrettamente cronologica, bensì tematica, enon cerca di esaurire una dopo l’altra le po-sizioni dei diversi autori, che vengono presiin considerazione invece più volte, magarianche in riferimento agli stessi testi, ma incontesti diversi e sotto differenti punti di vi-sta. Se questo andamento del discorso puòalle volte disorientare, soprattutto a causa delgrandissimo numero degli scrittori trattati,di cui si finisce per dimenticare la posizionerispetto a un determinato argomento, pureesso rappresenta indubbiamente l’unicomodo possibile per far “parlare” e “dialoga-re” tra loro anche al di là delle frontiere tem-porali e nazionali un numero così vasto diautori.Questa impostazione corrisponde d’altra

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parte esattamente alla metodologia applicatada Martino, che rifacendosi alla storia delleidee tende per definizione a ricercare e aindividuare appunto quelle idee fondamen-tali che superano le barriere temporali enazionali, seguendone lo sviluppo dalla na-scita fino alla decadenza nelle varie realtà.In questo senso anche il titolo dell’operaappare in un certo senso troppo restrittivo.Il libro offre infatti molto più di quanto an-nunci il titolo, poiché non tratta solo le teo-rie drammatiche nella Germania del Sette-cento, ma presenta una panoramica appro-fondita, e non solo sporadici riferimenti, ditutte le teorie drammaturgiche europee del-l’epoca, vale a dire soprattutto francesi, in-glesi e italiane. In questa panoramica rien-trano poi - sempre in consonanza con unprincipio della storia delle idee, secondo cuisono spesso proprio gli autori meno origi-nali ad esprimere le opinioni più tipiche opiù diffuse di una certa epoca - non solo gliautori e i testi più noti, bensì anche autorimeno conosciuti o anonimi.Dal punto di vista cronologico l’ambito del-la ricerca è da una parte più vasto, dall’altraperò anche più limitato di quello indicatodal titolo. Il libro si apre infatti con una pa-noramica sugli aspetti in qualche misura“emozionalisti” presenti nelle teoriedrammaturgiche dell’antichità greca e lati-na, del Rinascimento, del “Siglo de Oro”spagnolo e del Seicento francese, mentreanche all’interno dell’opera sono frequentii riferimenti ad autori precedenti al Sette-cento. Dall’altra parte però l’oggetto dellaricerca non si estende a tutto il Settecento,di cui farebbero parte anche lo Sturm undDrang, il Classicismo di Weimar e le im-portanti riflessioni sul tragico del primoRomanticismo tedesco, ma si limita inve-ce, come viene indicato dal sottotitolo, alla“Drammaturgia dell’Illuminismo”. Il termi-ne a quo della trattazione vera e propria èrappresentato infatti dal 1719, vale a diredalla data di pubblicazione delle Réflexionscritiques di Du Bos, che costituiscono l’ope-ra principale per la nascita di un’esteticasensualista ed emozionalista, mentre il ter-

mine ad quem è rappresentato dal 1770, valea dire dalla nascita in Germania della cor-rente letteraria dello Sturm und Drang, la cuidrammaturgia doveva costituire, secondo leintenzioni dell’autore, l’oggetto della secon-da parte di quest’opera. Questa seconda par-te della ricerca non è in realtà mai stata scrit-ta, ma non si può dire comunque che il pre-sente volume ne soffra. Perché la dramma-turgia dello Sturm und Drang, a cui Martinofa comunque riferimento ripetutamente nelcorso della sua indagine (cfr. pp. 120; 145-148; 239 segg.; 269; 303), parte da presup-posti completamente diversi rispetto alle te-orie drammatiche dell’Illuminismo e il pre-sente volume costituisce così un’unità in sécoerente e conclusa, che non lascia apertaalcuna questione.Nella sua ricostruzione critica Martino fa usodi una prosa piana e leggibilissima, senza mairicorrere a frasi ad effetto o a sintesi geniali,che sono proprio per questo sempre ancheun po’ arbitrarie, e preferisce invece lasciarparlare gli autori stessi. A questo scopo ser-vono proprio le lunghe e spesso anche lun-ghissime citazioni dai testi originali cheinframmezzano spesso il discorso, senza perquesto interromperlo. Martino non fa a que-sto riguardo nessuno sconto al lettore, per-ché dopo avergli indicato il tema e gli argo-menti principali, lascia a lui il compito dileggere e interpretare in un certo senso ildocumento. Queste citazioni dai testi tratta-ti, presentate sempre rigorosamente nella lin-gua e nell’edizione originale, a meno che nonsi voglia sottolineare proprio l’importanza diuna determinata traduzione, occupano anchemolte delle lunghe note a fondo pagina e te-stimoniano spesso l’entusiasmo delloscopritore di un testo o di un passo fino adallora sconosciuto, il quale vuol rendere par-tecipe della scoperta anche il lettore.Questo metodo di far parlare soprattutto i testifa di questo libro in primo luogo una sorta diutilissima antologia ordinata e ragionata sulleteorie drammaturgiche del Settecento in Eu-ropa e spiega, forse, come mai negli anniseguenti e fino ai giorni nostri molti studiosivi abbiano attinto a piene mani, spesso sen-

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za nemmeno dichiararlo, non riconoscendoo non valutando probabilmente a sufficien-za il merito di chi per primo quei testi liaveva raccolti, spesso anzi scoperti, e co-munque organizzati in un discorso unitario.Proprio in quest’opera di raccolta e di ordi-namento organico di un materiale che finoad allora era stato trattato tutt’al più in la-vori ristretti e specialistici consiste dunqueuno dei molti meriti di questo libro; un me-rito che oggi, dopo che quei testi o quegliautori sono stati resi noti almeno in parteproprio da Martino stesso e sono diventatiin seguito anche più facilmente accessibiligrazie a nuove edizioni o ristampe, si tendeforse troppo facilmente a dimenticare.Al di là di questo importante lavoro di rac-colta e di ordinamento, lo studio di Martinooffre anche numerose importanti precisazioni filologiche, come ad esempio nelcaso dell’attribuzione a Pfeil del testo Vombürgerlichen Trauerspiel (cfr. p. 419 seg.),in occasione della scoperta di anticipazioniveramente sorprendenti di alcuni caratteridella commedia “larmoyante” in un testodi Sforza Oddi del 1592 (cfr. p. 377 seg.),oppure ancora nell’evidenziare il plagiocompiuto da Engelbrecht ai danni di Pfeil(cfr. p. 432 seg.). Anche la letteratura criti-ca sugli argomenti trattati viene presa inconsiderazione ampiamente, sia nelle noteche nel testo principale. Come dimostra ilcaso del testo di Lothar Pikulik BürgerlichesTrauerspiel und Empfindsamkeit, Martinoè in grado a questo proposito di criticare tal-volta anche duramente e con molto sarca-smo alcune tesi di un autore (cfr. p. 128,nota 34), per poi dare comunque molto ri-salto ad altre affermazioni contenute nellastessa opera (cfr. pp. 212-215).Assolutamente valido e condivisibile è inol-tre a tutt’oggi anche l’assunto generale dellibro, secondo cui tutte le teorie drammatur-giche sviluppatesi in Europa tra il 1730 e il1770 sarebbero riconducibili all’“emozio-nalismo”, vale a dire a quella concezioneestetica che pone come fine ultimo o anchesolo strumentale dell’arte quello di suscita-re delle passioni e che Martino considera,

in consonanza con l’orientamentosociologico degli studi degli anni Sessanta,espressione dell’affermazione a livello eu-ropeo della nuova classe borghese e dei suoivalori (cfr. p. 9 seg.; p. 128 segg.).Il libro può essere suddiviso grosso modoin tre parti, secondo una scansione che vadal generale al particolare e passa dalla teo-ria sulle passioni alla sua applicazione con-creta alla “Wirkung” della tragedia e da que-sta agli influssi che tale concezione ha avu-to anche sui contenuti della stessa. I dueprimi capitoli riguardano così la teoria psi-cologica delle emozioni, applicata poi alpiacere estetico in generale e a quello deglioggetti tragici in particolare; i tre capitoliseguenti affrontano invece il tema più spe-cifico delle modalità del piacere tragico,delle passioni suscitate dalla tragedia e quin-di della catarsi, mentre gli ultimi tre capito-li si occupano delle ripercussioni dell’emo-zionalismo sul contenuto della tragedia, valea dire dapprima sulla trasformazione del-l’eroe della tragedia in “carattere medio”,poi sul cambiamento dell’ambiente socialeall’interno della tragedia, con la nascita deldramma borghese, e infine sul problemadella colpa del personaggio tragico e quindisul rapporto tra tragedia e teodicea.Nel primo capitolo la ricostruzione deglielementi emozionalistici nelle teoriedrammaturgiche antiche e rinascimentalirisulta, benché molto interessante, alquantoschematica e non sempre funzionale alleargomentazioni successive. Si evidenzianoqui cioè due pericoli latenti della storia del-le idee, a cui anche Martino alle volte nonsfugge, che consistono da una parte nel bi-sogno di regredire all’infinito fino a raggiun-gere l’origine prima di un’idea, anche quan-do ciò non porti nessun contributo alla com-prensione del suo ulteriore sviluppo; dall’al-tra nel fornire poi una pura e semplice “ras-segna” delle differenti versioni elaborate diuna determinata idea, estraendole dal lorocontesto e allineandole poi l’una all’altra.Non si può dire comunque che questo at-teggiamento sia quello dominante in questaricerca di Martino, che riesce invece spesso

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a far dialogare tra loro le diverse posizioni.Un esempio assolutamente positivo di que-sto metodo è fornito già in questo primocapitolo dalla ricostruzione delle teorie delpiacere di Descartes e di Leibniz e della loroinfluenza sulle discussioni estetiche succes-sive, in particolare sullo sviluppo della con-cezione delle “sensazioni miste”. La distin-zione operata da Martino tra una teoria“statica-intellettuale” del piacere, che eglidefinisce “oggettiva” e considera più tradi-zionale, e una teoria invece “dinamica-emo-zionale”, ritenuta “soggettiva” e più moder-na (cfr. p. 81 segg.), è utilissima come stru-mento ermeneutico, ma risulta tuttavia peralcuni versi troppo netta, in quanto è poipraticamente impossibile distinguere chia-ramente tra le due, che si basano entrambesul concetto di perfezione (p. 117). Non solole due teorie si trovano tanto in Descartesche in Leibniz, ma anche tutti gli autori se-guenti operano tra di esse delle commistionipraticamente inestricabili. Questa difficol-tà nel distinguere nettamente le due conce-zioni non è d’altra parte casuale e deriva daun parte dall’impossibilità di separare all’in-terno della filosofia leibniziana una sfera“soggettiva” da una puramente “oggettiva”,dall’altra dalla vicinanza esistente durantetutto il Settecento tra la sfera “intellettuale”e quella “emozionale”. Da ciò deriva ancheil fatto, giustamente sottolineato dallo stes-so Martino soprattutto nel capitolo seguen-te, che tutte le teorie del piacere di questoperiodo, anche le più “emozionaliste”, sonoin realtà profondamente razionali. Una si-mile importante acquisizione comporta d’al-tra parte anche un giudizio complessivo sul-l’epoca, che dev’essere assolutamente con-diviso. Se l’Illuminismo infatti non è da unaparte pura e astratta razionalità, oppostamagari all’irrazionalità dello Sturm undDrang o del Romanticismo, in quanto pro-prio quest’epoca ha operato una decisiva ria-bilitazione del sentimento e delle sensazio-ni, una simile riabilitazione non va intesanemmeno come una rivalutazione dell’ir-razionale, bensì piuttosto come un allarga-mento dei confini della sfera razionale (cfr.

p. 117 segg.).Se il terzo capitolo, che prende le mosse daLucrezio, illustra le varie teorie del piaceretragico basate sull’illusione estetica, oppuresulla concezione della simpatia, il quarto af-fronta invece le singole passioni suscitatedalla tragedia secondo le varie e diverse teo-rie drammaturgiche. Molto interessante risul-ta qui ad esempio la ricostruzione della “for-tuna” del sentimento di “pietà”, vale a diredel passaggio dalla condanna di tale senti-mento all’interno della concezione neostoicadella tragedia barocca alla sua rivalutazionein chiave simpatetica nel contestodell’“Empfindsamkeit”. Non meno importan-te è anche la ricostruzione della poetica eroi-ca dell’ammirazione dal classicismo france-se, attraverso Gottsched e fino a Mendels-sohn, presso il quale comunque questa poe-tica conosce fasi di maggiore o minore ade-sione.Molto precisa è poi nel capitolo seguentel’individuazione della contraddizione profon-da che caratterizza il rapporto tra una conce-zione emozionalistica della tragedia e la teo-ria della catarsi, che mirava invece, almenosecondo l’interpretazione stoica della stessa,che era allora la più diffusa, proprio a estir-pare l’emotività. Pur senza voler togliere nullaa Lessing, Martino riesce inoltre a evidenziarein maniera convincente quali siano state lefonti o i precursori della reinterpretazionelessinghiana in chiave assolutamenteantiaristotelica della catarsi tragica, indivi-duandoli soprattutto in Heinsius, Rapin,Brumoy, Batteux e Curtius.Nei due capitoli successivi Martino interpre-ta tanto il superamento dei caratteri eroicidella tragedia classicista e l’affermarsi del“carattere medio”, quanto il passaggio com-plementare dal dramma classicista a quelloborghese, oltre che come espressione dell’af-fermarsi della nuova classe borghese, anchecome conseguenza della poetica dell’emozio-nalismo, che porta tra l’altro ad unsuperamento della “Ständeklausel”. Alla finedel sesto capitolo Martino affronta inoltreanche l’importante questione trattata da Hurd,Diderot e Lessing, riguardante l’individuali-

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tà o l’universalità dei caratteri tragici, e com-pie un interessante tentativo di risolverequesto problema sulla base della categoriadel “tipico”, ripresa dai Prolegomeni aun’estetica marxista di Lukács (cfr. pp. 356-358).Nell’ultimo capitolo viene affrontato infi-ne un tema a cui Martino aveva già accen-nato nel terzo capitolo, parlando di un giu-dizio di Lessing sul dramma Ugolino diGerstenberg, e che aveva poi ripreso in chiu-sura del quarto capitolo: si tratta del carat-tere profondamente “atragico” o “antitra-gico” non solo di Lessing, ma di tuttol’emozionalismo eudemonistico dell’Illumi-nismo. Ritorna qui anche la questionedell’Hamartia, ovvero della “colpa tragica”,che ottiene l’importante funzione di conci-liare l’ottimismo metafisico dell’Illumini-smo con un accadimento tragico, ovverotragedia e teodicea. È da sottolineare a que-sto proposito anche il fatto che Martino noninterpreta l’ottimismo illuminista solo inchiave metafisica, bensì anche da un puntodi vista politico, quale espressione cioè diquella passività politica che caratterizza tut-to il teatro tedesco dell’epoca. Questo inte-resse per un “teatro politico” mancato spie-ga anche la particolare attenzione cheMartino rivolge alla “predicazione politico-rivoluzionaria” di un autore come Mercier,cui egli dedica ben undici pagine (pp. 404-415) e la cui ricezione già porta alla poeticadello Sturm und Drang.Già questi brevi accenni al contenuto e al-l’impianto generale di quest’opera mostra-no chiaramente come essa non possa dirsiassolutamente superata. Anche il grande in-teresse degli anni Ottanta per gli influssiesercitati dall’antropologia sulla letteraturadel Settecento tedesco non ha infatti modi-ficato sostanzialmente il quadro generaleofferto da Martino ed è servito tutt’al più aprecisare solo alcuni aspetti non presi inconsiderazione in questo studio, riguardan-ti soprattutto la comunicazione non verba-le. Vi sono stati poi negli ultimi anni anchealtri approfondimenti importanti su alcunitemi specifici, come ad esempio riguardo

alla vasta discussione appena sfiorata daMartino sul sublime e sul piacere provoca-to dal brutto, dal triste o dal tragico (CarstenZelle), sul problema della catarsi, che è sta-to affrontato con metodologie diverse(Mathias Luserke), oppure sull’estetica del-l’“ammirazione” (Albert Meier), che è sta-ta approfondita però proprio sulle tracce diMartino. Anche altre rappresentazioni piùgenerali della tragedia nella Germania delSettecento (Peter-Adré Alt; Georg-MichaelSchulz) non offrono infine uno sguardo d’in-sieme così vasto sull’intero panorama eu-ropeo e rimangono inoltre per quanto riguar-da le teorie drammatiche, anche se in misu-ra differente, esse stesse debitrici all’operadi Martino.

Alessandro Costazza

Lea Ritter Santini, Il volo di Ganimede. Mitodi ascesa nella Germania moderna, Vene-zia, Marsilio, 1998, pp. 184, £. 34.000

Non capita certo di frequente che una pro-spettiva comparatistica e sincretistica, soste-nuta dall’apporto e dalla combinazione ditradizione mitologica, arti figurative e poe-sia, dischiuda orizzonti tanto ampi e al tem-po stesso nitidamente delineati come neldensissimo e suggestivo saggio di Lea RitterSantini. L’obiettivo ambizioso di ricostrui-re il corso della storia e della cultura tede-sca degli ultimi tre secoli attraverso la tra-duzione iconico-poetica della mitografiaclassica parte dalla persuasiva premessametodologico-ideologica che la ricezione ela rielaborazione di alcune figure mitologi-che corrispondono alla finalità di rappre-sentare di volta in volta figurativamente omediante la scrittura le “nuove forme dellacoscienza” storica.“La fascinazione del mito, lo specchiarsi deisecoli trascorsi e del passato prossimo nellamemoria dell’antico non sono legati solo allapoesia greca o all’epica latina, letta da po-chi, ma soprattutto alle immagini che, ritor-

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nate a sedurre, raccontano ai molti, in nuo-ve forme, le favole degli dei e degli eroi.(...) Vittorie e audaci combattimenti, amorie ire divine prestano la loro mitica realtàantropomorfa al presente, commuovono edilettano, istruiscono e ammoniscono, con-fortano alla possibile somiglianza trascen-dendo la realtà quotidiana”. Il presuppostodi Ritter Santini è, in definitiva, chel’ermeneutica di figure archetipiche si tra-duce nella storia della cultura e, “in epochedi mutazione e di irrequietudine”, in un ci-frato sistema mitopoietico “di avvenimentistorici, sociali e politici”. Il tasso disimbolicità della forma artistica, specularedi uno stato coscienziale, è commisurato,nella diacronia della storia fatta di anticipa-zioni e di superamenti, alla sua dimensioneiconica. La risposta all’interrogativo sulledivinità che “si veneravano nei templi bor-ghesi di Weimar - l’Atene della Germania,per riprendere la definizione di Madame deStaël - nei giardini lungo l’Ilm, dove pas-seggiavano Schiller, Herder e Wieland, neicastelli e nei boschi di faggi che nelle lororadure avrebbero nascosto, centocinquan-t’anni dopo, il Lager di Buchenwald”, que-sta risposta, affidata all’iconologia e alla in-venzione del racconto mitico, getta luce sul-la storia, esplorata e recuperata nellascansione dei suoi passaggi cruciali edemblematici.Date queste premesse, che mirano ad affer-mare il rapporto funzionale della dimensio-ne estetica al decorso storico, conservando,anzi esaltando la valenza figurativo-cognitiva dell’opera d’arte, chiamata a suf-fragare l’“ambizione d’Europa” della Ger-mania, la ricchezza tematica del volume sicontiene a stento sotto le ali dell’ aquilache rapisce Ganimede il cui volo spazianella cultura e nell’immaginario. Nello stu-dio di Ritter Santini, infatti, non si passa inrassegna soltanto la polisemia simbolica chenel corso della storia riveste il favorito diZeus, ma si ricompone uno scenario mito-logico nel quale attori protagonisti non sonogli dei di prima grandezza “Zeus, Marte oVenere, così univoci nell’esercizio del po-

tere”, ma quelle figure di semidei ed eroi so-spesi fra cielo e terra la cui ambivalenza as-simila ed enfatizza nel bene e nel male ango-sce e aspirazioni umane. Ritter Santini con-centra perciò la sua attenzione oltreché sul“dittico mitologico” di Prometeo e Ganimede,la cui presenza estensiva coinvolge generiartistici ed epoche storiche, dal mondo clas-sico, al Rinascimento, alla ex-RDT, sulla ver-gine Europa, su Leda e il cigno e in partico-lare sull’aquila, un’icona fatale che nella sto-ria sedimenta in stemmi, pietre incise, mo-nete ed emblemi, evolvendo da simbolo po-litico della translatio imperii a quello dellasovranità alla fine del secolo scorso.Per orientarci nella capillare e avvincentemappatura, compiuta da Ritter Santini conuna serrata tessitura di motivi, richiami, ri-frazioni, comparazioni, citazioni, esemplifi-cazioni e commenti a gran parte delle 61 ta-vole inserite nel testo, si può forse scegliere,fra i tanti fili in cui si dipana la ricezione diqueste figure mitologiche, quello del movi-mento, o meglio della dialettica diorizzontalità e verticalità, una chiaveinterpretativa fondamentale per spiegare ireiterati tentativi della Germania “di conqui-stare l’etere”. Come osserva Ritter Santiniquasi incidentalmente, più che dal cigno, chenon sa volare, legato all’”umido regno di con-fine con le potenze sotterranee”, ancorché“dominio simbolico aperto alla conquista ma-schile”, l’arte tedesca è fatalmente attratta dalmito dell’aquila, iniziatico e salvifico uccel-lo sovrano (si pensi all’inizio del IV atto delSecondo Faust ) che può assicurare la forzaganimedica e col rapimento sottrarre l’uomoall’anonimato e alla vulnerabilità. Fuga einnalzamento si riassumono nel ratto diGanimede ad opera dell’aquila riproponendo,nella sua “ri-invenzione” storica, “una tragi-ca ambivalenza”: “lo slancio dello spirito el’odio contro la meschinità è pronto ad esse-re pervertito nella pretesa di elezione, nel-l’arroganza di essere protetti da chi è in altooltre le nubi, dal padre di tutti gli dei”. Deipericoli che l’“uccello di Odino” avrebbe ge-nerato nella storia si era reso conto Heine icui versi in Deutschland. Ein Wintermärchen,

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opportunamente citati da Ritter Santini(“Brutto uccellaccio, se/ mi capiterai unavolta fra le mani/ ti strapperò le penne e timozzerò gli artigli”, dal caput III e non dalcaput IV come riportato in nota), sono unadelle poche voci fuori dal coro che nellevarie congiunture storiche e secondo diver-sificate rielaborazioni estetiche e poetichene scandisce lo sbattere di ali.Gli itinerari, in vista di un’assunzione incielo di Ganimede come compimento di una“elezione” e di una missione finalizzata al-l’approdo in una sintesi, sono ricostruitidall’autrice in un vasto spettro mitograficocui corrisponde sempre una puntualità de-scrittiva e interpretativa di testimonianzeiconografiche e letterarie. Si risale così alleradici del mitologema classico di Ganimede,recepito da Goethe anche mediante il filtrodel sapere iconologico di Winckelmann, eall’assimilazione anagogica della tradizio-ne cristiana cantata da Dante nel Purgato-rio. Seguendo in parte la lettura di HansBlumenberg (anche per quanto riguardal’accenno al destino moderno del Titano nel-le quattro leggende di Kafka), Ritter Santinifa ben vedere come, alla stürmeriana ebbrez-za prometeica che con l’inno goethiano e ilsuo pendant figurativo di Füssli sanzionala rivolta e la liberazione dal divino ma an-che dall’eredità rinascimentale, corrispon-da un interesse crescente e più incisivo perGanimede come “immagine del genio” e“della forza dell’intelletto” che tuttavia nonintacca la complementarità dei due testi po-etici. Assai interessanti sono a questo pro-posito le osservazioni sulla possibile chia-ve psicoanalitica che, traendo spunto bio-grafico dall’amicizia nel 1774 di Goethe conJacobi, insiste sul motivo classico dell’erospaidikos unito a quello del trapasso diGanimede. Ritter Santini rivendica l’auto-nomia e l’originalità dell’intervento dell’ar-tista non omologabile alla tradizione per-ché “il potenziale del mito si rinnova nellarilettura del poeta che riusa la sua struttura,la scopre ambivalente, ne inverte la prospet-tiva e la trasforma in nuova formula esteti-ca”.

Nel percorso di ricezione e adattamento delmito di Ganimede alla storia l’autrice co-glie in Hölderlin, più che il goethiano “ri-torno nelle braccia del padre”, il processodi immedesimazione per poter sulle ali del-l’aquila abitare l’etere e conquistare l’im-mortalità. In queste pagine del saggio, mol-to dense e sintetiche, si rileva felicemente ilsuperamento in Hölderlin della “passivitàdel rapimento”, propria della tradizione, aseguito di quella carica patetica che fa agiree amare il soggetto in una prospettivamessianica come sarà accentuata daHofmannsthal (“così la generazione dei vivivede in questo Führer misterioso pre-vis-suto il nucleo del proprio sogno religioso”).L’autrice, riportando ampi passi dal saggiodi Wilhelm Michel Hölderlins abend-ländische Wendung del 1923, insiste sul-l’“aspetto ganimedico” quale elemento piùevidente e diffuso fra le due guerre dell’at-tualità di Hölderlin, il cui potenziale mitico-simbolico è ormai recepito e trasposto nellasfera politico-estetizzante verso la quale siera già indirizzato George, vedendo nel po-eta dell’età classico-romantica il “fonda-tore di un’altra linea di ancestri”. In questaparte del saggio, costruito sull’evoluzionedi coordinate storiche ed estetiche e sul rap-porto fra poesia e iconografia, l’articolata estratificata griglia di posizioni ermeneutichesi concentra su un’organica lettura di alme-no quattro testi hölderliniani. Si tratta del-l’ode Ganymed, degli inni An den Äther,Germanien e Der Adler. In particolare pro-prio questi due componimenti lirici rivela-no una circolazione geografico-ideale dioriente e occidente allusiva di una osmosisuperiore assicurata dal volo dell’aquila.D’altra parte la citazione del NachtgesangGanymed, unitamente al Fedro platonico èoccasione per una rapida proiezione nellaMorte a Venezia di Thomas Mann in cui ildesiderio di Tadzio, moderno Ganimede,abbacina von Aschenbach travolto dallacombinazione di Eros e Logos. Più proble-matico e complesso risulta il secondo rife-rimento a Mann, a proposito di Giuseppe ei suoi fratelli, in cui si stabilisce un’affinità

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elettiva tra il figlio prediletto di Giacobbe eil figlio primogenito Klaus “che il padre, conambigua compiacenza, guardava cresceretrasformando nella figura del suo GiovaneGiuseppe la sua volubile leggerezza in gra-zia demonica, come la sua vocazione arti-stica in predisposizione mistico-profeticaverso un’autorità metafisica”. È certo pro-babile che Mann proiettasse nel protagoni-sta della sua tetralogia l’empatia e la ten-sione di un’elezione androgina che provavaper il figlio. Ma ancor più probabile è chein questo ‘gioco’ estensivo della forzaganimedico-proiettiva e nell’ostentata ten-tazione narcisistica pensasse in primo luo-go a se stesso, come attesta, ad esempio, lacoincidenza del proprio oroscopo con quel-lo riferito nel romanzo a Giuseppe. Più si-gnificativa è, invece, la citazione di un pas-so dall’autobiografia Der Wendepunkt diKlaus Mann, in cui il benvenuto e l’appelloa una guida, Nietzsche, George o Hölderlin,ribadisce quel senso di vuoto e di degradoesistenziale e sociale che nella cultura tede-sca si cerca di rimuovere abbandonando lameschinità delle bassure con uno sbattered’ali che trasporta nelle altezze del mito ri-vissuto e reinventato.Ma Ritter Santini, nell’ultima parte del sag-gio, si concentra sulle conseguenze nefastedell’uso strumentale e irrazionale di deter-minate costellazioni mitologiche compiutodal nazionalsocialismo. Nel tremendo ma-nifesto di propaganda “Germania paese del-la musica” del 1935 l’aquila, le cui pennesono canne d’organo, diviene “presagio del-l’ultimo patto col diavolo concluso dalla su-perbia tedesca che Thomas Mann figuravanel compositore Adrian Leverkühn e nellasua Apocalypsis cum figuris”, mentre neidisegni nel bunker della guardia del corpodi Hitler, venuto alla luce dopo l’abbatti-mento del muro, visualizza l’istanza di do-minio esercitato con la tutela divina. La ten-sione che si scioglie in volo nelle sequenzeiniziali del film Schönheit im OlympischenKampf, girato dalla grande regista LeniRiefenstahl per l’inaugurazione a Berlinodei giochi olimpici del 1936, sono l’esem-

pio più vistoso della combinazione diattualizzazione mitologica e tecnica di ripre-sa d’avanguardia in grado di catturareipnoticamente lo spettatore. La Erhebung“fatta di camicie, bandiere e aquile che tene-vano fra gli artigli la corona d’alloro con alcentro la croce uncinata, che era stata nelmondo antico simbolo del sole” diviene nel-l’estasi collettiva lo sbocco conclusivo di unprocesso di assimilazione mitologica chedall’empatia utopico-idealistica del classici-smo weimariano sfocia nel Mito del XX se-colo di Alfred Rosenberg. Ritter Santini, ci-tando un passo significativo da questa operadel 1930, fondamentale per capire l’ideolo-gia nazionalsocialista, introduce il tema, cherichiederebbe ulteriori approfondimenti, delconfronto e dello scontro finale tra la missio-ne egemonica della razza ariana e “il sognodi tremila anni” dell’ebreo votato a domina-re il mondo con l’oro, ma “senza amore” e“senza onore”. L’opportuno riferimento aHeine, che ancora in Deutschland. EinWintermärchen riaffermava l’“egemonia” delpopolo tedesco nel “regno aereo dei sogni”,dimostra come a partire dalla Germaniaguglielmina si precisi e si concretizzi il dise-gno ideologico che la Germania incarni ilmito dominando Europa in quanto presceltada Zeus e da Dio. L’“ambigua affinità” fracultura tedesca ed ebraismo, sommariamen-te descritta da Ritter Santini, fa comprendereancor più la resistenza opposta ad esempioda Thomas Mann fra gli anni Trenta e Qua-ranta con il suo tentativo di disinnescare umo-risticamente il potenziale del mito,relativizzandolo e umanizzandolo nell’epo-pea dei patriarchi di Giuseppe e i suoi fratel-li .L’autrice conclude il saggio ricordando checon la frantumazione dell’Olimpo nazista, aguerra finita, la presenza mitologica si ridu-ce alla raffigurazione di Europa sulla filigra-na delle prime banconote da cinque marchinella Repubblica Federale, simbolo di unaproiezione sovranazionale che dopo circamezzo secolo porterà all’euro. Il suggestivopercorso mitologico-culturale qui proposto daRitter Santini si ferma alle soglie della divi-

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sione in due stati della sovranità nazionaleche verrà ricomposta nel 1990. Sta al letto-re, sostenuto dalla solida e articolata archi-tettura del saggio, interrogarsi sulla possi-bile esistenza, se non di un improbabile mitodi ascesa, di figure mitologiche alla cuiarchetipicità si possa forse in qualche modofare riferimento per garantirne più che lasopravvivenza, il legame con le origini del-la civiltà occidentale. Sulla forzaganimedica, intesa come anima e motore diuna continuità con l’eredità classica filtratadal classicismo tedesco, la RDT aveva co-struito, con un ridondante quanto sterilemateriale teorico, il ponte col passato perlegittimare in modo surrettizio l’equazionedi umanesimo classico e socialismo. È an-cora da verificare in che misura questa cor-tina estetico-ideologica abbia prodottol’ humus o favorito la reazione creativa diautori come Volker Braun, Heiner Müller,Franz Fühmann, Karl Mickel, Christa Wolf,che alla cultura classica hanno attinto perinterpretare e correggere il presente. NellaGermania riunificata e nell’Europa ormaifederata sembra che non ci sia più bisognodel giovane Ganimede, del suo volo libera-tore di sogni e aspirazioni che potrebbe dinuovo puntare in alto sulle ali di un’ aquilapurificata dalle manipolazioni irrazionali-stiche del passato e dal vuoto pragmatismoutilitaristico del presente.Il saggio di Santini, frutto di un’appassio-nata e approfondita frequentazione a tuttocampo col mondo tedesco, è un contributodi grande rilievo sia come documentato ecritico bilancio problematico di modelli del-l’anima che hanno caratterizzato l’evolu-zione della borghesia tedesca negli ultimitre secoli, sia come discussione di un “sa-pere troppo spesso separato dalla sua re-sponsabilità storica”. Se le figurazioni mi-tologiche erano prerogativa del mondo del-l’ideale e della poesia, la loro assunzione aguide simboliche ed emblematiche nel ter-zo Reich ne ha determinato la rimozione ela loro inutilità, perché, parafrasando i ver-si di Paul Celan, nell’aria si può scavare or-mai solo una tomba. Già Heine, la cui con-

cezione realistica non poteva fargli presagi-re i futuri esiti strumentali della tradizionemitologica, prendeva atto dell’inevitabileesilio degli dei, in primis di Zeus, “l’aman-te di Leda, Alcmena, Semele, Danae,Callisto, Io, Latona, Europa, finito per na-scondersi al polo Nord dietro montagne dighiaccio”. A Ganimede, anche grazie allostudio di Santini, continueremo a guardarecome alla figura che si compiace del desti-no che gli è riservato e va oltre l’hic et nuncdel contingente per librarsi nello spazio,fonte di creatività artistica.

Fabrizio Cambi

Paolo Chiarini, Antonella Gargano, La Ber-lino dell’espressionismo, Roma, Editori Riu-niti, 1997, pp. 263, £. 35.000

Un’analisi di Berlino all’epoca della sua piùricca fioritura dal punto di vista artistico eletterario nel Novecento, cioè nel periodoespressionista, potrebbe facilmente finire nelcalderone delle numerosissime pubblicazio-ni apparse negli ultimi vent’anni su questoargomento, la cui formula editoriale adotta-ta per proporre il discorso sulla metropolidifetta spesso di qualche elemento che po-trebbe renderla più fruibile e preziosa per ilpubblico. Un’ulteriore precisazione andreb-be poi fatta a proposito del diverso approc-cio al fenomeno metropolitano da parte deilettori italiani e di quelli tedeschi, dove iprimi, certamente più a digiuno di informa-zioni circa l’eccezionale sviluppo culturalee artistico della capitale tedesca, usano so-litamente documentarsi in modo massiccioin occasione di mostre e rassegne anche invirtù dell’impositivo intervento dei mass-media che promuovono il prodotto. Si pen-si al catalogo della mostra realizzata a Pa-lazzo Grassi nell’autunno del ’97, che hasopperito alle carenze del progettoespositivo, in cui era patente la mancanzadi riferimenti ad alcune arti, sovrane nelperiodo espressionista, come la danza, la

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drammaturgia (dove anche gli architetti gio-cano un ruolo importante per l’allestimentodelle scenografie), il cinema e l’architettu-ra.Dunque, il libro di Chiarini e della Garganoha il pregio della ben studiata formula edi-toriale, oltre, naturalmente, a quello dellaricchezza di particolari che ricostruisconol’ambiente berlinese nei primi trent’anni delnostro secolo. L’indice è volutamente ge-nerico e lascia spazio ad un’esplorazionepersonale attraverso i luoghi della città in-torno ai quali si è coagulata in varia formala creatività di scrittori e artisti, ansiosi difissare con parole o con il tratto di pennelloalcuni momenti del rapido processo di tra-sformazione del tessuto urbano e sociale.Pensare “nell’espressionismo” significa,però, anche rendersi conto che il cuore de-gli intellettuali non batte sempre all’uniso-no con i ritmi della città, vista appunto comeuna piovra divorante, capace di ridurre aspazi sempre più angusti la prospettiva del-l’occhio e di soggiogare al convulso dina-mismo dei suoi mezzi di trasporto la liberavolontà di movimento dei corpi che la po-polano.Il Potsdamer Platz, che oggi conosciamocome la quinta di una devastazione e di unaricostruzione che si ripete dopo cent’annidi storia metropolitana, assume la forza diplastico scenario di rovina nel contrasto pro-dotto tra il verso poetico di un Erich Kästnere le linee spezzate, che come lame taglianola visione prospettica dell’insieme, nei qua-dri di Kirchner (Potsdamer Platz, 1914).Ogni testimonianza fornita dagli autori cedeal suono o al disegno di immagini vive unframmento di quello spazio critico che lostudioso ama solitamente dominare con ilproprio commento; ma qui il commentonasce da un collage di suggestioni e di noti-zie che già avvisano del complesso lavorodi ricerca che sta alle spalle di questo viva-ce testo. La bibliografia non fa mistero diquanto sia stata articolata la preliminare rac-colta e organizzazione delle letture. Agli in-terventi di scrittori più noti, Heym o Lasker-Schüler ad esempio, si accostano le rifles-

sioni di sociologi o di un promotore artisticodella Großstadt come Adolf Behne, ma an-che le rare parole spese pubblicamente da ani-matori culturali dei centri di ritrovo berlinesiche hanno trasformato le abitudini del tempolibero dei cittadini in un breve volgere di anni.Il libro di Chiarini e della Gargano mette inluce, tra gli altri risvolti emotivi che creanola costellazione di una città in cui si adden-sano molte contraddizioni, il sordo dolore dichi vuole conservare, almeno nella memo-ria, l’antica immagine di Berlino. Tecnolo-gia e progresso significano anche devastazio-ne e violenza, e così il prolungamento dellalinea metropolitana che raggiunge a nordPankow e a sud Dahlem deve necessariamen-te attraversare due caseggiati. Ringelnatz for-se intendeva ironizzare su questo fatto, comeil suo ruolo di animatore dei cabaretmonacensi e berlinesi richiedeva, ma le pa-role che usa sono dure e sinistre: “Qui lasopraelevata entra dentro una casa/ ed escedall’altra parte./ E cieca e cupa una casa siappoggia all’altra casa...”Nei cabaret di Berlino gli scandali edilizi diquegli anni vengono registrati in parallelo aigiornali, che arrivano a tre edizioni giorna-liere, e l’animo del pubblico si infervora trauna notizia di cronaca e l’altra, esprimendo-si in moti di indignazione e di stupore. Leidee circolano più liberamente fuori dai luo-ghi deputati alla produzione di cultura, comeaccade a Vienna e a Parigi. Ma ancora unavolta i progetti di ristrutturazione urbanamutano gli scenari culturali e ad ogniriorganizzazione presso nuovi centri d’incon-tro nascono nuovi progetti. Nella parodia diAlfred Lichtenstein dei caffè letterari, i fre-quentatori dei circoli culturali individuano ivolti, storpiati in modo volutamente carica-turale, dei più celebri scrittori e artisti dellaBerlino del tempo.Di notevole interesse è l’excursus finale sul-l’architettura dei primi trent’anni del Nove-cento che si apre con una considerazione concui si corona il percorso prodotto dal rinviotra immagini e testi: “Come per il teatro e ilcinema, anche per l’architettura l’espressio-nismo scavalca in ambedue le direzioni i li-

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miti cronologici generalmente assegnati allaletteratura, arrivando, come è ovvio, sensi-bilmente più tardi alle sue prime realizza-zioni [...] E, di nuovo come per gli altriambiti artistici, va sottolineata la marginalitàdell’architettura espressionista rispetto al-l’architettura dominante, e questo nonostan-te la presenza di figure di grande spicco”.Ecco, questa riflessione si dispone nell’as-sunto fondamentale degli autori di La Ber-lino dell’espressionismo come nucleo cen-trale dell’intero progetto: quello di mostra-re come il manifesto ideologico dell’espres-sionismo - che ha il doppio volto dell’esal-tazione del progresso e della riaffermazionedi una riconquista degli spazi umani, dasottrarsi al dominio incontrollato della tec-nica - non si incernieri nelle varie arti se-condo una linea di parallelo sviluppo e so-prattutto come ciascuna delle arti costrui-sca talora utopisticamente, al di là delle ef-fettive possibilità di realizzazione, il pro-prio progetto culturale. “Tutto”, dunque, “èarchitettura”, perché nello studio delle for-me e delle proporzioni si manifesta la veraanima dell’artista, quella creativa, non soloquella funzionale (si vedano Hans Scharouno Wassili Luckardt).La chiusura in dissolvenza sul complesso“italiano” creato da Aldo Rossi sullaSchützenstraße ci fa pensare che qui si ce-lebri il nuovo battesimo culturale di una cittàche ha vissuto per ben tre volte una sua ri-nascita, nel breve arco di un secolo: nei pri-mi trent’anni con l’espressionismo, poi inseguito alla spaventosa distruzione causatadalla Seconda Guerra mondiale e, infine, aigiorni nostri. Le necessità strutturali el’aspetto estetico, in perenne dialogo o ad-dirittura in conflitto tra loro, fanno discute-re, oggi come allora, sull’opportunità dellescelte. Ciò che va bene per la città spessonon si adatta alle esigenze dell’uomo e vi-ceversa...

Elena Agazzi

Paola Gambarota, Surrealismo in Germa-nia. Risposte e contributo dei contempora-nei tedeschi, “Le Carte Tedesche” 14, Udine,Campanotto, 1997, pp. 190, £. 35.000

In ambito tedesco, a differenza di quanto èavvenuto in Francia, dove il movimento haavuto origine, e nei numerosi paesi nei qua-li si è diffuso e ha prodotto la sua intensa,luminosa stagione, la mancanza di unacodificazione del surrealismo, di una suaidentificazione ad avanguardia autodefinitae ufficiale, ha impedito finora anche uno stu-dio sistematico della penetrazione delle sueistanze e delle loro concrezioni in opere ein autori che pure dall’impeto surrealista fu-rono profondamente coinvolti. Giustamen-te Paola Gambarota individua i motivi di taledispersione in una forte presenza di struttu-re autonome (espressionismo e dada in pri-mo luogo) che - non diversamente da quan-to avvenne in Italia con il futurismo - ave-vano richiamato a sé gli impulsi innovativie trasgressivi dei quali il surrealismo si nu-triva, traducendoli in forme espressive giàcodificate. Al di là di questa assenza di unmovimento, restano tuttavia - e questo infondo in conformità con la radice profondadella natura simbolista - singoli, quasi pri-vati atti artistici che direttamente o indiret-tamente scaturiscono da quella matrice e nefanno propri tanto i metodi (l’asistematicità,la casualità associativa, la caduta di confinitra il sé e il mondo, tra privato e pubblico)quanto i fini (essenzialmente una ricerca diverità che attinge alle profondità anche mo-struose della psiche). Di queste traiettorielo studio di Gambarota, sulla scorta di unadocumentazione ricchissima, traccia unamappa accurata il cui filo, una volta svoltoe ripercorso, mostra se non un’organicitàquantomeno una coerenza che permette dielaborare delle categorizzazioni nonestemporanee: è in questa direzione che van-no i meriti maggiori del libro, che si ponecome storia ed è al tempo stesso affilatarielaborazione esegetica.

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Diviso in quattro parti, lo studio si apre conun capitolo di carattere storico-espositivo (Ilsurrealismo e i contemporanei tedeschi, pp.13-64) in cui, scandita per decenni, è messaa fuoco la parabola del movimentosurrealista in Germania a partire dal pene-trare delle prime suggestioni dal versantefrancese, negli anni Venti, per passare attra-verso gli anni Trenta, durante i quali prati-camente la totalità degli artisti vicini alsurrealismo fu destinata all’esilio, e tutta-via proprio nella diaspora dell’esilio riuscìparadossalmente a maturare una propriaidentità se non proprio unità, e infine giun-gere fino agli anni Quaranta e al dopoguer-ra, in cui l’ufficializzarsi del movimento inGermania e in Austria segnò il suo trapassoin epigonismo e ne decretò ben presto lafine. In particolare, Gambarota ricostruiscein modo capillare, quasi passo per passo etesto per testo, le circostanze che videroapprodare in Germania i testi dei capofilafrancesi del movimento, di Breton, Sopault,Eluard, così come le cause che portarono aun sostanziale rigetto della loro strategiaartistica e poetica. In buona misura ful’individuazione (arbitraria, ma comprensi-bile) di una continuità tra la lineaespressionistica - come atteggiamento, piùche nelle sue singole concrezioni - e ilsurrealismo, innestato oltretutto nell’esem-pio tedesco sul nodo del dada, a indurre ilsospetto su surrealismo e in definitiva il suorigetto, provocando una svalutazione delmovimento in nome di quell’“insofferenzaper la dottrina estetica della visione” (p. 19)destinata a segnare le poetiche antimistichee antiastratte degli anni Venti, in primo luo-go quella della Neue Sachlichkeit.E’ proprio quel nodo del dada, semmai, arestare irrisolto: la cesura netta che isurrealisti proclamarono e che Gambarotariprende, al di là delle bellicose prese diposizione (con Breton che nel 1921 annun-ciava i funerali dada), spesso miopi o di ca-rattere strumentale (si veda la polemica traGoll e Breton riguardo la progenitura delmovimento), appare in realtà discutibile. Lapercezione da parte dei contemporanei di

una contiguità tra le due avanguardie apparedovuta non solo a un equivoco: vi è una coin-cidenza di protagonisti, un’identità di mezzi(la performance, il manifesto, il proclama) edi fini (lo scandalo, il sovvertimento dell’or-dine). La differenza, è vero, stanell’individuazione nella psiche di una “bus-sola della disorganicità” che, se seguita finoalle sue estreme conseguenze, può dirigerel’atto creativo in direzione coerente, anchese di una coerenza che ha il suo principio inregioni del linguaggio e dell’espressione si-tuate all’opposto di quelle in cui è lecito earticolabile lo stesso concetto di “coerenza”.Ma è una differenza che può essere letta an-che nel senso di un’evoluzione, e non di undistacco: operazione, questa, che Gambarotacompie più in singole analisi che per il feno-meno nel suo complesso.Nella figura di Hans Arp in particolare, alquale è dedicata la prima parte del secondocapitolo (Poetiche e linguaggi surrealisti, pp.65-118), è recuperabile l’intreccio tra dada esurrealismo, stretto fino ad apparireinestricabile. Nel tentarne lo sbroglio,Gambarota individua le ragioni della man-canza di una linea critica che comprenda idue capi della matassa nella diversa otticaseguita dalle due tradizioni critiche, nella“divaricazione fra i due contesti, quelloromanistico e quello germanistico” (p. 66),il primo dei quali - nel caso di Arp, che scris-se in francese e in tedesco nelle diverse fasidella sua evoluzione, ma non solo nel caso diArp - ha avuto occhi soprattutto per gli esitisurrealisti, mentre la critica tedesca si è con-centrata sulla produzione del primo periodozurighese. In realtà, l’Arp dadaista già utiliz-zava strumenti che saranno propri tanto delsuo impegno surrealista quanto del movimen-to nel suo complesso: ovvero la scrittura au-tomatica e il caso come principio distrutturazione artistica. È semmai la diversaconnotazione che i due procedimenti assu-mono nei due diversi contesti a indurre unadistinzione fondamentale che appare fondan-te anche per una definizione dell’esteticadadaista e di quella surrealista. Ciò che nelprimo surrealismo Gambarota definisce “mi-

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stica del caso” ( per Aragon, ma anche pergli altri surrealisti, il caso “era l’unica co-noscenza dell’infinito possibile all’uomo”,p. 69), con la sua rivalutazione della parolapoetica in quanto significato e non solo se-gno, rivela l’intenzionalità se non della sin-gola concrezione artistica quanto meno delsistema in cui essa s’inserisce - un’intenzio-nalità aliena al dada, per il quale il caso erasì logica sottesa alla struttura stessa del re-ale, ma che, applicata alla letteratura, nonpretendeva di apportare elementi per una suamaggiore conoscenza né tanto meno per suaappropriazione, ma contribuiva a confinar-la nella dimensione della superficie, del gio-co senza poste in palio, ribollente e sfrena-to proprio in quanto fine a se stesso.Se in Arp si mettono a fuoco i caratteri di-stintivi del surrealismo rispetto al dadaismo,il secondo autore preso in esame nel secon-do capitolo, Yvan Goll, è colui nel quale ilmovimento fa i suoi conti con il retaggiodell’espressionismo. In Goll la polemicaanti-espressionista, con la quale l’autorecerca di gettare le basi di una poetica nuo-va, si rattrappisce sotto un “vocabolario [...]radicato nella sensibilità dell’espressioni-smo umanitario” (p. 83). La versione pro-posta dall’autore alsaziano di un surrealismo“alternativo” a quello bretoniano, di deri-vazione apollinairiana e da lui battezzato“Überrealismus”, fu destinata alla sconfittadalla storia del movimento, ma nel misu-rarsi con la lezione bretoniana indicò unpercorso tanto originale e vivo nella prassiquanto debole e contraddittorio nella for-mulazione teorica. In particolare,Gambarota indica nella diversa sintassi pre-stata alla stessa matrice alogica l’elementodistintivo del surrealismo golliano: se, in-fatti, la scrittura automatica di Breton e deisuoi seguaci passa attraverso “catenemetaforiche dalla sintassi più o meno intat-ta” (p. 85), il procedimento compositivo diGoll procede per stacchi sintattici. Il pianodel linguaggio è una sorta di piattaformasulla quale si proiettano le divergenze sulpiano contenutistico, prima tra esse la ri-cerca perseguita da Goll della latenza dei

meccanismi inconsci, contro la rappresen-tazione immediata e manifesta di tali mec-canismi operata dai surrealisti bretoniani.Quando lo sforzo di Goll tentò di indiriz-zarsi verso la costruzione teorica, tuttavia,rivelò tutti i propri limiti e fu facilmente sca-valcato dalle ben altrimenti lucideformulazioni bretoniane, verso le quali, an-cora nel 1950, elaborando la propria confu-sa categoria di Reismus, Goll sollevava obie-zioni dense di disprezzo. E’ nella disaminadella produzione di Arp e Goll che questaparte del lavoro di Paola Gambarota si pre-senta come più stimolante, mentre nel terzoautore analizzato - Paul Celan, ancora unautore “di confine”, con un rapporto com-plesso, di appartenenza e di distanza, con lalingua tedesca - quello dell’autrice è invecesoprattutto un resoconto sullo stato della ri-cerca - dalla storia del resto ricca e variega-ta, a differenza dei due casi precedentementepresi in questione - relativo ai rapporti tral’autore e il retaggio surrealista, per lo piùindividuato nella produzione giovanile e inlingua rumena.Con Celan si chiude la sezione dedicata aifenomeni più propriamente poetico-lettera-ri dello studio di Gambarota e inizia unaparte più problematica, in cui le categorieindividuate vengono messe alla prova in rap-porto a fenomeni che con il surrealismo con-dividono soltanto punti di tangenza. ÈWalter Benjamin, in particolare, a diventa-re protagonista tanto del terzo (Denkbildere Flânerie: verso una prosa surrealista?, pp.119-146) quanto del quarto e conclusivocapitolo (Surrealismo e politica, pp. 147-176). Gambarota muove dalla presunta “vo-cazione surrealista” (p. 120) di Benjamin,divenuta luogo comune troppo spessoinindagato nella critica degli ultimi anni, ecerca di sottoporla al vaglio di un’analisi piùstringente di quella che si esaurisce nellaconstatazione della “scelta formale del mon-taggio” (p. 120) come indiscusso elementosurrealista nell’opera dell’autore tedesco. Inrealtà, per il Benjamin dei tardi anni Venti ilsurrealismo dovette sembrare un’alternati-va alla menzogna dello “sguardo spassio-

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nato” che s’incarnava nella pretesa oggetti-vità della letteratura della repubblica diWeimar, tardo residuo di esteticheottocentesche che nella sua aproblematicità,nella volontà di restare sempre e comunque“all’esterno”, finisce con il fare il gioco dichi vorrebbe combattere, con l’identificarsiinvolontariamente con un punto di vistaborghese. Benjamin, in polemica con lapoetica della Neue Sachlichkeit e proiettan-dosi verso la Francia, impugna l’antilet-terarietà surrealista, e non solo nel saggioDer Surrealismus (1929), ma anche e so-prattutto nei suoi Denkbilder, primo fra essila Einbahnstrasse (1928), in cui il montag-gio stringe in un unico abbraccio il sogget-tivo e l’oggettivo, l’esterno e l’interno. Lacondizione onirica diviene così arma con-tro la finta neutralità neo-oggettiva, ma tro-va inoltre il suo impiego, in parziale con-trasto anche con il surrealismo, per fondareun’oggettività di diverso segno, in cui il so-gno è condizione normale della memoria,non solo di quella individuale ma anche esoprattutto di quella storica, condizionatadall’arbitrio cui la destina “la situazionedell’intellettuale nei rapporti sociali del ca-pitalismo” (p. 125). Nella restituzionebenjaminiana dell’esperienza attraversoimmagini staccate e apparentemente insigni-ficanti (illuminate in una prospettiva che delsurrealismo recupera le due categorie delflâneur e del collezionista) si muove unasfida alle capacità ermeneutiche del lettoreche, variamente modulata, sarà ripresa daautori come Bloch, Kracauer e Adorno, suiquali difatti Gambarota si sofferma in al-cune dense pagine del suo lavoro (superflua,in questo orizzonte, sembra invece l’inclu-sione di Franz Hessel, dovuta più all’atten-zione prestatagli da Benjamin che a una re-ale pertinenza al filone). È in questa co-stellazione, più ancora che nelle pagine, sti-molanti ma troppo esigue, dedicate a CarlEinstein e Klaus Mann nell’ultima parte dellibro, che la storia del surrealismo in Ger-mania rompe i suoi paradigmi di marginalitàe s’innesta in un terreno culturale fecondo,ed è qui, soprattutto, che Surrealismo in Ger-

mania trova il suo punto di equilibrio tra l’in-formazione accurata, l’analisi attenta e lapregnanza interpretativa.

Alessandro Fambrini

Walter Benjamin, Il viaggiatore solitario e ilflâneur. Saggio su Bachofen, a cura di Elisa-betta Villari, Genova, Il Melangolo, 1998, pp.77, £. 15.000

Esce ora la traduzione italiana dell’importantesaggio di Walter Benjamin su Johann JakobBachofen. Scritto negli anni 1934-35, il sag-gio non è solo significativo come testimonian-za di quel vastissimo interesse che Bachofensuscita in Germania a partire dagli anni Ven-ti, ma anche come primo testo redatto daBenjamin direttamente in francese. Il temagli era stato proposto da Jean Paulhan, l’al-lora direttore della “Nouvelle RevueFrançaise”, ma per ragioni mai del tutto chia-rite il saggio non venne pubblicato. Appariràinvece solo quattordici anni dopo la morte diBenjamin, nel 1954, su “Les LettresNouvelles”.L’obiettivo principale di questo lavoro dove-va essere, come Benjamin scrive nel 1935 inuna lettera a Horkheimer, “Bachofen, der inFrankreich gänzlich unbekannt und von demnichts übersetzt ist, den Franzosen zupräsentieren. Ich habe zu diesem Zweck mehrihn selbst zu porträtieren als seine Theorienwiederzugeben versucht” (GesammelteSchriften, II, 3, p. 967). Ne risultò un saggioche nel 1973 Furio Jesi definì “probabilmen-te il contributo più intelligente allabibliografia bachofeniana in assoluto” (Irecessi infiniti del ‘Mutterrecht’, in: J. J.Bachofen, Il Matriarcato, trad. di GiulioSchiavoni, 1988, p. XXI) - non senza peral-tro mettere in guardia dalla letturabenjaminiana di Bachofen. Ma su questopunto torneremo. “Un carrefour de la pensée allemande” (GSII, 3, p. 968), definisce Benjamin lo studiososvizzero prima di procedere a un suo

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brillantissimo ritratto suddiviso in dieci pic-coli capitoli di circa una pagina e mezza cia-scuno. Dopo aver sottolineato il carattere‘profetico’ degli studi compiuti daBachofen, passa alla descrizione del suometodo che “consiste à placer le symbole àla base de la pensée et de la vie antiques”(GS II, 1, p. 221). A proposito della ricezio-ne bachofeniana Benjamin opera in seguitouna distinzione fra due grandi filoni: quello‘mistico’ (Stefan George, Alfred Schuler,Ludwig Klages) e quello ‘sociologico’(Friedrich Engels, Paul Lafargue), giungen-do a un giudizio di grande acutezza: “Partoutces théories ont provoqué une réaction danslaquelle la vie intime de l’affectivité et lesconvictions politiques semblent uniesindissolublement” (id., p. 231). Particolar-mente interessante appare il collegamentooperato da Benjamin fra questa tematicacomplessa e l’importantissimo saggio diErich Fromm Die sozialpsychologischeBedeutung der Mutterrechtstheorie del1934. Benjamin viene a conoscenza di que-st’ultimo proprio durante la stesura del suolavoro su Bachofen.Nel ritratto che Benjamin delinea dello stu-dioso svizzero confluiscono tratti autobio-grafici: “Bachofen mis en ban par la scienceofficielle” (GS II, 3, p. 967) è il primo pun-to dello schema manoscritto del saggio. Eappare felicemente scelto il titolo dell’edi-zione italiana che accosta il “voyageursolitaire”, quale Bachofen viene presentatoda Benjamin (GS II, 1, p. 221), al flâneur: ilviaggiatore solitario come flâneur antelitteram.Dalla prima pubblicazione del saggio inFrancia a quella in Germania passano quasivent’anni: solo nel 1971 “Text + Kritik” (31/32) pubblicherà il testo tradotto in tedescoda B. Lindner, M. Noll e R. Schubert e cor-redato di note critiche. Nel 1975 Hans-Jürgen Heinrichs lo ripubblica (con le stes-se annotazioni) nel volume Materialien zuBachofens ‘Das Mutterrecht’. LeGesammelten Schriften di Benjamin (1977)torneranno invece a riprodurre la versioneoriginale francese (senza fare nemmeno

cenno alla versione in tedesco del testo).La traduzione italiana si inserisce nel filonedi una ricezione nostrana di Bachofen piut-tosto intensa, che va dalle edizioni curateda Eva Cantarella (Il potere femminile, 1977e 1992; Introduzione al diritto materno,1983) a quelle di Il Matriarcato (1988) e Ilsimbolismo funerario degli antichi (trad. diM. Pezzella 1989) fino a Diritto e storia.Scritti sul matriarcato, l’Antichità e l’Otto-cento (curato da M. Ghelardi e A. Cesana,1990). Da ultimo è apparso Il viaggio inGrecia (a cura di A. Cesana, 1993).Proprio in occasione della prima pubblica-zione di quest’opera di Johann JakobBachofen (Griechische Reise), scritta nel1851, ma apparsa solo postuma nel 1927,Walter Benjamin pubblicherà nel 1928 unasua recensione per “Die literarische Welt”.E non era nemmeno questa la prima voltache Benjamin dimostrava un interesse neiconfronti di Bachofen: già due anni primaaveva recensito il libro di Carl AlbrechtBernoulli Johann Jacob Bachofen und dasNatursymbol. Ein Würdigungsversuch(1924).Il saggio benjaminiano su Bachofen si in-treccia doppiamente con il nome diBernoulli: la raccolta in tre volumi trattadalle opere di Bachofen e intitolataUrreligion und antike Symbole cheBernoulli pubblica nel 1926 costituisce, in-sieme al suo libro su Bachofen del 1924, lafonte principale di Benjamin.Benjamin non è peraltro l’unico a leggereUrreligion und antike Symbole in quel peri-odo. Alla stessa identica lettura si stava de-dicando Thomas Mann che attingerà allecategorie di Bachofen per la sua tetralogiabiblica. Mann utilizzava però anche un’al-tra edizione di scritti bachofeniani, intitola-ta Der Mythos von Orient und Occident ecurata da Manfred Schroeter. Questa raccol-ta, apparsa nel 1926 come quella diBernoulli, viene introdotta da un vastissi-mo saggio (300 pp.) di Alfred Baeumler chelo stesso Thomas Mann definisce nella suaPariser Rechenschaft (1926) una “große undgeistvolle Einleitung”. “Man kann nichts

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Interessanteres lesen, die Arbeit ist tief undprächtig, und wer sich auf den Gegenstandversteht, ist bis in den Grund gefesselt”(Gesammelte Werke XI, p. 48). Certo, dettoquesto, Mann prende subito le distanze daBaeumler e dall’ ‘oscurantismo rivoluzio-nario’ da lui rappresentato.Benjamin, dal canto suo, annota nello sche-ma manoscritto del saggio a proposito diBaeumler: “Exploitation réactionnaire deBachofen par le philosophe nazi AlfredBaeumler” (GS II, 3, p. 969).Il fatto che nella edizione italianaexploitation venga tradotto con ‘scoperta’invece che con ‘sfruttamento’ (p. 67), rap-presenta probabilmente una delle inevitabi-li sviste in cui incorre chi traduce. Più gra-ve appare l’affermazione della curatrice chenella sua introduzione al saggio benja-miniano scrive: “Bachofen viene liberatodalle banalizzazioni dell’interpretazionereazionaria del filosofo nazista Bäumler” (p.14). Nemmeno Thomas Mann (che cono-sceva appunto bene la posizione diBaeumler a proposito di Bachofen, mentrenon possiamo dare per scontato la stessaconoscenza da parte di Benjamin), per pocasimpatia che avesse nei confronti diBaeumler, si sarebbe sognato di liquidarela lettura baeumleriana di Bachofen come‘banale’.Ci saremmo forse aspettati qui un accennoa quel complesso cammino di Baeumler sucui meritevolmente Giampiero Moretti nel1983 aveva gettato luce (Alfred Baeumler -Friedrich Creuzer - Johann J. Bachofen. Dalsimbolo al mito, vol. I, pp. 15-45) e che piùrecentemente è stato oggetto di indagine diHubert Brunträger (Der Ironiker und derIdeologe. Die Beziehungen zwischenThomas Mann und Alfred Baeumler, 1993,pp. 49-58 e 82-100). A questo proposito,l’affermazione dello stesso Jesi, secondo laquale “gli ideologi del nazismo avrebberoscelto proprio nel Bachofen uno dei loro‘precursori’” (citata, ma non commentatadalla curatrice, pp. 17-18), va forse precisa-ta: non a caso la cosiddetta ‘Bachofen-Renaissance’ ha luogo prima dell’avvento

del nazionalsocialismo. Durante il TerzoReich l’interesse per Bachofen e le sue teo-rie sul diritto materno diminuisce sensibil-mente. Ne è la prova più eclatante lo stessoAlfred Baeumler, che dopo il 1933 sposta lasua attenzione su temi come quelli trattati inMännerbund und Wissenschaft (1934) eAlfred Rosenberg und der Mythus des 20.Jahrhunderts (1943). In una realtà in cui ilruolo della donna si riduce alla sua mera fun-zione biologico-riproduttiva, il mito dellaGrande Madre evocato da Bachofen appareormai fuori posto.Da sempre la ricezione di Bachofen è carat-terizzata da un atteggiamento eclettico, ossiadalla tendenza a recepirlo per così direframmentariamente, ignorando di volta involta quell’aspetto del suo sistema che appa-re non integrabile in un determinato tipo dilettura. Ed è proprio questo il punto dal qua-le Jesi mette in guardia anche il lettore delsaggio benjaminiano su Bachofen in quanto“esso pure incorre, a nostro parere, nei rischidel voler salvare Bachofen da se stesso” (Irecessi infiniti, cit., pp. XXI-XXIV e XXXIV,qui p. XXI). Questione complessa e impor-tante questa, che senz’altro avrebbe meritatomaggiore approfondimento di quanto la cu-ratrice non abbia ritenuto necessario (limi-tandosi a citare Jesi in nota, per di più in modoincompleto, p. 18).Da un punto di vista filologico, il saggio diBenjamin, scritto in francese ma basato sufonti tedesche tradotte in francese dallo stes-so Benjamin, presenta molteplici spunti diindagine e potrebbe stimolare la curiosità dichi traduce. È un aspetto che la curatrice del-l’edizione italiana trascura invece del tutto.Succede così per esempio che una citazionetedesca di Bachofen, il cui significato vienestravolto nella traduzione francese diBenjamin (probabilmente in seguito a ripe-tuti interventi e correzioni sul testo da partedi terzi), appaia ulteriormente peggiorata nel-la traduzione italiana: “War mir RomsGründer als ein wahrer italischer Adamdargestellt worden, so erblickte ich jetzt inihm eine sehr moderne Gestalt, in Rom denSchlußstein und Untergang einer Periode

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tausendjähriger Kultur” (Urreligion undantike Symbole I, p. 35) diventa nella tra-duzione francese “Si autrefois le fondateurde Rome n’avait pas été présenté commeun vrai Adam italique, je verrais maintenant(après le séjour romain) en lui une figuretrès moderne et en Rome le terme et le déclind’une période culturelle millénaire” (GS II,1, p. 226) e infine in italiano “Se una voltail fondatore di Roma non mi fosse stato pre-sentato come una sorta di Adamo italico,ora (dopo il soggiorno romano) io vedrei inlui una figura estremamente moderna e inRoma il termine e il declino di una civiltàdi millenaria cultura” (p. 47).La traduzione italiana lascia a desiderareanche altrove. Una francese “vieille roue defeu aryenne” (GS II, 1, p. 228) appare peresempio in italiano come “antica ruota difuoco aria” (p. 50), oppure “[Alfred] Schulerétait un petit bonhomme, Suisse commeBachofen” (GS II, 1, p. 229) in italiano di-venta “Schüler era, come Bachofen, un buonometto svizzero” (p. 51; inspiegabile per-ché ‘Schuler’ appaia anche in seguito senzaeccezione come ‘Schüler’). Del tutto errataappare la traduzione di “Personne n’estcalomnié comme celui qui établit les liensentre le droit et les autres formes de la vieet qui écarte de soi l’escabeau isolant surlequel on aime placer chaque matière etchaque peuple” (GS II, 1, p. 225) con “Nes-suno è calunniato come colui che stabiliscei legami fra il diritto e le altre forme di vitae che allontana da sé la tendenza a isolare,ponendo in caselle separate, ogni discipli-na e la storia di ogni popolo” (p. 47).Durante la stesura del suo saggio, Benjaminscrive ad Adorno: “Es ließe sich bei dieserGelegenheit viel zu unsern eigenstenDingen sagen. Für Frankreich, wo niemandBachofen kennt - keine seiner Schriften istübersetzt - muß ich Informatorisches in denVordergrund stellen” (GS II, 3, p. 965).Nella sua introduzione, la curatrice riportaquesta lettera, facendo però scomparire deltutto nella sua traduzione dal tedescol’aspetto meramente potenziale di questa oc-casione (es ließe sich): quest’ultima diven-

ta tout court “un’ottima occasione per direbene le cose che ci stanno più a cuore” (p.21 e 33). Ma sono proprio gli “eigenstenDinge” che Benjamin nella lettera dice dinon poter mettere “in den Vordergrund”.Chissà come avrebbe scritto il saggio se adessere messo in primo piano non fosse statol’aspetto necessariamente informativo rivol-to a un pubblico francese.

Elisabeth Galvan

Peter Utz, Tanz auf den Rändern. RobertWalsers ‘Jetztzeitstil’, Frankfurt am Main,Suhrkamp, 1998, pp. 528, s.i.p.

In gran parte degli studi critici walseriani siriporta, quasi a tutela della parzialità dei pro-pri risultati, la ben nota affermazione diMartin Walser secondo la quale l’autoresvizzero “schlägt einem von Mal zu Mal dieInstrumente kaputt, mit denen man ihnerklären will”.La tesi innovativa che Utz convincentementedimostra - Walser non più scrittore zeitfremd,non più poeta dell’idillio ma artista estre-mamente ricettivo nei confronti degli stimoliculturali del suo tempo - indica che lo stru-mentario adottato nel presente libro è di unaproficuità che non può che indurre a nuoveapplicazioni nella Walser-Forschung. Il ti-tolo evanescente e suggestivo del volume èin effetti un concentrato poetico dei concet-ti chiave della trattazione: danza, marginalitàe Jetztzeitstil.Punto di partenza dell’argomentazione diUtz è il riscontro di una singolare caratteri-stica nella forma mentis di Walser, cioè quel-la di soffermarsi sui dettagli e tralasciare,apparentemente, l’essenza. Questa tenden-za viene illustrata esaminando la prosaBelgische Kunstausstellung che si riferiscealla Pietà di Roger van der Weyden: nel te-sto di Walser non c’è traccia della sofferen-za del Cristo, figura che occupa trasversal-mente quasi per intero il dipinto. Piuttosto,

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lo scrittore si concentra sull’orizzonte, suun alberello dai rami sottili che ‘danzano’nell’aria, pur nell’immobilità della piantacui appartengono. L’albero diventa metafo-ra della scrittura walseriana che, rifuggen-do dai centri propulsori della cultura, si poneai margini di movimenti e correnti lettera-rie. Tale collocazione non implica un giudi-zio di valore negativo dell’opera di Walser,tutt’altro: questa marginalità, sottraendosialla forza di gravità che inevitabilmente ri-porta al centro, è il presupposto per lamimetica ‘danza’ walseriana, ossia per quel-la libertà di movimento che consente all’ar-tista di avvicinarsi e di allontanarsi a suopiacimento dalle correnti letterarie dell’epo-ca. A quest’ultima, al contesto culturale deiprimi decenni del Novecento si riferisce laJetztzeit del neologismo walseriano checompare nel titolo del lavoro; si tratta, os-serva Utz, di un termine negli anni Venti alcentro di un acceso dibattito culturale-filo-sofico. Hofmannsthal, come già Nietzschee Schopenhauer, polemizza con lasperimentazione letteraria della Jetztzeit;Heidegger e Benjamin prendono le distan-ze dalla riduzione dell’intera storia del-l’umanità al presente. Il neologismoJetztzeitstil del titolo è una citazione dalRäuber-Roman e non è che uno dei nume-rosi composti walseriani contenenti il ter-mine alla moda, sempre usato dall’autoresvizzero con ironia e con distacco. L’ultimaparola del neologismo, Stil, fa riferimentopreminentemente alla componente sogget-tiva della scrittura walseriana, vale a dire alsuo modo peculiare di porsi rispetto alle ten-denze letterarie del tempo.L’affermazione “Die Muse Walsers ist die‘Jetztzeit’” (p. 18) può certo sorprenderemolti studiosi dell’autore svizzero, da de-cenni abituati a pensare allo scrittore in ter-mini di Außenseiter, Fremdling e simili,come si rileva già dai titoli di numerosi con-tributi critici. Utz è volto a sfatare il mito diWalser scrittore confinato all’isolamentodella propria mansarda d’artista: egli vive-va sì nella “dachstubigte Verlassenheit” (DerSchriftsteller I) dei suoi molteplici indiriz-

zi, tuttavia le sue Stuben disponevano di fi-nestre aperte sul mondo che gli consentivanodi percepire i molteplici impulsi storico-cul-turali dell’epoca. La monografia mostra cheWalser fa propri tali impulsi (a questo mo-mento si riferisce Jetztzeit) rielaborandoli inmaniera oltremodo soggettiva (Stil) al puntoche risulta arduo individuare nella ironica,divertita, arabescata e talvolta oscura super-ficie dei suoi testi ciò che egli effettivamentedeve al proprio tempo.Lontano dalla concezione secondo la qualel’opera d’arte è frutto di divinus furor, diirrazionalistica ispirazione, Utz ricostruisceacribicamente i fili sottili che, sia nel momen-to della creazione del testo che in quello del-la sua collocazione in riviste, legano Walserai ‘discorsi’ del suo tempo, vale a dire ai temicentrali del contesto socioculturale dell’epo-ca. I risultati di questa operazione apparen-temente semplice e in realtà laboriosissimasono talvolta sbalorditivi.Sottratti all’inevitabile asetticità dell’operaomnia e restituiti al loro contesto naturale, itesti walseriani palesano la loro portata sov-versiva.Ad esempio, chi avrebbe mai pensato che laprosa Nervös fosse così strettamente connessaall’esperienza della guerra? Il testo è pubbli-cato nell’aprile 1916 nella “Neue ZürcherZeitung” che contiene in questo periodo no-tizie circa l’andamento delle azioni bellichesui diversi fronti. A descrivere la situazionevengono usati molto frequentemente verbicome “durchhalten”, “standhalten” e sinoni-mi. Anche nella neutrale Svizzera l’atmosfe-ra è pesante; come antidoto alla latente ten-denza depressiva numerosi annunci commer-ciali suggeriscono al lettore di soggiornarenegli istituti di cura di cui le Alpi elvetichepullulano, o anche di assumere ricostituentiutili in particolare nel caso di Nervosität (pa-rola allora alla moda alla quale oggi si è so-stituita Streß). Il linguaggio pubblicitario diquesti farmaci viene da Walser quasi plagia-to. “‘Ich bin nervös’ ist heutzutage dieallgemeine Klage. [...] Durch den Gebrauchvon Ferromanganin fühlen sich Nervöse,Erschöpfte, [...] gekräftigt und frisch belebt”,

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si legge in un annuncio commerciale; que-sto l’esordio della prosa walseriana Nervös:“Ich bin schon ein bißchen zermürbt,zerstochen”. Si ha la sensazione che lo scrit-tore voglia proporre una sua soluzione perla malattia epocale che tutti vessa e che egliillustra ironicamente con impliciti riferi-menti alle teorie allora in voga di Mach,Simmel, Mantegazza, Freud, Adler ecc. Nonè però così: le aspettative del lettore, influen-zato dal contesto del giornale, vengono de-luse. Walser dice di avere i nervi a postoproprio perché non si preoccupa dei proprinervi; prova ne è lo stesso testo Nervös, ri-sultato del supposto stato ansioso di un sog-getto in grado di trasformare la propria ‘pa-tologia’ in creatività letteraria. Nervös, pa-rola della Jetztzeit, viene assunta da Walsersolo per stravolgerne il significato origina-rio. In tal senso questo testo si può conside-rare “ein exemplarisches Beispielliterarischer Diskurskritik durch literarischeMimesis am Diskurs” (p. 74).La contestualizzazione dell’opera, vale adire la precisa ricostruzione delle costella-zioni tematiche all’interno delle quali divolta in volta i singoli testi walseriani van-no collocati, getta una luce nuova sulla pro-duzione dell’autore, o almeno sui testi pre-si in esame: Walser si rivela insospettatoenfant terrible anche negli ambiti che piùche mai hanno nutrito la sua fama di scrit-tore dell’idillio. Da sempre egli è noto comepoeta della natura; leggendo la sua operacompleta difficilmente ci si può sottrarre alfascino di descrizioni come quelle, ad esem-pio, della raccolta Seeland. Utz mostra comela scrittura walseriana in realtà tenda a scal-zare stereotipi paesaggistici ed ideologiciancora oggi assunti a stilemi della Confe-derazione Elvetica. E’ questo il caso delleAlpi, che tanta parte hanno nell’opera diRobert Walser e del fratello pittore Karl.Nella prosa Leben eines Malers lo scritto-re, ispirandosi al quadro di Karl Aussichtauf die Alpen, menziona appena il profilodei monti che appaiono sullo sfondo,enfatizzando piuttosto la figura del Faulpelz- evidente allusione eichendorffiana - che

riposa nella radura in primo piano. Come ènoto, in particolare a partire da Haller le Alpivengono considerate rigeneranti rispetto ailuoghi posti più in basso, vale a dire alle cit-tà. Ben vedeva Goethe quando affermavache il poema halleriano Die Alpen costitui-va per la Svizzera “l’inizio di una poesianazionale”. Da allora, contrapporre laterapeutica altitudine e verticalità della ca-tena montuosa alla piatta orizzontalità dellecittà, insalubri luoghi di perdizione e di cor-ruzione, è ormai diventato un topos. LaHeimatliteratur dell’inizio del secolo pul-lula di Alpenromane che postulano un homoalpinus (negli anni Trenta strumentalizzatorazzisticamente) come prototipo del verosvizzero. E’ tenendo conto di tali fondamen-tali dati storico-culturali (nonché di diversialtri che non possono, ovviamente, esserequi illustrati) che l’apparentemente innocuadescrizione walseriana acquista vis polemi-ca e carica erosiva. All’attivismo del Kraft-mensch protagonista dell’AlpenromanWalser contrappone nella sua letteratura,servendosi del perdigiorno sognante ignarodella maestosa vista alpina di cui potrebbegodere, l’esaltazione dell’interiorità e dellafantasia, ad indicare la sovranità della pro-pria arte rispetto alle tendenze e alle modedel momento. L’indolenza del personaggio,confinato in una radura circoscritta da abe-ti, non sta certo a significare disprezzo perla natura che lo circonda, ma, metafori-camente, totale estraneità alle raffigurazionialpine ormai parte dell’immaginario collet-tivo; si potrebbe aggiungere che a questeraffigurazioni Walser allude nella superfi-cie linguistico-stilistica - e qui si mostra lasua monelleria - per contrarium, ossia fa-cendo uso di espressioni (“träumender,faulenzender Monsieur Faulpelz”, “trägerKerl”) provenienti da un campo semanticoche si colloca al polo opposto rispetto agliideali di forza, vigore, laboriosità ed effi-cienza impersonati dal suddetto ‘uomo al-pino’. Lo stesso appellativo francofonoMonsieur, che peraltro evoca una civiltà diaristocratici agi, contrasta ironicamente conla connotazione fortemente nazionalistica

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dei protagonisti dell’Alpenroman.La verticalità, in senso proprio e metafori-co, è una dimensione che attira l’interessedi Walser: le Alpi colpiscono l’autore comecatena montuosa e come ‘pilastri’ della cul-tura dell’epoca. Tra questi, speciale men-zione meritano Nietzsche, la figura dellaJetztzeit, e Heinrich von Kleist, o meglio idibattiti in merito alle opere e al pensierodelle due figure. Walser, infatti, non si oc-cupa direttamente dei due scrittori, bensìdella loro ricezione nel contesto degli inizidel secolo; di particolare rilievo appare ilconfronto con Kleist, con il quale egli ap-pare a tratti identificarsi. L’autore svizzerosi sofferma sia sulla problematicità del lin-guaggio teatrale kleistiano sia sulle presta-zioni degli attori che impersonano i diversiruoli. Talvolta egli trascende la realtà tea-trale, alludendo con i suoi commenti a epi-sodi storici in parte trasfigurati dalla suaimmaginazione. E’ quanto si osserva inPorträtskizze (1907), di cui Utz scopre unatriplice, sorprendente attualità: il testo, ol-tre a indurre a riflettere in merito allarappresentabilità di Kleist e a motteggiarela recitazione dell’attore protagonista, co-stituisce una satira addirittura dell’impera-tore Guglielmo II, il quale diventa anch’egli‘interprete’ kleistiano quando, durante undiscorso tenuto a Berlino nel febbraio del1907, cita alcuni passi del Prinz Friedrichvon Homburg per illustrare la situazionepolitica prussiana. Nel 1911, in occasionedel centenario per la morte di Kleist, men-tre molti letterati si mobilitano per ricorda-re lo scrittore, Walser preferisce tacere.Quando, all’inizio degli anni Venti,l’ establishment culturale prussiano decidedi servirsi del teatro di Kleist (in particola-re della Hermannschlacht) come punto diforza della politica nazionalisticaantifrancese, Walser scrive la prosa Kleistin Paris - recentemente scoperta da Utz -nella quale egli provocatoriamente traspo-ne l’autore tedesco proprio nella capitaledello stato nemico.Il Walser altrove stigmatizzato comeFremdling diventa qui quasi un sociologo

della letteratura, sensibilissimo alle variazioninel paradigma ricettivo degli autori più si-gnificativi, variazioni alle quali reagisce controvate a dir poco estrose che evidenziano unsenso dell’umorismo di stampo jeanpauliano.Tra le molte tematiche, che non possono es-sere qui delineate, approfondite negli undicicapitoli della trattazione di particolare evi-denza è il concetto di Ohralität, destinatosenza dubbio ad affermarsi nella criticawalseriana. Osserva Utz che la Geschwätzig-keit rilevata da Benjamin nei testi dell’autoresvizzero presuppone un orecchio particolar-mente attento alle molteplici voci del propriotempo; di qui il neologismo ‘Ohralität’, peril quale si potrebbe forse proporre in italiano‘sonoralità’.La contestualizzazione operata implica unaconoscenza capillare delle manifestazioni sto-rico-culturali del tempo di Walser; Utz dàprova di rara erudizione nel seguire, di voltain volta, il paradigma di problematiche al-l’epoca attuali e di cui spesso oggi non si èpiù coscienti. Il metodo da lui adottato ricor-da talvolta il Zirkel im Verstehen dellastilistica spitzeriana, qualche decennio famessa al bando, ora semplicemente obliata.Il procedimanto usato parte dal micro e adesso torna dopo aver esaminato il macro: ildettaglio testuale rimanda a problematiche delcontesto esterno, che vengono verificate tor-nando sull’evidenza dell’opera. Nella mono-grafia si registra certo un sensibile spostamen-to d’accento a favore del contesto, la cui illu-strazione si rivela imprescindibile per mostra-re la valenza innovativa della scritturawalseriana. Conformemente a tale sposta-mento d’accento a favore del dato storico,sempre delineato con grande dovizia di par-ticolari, la letteratura critica su Walser in qual-che caso è limitata ad una scelta dei contri-buti più significativi (ad esempio per quantoriguarda la sinestesia, Nietzsche, la fiaba). Perquanto concerne la scrittura ‘labirintica’, Utzpreferisce servirsi di recenti studi del feno-meno senza far riferimento alle canonichetrattazioni di Curtius, Hocke e Hauser. Lamonografia molto deve a testi che Utz ha re-centemente scoperto (e che verranno pubbli-

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cati in un volume dal titolo Feuer), nonchéai voll. 5 e 6 dei microgrammi (in uscitapresso Suhrkamp nel 1999), materiale que-sto che l’autore ha avuto modo di consulta-re presso il Walser-Archiv di Zurigo. Lacontestualizzazione qui operata - pionie-ristici in tale direzione possono considerar-si alcuni contributi dei decifratori deimicrogrammi Echte e Morlang, nonché diGreven e di Gabrisch - non ha la pretesa diesaurire l’inafferrabilità walseriana; lo stu-dio è piuttosto da considerarsi una costella-zione di analisi esemplari che invitano adulteriori applicazioni (in riferimento ad al-tri testi e ad altre tematiche) del metodo usa-to. Per Utz è proprio questo il fascino diWalser: “daß er einen nie losläßt, weil manihn nie zu fassen bekommt” (p. 22).

Anna Fattori

Uta Treder (curatore), Transizioni. Saggidi letteratura tedesca del Novecento(Lasker-Schüler, Aichinger, Bachmann,Haushofer, Mayröcker), Firenze, Le Lette-re, 1997, pp. 308, £. 32.000

Tracciare una “cartografia letteraria al fem-minile del Novecento tedesco e austriaco”è l’obiettivo che si propone il volumecollettaneo a cura di Uta Treder dedicato aisettant’anni di Giuseppe Bevilacqua. Loscopo non è qui quello di ritrovare un co-mune sostrato di temi in alcune scritturefemminili, ma di seguire delle “transizio-ni”, dei passaggi, che riguardano sia l’espe-rienza vitale delle scrittrici in questione chei testi oggetto dell’analisi. Tra le sollecita-zioni che offre questo percorso di lettura latransizione è dunque ciò che unisce la va-rietà dei saggi, andando al di là di una con-cezione normativa della differenza, cheuniforma individualità e storie, per unarivisitazione critica del significante donnache ricostruisca l’identità retrospettiva at-traverso le narrazioni e l’indicazionecartografica degli attraversamenti in un ter-

ritorio complesso come quello della sogget-tività femminile.Come è noto, in questi anni le riflessioni sul‘femminile’ e sulla ‘scrittura femminile’ inparticolare, che si rifanno soprattutto a teo-rie strutturaliste e poststrutturaliste, hannomesso abbondantemente in discussione ilconcetto di identità femminile come qual-cosa di originariamente dato o di unitario,sottolineandone invece la forma e l’effettodi ruolo sociale e culturale, definito all’in-terno della struttura stessa del linguaggio.Rispetto ad una Frauenbildforschung, in-tenta a ricercare stereotipi e destinata aisterilirsi in contrapposizioni ripetitive,un’analisi attenta alla pluralità dei livelli lin-guistici, delle strategie retoriche e dei ruolifemminili e maschili rintracciabili in untesto al di là delle stesse intenzioni autoriali,sembra oggi decisa a indagare quei livellisemiotici in cui sono ancora leggibili le trac-ce di categorie e dimensioni fondamentalidella nostra esperienza.I saggi sulle scrittrici di lingua tedesca delNovecento si lasciano ormai alle spalle lediscussioni teoriche per seguire “dasAndere” della scrittura femminile nel tran-sitare delle figure e delle storie in cui emer-ge una prodigiosa arte della variazione. Nel-l’intento di attraversare e restituire la dutti-lità mossa di temi, forme e motivi di vita edi scrittura si corre però il rischio di unametaforizzazione del discorso che riproponeun’irrisolta tensione tra la necessità e l’ina-deguatezza di una misura della scrittura e ladismisura della condizione ineffabile, parteforse di quella contraddizione che lega pa-role e silenzio nei testi dei soggetti di gene-re femminile. Così di Else Lasker-SchülerUta Treder segue le immagini cangiantidella scrittura poetica, di cui rievoca il tem-po e lo spazio, il presente e il passato, labellezza e la vanità, creando tra le stesse unarelazione di circolarità. Nella letteratura,come unico luogo che mostra i segni e faparlare le voci di una soggettività nomade,non riducibile e non omologabile, viene in-dividuata una via di scampo da un’identitàfissa verso un’identità in divenire, che però

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alla fine “pare consegnata ad una diasporaeterna, così come diasporica fu l’identità diElse Lasker Schüler a Gerusalemme.” Inquesto modo anche per Ingeborg Bachmann,la cui collocazione geografica è quella del-la Grenzgängerin, come ricorda MariaChiara Mocali, la lingua diventa “il luogodi chi non ha luogo”, dimora comunque pre-caria, in cui l’utopia di una parola che sistacca dal linguaggio del codice, ma allostesso tempo è profondamente consapevoledel legame tra poesia e situazione storica,si affida ad una voce che faccia affiorare isegni e i desideri che sono stati dimenticati.Un “radicale atto di resistenza”, rileva UtaTreder, accomuna la Bachmann a IlseAichinger, la cui “lingua aggrottata”, comela definisce Carla Becagli nel saggio dedi-cato alla scrittrice austriaca di origine ebrai-ca, fa a meno degli abbellimenti e anzi usadeliberatamente “parole brutte”, tesa versouna vigile poetica del silenzio.In questa cartografia dei ‘passaggi’ femmi-nili nel Novecento di lingua tedesca, con unanetta predominanza dell’area austriaca, tro-vano posto anche Marlen Haushofer, “unacasalinga dai sogni interessanti” (RitaSvandrlik), che mette in scena complicatitentativi di evasione in un mondo separatoche si presenta come uno spazio disimbolizzazione in cui però più che ritro-varsi ci si può finalmente perdere, eFriederike Mayröcker con il suo gioco me-tamorfico delle identità. Come un “impre-vedibile gioco di specchi e rispecchiamenti”ci viene presentata da Sara Barni l’opera diMayröcker che, passata attraverso un radi-cale scetticismo linguistico, approda ad unasorta di magia combinatoria degli stessi se-gni linguistici. E laddove la sintassi diventa“una sfinge”, lasciando che le catene asso-ciative seguano la logica del sogno e del-l’enigma, lo “schreibende Mensch” rifiutaemblematicamente le etichette del femmi-nile ribadendo la “Unbekümmertheit desBewusstseins des eigenen Geschlechts”.Il filo che unisce le analisi proposte in que-sto volume è, si può dire, quello della sco-perta di un’avventura della soggettività

come costruzione provvisoria fondata suun’identità che, avendo rinunciato alle suenozioni ipostatizzate ed essenzialistiche, di-venta alla fine gesto di produzione discorsiva.Il ripensamento dell’unicità del proprio esi-stere, la moltiplicazione e la replica del séfino al rischio della sua perdita, che si espri-mono attraverso modalità diverse di produ-zione segnica, rendendo plurima l’identità,creano e legittimano l’ambivalenza. L’inten-to iconoclasta, disperato o giocoso, perseguitocon differenti strategie nei testi analizzati,consiste allora nel mettere in campo una fa-coltà di essere che può presentarsi come dop-pia, ma anche come multipla o intenzional-mente unica. La funzione autoriale non vaqui ricercata né dalla parte dell’autrice realené da quella della locutrice fittizia, ma si re-alizza e vive nella divisione e nella distanza.Così il linguaggio ‘femminile’, abbandona-to l’ambito categoriale, sembra trovare unasua sfuggente esistenza testuale nello spa-zio della contingenza, negli innumerevoli sin-golari femminili, in quelle zone più oscurein cui la pulsione a significare è difficilmen-te descrivibile e le correlazioni del sistemasemantico, che governano il senso profondoe ‘indicibile’, coinvolgono livelli percettivi esensibili legati alla sfera del corporeo comeelemento non più secondario ma determinan-te della comunicazione. Un linguaggio diver-so, “eine andere Sprache”, nel senso indica-to da Ingeborg Bachmann, “die noch nieregiert hat, die aber unsere Ahnung regiertund wir nachahmen”.

Lucia Perrone Capano

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Giuseppe Dolei, Tra malinconia e utopia.La letteratura tedesca degli anni Settanta,Napoli, Guerini e Associati, 1995, pp. 102,£. 25.000

Katrin Schäfer, “Die andere Seite”. ErichFrieds Prosawerk. Motive und Motivationenseines Schreibens, Wien, Edition Praesens,1998, pp. 421, ÖS 412.

La più recente letteratura tedesca presentauna fisionomia assai varia e complessa, dif-ficilmente riconducibile ad unità (come ac-cade per ogni fenomeno artistico valutatodai contemporanei), eterogenea nelle suediverse tendenze e finalità, sradicata da ciòche Giuseppe Dolei definisce “un contestostoricamente significativo”. L’indagine chelo studioso compie dei modelli e delle mo-dalità della letteratura degli anni Settantadiviene strumento prezioso di comprensio-ne dei più recenti fenomeni letterari, nonpropriamente significativi se deconte-stualizzati rispetto al periodo dal quale trag-gono origine.Categorie ormai familiari al lettore comeraccoglitori adeguati a circoscrivere tenden-ze e inclinazioni dei prodotti letterari deglianni Ottanta e oltre, quali “nuova interiori-tà” o “pessimismo storico”, vengono ana-lizzate dall’autore a partire da una prospet-tiva che, fruttuosamente, le ‘circostanzia’nell’indagare le loro origini, le loro primemanifestazioni nel decennio precedente, riu-scendo così a coglierne il significato in tut-to il suo spessore. Da questo approccio ri-sulta inoltre un’appassionante disamina del-la ‘svolta’ avvenuta negli anni Settanta ri-spetto alla letteratura impegnata, ideolo-gicamente ancorata al sottosuolo politico diquegli anni, dei quali fornisce, a sua volta,testimonianze di valore storico, oltre chepolitico e letterario.Lo studio di Dolei procede quindi ben oltrequell’intento che sembrava assumere nellepagine introduttive, lì dove l’autore scrivedi basarsi su un “processo di ricognizionelimitato ad alcuni esempi significativi” (p.

10); se anche la scelta degli autori e delleopere analizzate nel corso dei quattro capi-toli in cui si articola lo scritto, non può es-sere, per ovvie ragioni, esaustiva, essa met-te a fuoco i punti nevralgici, i cardini intor-no a cui ruota il movimento letterario diquegli anni, le sue tendenze e modalità: dallediverse forme di letteratura documentaria diun Enzensberger e Böll, “punto d’arrivoideale per la letteratura degli anni Settanta,impegnata appunto ad abbattere il muro diomertà o di falsità sapientemente innalzatodal potere politico e dai suoi mezzi di infor-mazione” (p. 35), alle tribolazioni dello sfor-zo di liberarsi “dalle pastoie della realtàsocialista” (p. 36) di certi autori della Re-pubblica Democratica, il cui caso esempla-re è rappresentato da Christa Wolf, alle for-me del “culto di un soggettivismo esaspera-to” (p. 53), fino alle diverse varianti di “scrit-tura femminile” (dalla Struck alla Plessen)e a quell’episodio, rappresentato dallaÄsthetik des Widerstands di Peter Weiss, di“passaggio elettivo dalla borghesia alla clas-se operaia” (p. 87).Una trasformazione epocale, forse fra le piùradicali della letteratura moderna, viene in-dagata nelle sue profonde ragioni, analizza-ta nei suoi singoli aspetti e ricostruita conquella chiarezza e trasparenza d’espressio-ne proprie dell’autore: lo studio s’inoltra nel-l’analisi, sempre puntuale e vivace, di quelleopere che, riconducibili ai parametri sceltinei quattro capitoli (La crisi del modello ide-ologico, La rivolta dei figli, La scrittura fem-minile, “La ferita” Germania e le ferited’Europa), consentono di cogliere le varietappe di un travagliato percorso che, dalladissoluzione dei presupposti della letteraturadella Studentenbewegung, avrebbero con-dotto, attraverso la revisione e l’esaurimen-to dei modelli ideologici, ad una fuga dalsociale nel mondo del privato. Dopo unexcursus fra le pagine degli autori indicaticome appartenenti alla “generazione matu-ra” (p. 11) interprete della svolta storica, conl’appropriata scelta degli esempi più noti diGrass, Enzensberger e Böll, Dolei indagale modalità di manifestazione della crisi in

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rapporto agli intenti estetici e agli esiti for-mali, denunciando debolezze formali, comenel caso della Gallistl’sche Krankheit diWalser, opera interessante più come espres-sione della “sintomatologia della crisi e dellesue motivazioni” (p. 26) che non per i suoirisultati letterari (“decisamente poco felici”),e circoscrivendo gli esiti migliori scaturentidalla crisi indagata, come i racconti di BothoStrauß, felicemente contrapposti all’operanata dalla penna di colui che Dolei, con fa-ceta ironia, definisce il “campione esempla-re della tenerezza o della tenera sensibilità”(p. 53), cioè Peter Handke. L’autore mette afuoco, additando diverse forme di banalitàe varie debolezze dell’opera handkiana, ipeggiori esiti di certa letteratura ripiegatain un malinteso culto dell’interiorità che,privo di altri strumenti riflessivi e di quel-l’ampio respiro letterario di un autore comeUwe Johnson per esempio, rischia di dive-nire mero e vano narcisismo verbale, nau-fragio della carica utopica in una passiva erassegnata malinconia, la forma più rischio-sa di quell’inquietante fenomeno che l’au-tore indaga come sintomatico della nostraletteratura più recente e che egli definiscedi “autentica estraneità” dello scrittore, di“perdita della memoria storica”.

Per l’austriaco di origine ebraica ErichFried, la “coscienza illuministica della Ger-mania” dal dopoguerra alla fine degli anniOttanta, l’approdo all’utopia, nella sua ulti-ma produzione, è il risultato non della ri-nuncia all’impegno politico o della crisidelle ideologie e di un ripiegamento malin-conico dell’io su e stesso, ma l’esito ulti-mo di uno strenuo e costante impegno civi-le, passato incolume attraverso le varie cri-si, giacché sempre avulso da ogni fanatismoed estremismo di sorta e sempre animatoda un profondo sentimento umanitario, dirispetto e solidarietà.Alla produzione in prosa di Erich Fried,argomento negletto dalla critica, è dedicatoil volume della giovane germanista KatrinSchäfer, un’ambiziosa analisi del laborato-

rio narrativo del poeta, “cabarettista di clas-se” (Sant’Elia) e vigoroso narratore. GiàWendelin Schmidt-Dengler (1986) aveva in-dicato categorie interpretative fondamentaliper la comprensione dell’opera in prosa del-l’autore, suggerendo l’opportunità di uno stu-dio più approfondito. Il lavoro della Schäfersi muove nella traccia segnata da Schmidt-Dengler soprattutto per quel che riguarda larilettura critica del patrimonio narrativo ope-rata dall’autore e le strategie del gioco lin-guistico, i suoi “seri giochi di parole” (espe-diente espressivo del soldato nel romanzo EinSoldat und ein Mädchen) che, muovendodall’interno dei cliché della comunicazioneverbale, giungono ai confini della stessa, làdove diviene palese l’avvenuta frantumazio-ne di quella gabbia di regole con le quali loscrittore sembrava giocare distrattamente.Lo studio tenta di abbracciare in manieraesaustiva le innumerevoli questioni inerential corpus della narrativa friediana, dal roman-zo Ein Soldat und ein Mädchen del 1960 aivolumi Kinder und Narren (1965), Fast allesMögliche (1975), Das Unmaß aller Dinge(1982), Angst und Trost (1983), in cui sonopresenti anche delle liriche, Mitunter sogarLachen (1986), ai diversi testi apparsi su ri-viste: il rapporto fra elementi autobiograficie finzione letteraria, la matrice giudaico-cri-stiana di temi, di motivi e di strutture menta-li, la tradizione talmudica come retroterradella sua originalissima scrittura, i rapporticon i suoi Spiegelbilder Kafka e Borges, lemodalità della scrittura che l’autrice defini-sce, in maniera piuttosto azzardata e per cer-ti aspetti immotivata, “exstatisch”.Se l’aspetto più valido dello studio consistenel recupero degli inediti, nella loro valuta-zione come testi autonomi e come strumentidi lettura dei testi noti, il limite è rappresen-tato da una scrittura, seppur piana e chiara, atratti ripetitiva e prolissa, che insiste eccessi-vamente nel gioco di rimandi alla “andereSeite” dalla quale, Fried scrive, incominciala vita. Dal motivo dell’alterità prende lemosse il lavoro e a tale motivo, contenitoredi tanti altri, rimanda continuamente l’autri-ce, facendone, con rischio di poca chiarezza,

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il punto d’incontro dei temi più disparati: illuogo dell’utopia e lo spazio dell’amore, undiverso modo di vedere la realtà, una di-versa prassi di scrittura, ciò che è prima eciò che è oltre la parola, ciò che è nellapagina e ciò che è nell’umanità dello scrit-tore, la sua più intima e ‘altra’ identità.I pregi del lavoro sono da ricercare altrove,nell’analisi del romanzo operata alla lucedei testi scartati, ritrovati nel lascito, e nel-l’indagine del romanzo giovanile inedito,Der Kulturstaat, scritto dal sedicenne entu-siasta dell’arte come strumento di trasfor-mazione del mondo: esso contiene in nucela carica utopica che attraversa l’intera pro-duzione friediana e si cristallizza come nodopoetico cruciale nella lirica dell’ultimo pe-riodo.

Grazia Pulvirenti

SCHEDE

Skeireins. Commento al Vangelo di Giovan-ni, Napoli, Istituto Universitario Orientale,1997, a cura di Raffaella Del Pezzo, pp. 166,£. 30.000Vittoria Dolcetti Corazza, La Bibbia goticae i bahuvrihi, Alessandria, Edizioni dell’Or-so, 1997, pp. 148, £. 30.000

Gli studi gotici hanno in Italia tradizionenobile e antica e tuttora, grazie anche al-l’impulso dato dal lavoro di PiergiuseppeScardigli, occupano un posto di primo pia-no tra gli interessi della Filologia germanicaitaliana.I due volumi recentemente pubblicati rap-presentano contributi assai diversi, maugualmente stimolanti, allo studio della lin-gua e della documentazione dei Goti che,proprio in Italia, realizzarono uno dei primiesperimenti di costruzione politica e cultu-rale latino-germanica. Con il suo libro, Raf-faella Del Pezzo fornisce una nuova edizio-ne, con traduzione a fronte, dei frammenti

gotici del commento al Vangelo di Giovan-ni noto con il titolo di Skeireins attribuitoglidal primo editore dell’opera, il tedesco H.F. Massmann. Il testo, di cui ci rimangonosolo otto fogli appartenenti a un palinsestoin origine sicuramente assai più ampio, è dinotevole interesse: le citazioni scritturalipermettono un confronto con il più consi-stente e significativo monumento linguisti-co gotico pervenutoci, la Bibbia tradotta dalvescovo Wulfila nel quarto secolo. La pre-senza di un simile documento, più tardo ri-spetto alla traduzione wulfiliana, permetteinoltre di affrontare il problema dell’evolu-zione della lingua gotica, perlomeno nellasua funzione di lingua scritta di cultura.Anche dal punto di vista della storia e dellastoria delle idee, del resto, la Skeireins rap-presenta un documento di grande interesse.Pur nello stato frammentario in cui oggi lopossediamo, infatti, troviamo qui riflessio-ni teologiche che permettono di avvicinarsial pensiero dell’arianesimo, interpretazionedell’insegnamento cristiano cui i Goti simantennero a lungo fedeli.Il volume si apre con una introduzione ge-nerale in cui si dà conto della tradizione ma-noscritta dell’opera, delle fonti individuatee della sua importanza nel quadro degli stu-di sul mondo gotico. Seguono quindi l’edi-zione del testo con traduzione a fronte - par-ticolarmente utile in vista di un possibile usodidattico -, un’ampia sezione di note testuali(pp. 41-109), glossario e bibliografia e infi-ne, in appendice, il testo negli originali ca-ratteri gotici.

La Bibbia gotica e i bahuvrihi presenta lostudio di una particolare classe di compostinominali - indicati appunto con il terminesanscrito bahuvrihi - e riprende, completan-dolo, un lavoro iniziato da Vittoria DolcettiCorazza con l’articolo Bahuvrihi gotici,pubblicato sul numero 10 (1988-89) dellarivista “Romanobarbarica”. Il bahuvrihi èun composto bimembre che si riferisce a unapersona o cosa caratterizzata dal composto,e svolge dunque una funzione aggettivale(valga ad esempio il bahuvrihi tedesco mo-

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derno Dickkopf, citato da Dolcetti Corazzaall’inizio dell’introduzione al suo studio alfine di precisare l’argomento del libro).Il volume censisce, raccoglie e discute tuttii composti nominali di questo tipo presentinel più ampio e significativo monumentolinguistico e letterario della tradizione goti-ca, la traduzione wulfiliana della Bibbia,ordinandoli a seconda della tipologia dellastruttura binomica, a seconda cioè che ilcomposto sia formato da sostantivo + so-stantivo, aggettivo + sostantivo, pronome +sostantivo, avverbio + sostantivo, preposi-zione o prefisso + sostantivo. A questaelencazione ragionata dei termini (cap. 3)fa quindi seguito una discussione dei mec-canismi di formazione dei composti (cap.4) e un più ampio inquadramento deibahuvrihi all’interno del lessico gotico (cap.5). Un’ampia bibliografia completa questointeressante contributo allo studio della lin-guistica gotica.

Fulvio Ferrari

Peter Szondi, Le “Elegie Duinesi” di Rilke,a cura di Elena Agazzi, seguito da RainerMaria Rilke, Elegie Duinesi, Milano, SE,1997, pp. 203, L. 30.000

Quando, nel 1955, Peter Szondi, al suo esor-dio quale docente universitario, tenne il suoprimo corso alla Volkshochschule di Zurigosulle Elegie Duinesi di Rilke, avevaventisette anni e stava completando (o for-se ormai aveva esaurito) la sua emancipa-zione critica dal suo maestro Emil Staiger,il grande protagonista della stagionemetodologica della ‘werkimmanenteInterpretation’, per riconoscersi nelle suenuove guide, la triade Lukács-Benjamin-Adorno. Gli appunti del corso, che in soledieci ore poté toccare del ciclo duinese solole prime due elegie, la ottava e la nona, sonostati ritrovati solo parzialmente tra le cartepostume. Mancanti risultano la trattazionedella prima e singoli passi delle successive.

Ma nel complesso quello che possediamopermette comunque un giudizio sull’impre-sa del giovane professore e contiene alcunispunti meritevoli di grande attenzione.Citerò solo due passi: la interpretazione di“Spiegel” in II, 16 profilata sull’uso che del-la stessa immagine fa Tommaso d’Aquino,da cui risulta la radicale distanza della medi-tazione rilkiana da ogni dimensione metafi-sica (p. 31), e la lettura grammaticalmenteinnovativa di un passo (II, 37) con il riferi-mento del soggetto “sie” non agli amanti(soggetto della frase) ma agli angeli (sogget-to delle frasi precedenti e in genere dell’inte-ro passaggio): ipotesi forse non difendibiletestualmente fino in fondo, ma tale da nonpoter essere lasciata facilmente cadere, sì cheessa introduce una vibrazione di polisemiaquanto mai cònsona al dettato rilkiano (p. 40seg.). Sono esempi che mostrano la acutezzadel critico e la sua indipendenza di giudizioanche di fronte ad una letteratura seconda-ria, come quella rilkiana, ormai cresciuta ol-tre ogni limite. Sullo sfondo dell’interpreta-zione szondiana traspare una certa presenzadel pensiero di Rudolf Kassner, il filosofo checonobbe il poeta fin dal 1907 (e non dal 1912,come affermato nelle note) e che su di luiscrisse vari saggi. Curiosamente Szondi hacomunque rispetto a Kassner qualche sinte-ticissimo accenno, ma non affronta esplici-tamente il tema dei rapporti tra il pensierodel filosofo e quello (forse in realtà ad essoirriducibile) del poeta.Commenti dunque, questi, di sicura vaglia,anche se andrà subito detto che essi colpi-scono in particolare quali documenti di uninsegnamento già di alto livello (non si puòmai dimenticare che si tratta di vere lezioniuniversitarie, con le inevitabili concessioni -ma poche - ad esigenze di didattica chiarez-za), impartito da un docente che non è esage-rato definire geniale, ma che ancora non hamaturato tutta la sua originalità. Così il letto-re, di fronte a queste pagine, si trova comesospeso tra l’ammirazione per la qualità dellavoro ermeneutico (in particolare intornoall’ottava e alla nona), il rimpianto perl’incompiutezza del testo (non solo per la

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perdita della prima elegia, ma per non averSzondi commentato tutto il ciclo duinese)e, come dire?, una certa sensazione di ap-partenenza di questo lavoro al passato. Lafase infatti esplicativa del difficile testorilkiano (riportato in appendice nell’origi-nale e, a fronte, nella traduzione di AnnaLucia Giavotto Künkler) appare oggi so-stanzialmente conclusa, in particolare dopoil monumentale lavoro, ormai canonico, diJakob Steiner (Rilkes Duineser Elegien,Bern/München, 1962), che Szondi natural-mente non può ancora conoscere (ma an-che Steiner ignorerà l’inedito Szondi). Lelezioni di Szondi appaiono quindi, ad unalettura odierna, più una geniale testimonian-za di una fase definita della ricerca intornoa Rilke - cui certo è utile tornare, ma sapen-do che ormai da essa non molto di nuovopuò venire - che non un contributo del tuttoattuale. A volerla dire un po’ drasticamente,esse appartengono più alla storia che all’at-tualità della critica rilkiana, anche se pro-prio la loro densità e la cogente penetrazionedella loro analisi (appoggiata naturalmentealla sinossi di altri testi poetici ed epistolaridell’autore) continuano a rappresentare unavera lezione di rigore intellettuale. SeSzondi avesse potuto tornare su questi suoistudi rilkiani in anni a noi più vicini, sicu-ramente avrebbe dato spazio all’impulso aderompere dal cerchio ermeneutico (testo,lettere, sinossi di passi paralleli) ancoratutto inscritto entro l’invidualità dell’auto-re (com’è testimoniato in queste lezioni),anche se naturalmente non possiamo direin che direzione l’avrebbe guidato quell’im-pulso, se ad esempio verso una completastoricizzazione (in parte ancora da percor-rere dalla critica), o verso una più rigorosaautonomizzazione del testo dalla personadell’autore o – perché no? – ancora altrove.

Alberto Destro

Sophus Claussen, Montallegro - Valfart(Valfart, 1896), a cura di Lorenzo Del Zan-na, Firenze, Manent, 1998, pp. 250, £.30.000

Può lasciare perplessi a prima vista il titoloscelto per questa prima versione italiana diuna delle poche prove narrative di SophusClaussen, autore centrale del decadentismodanese, noto da noi finora soltanto per laproduzione lirica: Montallegro per Valfart(“Pellegrinaggio”), ovvero l’inizio del “se-condo tomo” dell’opera, con la lirica in essoinserita (Pellegrinaggio a Mont’Allegro) chesi erge a protagonista assoluta. In realtà, sedi abuso si tratta, è un abuso verso il qualesi è volentieri indulgenti: perché le paginededicate all’esperienza ligure (Mont’Allegroè un piccolo santuario della Madonna sullecolline a circa tre chilometri da Rapallo)sono non solo centrali nell’organizzazionedell’opera, ma anche il perno assoluto diquesta edizione che Lorenzo Del Zanna (au-tore oltretutto di una traduzione esemplare,dal gusto tutto toscano di una lingua “anti-ca”) ha curato e corredato di un apparatounico oltreché prezioso. Claussen venne inItalia all’inizio del 1894 e visitò, secondocopione, Firenze, Siena, Roma, Napoli. Mafu la Liguria, uno sfondo insolito per le rot-te del Grand Tour, a diventare la terra dellesue visioni e della sua trasfigurazione: laterra della sua realtà italiana. In LiguriaClaussen incontrò quella Clara Robinsonne(o Probinsonne, o Robinson, o Robichon)sulla quale s’impernia tutta la seconda par-te del romanzo e alla quale Del Zanna dedi-ca tutti i suoi sforzi di studioso e tutte le sueenergie e la sua passione di “cercatore diverità”. Perché Clara è figura quanto maimisteriosa e sfuggente: forse francese, for-se piemontese, sedicente “nipote di un car-dinale inglese”, sposa di un tal Carlo, un“tenentino italiano”, col quale sarebbe fug-gita in Svizzera, madre di due figli morti intenera età, col marito finito in manicomio acausa di folle gelosia, Clara è soprattutto la“farfalla” che illuminò l’estate del 1894 di

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Claussen a Santa Margherita Ligure, e an-che la farfalla che Del Zanna ha cercato in-vano di acchiappare, con un’indagine chesi è protratta per anni attraverso archivi, in-terviste, cimiteri e parrocchie, che si accen-de di tanto in tanto con bagliori in cui sem-bra di intravedere una soluzione, ma che allafine si chiude sul nulla. Non proprio sulnulla, in realtà: oltre a Valfart resta la ricer-ca, di cui l’introduzione a questo volume èun’affascinante resoconto, restano le lette-re di Claussen che la riguardano (quelle alpadre soprattutto, non quelle di lui a lei, chesono andate, forse temporaneamente, per-dute), restano soprattutto le lettere di Clara,scritte (dettate, in realtà, a due diverse col-laboratrici) in un italiano memorabile,sgrammaticato ed espressivo, in cui si deli-nea il profilo di una donna davvero singola-re, mistura di slancio e di finzione, di inge-nuità, di affettazione e di ignoranza.Ecco perché è giustificata, dopotutto, la li-cenza del titolo: proprio perché il volume,con il materiale che contiene (ricco e pre-zioso anche quello iconografico, così comeil corredo di varianti) è molto di più e didiverso rispetto a quanto non rappresente-rebbe la semplice riproposizione del testodi Claussen. Che è in sé opera atipica, nonvero e proprio romanzo, per la mancanza direspiro, di coerenza narrativa, piuttosto se-quenza di bozzetti, di schizzi imperniaticomunque intorno a un centro, ovverol’esperienza italiana dell’autore, che si rav-vivano di tanto in tanto per un’impennata,per una lirica, ma nel complesso tradisconola propria natura irrisolta. Claussen dà ilmeglio di sé come poeta: anche in que-st’opera che appartiene al suo primo perio-do (il romanzo è del 1896) folgorano alcunilampi del suo personalissimo cammino dilirico, qui ancora profondamente intriso disimbolismo: come nella rievocazione ma-gica di Ekbàtana, come nei versi sontuosidi Pompei. Eppure si affaccia qua e là, nel-l’incontro con un’Italia che non è solo ide-alizzata e monumentale, ma fatta di millecose quotidiane, un tono dimesso, da con-trappunto, da chiaroscuro quasi heiniano

(suo “padre”, lo chiama Claussen in una suavecchia lirica, Stamtavle), che anticipa esitisuccessivi della poesia dell’autore danese,proiettato nella sua evoluzione verso risulta-ti di grande modernità. In questo senso, an-che per ciò che Claussen ha rappresentato perle generazioni a lui posteriori (anche per lenuovissime) di poeti danesi, questo testo me-rita senz’altro una considerazione attenta.

Alessandro Fambrini

Hartmut Binder, Praga. Passeggiate lettera-rie nella città d’oro (Prag. LiterarischeSpaziergänge durch die Goldene Stadt, 1992),trad. di Chiara Guidi, Roma, e/o, 1998, pp.272, £. 25.000

È una sorta di guida, questa di HartmutBinder, tra i più noti studiosi tedeschi del-l’opera di Kafka, cui ha dedicato la gran par-te dei propri sforzi, fin dagli esordi con Motivund Gestaltung bei Franz Kafka nel 1966: una“guida letteraria”, come avverte la coperti-na, ma la cui utilizzazione è più quella dapasseggio che da poltrona, e la cui dimensio-ne è più quella orizzontale della descrizionelineare che quella verticale dei richiami as-sociativi e della rievocazione. Organizzato inuna serie di “passeggiate”, secondo il princi-pio assolutamente letterario della flânerie, seiin tutto, il libro di Binder procede conabbrivio diseguale. Il fatto è che Praga è unacittà dove è stata fatta molta letteratura e cheproprio per questo fatto è divenuta letteratu-ra: niente di più facile che i due piani sisovrappongano e che la realtà fattuale diPraga, per il solo fatto di esserci, venga tra-sfigurata automaticamente in stereotipi dimatrice letteraria. Rischio cui non sfuggeneppure quest’opera che da questi stereotipiper l’appunto nasce: essa si propone didecostruire opere letterarie, spogliandole delloro contenuto d’invenzione, e di isolare i loronuclei “cartografici” per riproporli comemappe con le quali ripercorrere i luoghi realidella città, recuperando nella pratica turisti-

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ca anche quella loro matrice originaria del-la specificità letteraria. L’operazione è effi-cace, non a caso, soprattutto con i due per-corsi kafkiani (il primo e il terzo, dedicatirispettivamente a Descrizione di una batta-glia e ai luoghi reali della vita di Kafka; idue capitoli occupano da soli, con le loro115 pagine, quasi la metà dell’intero volu-me), sia per la potenza evocativa del dato dipartenza, sia per la competenza specifica delcritico, mentre meno convincenti appaionoi capitoli dedicati a Meyrink (il secondo), aWerfel (il quarto), e i due conclusivi sullaPraga boema.Gioco facile, in fondo: scoprire i “correlatioggettivi” delle vicende del Processo o diLa condanna, penetrare i nessi in cui le ver-tiginose costruzioni narrative di Kafka siagganciano al reale e al quotidiano, è unasensazione che illumina di una luce più vi-vida le opere che servono da punto di par-tenza - quasi scavando loro una nuova di-mensione insediata a mezzo tra l’immagi-nario e il reale - e al tempo stesso indubbia-mente arricchisce di nuova forza il profilodella città stessa. Il che porta alla domanda,variamente modulata, anche se nel comples-so variamente elusa, sospesa sul fondo deivari volumi che da molti anni, da Ripellinoa Freschi, s’imperniano sulla “magicità” diPraga: ossia se sarebbe possibile lamitizzazione della capitale boema senza ilperno di Kafka; o meglio ancora, se non siaKafka che, a posteriori, conferisce un’unità(una particolare unità ineffabile) alle vociche hanno una comune origine praghese. Se,in altre parole, si dia a Praga un’identità,una fisionomia complessiva che poi, varia-mente scomposta, si applica a ogni suo at-tore, e che non si dà ad esempio a Vienna,Monaco, Berlino, perché è lì che si è avutoil grande fulcro kafkiano, e se il“praghismo”, non meno del “kafkismo”,non sia un suo retaggio.Per quest’ombra che resta sullo sfondo, perl’inevaso “perché” di Praga, il volume puònon soddisfare appieno chi richieda un’ela-borazione più approfondita e meno strumen-tale di ciò che la città ha rappresentato, di

quali forze l’hanno percorsa e animata, e infondo può deludere anche chi cerchi fattipuri e semplici (esemplari in questo sensole “guide letterarie” anglosassoni: dati nudie crudi, chi è nato e vissuto dove, chi ha scrit-to cosa in che luogo, e quando). Ma resta,come piacere possibile, quello della scoper-ta, nei luoghi meticolosamente ripercorsi edescritti, dell’altra, della terza Praga, quel-la che non esiste se non in un libro comequesto e scaturisce dall’incontro tra gli spa-zi dell’immaginario e quelli della realtà, perla quale - per questa sì - il filo svolto daBinder funziona come guida.

Alessandro Fambrini

Artemio Focher, Corso di lettura in linguatedesca. Per studenti di facoltà musicolo-giche, allievi di conservatorio ed appassio-nati di musica, Cremona, Turris Editrice,1998, 2 voll., pp. 230 + pp. 39, £. 44.000

Il libro che ci propone Artemio Focher per itipi della Turris è un prodotto tuttocremonese: confezionato da un germanistamusicofilo, affidato a un piccolo, raffinatoeditore locale, sponsorizzato dal Centro diMusicologia “Walter Stauffer” e adottatocome manuale di tedesco presso la Scuoladi Paleografia e Filologia Musicale dell’Uni-versità di Pavia (sede di Cremona), pressola quale Focher è ricercatore.Quella che potrebbe sembrare una chiusuramunicipalistica è il punto di forza del volu-me, che si propone come una guida origina-le alla comprensione della lingua straniera.Che si tratti di una pubblicazione non con-venzionale lo lascia intendere già il sottoti-tolo che indica come destinatari privilegiatigli “studenti di facoltà musicologiche, al-lievi di conservatorio ed appassionati di mu-sica”. L’autore limita il campo di ricezionea un selezionato sottogruppo di discenti,operazione, questa, che lo porta a descrive-re la lingua straniera con un taglio diverso,

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dedicando tutta la sua attenzione alle esi-genze tecniche di quello specifico fruitore;le 24 unità didattiche studiate da Focherpuntano, infatti, non a descrivere la gram-matica in dettaglio, ma a guidare il lettoreverso un approccio intuitivo che mira a svi-luppare soprattutto la competenza passivada parte di una categoria di discenti che, inquanto musicologi, della lingua tedesca fa-ranno un uso strumentale.In sintonia con il programma di un corso distudi che - come dice il nome: Paleografia eFilologia Musicale - privilegia il lavoro di-retto sulle fonti documentarie, il manualecurato da Focher propone un approccio ilpiù rapido possibile ai testi, cui il discenteaccede sin dalle prime lezioni tramite unaricca esemplificazione che tocca ogni livel-lo segnico-informativo del tedesco. La lin-gua, mai descritta in astratto, ma nei suoiautentici contesti di uso, si presenta, così,nel suo aspetto più vivo, fatta di regole fo-netiche e di strutture sintattiche, ma anchedi tutti quegli elementi di senso quali pre-fissi, suffissi e radici il cui riconoscimentoaiuta il discente a orientarsi con scioltezzain qualsiasi brano senza l’assillo del dizio-nario.Al di là, tuttavia, della presentazione dellaserie organica di elementi grammaticali tra-dizionali, di frasi secondarie, di infiniti so-stantivati, di parole composte, di caratteri-stiche della lingua poetica e arcaica (vi sononumerosi testi anche in alfabeto gotico), diappendici riepiloganti il lessicomusicologico più interessante, questovademecum del musicologo (dotato anchedi una appendice con la soluzione degli eser-cizi proposti) è ben altro che una semplicegrammatica: esso è una operazione di cul-tura che promuove il Tedesco, ma soprat-tutto la musica. Lo dice la stessa copertina,che reca in primo piano il frontespizio diDas Babstsche Gesangbuch, un preziosoinnario del XVI secolo e, in filigrana, unapagina di schizzi con la firma di Beethoven:tutto è presentato con estrema cura, conl’eleganza che si addice a un lavoro che pro-pone l’immagine di una civiltà musicale.

Ecco perché questo Corso di lettura in lin-gua tedesca finisce per non essere - contra-riamente al programma, forse fuorviante,enunciato dal sottotitolo - una pubblicazioneriservata a una ristretta platea: ad esso si puòaccostare chiunque sia curioso di vita musi-cale, raccontata in modo inconsueto, tra unesercizio e l’altro, che, mentre descrivono ledinamiche della lingua straniera, ci informa-no di come Goethe, grande ammiratore diMozart, fu sul punto di scrivere una conti-nuazione del Flauto magico, o ci presentanoun Beethoven ironico che rispondendo aSchindler, il quale gli chiedeva perché nonavesse scritto un terzo tempo alla sonata op.111, disse di non avere, appunto, avuto tem-po.

Nicoletta Dacrema

SEGNALAZIONI

Saggi

Elena Agazzi - Manfred Beller (curatori),Evidenze e ambiguità della fisionomia uma-na. Studi sul XVIII e XIX secolo, Viareggio,Mauro Baroni, 1998, pp. 426, £. 55.000

Laura Auteri, Stille und Bewegung. Zurdichterischen Form bei Wieland, Stuttgart,Heinz, 1998, pp. 137, s. i. p.

Maria Antonia Avella (curatrice), DaNietzsche a Benn. Poeti tedeschi tradotti daItalo Maione, Cosenza, Memoria, 1998, pp.382, £. 24.000

Gabriella Catalano - Emilia Fiandra (curatri-ci), Ottocento tedesco. Da Goethe aNietzsche. Per Luciano Zagari, Napoli, LaCittà del Sole, 1998, pp. 388, £. 30.000

Giovanni Chiarini, L’avventura di una rivi-sta romantica, Napoli, Istituto UniversitarioOrientale, 1998, pp. 227, £. 30.000

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Paolo Chiarini con la collaborazione diBernhard Arnold Kruse (a cura di), Il cac-ciatore di silenzi. Studi dedicati a FerruccioMasini, Istituto Italiano di Studi Germanici,Roma 1998, vol. I, pp. 469, £. 100.000

Nicoletta Dacrema, Il volto del nemico.Scrittori e propaganda bellica (1915-1918)nell’Austria di Francesco Giuseppe, Firen-ze, La Nuova Italia, 1998, pp. 133, £. 55.000

Alessandro Fambrini, La vita è unottovolante. Il circo nella letteratura tede-sca tra ‘800 e ‘900, “Le carte tedesche” 11,Udine, Campanotto, 1998, pp. 189, £.35.000

Marina Foschi Albert - Loretta Lari, Formeletterarie: lirica, narrativa, dramma. Ma-nuali per gli studenti di germanistica, Pisa,Jacques e i suoi quaderni, 1997-98, voll. 3,pp. 199, 147, 145, s. i. p.

Marino Freschi (curatore), Il teatro tedescodel Novecento, Napoli, CUEN, 1998, pp.381, £. 35.000

Marino Freschi (curatore), Storia della ci-viltà letteraria tedesca, Torino, UTET,1998, 2 voll.; vol. I: Dalle origini all’etàclassico-romantica, pp. 537; vol. II: Otto-cento e Novecento, pp. 711, £. 280.000

Maria Franca Frola, Ercole, simbolo delsole, nell’Anfitrione di Plauto, Molière eKleist, Milano, I.S.U., 1998, pp. 57, s.i.p.

Maria Franca Frola, Continuando a viverenel millennio seguente. Reise der SöhneMegaprazons. Der Groß-Cophta. Unter-haltungen deutscher Ausgewanderten. Conla trad. it. di Viaggio dei figli diMegaprazone a cura di Roberta Battaglia,Milano, I.S.U., 1998, pp. 138, s.i.p.

Claudio Magris, Utopia e disincanto, Mi-lano, Garzanti, 1999, pp. 326, £. 32.000

Bruno Moroncini, Mondo e senso.

Heidegger e Celan, Napoli, Cronopio, 1998,pp. 46, £. 10.000

Teodoro Scamardi, Viaggiatori tedeschi inCalabria. Dal Grand Tour al turismo dimassa, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998,pp. 224, £. 24.000

Claudia Sonino, Esilio, diaspora, terra pro-messa. Ebrei tedeschi verso est, Milano,Bruno Mondadori, 1998, pp. 262, £. 24.000

Italo Spinelli - Roberto Venuti (curatori),Mnemosyne. L’atlante della memoria di AbyWarburg. Materiali, Roma, Artemide, 1998,pp. 112, £. 50.000

Vivetta Vivarelli, Nietzsche und die Maskendes freien Geistes: Montaigne, Pascal undSterne, Würzburg, Königshausen undNeumann, 1998, pp. 163, DM 38

Gottfried Wagner, Il crepuscolo dei Wagner,pref. di Harvey Sachs, trad. di Teresina Ros-setti Wagner, Milano, Il Saggiatore, 1998,pp. 347, £. 38.000

Silvano Zucal, Ali dell’invisibile. L’angeloin Guardini e nel ‘900, Brescia, Morcelliana,1998, pp. 551, £. 50.000

Riviste

Studia theodisca V, 1998Ulrich Schödlbauer, Die Kunst derEntfesselung oder “Moosbruggers Genius”;Stefano Beretta, La nascita del genere let-terario dall’allegoria della storia. Sui rap-porti dialettici interni al testo barocco diWalter Benjamin; Hans-Albrecht Koch,Abschied vom Sonett”. Zu RudolfBorchardts “Autumnus”-Gedichten. Miteinem Anhang: Hugo von Hofmannsthal alsLeser von Borchardts “Herbstsonetten”;Paola Bozzi, “Body and Soul”: “poiesis” e“performance” nell’opera di Herta Müller;

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Heinz-Peter Preußer, Wi(e)dersinnigeTropen. Zur Diskrepanz von Narration undRhetorik in Günter Kunerts erzählenderProsa; Fausto Cercignani, Georg Büchner,la “conversazione sull’arte” e la prassi po-etica; Eva Reichmann, “AltwienerAmazonen”. Grillparzers Frauenfiguren ;Alessandro Fambrini, Equivoci sul reali-smo. Tieck, Hoffmann e la teoria del“Wendepunkt” ; Paola Rinaldi, ThomasMann e “das Ewig-Weibliche”. Sull’atteg-giamento dello scrittore tedesco nei confron-ti delle donne: il carteggio con Ida Herz eLavinia Mazzucchetti ; Für Ernst Behler:Maria Luisa Roli, Das romantische Erbeund unsere Zeit. Ernst Behler zumGedächtnis; Ernst Behler, Gedanken zurTheorie der Musik aus der Frühromantik

Traduzioni

Ilse Aichinger, La speranza più grande, acura di Elena Agazzi, Milano, La Tartaru-ga, 1998, pp. 227, £. 26.000

Joseph von Eichendorff, La statua di mar-mo, a cura di Barbara Griffini, Firenze, Log-gia de’ Lanzi, 1998, pp. 61, £. 15.000

Hans Magnus Enzensberger, Ma dove sonofinito?, trad. di Enrico Ganni, Torino,Einaudi, 1998, pp. 250, £. 28.000

Johann Wolfgang von Goethe, Achilleide, acura di Sotera Fornaro, Roma, Salerno,1998, pp. 124, £. 16.000

Friedrich Hebbel, Schnock. Un dipinto olan-dese, a cura di Alessandro Fambrini, “Labi-rinti” 37, Trento 1998, pp. XXXVII + 55,£. 25.000

Christoph Hein, Fin da principio, trad. diMaria Anna Massimello, Roma, e/o, 1999,pp. 187, £. 25.000

Hans Kayser, Manuale di armonica, noteintroduttive di Maria Franca Frola, Milano,

Fonte, 1998, s.i.p., 2 voll.; vol. I: Prefazione– Introduzione - §§ 1 – 16, trad. di IsabellaValtolina, pp. 295; vol. II: §§ 17 – 28, trad. diStefania Masuccio, pp. 281

Klaus Mann, La peste bruna. Diari 1931-1935, pref. di Marino Freschi, trad. di MatildeDe Pasquale, Roma, Editori Riuniti, 1998, pp.343, £. 45.000

Friedrich Nietzsche, Poesie. Idilli di Messi-na. Ditirambi di Dioniso, a cura di LucaCrescenzi, introd. di Italo AlighieroChiusano, Roma, Newton Compton, 1998,pp. 134, £. 6.900

Friedrich Nietzsche, Sull’avvenire delle no-stre scuole, a cura di Luca Crescenzi, Roma,Newton Compton, 1998, pp. 158, £. 6.900

Jean Paul, Setteformaggi, trad. di UmbertoGandini, Frassinelli, Milano, 1998, pp. 776,£. 28.000

Ingo Schulze, Semplici storie, trad. di Clau-dio Groff, Milano, Mondadori, 1999, pp. 275,£. 29.000

W. G. Sebald, Gli anelli di Saturno, a curadi Gabriella Rovagnati, Milano, Bompiani,1998, pp. 272, £. 34.000

Theodor Storm, Immensee e altre novelle, acura di Fabrizio Cambi, “Labirinti” 35,Trento, 1998, pp. XXXI + 273, £. 30.000

Markus Werner, Terraferma, trad. di AndreinaLavagetto, Torino, Einaudi, pp. 120, £. 18.000

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Università degli Studi di Trento - Dipartimento di Scienze Filologiche StoricheCollana Reperti, diretta da Fabrizio Cambi

VII. Alberto Cantoni, Humour classico e moderno, a cura di Massimo Rizzante, £.25.000

"Alberto Cantoni (Pomponesco, Mantova, 1841 - Mantova, 1904). Autodidatta, sialimentò disordinatamente di cultura letteraria e filosofica classica e moderna. Fu uomoriservato e solitario, scrittore provinciale e cosmopolita, umile e aristocratico, amantedel buen retiro della campagna, ma sensibile come un sismografo alle scosse dellamodernità del primo Novecento. Non ebbe né in vita né post mortem il successo chemeritava. I suoi scritti non hanno trovato nel corso di questo secolo che un soloapologeta, Pirandello, che riconobbe in lui un vero maestro di umorismo, definendoloun "critico fantastico”, un artista in grado di sottomettere sottilmente i procedimentidella critica alla potenza delle immagini e viceversa, la sua facoltà fantastica al demo-ne della critica".

VIII. Franco Munari, Studi sulla 'Ciris' , a cura di Alberto Cavarzere, £. 30.000.

Franco Munari (Pernumia, Padova, 1920 - Berlino 1995) fu professore ordinario difilologia classica alla Freie Universität di Berlino dal 1961 al 1985. La sua produzionescientifica, negli anni giovanili indirizzata quasi esclusivamente alla latinità classica(soprattutto a Ovidio, di cui pubblicò l'edizione critica degli Amores (Firenze 1951),andò orientandosi col tempo sempre più verso la filologia medievale. In tale campolasciò lavori notevolissimi, come l'edizione critica delle Ecloghe di M. Valerius (Fi-renze 1955) l'editio princeps degli Epigrammata Bobiensia (Roma 1955, in collabora-zione con Augusto Campana) e i monumentali Mathei Vindocinensis Opera (Roma1977, 1982, 1988). Gli Studi sulla 'Ciris' segnarono l'esordio dell'attività filologica delMunari: un esordio tanto felice per il rigore scientifico con cui egli negò - forsedefinitivamente - la virgilianità della Ciris, quanto sfortunato per le circostanze dellapubblicazione (basti pensare la data: Firenze 1944). Si ripubblicano ora nella collanadei Reperti, introdotti da un saggio di Sebastiano Timpanaro che ne mette in rilievol'attualità, certi di rendere con questa ristampa anastatica un prezioso servizio aglistudiosi.

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Università degli Studi di Trento - Dipartimento di Scienze Filologiche StoricheCollana Labirinti, diretta da Fabrizio Cambi

34. Francesco Bartoli, Figure della melanconia e dell’ardore. Saggi di ermeneuticateatrale (1998), £. 30.000.

I saggi, dislocati su circa un ventennio di attività, sono stati raccolti attorno a tretemi principali che danno origine alle tre sezioni del libro. Nella prima, che comprendequattro articoli attorno a temi artaudiani, Bartoli indaga le corrispondenze fra teatro epittura grazie ad una non comune familiarità con l’una e l’altra prassi compositiva. Idue studi che compongono la seconda sezione, accanto al «teatro muto» della pittura,convocano altre rischiose marginalità fra poesia e musica. La terza parte, costituita dadodici saggi, s’apre e si sofferma sulla marionetta come topos del teatro del Novecento,indi percorre «paesaggi fantastici in scena» e termina con figure simboliche dannunziane.Chiudono il volume una Notizia bio-bibliografica a cura di Umberto Artioli e unaPostfazione di Roberto Tessari.

35. Theodor Storm, ‘Immensee’ e altre novelle (1998), a cura di Fabrizio Cambi, £.30.000.

La scelta di sette famose novelle, qui presentate in una nuova traduzione con appa-rato critico, consentono di ridisegnare la parabola dall’idillio biedermeieriano, in cuidominano il ricordo e il sentimento doloroso dell’irrevocabilità del passato (Immensee,Rose tardive), a novelle che hanno per tema l’irresolutezza amorosa (Nel castello, Vio-la tricolor), il grottesco o il meraviglioso, magistralmente rappresentati in chiaverealistica, (Casa Bulemann, La fata della pioggia), fino al noto racconto de L’uomo dalcavallo bianco, straordinaria epopea del destino, che, come scrisse Thomas Mann,trasmette «quell’elementare potere che lega la tragicità della vita degli uomini al segre-to selvaggio della natura».

37. Friedrich Hebbel, Schnock. Un dipinto olandese (1998), a cura di AlessandroFambrini, £. 25.000.

Schnock, una delle rare prove narrative di Friedrich Hebbel (1813-1863), che quiviene presentata in prima traduzione italiana, è definita dal suo autore «dipinto olande-se»: dichiarazione di genere, che indica programmaticamente una traccia jeanpauliana,ripercorribile nella asistematicità del testo, nella sua comicità eccentrica, nel linguag-gio immaginifico, nell’uso della digressione e della divagazione.

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Osservatorio Critico della germanisticaanno II, n. 4Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche - Trento 1999

Direttore Responsabile: Massimo Egidi

Redazione: Fabrizio Cambi, Alessandro Fambrini, Fulvio FerrariComitato esterno: Alessandro Costazza, Luca Crescenzi, Guido Massino, Lucia Perrone Capano,Aldo Venturelli, Roberto VenutiProgetto grafico: Roberto MartiniImpaginazione: C.T.M. (Luca Cigalotti)Editore: Maria Pacini Fazzi Editore - Lucca

Periodico quadrimestrale (febbraio, giugno, ottobre)Abbonamento annuale (tre numeri): £. 25.000Abbonamento estero: £. 36.000Numero singolo e arretrati: £. 10.000

Modalità di abbonamento: versamento sul conto corrente postale numero 11829553 intestatoa: MARIA PACINI FAZZI - LUCCA, specificando nella causale sul retro ABBONAMENTOANNUALE A ‘OSSERVATORIO CRITICO DELLA GERMANISTICA’, e indicando nome,cognome, via e numero, c.a.p., città, provincia e telefono, oltre al numero di partita i.v.a. per glienti, istituzioni, aziende che desiderano la fattura.

Manoscritti di eventuali collaborazioni e libri da recensire vanno indirizzati ai componentidella redazione presso il Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche,via S.Croce 65, 38100Trento (tel. 0461/881718, 0461/881723 o 881739; fax. 0461/881751; [email protected]).

Amministrazione e pubblicità: MARIA PACINI FAZZI EDITORE S.R.L., piazza S. Romano16 - casella postale 173 - 55100 Lucca; tel. 0583/55530 - fax 0583/418245; [email protected]

Stampa: Tipografia Menegazzo - viale S. Concordio 903 - LuccaFebbraio 1999

periodico in attesa di registrazione presso il Tribunale di Lucca

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Università degli Studi di TrentoII - 4

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INDICE

Recensioni

Alessandro CostazzaAlberto Martino, Storia delle teorie drammatiche nella Germania del Settecento 1

Fabrizio CambiLea Ritter Santini, Il volo di Ganimede. Mito di ascesa nella Germania moderna 5

Elena AgazziPaolo Chiarini, Antonella Gargano, La Berlino dell’espressionismo 9

Alessandro FambriniPaola Gambarota, Surrealismo in Germania. 11

Elisabeth GalvanWalter Benjamin, Il viaggiatore solitario e il flâneur. Saggio su Bachofen 14

Anna FattoriPeter Utz, Tanz auf den Rändern. Robert Walsers ‘Jetztzeitstil’ 17

Lucia Perrone CapanoUta Treder (curatore), Transizioni. Saggi di letteratura tedesca del Novecento 21

Grazia PulvirentiGiuseppe Dolei, Tra malinconia e utopia. La letteratura tedesca degli anni SettantaKatrin Schäfer, “Die andere Seite”. Erich Frieds Prosawerk 23 2323

Schede di Nicoletta Dacrema, Alberto Destro, Alessandro Fambrini e Fulvio Ferrari 25

Segnalazioni 30