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Università degli Studi di Trento OSSERVATORIO CRITICO della germanistica IV - 15 OSSERVATORIO CRITICO della germanistica Amelia Valtolina, Blu e poesia. Me- tamorfosi di un colore nella moderna lirica tedesca, Milano, Mondadori, 2002, pp. 244, 11,50 Chi legge Blu e poe- sia non può evitare di cadere nel precipizio di Persefone, metafo- ra in cui Cristina Campo cristallizza l’esperienza della vera conoscenza, la co- noscenza che accade per attrazione di figu- re, mediante il mito, la poesia. A volte, ra- ramente, mediante la scrittura saggistica. E certamente l’epigrafe del volume suggella l’altezza della ricerca che la parola di Valtolina distilla nelle pagine che attraver- sano lo spazio e il tempo delle metamorfo- si di un colore-cifra, dalle valenze archetipe e simboliche stratificatesi spesso in manie- ra antifrastica, a volte assenze nel silenzio della storia. Il colore del cielo e quindi del luminoso – osserva l’autrice come lo splendore del blu sia evocato anche etimologicamente dal nesso fra la radice verbale *BHEL, origi- naria sia per le lingue germaniche che ro- manze, con flavus, il giallo - è anche il co- lore dell’abisso: a conferma l’anfibologia di un’altra parola, kyaneos, il caeruleus ado- perato tanto per esprimere una vertigine in altezza che in profondità, lo sconfinamen- to del cielo e della profondità marina. Così nella tradizione dell’Occidente si cristalliz- zano due opposte sfere di significato nella stessa parola, in un solo colore: la sophía, la speculazione del pensiero, l’ascesa nella conoscenza (razionale o misterica che sia) e la nékia, il precipitare nella tenebra della psiche. La storia del pensiero occidentale è segnata sin dalla sua nascita come origine del pensiero filosofico dal colore blu, come narra Platone nel Timeo, lì dove radica, in quel che Hölderlin definirà “l’azzurro della scuola degli occhi”, la sede delle idee, ri- correndo all’immagine della testa umana appesa con le sue radici in cielo. Da questa volta divina prende le mosse la densa rico- gnizione dei significati assunti dal colore azzurro in Occidente, arricchita di osserva- zioni che dai sentieri filosofici si spostano in ambiti prettamente figurativi – le vetrate di Chartres – oltre che letterari. Di fatto un pregio particolare di questo volume è indub- biamente costituito dalla modalità dell’in- dagine: in tempi di falsa e retorica interdisciplinarità, Valtolina si inoltra con rigore a abilità critica nelle zone di confine, nei luoghi di contatto fra filosofia, lettera- tura, arti figurative, antropologia, storia, etc., trasformando i luoghi d’ombra, i posti tra- scurati per apparente dissipazione di senso, in terre di scoperta di nuovi significati. E con questa particolarissima lente che non esita, per restare in metafora, a fissare la luce e inoltrarsi nelle tenebre, l’autrice, stila una breve storia delle sorti del colore in Occi- dente (il capitolo “Tutto azzurro nel mio li- bro…”) per concludere che la storia del co- lore segna la storia del pensiero: “Un colore freddo e sublimante; da Leonardo in poi,,

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Università degli Studi di Trento

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Amelia Valtolina, Blu e poesia. Me-tamorfosi di un colore nella modernalirica tedesca, Milano, Mondadori,2002, pp. 244, €11,50

Chi legge Blu e poe-sia non può evitare dicadere nel precipiziodi Persefone, metafo-ra in cui CristinaCampo cristallizzal’esperienza della vera conoscenza, la co-noscenza che accade per attrazione di figu-re, mediante il mito, la poesia. A volte, ra-ramente, mediante la scrittura saggistica. Ecertamente l’epigrafe del volume suggellal’altezza della ricerca che la parola diValtolina distilla nelle pagine che attraver-sano lo spazio e il tempo delle metamorfo-si di un colore-cifra, dalle valenze archetipee simboliche stratificatesi spesso in manie-ra antifrastica, a volte assenze nel silenziodella storia.Il colore del cielo e quindi del luminoso –osserva l’autrice come lo splendore del blusia evocato anche etimologicamente dalnesso fra la radice verbale *BHEL, origi-naria sia per le lingue germaniche che ro-manze, con flavus, il giallo - è anche il co-lore dell’abisso: a conferma l’anfibologiadi un’altra parola, kyaneos, il caeruleus ado-perato tanto per esprimere una vertigine inaltezza che in profondità, lo sconfinamen-to del cielo e della profondità marina. Cosìnella tradizione dell’Occidente si cristalliz-zano due opposte sfere di significato nellastessa parola, in un solo colore: la sophía,la speculazione del pensiero, l’ascesa nellaconoscenza (razionale o misterica che sia)e la nékia, il precipitare nella tenebra della

psiche. La storia delpensiero occidentale èsegnata sin dalla suanascita come originedel pensiero filosoficodal colore blu, come

narra Platone nel Timeo, lì dove radica, inquel che Hölderlin definirà “l’azzurro dellascuola degli occhi”, la sede delle idee, ri-correndo all’immagine della testa umanaappesa con le sue radici in cielo. Da questavolta divina prende le mosse la densa rico-gnizione dei significati assunti dal coloreazzurro in Occidente, arricchita di osserva-zioni che dai sentieri filosofici si spostanoin ambiti prettamente figurativi – le vetratedi Chartres – oltre che letterari. Di fatto unpregio particolare di questo volume è indub-biamente costituito dalla modalità dell’in-dagine: in tempi di falsa e retoricainterdisciplinarità, Valtolina si inoltra conrigore a abilità critica nelle zone di confine,nei luoghi di contatto fra filosofia, lettera-tura, arti figurative, antropologia, storia, etc.,trasformando i luoghi d’ombra, i posti tra-scurati per apparente dissipazione di senso,in terre di scoperta di nuovi significati.E con questa particolarissima lente che nonesita, per restare in metafora, a fissare la lucee inoltrarsi nelle tenebre, l’autrice, stila unabreve storia delle sorti del colore in Occi-dente (il capitolo “Tutto azzurro nel mio li-bro…”) per concludere che la storia del co-lore segna la storia del pensiero: “Un colorefreddo e sublimante; da Leonardo in poi,,

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perduta l’aura trascendentale di cui il Me-dioevo lo aveva circonfuso, anche coloreprospettico – e il pensiero vuole prospetti-va, esige distanza dall’oggetto, pathos del-la distanza. Fino all’estrema distanza dellameditazione: azzurro è lo sfondo di moltimandala e nella lingua pali il suo nome(nila) significa ‘meditazione’. […] Coloredell’unio mentalis alchemica, della congiun-zione fra lógos e psyché, l’azzurro segnal’origine e insieme il percorso verso l’in-candescenza bianca della mente: è la tintu-ra celestiale che permette il passaggio dallanigredo all’albedo dischiudendo il regnodella riflessione, là dove il pensiero si faimmagine; è la quintessenza che scolora lanegritudine dell’egotismo e inizia la perso-nalità alla scoperta di Anima [in nota è unriferimento a Fuochi blu di Hillman]; è ilprimo distacco dal nucleo nero del dolore edalla prigionia della materia.” (pp. 2-39).Ma fin qui non siamo che nelle premesse,sebbene queste pagine addensino risultatidi uno studio assai ampio ed esteso, auto-nomo, anche se estremamente compatto esintetico. Solo nel paragrafo che segue, Uncolore di poesia, Valtolina delimita il cam-po della sua ricerca – per quanto, come con-stateremo durante l’appassionante lettura,esso sia a sua volta vastissimo - , l’universopoetico. E poi ancora, dopo un primoexcursus passando per il sangue blu del ci-gno di Cocteau, l’azzurro dei fogli mano-scritti di Colette, la mansarde bleu di GeorgeSand, l’inevitabile stanza celeste di Proust,la penna di Valtolina, penetra lieve nel suoregno d’elezione, la poesia tedesca.E qui la riflessione che culmina nell’assun-to, ampiamente dimostrato dalle pagine deicapitoli successivi (Metamorfosi, Dissonan-ze, Usque ad finem, Controblu), di una coin-cidenza di poesia e utopia nel segno del blu,prende le mosse da un’indagine linguisticache, spaziando dalle origini indogermani-che, indaga le valenze simboliche di quelloche è stato definito “il più difficile di tutti icolori” a partire dalle trasformazioni lingui-stiche dei diversi caeruleus, lividus, caesius,bleu, blu, blau. E proprio la qualità sonora

del “blau” in tedesco ne definiscel’ambivalenza: richiamandosi a una sugge-stiva osservazione di Ernst Jünger, Valtolinasi sofferma sulle valenze del dittongo AU chefa collidere la vocale chiara A con una scura,la U, cioè “la vocale più alta con quella piùbassa”, come scrive Jünger, creando un ef-fetto di sospensione e vertigine mediante laconvergenza di “altezza e profondità”. Perquesta ambiguità simbolica del colore, omeglio per questa sua doppia natura che èlinguistica, prima ancora che filosofica e let-teraria, il blu è divenuto il colore di una pa-rola poetica che dice la sua assenza, la suamancanza, il suo smarrimento, e, alcontempo, la sua impellente necessità, il suoemergere da una ontologia negativa: la paro-la dell’utopia. Al tempo delle riflessioni me-triche di A.W. Schlegel – “U blu” - e delleScoperte sulla teoria del suono di Chladni,Novalis immerse nell’azzurro il suo fiorepoetico, segnatura non solo della ricerca d’as-soluto dei romantici, ma della tensioneutopica della parola poetica, che permane esi conserva, si cela per riaffiorare, anche lìdove il degrado del quotidiano, l’abiezionedei tempi, la tragicità della storia serrano lelabbra alla musa della poesia: nei versi diCelan, dell’ultimo Celan, in particolar modo,non c’è più neanche lo spazio per la memo-ria di quella poetizzazione del mondo di cuiil fiore azzurro era simbolo. In Huhediblu ilfiore azzurro tracolla fra “i colpi d’ascia vi-brati dalle parole” (p. 194). Ma è nel blu, inun cielo che sorge da un abisso, poiché, comeprecisa Valtolina, “insorge” contro ogni de-gradazione e svuotamento di senso che laparola poetica ‘risorge’ nel silenzio della sto-ria: “Im Aufgang der Leinwand,/verwandlungswillig:/ ein Blau, dasemporströmt” si legge in una lirica scritta daCelan nell’imminenza della morte. Il blu,come acutamente precisa Valtolina, diviene“controblu” e suggella la forza della sua re-sistenza nel moto di ascesa segnato dallaradicalità dell’“empor”: tende all’alto quelche si sottrae al silenzio e al nulla. In un moto circolare che elegge l’azzurro acifra di una tensione verso l’alto, dal giacin-

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to azzurro citato dalla Campo al tormenta-to fiore dell’assenza di Celan, Valtolina spi-gola nel solco segnato per la lirica tedescadalla “blaue Blume” di Novalis:soffermandosi sull’operazione compiuta daHeine per via d’ironia, e ponendo l’accen-to sulla valenza di questa dissacrazione, chetraghettò il simbolo romantico nelle terreaspre della modernità, il paesaggio poeticotracciato dall’autrice si tinge del blu disso-nante di Trakl, dell’azzurro visionario del-la Lasker-Schüler, per spegnersi apparen-temente nel segno dell’abbandono del blumalinconico di Gottfried Benn: “un blu dicordoglio, sconsolato come il triste amoredi Isotta, blu notturno e blu finale” (p. 167).Ma il blu - ci insegnano le dense pagine diquesto libro - ha sempre in sé un ‘di più’: siavvicina a dire il nulla, la negazione perassurgere a divenire segno di un “fanatismodella trascendenza” (Benn) che si palesa inquel sogno che Valtolina fa coincidere conla tensione alla forma: “il sogno azzurrodella poesia sogna l’Artistik, il regno dellaforma.” (p. 170). Il blu è così, pur se nel-l’effimero spazio del sogno, colore dell’es-sere che “si rivela”, colore della conoscen-za, di fronte a cui si spalanca il precipiziodi Persefone.

Grazia Pulvirenti

Soma Morgenstern, Fuga e fine di JosephRoth, a cura di Ingolf Schulte, Milano,Adelphi, 2001 (Biblioteca Adelphi; 415),pp. 459, € 23,24

Soma Morgenstern, Werke in Einzelbänden:Joseph Roths Flucht und Ende.Erinnerungen, hrsg. und Nachwort vonIngolf Schulte, Lüneburg, zu Klampen,1994, pp. 330, € 24

Mit dem Titel seines Buches spieltMorgenstern bewusst auf Roths RomanFlucht ohne Ende an, dessen sehr knappes

Vorwort als Motto für das Buch desFreundes fungieren könnte, man bräuchtenur den Namen des Romanhelden bloßdurch den seines Autors zu ersetzen: „Imfolgenden erzähle ich die Geschichte meinesFreundes, Kameraden und Gesinnungs-genossen Franz Tunda. Ich folge zum Teilseinen Aufzeichnungen, zum Teil seinenErzählungen. Ich habe nichts erfunden,nichts komponiert. Es handelt sich nichtmehr darum, zu „dichten“. Das wichtigsteist das Beobachtete.“(Joseph Roth, Fluchtohne Ende. München, dtv, 1981, S. 5). Mitder Wahl eines so bedeutungsschwangerenund anspielungsreichen Titels indes lässtMorgenstern die Vermutung aufkommen, alshandele sich nur um die Darstellung vonRoths letzten Jahren, was aber keineswegszutrifft, denn er verfolgt die Geschichtedieser Freundschaft bis zur ersten Be-gegnung der beiden während derLandeskonferenz der zionistischenMittelschüler Galiziens in Lemberg im Jahr1909 oder 1910.Soma Morgensterns Buch über Joseph RothsFlucht und Ende ist ein eigenartigesZwitterwesen, das eigentlich nur mit etwasgutem Willen in den Rahmen einergermanistischen Fachzeitschrift gehört,denn der Gegenstand dieser Erinnerungenwird nicht mit den Augen eines sonüchternen Biographen wie David Bronsenbetrachtet, welcher im übrigen Morgensternslangjährige Beziehung zu Roth beinahe aufden Status einer flüchtigen Bekanntschaftherabmindert: „(Morgenstern; C.N.) lernteRoth 1913 als Student an der WienerHochschule kennen, sah ihn wiederholteMale in Wien in den zwanziger Jahren undeinige Male in den dreißiger Jahren, bis zumAnschluß Österreichs. Wohnte 1938-1939zusammen mit Roth im Hôtel de la Poste inParis.“(David Bronsen: Joseph Roth. EineBiographie, München, dtv, 1981, S. 687)Liest man dagegen Morgensterns Aussagenüber seine Freundschaft zu Joseph Roth, sowird der Anschein erweckt, als habe diebeiden eine sehr enge Beziehung mit allenHöhen und Tiefen bis hin zu Roths Tod im

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Jahr 1939 verbunden. All dies beschreibtMorgenstern aus einem sehr persönlichenBlickwinkel, der natürlich auch vor derNachtseite und den Abgründen in RothsCharakter, insbesondere seinem Al-koholismus, die Augen keineswegs kritiklosverschließt, sondern den zunehmendenVerfall des Freundes und dessen immermehr aus Monarchisten und Katholikenbestehende Entourage durchaus kritischbetrachtet. Selbstverständlich konnte dasVerhältnis zwischen dem erfolgreichenSchriftsteller und Feuilletonisten JosephRoth und dem heute fast ganz inVergessenheit geratenen Romancier SomaMorgenstern nicht problemlos sein,wenngleich sich letzterer in seinenErinnerungen redlich bemüht, keinen Neidaufkommen zu lassen. Man wirdMorgenstern auch nicht vorwerfen können,mit seinen Erinnerungen vom Nachruhmdes weitaus populäreren Freundes undKollegen zehren zu wollen. Ihm geht esvorrangig darum, Zeugnis abzulegen.Vielleicht sind an dieser Stelle einige Worteüber Soma Morgensterns Leben undschriftstellerischen Werdegang angebracht.Salomo Morgenstern kam am 3. Mai 1890in einem Dorf bei Tarnopol, im damaligenKuK-Kronland Galizien zur Welt undwuchs in einer polyglotten Umgebung alsKind eines gelehrten Chassiden inmitteneiner tiefreligiösen Familie auf. Früh schonwurde er auf Drängen seines Vaters mit derdeutschen Sprache vertraut gemacht undblieb dem Deutschen auch bei seinerliterarischen Arbeit treu. Schon hier tut sicheine lebensgeschichtliche Parallele zuJoseph Roth auf, die als verbindendesElement zwischen den beiden ansonstensehr unterschiedlichen Charakteren nicht zuunterschätzen ist. Die Studienzeit in Wienist beiden ebenso gemeinsam wie dieÜbersiedelung nach Berlin und dieMitarbeit am Feuilleton der FrankfurterZeitung unter der Ägide BennoReifenbergs, in Morgensterns Fall alsWiener Kulturkorrespondent. Zahlreichegemeinsame Bekanntschaften und

Freundschaften innerhalb der Berliner,Wiener und später auch der PariserKulturszene verbanden die beidenmiteinander, wie auch ihre nie ganzüberwundene Fremdheit und Distanzgegenüber dem Kulturbetrieb. Von einigenBegegnungen, so etwa dem von Morgensternzwischen Joseph Roth und Robert Musilvermittelten und durchaus nichtunproblematischen Gespräch zwischendiesen so grundverschiedenen Autoren,berichtet das Buch (in diesem Fall auf S. 76ff.) ausführlich.Deutlich treten aber nicht nur die Affinitätenzwischen Roth und Morgenstern hervor,sondern auch Divergenzen, die vonfinanziellen Fragen - Roth hatte Morgensternmit unverhohlener Chuzpe vorgeschlagen, imPariser Exil gemeinsame Kasse zu machen -über Roths unverfrorene literarische Anleihen- so etwa die ‘Übersiedelung’ eines gewissen‘Jankel Christjampoler’ aus einem RomanMorgensterns in Roths ‘Tarabas’ bis hin zuihrem jeweiligen Verhältnis zum Judentum.Auch Soma Morgensterns Geschickewährend der Emigration unterschieden sichgrundlegend von Roths Schicksal: Schonseine Ausreise nach dem AnschlussÖsterreichs war schwierig genug. Diematerielle Not wurde nur unwesentlich durchein Arbeitsstipendium der „American Guildfor German Cultural Freedom“ gelindert,während Roth noch Tantiemen ausverschiedenen Quellen erhielt und diesegroßzügig verprasste, um anschließend denFreund anzupumpen. Morgenstern hatte alleÄngste und Nöte des geduldeten aberkeineswegs willkommenen Emigranten zuerdulden. Die Ungewissheit über dieGeschicke der Angehörigen, die ständigeSorge um die Gültigkeit von Papieren, dieBeschaffung von Dokumenten undBürgschaften für die ersehnte Ausreise nachAmerika auf Seiten Morgensterns, dieVerweigerungshaltung, die Realitätsfluchtund der Suff auf Seiten Roths treten drastischhervor.Nicht genug damit. Morgenstern mussteüberdies die Internierung als feindlicher

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Ausländer in französischen Lagern(Montargis und Audièrne) erleben undentkam beim zweiten Mal nur mit knapperNot der Gestapo, um zu Fuß in denunbesetzten Süden zu flüchten. Auch dieJahre nach seiner endgültigen Emigrationin die USA waren nachhaltig von der Shoahgeprägt. Morgenstern wurde vonexistenziellen Zweifeln umgetrieben, aberauch von einem regelrechten Ekelgegenüber der deutschen Sprache, was zuSprachlosigkeit und langjährigerSchreibhemmung führte. Dennochwechselte er nicht ins Amerikanische,sondern hielt an der deutschen Sprache alsliterarischem Ausdrucksmittel fest. AlsMorgenstern „im 86. Lebensjahr gestorbenwar, wurde beiderseits des Atlantiks seinTod gerade noch gemeldet, Nachrufe gabes so gut wie keine.“, vermerkt IngolfSchultes Nachwort Soma Morgenstern - derAutor als Überlebender mit berechtigterBitterkeit. Die Fährnisse der Geschichte des20. Jahrhunderts, sprich das Naziregime,hatten nicht nur sein Leben überschattet,sondern auch die Rezeption seiner Werkenachhaltig verhindert. MorgensternsRomantrilogie Funken im Abgrund bliebauch in der Nachkriegszeit weitgehendunbekannt ebenso wie der Roman DieBlutsäule.Was Morgensterns Buch über seineFreundschaft zu Joseph Roth auszeichnet,ist seine Aufrichtigkeit und Schnörkel-losigkeit bis hin zur Schonungslosigkeitgegenüber seinem Gegenstand. Dies zeigtsich in den Ausführungen über Roths Hangzur Mystifikation oder über die Frauen inRoths Leben, wobei die Ehefrau, Friedl,besonders schlecht wegkommt, dochinsbesondere in den zahlreichen Passagenüber Roths Alkoholkonsum: „So eingenießerisches Schnapstrinken habe ich nurnoch bei einem anderen trinksüchtigenFreunde bemerkt, bei Hanns Eisler, demKomponisten. Dennoch ist Eisler keintragischer Säufer geworden, sondern einrecht wohlgemuter Trinker geblieben.Warum?, habe ich mich oft gefragt. War

Eisler ein willensstarker Künstler, Roth aberein willensschwacher? Eines Tages,angesichts einer Riesenflasche Cognac,befragte ich Eisler. Er sagte, nicht ohne einenleichten Seufzer: ‘Leider ist es so, daß ichkeine Note schreiben kann, wenn ichgetrunken habe. Sonst wäre ich sicher einschwerer Alkoholiker geworden.’ JosephRoth sagte mir [...] überall, wo er in einemöffentlichen Lokal rastlos trank und rastlosschrieb: ‘Ohne Alkohol wäre ichwahrscheinlich noch gerade ein guterJournalist geworden. Alle guten Einfällekommen mir beim Trinken. Wenn du willst,zeig ich dir in meinen Romanen jede guteStelle, die ich einem guten Calvados zuverdanken habe.’ Ich zog es vor, ihm dieStellen zu zeigen - und es waren nicht diebesten, und ich sagte es ihm.“(Morgenstern;147 f.)Der Autor strebt nach Authentizität undWahrheit, was sich in lebendigenDialogszenen - wie der oben zitierten -ebenso zeigt wie in den häufigen, offenbarbewusst nicht ausgemerzten Wieder-holungen. Morgensterns Stil ist - für einautobiographisches Buch ganz und garuntypisch - so uneitel, dass es fast schonwieder manieriert wirkt.Noch ein Wort zur italienischen Ausgabe:Die von Sabina de Waal besorgteÜbersetzung kann sich sehen lassen.Auszusetzen ist allein die von der deutschenVersion abweichende Praxis derHintanstellung der Fußnoten, offenbar umdie Einheitlichkeit des Schriftbildes und dieFlüssigkeit der Lektüre nicht zu stören. Werblättert aber schon gerne unter der Fußnote249 von Seite 264 auf Seite 448, um mit derenttäuschenden Auskunft abgespeist zuwerden: „Non è stato possibile ottenereulteriori ragguagli.“ Diese Anmerkung hätteman sich schon im Original als Fußnote amSeitenende sparen können, ist aber amTextende eher ärgerlich, obgleichfestzuhalten bleibt, dass die Mehrzahl derNoten nützlich und gerade für den mitJoseph Roth, der Exilliteratur oder derWiener Kulturlandschaft der 20er und 30er

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Jahre weniger vertrauten Leseraufschlussreich ist. Umso bedauerlicher,wenn man diese wertvollen Zusatz-informationen in den Anhang verbannt.

Christoph Nickenig

Theodor W. Adorno, Thomas Mann,Briefwechsel 1943-1955, hrsg. von ThomasSprecher, Frankfurt a./M., Suhrkamp, 2002,pp. 179, € 24.90

Nell’ambito della pubblicazione degli scrittipostumi di Theodor W. Adorno, che vannodai corsi di filosofia tenuti a Francoforte tral’inizio degli anni Cinquanta e la fine deglianni Sessanta a scritti di filosofia esociologia musicale, appunti filosofici eanche frammenti letterari, è apparsa orapresso l’editore Suhrkamp un’edizionecritica del carteggio tra Adorno e ThomasMann, che merita attenzione non fosse altroche per il puntuale lavoro dei curatori,Christoph Gödde e Thomas Sprecher, i qualihanno corredato ogni lettera di undettagliato apparato critico, indispensabileper decifrare contesti oggi divenuti spessocriptici. La conoscenza tra Thomas Mann eAdorno, che vivevano entrambi in esilio inCalifornia, avvenne probabilmente tra il ’42e il ’43 in casa di Max Horkheimer e dellamoglie Maidon. Mann, settantenne esegnato dalla malattia, ha già iniziato,nell’estate del ’43, il lavoro al Faustus,riprendendo un motivo, quello del pattodiabolico dell’artista, che, come si desumedalla Entstehung des Doktor Faustus.Roman eines Romans, era un suo vecchiointeresse, risalente addirittura al 1901. Lacollaborazione con Adorno inizia quandoMann si trova al settimo capitolo delromanzo, intorno al luglio del ’43: loscrittore si rende conto dei limiti delleproprie conoscenze musicali tecnico-teoriche e della necessità di ricorrereall’aiuto di un musicologo. Decisiva si rivela

la lettura della prima parte, dedicata aSchönberg, di uno dei capolavori di Adorno,la Philosophie der neuen Musik, della qualeMann lesse il manoscritto. Nel Roman einesRomans Mann ricorda a questo proposito:„Hier war in der Tat etwas ‚Wichtiges‘. Ichfand eine artistisch-soziologischeSituationskritik von größter Fortge-schrittenheit, Feinheit und Tiefe, welche dieeigentümlichste Affinität zur Idee meinesWerkes, zu der ‚Komposition‘ hatte, in derich lebte, an der ich webte. In mir entschiedes sich: ‚Das ist mein Mann‘“ (Entstehung,Frankfurt a./M 2002, p. 705). L’affinità tra loscritto adorniano su Schönberg ed il Faustusè da ricercare nel rapporto analizzato daentrambi tra tradizione ed avanguardia, anchese non è azzardato ipotizzare cheprobabilmente il debito di Mann nei confrontidi Adorno sia più vasto di quanto laEntstehung sia disposta a concedere, chéproprio il motivo principale del romanzo, ilpericolo della ricaduta dell’avanguardia inbarbarie, si rifà direttamente alla criticaadorniana di Schönberg. Questa poggia sullaconstatazione di una dialettica tra progressoe regressione sottesa allo sviluppo dellamusica moderna, ovvero, „dass die objektivnotwendige konstruktive Erhellung derMusik aus ebenso objektiven Gründen,gleichsam über den Kopf des Künstlershinweg, in ein Finsteres, Mythologischeszurückschlagen droht“ (Briefwechsel, p. 34).Si tratta di un rovesciamento dialettico chenella Philosophie der neuen Musik Adornoricostruisce analizzando l’evoluzione diSchönberg. Soprattutto i drammi, Erwartunge Die glückliche Hand, testimoniano comel’espressione in Schönberg sia qualita-tivamente diversa da quella romantica estilizzata dello Jugendstil, priva com’è delloSchein e dell’ornamento. Nella suadisposizione ancipite, nel suo essere segnodell’impotenza, della dissoluzione delsoggetto, l’espressione denuncia l’insosteni-bilità del soggettivismo espressionista eprepara quindi il proprio rovesciamento, laricerca di schemi oggettivi atti a superare lacasualità dell’individuale. Nella sua

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oggettività, raggiunta attraverso la totalerazionalizzazione del materiale musicale, ladodecafonia è una risposta a questa crisi.La sua verità, scrive Adorno, è la veritàdell’universale sul particolare. L’assolutopotere sul materiale musicale atomizzatocostituisce anche l’affinità tra Schönberg el’antipode Strawinsky: „Bei beiden wirdalles musikalisch Einzelne vom Ganzenprädeterminiert, und es gibt keine echteWechselwirkung von Ganzem und Teilmehr. Die verfügende Disposition übersGanze vertreibt die Spontaneität derMomente“ (Philosophie der neuen Musik,Frankfurt a./M 1975, p. 71). Nelladodecafonia - “Ein System der Natur-beherrschung in Musik“ (ibidem, p. 65) - ilsoggetto domina la physis attraversoun’organizzazione razionale della quale allafine egli stesso diviene vittima. Proprio lavanificazione dell’autonomia soggettiva,l’esperienza che ogni nota è ora determinatadalla serie, e nessuna è più “libera“,“spontanea“, è nel Faustus al centro delladiscussione tra Zeitblom e Leverkühn nelventiduesimo capitolo del romanzo. Lavariazione - in Beethoven universaliz-zazione della „Durchführung” comerinnovamento della forma a partire dallaspontaneità soggettiva - viene trasposta nelmateriale, e determina ora il comporre apriori: ciò che prima era libertà divienedestino. Non è la dimensione arcaica ectonia delle composizioni di Leverkühn, maè già la sua figura storica ad avvicinare ladodecafonia alla superstizione. Ciònondimeno Adorno non nega la possibilitàche proprio nell’oggettività dellacostruzione totale del materiale musicaleriesca a farsi spazio dialetticamente unanuova espressività, che Mann, citando latradizione del madrigale, non mancherà ditratteggiare nella Weheklag Dr. Fausti.L’intensa collaborazione di Adorno alromanzo manniano è documentata solo inminima parte dal carteggio. Fa eccezione lanota lettera di Mann del 30 dicembre 1945sul principio del montaggio nel Faustus,nella quale lo scrittore, giunto alla soglia

dell’opera tarda di Leverkühn, rivolge adAdorno l’invito a riflettere insieme “wie dasWerk – ich meine Leverkühns Werk –ungefähr ins Werk zu setzen wäre; wie Siees machen würden, wenn Sie im Pakt mitdem Teufel wären” (Briefwechsel, p. 21).In appendice all’edizione critica delcarteggio sono riportati gli appunti diAdorno sulle composizioni descritte nelFaustus, che questi ha delineato con schizzimusicali come se si trattasse di preparativiper composizioni vere e proprie e che Manna sua volta ha „messo in versi”, come solevadire. Degli appunti di Adorno si sonoconservati quelli relativi al concerto perviolino, all’Ensamblemusik per tre archi, trefiati e pianoforte, al quartetto per archi ealla cantata Weheklag Dr. Fausti, mentre perquanto riguarda l’oratorio Apocalipsis cumfiguris i curatori del carteggio rimandanoad un passo, poi cassato, della Entstehung,dove Mann descrive le peculiarità cheAdorno si era immaginato per lacomposizione, dal satanico scambio traparte vocale e strumentale, uomo e cosa, alladissonanza intesa come forma simbolicadello spirito e alla sfera armonica e tonaleconcepita come emblematica del mondodell’inferno, ovvero della banalità(Briefwechsel, p. 24-25).Nella citata lettera del 30 dicembre 1945Mann chiede ad Adorno il permesso diinserire nel romanzo citazioni dai suoi lavorimusicologici, soprattutto dalla Philosophieder neuen Musik, la cui parte dedicata aSchönberg si rivelò fondamentale per ilcolloquio di Leverkühn con il diavolo nelventiciquesimo capitolo del romanzo, maanche dal saggio Spätstil Beethovens,dedicato alla cifra allegorica dellaconvenzione nel Beethoven tardo, di cuiMann disponeva nell’edizione del 1937 eche venne utilizzato per le lezioni di WendellKretzschmar nel capitolo ottavo (inparticolare “Beethovens Zustand um dasJahr 1800”, cfr. a questo proposito: HansjörgDörr, Thomas Mann und Adorno. EinBeitrag zur Entstehung des “ DoktorFaustus”, in: “Literaturwissenschaftliches

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Jahrbuch der Görres-Gesellschaft“, NF, 11.vol., 1970, p. 285 sgg.). Della riuscitaoperazione di montaggio delle riflessioni diAdorno nel romanzo è ignaro testimoneBruno Walter, che, dopo aver letto ilmanoscritto del Faustus, attribuisce aThomas Mann le considerazioni filosofico-musicali che Wendell Kretzschmar fa nelcapitolo ottavo sull’ultima sonata perpianoforte opus 111 di Beethoven, in realtàformulate da Adorno durante le discussionicon lo scrittore nell’ottobre del ’43 e nelgennaio ’44: “Nie ist Besseres überBeethoven gesagt worden! Ich habe keineAhnung gehabt, dass Sie so in ihneingedrungen seien!“ (Briefwechsel, p. 21).L’assenso di Adorno al montaggio delleproprie riflessioni nel romanzo non è soloda ricondurre allo scetticismo condiviso conBert Brecht circa il concetto borghese diproprietà spirituale, pendant di quellamateriale, ma anche alla sua simpatia conla prassi manniana della citazione comeconfusione ludica dei confini tra realtà efinzione, una commistione eversiva rispettoall’ordine borghese già programmatica-mente elaborata nel Krull , dove - momentoquesto molto adorniano – Sein e Schein sitrovano tra loro in un rapporto dialettico eun’autenticità priva di apparenza non esiste.Se qualcosa è salvabile del concetto dioriginalità - così Adorno - è solo il rigorecon il quale un’idea viene portata alle sueestreme conseguenze. Del resto nonmancano nel romanzo ringraziamentinascosti ovvero espliciti all’indirizzo delfilosofo – Wendell Kretzschmar ad esempioscandisce il motivo dell’arietta del secondomovimento dell’opus 111 non solo conHim-melsblau o Lie-besleid, ma anche conWie-sengrund.L’atteggiamento di Adorno assume rilevanzaancor maggiore a fronte delle reiterateaccuse di Arnold Schönberg all’indirizzo diMann, riflesse nell’epistolario, di essersiimpossessato della teoria dodecafonica(Schönberg giunse fino al punto di spedirea Mann un articolo di suo pugno perl’utopica “Encyclopaedia Americana” del

1988 firmato con lo pseudonimo “HugoTriebsamen”, dove si legge che lo scrittoreThomas Mann, inizialmente musicista escopritore della tecnica dodecafonica,avrebbe tollerato in silenzio che uncompositore disonesto che risponde al nomedi Schönberg si impossessasse con la frodedella sua scoperta. Solo nel Doktor Faustusla paternità manniana della dodecafoniasarebbe stata palesata in modoinequivocabile, cfr. Briefwechsel, p. 40).Nemmeno la postilla che dal 1948 chiude ilromanzo sarebbe riuscita a placare l’ira delcompositore (Schönberg polemizzò sullaformulazione “das geistige Eigentum eineszeitgenössischen Komponisten undTheoretikers”: “Allerdings, in zwei oder dreiJahrzehnten wird man wissen, welcher vonuns beiden des andern Zeitgenosse war”, cit.Briefwechsel, p. 41).Se la corrispondenza tra Adorno e Mann sulFaustus è limitata solo ad alcune lettere, ilrapporto nato in questa circostanza è alla basedello scambio epistolare successivo, che duròfino alla morte dello scrittore. Mann si rivelalettore attento ed estimatore acuto dei lavoridi Adorno, dei quali loda l’“unglaublichhochgezüchteten kritischen Stil, der wie einDolch ins Fleisch der Dinge geht“(Briefwechsel, p. 140). Non solo i MinimaMoralia, ma anche il Kierkegaard, il Versuchüber Wagner, la monografia su Alban Berg,la Charakteristik Walter Benjamins ed altrilavori adorniani incontrano l’entusiasticoplauso dello scrittore. Il carteggio tocca poila situazione politica della Germania post-bellica, che Mann visiterà brevementenell’estate del ’49 per ricevere il Goethepreisa Francoforte ed a Weimar, escludendo peròcategoricamente un rientro definitivo (“NachDeutschland bringen mich keine zehn Pferde.Der Geist des Landes ist mir widerwärtig, dieMischung aus Miserabilität und Frechheit [...]abstossend”, Briefwechsel, p. 67).Diversamente Adorno, la cui insofferenzaverso l’irrealtà della Weimar californiana loinduce a rientrare dall’emigrazione, unascelta alla quale Mann del resto non nega lasua comprensione (“Ich gönne Sie den

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Deutschen nicht, aber zugleich fühle ich nurzu gut die Befriedigung mit, die IhrVerlangen nach Wirkungsmöglichkeit,Tätigkeit dort findet”, Briefwechsel, p. 75).Lo scenario che si offre all’esule è larimozione collettiva, agevolata dallacircostanza - acutamente osservata dalfilosofo - che la dittatura non è stata vissuta,al pari del sistema borghese, comemomento di “Identitätsstiftung” quantopiuttosto come possibilità demoniaca al dilà dell’identificazione. Chiamando pernome la rimozione, Mann – così Adorno inuna lettera - ha scatenato su di sé l’ira deitedeschi, e null’altro si legge nella lorocollera se non il tentativo di continuare arimuovere la colpa. Il rapporto dei tedeschinei confronti di Mann è d’altra parte segnatoda una fondamentale ambivalenza cheAdorno non manca di rilevare: “Es ist,psychoanalytisch gesprochen, unbe-schreiblich affektbesetzt – mit allerAmbivalenz, die in diesem Begriff gesetztist, mit unendlich viel Verborgenem,Verkorkstem, Verstocktem, aber doch auchmit der Liebe, die hinter Verdrängungensteht. Als ob sie gar nicht von Ihnenloskämen, aber, da sie zu lieben sich nichtgetrauen, schimpfen müßten“ (Brief-wechsel, p. 48).Se da un lato la disfatta e la prostrazionedel paese sono tali da rendere improbabilirigurgiti nazisti, non mancano d’altra partesintomi preoccupanti (ad esempio lariammissione di Heidegger e la riaperturadei Bayreuther Festspiele nel 1951) chesegnalano come il “metaphysischesBedürfnis” sia più che mai vivo nellacoscienza collettiva. Un clima che nontarderà a farsi sentire anche in ambitoaccademico: per riottenere la cattedraordinaria a Francoforte, che gli era statatolta nel 1933, Adorno dovette attenderefino al 1956 (nel 1950 ricevette unaaußerordentliche, nel 1953 una planmäßigeaußerordentliche Professur).Nelle lettere a Mann di Adorno riguardantil’università il filosofo sottolinea soprattuttol’interesse con il quale gli studenti

discutono problemi di metafisica come sefossero questioni politiche – forse, chiosaAdorno, perché la politica non c’è più - “Esist dafür besonders charakteristisch, daß esfast immer um Auslegungsfragen, kaum umsolche der Wahrheit einer Theorie selbergeht – ein Spiel des Geistes mit sich selber[...] Wie wenn der Geist, mit der Möglichkeitder Verwirklichung im Auswendigen auchvon seinem eigentlich theoretischen Objektabgeschnitten, in sich kreiste und sichbegnügte, die eigenen Waffen zu schärfen“(Briefwechsel, p. 47). La dissoluzione dellapolitica è anche il dileguarsi di ogni figuraconcreta dell’utopia e la conseguentenecessità di permanere teoricamente nellanegazione, un ascetismo che Adorno favalere di fronte alle richieste di unadefinizione concreta dell’utopia avanzate daMann: “Gäbe es nur je ein positives Wortbei Ihnen, Verehrter, das eine auch nurungefähre Vision der wahren, der zupostulierenden Gesellschaft gewährte! [...]Was ist, was wäre das Rechte?” (Brief-wechsel, p. 122). Forse Adorno formula unarisposta alla domanda di Mann sostenendoche l’utopia è inscindibile dallo Schein. Lapotenzialità utopica dello Schein deriva dalsuo carattere di Als-Ob, che ne fa protestacontro la realtà empirica, negazionedeterminata dell’ordine esistente(Ästhetische Theorie, Frankfurt am Main1997, pp. 511-512). In questo contesto è daintendere anche la critica che Adorno muoveagli elementi positivistici nel Marx maturo:“wenn er die Spannung zwischen demutopischen und positivistischen Element imSinn des letzteren auflöste und damitvorbereitete, daß der Sozialismus selber zueinem Stück der Produktionsmaschinewurde, so hängt das wohl mit einereigentümlichen Farbenblindheit gegen denSchein zusammen, ohne den es keineWahrheit gibt“ (Briefwechsel, p. 126-127).La centralità dello Schein per il pensieroadorniano si evince nel carteggio non daultimo dall’attenzione con la quale Adornosegue la stesura delle ultime operemanniane. Si tratta di considerazioni su Der

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Erwählte nella lettera del 25 agosto 1951,che Adorno considera come puntod’incontro tra Unordnung und frühes Leide lo Joseph, e del quale sottolinea la cautelacon la quale il tedesco viene „sospeso”,facendo emergere un mormorio, quasi unlinguaggio corrotto che realizza lapossibilità di una lingua europea impeditadai confini nazionali. Proprio talepromiscuità linguistica restituisce al livellodella forma il motivo dell’incesto comecritica dell’autenticità, tenera sovversionedegli ordini. Nella lettera del 18 gennaio1954 Adorno commenta anche la novellaDie Betrogene: del racconto il filosofosottolinea il carattere sovranamenteallegorico di parabola, che si articola comevariazione del motivo della vita che tendealla morte nella rappresentazione dellamorte che ribolle di vita, conducendo latematica schopenhaueriana della vanità delvivente ad un esito materialistico che lalibera dal suo carattere ideologico. Ma èsoprattutto il Krull l’opera verso la qualeAdorno mostra maggiore interesse - epreoccupazione, a fronte dei dubbi cheMann stesso nutriva circa la continuazionedi un progetto risalente al periodoprecedente la prima guerra mondiale eormai, secondo lo scrittore, superato dalloJoseph. Ciò che affascina Adorno è la catarsidell’umorismo (riassunta con una frase diNietzsche: “Die witzigsten Autorenerzeugen das kaum bemerkbare Lächeln”)come liberazione dall’incantesimo cattivodella fantasmagoria borghese che il filosofoaveva così instancabilmente criticato inWagner. Compromettendosi umoristica-mente, l’opera smentisce il fantasmagoricooccultamento della produzione attraversol’apparizione del prodotto e realizzaconcretamente qualcosa che alla filosofiapare eternamente sfuggire. In questeconsiderazioni frammentarie si intravedeche cosa Adorno abbia inteso coninterpretazione in senso filosofico, che nonsignifica parafrasi o commento delcontenuto filosofico, bensì liberazione delcontenuto filosofico coagulatosi nella forma

- “eine so formidable Aufgabe“, scriveAdorno, “daß man das Gruseln darüber lernenkann“ (Briefwechsel, p. 82).

Mario Zanucchi

Grazia Pulvirenti, Oltre la scrittura.Frammento e totalità nella letteraturaaustriaca moderna. Prefazione di GiorgioCusatelli, Pasian di Prato, Campanotto, 2002,pp. 209 (con ill.), € 18,00

Da una parte abbiamo la crisi del linguaggio,il naufragio dei parametri conoscitivi e ladeflagrazione delle forme della rappre-sentazione artistica nella cultura austriaca intransito tra Ottocento e Novecento, in cui silegge il malessere di una società avviata allasua più acuta forma degenerativa; dall’altrala positiva spinta dell’artista a reagire allacorrosione dei valori morali con l’espe-rimento della “forzatura del segno“, che liberail discorso poetico dal condizionamento dellaparola e lo affida a nuovi principi formalimediati dalla musica e dalla pittura. “Ilprocesso di ‚Emanzipation der Dissonanz‘ -scrive Grazia Pulvirenti nel primo capitolodel suo saggio Oltre la scrittura. Frammentoe totalità nella letteratura austriaca moderna- innescato da Schönberg nel primo decenniodel Novecento, insieme al nuovo principiodella “necessità interiore“, postulato daKandinsky nel suo trattato, hanno contribuitoalla trasformazione del concetto stesso diunità dell’opera in ogni campo artistico“ (p.30). Tuttavia, prima di conseguire questorisultato, in cui il principio della fram-mentazione e la percezione della totalitàassente diventano fattori propulsivi di unaletteratura e di un’arte non più in concorrenzatra loro, autori come Hofmannsthal hannodovuto fare i conti con il visionarioisolamento dell’artista che si adopera - perdirla con Hermann Broch - ad assoggettare ilproprio narcisismo a una disciplina, e asuperare il disagio della Storia non cedendoal nichilismo.

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Ciò spiega l’esperienza dell’impotenzalinguistica di cui è costellato il testo di EinBrief di Hofmannsthal, ma anche la ricercadi Stifter di corrispondenze tra i segni “chesvelino sensi profondi e inesprimibili“ (p.44). Christian Begemann in Die Welt derZeichen. Stifter- Lektüren (1995) ha giàanalizzato efficacemente come il malessereepocale di cui Stifter tracciava il profilo neisaggi contenuti in Wien und die Wiener inBildern aus dem Leben (1884) locostringesse ad accomiatarsi per sempredalla speranza di trovare un principioorganico per un progetto futuro e a trovarerifugio in uno spazio intermedio traplurivocità e indefinitezza del segnoartistico. Ma proprio in questa potenzialitàespressiva s’incunea il progetto teorico diGrazia Pulvirenti, che segue l’esperimentocreativo di quattro interpreti della letteraturaaustriaca moderna (Stifter, Hofmannsthal,Trakl e l’ignorato Janowitz) leggendonecontemporaneamente l’esito sulla base di unmestiere connotato da diverse ecomplementari attitudini espressive e apartire dal prodotto artistico stesso, inquanto risultato del lavoro sinestetico.Questo modo di porsi costruttivamente difronte al fenomeno del superamento dellascrittura risolve l’impasse in cui si eradibattuto persino un gigante come TheodorW. Adorno, che considerava “incom-mensurabili“ le singole arti e rifiutava ogniforma di critica artistica che si appoggiasseallo strumento della comparazione. Im-pegnandosi a individuare il non-identico inciò che è identico per poter descrivere ilrapporto dialettico esistente tra espressioniartistiche eterogenee, Adorno si riduceva adefinire „linguaggio“ ogni forma didicibilità artistica, limitandone alquanto lacomplessità relazionale.Nello studio di Pulvirenti, il concetto cuitende l’interpretazione viene felicementesacrificato all’indagine incrociata nel campodelle arti, cosicché, ad esempio la disaminadi cinque gruppi tipologici in cui lasuggestione coloristica sembra aprire, inmodo diverso, lo spazio della visione

nell’opera letteraria, viene corroboratadall’individuazione del diverso uso delcolore nelle varie fasi della produzionepittorica di Stifter. Hofmannsthal, invece,lacerato dal dilemma tra una realtà checonsidera infinita e l’opera d’arte, che deverendersi visibile e finita nello spazio dellasua espressione, risolve il conflitto nellatotalità dell’evento teatrale, un agglomeratodi musica e gesto scenico in cuiparticolarmente quest’ultimo divienesurrogato della carente significazione delsegno linguistico. Ma il ductus letterario incui s’inscrive il progetto teorico di Pulvirentinon segue solamente il movimentoorizzontale dello sguardo incrociato tra learti o quello sincronico all’interno dellesingole esperienze poetiche. L’occhiorimane costantemente rivolto alla tradizioneculturale austriaca e all’eredità dei suoimomenti più sublimi, che si riflette nellaprosa e nella lirica austriaca tra Otto- eNovecento, come si vede sull’esempio dellemolteplici influenze musicali checonvergono nell’opera di Trakl. Ma comenel Rinascimento non era possibile risalireal concetto che guidava la mano dell’artistacavando dal complesso di un’impresageniale l’indicatore del talento nelle varietecniche di manipolazione della materia,così la germanista arretra talvolta di frontealla tentazione di definire fino in fondo l’artedei suoi autori, raggiungendo i miglioririsultati con uno stile denso di lessemievocativi e di eleganti suggestioni formali.Così la combinazione di sostantivi e colorinella lirica di Trakl “si basa sempre più suun gioco di impertinenze sul piano logico“(Das Herz, 1914), così il presuppostoesistenziale e la strategia di significazionedi Janowitz (1892 - 1917) si incontrano nella“attivazione di memorie sopite e latenti distati di pregressi di fusione tra individuo etutto“ (p.140). Questo ci conferma ancorauna volta che “parlare dell’indicibile“ èpossibile solo incontrandolo in una parolache lo re-inventi o lo riassorba ad un più altolivello, per non rinunciare a contemplarlonell’immagine. Spesso questa immagine è

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frammento, residuato, brandello, l’esilelinea che separa la pagina bianca dallaprima lettera. In altri casi è estro evocativo,di cui è bene conoscere i limiti:“Ripercorrere i sentieri lungo i quali si sonoaggirate le Muse inquiete, dopol’abbandono della loro dimora, è impresapericolosa, ma al cui fascino è difficilesottrarsi. Le vie si incrociano e spesso siconfondono; di molte si è cancellato ilricordo; altre conducono a precipizid’insondabile profondità. Inevitabile è ilrischio di smarrire il cammino, per ledifficoltà di un’analisi semantica plurivocache riesca ad affrontare non tanto strutturein sé omogenee, quali quelle di un’operamusicale o letteraria, quanto piuttostofigurazioni culturali articolate e complesse“(p. 149).Dobbiamo tuttavia constatare che queste“Muse inquiete“ (Macchia, L’elogio dellaluce, 1990, pp. 7-8), che Pulvirenti ha elettoad emblema del suo pellegrinaggio tra learti, continuano ad aggirarsi sulla scenadella letteratura austriaca contemporanea,se Ilse Aichinger, notoriamente “poetessadel silenzio“, ha deciso di consegnare aifotogrammi di vecchi film e a foto d’albumle emozioni di questi ultimi anni. La terzaforma di espressione, quella che si situa tral’immagine e la parola, è spesso la sincopeche elude il riferimento al passato e al futuroe risolve l’insufficienza del linguaggio. Ein Film und Verhängnis. Blitzlichter auf einLeben (2001), come recita il titolo,l’immagine è quel frammento di vita chescongiura il rischio di una sovraesposizionedel soggetto, con i suoi ricordi personali,rispetto alla memoria storica. In altri casi èespressione di un tentativo di far “riviveremorte stagioni dell’animo attingendo, nellospazio del sogno, a una totalità primigeniaormai infranta“ (Pulvirenti, p. 138). Infatti,non solo le immagini creano di volta in voltanuove immagini e forme di immaginazione,ma producono anche, talora con fantasia edefficacia anche maggiore, parole e testi. Neiversi di Janowitz si scopre la grandecoreografia di un mondo pietrificato in cui

l’uomo è solo un ospite di passaggio, checerca un approdo nel ricongiungimentoonirico con una totalità primigenia ormaiinfranta. Le orbite vuote, il volto tragico: cosìJanowitz immagina il poeta moderno che,sopraffatto dal dolore per il sangue sparso conle guerre fratricide, non è mai stato così similead Omero.Nel suo saggio sul problema delle forme,Kandinsky scriveva: “L’irresistibile impulsodell’arte attuale a rivelare il fattorecompositivo nella sua purezza, a svelare leleggi destinate a guidare la nostra grandeepoca, è la forza che costringe gli artisti atendere, per vie diverse, a una medesimameta“. Svelare i segreti della composizionein un quadro - pittorico, teatrale o letterarioche sia - di elementi astratti e reali eindividuare le radici del processo che rendepossibile agli autori della finis Austriaeun’operazione di produttiva Entgrenzung, èun’ardua impresa, che può dirsi in buona partefelicemente risolta nelle pagine di Oltre lascrittura.

Elena Agazzi

Susanna Böhme-Kuby, Non più, non ancora.Kurt Tucholsky e la Repubblica di Weimar,Genova, il melangolo, 2002, pp. 223, € 20

Susanna Böhme-Kuby affronta, racchiu-dendole in una sintesi, la vita e l’opera di KurtTucholsky secondo un’ottica che traspare giàcon tutta evidenza dalla breve introduzioneposta a capo del suo studio e, ancor di più,dal florilegio di testimonianze (fa invero uncerto effetto sentire che una frase come “Èuno di quelli che infilo sempre in valigia, ognivolta che mi metto in viaggio”, detta aproposito di Tucholsky, viene dalla bocca diHelmut Kohl) e dal testo di Tucholsky che laprecedono: Gruss nach vorn, “Saluto inavanti”, una sorta di editoriale scritto nel1926. In esso l’autore berlinese si rivolge aisuoi ipotetici lettori del 1985 e in poche righeemette una sentenza, resa stralunata ma non

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meno pungente dall’ironia della distanza,sul proprio tempo e sulle sue contraddizioni,sotto il trasparente riparo dell’invocazioneai posteri. Quanto differisca, privata com’èdel sostegno di una dottrina politicapositiva, la visione di Tucholsky da quelladi un Brecht (inevitabile il confronto) cheugualmente, in An die Nachgeborenen,descrive il presente attraverso la lente delfuturo, lo si legge e Böhme-Kuby lo leggenelle rispettive chiuse. Da una parte, inquella brechtiana, l’orizzonte si fa – ancheforzatamente – utopico e nel futuro siproietta il superamento delle contraddizionidell’oggi, mentre dall’altra Tucholsky, chescrive una decina d’anni prima di Brecht,sembra assegnare connotazioni ontologicheal caos inerente al suo tempo, facendocadere ogni speranza nella progressivitàdella storia e del divenire umano: “Vai conDio, o comunque chiamerete allora quellacosa lì. Evidentemente non abbiamo moltoa dirci, noi mediocri. La nostra vita si èconsumata, il contenuto è scomparso connoi […] Ma questo ancora voglio gridartidietro: Voi non siete migliori di noi, enemmeno di quelli che c’erano prima.Neanche un po’, ma neanche un po’” (p.12).È l’interpretazione politica, quella cheBöhme-Kuby privilegia, scavando nella suacapillare ricognizione della vita e dell’operadi Tucholsky un percorso che illumina larelazione-reazione che l’autore tedescoinstaura con la sua epoca e ponendo altempo stesso le premesse per una suaattualizzazione nella nostra realtà. Tutto ciòemerge nella già rammentata introduzionecome compito programmatico: “Chi scriveritiene che l’opera di Tucholsky meriti diessere conosciuta meglio anche in Italia, eparticolarmente nella situazione odierna, inquanto affronta temi e tendenze ancora onuovamente di grande attualità. Lospostamento sempre più a ‘destra’ di unsempre meno definito ‘centro’ politico edella società nel suo insieme, laframmentazione delle sinistre e dellediverse tendenze pacifiste di fronte alla

crescente militarizzazione a livellomondiale, che provoca per l’opposizionerimozioni paralizzanti, nonché la crescentenecessità di difesa dei diritti umanifondamentali – tutti questi aspetticonferiscono alla testimonianza delpubblicista politico Tucholsky una sor-prendente attualità” (p. 21).E lo studio, difatti, senza trascurare gliaspetti compresenti più che collaterali delTucholsky lirico, chansonnier, narratore, siconcentra sulla pubblicistica politica,secondo il duplice criterio cronologico ebiografico, come biografici sono stati delresto nel corso del tempo molti degliapprocci critici a questo autore in cui profiloumano e produzione letteraria appaiono piùche in altri strettamente intrecciati (si vedaad esempio lo studio di Michael Hepp, KurtTucholsky. Biographische Annäherungen,1993). In questo caso, il lavoro di Böhme-Kuby sembra così organizzato più perseguire il filo di una coerenza, non consentitada un ordine puramente tematico oppure dauna scansione per generi, piuttosto che peravvicinare una personalità che resta sempresfuggente e il cui interesse è in fondosecondario rispetto all’opera. Böhme-Kubyricostruisce così in quattro capitoli lavicenda umana e letteraria di Tucholsky,ognuno dei quali è assegnato a uno spaziotemporale e al tempo stesso spaziale,geografico. Più vasto e vago il primo, in cuidell’autore berlinese sono ricostruiti losviluppo e gli esordi (Dal Reich allaRepubblica di Weimar - 1890-1918), via viapiù serrati i successivi che si concentranosu periodi più ristretti (Berlino – 1919-1923;Parigi – 1924-1929; Svezia – 1930-1935);un capitolo a parte è quello finale, dedicatoa La fortuna postuma, in cui vienerapidamente riepilogata la storia dellaricezione di Tucholsky nel dopoguerra, conl’uso diverso e spesso strumentale che se nefece sui due versanti della Germania divisadapprima e in quella riunificata poi.Nel primo capitolo sono tracciate soprattuttole coordinate sulle quali Tucholsky nel corsodegli anni costruirà la propria personalità e

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il proprio profilo di scrittore: le originiborghesi, l’ascendenza ebraica, i primiviaggi, gli incontri, le affinità (uno spaziosignificativo è dato alla fascinazione cheTucholsky, ventunenne, prova nei confrontidi Kafka, incontrato a Praga grazie allamediazione di Max Brod, e che aprirà lastrada a un significativo apprezzamentodelle sue opere, concretizzato in diverserecensioni nel corso degli anni), fino alleprime pubblicazioni e al successo diRheinsberg nel 1912 - in cui Böhme-Kubyindividua, al di là degli elementi di godibilitàche ne garantirono la fortuna, un ulteriorecapitolo di quella rivolta contro la moralesessuale di cui Wedekind era all’epoca ilprincipale sacerdote - e al sodalizio conSiegfried Jacobsohn che dischiude aTucholsky le porte della collaborazione con“Die Schaubühne”, sulla quale comin-ciarono ad apparire i famosi articoli scrittisotto i numerosi pseudonimi che vanno acomporre come un variegato mosaico ilritratto di questo autore.In questa fase si delinea il modulo cheresterà costitutivo per gli anni a venire: lacaricatura (caratterizzata come “compren-sione nel suo nucleo più profondodell’oggetto stesso dell’arte”, p. 41), la satiracome approccio privilegiato all’esistente estrumento irrinunciabile di conoscenza(l’applicazione militante di Tucholsky daparte di Böhme-Kuby tocca qui uno dei suoifronti più spericolati, laddove si argomentache, stante la necessaria, continua con-flittualità dell’autore satirico con l’autorità,“la destra non sarà mai capace di produrrebuona satira artistica”, p. 41). La fasesatirica, sostanzialmente ottimista perquanto riguarda la possibilità di interventosul reale attraverso la scrittura, verrà poimeno negli anni successivi, quando“l’ottimismo della speranza perderà la suaragion d’essere” (p. 42). La disillusione diTucholsky passa attraverso la disillusionegenerale degli anni di Weimar in cui gliintellettuali che, come lui, avevano puntatosu una “rivoluzione dello spirito” (p. 61)sono sconfitti da quella “cultura di epigoni”

(Cases) che lascia campo libero a rimestatorie avventurieri senza cultura e senza scrupoli.Nel contesto dello scenario weimarianopostbellico Böhme-Kuby delinea unTucholsky in continua lotta – dapprima pienadi velleità, poi sempre più disperata – controi feticci della nascente società di massa, allaquale cerca di opporre “una fede nel-l’alternativa” (p. 62) che ponga le premesseper contrastare la fondamentale illiberalitàdella società tedesca. Si pone a questo puntoil problema di come l’individualismoestremo, ripetutamente e giustamenteindicato da Böhme-Kuby come cifracostitutiva della visione di Tucholsky (e cuiin buona sostanza si deve il rifiuto degli idealidella rivoluzione bolscevica, nonostante i flirte la collaborazione assidua con la stampa disinistra), si ponga in autentico antagonismocon quella “cultura di destra” che afferma diavversare. In realtà, quella di Tucholsky nonè la presa di distanza elitaristica esostanzialmente reazionaria che diversiintellettuali intrapresero di fronte allavolgarità della destra dilagante, ma un rigettoche si nutre della consapevolezzadell’arbitrarietà e dell’obsolescenza dellestrutture di fondo su cui si regge la societàcontemporanea e in cui mostri come ilfascismo trovano il proprio brodo di coltura.In questo senso la virata verso la Francia e lacultura francese, cui si accompagna dal 1924la presa di domicilio a Parigi, è una rispostaprecoce alla deriva sempre più senza ritornointrapresa dalla Germania. I limiti di talerisposta sono anche gli stessi, tuttavia, chefanno la sua forza iniziale: la proiezioneutopica dei primi anni, testimoniata dallamole impressionante di corrispondenze e diarticoli che segna quella fase della produzionedi Tucholsky, cede il passo a un sempre piùradicale scetticismo democratico. Böhme-Kuby ben sottolinea come, alla metà deglianni Venti, Tucholsky si avvicini a posizionidi maggiore estremismo (che non coincidonoperò mai, nonostante occasionali alleanzestrategiche, con un’adesione alle posizionimarxiste: sull’onda di una sensibilitàcondivisa da altri esponenti dell’intelli-

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ghenzia rivoluzionaria dell’epoca comeErich Mühsam, Tucholsky ravvisa nelprocesso di consolidamento del movimentocomunista europeo le tracce di un crescentedogmatismo che prelude a un suoirrigidimento e imborghesimento),cogliendo nel parlamentarismo, e non soloin quello tedesco, una sostanziale debolezza,un paravento per i grandi interessi, “unaforma di velata dittatura che garantisce ildominio della borghesia sulle massepopolari” (p. 104). Conferma a taleinterpretazione è in fondo l’ingresso dellaNSDAP nel parlamento tedesco, nel 1930,quando Tucholsky viveva ormai da un annopresso Hindås, in Svezia: da allora e inpratica fino alla morte (nonostantel’affermazione del 1932 di “non volerpubblicare più nulla”, p. 156) l’attivitàletteraria di Tucholsky si concentra controil bersaglio nazionalsocialista. Loscetticismo radicale cui è improntata laproduzione di questi ultimi anni, letto da piùparti come un disimpegno, è in realtà – ecome tale lo interpreta Böhme-Kuby proprioalla luce delle tematiche antinaziste cheaffollano la produzione di questo periodo –un rifiuto della prospettiva consolatoria allaquale si aggrappano molti emigranti“forzati” di quegli anni: ovvero che vi sia“un’altra Germania, al momento sconfitta,ma in futuro sicuramente vincente” (p. 159).Per Tucholsky la salvezza passa da un’altraparte, ha radici nell’illuminismo francese,tenta di saldarsi, senza abbracciarle in toto,alle grandi rivoluzioni conoscitivedell’Ottocento e del Novecento – ilmarxismo, l’anarchismo, la psicoanalisi –e scavalca il presente, per non avere forsemai luogo (tornando a quell’iniziale eazzeccata invocazione ai posteri), se noncome prospettiva utopica insieme vincentee perdente.

Alessandro Fambrini

Giuseppe Dolei, Voci del Novecento tedesco,Catania, CUECM, 2001, pp. 219, € 12, 91

L’esigenza di un bilancio critico dell’arte odella letteratura del secolo trascorso ci ponedi fronte ad una molteplicità di fenomeni edi percorsi non lineari, di tendenzecontraddittorie e per lo più contrarie ad ognisforzo definitorio e generalizzante, chesoddisfarla secondo un tradizionale spiritodi compendio appare oggi impresa disperatae votata all’insuccesso. Una soluzione puòessere allora quella di giustapporre alcunedelle sue ‘voci’ lasciando che, oltre laspecifica individualità di ciascuna, affiorinoindirettamente, se esistono, legami trasver-sali, rapporti sotterranei e obliqui ad indicareaffinità e parentele non più rubricabili sottoetichettature astratte o proposizioni teoriche.Nel volume di Giuseppe Dolei le “voci”appartengono a nove scrittori del Novecentotedesco, dagli inizi del secolo agli anniOttanta del medesimo, ai quali corrispon-dono dieci saggi redatti e pubblicatidall’autore tra il 1979 e il 1998. Il “filorosso” che lega insieme profili tra loro anchemolto diversi non va ricercato tuttavia soloin ciò che si dichiara nel “Proemio” comeuna benemerita “volontà di capire” (p. 7),ma anche in quelle trame comuni, sottili eprofonde, che emergono attraverso unacostante prospettiva di studio: interrogata sulsuo rapporto con la storia, letta sempre nelsuo difficile confronto con la realtà fattuale,la letteratura tedesca del Novecento si vienea collocare in una sua specifica dimensionetragica. Sullo sfondo di una crisi culturale,che indubbiamente accomuna nel segno deltragico tutte le espressioni artistiche eletterarie europee del XX secolo, l’approcciodi Dolei rende possibile individuare nellastoria letteraria della Germania e dell’Au-stria moderne le coordinate di una‘polifonia’ tutta tedesca. All’interno diquesto coro, per insistere con la metaforamusicale, le voci si dispongono ecorrispondono come in un contrappunto: daun lato abbiamo la linea austriaca (Trakl,Musil, Bachmann, Zweig), dall’altro la linea

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della Germania divisa (Böll, Kipphardt,Weiss, Wolf, Johnson).La prima, segnatadall’incapacità di un rapporto diretto con lapolitica e la storia, ma da altrettantasensibilità alle ragioni psicologiche,sociologiche e culturali del disagioindividuale, rende queste ultime filtro di unalettura del Moderno che, di là dallacontingenza di questa o quella guerra,giunge a mostrare le radici malate dell’interaciviltà occidentale. Il primo grande esempioè la poesia di un ‘classico’ come Trakl, laquale, resistente ad ogni classificazione echiusa anche alla trasmissione ereditaria, haassimilato e accolto la catastrofe bellica inun’esperienza universale del male che ètanto più assoluta quanto più inettoall’impegno risulta il suo autore. In RobertMusil si trasforma, ma sostanzialmente nonmuta, il “disagio” dello scrittore “neiconfronti della storia” (p. 25). Il confrontodi Musil con la drammatica contempo-raneità delle due guerre si esprime, inmaniera più e meno diretta, sia nei saggi sianel romanzo L’uomo senza qualità. Tuttaviaquesto deliberato impegno si scontra poi,alla prova della scrittura, con un’“arretratezza intellettiva” che lo destituiscedi forza, lucidità e incisività. In altre parole,come e forse più che in Trakl, la letteraturamusiliana non elude il confronto con lastoria, ma si rassegna alla denuncia dellapropria impotenza. L’ironia rivolta daUlrich-Musil all’autenticità dei fatti e, ancorpiù, alla pretesa di raggiungerne mai unavera conoscenza, aggredisce il fondamentostesso del sapere storico, rifiuta cioè la storiacome processo portatore di senso. Ilparadosso che inchioda Ulrich - e Musilstesso - sulla “diagnosi dei mali delpresente” (p. 40) ci mette perciò di fronte“ad un’equazione tra vita e letteratura” nellaquale “il bilancio negativo sulla primafinisce per gettare ombre inquietanti sullaseconda” (p. 38). L’universo del “senso dellapossibilità” si edifica infatti su una “forzatarinuncia alle provocazioni del potere” (p. 40)che è, in altre parole, una rinuncia ad operarecomunque una scelta nel mondo reale,

nonostante la coscienza della natura aleatoriadi ogni morale positiva cui tale scelta, cometale, risponderebbe. L’etica aperta di Ulrich-Musil sfocia invece in un passivo e per questo“nobile disimpegno” (p. 37), nel quale Doleici induce a cogliere un minimo comunedenominatore tra lo scrittore e l’altrimentidiversissimo Stefan Zweig, cui è dedicato ilsaggio conclusivo del volume. Conun’ingenua fiducia nei “valori dell’anticocosmopolitismo umanistico” (p. 202) e nel“primato assoluto dell’arte” (p. 203), Zweigsi iscrive ad un pacifismo astratto che rendela sua rievocazione del “mondo di ieri” tantopiù affascinante, quanto più i valori e disvaloridi questo mondo sono perduti per sempre.Sono gli stessi valori nei quali Zweig non hamai smesso di credere e che affida allaletteratura non solo perché questa se ne facciacustode, ma anche perché la letteratura sipresenta sempre a Zweig come l’alternativadell’umano contro la barbarie della politica.Una tale separazione tra arte e politica lorenderà a lungo miope nei confronti delnazionalsocialismo e dell’avanzare di quella“Europa delle patrie” che si veniva edificandoproprio sulle ceneri dell’ “Europa dellelettere” nella quale Zweig ha fino all’ultimoriposto la sua fede (p. 218). Sebbenel’anacronistica nostalgia della Welt vongestern non occulti le ipocrisie e le violenzeche attraversavano l’altrimenti rispettabileimpero asburgico, a Zweig manca queltragico disincanto sul fallimento della nostraintera civiltà che rende ragione dell’impo-tenza di Ulrich e, nello stesso tempo,dell’attualità dell’opera musiliana. Taledisincanto si ritrova invece in IngeborgBachmann, scrittrice che, non a caso, si èdetta e sentita molto vicina a Robert Musil.Con i due saggi sulla sua lirica,rispettivamente del 1986 e del 1996, Dolei,in controtendenza rispetto ad una letteraturacritica ormai prevalentemente concentratasull’opera in prosa, indaga la genesi dellaprima a partire dalla seconda, per sottolineare,non in ultimo, la coerenza e la continuità diquesto universo poetico attraversato da unradicale pessimismo. Per Bachmann poesia

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e storia, arte e politica non costituiscono piùun’alternativa, poiché – secondo la sueparole riportate dall’autore - “fare poesianon si può al di fuori della situazionestorica” (p. 105). Si impone allora ladomanda su come si esprima la storia neiversi difficili di questa scrittrice, su come ilverso divenga, se diviene, uno strumento dilotta e di impegno. I saggi di Doleirispondono con un’analisi attenta dinumerosi testi lirici, nei quali si mostracostantemente l’ordine paradossale di undiscorso poetico che lavora nello “spaziostorico” del linguaggio contro il linguaggiostorico, contro la “lingua da furfanti” cheasseconda la sopraffazione, l’assuefazionee la violenza (pp. 116 sg.). Nella storiacontro la storia: così Bachmann haconcepito la sua militanza poetica,decidendo di abbandonare la lirica nelmomento in cui questa, sempre in bilico trarelativo e assoluto, tra tempo e utopia, tradiscorso e musica, ha minacciato di perderel’equilibrio verso la seconda di questedimensioni. Sui modi e sulle ragioni diquesto passaggio si concentra il secondodegli studi dedicati alla scrittrice austriaca.Nei versi del congedo di Lieder auf derFlucht, ciclo conclusivo del volumeAnrufung des großen Bären, Dolei,nuovamente insistendo sulla continuità trale due forme espressive scelte dallascrittrice, individua una soggettività che,mentre si dice ferita a morte dalla storia,consacra per l’ultima volta, orficamente, nelcanto, l’assoluto dell’esperienza d’amore,prima di esporla, nella prosa, al tragicoscontro con il linguaggio stesso che l’haferita. Dalla scrittura impegnata di IngeborgBachmann alla prosa militante di ChristaWolf, che nella Bachmann ha espressamentericonosciuto uno dei suoi più importantimaestri, il passo è breve. Più in generale, labachmanniana “estetica della resistenza”sembra costituire nel panorama disegnatodall’insieme dei saggi, il ponte ideale tral’impronta latamente esistenzialista degliscrittori asburgici e quella piùdichiaratamente impegnata degli scrittori

della Germania divisa. Il percorso di ChristaWolf dalla Moskauer Novelle al raccontoKein Ort. Nirgends, ultima pubblicazionedell’autrice quando è stato scritto il saggio,ne mostra il progressivo distaccodall’estetica e dall’ideologia socialisteattraverso strategie narrative sempre piùardite e impopolari, le quali, non a caso,tradiscono la coscienza di una forza eversivadel linguaggio che era stata già dellaBachmann. In questa evoluzione Kein Ort.Nirgends, come già intuiva Dolei nel 1979,costituisce una tappa importante: per laprima volta Wolf tratta una materia estraneaalla realtà della DDR, il raggio della suaanalisi critica si allunga all’indietro verso ilromanticismo tedesco e già qui trova formedi intolleranza e di emarginazione. Perquanto fosse difficile allora “prevedere losviluppo di uno scrittore che si trova[va]ancora nel bel mezzo della sua attività” (p.180), nella reazione fredda del pubblicooccidentale alla pubblicazione diquest’opera Dolei riusciva a captare, per vianegativa, la direzione futura della scritturawolfiana verso un irriducibile anticonfor-mismo e un’ostinata militanza letterariacontro ogni forma di repressione ideologica.Nella stessa sofferta equidistanza critica enella polemica congiunta contro i duesistemi di potere ‘riassunti’ sul territoriotedesco, due autori, per molti aspetti assaidiversi, come Christa Wolf e Uwe Johnsonvengono a trovarsi vicini: “Dal nazismo allostalinismo, e da questo al capitalismo: ‘KeinOrt. Nirgends’ (‘Non c’è posto per me’),potrebbe, come per il Kleist di Christa Wolf,suonare il bilancio di Gesine Cresspahl” (p.183), la protagonista della tetralogiaJahresstage (1970-1983). “Analogamentealla Christa Wolf di Kindheitsmuster”Johnson si confronta col passato nazista, manell’esplorarne il retroterra sociologico epolitico, si rende conto attraverso gli occhidisincantati di Gesine, rifugiata in America,che “ad Est come a Ovest il potere politicoesibisce un volto paradossale: invisibile eonnipotente allo stesso tempo” (p. 183). La“Svizzera morale”, che Christine vanamente

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cerca, corrisponde alla Germania ideale cheil suo autore non si stanca di rappresentare“al di sopra delle due entità statali che glifurono ugualmente e irrimediabilmenteestranee” (p. 181). Il doppio rifiuto di unapatria scissa e, nello stesso tempo, unita solodalla negazione della democrazia, ha spintoUwe Johnson, al pari di Christa Wolf, versola sperimentazione di tecniche narrative che,in un modo o nell’altro, rendessero conto diquesto incrocio di piani diversi e coincidentinella sconfitta dell’ideale democratico. LaKulturpolitik caldeggiata dall’ideologiasocialista e da questa sempre costretta entrogli stretti binari di una più o meno patenteautocelebrazione, trova una sua realizzazio-ne alternativa e polemica nell’invenzione dimodi e forme che raccontano una storiadiversa, che ‘militano’ contro il discorso delpotere. Anche Peter Weiss, nell’Esteticadella resistenza (1975-1981), “non esita ascompigliare le regole della tradizioneletteraria” (p. 84) e crea “un modelloalternativo di Bildungsroman” (p. 89)modificandone le premesse: la formazione,la funzione e il punto di vista dell’io narrantesono quelli di un operaio che, come tale,manca dei presupposti sociali e di classe perpoter parlare di ciò che riguarda il suo stato,il suo privato, la sua psicologia nelle formedel tradizionale individualismo. Attore etestimone insieme della sua storia, l’ionarrante sembra non poter parlare per Weissse non attraverso un discorso collettivo cheal tempo stesso lo costituisce come soggettopolitico e letterario nel corso della storia.L’arte, scoperta ed esaltata nel corso delromanzo come una possibilità di“liberazione dal dominio di classe” e di lottaall’ “idolatria del potere” (p. 96), si certificadunque tale nella scrittura stessa del testo.La resistenza, elevata “a norma assolutaattraverso la storia delle sue sconfitte” (p.102) sembra offrire a se stessa una nuovachance nell’atto letterario. Da Christa Wolfa Peter Weiss, questa letteratura tedesca cheè maturata nel rapporto critico con le idee ela politica socialista, muove congiuntamenteverso la costruzione di una scrittura che trae

la sua dimensione politica dal confronto vivocon il materiale principe della trasmissionestorica: il linguaggio. Una voce scontenta epolemica contro la falsa democrazia e laviolenza della Germania capitalista è anchequella di Heinrich Böll, al cui romanzoFürsorgliche Belagerung (1979) è dedicatoil saggio (del 1979): L’ultimo Böll tra idemoni del capitalismo e le lusinghe delsocialismo. Se una frustrazione analoga difronte ai due regimi apparentementealternativi della Germania modernaaccomuna Heinrich Böll ai suddetticontemporanei (Böll è, tra l’altro,particolarmente caro a Christa Wolf), lodistingue invece non solo la tentata terza viadi un cattolicesimo poco credibile nellafunzione mediatrice che Böll gli attribuisce,ma anche, sembra implicitamente suggerirela critica rivolta da Dolei alle molte carenzedel romanzo, la mancata cura delle strategienarrative, il diverso rapporto di Böll con lascrittura. Sebbene questi, per indole e perscelta, inclini di preferenza verso unaletteratura del documento piuttosto che versouna letteratura del discorso, proprio “la chiarainsufficienza della documentazione storica”(p. 71) imputata a Fürsogliche Belagerungimpedisce al “cronista della storia tedesca”(p. 71) di ritrovare la sua classica misuranarrativa. Il tema, storia di un editoreminacciato dal terrorismo in una societàattraversata da contraddizioni e tensioni, è diquelli, scrive Dolei citando Heinar Kipphardt”sui quali difficilmente si può scrivere senzail sostegno della prova e che hanno bisognodi un’autenticità oggettiva” (pp. 71 sg.). Conqueste stesse significative parole si apre ilsaggio sugli esordi di Kipphardt romanziere(1979, pp. 41-65). Si tratta ancora una voltadi presentare la continuità di uno scrittore nelpassaggio da un genere all’altro, in questocaso dal teatro al romanzo: “contenutodocumentato” (p. 45) nell’uno e nell’altrocaso, “documento quale componente essen-ziale della letteratura che voglia mantenerecredibilità alla rappresentazione di certiargomenti di interesse generale” (pp. 44 sg.).März (1976), il romanzo discusso, racconta

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la storia di uno schizofrenico, persmascherare, attraverso la descrizionecompetente e precisa di metodi e terapiepsichiatriche, il silenzioso e unanimecomplotto sociale che vuole l’emargina-zione del diverso e la sopraffazione di cuile cosiddette “terapie” lo rendono vittima.La critica del sistema capitalista e dellacomplice psichiatria è svolta dall’interno,implicita nella contraddizione tragica tra“una realtà oggettiva precostituita e iltentativo individuale di modificarla” (p. 56).Nello scontro fra queste due impari forzeMärz, il protagonista, soccombe infatticome l’eroe tragico, ma, fa notare Dolei,diversamente da questi, non può salutarenella vittoria del reale la giustizia di unordine superiore. L’irreligiosa violenza delsistema genera una tragedia vuota, unatragedia che non costruisce più sullasconfitta dell’eroe il ponte dialettico tra ilsoggetto e l’ordine collettivo della storia.Attraversata e variamente connotata daquesta lacerazione, la letteratura degli autoriraccolti nel volume di Dolei ci proponedunque, se vogliamo tornare a quel “filorosso” cui si accennava all’inizio di questenote, le diverse declinazioni che ilNovecento tedesco ha saputo dare ad unsacrificio soggettivo solitario cheapparirebbe inutile, e in ciò tanto piùdesolatamente tragico, se non trovasse unsuo ultimo riscatto e una sua ultimanecessaria ragione nella letteratura stessache lo racconta.

Paola Gheri

Guido Massino e Giulio Schiavoni (a curadi), Stella errante. Percorsi dell’ebraismofra Est e Ovest, Bologna, Il Mulino, 2000,pp. 427, € 25,82

Sfogliando l’indice di Stella errante.Percorsi dell’ebraismo fra Est e Ovest risaltasubito l’impostazione interdisciplinare dellamiscellanea che raccoglie venticinqueinterventi a carattere letterario, linguistico,

filosofico, storico e sociale. Nel volume,curato da Guido Massino e GiulioSchiavoni, sono pubblicati gli atti delConvegno internazionale Westjuden –Ostjuden. Problemi dell’identità ebraica fraEst e Ovest, organizzato nei giorni 11 e 12maggio 1999 a Vercelli e Torino dall’Uni-versità di Vercelli in collaborazione con laComunità ebraica, il Goethe-Institut diTorino, e l’Istituto italo-austriaco di culturadi Milano.Nonostante la poliedricità dei contributi, unachiave di lettura comune è costituita dal temaintrodotto dalla metafora del titolo, quellodella diaspora ebraica: tutti gli interventipropongono di seguire un movimento,geografico ma anche metaforico, secondole direttrici Ovest-Est o Est-Ovest,prevalentemente in area mitteleuropea.Unico intervento interamente rivolto versoSud, verso Israele, è quello di Enrico Fubiniche, con Identità ebraica e sionismo oggi(pp. 9-17), apre la miscellanea. ‘Sionismo’analizzato, non nell’accezione storicamentedeterminata del termine, bensì considerandoil rapporto tout court tra identità ebraica eterra. Ripercorrendo le tappe fondamentaliche hanno portato alla costituzione dellostato nazionale ebraico, Fubini riflette su“particolarismo” – che identifica in Israelela terra in cui radicarsi – e “universalismo”– che vede la diaspora come fondamentostesso dell’identità ebraica – comeespressioni contrapposte dello spirito di quelpopolo, imprescindibili nella loro dialettica.Da Est verso Ovest si muove la ricercad’impianto biografico di Alberto Cavaglionsu Isaac Bashevis Singer e l’ebraismoamericano (pp. 31-51), viaggio di non-ritorno la cui meta finale saranno gli StatiUniti. L’atteggiamento di disagio delWestjude nei confronti degli Ostjuden delmondo yiddish americano è lo stesso cheindaga Marino Freschi, considerando piùspecificatamente il contrasto insanabilenell’animo dello scrittore tra assimilazionee origini ostjüdisch. Non stupisce che sia ilmondo incantato e primigenio vissuto daSinger fanciullo negli shtetl a costituire la

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forza creativa, la linfa vitale della suascrittura, mondo spesso evocato ma al qualelo scrittore non riesce ad aderireintimamente. Ancora del dilemma vissutodagli assimilati si occupa Elèna Mortara DiVeroli attraverso la prospettiva dei letteratiintegrati in Occidente, che pur tuttaviacontinuano a considerare l’Ostjudentumpatria ideale e modello di riferimentospirituale. Tale ipotesi viene commentataattraverso gli scritti di Primo Levi - secondocui gli Ostjuden sarebbero espressione,sofferente e sradicata, di una condizionegeneralizzabile a tutto il genere umano -, diAhad Ha-am - che dipinge l’emancipazionecome una sorta di “schiavitù interiore” (p.68) della quale le stesse vittime sarebberoresponsabili - e di Jacob Gladstein, ebreo diorigini polacche assimilato in America, chevede la modernità del mondo occidentaleimpallidire di fronte alla purezza e allabellezza dell’ebraismo orientale. Scritti che,ruotando intorno al topos letterario checontrappone all’umanità autentica di unOstjudentum l’identità fìttizia di tantiKrawattenjuden - come amava definirliHamerow nel suo libro su Krawattenjudene Kaftanjuden - assimilati e quindiirriconoscibili perfino nei loro costumi, cifanno ricordare le pertinenti osservazioni diMagris sul pericolo di un’idealizzazione ecelebrazione acritica dell’Ostjudentumtrasfigurato poeticamente come luogomitico, ma non compreso nella sua effettivarealtà storica economica e sociale.Alla ricerca delle radici perdute di quelmondo leggendario si muove ClaudiaSonino (Ebrei tedeschi verso Est, pp. 77-86) attraverso le testimonianze di Heine perla Polonia, ma anche di Theodor Lessing,Arnold Zweig, Alfred Döblin e Joseph Roth,per proporre l’idea di un viaggio comeabbandono di una condizione alla ricerca diun’altra dalla destinazione segreta. Alla lucedella ricerca tipicamente ebraica deisignificati nascosti dietro a cose e parole, sipotrebbe aggiungere che l’importanza diquesto viaggio è confermata dal significatooriginario della parola ‘viaticum’. Per una

volta l’‘abbaglio della radice’ da cui mettevain guardia l’ebraista James Barr – eglidiffidava dell’ossessiva ricerca dell’étymon– riesce invece illuminante: il significatoetimologico recupera l’originaria espressivitàdella parola sottolineando l’aspetto piùimportante, il nucleo originario del viaggiocostituito dal ‘viatico’, da ciò che alimenta ilsuo percorso indipendentemente da qualepossa essere la sua destinazione.Viaggio ancora indagato nelle ricerche diChiara Sandrin – rintracciato nelle poesie diCelan e negli scritti di Kafka secondo unaprospettiva escatologica - e di DanielaCanella che propone una rilettura del mito diAssuero accostandolo analogicamente allafigura dello scrittore Roth. Il vivere senzaradici e il vagare da un paese all’altro vengonoconsiderati ossimoricamente principi diappartenenza e di identità, metafore diun’ipotetica Heimat. Sembra si possa in talmodo capovolgere l’antica accusa antisemitadi ‘sradicamento’ – si pensi, prendendo unesempio dall’iconografia nazional-patriottica,alla famigerata immagine del serpente semitache insidia l’albero ‘ariano’ radicato alla terra– che vedeva nell’instabilità ebraica unpericoloso elemento di degenerazione:l’eterno vagare, la Heimatlosigkeit, latransitorietà valgono invece come prezioseoccasioni di arricchimento e affratellamentouniversali. Anche dall’analisi di GertMattenklott dell’opera di Georg Hermann,presentato nella sua doppia veste di ebreo eassimilato (Georg Hermann: l’oscurità vienedall’Oriente, pp. 185-201), si evince comeper lo scrittore berlinese cosmopolitismo edeterna itineranza, sommi e privilegiatifondamenti dell’ebraismo, farebbero degliebrei il “sale della terra” (p. 192).L’esperienza dell’esilio negli scrittiautobiografici - non è un caso che durante ilrecente convegno torinese Arcastella(dall’unione dei due simboli mitici l’Arca diNoè e la stella di David ) uno spazio diprivilegio sia stato quotidianamente dedicatoalle autobiografie di scrittori ebrei – vienetestimoniata da due interventi, quello acarattere tematologico di Rosanna Vitale sulle

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autrici tedesche emigrate in Brasile SusanneBach e Marthe Brill intorno alle questionidi Heimat ed esilio e quello di RobertaAscarelli su Glückel von Hameln la cuiautobiografia, comunemente consideratauna sorta di inconsapevole testimonianzadella vita ashkenazita tra Seicento eSettecento, si rivela ad una più attenta analisistrutturata e sostenuta da una ben vagliataconsapevolezza letteraria.Nel corpo centrale del volume belle fotoraffiguranti diverse prospettive dellaNeubydschow boema corredano l’interven-to di Hartmut Binder – sul romanzo Dieböse Unschuld di Oskar Baum - che ha ilcarattere di un percorso investigativointrapreso per ipotizzare possibilispiegazioni sulla scelta dell’ebraismoorientale come motivo della sua narrativa.L’apparente paradosso dell’antisemitismoceco - antitedesco perché rivolto controebrei assimilati al gruppo etnico tedesco -viene spiegato attraverso l’estrema varietàdella composizione culturale e linguisticadel mondo slavo; conviene infatti pensareall’Ostjudentum, mondo solo apparente-mente omogeneo, come un arcipelagoformato da isole di varia grandezza,estremamente variegato sia nelle suedifferenze interne (dai chassidism oltranzistialla tradizione rabbinica ortodossa sino allaHaskalàh d’ispirazione illuminista), sia neirapporti di queste con le diverse realtànazionali. Dello stesso arcipelago orientaleci racconta Julius H. Schoeps in particolaredescrivendo vita e usanze degli shtetl: ciòche in prima istanza si presenta come unsaggio di etnologia, alterna poisapientemente descrizioni vere e proprie -sinagoga, casa, mercato - a scorci di vitadegli shtetl che mirano a ricreare l’atmosferadi quel luogo perduto e magico. Sulla sciadi queste ricerche di topografia letteraria dipaesaggi orientali trova infine posto anchel’appassionante studio di Giulio Schiavonisullo Scheuenenviertel, antichissimoquartiere berlinese dei granai e centrodell’ebraismo ortodosso dell’anteguerra incui sono ricostruite e contestualizzate la vita

e la produzione lirica della poetessa ebreagaliziana Masha Kalèko.L’ebraismo come elemento di distinzioneculturale dalla particolare prospettiva delloscrittore austriaco Grillparzer è al centrodell’analisi di Riccardo Morello, che,considerando intellettuali ed ebraismoall’epoca della Restaurazione, analizza lequalità che hanno permesso agli ebrei diaffermarsi ed eccellere in ogni campo allaluce del nesso tra retaggio ebraico edisposizione verso arte e cultura. Ancoradedicata a Franz Grillparzer è la questionesu cui si interroga Nicoletta Dacrema, che– parafrasando il titolo di un libro assaiinteressante di Antoine Bermann - potrebbeessere riformulata così: Franz Grillparzer:L’Epreuve de l’èntranger, prova a cui lastudiosa sottopone lo scrittore austriaco alfine di scoprire la sua capacità o incapacitàdi accogliere l’Altro, il diverso, l’ebreo. Aldi là dell’inequivocabile atto diresponsabilità civile e morale espresso afavore della comunità ebraica nel 1867 -quando Grillparzer sostiene l’emancipa-zione e vota a favore dell’uguaglianza civilee della libertà di culto - all’analisi dei fattilo scrittore austriaco non supera brillan-temente la prova dell’estraneo, mostrandoun atteggiamento in effetti ambiguo: apertoe tollerante, nei confronti di quella strettacerchia di Bildungsjuden che riempiva isalotti viennesi, ma sostanzialmente chiusodi fronte alla diversità vera e propriapersonificata dagli Ostjuden.La riflessione sul contraddittorio rapportocon le proprie origini ebraiche costituiscel’argomento delle relazioni di GerhardFriedrich sul ‘luogo’ di Peter Weiss – luogoin effetti piuttosto difficile da scoprireconsiderata la maniera problematica in cuile origini paterne erano vissute dalloscrittore - e di Rita Calabrese che affrontala questione dell’ebraismo nella vita e nelleopere di Anna Seghers, per la quale perfinolo pseudonimo si dimostra acquisizionevolta a suggellare definitivamente l’allonta-namento dall’entourage di provenienza e lasua scelta militante. Alla luce della

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Judenfrage all’interno del dibattito marxista,la questione dell’identità ebraica, veloce-mente liquidata come questione ‘sovra-strutturale’, viene considerata nellaprospettiva di quegli ebrei marxisti che,rinnegando la propria origine – come nonpensare alla figura esemplare dell’allievoprediletto del rabbino diventato comunistanel film Train de vie - sacrificavano lapropria specificità ebraica in nome dellacausa marxista. Sarebbe infine eufemisticodefinire semplicemente controverso ilgenere di legame sul quale ci riferisceGiancarlo Baffo in Così parlò Juduska.L’antisemitismo di Vasilij V. Rozanov.Veramente sorprende la non chalance conla quale lo scrittore russo afferma il suo odiet amo nei confronti dell’ebraismo: se in unprimo momento sembra che egli esaltil’attivismo ebraico, soprattutto consideran-done l’erotismo come fondamento, nellaposteriore fase antisemita utilizza tutto ilpeggior repertorio dell’antigiudaismoreligioso - dall’ accusa di omicidio ritualealla libagione di sangue - arrivando adefinire l’ebraismo come “religionedell’Occultamento” (p. 398).L’affascinante testimonianza del teatranteebreo Moni Ovadia, è quanto di piùdivertente la lettura della miscellanea possaoffrire. Dalle sue lontane origini sefardite –egli eredita la stessa lingua salvata diCanetti – approdando alla culturamitteleuropea ashkenazita, Ovadia fa lucesull’origine del suo teatro yiddish, colta epopolare allo stesso tempo, chiarendol’essenza vera del Wizt ebraico, misturagrottesca di riso e amarezza, che si affermacome unico modo espressivo, straniante edissacrante, ancora valido in tempi attuali.Il guitto irriverente - anche e soprattutto neiconfronti del mondo ebraico - sottolinea,oltremodo consapevolmente, l’importanzadell’yiddish, lingua una e plurima perchéinfluenzata da diverse altre, eppure unica ingrado di mantenere il carattere multi-culturale dell’ebraismo (a questo propositodiverte la boutade di quel vecchio ebreo chesi diceva capace di parlare “17 lingue...tutte

in yiddish”, p. 27). Uno dei Witz piùconosciuti e divertenti del repertorio di MoniOvadia - quella del vecchio sfortunato perchénegro ed ebreo allo stesso tempo – ricorda iltitolo dell’intervento di Martin Pollack: “IIdestino doppiamente infelice di esserepolacco ed ebreo” (pp.99-116) in cui lostudioso si occupa di problemi diassimilazione ebraico-tedesca ed ebraico-polacca nella Galizia della seconda metà delXIX secolo alla luce della questione delbilinguismo (polacco-yiddish). Di yiddish sioccupano anche Guido Massino, che indagail rapporto di Franz Kafka e Thomas Manncon la comunità ebraica di Varsavia analizzatoattraverso traduzioni, recensioni, articoli, epubblicazioni sulla rivista yiddish“Literarishe bleter”, e Peter Demetz, che,rintracciando l’eventuale presenza yiddishnelle opere di Franz Kafka e di Max Brod,ricostruisce le ragioni che ne favorirono ofrenarono la diffusione nella Praga ebraicadel XIX secolo - a differenza di Brod, Kafkanon considera l’yiddish nemmeno una vera epropria lingua (lo definisce “Jargon”confermando il celebre commento sulcarattere ‘anebraico’ della sua letteratura.)Merito dell’intervento è aver tenuto conto delparticolarissimo contesto praghese, in cui ladoppia influenza tedesca e polaccadeterminava un duplice motivo per il rifiutolinguistico yiddish: l’assimilazione al mondotedesco allontanava quel che nell’yiddish viera di povero e misero, l’assimilazione almondo polacco rifiutava l’yiddish in ciò chein esso vi era di tedesco, linguisticamente eculturalmente.Ancora di problemi inerenti la lingua, manelle sue implicazioni filosofiche, sioccupano Rosalia Coccia, che affronta laquestione dell’identità ebraica in Elias Canettiper il quale il tedesco, lingua d’elezione ècifra fondante della propria identità, e MariaEnrica D’Agostini che si interroga su Parolae scrittura per evocare ‘identità’ e ‘patria’attraverso le considerazioni di alcuni autoridi cultura e origine ebraica. La linguaevocatrice di profondi e arcani significati, siavvicina ossimoricamente al silenzio: così nel

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caso di Rilke, della “sprachlose Sprache”(p.216) di Hofmannsthal, di Kafka, diCelan, di Ilse Aichinger, di Karl Kraus, diRose Ausländer, di Adorno, di Canetti. Undiscorso a parte meritano le considerazionidi Gerschom Scholem sulla ‘dimensionesegreta’ delle lettere dell’alfabeto ebraico,il cui carattere simbolico - e si dovrebbeaggiungere che definirlo ‘simbolico’ èriduttivo dato che esse rispondonopienamente al principio dell’acrofonia - siintreccia con la numerologia, con la mistica,con la cabala.Intervento isolato d’ispirazione storiograficaè quello di Beatrice Sellinger, che inStoricità e linguaggio nella “Stella dellaredenzione” si occupa dell’innovativametodologia proposta dallo storico ebreoFranz Rosenzweig. La erzählende Methodedi quest’allievo di Meinecke - dalla cuiprospettiva storiografica evenemenzialeperò si discosta decisamente – e che tantofa pensare al metodo ‘dialogico’ diGadamer, pone al centro del proprioorizzonte ermeneutico l’interlocutore e ilprocesso di decodificazione insito in ogniforma di comunicazione. A distanza didiversi anni questa ‘ermeneutica dellaricezione’ risulta della massima attualità -basti pensare ai nessi evidentissimi con ilpensiero decostruttivista – ma anche dellamassima antichità, rimandando allaconcezione ebraica della cabala. Intesa nelsuo significato originario di ‘ricezione’ – persfatare un po’ l’alone mistico che di solitoaccompagna questa parola, si potrebbeaggiungere, come ironicamente ricordaPaolo De Benedetti, che cabala è anche lareception degli alberghi! - essa è l’elementofondante del pluralismo ermeneuticoebraico: l’ebraismo auspica una ricezionedell’insegnamento divino, attiva eproduttiva, – espressa dalla bella similitu-dine della Torah orale che è come un fiumesu cui scende la Torah scritta – in cuil’essenziale funzione interpretativa edesplicativa venga svolta proprio dal suodestinatario.Questa ermeneutica dalla molteplice

modalità interpretativa come cifra fondantedell’ebraismo in conclusione sembra averispirato tutti i lavori; la miscellanea infattialterna sapientemente diverse prospettivedisciplinari e metodologiche, chesinergicamente presentano un’ampiapanoramica dell’ebraismo e delle sue diverseanime talvolta dialetticamente talvoltaantiteticamente contrapposte. La ricerca, ilcammino, elementi fondanti e ampiamentediscussi nel volume, sembrano aver datoun’impronta agli studi e alla metodologiacon cui sono stati affrontati, in unaprospettiva che evidenzia infine come iproblemi dell’ebraismo siano anche quellidella nostra epoca, i problemi identitaridell’uomo di ogni tempo.

Paola Di Mauro

Paola Mildonian, Alterego. Racconti informa di diario tra Otto e Novecento,Venezia, Marsilio, 2001, pp. 264, € 20,66

Il titolo della recente monografia di PaolaMildonian, Racconti in forma di diario traOtto e Novecento, non rende pienamentegiustizia alla ricchezza di temi e materialiche in essa vengono trattati. Lo sviluppo,nella modernità, di una narrativa che fa usodi forme diaristiche è in effetti oggetto diun’attenta ed equilibrata analisi: l’autrice siconfronta in modo assai produttivo con laletteratura critica esistente in materia,giungendo opportunamente a relativizzarela pretesa di ricondurre la narrativa diaristicaa un genere codificato (sia esso il “racconto-diario” o il “romanzo-diario”: p. 141), equindi a correggere una concezione“evoluzionistica” che nel racconto diaristicovorrebbe vedere soltanto una tappaintermedia nel percorso che avrebbe portatodal romanzo epistolare al monologointeriore (p.142ss.). Anziché fissare unpreciso statuto di genere per una narrativache, come emerge con grande evidenza daitesti qui analizzati, ha prodotto esiti moltodiversi, Paola Mildonian delinea i contorni

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di un universo letterario che è certo assaivariegato e che tuttavia è possibiledelimitare a partire dalle caratteristicheproprie della “voce del diarista” (p.134).Riprendendo alcune riflessioni teoriche diKäte Hamburger – in particolarel’individuazione di una categoria intermediatra reale e fittizio, quella del “finto”(“fingiert”) – l’autrice mette infatti nelgiusto risalto il carattere misto dellenarrazioni in forma di diario e giunge allaconvincente tesi secondo cui l’io diaristicosi colloca a metà tra l’io lirico e l’io delnarratore, e il diario fittizio è un tipo diletteratura “in cui lirica e narrativa sisovrappongono, in cui l’enunciato nons’affranca mai del tutto dal limbodell’enunciazione” (p. 201).Racconti in forma di diario tra Otto eNovecento risulta tuttavia essere un titoloinadeguato a questo interessante studio,perché la riflessione teorica sul diario fittizionon ne è che la parte centrale. Essa non èsoltanto corredata da una serie di stimolantiinterpretazioni dedicate ai singoli testi, maè anche preceduta da un discorso teorico suldiario moderno (e quindi non solo sul diariofittizio) e dall’esame delle diverse forme chela “scrittura del sé” ha assunto nel corso deisecoli. Le caratteristiche della scritturadiaristica divengono quindi l’oggetto di unariflessione che oltrepassa i confini dellateoria letteraria, per arrivare inevitabilmentea confrontarsi col “problema, centrale nelpensiero e nell’estetica moderna,dell’identità” (p. 33), un problema chediviene motivo conduttore di tutto il libro.Nel capitolo introduttivo viene posta nelgiusto risalto l’opposizione che si crea tradiario e autobiografia: il diario, rifiutandola visione retrospettiva così come losviluppo teleologico caratteristici dellanarrazione autobiografica, isolando ilsoggetto dal suo naturale contestointerpersonale, mette inevitabilmente indiscussione il concetto tradizionale diidentità. Al posto di questa sembra inveceemergere un “sé estremamente fluido,continuamente manipolato, inevitabilmente

moltiplicato” (p.35), e cioè una “fragileipseità” (p.34), come sostiene l’autrice,richiamandosi a Paul Ricoeur. Rinunciandoall’improbabile restaurazione di un’identitàfissa e nettamente definita, registrando perconverso la discontinuità del soggetto, lascrittura di un diario intimo diviene quindi lapiù diffusa forma di scrittura del sé, in unamodernità caratterizzata dalla labilità dell’io.La diffusione conosciuta a partire dal tardoSettecento dalle pratiche diaristiche, e quindianche il ricorso alla forma del diario nelleopere di narrativa, pur essendo fenomenitipicamente moderni, non potrebbero peròessere compresi del tutto se non in relazionealle forme di scrittura in prima persona chesi sono affermate fin dall’antichità. Ecco chequindi viene tracciato un percorso che partedagli ypomnémata e dalle epistole (ricondotti,sulla base degli studi di Michel Foucault, allepratiche legate alla cura del sé), passa quindiai soliloquia, alle Confessioni di Agostino eal Secretum di Petrarca, alle esperienze diMontaigne e di Pascal, per approdare quindiagli epistolari che danno voce alla sensibilitésettecentesca. Proprio nel romanzo epistolareche si diffonde nel corso del Settecento PaolaMildonian individua un momento difondamentale importanza per lo sviluppo diuna moderna narrativa in forma di diario.Ovviamente l’opera di maggiore rilievo inquesto contesto non può che essere I doloridel giovane Werther, un testo che, già per ilfatto di presentare le lettere di un solopersonaggio, contrariamente ai canonitradizionali del genere, si avvicinasignificativamente alla forma del diario.Partendo da un’attenta analisi del testogoethiano, tenendo conto dei più recenti studidi Giuliano Baioni, Paola Mildonian mettein risalto i tratti da moderno esteta nellapsiche del protagonista, il suo isolamento eil carattere incomunicabile delle sueesperienze. L’incomunicabilità delleesperienze di Werther è legata indissolu-bilmente alla ricerca di autenticità che locaratterizza. Ed è proprio la stretta relazionetra (inarrivabile) autenticità dell’espressioneindividuale e scoperta dell’inadeguatezza dei

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tradizionali modi di comunicare, evidentenel romanzo giovanile di Goethe, chediventerà un tratto proprio di molta narrativain forma diaristica. Questa è infatticaratterizzata dall’autrice come una formache non può non esercitare, anche là doveogni pretesa di veridicità viene sfatata, “uneffetto di autenticità” (p.134). Tutto ciò trovaquindi riscontro in quel carattere “misto”dei racconti in forma di diario, a cui si èaccennato sopra. La ricerca di autenticità,condotta al limite del solipsismo, rendequindi i diari, fittizi o meno, documentiparticolarmente significativi di quella“ideologia dell’autenticità” che è stataoggetto di indagini da parte di LionelTrilling e soprattutto da Richard Sennett.Che questa messa in scena di “un discorsoautentico” trovi di volta in voltarealizzazioni assai diverse vieneesemplificato in diversi percorsi tematici,dove, accanto al significato che la forma deldiario assume nel rappresentare lecontraddizioni del soggetto moderno(particolarmente importanti in questoambito le indagini condotte su opere diLermontov, Kierkegaard, Pessoa, Canetti eArguedas), viene poi dedicata particolareattenzione alla rilevanza della forma-diarionella narrativa del fantastico (Poe, Stoker)o in quella a tema erotico (Tanizaki).Ovviamente è qui impossibile riassumerein poche righe le singole analisi testuali chearricchiscono ulteriormente la presentemonografia; opportuno è però osservare, inconclusione, l’equilibrio che si crea trariflessioni teoriche e indagini empiriche.

Marco Rispoli

Hermann Dorowin, „Mit dem scharfenGehör für den Fall“. Aufsätze zurösterreichischen Literatur im 20.Jahrhundert, Wien, Edition Praesens, 2002,pp. 184, s.i.p.

La recensione di una raccolta di saggi, lacui eterogeneità oltre che tematica è

determinata da una redazione avvenuta nellecircostanze e congiunture più diverse,incontra spesso difficoltà e rischia di essereuna rassegna più o meno descrittiva dei varicontributi. Il recensore tenta di solito unafaticosa operazione di ricucitura indivi-duando un filo conduttore che giustifichi elegittimi un conglomerato di testi assemblatitalvolta in un volume perché si sottragganoalla dispersione secondo una strategiacompositiva più o meno plausibile o visibile.Questo non si può certo dire della raccoltadi otto saggi proposta da Hermann Dorowine da lui riassunta in un verso di IngeborgBachmann, “Mit dem scharfen Gehör fürden Fall”, motto e chiave di lettura delvolume stesso.Nella prefazione, di per sé già unarecensione, Wendelin Schmidt-Denglerrileva le coordinate con le quali Dorowincompie la lettura di autori austriaci del XXsecolo, da Hofmannsthal a Bernhard e aBachmann, in saggi di cui è sempre possibilel’estrapolazione, ma che in comune hannol’istanza di cogliere la “particolarità dellaletteratura austriaca”, l’uso frequente diun’analisi parallela o contrastiva di autori(Jura Soyfer-Georg Büchner, Ernst Jünger-Canetti), la ricorrenza di categorie, comequelle dell’utopia e del potere, in Fried e inCelan. Riguardo al primo aspetto Dorowinaffronta la discussione, che nel tempo si èrivelata spesso sterile, della specificità dellaletteratura austriaca secondo la prospettivabenjaminiana del “Seitenblick”, dellosguardo marginale e trasversale cheattraversa la cultura austriaca dei primidecenni del Novecento e ne fornisce unadiagnosi. Dorowin recepisce il metodoestendendone l’applicazione anche a epochepiù recenti, ma soprattutto, riproponendo nelprimo saggio su Querulanten, Geisterseherund Saboteure im Abendland desUntergangs gli scenari interpretativibenjaminiani, alimenta il dibattito sulpossibile ponte fra l’emblematica e lavisionarietà barocche e l’estetica avan-guardistica del primo Novecento, fra le “duecosiddette epoche della decadenza”. Vale la

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pena riportare il passo di Benjamin citatoda Dorowin e tratto dalla recensione alvolume di prose Hinterland di AlfredPolgar: ”Daß ein Österreicher dies werdenmußte, war vorbestimmt. Es ist nachgeradeüberhaupt die europäische Rolle desÖsterreichertums geworden, aus seinemausgepowerten Barockhimmel die letztenErscheinungen, der apokalyptischen Reiterder Bürokratie zu entsenden: Kraus, denFürsten der Querulanten, Pallenberg, dengeheimsten der Konfusionsräte, Kubin, denGeisterseher in der Amtsstube, Polgar, denObersten der Saboteure“. La singolareanalogia fra la visionarietà e l’emblematicabarocche e le illuminazioni figurativedell’espressionismo, ma tradotte anche nellascrittura aforistica e nella miniatura e più ingenerale in una prosa breve trova riscontronella rappresentazione dei “disiectamembra” della realtà, in attesa e in cerca diuna ricomposizione totalizzante. Dorowinci fa capire con un’esposizione densa eintensa, che data la rilevanza concettualeavrebbe richiesto forse maggiore respiro,come tanta letteratura austriaca frammentatae diluita in un variegato spettro di generiletterari, dal feuilleton allo schizzo, alludaa una visione raffigurativa di microcosmi lacui malinconica consapevolezza di mortepotrebbe essere segno allusivo di salvezza.Il legame più profondo che unisce i saggi èdato tuttavia da una tessitura di motiviriconducibili a tradizioni specificamenteaustriache, quali quello della criticalinguistica, della riflessione sul linguaggioattraverso la parola il cui segno poetico sicombina con significati ontologici edesistenziali, rivendicando “semplicità,chiarezza, perspicuità di relazioni” per citareHans Höller nel suo tentativo di definirel’“utopia nascosta di Thomas Bernhard”.L’identità possibile dello “Haus Österreich”è ricostruita da Dorowin seguendo le liricheantenne percettive di Ingeborg Bachmanndi fronte alla storia di cui si traccia ungrandioso bilancio elegiaco in GroßeLandschaft bei Wien. Nella consapevolezzacollettiva del fallimento storico, al

sentimento lemurico di una fine irreversibile(“zweitausend Jahre sind um, und uns wirdnichts bleiben”) Bachmann non intendeopporsi al corso della storia per frenarlo oeternarlo miticamente in un ripiegamentomalinconico, ma si propone di viverne sinoin fondo la crisi come atto di volontà delsingolo (“Die Türme der Ebene rühmen unsnach, / daß wir willenlos kamen und auf denStufen / der Schwermut fielen und tieferfielen, / mit dem scharfen Gehör für denFall”). Dorowin stabilisce un nesso fra larappresentazione bachmanniana della finedella storia la cui caduta richiede un “lucidoascolto” per la sua registrazione e un’altrapercezione della “caduta” nel gulag diWladiwostok del poeta russo OsipMandel’stam descritta da Erich Fried nellalirica Schutthaufen. La letteratura,auscultando il rumore delle macerie che tantecatastrofi hanno disseminato nel corso del XXsecolo, ha contribuito ad alimentare nellasocietà austriaca un processo di antirimozionepurtroppo non sufficiente per chiarire itermini della questione ancora irrisolta dellacolpa. Questo può spiegare il percorsoautonomo, spesso ruvido e impermeabile, dinumerosi autori austriaci affermatisi negliultimi venti anni come Gstrein, Mitgutsch,Jelinek, Ransmayr, Menasse. Credo, d’altraparte, che Dorowin abbia ragione quandosostiene che la presunta specificità dellaletteratura austriaca “si possa spiegare nonsulla base di una ristrettezza regionale, madell’apertura e della particolare pluralità diinflussi culturali” ancora riconducibili allamulticulturalità ereditata dall’Impero e allacentralità geopolitica, a una proiezione inscenari lontani che richiedono appunto un“lucido ascolto”. Da questo punto di vistal’esempio più singolare e vistoso è offertoproprio da Bernhard la cui ira dirompente eraggelante supera le valli e i villaggi austriacied è enfaticamente e universalmente recepitanel mondo letterario.Ma c’è un altro aspetto che secondo Dorowin,riportando le posizioni dello stesso Polgar,connoterebbe la cultura austriaca, una sortadi koinè ideologico-estetica le cui radici

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affondano di nuovo nella visionariateatralità barocca, espressione di un“istintivo sentimento per la commedia”, diun “intreccio di orrore e comicità”, presentiad esempio nella prima produzione diCanetti, o più indietro in Nestroy, Kraus eper finire nei Volksstücke di Jura Soyfer. Aquest’ultimo è dedicato un saggio costruitosull’accostamento con Büchner non soltantoper le analogie di un infausto destino, quantopiuttosto per una comune strategia didenuncia dei conflitti sociali mediantel’esercizio della satira e l’uso del riderecome “più potente antidoto contro ladisperazione”, nella convinzione di dover“esigere in ogni cosa la vita, la possibilitàdi esistere”. L’eredità del ridere cinico nelWoyzeck viene da Soyfer filtrato dallatradizione del teatro popolare di Nestroy delquale coglie come elemento di consonanzala consapevolezza che “il pubblico nonvoleva più avere Hanswurst perché nonvoleva più essere Hanswurst”.A conclusione della lettura degli otto saggisi rafforza in definitiva l’impressione diun’apertura di prospettive metodologiche etematiche, non codificabili in un organicoquadro storico-letterario, ma fortementesbilanciate nell’individuazione di unapeculiarità della letteratura austriaca che nonsi ripiega su se stessa proprio perché il suohumus si rivela di grande fertilità per terreniben più vasti.

Fabrizio Cambi

INTERVENTI

I trionfi della morte

Il pensiero sulla morte attrae a sé l’ossimoroe trionfa nella coscienza postmoderna cometentativo estremo di un disincantato eapotropaico confronto con l’evento che dasempre si sottrae al dominio dell’uomo edella sua ragione organizzatrice. Nella

riflessione intorno alla fine, nelle modalitàdella ritualizzazione e della raffigurazionedell’ora estrema, si rivelano le struttureprofonde di atteggiamenti sociali e culturaliche rispecchiano le questioni principali dellacoscienza collettiva e individuale. E inquesto scorcio di nuovo secolo larimeditazione sulla fine assurge a strumentodi una ricerca di sensi smarriti nell’epocamoderna.Nella celebrazione della morte sicristallizzano i segni di credenze e distrutture antropologiche che dall’inizio deitempi sono in grado di svelare di un popolo,della sua cultura e delle sue formeassociative più di qualsiasi altro aspettosociale o comportamentale. Basti pensarealla concezione dell’Aldilà degli egizi odegli etruschi, ai funerali in epoca barocca,alla polemica settecentesca sulle modalitàdella sepoltura, all’odierno cimitero delCairo trasformato in un immenso alloggioper più di un milione di senzatetto.All’insegna del titolo, foriero dell’ambiguitàdella tematica, “Vivere la morte nelSettecento” si è svolto l’annuale convegnoorganizzato dalla Società italiana di Studisul Secolo XVIII (Santa Margherita Ligure,30 settembre-2 ottobre 2002), che ha toccatoin un agile succedersi di relazioniaccomunate dal carattere interdisciplinaredell’approccio molteplici aspetti: daldiscorso sulla morte sviluppato in ambitopedagogico al fine di correggere i vizi,all’apologia del suicidio come affermazionedella soggettività più sfrenata e dello spiritolibertario in clima di Empfindsamkeit;dall’evoluzione delle norme igieniche apartire dalla trasformazione dell’idea dimorte, in un rinnovato rapporto fra malattiae sanità inaugurato con il secolo dei lumi,al cambiamento della ritualità nel passaggiodal funerale barocco a quello laico; dallariflessione filosofica che proietta nella mortele forme e le contraddizioni della ricercadella felicità alla nascita di sottogeneriletterari legati alla morte violenta, come laletteratura patibolare; dalla ricerca sulperturbante all’indagine sul sublime che

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trovano nel salto nell’ignoto l’esperienzaprivilegiata di una irruzione oltre le sogliedel consueto.Nell’immagine dell’altalena di Hume NadiaBoccara fa convergere l’oscillare fra il sen-timento di malinconia istillato dal pensierodella morte innescato dall’esperienza dellamalattia, intesa, secondo l’insegnamento diAriès, come avvertimento della mortalità, el’entusiasmo, la curiosità per la vita in tuttii suoi aspetti: in tale contesto la riflessionesull’arte di morire cede il posto alla ricercadi un’arte di vivere in nome della passione.La passione rappresenta quell’impulso nondominabile dalla ragione che spingeall’azione, all’uscita da se stessi e quindidalla dimensione della solitudine in unvitalissimo amor di sé ritrovato nelmalinconico studiolo del filosofo alla ricercadel senso della morte, che confluisce inun’inconsapevole ricerca di felicità. Anchela visione del suicidio rientra per certi aspettiall’interno della problematica qui accennata,come ha messo in rilievo Mirella Brini nellasua relazione Il suicidio da Hume aRousseau, in cui tale tema appare comeoccasione per una sollecitazione alla vita,come sembra nella cronaca del suicidio diun amico su un campo di battaglia, stilatada Hume nel 1746. Dalla filosofiasettecentesca che discetta attorno al suicidio,liberando tale atto da ogni forma dicondanna moralistica o religiosa emerge unavisione differenziata della morte, oraassoluta, ora parziale che va da quella distampo meccanicista a quella che pone lebasi del trasformismo biologico secondo cuinascere, vivere, morire sono mutazioni diforme. Il fine morale dell’esistenza consistenel risolvere il problema della morte: questala tesi dell’interessante romanzo, ricco disituazioni macabre, ma dominate con ironia,di Theodor Gottlieb Hippel (Lebens-biographie in aufsteigender Linie) cui è statadedicata la relazione di Federica La Manna,che riscontra come sull’impianto filosoficoprevalga il grottesco, unico mezzo didominio dell’inconoscibile minacciosoenigma.

Nella ricognizione degli apparati funebriindagati da Maria Canella, la morte svela lasua componente spettacolare, detenuta dalmedioevo in poi e culminante negliallestimenti funerari del Seicento e delSettecento. È sulla fine del secolo che latrasformazione del rito delle esequie rivela,non tanto sul piano dell’apparato, quantopiuttosto della spesa e della pompa, quelprocesso di imborghesimento in atto in ogniambito della società e della cultura, che portòda una parte a una emulazione dellecerimonie nobiliari da parte della borghesia,dall’altra a una semplificazione e snellimentodella pompa funebre, addirittura regola-mentata da una vera e propria normativavarata da Maria Teresa al fine di porre frenoagli sperperi limitando l’uso degli addobbi elo sfarzo degli abiti. Ma con la Restaurazionetale tendenza subisce un’inversione di marciae si assiste a un ritorno alla macabrasontuosità precedente. Con i romantici invecela manifestazione di cordoglio vieneintroiettata nella sfera del privato e divieneespressione dei valori familiari, in unatrasformazione della ritualità che, qualunquesiano le sue forme, conserva sempre lafunzione dell’elaborazione del trauma dellaperdita.Già nel Settecento si profila il binomio dithanatos ed eros, come dimostra la riflessionedi Blake all’interno di un dibattito sullepassioni che si tinge vieppiù di connotazioniprofetico-apocalittiche in clima rivoluzio-nario, in cui l’evento sanguinario vienevissuto come parusia del vero Dio. La morte,secondo l’interessante ricostruzione diClaudia Corti, assume anche caratteristicheantitetiche rispetto alle tradizionaliconnotazioni di paura e di espiazione eappare come liberazione dalla materia eritorno alla dimensione originaria. Nellabirinto dell’iconografia e delle valenzedella morte in ambito massonico ci conducel’affascinante relazione di Giorgio Cusatelli(La morte nella massoneria del Settecento)che, dopo una preliminare distinzionegeografica e una panoramica diacronica, sisofferma sulle forme della simbologia

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funeraria - in cui confluiscono i materialiiconici della tradizione cristiana, di quellaalchemica e dell’immaginario egizio - cheverte intorno al motivo del tempio. Attributiricorrenti erano ovviamente teschi, ossa,scheletri, su cui domina la figura dell’urobo-ros, simbolo del superamento delladimensione terrrena e della morte comeritorno nei regni dello spirito.E la morte è anche garante d’eternità, di unaeternità terrena e memoriale, di unafoscoliana sopravvivenza fra i ricordi deiposteri. Ancor di più: la morte può restituiredignità al defunto, può donargli quella stimae quel successo che gli era stato negato invita. Questa l’ipotesi su cui è costruital’interessante mostra recentementeinaugurata nelle sale del Palais Harrachdall’Österreichisches Theatermuseum(sezione del Kunsthistorisches Museum) diVienna dal titolo “Erst wenn einer tot ist,ist er gut” Künstlerreliquien und Devo-tionalien (aperta fino a gennaio). L’epigrafeè tratta da Der Musikkritiker di GeorgKreisler e sintetizza una sindrome ben notadella psicologia individuale e di massa,legata alla scoperta del talento di un artistasolo dopo la sua morte. Se Caravaggio è lafigura in cui tale dicotomia si è manifestatain maniera esemplare, non bisogna ignorarefenomeni meno eclatanti, ma non menosignificativi, paradigmaticamente rappre-sentati in Austria da Thomas Bernhard, oggiassurto a classico della modernità letteraria,ma in vita osteggiato da campagnegiornalistiche e manovre politiche, al puntoda provocare la sua acrimonia suggellata dalcelebre divieto testamentario di allestimentodelle sue opere teatrali in patria. E senzavolersi soffermare su casi tanto eclatanti,bisogna ricordare che molti artisti, puravendo ricevuto riconoscimenti dalla societàdel tempo non hanno mai smesso di venireosteggiati o denigrati per atteggiamentisospetti di ribellione politica, di presuntaimmoralità (lo stesso Mozart ) o didisobbedienza religiosa (Schubert). Per nonparlare dei reiterati scontri con la censuradi Grillparzer e Nestroy, per citare due numi

delle austriache lettere e degli scandalisuscitati dalla novità e originalità di alcuneopere, oggi entrate a far parte del canone.Si pensi alle proteste che accolsero leinnovazioni formali della Neue WienerSchule, come in occasione del concerto-scandalo del 31 marzo 1913, organizzato al“Konzerthaus” dalla “AkademischeGesellschaft für Literatur und Musik” ediretto da Arnold Schönberg: secondo gliintenti degli organizzatori, si volevapresentare al pubblico viennese del“Konzerthaus” il linguaggio di stringataintensità espressiva elaborato da Schönberge allievi, ponendolo sotto l’egida di Mahler,del quale avrebbero dovuto venire eseguitii Kindertotenlieder. Ma già dopo i SechsStücke für großes Orchester, op. 6 (1909)di Webern uno scoppio di risa provocò leprime agitazioni, appena placatedall’esecuzione dei Vier Gesänge, op. 13(1910-13) di Alexander Zemlinsky e poiculminate nelle proteste rumorose, durantei due Orchesterlieder, op. 4 (1912) di AlbanBerg, e in una vera e propria baruffa cheimpedì l’esecuzione dei Kindertotenlieder,giacché i mahleriani si indignarono all’ideache il loro compositore venisse mescolatoa un tale “aborto di balbettante impotenza”(Moritz Scheyer). Oggi il volto diSchönberg costretto dalle sue origini e dallasua arte all’esilio, consegnato alla memoriadel gesso con cui Anna Mahler ha realizzatola sua maschera funeraria, è un monito ditolleranza e una preghiera pronunciata insilenzio da labbra chiuse, di fronte a cuisfilano inquieti i visitatori.Nella concezione della mostra (ideata da PiaJanke e Ilija Dürhammer) e nella scelta deglioggetti esposti – dai mutandoni di Brahmsalla macchina per scrivere di ThomasBernhard, dal teschio di Haydn alposacenere della Bachmann, dal cornoacustico di Beethoven alla tabacchiera diMozart, dai rasoi di Grillparzer al sudariodi Nestroy e a quello di Mahler, dalla tazzadi Raimund alle lamette da rasoio diSchönberg, proseguendo con reliquie diogni genere - la costola di Schubert, i riccioli

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di Grillparzer, pezzi di intonaco di cameremortuarie, chiavi di sarcofagi, modelli ditombe e busti, oggetti della vita quotidiana,manoscritti e autografi - si rispecchia unapropensione per la morte, gustata concontraddittorio, macabro e lacerato piacere,secondo una tradizione squisitamenteaustriaca: si pensi solo alla Todesmusik diSchubert (Lied D 758) – per non parlaredella Grabmusik e del Requiem mozartianoe in generale della tradizione della musicafunebre settecentesca – alla contemplazionedella marciscenza della materia in Trakl eal cupio dissolvi di certe liriche rilkiane. Talepredilezione per la contemplazione dellamorte, passando attraverso l’opera diChristine Lavant e il Todesartenzyklus dellaBachmann, è giunta fino a Bernhard –“Wenn wir ein Ziel haben, so scheint es mir,ist es der Tod, wovon wir sprechen, es istder Tod...” (Rede für die Zuerkennung desÖsterreichischen Staatspreis für Literatur1967) – e ai nostri giorni all’opera di JosefWinkler, con le sue lucide raffiguraioni dellamorte in cui l’orrore, dimenticato, si scioglienell’incanto di una descrizione minuziosadi eventi luttuosi e cimiteri (esempio per tuttiil Convento dei Cappuccini palermitano inFriedhof der bitteren Orangen).Fra il riuscito allestimento delle vetrine-reliquiario (realizzato con gusto dagliarchitetti Blaich & Delugan), la mortecelebra i suoi fasti, mostrando i suoi volti inparte ancora barocchi, a tratti decadenti,mondani e raffinati fra sontuosi oggetti diculto e devozioni moderne che rischiano diconfezionare la dissoluzione in un prodottodi consumo al pari dei Mozartkugeln e delNeujahrskonzert. In presenza della morte siassiste a un duplice e ambivalente processo:da una parte l’artista viene innalzatonell’empireo della celebrità, oggetto di unculto laico consumato in ambiente profanoe contrassegnato dal blasone dell’arte e dellaletteratura. Il defunto assurge così a Santolaico, a profana icona della coscienzaestetica, in odore di intangibilità edevozionale alterità. D’altra parte la morteavvicina l’artista all’uomo qualunque,

accomunandolo alla massa nella sua finitezzae caducità, consentendo al pubblico disbirciare nello spazio intimo e segreto dellatomba e della precedente vita privata, allaquale ci si attacca, con reverente e maniacaledevozione. Ecco che la sfera del quotidianoe del corporeo – lamette, rasoi, bicchieri, capid’abbigliamento, occhiali, orologi, chin-caglierie e strumenti di scrittura – opera unavvicinamento della figura umana dell’artista,mentre la morte permea gli oggetti d’uso della‚presenza‘ del defunto per via di una magicaimmanenza delle qualità di quest’ultimo. Atale ambiguità richiama Wendelin Schmidt-Dengler in un contributo, pubblicato nelcatalogo (Wien, Verlag ChristianBrandstätter, 2002) in cui ricorda come la‘cultizzazione‘ della morte non è indenne dalgrottesco e dal paradossale come accade nellevicende dell’Onkel Toni dell’austriaco Fritzvon Herzmanovsky-Orlando o nella ricercadell’ultima serva di Beethoven (Beethovensletzte Magd) dello stesso autore.In questo misto di sacro e profano con cui dasecoli si celebra laicamente o religiosamentela fine dell’esistenza terrena confluisconopaure ancestrali e sfide dongiovannesche,forme della sensibilità e arabeschi del gusto,trasformazioni sociali e vicende umaneminime cancellate dal flusso della storia,discese nella corruttibilità della materia e volinell’aldilà della trascendenza. Su ambiguitàe contrasti, sfide superomistiche e rassegnaticompianti, rimpianti e devozione secolare sileva il sorriso immobile della sfinge d’avorio,impugnata da Mozart alla sommità del suobastone da passeggio, che fa capolino inun’affollata vetrina della mostra, poco lontanada un pegaso che svetta sulla cima di unasontuosa coppa donata a Grillparzer in onoredel suo componimento dedicato a Radetzky,alle cui parole si erano accesi i cuori e l’ardorebellico dei soldati asutriaci impegnati nellacampagna in Italia del 1848.

Grazia Pulvirenti

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NOTA REDAZIONALE

Con questo numero l’”Osservatorio” chiudela sua quinta stagione. Non abbiamointenzione di fare un bilancio, a questo puntodell’esistenza della nostra rivista, quantopiuttosto di tracciare programmi per ilfuturo: e già questo forse è un bilanciopositivo. Dopo accurate riflessioni, e avendoconstatato che non sempre il materiale darecensire è sufficiente a garantire lafrequenza di uscita che ci eravamo all’inizioproposti, abbiamo deciso di trasformare laperiodicità da quadrimestrale in semestrale,con due uscite previste a metà e a fine annosolare. Ripartiremo quindi in giugno con un“Osservatorio” un po’ diverso, ma chetenterà di mantenere inalterate lecaratteristiche che lo hanno contraddistintoin questi anni: puntualità nell’informazione,collegamento fra le opere che escono e i lorofruitori, finestre aperte sulla germanistica dialtri paesi oltre che costante attenzione aldibattito all’interno di quella italiana.Come già abbiamo fatto in passato, dunque,invitiamo tutti coloro che sono in diversamisura interessati – autori, lettori, editori –a inviarci copie delle loro opere, per poterlesegnalare e recensire tempestivamente.Invitiamo inoltre tutti i lettori a confermarecon i loro abbonamenti un sostegno che inquesti anni non hanno fatto mancare allarivista.

SEGNALAZIONI

Saggi

Ibsen and the Arts: Paintings – Sculpture –Architecture. Ibsen Conference in Rome2001, 24-27 Oct. , ed. By Astrid Sæther,Oslo, Centre for Ibsen Studies, 2002, pp.196, s. i. p.

Liborio Mario Rubino, I mille demoni dellamodernità. L’immagine della Germania e laricezione della narrativa tedescacontemporanea in Italia fra le due guerre,

Palermo, Flaccovio, 2002, pp. 141, € 9,50

Eugenio Spedicato, Il male passionale.La Pentesilea di Kleist, Pisa, ETS, 2002,pp. 168, € 10

Riviste

Humanitas. Nuova serie, anno LVII, n. 6 –novembre-dicembre 2002Brenner-Kreis. L’altra Austria, a cura diSilvano ZucalWalter Methlagl – Allan Janik, Il “Brenner”;Silvano Zucal, Il “Brenner” (1910-1954).Una rivista nella bufera teologica; AllanJanik, Carl Dallago e Martin Heidegger.L’inizio e la fine del “Brenner”; MonikaSeekircher, Filosofia del linguaggio nel“Brenner” e attorno a esso. Ebner,Wittgenstein, Bachtin; Paola Maria Filippi,Carl Dallago e la scrittura aforistica. Agliinizi del “Brenner”; Pietro Tomasi, CarlDallago, filosofo del religioso; StefanoSemplici, “È così facile, qui, essere uomo.Il Mühlauer Tagebuch di Ferdinand Ebner;Anita Bertoldi, Ferdinand Ebner e il“fuoco” del “Brenner” ; Richard Hörmann,Ferdinand Ebner nelle sue lettere; MicheleNicoletti, “Brenner”, 1933. La coscienzadel singolo e lo Stato totale; Michela Garda,Josef Hauer, op. 13, Über die Klangfarbe ela cultura viennese degli anni dieci-venti;Alessandro Fambrini, L’angelo, lospecchio, il cristallo. Immagini di salvezzae perdizione nella lirica di Georg Trakl.

Traduzioni

Rose Ausländer, Arcobaleno. Motivi dalGhetto e altre poesie, trad. e prefaz. diMaria Enrica D‘Agostini, Genova, SanMarco dei Giustiniani, 2002, pp. 129, s. i.p.

Herman Bang, Ludvigsbakke, pref. diJørgen Stender Clausen, intr. a cura di NiclaPercario, Firenze, Editoriale Sette, 2001,

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pp. 271, € 16

Imma von Bodmershof, Sale di Sicilia, acura di Giuseppe Dolei, Siracusa-Palermo,Lombardi, 2001, pp. 260, € 15,49

Hermann Broch, Autobiografia psichica,trad. e postfaz. di Roberto Rizzo, con unaprefaz. di Giorgio Cusatelli, Bologna, IlCapitello del Sole, 2002, pp. 152, € 14

Theodor Fontane, L’adultera, a cura di P.Severi, Genova, Il nuovo melangolo, 2002,pp. 209, € 8,00

Günter Grass, Il passo del gambero, trad.di Claudio Groff, Torino, Einaudi, 2002,pp. 203, € 15,00

Uwe Johnson, I giorni e gli anni. Dalla vitadi Gesine Cresspahl, vol. I, trad. diDelia Angiolini, Nicola Pasqualetti, Milano,Feltrinelli, 2002, pp. 464, € 25,00

Wolfgang Koeppen, La tana di fango.Memorie di un sopravvissuto, trad. di PaolaBuscaglione Candela, Firenze, La Giuntina,2002, pp. 126, € 10

Michael Krüger, Di notte, tra gli alberi, acura di Luigi Forte, Roma, Donzelli, 2002,pp. 216, € 10.80

Georg Christoph Lichtenberg, Zibaldonesegreto, scelta e trad. di Franco Farina,Milano, Edizioni Virgilio, 2002, pp. 419, €

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Kurt Marti, Orazioni funebri, a cura diAnnarosa Azzone Zweifel, Milano, Crocetti,2001, pp. 150, € 14,30

Friederike Mayröcker, Della vita le zampe,a cura di Sara Barni, Roma, Donzelli, 2002,pp. 216, € 11,00

Bernhard Schlink, Fughe d’amore, trad. di

Laura Terreni, Milano, Garzanti, 2002, pp.253, € 14

Kathrin Schmidt, A nord dei ricordi, trad. diSilvia Ruchat, Torino, Einaudi, 2001, pp. 424,€ 16,53

Annemarie Schwarzenbach, Sybille, trad. epostfaz. di Daniela Idra, Bellinzona,Casagrande, 2002, pp. 105, € 12,00via, un certo ritorno di interesse si segnala int

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57. Zehn Jahre nachher. Poetische Identität und Geschichte in der deutschenLiteratur nach der Vereinigung. Fabrizio Cambi und Alessandro Fambrini (Hrsg.),

2002, 370 pp., ISBN 88-8443-018-6, € 16

Il volume raccoglie gli atti del Convegno su “Identità poetica e storia nella letteratura tedescadopo l’unificazione”, tenutosi a Trento nel maggio 2000. In occasione del decennale dellacaduta del Muro germanisti di vari paesi e gli scrittori Volker Braun e Richard Pietraß hannocompiuto un primo bilancio del panorama letterario tedesco contemporaneo non disgiunto dauna rivisitazione critica del recente passato della Repubblica Democratica tedesca.

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XIV. Cesare Cases, Saggi e note di letteratura tedescaa cura di Fabrizio Cambi, 386 pp. € 15.50

Il volume, da tempo irreperibile, raccoglie scritti, composti fra gli anni Cinquanta e i primi anniSessanta, che spaziano dalla Aufklärung alla letteratura contemporanea e alla critica letteraria,in un’esplorazione dei processi culturali dettata dalla militanza delle idee e dalla ricerca di unaprospettiva interpretativa. La ristampa è corredata da una recente intervista all’autore.

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Osservatorio Critico della germanisticaanno IV, n. 15Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche - Trento 2001

Direttore Responsabile: Massimo Egidi

Redazione: Fabrizio Cambi, Alessandro Fambrini, Fulvio FerrariComitato esterno: Luca Crescenzi, Guido Massino, Lucia Perrone Capano, Grazia Pulvirenti,Aldo Venturelli, Roberto VenutiProgetto grafico: Roberto MartiniImpaginazione: C.T.M. (Luca Cigalotti)Editore: Maria Pacini Fazzi Editore - Lucca

Periodico quadrimestrale (febbraio, giugno, ottobre)Abbonamento annuale (tre numeri): € 12,91Abbonamento estero: € 18,59Numero singolo e arretrati: € 5,16

Modalità di abbonamento: versamento sul conto corrente postale numero 11829553 intestatoa: MARIA PACINI FAZZI - LUCCA, specificando nella causale sul retro ABBONAMENTOANNUALE A ‘OSSERVATORIO CRITICO DELLA GERMANISTICA’, e indicando nome,cognome, via e numero, c.a.p., città, provincia e telefono, oltre al numero di partita i.v.a. per glienti, istituzioni, aziende che desiderano la fattura.

Manoscritti di eventuali collaborazioni e libri da recensire vanno indirizzati ai componentidella redazione presso il Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche,via S.Croce 65, 38100Trento (tel. 0461/881718, 0461/882709 o 881739; fax. 0461/881751; [email protected]).

Amministrazione e pubblicità: MARIA PACINI FAZZI EDITORE S.R.L., piazza S. Romano16 - casella postale 173 - 55100 Lucca; tel. 0583/440188 - fax 0583/464656; [email protected]

Stampa: Tipografia Menegazzo - viale S. Concordio 903 - LuccaLuglio 2002

periodico in attesa di registrazione presso il Tribunale di Lucca

ISSN

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OSSERVATORIO CRITICOdella germanistica

Università degli Studi di Trento

III - 8€ 5,16

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INDICE

Grazia PulvirentiAmelia Valtolina, Blu e poesia. Metamorfosi di un colore nella moderna lirica tedesca 1

Christoph NickenigSoma Morgenstern, Fuga e fine di Joseph RothSoma Morgenstern, Werke in Einzelbänden: Joseph Roths Flucht und Ende. 3

Mario ZanucchiTheodor W. Adorno, Thomas Mann, Briefwechsel 1943-1955 6

Elena AgazziGrazia Pulvirenti, Oltre la scrittura. Frammento e totalità nella letteraturaaustriaca moderna 10

Alessandro FambriniSusanna Böhme-Kuby, Non più, non ancora. Kurt Tucholsky e la Repubblica di Weimar 12

Paola GheriGiuseppe Dolei, Voci del Novecento tedesco 15

Paola Di Mauro Guido Massino e Giulio Schiavoni (a cura di), Stella errante.

Percorsi dell’ebraismo fra Est e Ovest 19

Marco Rispoli Paola Mildonian, Alterego. Racconti in forma di diario tra Otto e Novecento 23

Fabrizio Cambi Hermann Dorowin, „Mit dem scharfen Gehör für den Fall“. Aufsätze zurösterreichischen Literatur im 20 25

INTERVENTI

Grazia PulvirentiI trionfi della morte 27

NOTA REDAZIONALE 31

SEGNALAZIONI 31