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L’obbligo di adottare per l’Unione a 25 Stati nuove prospettive finanziarie en- tro il 2006 rappresenta un’ opportunità che non va sciupata in nome di miseri egoismi nazionali, ma utilizzata per dare all’Unione stessa il senso di una effettiva finalità politica, oltre ai mezzi per realizzare le sue ambizioni e le sue missioni. Il futuro quadro finanziario dell’UE dovrebbe creare le basi stabili e solide per sostenere gli obiettivi di fondo del- l’Unione in un arco pluriennale. La Commissione Europea, guidata dal Presidente Prodi, ha gia da tempo presentato una proposta, in discussione ora al Parlamento. Segue a pag. 6 PROSPETTIVE FINANZIARIE E RIFORMA DELLA POLITICA DI COESIONE Gianni Pittella L’EUROPA DIFFICILE Biagio De Giovanni Lo stato della costru- zione europea presenta, come non mai, oggi, lati oscuri e problematici. Essi sono tali, e talmente evidenti, da poter indurrre a un pessimismo abbastanza radicale sul futuro dell’integrazione. Vorrei avverti- re, in limine, che non è questo lo spirito con il quale personalmente guardo ai problemi che si vanno aprendo. Non solo perchè non ho nessuna pretesa di avanzare previsioni, ma soprattutto per la ragione che chi abbia un minimo di conoscenza del passato di questa storia, sa bene che è assai difficile rac- chiuderla in schemi ordinati, le crisi ne hanno punteggiato il divenire, i grandi schemi di previsione troppo ordinati si sono sempre scontrati con una realtà estremamente complessa, la realtà la si è sempre potuto guardare come mezza in luce e mezza in ombra, con una diffi- coltà, spesso, a far prevalere l’un punto di vista o quello opposto. Segue a pag. 3 DPEF E FINANZIARIA MANOVRE DI BILANCIO CONTRO LO SVILUPPO E IL MEZZOGIORNO Mariano D’Antonio La peggiore legge finan- ziaria per il Mezzogiorno. Così può essere definito il provvedimento approvato dal governo a fine settembre e trasmesso al Parla- mento. E comunque la si giri e rigiri, la proposta governativa mantiene i suoi tratti di legge finanziaria antimeridio- nalista, anzi di un progetto di bilancio pubblico sostanzialmente ostile alla ri- presa dello sviluppo. Vediamo perché. Non è tanto in discussione l’ag- giustamento complessivo che la Fi- nanziaria di Berlusconi e Siniscalco intende apportare al deficit dei conti pubblici… Segue a pag. 8 Periodico del Centro di Iniziativa Mezzogiorno Europa Luglio/Ottobre 2004 Anno V Numero 4 Direttore ANDREA GEREMICCA Registrazione al Tribunale di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% – Direzione Commerciale Imprese Regione A pag. 17 Andrea Pierucci 27 EURONOTES La questione turca Marco Plutino a pag. 22 Antonio Alosco, Vittime della democrazia Prefazione di Giorgio Napolitano 25 LIBRI A pag. 12

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Rivista Mezzogiorno Europa

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L’obbligo di adottare per l’Unione a 25

Stati nuove prospettive finanziarie en-tro il 2006 rappresenta un’ opportunità che non va sciupata in nome di miseri egoismi nazionali, ma utilizzata per dare all’Unione stessa il senso di una effettiva finalità politica, oltre ai mezzi per realizzare le sue ambizioni e le sue missioni.

Il futuro quadro finanziario dell’UE dovrebbe creare le basi stabili e solide per sostenere gli obiettivi di fondo del-l’Unione in un arco pluriennale.

La Commissione Europea, guidata dal Presidente Prodi, ha gia da tempo presentato una proposta, in discussione ora al Parlamento.

Segue a pag. 6

PROSPETTIVE FINANZIARIE E RIFORMA DELLA POLITICA DI COESIONE

Gianni Pittella

L’EUROPA DIFFICILEBiagio De Giovanni

Lo stato della costru-zione europea

presenta, come non mai, oggi, lati oscuri e problematici. Essi sono tali, e talmente evidenti, da poter indurrre a un pessimismo abbastanza radicale sul futuro dell’integrazione. Vorrei avverti-re, in limine, che non è questo lo spirito con il quale personalmente guardo ai problemi che si vanno aprendo. Non solo perchè non ho nessuna pretesa di avanzare previsioni, ma soprattutto per la ragione che chi abbia un minimo di conoscenza del passato di questa storia, sa bene che è assai difficile rac-chiuderla in schemi ordinati, le crisi ne hanno punteggiato il divenire, i grandi schemi di previsione troppo ordinati si sono sempre scontrati con una realtà estremamente complessa, la realtà la si è sempre potuto guardare come mezza in luce e mezza in ombra, con una diffi-coltà, spesso, a far prevalere l’un punto di vista o quello opposto.

Segue a pag. 3

DPEF E FINANZIARIA

MANOVRE DI BILANCIOCONTRO LO SVILUPPO

E IL MEZZOGIORNOMariano D’Antonio

La peggiore legge finan-ziaria per il

Mezzogiorno. Così può essere definito il provvedimento approvato dal governo a fine settembre e trasmesso al Parla-mento. E comunque la si giri e rigiri, la proposta governativa mantiene i suoi tratti di legge finanziaria antimeridio-nalista, anzi di un progetto di bilancio pubblico sostanzialmente ostile alla ri-presa dello sviluppo. Vediamo perché.

Non è tanto in discussione l’ag-giustamento complessivo che la Fi-nanziaria di Berlusconi e Siniscalco intende apportare al deficit dei conti pubblici…

Segue a pag. 8

Periodico del Centro di Iniziativa Mezzogiorno Europa • Luglio/Ottobre 2004 • Anno V • Numero 4 • Direttore ANDREA GEREMICCA

Registrazione al Tribunale di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% – Direzione Commerciale Imprese Regione

A pag. 17

Andrea Pierucci 27EURONOTES

La questione turcaMarco Plutino

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Antonio Alosco, Vittime della democraziaPrefazione di Giorgio Napolitano 25

LIBRI

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… Per esemplificare questa situa-zione sul presente, basta

osservare che, accanto a difficoltà che… si vanno consolidando sul terreno della politica estera, dello scontro sul seggio al Consiglio di sicurezza dell’Onu, del patto di stabilità, della cruciale questio-ne turca, sono alle spalle fatti di enorme portata, dall’allargamento dell’ Unione alla stesura della Costituzione. Eppure, proprio muovendo da questi fatti, in sé certamente grandiosi, si possono scor-gere lati contraddittori, conflitti latenti, per cui ogni “fatto” sembra possedere valenze opposte, potenzialità contra-stanti, capacità di far avanzare il tutto o di condurlo in vie apparentemente senza uscite. Probabilmente, ciò che un tenta-tivo di analisi può fare, è di valutare le potenzialità di conflitto e le potenzialità di aggregazione che alcuni di questi fatti contengono e poi immaginare una specie di ”osservatorio” dal quale seguire lo svolgimento dei processi, cercando di coglierne di volte in volta le linee dominanti.

Su che cosa f e r m a r s i , per tentare

un primo, assai sintetico approccio? Inizierei dalla questione dell’unificazio-ne del continente con “l’allargamento” verso Est. L’idea dominante, non solo alla vigilia, ma lungo tutti i decisivi anni novanta, è stata quella di analiz-zare l’allargamento come governabile all’interno del classico nucleo politico franco-tedesco, e anzi –meglio- come una realtà che soprattutto la Germania fosse in grado di organizzare, dirigere, contribuire decisivamente a immette-re nel contesto europeo. Quest’ultimo passaggio era talmente convinto, da lasciar immaginare a molti che l’allar-gamento dell’Unione avrebbe significato una grande espansione dell’egemonia tedesca sul processo di integrazione europeo, e questo era anche argomento di non poche preoccupazioni, oltre che di grandi soddisfazioni per l’irreversi-

bile legame che sempre più si costruiva fra Germania ed Europa. Le ragioni di questa posizione dominante erano essenzialmente due.

La prima, riguardava il fatto che proprio la Germania si era avviata a vivere il “proprio” allargamento, la propria unificazione, l’unificazione con il proprio “Est”, e dunque si presentava con attitudini particolari per un governo dell’insieme del processo che presentava peraltro molte analogie. Nella realtà, le cose stanno andando diversamente, nel senso che il governo della propria unificazione presenta, per la Germania, problemi assai più complessi di quelli immaginati, talmente complessi, anzi, da contribuire alla individuazione di una “crisi” tedesca -sia economica sia politi-ca- di proporzioni abbastanza rilevanti. E’ fuor di dubbio che questa situazione non era prevista nella sua serietà; ed è

anche fuor di dubbio che questa situa-zione incida fortemente sul rapporto complessivo fra la Germania e l’Europa-Est, nel senso di ridurre sia la capacità di egemonia della prima sulla seconda, sia il mito inscalfibile, nel passato, della sua potenza economico-finanziaria.

La seconda ragione è connessa a quella ora indicata, ma tocca un ver-sante più d’insieme. Si immaginava, nelle tesi dominanti, che l’Est-Europa potesse essere considerato una sorta di zona di influenza tedesca, come so-prattutto la storia del novecento aveva drammaticamente mostrato. A dare adito a questa immaginazione, fu la stessa Germania, che promosse l’allar-gamento più di ogni altro paese europeo, non solo come un suo obbligo morale, come disse Kohl, rispetto alla storia del secolo, ma perché immaginava di poter interpretare in chiave europea la vecchia

EUROPA

Europa. Siamo su un crinaleche rende difficile

la possibilità di restar fermi

dove si èBiagio De Giovanni

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zona di influenza del marco mantenen-do con essa legami privilegiati. Ora, le cose non stanno andando esattamente nella direzione prevista, sia per la crisi tedesca cui si è fatto cenno, sia –e direi soprattutto- perché i paesi che hanno aderito all’Unione mostrano una vo-lontà di autonomia più sentita di quella che si poteva immaginare. Un riflesso forte di questa volontà di autonomia si è avuta intorno alla questione Irak, dove posizioni come quelle tedesche e polacche (e non solo) si sono clamorosamente divaricate. Sullo sfondo, naturalmen-te, il nodo dei rapporti euro-atlantici, e dunque qualcosa che tocca un tratto essenziale della dimensione strategica europea e mondiale.

Questo insieme di fatti -tutti in corso di svolgimento e dunque certo modi-ficabili- mostra che l’unificazione del continente europeo pone problemi assai più complessi, politicamente, di quanto si potesse immaginare, e ciò anche per un’altra ragione che passo ad esporre qui appresso.

E l’altra ragione è questa, ed è tema sul quale mi

è già capitato di dir qualcosa anche su questa rivista: la crisi dell’avanguardia franco-tedesca come motore dell’inte-grazione europea. Oggi, essa non è più proponibile nelle forme tradizionali, ed è proprio l’allargamento dell’Unione ad aver segnato, su questo punto decisivo, un salto problematico. L’Europa a 25 non sembra governabile da un nucleo politico ristretto, che detti la linea del-l’integrazione. Ora, la serietà, sia cul-turale sia politica, del problema, sta nel fatto che senza un asse franco-tedesco l’Europa non può camminare (e non c’è bisogno di argomentare questa ovvia tesi), ma oggi quell’asse, se interpretato in chiave regressivo ed egemonico, o co-munque interno agli schemi tradizionali, può diventare un grandioso elemento di ritardo e di conflitto rispetto alla pro-spettiva europea. Dunque, né con te né senza di te io posso vivere, per parafra-sare a tutt’altro proposito celebri versi di Catullo. Ma poiché ci troviamo nella dura prosa della realtà e non nella flui-da vicenda dell’amore, il tema assume una dimensione strategica ineludibile che non mi sembra risolvibile “istitu-zionalmente”, attraverso la dichiarata flessibilità delle cooperazioni rafforzate. Proprio per la centralità della questione franco-tedesca, se questo nucleo proce-desse per suo conto, tutta la fisionomia dell’integrazione europea ne sarebbe

modificata, né d’altra parte è facilmente immaginabile che ciò possa avvenire, dal momento che –prima o dopo- questo asse non sarà più così unito come oggi appare, per le ragioni che accennerò fra un momento. Per raggiungere un prov-visorio punto di conclusione, il necessa-rio allargamento dell’Unione europea ha talmente mutato le dimensioni stra-tegiche dell’integrazione europea, da ob-bligare a nuovi pensieri, che stentano a formarsi, nella drammatica emergenza che si è disegnata nel mondo. Qui c’è un tratto profondo di discontinuità rispetto a ogni passato del processo politico eu-ropeo, e c’è probabilmente da riflettere sul futuro ruolo del Regno Unito, proba-bilmente per un tipo di integrazione che non ripeterà semplicemente le ipotesi fi-nora prevalse. Insomma, una domanda d’insieme può essere la seguente: giac-chè il semplice pluralismo delle nazioni integrande non regge a un minimo di analisi realistica, quali saranno le nuo-ve prospezioni egemoniche nella realtà europea, non più semplicemente radu-nabili intorno al nucleo franco-tedesco? Quale, il nuovo equilibrio? Domande di grande portata, che proprio per la loro dimensione sembrano lasciare aperta anche la possibilità di una crisi del pro-cesso di integrazione politica e qualche ripiegamento o rallentamento nella prospettiva futura.

Ho lasciato un punto sospeso, su cui vorrei aggiungere qualcosa. Ho accen-nato alla possibilità che in un futuro non lontano ci sia una divaricazione di inte-ressi tra Francia e Germania. Personal-mente, la vedo legata all’atteggiamento assunto (soprattutto) dalla Francia nella vicenda irakena, e più largamente nella interpretazione del rapporto con gli Stati uniti. La posizione della Germania ha avuto sfumature e motivazioni diverse, anche se non sono chiaramente sem-pre comparse. Personalmente, dò una lettura della posizione francese non in chiave europeista. Tutt’altro. Si tratta di un fase storica nella quale la Francia di Chirac ha pensato di poter riprendere un ruolo egemone, in Europa, in chiave post-gollista, senza rendersi conto di una Europa mutata, e senza forse ricordare il fallimento anche dei tentativi prece-denti. Ha ritenuto che il rigetto della guerra in Irak aprisse un tale spazio nell’opinione pubblica europea, da con-sentirgli di ripresentare in altra salsa il tradizionale gollismo della politica euro-pea della Francia. Non ho qui lo spazio per argomentare la tesi, e soprattutto per scorgerne la conseguenze sul tempo

lungo. Di sicuro, ribadisco, si tratta del ritorno di una posizione francese che, come tale, è sempre entrata in conflitto con il processo di integrazione europea, e che proprio la Germania ha cercato, soprattutto in certe fasi, di mitigare, come mostrerebbero tanti episodi, a co-minciare da quelli che accompagnarono la firma del Trattato franco-tedesco del-l’Eliseo nel 1963. Ebbene, a mio avviso, conclusi i momenti della più drammati-ca emergenza, la Germania non potrà seguire la Francia su quel sentiero. L’asse antiUsa, che oggi la Francia cer-ca di rappresentare, è troppo rischioso e velleitario per avere un vero futuro politico, almeno all’interno della visione francese. Ma è un tema che in una Euro-pa a 25 può diventare dirompente, ed è questione che propongo “per memoria”, come si dice, e sul quale occorrerà tor-nare appositamente. Ma è un problema, nell’ambito del ragionamento proposto, che rappresenta un ulteriore tassello per negare la possibilità del permanere di un asse franco-tedesco senza smagliature, come si è presentato in questi mesi.

Ma c’è ancora del l ’a l tro da annota-

re velocemente per arricchire il quadro dei problemi, e mi riferisco soprattutto a una questione che si è riaperta proprio in queste settimane in modo acuto. Mi riferisco alla questione dell’attribuzione dei seggi al Consiglio di sicurezza del-l’Onu, di cui giustamente si chiede una modifica nella composizione. All’Unione europea o alla Germania? La battaglia tedesca sulla propria candidatura non è propriamente un modello di sentire europeista, anche perchè va in veloce contrasto con i primi passi compiuti, in direzione di una politica estera comune, dal testo della Costituzione europea. Non si può pensare che la durezza della

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posizione tedesca nasca proprio da un certo scetticismo sulle prospettive vicine di integrazione politica? Comunque mo-tivabile, essa è riprova di difficoltà sul fu-turo, giacchè è facilmente immaginabile che una forte concentrazione di potere politico in singoli Stati, per di più nel momento in cui si tenta una innovazione degli aspetti più datati della struttura Onu, rappresenti un macigno sulla via della formazione di una comunità poli-tica europea. Come se il rafforzamento della posizione degli Stati-nazione, nel quadro dell’acuirsi delle contraddizioni mondiali, spingesse non verso la forma-zione di una sovranità condivisa, ma ponesse l’aspro ritorno di meccanismi di decisione esclusivi, con un effetto ne-gativo sui processi di decisione europei. E qui certo non è indifferente l’inasprirsi dei processi mondiali, la sensazione che ritorni in campo la necessità di decisio-ni veloci (nello “stato di eccezione”, si potrebbe dire) cui non sembra potersi adeguare l’Unione nel suo insieme.

E che dire, infine, delle problemati-che relative al “Patto di stabilità”? Agli sforamenti che le potenze maggiori – e proprio Francia e Germania- si consentono? All’incidenza della sua interpretazione sulle possibilità di una ripresa economica europea? E come non legare, anche qui, economia e politica, nel senso che una Europa economicamente debole ha una mino-re volontà e capacità di decisione per formare una comunità politica? Qui, il nodo da sciogliere (ma come, in quali forme?) è l’arricchimento e la deter-minazione dell’unità economica e non solo monetaria fra gli Stati dell’Unio-ne. Ma una maggiore unità economica non è affatto “neutrale”, e pone bensì questioni strategiche anche relative al rapporto con l’America, che sono sotto la luce di grandi contrasti.

Qualche osservazione, per concludere. Non ho

ancora nominato il tema della Costitu-zione, anche perché, in altri interventi re-centi su questa Rivista, avevo manifesta-to tutti i miei dubbi e incertezze sull’esito di quel lavoro e perfino sulla decisione di compierlo. Ora, che il testo esiste e che non se ne può sottovalutare la portata, non è facile prevedere quale sarà l’esito finale del suo itinerario. L’orizzonte di un giudizio referendario -che perfino in Francia lascia intravedere problemi grossi e divisioni trasversali- allarga la sua ombra e acuisce le incertezze, se si pensa alla necessaria unanimità per l‘approvazione. Certo, tutte le ombre che si accumulano sul processo europeo, fanno prevedere difficoltà supplementa-ri rispetto a quelle che il testo già poneva in alcune sue parti. Se costituzione e co-munità politica si richiamano l’un l’altra, come non accorgersi che tutti i problemi, che si vanno delineando, costituiscono una remora affinchè quella connessione si manifesti in tutta la sua ricchezza? La gran questione che si apre, in vista di una definitiva ratifica del testo costitu-zionale, è quello relativo alla sostanza di una democrazia post-nazionale che abbracci l’unità del continente. Qui mi limito a porre interrogativi, e sono i se-guenti: che cosa significa costruire una democrazia oltre i confini degli Stati-nazione? Quale spazio pubblico si può individuare in costruzione? Quale nesso fra democrazia e liberalismo, che hanno trovato le loro connessioni nello spazio di decisione e di legittimazione dello Stato-nazione? Nel testo costituzionale, non c’è troppa “garanzia” e troppo poco “indirizzo politico”? Non c’è il rischio di una costituzione spoliticizzata? Ma costi-tuzione spoliticizzata non è un ossimoro? Ed infine, è veramente possibile una democrazia europea capace di decisio-

ne? Questa tematica si tiene con tutte le altre indicate e mostra quale sforzo sarà necessario per far convergere in punti di unità tutto ciò che sembra espandersi in uina diaspora di interessi e di idee.

Sia ben chiaro. Non ho cercato af-fatto di rappresentare una posizione scettica sull’insieme della prospettiva, e so bene di quante irreversibilità sia fatto il processo europeo, di quanti progressi ”formali” che poi sono stati capaci di riempirsi di contenuti. Avrei potuto, di ogni problema indicato, accennare la controfaccia positiva, ma l’accento ho voluto metterlo sulla problematicità. Se avessi preferito uti-lizzare il “politicamente corretto”, avrei pronunciato la frase fatale: siamo in una “fase di transizione” (il che in sé può esser ben vero), ma ho preferito indica-re in modo più aperto e problematico alcuni temi. Si può aggiungere, piut-tosto, che il crinale cui la costruzione europea sembra essere giunta, deriva dall’aumento straordinario del tasso di politicizzazione che la ha caratterizzata soprattutto dopo il 1989, e che dunque potremmo trovarci in presenza di una crisi tipica dell’età della crescita. Di si-curo c’è che siamo a una svolta, o meglio siamo su un crinale che rende difficile la possibilità di restar fermi dove si è. Dopo il decennio post-Maastricht che ha costituito un livello alto e convin-cente di costruzione di una Europa più unita, oggi la fase è diversa, e bisogna evitare di nascondersi dietro il dito -ormai- dell’europeismo retorico e di facciata. Gravi problemi si addensano all’orizzonte, ed è tutto da dimostrare sia che essi possano esser risolti in rela-tiva continuità con i sistemi di pensiero che ci hanno aiutato ad arrivare dove siamo giunti, sia che ci siano al loro po-sto gli uomini e le classi dirigenti capaci di affrontarli.

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…Vi è da augurarsi che il confronto sia pari

alla posta in gioco, e coinvolga tutti gli attori politici, socioeconomici e istituzionali presenti in Europa.

Come ha spesso ricordato pro-prio Romano Prodi i costi di una “non Europa” o di una “mini Eu-ropa”, sono ben più alti di quelli che servono per dotare l’Unione di mezzi idonei.

Le tre priorità individuate dalla Commissione, largamente condi-visibili, sono:• lo sviluppo sostenibile per

completare il mercato interno mobilitando le politiche eco-nomica, sociale ed ambientale. In ciò rientrano gli obiettivi cardine della strategia di Lisbo-na, la competitività, la crescita sostenibile e la coesione;

• la piena realizzazione della cit-tadinanza europea attraverso il completamento dello spazio di libertà, di giustizia e di sicurez-za e l ‘accesso ai beni pubblici essenziali;

• il rafforzamento del ruolo di partner globale, capace di svolgere in modo autorevole la propria missione nel contesto mondiale.

• il mantenimento del massimale delle risorse da determinare a livello comunitario all’1,24% del reddito nazionale lordo (RNL). Un aumento delle risorse im-

piegate all’interno di quel mas-simale. La proposta per le nuove Prospettive Finanziarie fissa il livello medio degli stanziamenti di pagamento all’1,14% del RNL.

All’interno di questo quadro si colloca la percentuale da destinare alla politica di coesione, che non dovrà essere inferiore allo 0,45 per cento del PIL europeo.

I nuovi lineamenti della politica di coesione prevedono tre priorità: 1) l’obiettivo della Convergenza, 2) l’obiettivo della Competitività regionale e dell’occupazione ed infine 3) l’obiettivo della Coopera-zione territoriale europea.

Importante impegno deve es-sere profuso per l’obiettivo della convergenza, indirizzando mag-giori risorse verso gli Stati membri e le regioni meno sviluppate del-l’Unione allargata. Rientreranno in questo ambito (una sorta di “Obiettivo 1 Bis) anche le regioni

che non hanno completato il pro-cesso di convergenza e che a causa dell’ingresso di nuovi stati più poveri sarebbero escluse dall’ob.1 (effetto statistico).

È indispensabile migliorare la competitività attraverso interventi di accrescimento del capitale fisi-co ed umano. È questa la strada per avere una risposta positiva in termini di crescita economica. I programmi di convergenza devo-no mirare alla modernizzazione per promuovere la sostenibilità ambientale e recare un maggiore contributo alla resa economica complessiva dell’Unione.

Gli interventi nell’ambito della competitività regionale e a favore dell’occupazione saran-

I costi di una ‘mini Europa’ sono ben

più alti di quelli che servono per dotare

l’Unione di mezzi idoneiGianni Pittella

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no attuati seguendo le priorità correlate all’agenda di Lisbona e di Göteborg, agendo in ambiti ridotti in maniera da assicurare un valore aggiunto ed un effetto moltiplicatore delle politiche nazionali o regionali.

I programmi di sviluppo re-gionale verrebbero semplificati abbandonando anche l’attuale sistema in base al quale la Com-missione deve selezionare piccoli territori a livello subregionale.

Terza priorità della politica di coesione sarà quella di miglio-rare l’efficacia dei programmi trasfrontalieri e transnazionali per la Cooperazione territoriale europea, cercando di superare i problemi legati alla realizzazione

di un’economia competitiva e di uno sviluppo equilibrato in regioni degli Stati membri attra-versate da confini nazionali.

La Commissione ha inoltre adottato e trasmesso al Parla-mento ed al Consiglio, la propo-sta di riordino dei regolamenti sui Fondi Strutturali.

Confermando i quattro principi fondamentali dei Fondi strutturali (partenariato, programmazione pluriannuale, addizionalità, va-lutazione), la riforma nasce per rafforzare la dimensione strategica degli interventi attraverso l’attua-zione di una strategia comunitaria per la politica di coesione.

I nuovi regolamenti confer-mano la prassi della program-

mazione pluriennale, attribuen-done però la responsabilità della gestione operativa e dei controlli agli Stati membri, e introducono una semplificazione importante del sistema di gestione finan-ziaria:

La programmazione plurienna-le sarà concepita in due tappe: una prima tappa di natura politica, ed una seconda di natura operativa per la gestione degli interventi.

Nella prima tappa il Consiglio europeo adotterà gli orientamenti strategici dei fondi strutturali, e la Commissione europea approverà i quadri di riferimento strategici predisposti dagli Stati membri.

In un secondo momento sarà la Commissione ad adottare i programmi operativi preparati dagli Stati membri in base ai quadri di riferimento strategici. La novità è che non si ricorrerà più al complemento di program-mazione. L’attuazione dei pro-grammi verrà effettuata per priorità d’intervento e per quanto riguarda i controlli la Commis-sione esigerà una garanzia della buona gestione amministrativa e finanziaria degli interventi.

Le risorse finanziarie saranno concentrate nelle regioni più bisognose, quelle del prossimo obiettivo “convergenza”, le quali riceveranno il 78% dei fondi. Il 18% sarà attribuito all’obiet-tivo “competitività regionale e occupazione”, e il restante 4% all’obiettivo “cooperazione ter-ritoriale europea”.

Gli Stati membri stanno attual-mente esaminando i nuovi regola-menti. Tra circa un anno si prevede la conclusione dell’iter legislativo e quindi l’approvazione.

È una sfida essenziale. Biso-gna predisporre i mezzi finan-ziari necessari affinché l’Unione europea possa portare avanti una reale e concreta politica di coesione e crescita.

Segretario Delegazione italiana DS al Parlamento Europeo. Membro Commissione per i Bilanci.

I Fondi Strutturali Una nota-stampa di Gianni Pittella

Nei giorni scorsi alcuni giornali hanno pubblicato un articolo sui rischi che correrebbero le Regioni del Mezzo-giorno d’Italia, relativamente alla dotazione finanziaria dei fondi strutturali, a causa dell’allargamento.

Mi pare molto utile tenere alta l’attenzione su questo tema, in vista del negoziato che dovrà decidere in merito.

Credo però che la preoccupazione che le Regioni del Sud perdano, al 2006, circa 20 miliardi di euro, sia senza fondamento.

Infatti la previsione di una fuoriuscita dall’Obiettivo 1 di quasi tutto il Mezzogiorno potrebbe avverarsi solo con l’allargamento dell’Unione a 27 Stati, ed è noto che Romania e Bulgaria entreranno nell’Unione non prima del 2007.

Dunque al momento della definizione del nuovo pacchetto finanziario 2006-2013 solo la Basilicata e la Sardegna sarebbero fuori dall’Obiettivo 1, e comunque collocate nell’Obiettivo 1 bis (godrebbero ancora di fondi strutturali).

Al 2006 l’Italia rimarrebbe la principale beneficiaria di fondi strutturali, tra i “vecchi” Stati membri della UE.

Ciò, ovviamente, se la proposta fatta dalla Commis-sione Prodi sulla nuova Prospettiva Finanziaria e sulla nuova “agenda” per la coesione, sarà approvata.

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… cioè la cifra di 24 miliardi di euro da ottenersi

con maggiori entrate e minori spese rispetto a quelle che si avrebbero tendenzialmente nel 2005. L’aggiu-stamento del bilancio è una necessità oggettiva, un intervento imposto dal rispetto dei parametri della moneta unica europea. Altri Paesi come Ger-mania e Francia, nonostante i richiami della Commissione e i rimbrotti della Banca Centrale Europea, potranno ancora sforare il tetto di un disavanzo pari al 3% del prodotto interno lordo. L’Italia non se lo può permettere per-ché ha ereditato un debito pubblico ingente che gli altri Paesi non hanno, tale da mettere a rischio l’intera co-struzione dell’euro, la credibilità delle moneta unica agli occhi dei mercati finanziari internazionali.

D’altra parte è finita l’epoca della cosiddetta finanza creativa, degli ac-corgimenti i più fantasiosi (condoni, cartolarizzazione degli immobili, rinvio delle spese) escogitati dall’ex ministro dell’Economia e delle Fi-nanze Tremonti per neutralizzare il disavanzo. Qualche traccia di questa finanza pirotecnica si ritrova ancora nella proposta per il 2005 presentata dal successore di Tremonti Siniscalco. Il grosso dell’aggiustamento tuttavia è ora ricercato incidendo dal lato della spesa pubblica che dovrebbe marciare meno dell’inflazione e di maggiori en-trate nelle casse dello Stato. A livello macroeconomico ciò significa che il bilancio pubblico l’anno prossimo non darebbe alcun impulso alla domanda, anzi la deprimerebbe pompando nell’economia un potere d’acquisto minore di quello che ne sottrae. Perciò la proposta governativa è stata definita anche una Finanziaria per il ristagno.

Le previsioni sull’andamento macroeconomico d’altra parte, Finan-ziaria permettendo, non sono rosee: l’economia italiana, secondo una stima del Fondo Monetario Internazionale,

nel 2005 crescerà meno del 2%, in linea con quanto si prevede per la Germania (+1,8%), meno di quanto si prevede per la Francia (+2,3%) e per la Spagna (+2,9%).

Veniamo agli effetti sul Mezzogior-no. I colpi che l’economia meridionale riceverebbe dalla legge finanziaria una volta approvata, provengono da quat-tro meccanismi che si metterebbero all’opera.

Il primo è il gioco delle spese pubbliche correnti e di quelle in conto capitale. La Finanziaria nelle intenzio-ni di Siniscalco frena la crescita della spesa pubblica corrente imponendovi il tetto di un incremento massimo del 2%. Sono però escluse le spese sociali, in particolare le pensioni, e gli stipendi agli statali che, data la scadenza dei contratti di lavoro, si prevede aumen-tino del 3,7%, una cifra questa che, per rispettare il tetto, si accompagna col blocco generalizzato delle assunzioni nel pubblico impiego. La pressione dei partiti di maggioranza più orientati a soddisfare le esigenze sociali ovvero più populisti (leggi: Alleanza nazio-

nale e UDC) unitamente ai fattori di inarrestabile lievitazione della spesa corrente, condurrà inevitabilmente a scaricare il grosso dell’aggiustamento della spesa pubblica sul versante delle spese in conto capitale, vale a dire sugli investimenti diretti del settore pubblico (le infrastrutture) e sui trasferimenti alle imprese. Ma ciò vorrà dire penalizzare soprattutto il Mezzogiorno che mostra un perdu-rante deficit di opere pubbliche e un fabbisogno insoddisfatto d’incentivi alle imprese.

Secondo meccanismo di penaliz-zazione del Sud: la riforma degli in-centivi. Il governo di centrodestra, fin dal suo esordio, ha preteso di ridurre e talvolta di cancellare gli incentivi che il centrosinistra aveva predisposto per le imprese meridionali. La politica eco-nomica, gestita da Tremonti in stretta sintonia con le pulsioni antimeridiona-li della Lega Nord, ha ridotto sensibil-mente il bonus occupazione, il credito d’imposta sugli utili reinvestiti, gli in-centivi all’imprendorialità giovanile e all’autoimpiego e soprattutto ha eretto

E’ finita l’epoca della cosiddetta finanza creativa escogitata

da Tremonti per neutralizzare

il disavanzoMariano D’Antonio

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una selva di ostacoli amministrativi e procedurali su queste agevolazioni pur così ridotte trasformandole da agevolazioni automatiche o semiauto-matiche in agevolazioni discrezionali o comunque soggette ad un regime au-torizzativo molto stringente. Tremonti infine, d’accordo sempre con i leghisti, ha annunciato l’intento di riformare l’unica valida legge di incentivazione ancora operante prevalentemente per il Mezzogiorno, cioè la legge n.488 del 1992, trasformando in parte o in tutto l’agevolazione sugli investimenti in un credito da erogare alle imprese seppure a tasso agevolato. Proprio in vista di questa trasformazione della “488”, essa è stata resa inoperante durante l’anno in corso e lo sarà anche l’anno prossimo, fino a quando non sarà riformata.

Terzo meccanismo di penalizzazio-ne del Mezzogiorno: il decentramento della tassazione. La Finanziaria 2005 autorizza gli Enti locali a varare tributi locali più gravosi al fine di recuperare le risorse che altrimenti lo Stato lesi-nerà nel rispetto dei vincoli di spesa

pubblica. Ciò porrà Comuni e Regioni meridionali dinnanzi ad una dolorosa alternativa: ridurre le prestazioni di servizi pubblici (trasporti, sanità, sussidi alle fasce sociali deboli) oppure accrescere le aliquote delle imposte locali nonchè le contribuzioni da parte dei beneficiari (ad esempio, i ticket sanitari). Mentre nelle aree più ricche del Paese, gli Enti locali possono ma-novrare la leva fiscale senza incidere sensibilmente sul tenore di vita della popolazione, nel Mezzogiorno i mar-gini di recupero fiscale sono più ridotti essendo il reddito per abitante ancora inferiore in media per più di un terzo nei confronti del Nord.

Quarto meccanismo punitivo per l’economia meridionale: il SuperCI-PE, cioè il Comitato interministeriale per la programmazione economica che la legge finanziaria 2004 auto-rizzò a gestire le risorse destinate alle aree depresse in maniera da modulare la spesa a seconda dei fabbisogni effettivi emergenti dai singoli progetti o programmi. La Finanziaria 2005 mantiene in vita il SuperCIPE che è presieduto dal capo del governo ma che in realtà è caduto sotto il controllo occhiuto della Ra-gioneria generale dello Stato la quale quest’anno ha lasciato per mesi in sospeso progetti e programmi pre-sentati dalle Regioni e dai Ministeri. Presumibilmente il SuperCIPE farà altrettanto il prossimo anno a legge finanziaria approvata lasciando i flussi di spesa alla discrezionalità della burocrazia ministeriale (del Ministero dell’Economia e delle Finanze) che in periodo di vecche magre, cioè di restrizioni alla spesa pubblica, rinvia l’approvazione dei progetti nonostante la formale di-sponibilità di risorse da impegnare. Ciò incide anche sulla spesa dei fondi strutturali europei per la parte di co-finanziamento nazionale che subisce i ritardi manovrati dal SuperCIPE.

Il ministro dell’Economia e delle Finanze Siniscalco nel presentare a fine settembre il disegno di legge finanziaria ha annunciato che in se-guito sarà varato un provvedimento ad esso collegato per il rilancio della competitività delle imprese italiane. Il “collegato” alla Finanziaria dovrebbe contenere la misura che sta più a cuore a Berlusconi, cioè la riforma fiscale articolata su tre aliquote, che viene annunciata come capace di dare slan-cio ai consumi e agli investimenti. La

Confindustria di Montezemolo a sua volta preme affinchè nel “collegato” si dia spazio alla cosiddetta fiscalità di vantaggio, cioè a sgravi per le imprese che intendono finanziare progetti di ricerca e d’innovazione, per lo più im-prese mediograndi, presumibilmente localizzate anche (ma non soprattutto) nel Mezzogiorno.

Alla riforma fiscale Berlusconi e il suo partito Forza Italia attribuiscono significati che trascendono l’effetto d’im-magine, propagandistico ovvero vanno oltre l’adempimento di una promessa elettorale. Sono legittime tre obiezioni. In primo luogo, la riforma fiscale costa in termini di gettito per l’erario, costa almeno inizialmente (è dubbio che chi oggi evade le imposte si disponga subito, da domani, a pagare il dovuto in presen-za di aliquote più basse). Il costo iniziale della riforma aggraverebbe la situazione di una finanza pubblica già in stato d’affanno ponendo il problema di ulte-riori tagli di spesa pubblica. In secondo luogo, l’effetto di stimolo ai consumi e agli investimenti derivante dalla rifor-ma fiscale può essere nullificato dalle aspettative di una congiuntura interna ed estera ancora segnata dal ristagno della produzione e dei redditi: la riforma potrebbe paradossalmente accrescere la propensione al risparmio da impiegare in attività liquide oppure in beni rifugio come le abitazioni. In terzo luogo, se la riforma avvantaggiasse i redditi medio-alti, ne sarebbe ancor più stimolata la formazione di risparmio.

Considerando la riforma fiscale che sta a cuore a Berlusconi dal punto di vista degli interessi del Mezzogiorno, queste obiezioni equi-valgono a dire che l’alleggerimento delle aliquote avrebbe scarse riper-cussioni sull’economia meridionale. Anzi, se per ridurre le imposte fosse necessario un ulteriore giro di vite sulla spesa pubblica in conto capita-le, il Sud sarebbe chiamato a pagare indirettamente, più di altre regioni italiane, la cambiale elettorale che Berlusconi porta all’incasso.

Se il discorso critico sulla Fi-nanziaria che ho provato fin qui a svolgere è – come credo – fondato, c’è da chiedersi quali iniziative poli-tiche la nascente coalizione dell’Ulivo intende avviare nei prossimi tempi, nel territorio oltre che in Parlamento, per contrastare, emendare, in alcuni punti riscrivere, un disegno di legge così lesivo delle necessità di sviluppo del Mezzogiorno.

MEZZOGIORNO

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Si sa che l’Italia è il Paese in cui “l’erba del vicino è sempre più verde”. Anzi, più green: se il prato è all’inglese, a noi di casa piace ancora di più. Perciò il

ministro dell’Economia Domenico Siniscal-co ha avuto buon gioco nell’enfatizzare con accento anglosassone il tentativo di mettere sotto controllo i conti dello Stato. Si deve incidere nel deficit per non meno di 17 miliardi di euro. Ed ecco la novità: il bilancio fisserà, sul modello del cancelliere dello scacchiere del governo Blair Gordon Brown, un limite invalicabile (no-go area?) del 2 per cento alla crescita della spesa corrente nel 2005.

Ma quell’erba va pur sempre trapiantata su suolo italiano. Un terreno in cui, assieme alla pianta sempreviva delle regole, crescono a profusione i polloni delle eccezioni. Lo ha spiegato molto bene il Foglio di Giuliano Ferrara. Vedrete, scrisse il giornale, nel prato “inglese” spunterà ben presto la malerba. E di inglese, strada facendo, resterà solo il profumo. Perché, a parte alcune non trascurabili diffe-renze sostanziali che distinguono il planning programming and budgeting system dal nostro Dpef, “il succo del metodo brown è che il governo di sua Maestà presenta la finanziaria in una valigetta, e la Camera dei comuni ha potere di dire sì o no, senza trascorrere tre mesi interi impazzendo in riscritture e pezze a colori, in teoria basate sul rispetto dei saldi da garantire ma regolarmente sottostimando spese e sovrastimando coperture delle pile di emendamenti approvati”. Ed è quanto veniamo osservando, cioè il tentativo di tenere sotto una coperta troppo corta il contratto degli statali, la spesa decentrata dei Comuni, il fabbisogno delle Regioni.

Tredici delle circa sessanta pagine del Dpef 2005-2008 sono dedicate al Mezzogiorno. Gli orientamenti di politica economica per il Sud

predisposti dal Governo si basano su previsioni e prospettive non incoraggianti. In assenza di una crescita della capacità operativa e della qualità di spesa delle amministrazioni regionali, il tasso di incremento del Pil meridionale è destinato a restare decisamente inferiore a quello europeo. E ciò non per un mese o un anno, ma fino al 2008. Momento in cui, presumibilmente, la sfida competitiva sugli scenari internazionali sarà partita chiusa. Nel Dpef si ipotizza un tasso di crescita del Mezzogiorno intorno all’1 per cento. Per ben che vada. Perché non è detto che il contenimento dell’azione di investimento, per ef-fetto delle misure correttive della finanza pubblica (per l’appunto, il metodo Brown) non si tradurrà in un elemento di ostacolo anche per l’obiettivo minimo della crescita all’1 per cento. E’ ancora il Dpef – spiega Lo Cicero - a dirci che l’economia meridionale mostra una tendenza all’espansione più spiccata nell’industria medio-piccola e nel settore agricolo. Non si tratta, onestamente, di indicatori in grado di supportare una crescita di lungo periodo. Che, ormai sappiamo, si gioca in termini di ricerca, innovazione, organizzazione, capacità di confronto competitivo con economie avanzate e sistemi areali di cui avvertiamo l’alito sul collo.

Il nodo principale, insomma, di una rivisitata “questione meridionale” riguarda la qualità delle misure di sviluppo delle amminstrazioni “attuatrici”. La nuova architettura del sistema di interventi delle politiche di sviluppo - la creazione di due Fondi che amministrano il complesso delle risorse disponibili; il riordino delle politiche di programmazione negoziata; il rischedu-ling dei progetti proposti e mai avviati - si fonda propriamente sulla capacità operativa delle amministrazioni decentrate.

“A fronte di un compito così impegnati-vo – è ancora Lo Cicero che parla – le Regio-ni appaiono troppe, troppo piccole e troppo

interessate, specie in questo momento, a difendere il loro orto elettorale”. Le con-sultazioni che le riguardano si avvicinano a rapidi passi. E in Italia, in simili circostanze, si entra in una sorta di “semestre bianco” che rasenta la paralisi. Per di più è proprio il Dpef ad annunciare, tra l’altro. che il Governo ha intenzione di “stressare” le amministrazioni attuatrici con ulteriori meccanismi premiali, evidentemente per esercitare una pressione sulle loro performance.

Banche, pubblica amministrazione e imprese. Ecco la melodia che il Sud non riesce a suonare. Un magico accordo che ha, tutavia, una nota dominante: la qualità delle amministrazioni attuatrici. Problema considerato inderogabile al punto che, al suo cospetto, anche la questione della riforma degli incentivi appare in subordi-ne. Dai finanziamenti a fondo perduto (e automatici nell’ultima Finanziaria firmata da Visco) si passerà a qualcosa di simile ai mutui a tasso agevolato. Occorre mettere ordine in un sistema che, agli occhi degli investitori, appare come una “foresta opa-ca”. E certo non incoraggia le imprese la “discrezionalità” con la quale il Governo – tanto per dare a Cesare quel che è di Cesare – soppresse gli automatismi del credito d’imposta aprendo una stagione che ha brillato soprattutto per immobili-smo. Ma qui emerge un altro punto. Gli incentivi non possono essere un surrogato del razionamento del credito che le banche praticano nel Mezzogiorno. Essi sono una misura temporanea, volta a colmare i tempi necessari per realizzare nuovo capitale fisso e sociale nel Meridione e migliorare il sistema bancario che agisce nella nostra economia. E così torniamo alla magica triade su cui solo può poggiare la riduzione del divario meridionale.

MEZZOGIORNO

BANCHE, PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E IMPRESE

UNA TRIADE PER LA RIDUZIONEDEL DIVARIO MERIDIONALE

Claudio D’Aquino

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Professor Lo Cice-ro, lei ha già sostenuto, proprio sulle pagine di Mezzogiorno-Europa, che il grande proble-ma delle politiche di coesione dell’Unione è avere, in Italia come in Germania, aree geo-grafiche che mostrano divari profondi accanto a territori che, viceversa, sono ad altissima densità di sviluppo. Ora il Dpef attribuisce alle amministrazioni “attuatrici” il titanico compito di col-mare il divario. Ma lei non mostra ec-cessiva fiducia nelle capacità operative delle Regioni, non è così?

R: Non io, ma il Dpef ne parla come di un nodo non risolto. La nuova archi-tettura del sistema di interventi delle po-litiche di sviluppo - la creazione di due Fondi che amministrano il complesso delle risorse disponibili; il riordino delle politiche di programmazione negoziata; il rischeduling dei progetti proposti e mai avviati - si fonda propriamente sulla capacità operativa delle amministrazio-ni regionali.

D: E questo le fa tremare vene e polsi?

R: Fa venire il batticuore a chi assiste alla incapacità delle Regioni del Sud, nel loro insieme, di collaborare in un’ottica di sistema, in grado di competere con sistemi areali robusti e aggressivi. E’ un problema italiano. A fronte di una partita così dura, le amministrazioni regionali appaiono troppe, troppo piccole e trop-po interessate, specie in questo momen-to, a difendere il loro orto elettorale.

D: Le consultazioni elettorali che le riguardano si avvicinano a rapidi pas-si. Non crede che la scadenza potrebbe incitarle a un colpo di reni?

R: Esperienza dimostra che in Italia, in simili circostanze, si entra in una sorta di “semestre bianco” che rasenta la para-lisi. D’altro canto il Dpef annuncia che il Governo ha intenzione di “stressare” le amministrazioni attuatrici con ulteriori meccanismi premiali, evidentemente per esercitare una pressione sulle loro per-formance operative. Quindi, l’asticella da saltare sarà posta più in alto.

D: Il tema del credito è venuto al-l’attenzione delle Regioni meridionali. Il governatore Bassolino lo ha posto in termini inequivocabili con l’idea di un mediocredito meridionale, specie dopo l’accorpamento del Banco di Napoli nel Sanpaolo. Perché lei non è d’accordo?

R: Quando si consumava la scalata e lo sradicamento del Banco di Napoli, Bassolino era sindaco della città. Quin-di poteva esercitare un ruolo diretto e, dal punto di vista della incisività non inferiore, a quello del ministro dell’Eco-nomia.

Non lo ha fatto, lasciando inascoltati i tanti sos che indirizzava, a lui e ad al-tre forze di governo della città, Gustavo Minervini, presidente della Fondazione Banco Napoli, all’epoca principale azio-nista della banca. Lo ricorda un lungo intervento in un libro che, ironia della sorte, è stato pubblicato proprio dall’Isti-tuto Banco Napoli.

D: Professore, cosa possiamo fare oggi, oltre che piangere sul latte versa-to, per dare al Sud una struttura ban-caria attrezzata e competitiva?

R: Certo non un nuovo mediocredi-to, iniziativa veramente inutile. Tutte le grandi banche italiane dispongono di un istituto di credito a medio termine attivo nell’economia meridionale, cia-scuna supportata da una imponente rete di filiali. Misurarsi con sistemi così strutturati e radicati richiederebbe un investimento massiccio: risorse di cui le Regioni meridionali non dispongono.

D: Che fare, allora, per il credito nel Sud?

R: Anzitutto accrescere la capacità degli attori locali di dare corpo a progetti che meritino credito. Un lato della meda-glia è la ridotta dimensione e l’eccessiva opacità delle imprese meridionali. Im-prese piccole, vincolate alle dinamiche

locali, non in linea con le esigenze dimensionali dell’allargamento e della globalizzazione.

D: E l’altro lato della medaglia?

R: E’ costituito dal-la difficile comunicazione tra banche troppo grandi, ed estranee ai gruppi dirigenti locali, e PMI. In mezzo c’è la pubblica amministrazione locale che non riesce a ridurre l’impatto tra questi vasi incomunicanti.

D: Qual è, in definitiva, la ricetta giusta?

R: Lavorare su banche, imprese e PA, mondi da mettere in comunicazio-ne e relazione organica. E poi prendere a modello due fra le cinque agenzie so-vranazionali che si occupano di sviluppo nel mondo come esempi da imitare: la Banca Internazionale per la Ricostru-zione e lo Sviluppo e la International Finance Corporation.

D: Di che cosa si occupano, più in dettaglio?

R. La prima offre mediocredito, for-mazione del capitale umano, supporto e consulenza alle amministrazioni locali per creare capitale fisso sociale e capi-tale relazionale. La seconda è una vera e propria banca di affari, che provvede capitali di rischio, crediti e soluzioni di ingegneria finanziaria, a supporto del sistema delle imprese.

D: Modelli da imitare per produrre che cosa?

R: Regioni, Governo ed entità so-vranazionali come la Bei dovrebbero dar vita alla Banca di Sviluppo Medi-terraneo. La quale, insieme con grandi banche internazionali, dovrebbero crea-re qualcosa in grado di emulare l’IFC. Insieme questi due strumenti - che non sono banche, ma istituzioni in grado di migliorare efficienza ed efficacia del mercato di capitali - potrebbero produr-re la svolta necessaria per una miglio-re gestione, meridionale e nazionale, delle politiche di coesione dell’Unione Europea.

DPEF E FINANZIARIA

LO CICERO: UN NUOVO MEDIOCREDITO? INUTILE

Claudio D’Aquino

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La contemporaneità delle elezioni dello scorso Giugno per il rinnovo del Parlamento Europeo e, in

Campania, per quello di tre Amministrazioni Provinciali: Avellino, Napoli, Salerno mi dà lo spunto per porre alcuni interrogativi e formulare alcune considerazioni sullo stato di salute delle Province in materia di governo del territorio. Per capire se c’è già un rapporto tra le pianificazioni del territorio in atto nelle province e gli orientamenti dell.U.E in merito. E come si collocano nella novità della Carta Costitu-zionale Europea, che sarà firmata il prossi-mo ottobre in Italia, e darà ingresso formale nella Costituzione dell’Unione ai gover-ni territoriali:la via è quella di concepire le autonomie territoriali come punti di una rete nazionale che sostiene tutti e non abbando-na nessuno (Andrea Manzella).

Si tratterà di costruire procedure per le decisioni come vincoli di partecipazione e non come momenti di gelosa separazione localistica (A. Manzella).

Il tema del governo del territorio richia-ma quello dell’urbanistica, sia per l’evoluzione concettuale e fattuale che sta vivendo, sia per le coglibili difficoltà che ancora prevalgono a metabolizzare le novità.

È da tre anni ormai che – con la riforma del titolo V della Costituzione – la nozione urbanistica è stata mutata in quella di governo del territorio. Con un cambiamento non meramente nominalistico:il concetto di ur-banistica si è ampliato a “governo” (degli usi e della gestione) del territorio di cui all’articolo 117 della Costituzione, e non è indifferente che al concetto di “ governo” si riconnetta il diverso sistema di legittimazione elettorale che ormai coinvolge tutti i livelli di governo territoriale…In sostanza, con il termine di governo del territorio non si è fatto altro che

prendere atto di tutto l’ordinamento pregresso e della capacità di colmare ermeneuticamente la distanza tra la realtà e le norme: …ma non è risolta la qestione di quali materie, stru-mentali al governo del territorio, vi rientrano (Paolo Urbani).

Non è facile rappresentare gli effetti della ricaduta della riforma del titolo V sui governi

locali del territorio, soprattutto in una vacanza di declinazione innovativa dei poteri ammini-strativi - Regione, Province, Comuni- ai fini di una programmazione/gestione unitaria e condivisa dello sviluppo, e che tenga in conto principi e orientamenti U. E.

Il riferimento U.E. non è forzatamente tirato dall’argomento che ho scelto: le politi-che dell’ U.E. già si impattano con molta parte del territorio regionale e con pianificazioni locali urbane o di settore.

Da questa situazione originano alcuni interrogativi.

Alcuni interrogativi

• Le ricadute territoriali e culturali che questo impatto sta ingenerando sul territo-rio regionale sono valutate limitatamente soltanto alle operazioni U.E.(finanziamenti, progetti comunitari)?

• O, invece sono colte come occasioni per sperimentare politiche territoriali alternative a quelle di tradizione?

• Quanta parte di territorio regionale rimarrebbe residuale o indietro rispetto alle novità, in quanto non investite da programmi comunitari?

• C’è rischio che alla periferia fisica terri-toriale se n’ aggiunga una programmatica?

Gli orientamenti U.E. stanno incidendo sullo spazio/territorio e ne stanno innovando

caratteristiche e usi, nonostante la materia di pianificazione non rientri tra le dirette competenze dell’U.E.; ma ciò sta avve-nendo in quanto è il quadro della finanza di progetto comuni-tario che s’implica con la pianificazione. E questo è un nodo di criticità: in carenza di strumentazione ade-guata per il governo e la gestione del ter-ritorio, anche progetti comunitari di qualità rilevante perderebbero di efficacia se sono de-contestualizzati.

Sono stati for-mati in Campania nuovi strumenti di piano e portati anche a redazione di fase definitiva: dal PTR ai PTCP di Salerno e di Napoli, ai parchi Ma scelte, opzioni, organizzazioni spaziali quali quelle che li caratterizzano non hanno ancora valore di efficacia per i soggetti locali istituzionali né per i terzi.

Né sono ipotizzabili i tempi per la loro approvazione, e potrebbero essere più lunghi di quelli che urgono per affrontare le tempistiche accelerate delle procedure comunitarie.

E rimane la preoccupazione che con il finanziamento comunitario siano state sì allocate risorse per lo sviluppo del territorio campano (certo meritoriamente) ma non sempre le scelte e le decisioni assunte rivelano la volontà di innovazione nelle politiche di governo e nella gestione del territorio.

Ha scritto su questa Rivista il Direttore del nucleo di valutazione della Regione, e ritengo come risposta forse a qualche critica sulle modalità d’intervento per l’attuazione

Il ruolo delle provinve nel governo delle “aree vaste”Eirene Sbriziolo

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dei progetti comunitari, che c’è un contesto culturale a cui è estranea l’idea che un’azione pubblica possa essere decisa in base alla qualità e alla praticabilità di certi obiettivi e poi giudicata in base ai risultati raggiunti (Federico Rossi).Si tratta di un’affermazione che imbarazza il pianificatore.

E, tuttavia, se questo richiamo di Federico Rossi non significa un’assunzione a regime di una modalità d’intervento sul territorio per l’azione pubblica, non ho dif-ficoltà ad ascriverla ad una sperimentazione, in alcuni casi e per più aspetti pesante e anomala, ma comunque interessante per accelerare l’approc-cio ad un’urbanistica dell’intervento a su-peramento di quella tutta affidata alla re-golazione.

Una ragione in più che giustifica l’impa-zienza di poter disporre del disegno complessivo per il governo del terri-torio della regione, che espliciti nuove forme di garanzie, le quali ri-chiedono politiche di intervento non sempre o difficilmente inqua-drabili in codificazioni astratte.

Sarebbe utile atti-vare un monitoraggio di quanto sta succedendo sul territorio. Non li-mitato alla registrazione (certo indispensa-bile) dello stato dell’arte dei programmi e delle operatività, ma che possa dar luogo a letture interpretative delle trasformabilità dei territori conseguenti all’intervento co-munitario. Estendendo, però, le valutazioni oltre i territori direttamente interessati dagli interventi: a luoghi contigui e ad altri ancora più esterni, per capire quali nuove opportunità relazionali sono credibilmente concepibili tra luoghi e luoghi.

Il PTR, i PTCP, i PRG di più recente generazione, anche se non ancora avvalorati dal confronto di merito nelle sedi democrati-che istituzionali e sociali, assumono indubbia rilevanza per il montaggio della lettura del sistema delle relazionalità tra interventi comunitari e contesti territoriali.

Così si farebbe anche informazione e partecipazione, veicolando in forme pubblici-stiche orientamenti e scelte della Regione ad una più larga rappresentanza democratica e

coinvolgendola in un consapevole e responsa-bile esercizio critico/valutativo sui programmi e sulle azioni per lo sviluppo e la qualità del territorio proposti.

E risulterebbe forse utile anche per comporre i diffusi comportamenti irrazional-mente critici, ostili, rancorosi. Solo se si riesce ad instaurare una pratica relazionale fondata sull’ascolto, il dialogo, la comprensione delle reciproche funzioni, la condivisione e la giu-stificazione di un lavoro comune, sarà possibi-le pensare di recuperare distacchi e diffidenze e superare le resistenze al cambiamento… resistenze che si alimentano non soltanto

nei territori, ma spesso anche all’interno delle amministrazioni.(Federico Rossi).

Provincia e costruzione del progetto complessivo

Il ruolo incisivo che avrebbe la Provincia nella costruzione del progetto complessivo per il governo del territorio risiede nella sua stessa realtà territoriale e istituzionale, che identifica una dimensione ottimale (l’area vasta) ai fini della formazione di sistemi di reti fisiche e organizzative cui informare governo e gestione unitari del territorio.

Una convinta adesione politica che avvalori il significato della realtà/area vasta renderebbe irrilevante la distinzione, non ancora risolta e in termini chiari e tali da superare conflitti d’interpretazione, delle competenze di attribuzione: si potrebbe atti-

vare una sperimentazione. D’altra parte, ruolo, competenze e attribuzioni della Provincia sono stati indicati ormai dal 1990, e di seguito confermati e ampliati nel 1998 dal decreto Bassanini e nel 2000 dal T.U.267 oltre che dalla L.3/2001 e dai principi U.E.

C’è invece l’esigenza di una sua più inci-siva presenza sulla base di un ampio partena-riato istituzionale e sociale, anche alla luce del rilevante processo di decentramento in atto, e da attuarsi in maniera unitaria…svecchiando comportamenti e atteggiamenti incapaci a far prevalere convergenze solidali e responsabili per l’interesse generale(Federico Rossi).

A n c h e p e r c h é non sfugge l’inclina-zione (anche ai livelli istituzionali) a tenere la Provincia in bilico tra attenzione e disaffezio-ne. Quando, in alcuni ambienti, addirittura non ritorna l’interrogativo se sia davvero utile.

Tuttavia le stesse elezioni dirette delle figure apicali delle isti-tuzioni locali che hanno fatto sbocciare la sta-gione dei sindaci, poi quella dei governatori non ne hanno aperto una per i presidenti delle province, e non soltanto in Campania.

Gennaro Biondi all’indomani dei risul-

tati della consultazione elettorale che ha assegnato la vittoria al primo turno della coalizione di centro sinistra ad Avellino, Napoli, Salerno ha scritto:Le nuove strutture decisionali delle amministrazioni provinciali sembrerebbero in grado di garantire le giuste risposte ai grandi processi di cambiamento in atto nella nostra regione, che il più delle volte stanno avvenendo sulla base di spinte estranee a qualsiasi logica di programmazione dello sviluppo e dell’assetto del territorio.

E si augura, Gennaro Biondi, che Per l’omogeneità dei nuovi schieramenti di maggioranza nelle amministrazioni provin-ciali si possa lavorare ad un grande progetto cui dovrebbero concorrere per la propria parte di competenza istituzionale le singole amministrazioni.

Ma questo esige che da parte della Regione sia attivata:tutta una serie di deleghe alle amministrazioni provinciali che riguar-dano anche settori strategici dello sviluppo,

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come ambiente, formazione professionale, attività economiche.

Chi teme l’area vasta?

La dimensione area vasta non rap-presenta soltanto un’ estensione fisico-ter-ritoriale, fondamentalmente esprime una volontà politica per evolvere in nuove forme di governo del territorio.

Ad esempio: scelte e decisioni program-matiche e operative per lo sviluppo territo-riale -in presenza di problemi che richiedono soluzioni comportanti azioni integrate e interrelate tra più livelli locali- astrarrebbero, per logiche oggettive di gestione territoriale ( e con auspicabili composizioni delle ricorrenti conflittualità politico/ amministrative) dalle rigide delimitazioni degli ambiti comunali.

Scelte, decisioni, progetti s’incardi-nerebbero su azioni di sviluppo del tutto alternative a quelle tradizionali per singoli ambiti comunali.

E certo le politiche del governo del territorio cambierebbero: da quelle impli-citamente monocratiche dei Comuni si dovrebbero affermare pratiche di cooperazio-ne, condivisione e coesione, e azioni dentro questo spazio comune.

Con la finalità di traguardare possibilità di governo e di gestione unitari per il territo-rio regionale, facendo perno su questo spazio territoriale intermedio.

Uno spazio che le realtà province e aree metropolitane possono inverare: mutuando la nozione di area vasta in domanda di area vasta.

E, tuttavia -nonostante che di area vasta si parli da anni e che ci siano interes-santi casi sperimentati anche in Italia che ne confermano la validità programmatica, operativa, gestionale e la dimensione ottimale per affrontare problemi di scala sovralocale - la nozione non è ancora ascrivibile in una generalizzata adesione.

Né ci sono riferimenti all’area vasta nelle leggi di riforma in discussione sia a livello nazionale che a quello della regione Campania,

Anzi, entrambe sembra si caratterizzano in controtendenza.

La legge nazionale, in discussione presso l’VIII Commissione ambiente -territorio -lavori pubblici della Camera dei Deputati non contempla l’area vasta: si orienta per la formazione di piani intercomunali. E quindi si parla di cosa diversa.

I piani intercomunali tutt’al più ( e inse-gna l’esperienza sessantennale della legge del

’42 circa il loro fallimento) risponderebbero ad occasionali convenienze di comuni contigui a condividere iniziative, in quanto eccedenti le rispettive capacità per concretarle.

Dispiace che la proposta sia stata introdotta in Commissione, alla Camera dei Deputati, dai gruppi di opposizione al Governo.

Ma dispiace di più che anche la legge regionale di norme sul governo del territorio -come dal testo licenziato dalla IV Com-missione del Consiglio regionale- vada sulla stessa lunghezza d’onda di quella nazionale riguardo all’area vasta: non la contempla e indica la promozione di intercomunalità.

Una prima impressione che ricavo dalla legge regionale è che la Provincia non perda soltanto la sua cifra identitaria d’area vasta.

Anche la competenza per la pianifica-zione territoriale involverebbe verso autono-mia vigilata più che partenariale.

Con buona pace della sensibilità cultu-rale e politica di Federico Rossi che sostiene “ un ampio partenariato”.

Con la legge in discussione alla Regione, la Provincia dovrà pianificare in coerenza con le previsioni contenute negli atti di pianifi-cazione regionale e nel perseguimento degli obiettivi (del piano regionale n.d.a.) di cui all’art.2… e in attuazione degli obiettivi della pianificazione regionale delle prospettive di sviluppo del territorio

Unione Europea e sistemi territoriali

Da Maastricht ad Amsterdam, da Potsdam a Nizza orientamenti e principi in merito alla formazione dei quadri della fi-nanza del progetto comunitario sono stati via

via indicati con maggiore approssimazione, divenendo incidenti nelle azioni dei governi locali del territorio.

Orientamenti e principi riflettono que-stioni sia di rilevanza che di dettaglio per le politiche territoriali e le decisioni per quelle dello sviluppo.

Interessanti sono i principi che orienta-no verso nuove concezioni e forme del fare pianificazione.

Li sintetizzo così:• articolazioni di azioni sul territorio secondo

formazione tra luoghi di reti fisiche e organizzative, con superamento delle tendenze municipalistiche;

• liberazione della nozione di esercizio pubblico dall’esclusivo appannaggio dell’ istituzione locale.

• perseguimento di pratiche partenariali;• promozione di pratiche partecipative

dalla formazione dei programmi alle decisioni;

• ricerca di forme flessibili di governance• allargamento della rappresentanza de-

mocratica istituzionale introducendo eventuali modalità alternative a quelle tradizionali;

• consolidamento e pratica del principio di sussidiarietà;

• abbandono del grande piano illuminista per favorire quello delle politiche di coesione, di coordinamento, di cooperazione;

• tendenza alla costruzione dello spazio comune.

E su tutto l’affermazione implicita del passaggio dal piano della regolazione a quello dell’intervento.

Con il documento di Potsdam (del maggio ’99) il Consiglio informale dei Ministri dell’U.E. responsabile della piani-

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ficazione spaziale, adottando il documento SSSE (schema di sviluppo spaziale europeo) ha indicato con maggiore approssimazione modi di trasformabilità del territorio. Pun-tando su:

• sviluppo di un sistema policentrico ed equilibrato con rafforzamento della collabo-razione tra aree urbane e rurali :a superamen-to del dualismo città campagna;

• concezioni integrate per le comunica-zioni e i trasporti a sostegno dello sviluppo policentrico dei territori;

• ricerca di soluzioni differenziate regio-nalmente per consentire condizioni paritarie di accesso alle infrastrutture;

• gestione oculata dello sviluppo e conservazione del patrimonio culturale e naturale.

Si evince che le Regioni, non dovrebbero limitarsi a rappresentare soltanto i loro scenari territoriali, bensì anche la piena legittimità delle pianificazioni territoriali locali e il loro coinvolgimento nelle politiche U.E.

La U.E.attribuisce, infatti, importanza crescente al ruolo delle collettività locali oltre che regionali, basandosi sull’idea che la crescita economica e la convergenza di certi indicatori non siano sufficienti per conseguire obiettivi della coesione economica e sociale, e per influire su riequilibri di disparità ancora evidenti tra aree di un territorio.

Gli stessi programmi comunitari e gli interventi, d’altra parte, del tipo PRUSST, programmi territoriali integrati (PIT), POR e PON hanno rivelato l’improponibilità di un agire per localizzazioni circoscritte a singoli ambiti locali.Implicitamente richiedevano aree vaste di azione, e uno spazio territoriale di respiro sovralocale.

Ed è area vasta: incomprensibilmente

esorcizzata, si sta autocostruendo anche in Campania.

Provincia e devolution

Secondo Andrea Manzella l’impo-stazione della c.d. devolution rischia di vanificare la riforma costituzionale avviata nella scorsa legislatura parlamentare, con la legge 3/2001. Ritiene che questa legge rappresenta un innegabile punto di partenza, da migliorare, completare, bilanciare nei pesi e nei vantaggi.

Non concorda con il progetto governa-tivo e ritiene Che si è mosso al largo di tutto questo e, soprattutto, parla d’altro.

L’ altalenante approccio tra evoluzione-involuzione per l’attribuzione di poteri e competenze al sistema dei soggetti locali è un dèjà vu : l’istituzione delle regioni e le discussioni degli anni settanta.

È il turno della Provincia?La Provincia che con il decreto legislati-

vo c.d. Bassanini del ’98 aveva avuto un’inve-stitura ampia per formare un piano territoriale e con il valore e gli effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell’ambiente, delle acque e della difesa del suolo delle bellezze naturali, semprechè la definizione delle relative disposizioni avvenga d’intesa fra province e amministrazioni statali competenti.

Avevo avuto, a suo tempo, qualche dubbio sull’innocenza di quell’avverbio ‘semprechè’:mi era sembrato implicitamente limitante la competenza di materie.

E oggi, ancor prima della devolution, che comunque è ancora in discussione, c’è

il Codice Urbani (dei beni culturali e del paesaggio) in vigore dal maggio scorso, che, si ha motivo di ritenere, ingenererà altre incertezze riguardo a possibili limitazioni alle autonome politiche del governo del territorio delle istituzioni locali.

E, ritornando alla devolution:L’ANCI e l’UPI lo scorso giugno- in

sede di audizione alla I Commissione della Camera dei Deputati- hanno ribadito un percorso di riforme di assetto istituzionale che valorizzi autonomia e responsabilità dei livelli di governo territoriale.

E hanno ricordato il Testo Unico, il 267 del duemila, per l’indicazione del ruolo attivo che le province debbono ricoprire per il cordinamento dello sviluppo locale:

La Provincia, ente territoriale inter-medio tra comune e regione, rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi, ne promuove e coordina lo sviluppo.

Tale ruolo è emerso dagli sviluppi della programmazione negoziata che ha evidenzia-to il territorio provinciale come ambito otti-male della concertazione tra soggetti pubblici e privati (regione, enti locali, amministrazioni statali, associazioni imprenditoriali).

La disciplina della programmazione negoziata prevede espressamente un ruolo attivo degli enti locali (delle province) come soggetti promotori dei patti territoriali e dei contratti d’area.

La legge 3 del 2001, di riforma del-l’articolo 117 della Costituzione, con l’in-troduzione della nozione di governo del territorio implicitamente richiama esigenze di coordinamento e di contestualità di programmazioni e pianificazioni, sin dalla loro impostazione, tra Regione – Province - Comuni e lo stato e il soggetto U.E.

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Fino ad oggi, ai livelli locali istituzio-nali, impostazioni e contenuti di strumenti di piano ( PTR, PTCP, PRG) sono stati concepiti in funzione di opzioni di trasforma-zioni del territorio e di scelte per lo sviluppo ma limitate soltanto ai rispettivi territori di competenza, dando luogo a dipendenze gerarchiche (dal piano generale regionale a quelli di scala minore comunali).

Il sistema gerarchico -con la riforma dell’articolo 117 della Costituzione- sembra ormai incompatibile con la nozione di go-verno del territorio, per l’esigenza di dover contestualizzare programmi e azioni per lo sviluppo dei territori e, quindi, innovare nelle procedure per le decisioni da costruire come vincoli di partecipazione e non come momenti di gelosa separazione localistica, per dirla con il Manzella.

Si dice che ci siano altre difficoltà ogget-tive, oggi, che s’implicano con le politiche per il governo del territorio: si farebbero risalire all’aumento dei soggetti che si contendono lo stesso territorio.

Ma è un problema vecchio questo, su cui si sono spesi i Predieri, i Giannini i Benvenuti, i Barbera, in occasione delle attribuzioni Sta-to-Regioni negli anni settanta. Ma i motivi di fondo erano gli stessi: arroccamenti, ostina-zione, incapacità a svecchiare comportamenti consolidati. E poi c’è l’ingresso del soggetto U.E. sulla scena territoriale che ha immesso un ‘più’ di complessità e di complicazioni.

Il caso, ad esempio, delle potestà legisla-tive statuali (quelle che la riforma dell’articolo 117 della Costituzione indica concorrenti tra

Stato-Regioni) le quali -oltre al rispetto della nostra Costituzione- hanno vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.

Politici, studiosi di materia e addetti ai lavori ritengono che la legge del 2001 sia di-ventata una cartina di tornasole per i processi di riforma dei procedimenti decisionali.

Si chiedono se in qualche modo in-fluisca anche la conflittualità politica – che accompagna la forma sistema maggioritario – ad incrementare i ricorsi alla Corte Costi-tuzionale promossi dalle regioni (ma anche dallo Stato).

Mentre, risulta sempre più evidente la tendenza ad un riequilibrio di decisioni a favore dello Stato:Ieri con la legge 443/2001, la c.d. Lunardi per la localizzazione opere pubbliche statali. Oggi con il Codice Urbani per la programmazione e la gestione del paesaggio.

Le provincee il codice Urbani

Il Codice dei beni culturali e del paesag-gio apre nuovi e complessi problemi.

Entrato in vigore nel maggio scorso, le prime proteste si sono appuntate sul travali-camento delle competenze del Parlamento (è legge delega al Governo) e sull’inserimento nel Codice della liquidazione di patrimonio artistico monumentale, sembrata in linea con quella per il patrimonio pubblico.

Con la III parte del Codice, invece, si aprono puntuali problemi per il governo del territorio e per l’autonomia programmatoria

del sistema delle istituzionali locali. Intanto, la Convenzione Europea del

pesaggio – firmata dal Consiglio d’Europa a Firenze nel 2000 – ha impresso una decisiva spinta innovativa alle politiche di tutela del paesaggio.

L’Italia non l’ha ancora ratificata (come da informazioni recenti).

E il Codice, nel corso della sua stesura, ha comportato una difficile mediazione tra concezioni tradizionali dell’Italia in materia di tutela e le spinte innovative, quali emergono a livello internazionale (di cui in più di un’occa-sione ho accennato su questa Rivista).

L’U.E. attribuisce particolare significato attivo alle azioni di tutela e, ai fini delle politiche, non include soltanto misure di sal-vaguardia in senso stretto, bensì anche quelle per la gestione dei processi di trasformazione dei luoghi, la cui valorizzazione può perfino comportare la creazione di nuovo paesaggio.

Promuove coordinamenti e collabora-zioni tra i diversi soggetti istituzionali per il settore della tutela per attuare i principi di sussidiarietà, per valutare le differenziazioni locali, e adeguare le funzioni amministrative da esercitare.

Il Codice fa riferimenti alle politiche comunitarie, ma rimane influenzato dalla tradizione nazionale in materia ammettendo ancora logiche del tipo elenchi classificatori, o di ambiti omogenei : non ci sono indicazioni per fare politiche di sistema, quali quelle che informano gli aspetti innovativi della Convenzione Europea e finalizzate ad una più estesa costruzione della qualità dello spazio territoriale.

La Convenzione Europea concepisce un paesaggio in trasformabilità e in base a obiettivi differenziati per conferire una più generale nuova qualità allo spazio, per cui in sintesi la valorizzazione paesaggistica ha valo-re strategico di sviluppo e di crescita civile.

Un valore che è affatto diverso dalla tutela statica, testimoniale.

In conclusione:la Regione imposterà e gestirà politiche collaborative con le istituzio-ni locali per sviluppare un sistema integrato d’azioni di tutela e di valorizzazione tra terri-tori, tenendo in conto dell’articolazione delle rispettive competenze istituzionali, come da Convenzione Europea: una Convenzione che punta al superamento di valutazioni di unicità e di separabilità con la finalità di affrancarsi da azioni di tutela puntuali e di pianificazioni frammentate?

E le Province uscite dal voto del 13 giugno sono pronte a lavorare anche su questo “grande progetto”?

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Il dibattito sulle nuove prospetti-

ve finanziarie dell’Unione europea per il periodo 2007-2013 coinvolge, tra i temi più rilevanti, quello della ricerca e dell’innovazione. In un precedente articolo, pubblicato su questa rivista, abbiamo affrontato le tematiche fondi strutturali-ricerca-strategia di Lisbo-na, puntando l’attenzione sui fondi. Qui vogliamo mettere in luce le pro-poste della Commissione in materia di ricerca ed esaminare più attentamente i problemi connessi con la strategia di Lisbona. Questi ultimi non costituisco-no solo due capitoli delle prospettive politiche e finanziarie dell’Unione ma il cuore del prossimo sviluppo delle società europee. Il cambiamento della qualità dei posti di lavoro, l’utilizza-zione delle nuove tecnologie in campo informatico e nelle comunicazioni è al centro di una sfida che non si può per-dere, pena la marginalizzazione e la decadenza del nostro continente sulla

scena globale. Una sfida che ha come obiettivo il riposizionamento regionale dell’Europa in relazione agli Stati Uni-ti, in primo luogo, al Giappone e, in un domani molto prossimo, alla Cina e al-l’India. Le decisioni strategiche in ma-teria di nuove tecnologie sono assunte negli USA. Le loro aziende sono leader in questi settori; il “sistema” USA co-stituisce il principale polo decisionale/operativo. I ricercatori provenienti dal mondo intero non trovano, in America, solo finanziamenti e laboratori efficien-ti ma un ambiente internazionale sti-molante dove le intelligenze non sono solo giustapposte ma inserite in un quadro organico in cui finanziamenti pubblici e privati, strutture efficienti e team di prim’ordine trovano la giusta collocazione; in cui la collaborazione pubblico-privato, l’intreccio scientifico ed operativo tra impresa ed università trova importanti riscontri.

È vero che altri paesi (l’India ad es.) stanno cominciando ad attrarre

una serie di servizi per le aziende una volta appannaggio dei paesi più sviluppati, stanno formando tecnici e ricercatori di livello, nelle loro uni-versità, che si immettono sul mercato con alte competenze e costi fortemente inferiori a quelli dei loro colleghi occi-dentali. Ma siamo ancora in una fase iniziale, seppur promettente.

Gli obiettivi europei sono, oggi : invertire la tendenza alla fuga dei ricercatori verso gli USA; creare uno spazio europeo della ricerca che risol-va il problema della frammentazione e della duplicazione del lavoro oggi esistente; creare ambienti di lavoro sempre più internazionali che coordi-nino il lavoro di ricerca ed attraggano sempre più ricercatori dai paesi terzi; finanziare la ricerca in maniera ade-guata, potenziando la quota privata; utilizzare pienamente le potenzialità del mercato interno; puntare sulla so-stenibilità ambientale quale elemento centrale dello sviluppo.

Claudio D’Aroma

INNOVARE NELLA POLITICA DELLA RICERCA

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Il futuro della ricerca

europea

Attualmente l’UE investe in ricer-ca il 2% del PIL contro il 2,7% degli Stati Uniti e oltre il 3% del Giappone. Il lavoro è segmentato e centrato su programmi nazionali.

La Commissione si pone come o-biettivi principali la realizzazione di :• uno “spazio europeo della ricerca”

che costituisca il mercato interno per la ricerca e la tecnologia nel cui ambito si coordinino le attività e le politiche nazionali e regionali in materia;

• un incremento della spesa dal 2% al 3% entro il 2010, con la percen-tuale pubblica all’1% e quella pri-vata al 2%;

• un sostegno alla ricerca europea fornendo finanziamenti diretti ad integrazione dei programmi nazionali.Come realizzare questi obiettivi? At-

traverso un approccio diverso rispetto al passato che privilegi la dimensione europea piuttosto che quella nazionale. Il sostegno finanziario si dovrà realizzare in favore di gruppi di ricerca selezionati su base competitiva a livello europeo e non più nazionale e ciò soprattutto nei settori della ricerca fondamentale. La Commissione ed il PE hanno proposto la creazione di un’agenzia sul modello del-la National Science Foundation statuni-tense che dovrebbe operare assegnando borse a gruppi di ricerca di alto livello nel settore della matematica e della fisica dei quanti che abbiano ricadute nel settore informatico.

Facilitare la mobilità dei ricercatori è di centrale importanza. Bisognerà ri-muovere gli ostacoli legati allo svilup-po delle carriere, rendere la sicurezza sociale immediatamente accessibile, rimuovere gli ostacoli connessi agli spostamenti delle famiglie. Il Commis-sario alla ricerca, Busquin, ha varato, a fine giugno, la rete europea “ERA-MORE”. Un sistema integrato di centri di mobilità per i ricercatori. È costituita da una rete di 200 centri distribuiti in 33 paesi (membri dell’Unione e terzi). Questa rete ha la funzione di migliora-

re l’informazione e l’assistenza pratica in favore dei ricercatori. Si aggiunge al portale Internet per la mobilità, gestito dalla Commissione. L’importanza e l’interesse per le problematiche legate alla ricerca (in questo caso alla mobilità dei ricercatori) sono testimoniati anche dall’attenzione crescente dei media. Il problema ricerca appare sempre meno legato a cerchie di specialisti ma viene

percepito come problema sociale, che ci riguarda in prima persona. Il 29 giugno, ad esempio, il canale televisivo franco-tedesco, ARTE, ha dedicato una serata al problema trasmettendo un documen-tario prodotto in collaborazione con la Commissione.

Il partenariato pubblico-privato va rafforzato in maniera decisa. I centri di competenza o parchi tecno-logici rappresentano un ‘esperienza di notevole interesse in tal senso e possono contare su esperienze riu-scite : oltre all’esempio, già citato, delle realizzazioni in tal senso pro-mosse dall’Assessore alla ricerca della Regione Campania, Luigi Ni-colais, molto interessante è quanto realizzato in materia di biotecnolo-gie nella Francia del Sud, a Nimes. La collaborazione tra centri di ricer-ca pubblici e privati, le università e l’industria è di centrale importanza per programmare la ricerca in vista di sbocchi applicativi, per trasferire know how all’industria, senza così sovraccaricarla di costi aggiuntivi. La scala d’azione dovrà essere europea e non più soltanto nazionale. In questo

quadro si collocano le ricerche sulle nuove generazioni d’aerei ecologi-camente più affidabili, lo sviluppo delle tecnologie dell’idrogeno quale nuova fonte d’energia, le ricerche in materia di nanoteclogie nell’elettroni-ca, l’energia solare come nuova fonte energetica pulita e rinnovabile.

Interessante la proposta di creare “poli d’eccellenza” a livello europeo,

connessi in rete (la Commissione sta già operando in tal senso). I campi d’inter-vento prioritari potranno essere i settori della ricerca ambientale e climatica, le tecnologie dell’informazione, la ricerca medica ed alimentare.

Se le nuove azioni andranno condot-te su scala europea sarà bene partire dal coordinamento a livello nazionale e re-gionale dei programmi di ricerca al fine di creare masse critiche di risorse ed una capacità di impatto adeguata. Bisogne-rebbe migliorare la complementarietà delle attività nazionali. Verrebbero ac-corpati programmi di ricerca in ambiti quali il cancro, il morbo d’Alzheimer e le malattie emergenti, le nanotecnologie.

L’incremento del numero dei ricer-catori è una delle priorità da realizzare entro il 2010 : la Commissione calcola in 700.000 il numero dei nuovi addetti alla ricerca necessari a colmare le ca-renze attuali per avvicinarci alla per-centuale statunitense e a quella ancora più elevata del Giappone.

Inoltre, la Commissione propone di agire in due settori che hanno as-sunto una notevole rilevanza : lo spa-zio e la sicurezza.

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La politica spaziale trova posto anche nel Trattato costituzionale, ap-provato dal Consiglio europeo dello scorso giugno, a conferma del fatto che l’Unione non può più giocare un ruolo tecnico-scientifico di rilievo sen-za avere una significativa presenza in tale settore. Il programma Galileo, che prevede l’utilizzo di satelliti europei per il posizionamento, l’osservazione

del clima, la regolazione del traffico stradale, marittimo ed aereo, testimo-nia dell’impegno già assunto dall’Eu-ropa in tale ambito. Politica spaziale europea significa il disimpegno dalle tecnologie statunitensi (il GPS utiliz-zato da noi europei è sotto controllo militare USA), il rafforzamento della ricerca scientifica e il potenziamento delle nostre industrie che operano nel settore.

Il tema della sicurezza è diventato di drammatica attualità con gli atten-tati dell’11 settembre 2001. Il mondo occidentale nel suo insieme, i paesi musulmani governati da regimi mo-derati, e non solo gli Stati Uniti, sono minacciati. La Commissione propone di rafforzare la ricerca nei settori del bioterrorismo, della criminalità infor-matica, della sicurezza globale.

Ricerca e formazione sono tema-tiche strettamente connesse. Interes-santi le proposte della Commissione in materia di mobilità degli studenti e dei neolaureati al fine di far acquisi-re esperienze di studio in altri paesi, flessibilità mentale in rapporto ad altri approcci culturali e metodologici ed

al fine di non far trovare impreparati questi giovani europei di fronte ad opportunità di lavoro all’estero. La mobilità dei lavoratori e dei ricercatori in Europa resta il vero punto dolente. Fattori linguistici, abitudini, approcci differenti hanno fortemente limitato la circolazione di questi “fattori pro-duttivi”.

Nel 2002, 2 milioni di studenti han-

no partecipato a programmi di mobi-lità. Si propone di arrivare a 3 milioni nel 2010. Parteciperà a tali programmi il 10% degli studenti europei (anche i docenti saranno interessati). È ancora poco; andranno fatti sforzi ulteriori. Entro il 2013 dovranno fare esperienze all’estero 150.000 tirocinanti in forma-zione e 50.000 adulti nel campo della formazione permanente.

Le prospettive finanziarie elabora-te dalla Commissione e condivise dal Parlamento europeo propongono un incremento importante della spesa in materia di ricerca, tendenzialmente in linea con gli impegni adottati nel Consiglio europeo di Lisbona. La voce di bilancio “Competitività per la cre-scita e l’occupazione”, che compren-de oltre alla ricerca e all’innovazione anche l’istruzione, la formazione ed altre politiche connesse, passa dagli 8.791 milioni di euro (in stanziamenti d’impegno) per il 2006 ai 12.105 del 2007 (anno di inizio della prossima programmazione settennale) per ar-rivare ai 25.825 milioni nel 2013. La proposta della Commissione, pur apparendo ambiziosa, è un compro-

messo tra le vere esigenze di fronte a cui si trova l’Unione e le necessità della stabilità di bilancio. Negli Stati membri gli investimenti in materia di ricerca dovrebbero arrivare all’1% del PIL entro il 2010; toccheranno invece lo 0,88% (quota dell’investimento pub-blico, il restante 2% dovrà provenire da fonti private per giungere all’inve-stimento complessivo del 3% del PIL).

Il restante 0,12%, che dovrebbe essere coperto dal bilancio comunitario, lo sarà solo parzialmente.La Commis-sione propone un tetto complessivo per il bilancio comunitario che non oltrepassa la soglia dell’1,24% (come nell’attuale gestione). Già questa so-glia appare sottostimata in quanto sarebbe necessaria una percentuale dell’1,30% del PIL per ottenere i risul-tati politici prefissati. Ricordiamo che sei paesi hanno chiesto che le prossi-me prospettive di bilancio rispettino il tetto dell’1% del PIL, scendendo al di sotto del tetto attuale; a questi paesi (Francia, Germania, Paesi Bassi, Gran Bretagna, Austria, Svezia) si sono ag-giunti, di recente, Italia e Danimarca. Ancora una volta agli impegni politici non corrispondono pienamente gli im-pegni finanziari. L’attuale presidenza olandese, entrata in carica il 1* luglio, nelle dichiarazioni sulle priorità che rispettarà non ha accennato ad un mutamento di rotta, confermando quindi la posizione assunta sul tetto di bilancio.

Perché ricerca, strategia di Lisbona e società dell’informazione produca-

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no effetti positivi sulle società europee, rendendo possibile un mutamento qua-litativo del lavoro e il mantenimento di un modello sociale solidaristico, non è sufficiente solo un livello adeguato d’investimento ma un funzionamento migliore del mercato interno. Alcuni Stati (Paesi Bassi, Austria e Lettonia) stanno puntando sugli incentivi fiscali

in favore delle imprese che investono in ricerca; tale esperimento sta dando risul-tati interessanti e potrà essere un modello da seguire. In materia di concorrenza la Commissione ha rivisto il regolamento sull’obbligo di notifica degli aiuti, ivi compresi quelli destinati alla ricerca, per le PMI. Queste ultime lamentava-no un eccessivo carico burocratico che assorbiva inutilmente energie. Tanto più che gli aiuti in favore delle PMI falsano la concorrenza in maniera tra-scurabile. Delle PMI dinamiche, capaci di investire sempre più in ricerca, costi-tuiscono un elemento importante per dinamizzare il mondo imprenditoriale e dell’occupazione. La Commissione sta preparando una proposta per evi-tare la doppia imposizione dei singoli investitori e dei fondi di capitale di rischio. In materia di proprietà intel-lettuale, tema centrale per garantire la redditività della ricerca, purtroppo si deve rilevare l’ennesimo fallimento nell’adozione del brevetto comunitario. Il Consiglio competitività del 18 mag-gio ha rilevato ancora ampie diversi-tà di opinione tra gli Stati membri. Il brevetto comunitario avrebbe l’effetto di ridurre i costi (del 68% secondo un

portavoce della presidenza irlandese) rispetto agli attuali brevetti nazionali e darebbe un’immagine più chiara alla ricerca europea. Il Consiglio europeo di giugno ha rilanciato l’esigenza di tro-vare un accordo in materia. L’esigenza di avere strumenti in grado di rendere effettiva la politica di difesa dell’Unio-ne ha prodotto la costituzione, nel mese

di settembre, dell’”Agenzia Europea per la Difesa”. Avrà il compito di svi-luppare le capacità difensive europee operando nei settori della cooperazione in materia di armamenti e nelle tecno-logie di punta.

Se pensiamo al ruolo che gioca il militare nell’economia statunitense, di traino dell’industria che opera nelle tecnologie di punta, di volano econo-mico e di centro propulsore della ricer-ca con importanti ricadute nel civile, possiamo comprendere cosa potrà si-gnificare una simile agenzia europea. Ciò non significa, naturalmente, pen-sare ad un ruolo differente dell’Euro-pa sullo scenario mondiale che resta quello di “potenza civile”.

Problematiche della strategia

di Lisbona

Se le riforme pensate nell’ambito della strategia di Lisbona fossero attuate darebbero luogo, secondo stime della Commissione, ad una crescita aggiunti-va dell’ordine di 0,50%-0,75% punti del PIL nei prossimi anni. La situazione eco-

nomica è favorevole, oggi, per rilanciare tale discorso in quanto abbiamo segnali di ripresa che si stanno consolidando e i nuovi paesi membri mantengono un tasso di crescita importante. Inoltre, le riforme in programma si agganciano a quanto già fatto da tali paesi per aderire all’Unione europea in materia di rispet-to dei criteri fondamentali in ambito

economico e sociale. In una dettaglia-ta analisi delle luci e delle ombre che caratterizzano lo stato dell’arte della strategia di Lisbona, la Commissione indica tre settori in cui è necessario re-cuperare ritardi : investimenti nelle reti e nell’ambito della conoscenza. Non è stata prestata le dovuta attenzione, so-prattutto negli Stati membri, alla qualità e quantità degli investimenti nella ricer-ca, istruzione e formazione.

Competitività delle imprese eu-ropee. Le regolamentazioni attuali sono ancora pesanti e farraginose, si impone uno snellimento. Nel settore dei servizi manca un adeguamento normativo; in materia d’ambiente non si è fatto quanto dovuto per pro-muovere una produzione industriale ecocompatibile.

Invecchiamento attivo. Le per-sone in età avanzata le consideriamo ancora un peso per le generazioni attive, costrette a “mantenere” una popolazione anziana sempre più ampia, in assenza di una intensa crescita demografica, oppure le consideriamo una potenziale ri-sorsa? Da utilizzare in un merca-to del lavoro più flessibile, dove

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al’”invecchhiamento” inteso come perdita di duttilità e obsolescenza del patrimonio culturale si contrap-ponga un sistema educativo capace di rinnovare le conoscenze e rende-re, quindi, attive queste persone. Se consideriamo gli indicatori utiliz-zati dalla Commissione per l’Italia vediamo, tra gli elementi positivi,

un importante incremento degli in-vestimenti delle imprese nel periodo 1999-2002, un giudizio positivo sulla riforma del mercato del lavoro, in attesa di poterne giudicare gli effet-ti, una recezione adeguata delle di-rettive “Lisbona” (l’Italia si colloca tra i primi tre paesi comunitari). Gli elementi negativi sono costituiti da fattori sedimentati quali la ristretta base occupazionale (55,5%) con il più alto tasso di disoccupazione di lunga durata (5,3%). La produttivi-tà del lavoro è calata sensibilmente negli ultimi anni (e proprio in rela-zione a questo fenomeno si impon-gono, a maggior ragione, le riforme e le azioni programmate a Lisbona). Liberalizzazioni scarse nei settori dei servizi e dell’energia. E, soprattut-to, un consolidamento delle finanze pubbliche poco credibile ed una so-stenibilità a lungo termine quanto mai incerta.

Oltre a quanto esposto dalla Commissione, un’attenta analisi di tali problematiche è stata proposta da un gruppo di lavoro presieduto dall’ex primo ministro danese, Poul Nyroup Rasmussen, nell’ambito del-

lo “European Policy Centre”, un cen-tro studi di alto livello sulle tematiche europee.

Anche in questa analisi si mette in rilievo, come indicato nel precedente articolo su questa rivista, che il pro-cesso di Lisbona ha ottenuto scarsi risultati a causa di inerzia istituziona-le da parte degli Sati membri, oltre a

pressioni economiche e all’incapacità di catturare l’attenzione dei cittadini su tematiche che appaiono lontane ma sono di centrale importanza per evitare una pericolosa marginaliz-zazione del nostro continente sulla scena globale. Quali le proposte per uscire da questa situazione di stallo? Innanzitutto ridurre la discrepanza tra quanto proposto e quanto rea-lizzato. Questa situazione rischia di minare la credibilità della strategia. Devono essere coinvolti maggior-mente gli attori economici e la società civile nel suo insieme. Si deve dare maggior dinamismo al processo at-traverso una revisione del patto di stabilità e crescita (considerato “stu-pido”, a suo tempo, dal Presidente della Commissione Prodi in quanto troppo rigido rispetto ai mutamenti economici), una forte leadership del-la Commissione, una partecipazione più attiva del Parlamento europeo che dovrebbe, lavorando a stretto contatto con i Parlamenti nazionali, monitorare la messa in opera della strategia a livello nazionale.

Gli elementi cardine di Lisbona dovrebbero essere inclusi nelle stra-

tegie fondamentali dell’UE e degli Stati : nel patto di stabilità, come si ricordava sopra, nelle politiche strut-turali, nella politica industriale e della concorrenza.

Il coinvolgimento e il sostegno dei cittadini europei dovrebbe realizzarsi attraverso forme di comunicazione ca-paci di attrarre l’attenzione e far com-prendere la centralità del processo per l’avvenire dell’Europa.

Il modello nordico ha qualcosa da insegnare, secondo questo gruppo di studio. Esso è riuscito a tenere insie-me risultati economici interessanti con il mantenimento della solidarietà sociale, elemento centrale del model-lo europeo che vogliamo preservare. Da queste analisi e proposte emerge chiaramente il deficit di volontà poli-tica da parte degli Stati che non sono stati in grado di recepire e mettere in opera quanto previsto a Lisbona. L’On. Gianni Pittella, nel corso della precedente legislatura al PE, aveva messo l’accento proprio su ciò. Capi-tale umano, cultura, ambiente costitui-scono elementi centrali dello sviluppo europeo ma ancor di più dell’Italia meridionale. Proponeva la messa in opera di una nuova “Maastricht” che vincoli gli Stati nei campi sopra indica-ti anche attraverso interpretazioni più flessibili del patto di stabilità e crescita ponendo, questa volta, l’accento sul secondo elemento.

Indicazioni interessanti sulla cen-tralità della strategia di Lisbona ven-gono dal prossimo Presidente della Commissione, Barroso. Il 12 agosto ha presentato la nuova Commissione che entrerà in carica il prossimo 1* novem-bre, previa approvazione da parte del Parlamento europeo. Il rilancio della strategia sarà sotto la sua diretta re-sponsabilità. Al Commissario Verheu-gen (titolare del portafoglio imprese e industria) spetterà invece il compito di rendere coerente il lavoro del Collegio in materia di competitività.

Speriamo che alla presa di co-scienza che tale strategia non può essere gestita a livello nazionale, ma necessita di una forte direzione da parte europea, seguano azioni concrete.

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La decisione della Commissione di esprimere un parere favo-revole benché condizionato

alla fissazione di una data di apertura dei negoziati di adesione con la Turchia ha inne-scato in tutto il contenente un dibattito non irrilevante per il destino dell’Europa e, stante la sua vocazione europea e mediterranea, del Mezzogiorno d’Italia.

L’opinione pubblica più avvertita sa che si tratta di un incontro storico, che viene da lon-tano, e forse in tal senso è possibile affermare che l’esito della vicenda appariva relativamen-te scontato, come lo è stato in passato l’adesio-ne delle “democrazie popolari”. Se non pare verosimile immaginare a questo punto una valutazione negativa da parte dei Capi di Stato e di Governo che il 17 dicembre si dovranno pronunciare in via definitiva sulla questione, il vero dibattito è passato dal “se” dell’adesione al “quando” e al quomodo. E’ evidente che, ad esempio, la scelta di dilazionare eccessiva-mente nel tempo il negoziato in luogo di una adesione rapida, può segnare la più efficace e realistica “linea Maginot” degli oppositori. Stupisce, peraltro solo fino ad un certo punto, che nella estrema varietà delle voci si ritrovino tra i contrari e i dubbiosi esponenti qualificati dello schieramento democratico ed europei-sta, come, rispettivamente, Eugenio Scalfari o Giuliano Amato.

In verità nessuna delle due posizioni estreme, a favore dell’adesione (va da sè, ra-pida) ovvero contro (più pragmaticamente: un’adesione rinviata per decenni, o sine die, nel tempo), sembra essere pienamente convin-cente, e le soluzioni ragionevoli (“spurie”) tro-vano una continua interferenza da parte della convulsa quotidianità dell’agenda europea e

interna degli Stati membri: conflitto in Iraq, legge francese sul velo, crisi profonda della Germania e ripresa di movimenti nazionalisti e xenofobi, recrudescenza della immigrazione clandestina proveniente dalla sponda Sud del Mediterraneo. Sullo sfondo aleggia il (difficile) varo del trattato costituzionale, atteso com’è alle delicate prove delle ratifiche nazionali, ancora più ardue se a mezzo referendum.

••••• I rapporti tra la Turchia e la Comunità

europea/Unione europea, però, sono di anti-ca data. La Turchia ha presentato domanda di associazione alla Cee il 31 luglio del 1959 (due anni dopo la sua nascita). Il 12 settembre del 1963 è stato dato avvio ad una prima forma blanda di integrazione, un accordo di Associa-zione per consolidare le relazioni commerciali ed economiche.

La domanda di adesione piena all’Unione è stata presentato nel 1987, e due anni dopo è venuta la prima risposta, un parere negativo della Commissione ad un negoziato di ade-sione in tempi brevi. Mentre nel 1996 entra nell’ultima fase l’Unione doganale tra Unio-ne europea e Turchia, nel dicembre del 1997 il Consiglio di Lussemburgo, pur non accoglien-do la candidatura, ha comunque riaffermato la disponibilità a prendere in considerazione la domanda di adesione ai fini dell’ammissibilità. Il 4 marzo 1998 la Commissione ha adottato la “Strategia europea per la Turchia”. Nel marzo del 2001 l’Unione ha infine adottato il partenariato per l’adesione della Turchia (cd. preadesione) che dall’anno successivo ha com-portato una imponente assistenza finanziaria tutt’ora in corso.

Sul versante del dialogo politico, poi, la

Turchia è sempre stata coinvolta negli ultimi anni: nel 2000 dalla Conferenza europea (nata nel 1998), un forum di consultazione politico comprendente gli Stati candidati veri e propri, fino alla Convenzione europea sul futuro del-l’Europa (2003), alla quale ha partecipato con lo status di “osservatore” al pari degli Stati formalmente candidati, offrendo peraltro un contributo analogo sia dal punto di vista qua-litativo che quantitativo.

In altre parole la partecipazione della Turchia al processo di integrazione in senso ampio (ivi compreso alle politiche Euromed), non si è mai tradotta in una smentita delle aspettative circa una piena adesione in futuro. E’ stata riconosciuta la vocazione della Turchia a far parte come membro di pieno diritto del-l’Unione a parità di criteri applicati agli altri Stati candidati.

•••••Perché dunque tanto allarme sull’adesio-

ne – peraltro non a breve - della Turchia? Quanto alle ragioni che hanno rinviato

tanto nel tempo la seria presa in considerazio-ne della domanda di adesione piena, occorre distinguere due fasi.

Una prima fase a partire dall’81 e fino al 1996 risale alle conseguenze di una vicenda ben specifica: ovvero la questione ciprio-ta. Fino a quella data la Grecia, finalmente membro di diritto della Comunità, aveva opposto un veto formale, in un contesto in-ternazionale che riconosce soltanto il governo greco-cipriota.

Va detto tuttavia che, superato il veto greco, la questione cipriota, pur occupando stabilmente un capitoletto delle Conclusioni di ogni Presidenza dell’Unione da innumere-

LA TURCHIA NELL’UNIONEUN PROBLEMA APERTO

Marco Plutino

I CONFINI DELL’UNIONE

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[23]I CONFINI DELL’UNIONE

voli anni in questa parte, è formalmente scissa da problema dell’adesione turca. Insomma il problema della Turchia va da allora ricondot-to al più ampio quadro delle “condizioni di adesione”, ovvero i parametri messi a punto dal Consiglio europeo di Copenahagen (1993) ai fini dell’adesione di un paesi associato.

Come è stato ancora confermato nel 1999, il problema di fondo è la capacità della Turchia di soddisfare gli obblighi connessi all’adesio-ne, adempiendo “alle condizioni politiche ed economiche richieste” a tutti i candidati.

Tali condizioni sono le più varie e ricon-ducibili a tre filoni:

La stabilità istituzionale a garanzia della democrazia (comprendente la tutela dello Stato di diritto, il riconoscimento della sepa-razione dei poteri, la tutela delle minoranze e il rispetto dei diritti umani);

una economia di mercato efficiente e la ca-pacità di far fronte alle spinte concorrenziali e alle forza di mercato interne all’unione;

la capacità stessa dei paesi di assumere gli obblighi derivanti dall’appartenenza, a partire dagli obiettivi di unione politica, economica, monetaria (i “capitoli” dell’acquis comunitario, relativi alle politiche).

In altre parole, soprattutto nel primo filo-ne di condizioni viene messa in discussione la compatibilità dei valori dell’ordinamento turco con quelli dell’Unione europea.

Sono seguite delle specificazioni di come vadano perseguite tali condizioni di adesione. Così, il Consiglio europeo di Madrid del 1995 ha anticipato alcune argomentazioni utilizza-te attualmente dalla Commissione, chiarendo che ciascun paese candidato deve adeguare le strutture amministrative per il corretto recepi-mento della normativa Ue e per la sua corretta attuazione da parte delle amministrazioni (ivi compresa quella della giudiziaria). Non con-tano, cioè, solo le regole formali ma i fatti. Il sistema deve essere in grado di funzionare.

In secondo luogo il Consiglio europeo di Helsinki del 1999, ribadendo che i paesi can-didati debbono condividere valori e obiettivi

dell’Unione come sanciti dai trattati, ha ri-conosciuto specificamente che la Turchia è destinata ad aderire all’Unione, senza alcun trattamento differenziato, né privilegiato, né deteriore.

Tuttavia la Turchia continua ad occupare di fatto una posizione a sè stante rispetto agli altri paesi che chiedono di entrare nell’Unione e tale condizione forse osta anche al ricono-scimento di candidature e preadesioni. Con Nizza, negoziati di adesione – prima separati e poi “riallineati” - sono stati avviati e conclusi con un folto gruppo di paesi. Ormai è prossi-mo l’ingresso di un secondo gruppo, invero ridotto maluccio sui parametri (si pensi alla Bulgaria). La Turchia, no. Una sorta di “tappo” rispetto all’evoluzione futura dell’Unione (si pensi alla Croazia, all’Ucraina, etc.).

•••••Per comprendere le ragioni di tale posizione,

che rappresentano ormai un nodo da sciogliere, si può partire dalla posizione del Parlamento eu-ropeo, ovvero della istituzioni più integrazioni-sta dell’Unione. Nella risoluzione del 15 novem-bre del 2000 del Parlamento europeo compaiono già tutti gli elementi “di fatto” ripresi nei dibattiti degli scorsi mesi e delle scorse settimane sulla stampa. Il Parlamento si dice compiaciuto della scelta di Helsinki di avviare un partenariato di adesione e del relativo impegno finanziario di-spiegato. Rileva tuttavia che allo stato la Turchia non ottempera ai criteri d’adesione e la invita a “intensificare i suoi sforzi di democratizzazione, soprattutto nel campo della riforma del codice penale, dell’indipendenza della giustizia, della libertà di espressione, dei diritti delle minoran-ze, della separazione dei poteri”. Il Parlamento ricorda, con particolare riguardo al problema curdo, che il mosaico culturale ed etnico turco ha bisogno di una soluzione politica “rispettosa della integrità territoriale” turca e purtuttavia va posto fine alle forme di discriminazione politi-che, sociali e culturali.

Quanto alla questione cipriota, il parla-mento ha invitato il governo turco a partecipa-re senza condizioni alla creazione di un clima proficuo al raggiungimento di una soluzione negoziata, globale, equa e durevole ma non pare considerare la questione come una pre-condizione per l’adesione. Difficile fare diver-samente se la Grecia, controparte del conflitto, ha ormai rimosso il veto.

•••••La risoluzione del Parlamento europeo ci in-

troduce alle cronache delle ultime settimane che, però, sono impregnate di fatti che scaturiscono da quel colossale mutamento della situazione geopolitica mondiale geopolitica successiva al settembre 2001. L’esplosione di una questione islamica, che certamente covava da decenni e in piena guerra fredda, ha avuto una appendice,

forse inattesa, anche in Turchia, dove in modo del tutto pacifico dal 2002 un governo musul-mano sedicente moderato conferma l’impegno europeistico tradizionale. Per la prima volta si è ridotto il vincolo dalle forze militari che hanno garantito la laicità e una certa democraticità dello Stato turco, a costo di vari colpi di Stato. A causa di tale notissima anomalia un fatto elementare per uno Stato di diritto, la separazione tra sfera politica e spera militare con la subordinazione di questa alla prima (misura come si vedrà richie-sta dall’Unione), è stato considerato con allarme proprio ai fini della tutela del debole Stato di diritto e democratico. A soffrire potenzialmente, questa volta, è il principio di laicità, anche se la vittoria di Erdogan, a capo del partito di massa islamico “Giustizia e Sviluppo” (Akp), non è di per sé una insidia.

Eppure paradossalmente proprio la pre-senza di un governo musulmano è divenuta una delle argomentazioni più diffuse – quasi le uniche a circolare negli scenari post–11 settembre – nel ragionare pro o contro sulla questione dell’adesione turca.

La Turchia di Erdogan mette a punto nel corso del 2002 una serie di riforme - la riforma del codice civile, il ridimensionamenti dei ver-tici militari, i progressi nella tutela dei diritti fondamentali - che non hanno eguali nel re-cente passato. Tuttavia tale misure ottengono una patente di insufficienza dagli organismi comunitari e conducono di fatto alla mancata fissazione della data per passare ai negoziati veri e propri di adesione (la cosiddetta clausola di rendez vous).

Al Vertice di Copenahagen di fine 2002, pur non bastando l’aperto favore del governo Berlusconi e la neutralità benevola in alcuni ambienti francesi facenti capo al Presidente Chirac e nel governo Blair emerge quanto-meno un consenso di massima per fissare una data, fine 2004, per decidere (non l’inizio dei negoziati ma) se fissare l’inizio dei negoziati o rinviarli sine die. La Turchia ha così almeno la certezza della risposta sulla “promessa di matrimonio”. Benché nessuno si sia pro-nunciato mai apertamente contro l’adesione turca, per decenni ogni qualvolta i governi hanno potuto discutere e votare a porta chiu-se è emersa una larga maggioranza di paesi europei contraria.

Così si arriva alle settimane antecedenti alla scadenze decisive, fissate per la pronun-cia della Commissione (il rapporto fa data 6 ottobre 2004) e per la decisione finale dei Capi di Stato e di Governo (fissata per il 17 dicembre 2004).

In questa situazione ambigua, dove nes-suno dice no, ma neanche si formalizza il sì, il governo Erdogan ci mette del suo, montando probabilmente una consapevole prova di forza per saggiare i veri umori dell’Europa e della sua opinione pubblica.

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[24]I CONFINI DELL’UNIONE

Proprio mentre la Commissione si stava pre-disponendo ad un sì condizionato una scelta del governo turco, il governo turco il 20 set-tembre 2004 rimanda il confronto parlamen-tare decisivo sulla riforma del codice penale a dopo la pronuncia della Commissione. Va precisato che si trattava propriamente di una delle insufficienze rimediate dall’ordinamen-to turco nel 2002 e a cui era stato chiamato a mettere mano.

La Commissione, dando inevitabile se-guito – peraltro senza troppa convinzione - agli allarmi provenienti da tutta Europa, è intervenuta duramente, minacciando una re-lazione negativa. Curiosa la reazione del pri-mo ministro, secondo cui l’Unione si sarebbe ingerita “in affari interni” dello Stato turco.

La Commissione, tornando con im-barazzo su una decisione di esito positivo praticamente già presa, è stata impegnata in un forcing di due settimane di osservazione, prima dell’inevitabile scadenza dei termini per presentare la relazione ai Capi di Stato e di Governo. Oltre l’accertamento della rimo-zione dell’ostacolo del contendere (non una legge, ma una proposta), la Commissione, anche al fine di considerare ottemperate sta-bilmente le condizioni di adesione, avrebbe dovuto valutare quale sarebbe stata la pres-sione dei settori islamici più radicali presenti nel partito di maggioranza per arrivare alla decisione di rinviare l’abolizione della propo-sta di reintroduzione del reato di adulterio da essi propugnata, e altre delicate misure quale la punizione dei “delitti di onore” e delle tor-ture, pratiche entrambi piuttosto diffuse nel paese. Un compito impossibile da svolgere in due settimane, mentre più di un segnale indicherebbe che il premier moderato (dal passato radicale) Erdogan sarebbe sempre più in difficoltà nel garantire l’unità del suo disomogeneo partito.

La Commissione ha dovuto riconsiderare così i tre rapporti da presentare ai governo: il rapporto sui progressi realizzati in campo economico, politico e giuridico, su cui pure era pronto un giudizio positivo; un rappor-to sull’impatto dell’adesione, dove la Com-missione aveva già in prima battuta inserito una miriade di riserve e dubbi; infine, pro-priamente, le “raccomandazioni”. In queste ultime tra l’altro è stato inserito un sistema di periodiche verifiche sui miglioramenti o sui regressi, con la possibilità di chiudere in qualsiasi momento i negoziati.

Ma la nota più curiosa è che le condi-zioni della Commissione attengono preva-lentemente all’implementazione del diritto comunitario nell’ordinamento turco, e i dubbi sul funzionamento dell’amministrazione. La Commissione ha invece dichiarato “suffi-cientemente” rispettati i parametri di ordine politico ed economico, tra cui il rispetto dei

diritti umani, pur riservandosi verifiche ulte-riori per il futuro. In conclusione l’incidente di percorso non ha comportato alcune stretta sul percorso avviato. Sul dibattito in Europa, ovviamente sì.

•••••Prima ancora del definitivo “sì condiziona-

to” della Commissione sulla base della relazio-ne del commissario per l’Allargamento Günter Verhuegen, e ancor più della posizione ufficiali dei governi dei prossimi giorni (e ormai indila-zionabili), sono venute allo scoperto le prime opinioni negative. Al di là delle precoci e poi reiterate esternazioni di Giscard, privo ormai di un ruolo politico di primo piano, si sono ag-giunge opinioni “pesanti”, come quelle negative dei commissari Fischler (austriaco) e Bolkenstein (olandese). Pur parlando a titolo personale, e non poteva essere diversamente perché i commissari hanno il dovere della indipendenza, già prima dell’infortunio turco sul “caso adulterio”, per il solo avvicinarsi della scadenza per la pronuncia della Commissione aveva lasciando trapelare una fitta serie di riserve che meritano di essere attentamente esaminate perché indubbiamente condivise dai loro paesi e non solo: il sistema turco sarebbe scarsamente democratico, co-sterebbe troppo in sussidi agricoli; la Turchia inoltre scardinerebbe il sistema delle maggio-ranze. Sono giunge anche voci sulle difficoltà a integrare “non cristiani”. Per l’occasione, e finalmente, tutto il repertorio è stato dispiegato, con obiezioni di poco momento. Si sono accodati anche la commissaria spagnola De Palacio (che però è stata nominata dal governo Aznar, non più in carica) e da vari commissari facenti capo ai Paesi dell’Est Europa.

La dose è stata rincarata evidentemente dopo il caso, dato che lo stesso commissario per l’Allargamento – pur favorevolissimo all’adesione - ha definito le norme “primor-diali”, estranee prima ancora che al diritto perfino al senso comune europeo. L’autore-volissima voce di Barroso (prossimo Presi-dente della Commissione) ha tuonato che “la Turchia deve adeguarsi alle regole europee” e non viceversa, ma … ha ribadito la (consueta e) piena disponibilità della commissione nel caso di un passo indietro del governo turco, come è poi accaduto. Tra i governi appare scontato e convinto il sostegno italiano e inglese, favorevole ma sfumato quello del cancelliere tedesco Schroeder (decisamente contrario quello della Cdu), mentre su po-sizioni prevalentemente negative sembrano attestati i governi dei paesi del Nord Europa e molti di quelli dell’Est. Per la Francia Chirac ha riaffermato ancora una volta il suo parere favorevole, mentre più sfumata e rispondente al clima nazionale pare la posizione del primo ministro Raffarin. Nonostante ciò, vi sono tut-ti gli elementi per parlare di un gioco delle

parti. Nessuno mette seriamente in discus-sione l’avvio del negoziato e neanche la sua chiusura con esito positivo, data per scontata dai commentatori sulla stampa. Eppure, ha avvertito Hans - Gert Poettering, autorevole esponente dei popolari europei: “Se come sembra i negoziati partiranno, devono aper-ti ad ogni conclusione”. Eppure, ribadisce la Commissione, secondo la quale non vi sono più ostacoli, che l’Unione si potrà in qualun-que momento ritirare dai negoziati (come del resto può avvenire in ogni promessa di matrimonio). Eppure, il ministro degli interni francese Sarkozy, appoggiato da Raffarin, ha proposto di votare un apposito referendum in Francia sull’adesione della Turchia, una volta completati i negoziati. Eppure Chirac ha ribadito l’ovvio, cioè la possibilità del suo paese di porre un veto, nel caso se ne palesasse l’opportunità, alla prosecuzione dei negoziati.

Ma il fronte sul quale si gioca la “vera” partita sembra un altro ed ha il suo alfiere nel-l’opinione di Schroeder, il quale afferma che per la chiusura dei negoziati è realistico un tempo di superiore ai dieci anni. Cioè quelli di un altro mondo, nient’affatto prevedibile. La bonarietà della dichiarazione tradisce che la Germania è uno dei paesi che più teme l’in-gresso turco ma, diversamente da altri, non può consentirsi un no.

Parrebbe che la presidenza olandese sia intenzionata a far proprio la road map prepa-rata dal Commissario all’Allargamento e che il sì dei governi sarà accompagnato da una serie di condizioni che condurranno ad uno stretto monitoraggio sulla situazione politica interna. La road map non potrà concludersi facilmente prima di fine 2005 e dunque per quella fase (presidenza inglese?) dovrebbe iniziare la fase dell’adesione vera e propria. La quale, però, verisimilmente, durerà un tempo lunghissimo.

Se per un verso è fondamentale che le ratifiche sul trattato costituzionale si tradu-cano – con esiti ovviamente disastrosi – in una pronuncia pro o contro l’ingresso della Turchia (magari a mezzo referendum), pare tuttavia che i posizionamenti siano funzio-nali alla vera battaglia in gioco, il momento effettivo dell’adesione della Turchia. Se fos-se così, sembra una lettura eccessivamente burocratica quella che circola negli ambienti comunitari, ovvero che l’adesione dipende-rebbe ormai dalla classi dirigenti turche che terrebbero saldamente “il volante”. Il dibat-tito che si è avviato, e che mescola conside-razioni giuridiche, politiche, economiche, identitarie e forse dimostra l’esatto contrario. Forse questo Erdogan l’ha ben compreso e cerca di influenzare l’agenda dell’Unione con stop and go.

{Continua al prossimo numero}

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Nel rievocare le vicende politiche nazionali, e anche le vicende

amministrative e politiche napoletane, degli anni 1947-1955, Antonio Alosco ci restituisce il clima dell’epoca, ripropone – per così dire – i giudizi ed i toni della sinistra all’opposizione in un periodo di vero e proprio scontro frontale. Ci si combatteva, tra i due schieramenti contrapposti, senza esclusione di colpi: e di colpi il movimento dei lavoratori, e i partiti che ne erano l’espressione politica, ne subirono di molto duri.

Naturalmente, ci sono giudizi su uo-mini e cose di allora che oggi andrebbero riveduti, attraverso un ulteriore sforzo di ricostruzione storica. Ma questo è soltanto lo sfondo del libro di Alosco.

Il cuore del libro è altrove: nella rap-presentazione di quello che fu il contesto della realtà industriale e del movimento operaio dell’area napoletana, negli anni immediatamente seguiti alla Liberazione ed in quelli delle lotte più aspre per il lavoro e per i diritti. Leggendo quei ca-pitoli sono tornato anche emotivamente alle mie esperienze giovanili, che furono vissute nel rapporto col mondo delle

fabbriche e degli operai napoletani. Le ho ritrovate tutte – via via citate per le traversie che subirono – quelle fabbriche, dalla Navalmeccanica agli Stabilimenti ex Ansaldo di Pozzuoli, dalla Fabbrica Macchine (Bencini) all’Imam Vasto, dai Cantieri Navali e dai Cantieri Metallurgici di Castellammare, all’Ilva di Bagnoli e di Torre Annunziata all’ex silurificio (Imena) di Baia. Ed ho ritrovato – puntualmente citati anch’essi – i nomi di tanti operai, sindacalmente e politicamente attivi e

combattivi, con i quali stabilii un legame umano profondo: l’elenco sarebbe troppo lungo, e non vorrei trascurare nessuno, ma di certo, tra quelli con cui fummo più vicini e lavorammo insieme, come non ricordare Nicola Fasano ed Angelo Di Roberto, Carlo Niola ed Antonio Ferrante, Giorgio Quadro e Gennaro Rippa, Giovanni Di Trapani e Luigi D’Angelo… Tutto un mondo, davvero, e così ricco di temperamenti e di speranze: non ho dimenticato uno solo di quei volti, non una delle figure di quei compagni, con i loro modi di parlare e di atteggiarsi.

Mi limiterò a due considerazioni poli-tiche. La prima riguarda il peso determi-nante che ebbe per lunghi anni nella nostra visione della realtà e del futuro di Napoli, la presenza dell’industria, specie di quella “di base”, siderurgica, metalmeccanica, navale. Sentivamo fortemente il rischio del degrado economico e sociale a cui l’area napoletana sarebbe stata esposta se quella consistente e variegata presenza industriale fosse stata colpita, ridimensio-nata, liquidata.

Perciò combattemmo per difenderla, con le unghie e con i denti, come risulta dal libro di Alosco. Può darsi che quella nostra visione fosse destinata ad apparire,

Ø Vittime della democrazia ØLicenziati per motivi politici e sindacali dal dopoguerra agli anni Sessanta

Antonio Alosco. Novus Campus. Napoli 2004

Stralcidalla prefazione

di Giorgio Napolitano al volume di Antonio Alosco sui licenziati per motivi politici

dal dopoguerra agli anni Sessanta,

edito da Novus Campus

RECENSIONI

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più tardi, troppo “industrialista” ed “ope-raista” – e di certo non tutto poteva essere sostenibilmente difeso: ammodernamenti, riconversioni, ristrutturazioni erano indispensabili. Ma nella sostanza quella nostra battaglia era giusta: e quel che poi, nei decenni successivi, è accaduto a Napoli, ha confermato la fondatezza delle nostre preoccupazioni, dei nostri timori.

La seconda considerazione riguarda l’innegabile durezza ed arbitrarietà della repressione che fu condotta contro il movimento dei lavoratori. Nulla può retrospettivamente giustificare le decisioni che colpirono centinaia di operai – tra i più qualificati professionalmente – in lotta per la difesa delle loro fabbriche; nulla può retrospettivamente legittimare sanzioni, ed in particolare i licenziamenti, con cui si violarono leggi, principi e diritti costituzionali.

A tutti quelli che pagarono con rap-presaglie ed umiliazioni, con la perdita del posto di lavoro, con sacrifici penosi sul piano personale e famigliare, è stato importante cercare di rendere giustizia attraverso un provvedimento legislativo ad hoc, ed è importante rendere ancora oggi affettuoso e commosso omaggio.

Ai giovani napoletani che sono nati e cresciuti molto dopo, e che cercano la via dell’impegno politico a sinistra in condizio-ni e lungo linee molto diverse da quelle di un tempo, vorrei raccomandare di scoprire e studiare le vicende dei lontani anni ’40 – ’50, per trarre da un passato di grande dignità e combattività ispirazioni ancora valide per costruire nuove prospettive.

RECENSIONI

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Dopo le elezioni europeenuovi volti per l’Unione

EURONOTES di Andrea Pierucci

Anche se è difficile vedere con chia-rezza le conseguenze di un’elezione eu-ropea, perché fra il voto degli elettori e gli assetti istituzionali successivi vi sono infinite mediazioni, l’Unione europea modifica comunque le proprie strutture in conseguenza delle elezioni, che si sono tenute dal 10 al 13 giugno di quest’anno. La scadenza quinquennale per le elezioni del Parlamento europeo è ormai diven-tata un momento di verifica politica im-portante tanto per le strutture politiche dell’Unione, quanto per gli stessi equili-bri interni agli Stati membri. Il carattere europeo delle elezioni è spessomesso in dubbio e, anzi, addirittura c’è chi nega che esse abbiano un vero e proprio valo-re democratico. Il Parlamento europeo, dunque non sarebbe legittimato perché alle elezioni si parla poco di Europa. Dubito che questa logica abbia un sen-so. Non vedo come in occasione di una scadenza elettorale si riesca a limitare il dibattito alla sola posta in gioco, tranne, forse, alle elezioni comunali di un piccolo comune. Le stesse elezioni amministrati-ve al livello regionale o comunale hanno, in genere una valenza politica e buona parte del dibattito si riferisce alla politi-ca nazionale. D’altra parte, la distinzione fra il dibattito nazionale e quello europeo è, nella maggior parte delle questioni, specie economiche, quasi impossibile. L’esempio più classico riguarda il con-tenimento del deficit con i temi collegati delle pensioni e dello stato sociale: si tratta, al tempo stesso di temi europei e nazionali. Certo, talvolta l’accento messo sul si o no al governo in carica sembra eccessivo e offusca i problemi europei, ma non credo vi sia modo di rimediare al fatto che quando gli elettori votano pos-sono difficilmente limitarsi a giudicare su alcuni problemi ed a trascurare altri problemi di attualità.

D’altra parte, se si ricorda bene, le elezioni nazionali del 1996 furono vinte

sul programma tutto europeo di Prodi riguardante la partecipazione all’EU-RO. Più grave è la scarsa partecipazione degli elettori in alcuni paesi. Le analisi si accumulano su questo fenomeno; personalmente credo che due elementi influenzino questo brutto fatto: lo scar-so dibattito fra le forze politiche nei vari paesi sui grandi temi europei (un vero scandalo democratico, se si pensa alle conseguenze importantissime delle decisioni prese al livello europeo,, che condizioneranno enormemente la vita dei cittadini negli anni futuri) e, effetti-vamente, una qualche disaffezione dei cittadini all’aspetto elettorale della poli-tica, non solo europea.

Il risultato elettorale non ha designa-to un vincitore assoluto: il primo gruppo politico al Parlamento europeo è, infatti, il PPE-DE (la somma di democristiani e conservatori) con 268 voti su 732 ed il secondo è il gruppo del Partito socialista europeo con 200 membri; d’altra parte, è molto difficile pensare ad un’egemonia chiara sul Parlamento, perché il voto nei diversi Stati riflette situazioni diverse, perché non c’è una vera campagna elet-torale europea e, infine, perché c’è una discreta frammentazione del voto in mol-ti paesi. In queste condizioni, il rinnovo delle cariche parlamentari è stato possi-bile solo grazie ad un accordo fra PPE e PSE: per metà legislatura il Presidente sarà il socialista spagnolo Josep Borrell Fontelles, mentre per la seconda metà dovrebbe essere il democristiano tedesco Hans-Gert Pöttering. L’elezione del 20 luglio però non è stata una semplice for-malità, perché i liberali (il nuovo gruppo dei liberali e democratici per l’Europa, uno dei cui padri è certamente Romano Prodi) hanno presentato una candidatu-ra, lo storico polacco Geremek, già mini-stro e intellettuale di Solidarnosc, che ha ricevuto ben 200 voti e i comunisti hanno presentato l’alsaziano Wurtz, presidente

del gruppo, che ha ricevuto oltre 50 voti. Sulla candidatura di Geremek si è speso un certo dibattito, fondato sull’importan-za di avere un presidente di un nuovo paese membro e, al tempo stesso, una personalità di altissimo livello. Da nota-re che fra i 14 vicepresidenti eletti, due sono italiani:, Luigi Cocilovo, del gruppo liberale (Margherita) e Mario Mauro del PPE (Forza Italia). Ugualmente, sono stati rinnovatii presidenti delle commissioni parlamentari, secondo il metodo di un’at-tribuzione equilibrata a tutti i gruppi po-litici. Gli italiani sono. Giuseppe Gargani (Forza Italia) alla commissione giuridica, Paolo Costa (Margherita) ai trasporti, Ottaviano del Turco (socialisti), occupa-zione e Luisa Morgantini (rifondazione), commissione sviluppo. Vale la pena di spendere una parola su quest’ultima decisione, che riconosce il lavoro tenace dell’eurodeputata nella scorsa legislatura. E’ da ricordare anche, in seno al gruppo socialista, la vicepresidenza attribuita a Pasqualina Napoletano.

“Lavori in corso” per la nuova Commissione

Anche l’esecutivo europeo si rinnova dopo le elezioni. Romano Prodi termina il suo mandato e cede il posto a José Ma-nuel Barroso, Primo ministro portoghese, che lascia la carica per venire a Bruxel-les. Anche se gli Stati membri l’hanno designato all’unanimità, Barroso dovrà gestire un’eredità difficile per varie ra-gioni. In primo luogo, Prodi torna a casa col carniere pieno: l’introduzione fisica dell’EURO, il successo dell’ampliamento (da 15 a 25 Stati membri, a partire dallo scorso primo maggio), l’approvazione del progetto di costituzione europea, il lancio dell’idea della governance, come sistema di governo europeo che veda una più ampia partecipazione dei cittadini e delle

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autorità locali e regionali, giusto per citare le realizzazioni più clamorose. Al tempo stesso, l’immagine della Commissione stenta a ridecollare, e questo in particolare grazie agli attacchi ai quali è soggetta dai tempi di Santer e, probabilmente, ad una reazione politica insufficiente. Barroso dovrà, dunque, fare un duro lavoro per conseguire successi analoghi e, al tempo stesso, per risollevare l’immagine della Commissione. Inoltre, Barroso è stato scelto dal Consiglio europeo dopo la caduta di altri candidati , il britannico Patten ed il belga Verhofstat, dando la sensazione di una soluzione di ripiego; dovrà smentire questa conclusione. Bi-sogna ricordare che il nuovo Presidente ha, in questo, un predecessore di taglia, Jacques Delors, che era stato scelto in seguito al rifiuto britannico di accettare Claude Cheysson. Intanto il Parlamento europeo l’ha eletto con 413 voti a favore e 251 contro; in particolare va notato il voto contrario del gruppo socialista e di tutta la sinistra. Anche se è presto per definire di destra la Commissione (che comunque comprenderà alcuni socialisti) questa de-cisione sembra annunciare tempesta nelle relazioni fra Parlamento e Commissione; ma non è detto, poichéè possibile che nel momento in cui il Parlamento europeo voterà l’intera Commissione (il 27 o 28 ottobre) ci possa essere una ricucitura. In questo senso sembra andare la deci-sione di Barroso di nominare primo vice-presidente Margot Wallström, socialista svedese, assai apprezzata al Parlamento. Quanto alla composizione, la Commis-sione comprenderà alcuni grossi calibri, ex primi ministri o ex ministri degli esteri, oltre ad altre personalità. Bisogna solo no-tare che i grandi Stati tradizionali (Italia, Gran Bretagna, Francia, Germania e Spa-gna – la Polonia ha scelto Canuta Hüb-ner, ex ministro degli esteri) hanno scelto personalità meno appariscenti. L’Italia ha proposto Rocco Buttiglione, al quale Bar-roso ha attribuito la giustizia e gli affari interni. La nomina è stata accolta con una certa sorpresa a causa del non favorevole approccio italiano al mandato di cattura europeo; ma Buttiglione ha subito trovato l’occasione, l’affare Battisti, per ribadire la sua fiducia in questo strumento. Toccherà ora aspettare le prime decisioni politiche che Barroso annuncerà durante il dibatti-

to parlamentare d’ottobre. Intanto Prodi, in carica fino al primo novembre, ha an-cora una terribile gatta da pelare: il parere sull’adesione della Turchia.

Le audizioni dei Commissari

designati

Vorrei brevemente ricordare la proce-dura che il Parlamento europeo mette in opera per dare la sua approvazione alla Commissione, appunto, dopo la scelta del nuovo Presidente.

In agosto, il Parlamento europeo ha inviato a ciascun candidato due questio-nari, uno di carattere generale, relativo all’esperienza personale ed alle principali questioni politiche, in particolare relative alle relazioni future fra Parlamento euro-peo e Commissione, ed uno specifico, re-lativo al portafoglio attribuito a ciascuno dal Presidente. In seguito alle risposte, ogni Commissario designato affronta un’audizione con una delle commissioni parlamentari, quella competente per i set-tori connessi alle future responsabilità del Commissario. Ogni commissione espri-me la sua valutazione sull’audizione. Se vi sono giudizi negativi, s’intavoleranno discussioni fra il Presidente della Com-missione ed il Parlamento europeo e si potranno trarre delle conseguenze (cam-bio di portafoglio, richiesta del Presiden-te al Commissario di rinunciare od altri arrangiamenti politici). Infine, l’insieme del Parlamento europeo, a maggioranza semplice approva la Commissione.

Nuove frontiere per l’Europa?

A proposito di allargamento delle frontiere europee, mi preme segnalare un paio di fatti che danno una luce nuo-va al dibattito. Il 27 luglio, il Presidente Leonid Koutchma ha annunciato che l’Ucraina non vede più la partecipazione all’Unione europea ed alla NATO come una priorità del Paese. Il 24 agosto, Putin ed il presidente bielorusso hanno annun-ciato l’unificazione monetaria fra i loro due paesi. In occasione della dichiara-zione ucraina, la Commissione europea si è affrettata a ricordare che l’adesione all’Unione non era stata ”né offerta, né

domandata” ed ha insistito sull’eccellente cooperazione e sulla necessità di raffor-zare i vincoli con l’Ucraina. La questione che ci dobbiamo ora porre mi sembra la seguente: andiamo verso la ricostituzione di uno spazio politico (statale o confede-rale, resta da vedere) russo, contrapposto o, più probabilmente alleato dell’Unione europea? Certo, questo dibattito non è mai mancato, ma mi sembra che ora si fondi di più su fatti concreti. Staremo a vedere.

I nuovi Commissari europei e loro competenze.

Di seguito, segnaliamo (in disordine!) la lista dei nuovi commissari europei e le principali competenze, a partire dal pri-mo novembre. Bisogna notare che solo dieci sono davvero nuovi commissari, poiché gli altri già appartenevano alla Commissione Prodi; tuttavia ne sono rimasti solo tre fra i membri della Com-missione Prodi nominata nel 1999.

José Manuel Duran Barroso PresidenteMargot Wallström Vicepresidente e respon-

sabile delle relazioni istituzionali e della comunicazione

Rocco Buttiglione Giustizia e affair interni (vice presidente)

Siim Kallas Amministrazione (vice pre-sidente)

Jacques Barrot Trasporti (vice presidente)Günther Verheugen Industria (vice pre-

sidente)Benita Ferrero-Waldner Affari esteriLouis Michel Cooperazione allo sviluppoMarcos Kyprianou Salute e consumatoriVladimir Spidla Occupazione e affari

socialiMariann Fischer Boel AgricolturaOlli Rehn AmpliamentoStavros Dimas AmbienteLaszlo Kovács EnergiaCharlie McCreevy Mercato internoIngrida Udre Tasse e doganaDalia Grybauskaite BilancioViviane Reding Società dell’informazioneJoe Borg Pesca e affair marittimiNeelie Kroes ConcorrenzaDanuta Hübner Politica regionaleJán Figel Istruzione e culturaJanez Potocnik Ricerca scientificaJoaquin Almunia Affari economiciPeter Mandelson Commercio interna-

zionale.

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Sono due gli elementi che caratteriz-zano le elezioni che vanno dal 1994 al 2004: la nascita di Forza Italia, nel 1994, e la formazione della lista “Uni-

ti nell’Ulivo”, nel 2004.Nella prima consulta-zione in cui si presenta (politiche del 1994) Forza Italia raggiunge il 21% dei consensi e diventa il “primo partito”. Nelle europee del 1994 tocca il suo massimo storico (30,6%), e, dopo il forte calo del 1996 (-10%), recupera nel 1999 fino a ritornare, nel 2001, con il 29,4%, agli stessi livelli del 1994. Nel 2004, alle ele-zioni per il rinnovo del Parlamento Europeo, subisce nuovamente un forte calo rispetto alle politiche (– 8,4%) e rispetto alle precedenti europee (– 4,2%).

La lista “Uniti nell’Ulivo” (DS, Margherita, SDI e Repubblicani) alle europee del 2004 conquista il 31,1% dei consensi, ma risulta lievemente al di sotto della somma dei voti riportati nelle politiche del 2001 dalle forma-zioni che la compongono.

Stando sempre al voto del 2004, dentro una situazione di quasi parità tra i due schie-ramenti, il centrosinistra mostra di essere in fase positiva (+1,8%) rispetto alle politiche del 2001 e (+3,5%) rispetto alle europee del 1999. Il centro destra perde rispetto alle politiche (-2,9%), ma guadagna rispetto alle precedenti europee (+1,4%).

Il centro sinistra è lo schieramento con il maggior numero di consensi in tre dei cinque collegi: nell’Italia Centrale (dove ha sempre detenuto questo primato), nell’Italia Nord Orientale (dalle politiche del 2001), e nell’Ita-lia meridionale (dalle ultime europee).

Il centro destra rimane in una posizione di maggiore forza nell’Italia nord occidentale e in quella insulare.

Negli ultimi anni, forse anche in conse-guenza dell’estrema parcellarizzazione del quadro politico, è fortemente cresciuto il numero di coloro che non esercitano il diritto di voto: astenuti, schede bianche e schede nulle.

La non partecipazione al voto assume dimensioni molto diverse a seconda del tipo di consultazione elettorale e dell’ambito ter-ritoriale considerato.

Nelle elezioni europee presenta forti picchi di crescita, che vengono parzialmente assorbiti nelle consultazioni politiche successive.

Il fenomeno assume dimensioni notevoli nel collegio meridionale (42,5%) e in quello insulare (48,2%). E’ come se la Penisola ri-sultasse tagliata in due, da una parte l’Italia settentrionale e centrale, con valori di non partecipazione al voto molto al di sotto del dato nazionale, e, dall’altro, l’Italia meri-dionale ed insulare, con valori molto più alti. Va tuttavia rilevato che il fenomeno, pur aumentando dappertutto, cresce con maggiore intensità in quelle aree dove era meno forte. In questo modo, relativamente alla non partecipazione al voto si vanno gradualmente attenuando le differenze tra le varie zone del Paese. Ne deriva che, come già accaduto per la forza elettorale delle grandi formazioni politiche, questa particolare for-ma di disaffezione al sistema politico è sog-getta ad un processo di omogeneizzazione,di livellamento verso l’alto.

CONSULTAZIONIA CONFRONTO

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MEZZOGIORNO EUROPAPeriodico del Centro

di Iniziativa Mezzogiorno Europa

N. 4 – Anno V – Luglio/Ottobre 2004Registrazione al Tribunale di Napoli

n. 5112 del 24/02/2000Via S. Lucia, 76 – Napoli

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Direttore responsabile:ANDREA GEREMICCA

Redazione:OSVALDO CAMMAROTA,

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CLAUDIO POMELLA, IVANO RUSSO,

EIRENE SBRIZIOLO

Consulenti scientifici:SERGIO BERTOLISSI, WANDA D’A-LESSIO, MARIANO D’ANTONIO, VITTORIO DE CESARE, BIAGIO DE GIOVANNI, ENZO GIUSTINO, GILBERTO A. MARSELLI, GUSTA-VO MINERVINI, MASSIMO ROSI, ADRIANO ROSSI, FULVIO TESSI-TORE, SERGIO VELLANTE

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Sostenitore Euro 129, 111 copia (p. vend.) Euro 5, 16

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LA RIVISTA

Le immagini che illustrano questo numero sono artwork di Luciano Penninotratti dai lavori “Passaggi” e “Contesti”. www.lucianopennino.com

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