Numero 1 - l'Universitario

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Numero O 25 maggio 2016, Trento Copia gratuita il giornale degli studenti di Trento Direttore Responsabile: Daniele Erler Siamo tutti rimandati a settembre Il migliore attestato di stima per il numero zero de l’Universitario è stata la partecipazione, con l’aula piena durante la presentazione del giornale e del progetto che ne rappresenta le fondamenta. In pochi giorni (in alcuni diparti- menti in poche ore) le copie sono andate esaurite. Sarebbe facile sedersi sugli allo- ri, autoconvincersi che abbiamo già raggiunto l’obiettivo che ci eravamo posti. Ma non è così. In realtà i margini per migliora- re sono ancora molti. Abbiamo una fucina d’idee, che si alimenta ogni volta che organizziamo una riunione e avviamo il dibattito. Quando semplicemente chiedia- mo: “Ma tu de l’Universitario che ne pensi?”. I complimenti servono e fanno piacere; ma le critiche (per for- tuna sinora mai esagerate) sono il sale per condire la crescita de l’Universitario. Abbiamo l’estate di mezzo, che per noi Universitari significa vivere sulla via costan- temente sospesa fra gli esami e la voglia di evadere, svagarci, vivere la nostra vita appieno. Pensiamo a questo intanto. A set- tembre riprenderemo i lavori per il giornale, lo faremo con nuove energie, con la consapevolezza di avere davanti un nuovo anno. Questo è il numero uno de l’Uni- versitario. Rappresenta la fine di un ciclo: quello dei primi mesi, vissuti fra il sogno e l’emozione della novità. In un certo senso siamo tutti “rimandati a settem- bre”, quando si dovrà davvero pensare a introdurre novità e nuove sfide, per non rischiare di deludere le nostre stesse aspet- tative. La cosa più bella è che chiunque voglia può decidere di essere parte di questo proget- to per migliorarlo. Anche chi ci critica. Il pericolo di nuove barriere e il ruolo dell’Università Mentre l’Europa torna a discutere sul tema dei confini e sul rapporto con gli “altri”, l’Università di Trento può farsi portavoce di una riflessione che coinvolga l’intera società Scritto da: Daniele Erler L’opinione di Emanuele Pastorino a pagina 3 Quando l’Africa viene colpita al cuore Si parla poco del Burundi. Eppure lo stato africano sta vivendo una delle fasi più drammatiche della sua storia recente. Alle elezioni per il Cnsu l’affluenza resta bassa Per il Consiglio nazionale degli studenti universitari, a Trento vince Udu. Ma la partecipazione studentesca è ancora un problema. PAG 8 PAG 7 Speciale Trento Film Festival La redazione della cultura ha seguito la rassegna del cinema di montagna. Ecco un bilancio dell’edizione di quest’anno. PAG DA 11 A 12

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Il primo numero del giornale degli universitari di Trento, scritto e realizzato in maniera partecipata e aperta. Il numero si focalizza sul tema delle barriere e della liberà di circolazione

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Numero O

25 maggio 2016, Trento Copia gratuita

il giornale degli studenti di Trento Direttore Responsabile:

Daniele Erler

Siamo tutti rimandati a settembre

Il migliore attestato di stima per il numero zero de l’Universitario è stata la partecipazione, con l’aula piena durante la presentazione del giornale e del progetto che ne rappresenta le fondamenta. In pochi giorni (in alcuni diparti-menti in poche ore) le copie sono andate esaurite.

Sarebbe facile sedersi sugli allo-ri, autoconvincersi che abbiamo già raggiunto l’obiettivo che ci eravamo posti. Ma non è così. In realtà i margini per migliora-re sono ancora molti. Abbiamo una fucina d’idee, che si alimenta ogni volta che organizziamo una riunione e avviamo il dibattito. Quando semplicemente chiedia-mo: “Ma tu de l’Universitario che ne pensi?”.

I complimenti servono e fanno piacere; ma le critiche (per for-tuna sinora mai esagerate) sono il sale per condire la crescita de l’Universitario. Abbiamo l’estate di mezzo, che per noi Universitari significa vivere sulla via costan-temente sospesa fra gli esami e la voglia di evadere, svagarci, vivere la nostra vita appieno. Pensiamo a questo intanto. A set-tembre riprenderemo i lavori per il giornale, lo faremo con nuove energie, con la consapevolezza di avere davanti un nuovo anno.

Questo è il numero uno de l’Uni-versitario. Rappresenta la fine di un ciclo: quello dei primi mesi, vissuti fra il sogno e l’emozione della novità. In un certo senso siamo tutti “rimandati a settem-bre”, quando si dovrà davvero pensare a introdurre novità e nuove sfide, per non rischiare di deludere le nostre stesse aspet-tative. La cosa più bella è che chiunque voglia può decidere di essere parte di questo proget-to per migliorarlo. Anche chi ci critica.

Il pericolo di nuove barriere e il ruolo dell’Università Mentre l’Europa torna a discutere sul tema dei confini e sul rapporto con gli “altri”, l’Università di Trento può farsi portavoce di una riflessione che coinvolga l’intera società

Scritto da:Daniele Erler

L’opinione di Emanuele Pastorino a pagina 3

Quando l’Africa viene colpita al cuoreSi parla poco del Burundi. Eppure lo stato africano sta vivendo una delle fasi più drammatiche della sua storia recente.

Alle elezioni per il Cnsul’affluenza resta bassaPer il Consiglio nazionale degli studenti universitari, a Trento vince Udu. Ma la partecipazione studentesca è ancora un problema.

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Speciale Trento Film FestivalLa redazione della cultura ha seguito la rassegna del cinema di montagna. Ecco un bilancio dell’edizione di quest’anno.

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Il contesto

Le dichiarazioni provenienti da Vienna alla fine dello scorso mese erano state dure: si era parlato di effettuare severi controlli a persone e merci a partire da giugno (prece-duti da quelli casuali cui abbiamo assistito in questi giorni); in più il governo austriaco chiedeva che tali controlli iniziassero sin dal tratto Fortezza - Brenner. Si era inoltre considerata l’ipotesi di stabilire una rete metallica allungabile di 250 metri che tagliasse in perpendi-

colare autostrada e statale, le due vie asfaltate che corrono parallele separate dai binari della ferrovia.

Invece le dichiarazioni fatte la mat-tina del 7 maggio dal Ministro degli Interni austriaco Wolfgang Sobotka al congresso del Südtiroler Volkspartei, tenutosi a Merano, si pre-sentavano in una veste sicuramente più diplomatica, nonostante sottoli-neassero le restrizioni da parte della Germania nei confronti dell’Austria (controlli alla frontiera da settembre 2015, reintrodotti poiché previsti dalle clausole d’emergenza in Schengen). So-botka dichiarava che non ci fosse alcuna intenzione di innalzare muri, stanziare (ulteriori) forze dell’ordine o inasprire rapporti di frontiera per quanto riguarda persone e merci, a patto che l’Ita-

lia gestisse l’emergenza migranti con diligenza. Intendendo con questo termine che i migranti sbarcati in Italia avrebbero dovuto essere trattenuti, come da Regolamento di Dublino, op-pure respinti.

La cronaca della manifesta-zione

Nonostante tali dichiarazioni, alle 15 polizia e carabinieri sono dispiegati a Brenner per gestire la manifestazione prevista per il primo pomeriggio. Il corteo difatti parte non molto tempo dopo, in seguito ad un raccoglimento di manifestanti arrivati in treno da varie parti del Trentino Alto-Adige durante la mattinata.

Fin dall’inizio i manifestanti dichia-rano: «Non ci fidiamo dei giochi politici, dello Stato italiano, del-

lo Stato austriaco; siamo inter-nazionalisti, le barriere non le vogliamo in Ungheria, non le vo-gliamo a Idomeni, non le vogliamo in Slovenia, non le vogliamo al Brennero». Mentre partono i cori di protesta contro muri, polizia, fascisti e sistema capitalista, alcuni iniziano a co-prirsi il volto, altri a tirar fuori da zaini (alcuni di questi a forma di strumento musicale, probabilmente per eludere possibili controlli) spranghe di legno e maschere antigas. I più agguerriti sono seguiti a breve distanza da un nutrito gruppo di manifestanti non armati, intenzionati tanto a non prender parte a eventuali scontri quanto a perorare la causa dell’insensatezza di barriere d’ogni genere. Gli striscioni più gran-di mostrano scritte quali “Abbattere le frontiere” (in italiano e tedesco) o “Distruggiamo i confini” (in italiano

e inglese).

L’inizio dello scontro

Un residente afferma: «Abbiamo 50 cittadini sudtirolesi o tedeschi, 200 stranieri immigrati. Vanno bene i lavo-ratori, ma spesso si creano situazioni

in cui intere famiglie di non lavoratori si stabiliscono qui, retribuite. Vanno bene i diritti, ma servono anche i doveri, serve contribuire.

Alle 15.40 viene lanciato il primo esplosivo verso dei poliziotti stanziati ad uno degli ingressi del primo binario, vicino al bar. Iniziano le cariche delle forze dell’ordine, a cui alcuni manife-stanti rispondono con sassi, colpi di spranga - in legno o in ferro - e fumo-geni. I non armati e non intenzionati a partecipare al conflitto indietreggiano e tentennano. Al di là del conflitto ci sono anche giornalisti e curiosi, i quali o sono allontanati da alcuni manifestanti che non vogliono essere ripresi o si allontanano di propria sponte, poiché la polizia, munita di scudi anti-som-mossa, è superata dagli oggetti lan-

ciati. Assistiamo all’arresto dei primi manifestanti e ad un poliziotto che si accascia, ferito al fianco.

Accorrono le prime ambulanze; la gente, intuendo che la manifestazione ha già iniziato a degenerare, si rifugia nel cen-tro commerciale e osserva il conflitto. Vetri di macchine - in particolare delle forze dell’ordine - vengono rotti, vetrine dei negozi danneggiate. Qualsiasi cosa diventa un’arma, da ciò che vi abbiamo elencato in precedenza (sassi, spranghe, fumogeni) a vasi trovati lungo la strada; le forze dell’ordine rispondono ora con cariche più severe.

La manifestazione degenera

Alle 16.10, in seguito ad un momen-to di calma surreale, i manifestanti esplodono in una carica verso il pri-mo binario, utilizzando anche bidoni dell’immondizia come barricate. Nel frattempo un dipendente del comune commenta: «Questa non è democrazia, è stata rovinata l’immagine di Brenner: è un paese che ha aperto le braccia ai profughi, non lo si può dilaniare».

La situazione ormai degenerata avrà

per la seguente ora e mezza come pal-coscenico i binari, fonte di pietre uti-lizzate per rompere gli schieramenti delle forze dell’ordine. Queste hanno idranti e utilizzano lacrimogeni, oltre al loro equipaggiamento da sommos-sa. Il conflitto raggiunge l’autostrada, dove i manifestanti lasceranno scritte di protesta e giacconi in fiamme. Pur-troppo la situazione è di crisi: i fermi della polizia aumentano, oltre ai loro feriti. Non vengono ri-lasciate dichiarazioni, se non ad alcune importanti emittenti, e si sconsiglia di seguire il conflitto attraverso i binari e verso l’autostrada; peraltro le forze dell’ordine sgridano alcuni turisti mu-

niti di cellulare, intenti a curiosare e testimoniare.

È surreale rifugiarsi in un bar per scri-vere tutto questo di fresco e vedere la situazione dei binari in diretta al telegiornale: vengono riportate le di-chiarazioni del Ministro degli Interni Alfano che segue la vicenda da Venti-miglia, i numeri ingranditi (i 300/400 manifestanti iniziano a diventare 500 o più, oltretutto dichiarati in maniera sommaria “anarchici”), si inizia a pun-tare il dito verso i fomentatori dello scontro, facendo certamente un torto ai sostenitori della pacifica causa e un favore a chi voleva che la situazione degenerata facesse soltanto notizia.

La manifestazione al Brennero: gioco di ombre

tra politica e movimenti insurrezionali

Scritto dal nostro inviato, Francesco Desimine

Al di là della cronaca, occorre una riflessione che coinvolga l’intera società e

non solo gli addetti ai lavori

Brenner, 7 maggio 2016 – Il piccolo comune al confine viene nuovamente paralizzato da una manifestazione contraria alla “barriera” tra Italia e Austria. Noi de L’Universitario siamo stati al Brennero per cercare di seguire da vicino il conflitto locale, che ha perl radici politiche, sociali ed economiche, comunitarie e internazionali ben distanti dal conflitto di volontà che è germogliato sotto i nostri occhi.

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Il muro e noi

Il mese scorso, l’Austria ha an-nunciato una serie di misure per l’irrigidimento dei controlli al con-fine del Brennero che hanno come punto centrale la costruzione di una recinzione di 370 metri in fun-zione anti-migranti. A fine aprile, il Parlamento austriaco ha inoltre approvato una nuova legge che, per quanto si è saputo in Italia, restringe i diritti dei rifugiati politici, permet-te alle autorità del paese di rifiutare direttamente al confine le richieste di asilo presentate dai migranti, e consente al governo di Vienna di dichiarare lo “stato di emergenza” nel caso di aggravamento degli ar-rivi nel paese. Tutte queste misure sono giustificate, secondo le parole del Ministro degli Interni Wolfgang Sobotka, dal fatto che «tanti altri membri dell’Unione europea hanno fallito nel compiere la propria par-te» per limitare i flussi in arrivo dei migranti e dei rifugiati, tanto che «noi non possiamo più supportare il peso del mondo intero». Difficile capire se quella di una barriera al confine del Brennero sia solo una boutade della campagna elettorale o un vero progetto politico.

Dall’Italia, si sono alzate voci di condanna e di sdegno per la scel-ta dell’alleato alpino, a partire dai vertici del nostro governo che hanno più volte minacciato di denunciare in sede europea le eventuali violazioni dei Trattati. La comunità internazio-nale ha espresso le proprie perplessità sulla scelta di Vienna: Ban Ki-moon, Segretario Generale ONU, in un di-scorso pronunciato proprio di fronte al Parlamento austriaco ha espresso pre-occupazione per la scelta, dilagante in Europa, di approntare politiche in senso restrittivo nell’ambito della regolazione dei flussi migratori; Barack Obama, in occasione della visita in Europa per il G5 in Hannover del 25 aprile, ha ribadi-to la propria perplessità per tale scelta, affermando che per fronteggiare la questione dell’immigrazione di massa «non servono muri».

Il banco di prova fallito del di-segno unitario

Tuttavia alte si sono levate anche le voci che concordano con la scelta del governo di Werner Faymann: que-sti sostenitori della “linea dura”, forti del facile consenso che riescono ad ottenere portando avanti questa “politica dell’odio”, vorrebbero vedere definitivamente frantumato quello che era il sogno, ad oggi irrealizzato, di un’Europa unita. Infatti, se si ritiene che l’Unione Europea sia la diretta e completa espressione di quel progetto nobile, non si fa altro che perpetuare la falsità della propaganda del “sogno raggiunto”. Chiare sono le parole del Manifesto di Ventotene, dove i padri fondatori dell’Europa scrissero “E quan-do, superando l’orizzonte del vecchio continente, si abbracci in una visione di insieme tutti i popoli che costituiscono l’umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione europea è l’unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica coo-perazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo”.

Il disegno di Altiero Spinelli e degli altri redattori del Manifesto non ha ricevuto compimento con Schengen, né tantomeno con il Trattato di Lisbona, i quali posso-no rappresentare tutt’al più un primo importante passo in quella direzione (ed è questa la ragione per cui non de-vono e non possono essere stralciati). Il modo di (non-)affrontare, in tutti questi anni, il flusso di per-sone che giunge dalla sponda Sud del Mediterraneo, rappresenta il grande banco di prova fallito di quel disegno unitario: agli occhi del mondo, infatti, non si è presentata un’Europa “salvifica”, capace di essere il sogno di possibilità di quelle centinaia di migliaia di persone strappate dalla propria terra e che si sono riversate da questa parte del Mediterraneo, quanto piuttosto un’Europa fragile, squassata da umori “politici” contrari ai principi che la fondano.

Questo approccio, nazionalista, xenofobo e vergognoso che viene espresso da una ben determinata parte politica, è quello che oggi sta avendo la maggiore “resa” (in termini di consenso), tanto da porta-re anche altre forze democratiche a compiere le medesime scelte: e allora, sull’ondata del “timore da consensi” che

affligge le socialdemocrazie europee quando si parla di politiche di sicurezza, allora si ergono muri laddove si pen-sava non sarebbero mai più sorti ed i vaneggiamenti su presunte “invasioni” non trovano un contraddittorio utile a stimolare la riflessione.

La riflessione possibile

Se quanto detto sembra lontano da una dimensione pratica, forse è proprio per via di questa carenza di riflessione sul tema: infatti, in Italia ed in Euro-pa, si sprecano foreste di carta e mari di inchiostro parlando d’immigrazione, senza tuttavia parlarne davvero.

Questo modo di giocare al rilancio del consenso, infatti, ha soffocato sul na-scere qualsiasi possibilità di compiere un’analisi vera del tema: tuttavia sa-rebbe ingiusto dare la responsabilità di questa non-informazione solo a politica e giornalismo. Per gli addetti ai lavori, infatti, si trova sovente lo spazio di una riflessione attenta a queste temati-che: prendendo ad esempio la nostra Università, a partire dall’anno accademico 2014/2015 si possono rinvenire parecchie iniziative di discussione ed approfondimento sul tema dell’immigrazione, in una stretta collaborazione tra il Di-partimento di Sociologia e la Facoltà di Giurisprudenza le quali hanno fornito alcuni interessanti spunti per imma-ginare uno scenario ancora diverso. Per gli addetti al lavoro sì, per la società tutta no: quella è abban-donata alle urla inconsulte della “politica”.

Secondo quanto dice lo Statuto del nostro Ateneo, l’Università “entra in relazione con il tessuto sociale e produt-tivo del territorio, anche organizzando specifiche occasioni di confronto con le parti economiche e sociali, mettendo a disposizione le proprie competenze e le proprie infrastrutture di servizio, al fine di promuoverne lo sviluppo e la competitività nazionale e interna-zionale attraverso l’innovazione e la formazione continua” (articolo 2 n. 8). In quest’ottica va registrato l’incontro “Accoglienza nell’emergenza. Il ruolo degli enti territoriali nella gestione del fenomeno migratorio”, risalente al 30 novembre 2015, in cui il mondo universitario, dell’amministrazione locale e del terzo settore operante in

Trentino, hanno avuto una possibilità di incontro e di dialogo positiva: tutta-via questo è solo un primo passo, uno spunto per un confronto che, ancora di più oggi, andrebbe sostenuto anche (e soprattutto!) al di là dei rapporti tra “addetti ai lavori”.

Infatti, sebbene sia necessaria una pro-fonda interazione tra operatori sociali e ricercatori per conseguire strumenti sempre più efficaci per garantire la tutela dei migranti, allo stesso modo l’Università ha un ruolo entro il tessuto sociale: questo non è ristretto a coloro che già operano a stretto contatto con i flussi migratori che transitano sull’asse dell’Adige, ma si estende all’intera col-lettività trentina la quale è abbandonata a se stessa. Non bisogna nascondersi dietro ad un dito: parte consistente dell’opinione pubblica anche (soprattut-to?) in Trentino sembra essersi appiat-tita su quella logica pericolosa che sta a metà strada tra vertenze xenofobe e quel “timore da consenso” di cui parlavo prima, in cui l’amministrazione locale preferisce “delocalizzare” il conflitto sociale nelle periferie, assecondare il senso diffuso di intolleranza che rende la convivenza problematica e, in questo modo, incanalare il consenso.

Un’altra strada può e deve essere per-corsa: l’Università, dagli studenti al personale docente, dovrebbe essere l’apripista di un pensiero nuovo, diverso, proprio perché “opera per lo sviluppo e la dif-fusione delle conoscenze e del sapere critico”, funzione che non può limitarsi solo alle rassicuranti quattro mura di un’aula universitaria. È il mo-mento di lasciare la confortevole sicurezza di lezioni autoreferen-ziali per uscire fuori, nel mondo, e agire al suo interno: solo così l’U-niversità potrà davvero raggiun-gere obiettivi concreti. Solo così si potranno, un giorno, vedere in Europa sorgere ponti al posto di muri. Ma questo è possibile solo se qualcuno avrà l’ardire di poggiare il primo mattone.

Mattoni per i nostri ponti.

L’Università di Trento e la sfida

dell’immigrazione.

L’opinione Al di là della cronaca, occorre una riflessione che coinvolga l’intera società e non solo gli addetti ai lavori

Scritto da:Emanuele Pastorino

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Un italiano, un africano, una don-na e un omosessuale si incontrano al supermercato. No, non è l’inizio di una barzelletta. Facciamo finta che questi siano i soli elementi che gli uni conoscono degli altri. Ed è facile immaginare, del resto, la verosimiglianza di una tale situa-zione: a meno che non decidessimo di intavolare una conversazione in attesa del nostro turno al banco dei salumi, difficilmente riusciremmo a scoprire altri elementi, oltre al dato estetico o percettivo, riguardo alle persone intorno a noi.

Dal colore della pelle traiamo inferenze (spesso grossolane) circa la provenienza geografica: pelle bianca, italiano; pelle nera, africano. Presenza di seno e tacco alle scarpe ci faranno immediatamente pensare di trovarci di fronte ad una donna. Due uomini per mano ci por-teranno a crederli omosessuali. Fin qui, nulla di strano; i nostri quattro protagonisti si sono etichettati in modo rapido e più o meno efficace, usando alcune scorciatoie mentali (che gli psi-cologi chiamano euristiche) basate sulle loro precedenti esperienze di vita: quasi tutte le donne che ho visto avevano il seno, quasi tutti gli uomini di pelle scura che ho incontrato provenivano dall’Africa.

Ci avviciniamo ai nostri quattro ami-

ci e cerchiamo di conoscerli meglio. Scolarizzati, ben inseriti nel contesto sociale in cui vivono, lavoratori, tutti e quattro profondamente contrari a qualunque forma di pregiudizio. Pur-troppo, però, la donna guadagna la metà rispetto al marito, l’africano è laureato in ingegneria ma in Italia è riuscito a trovare lavoro come addetto alle pulizie, l’omosessuale non può ancora sposarsi con il compagno che ama e l’italiano ammette, arrossendo in volto, di aver votato Salvini qualche anno prima. Si direbbe, ad una prima occhiata, che c’è ancora tanto da lavorare in questo paese. Sono tutti però concordi nell’af-fermare che è questione di tempo, la società sta evolvendo nella direzione giusta. Tutti e quattro si dicono con-trari alla discriminazione etnica e di genere nel trattamento lavorativo ed economico e si dichiarano largamente favorevoli al riconoscimento delle cop-pie omosessuali (su Salvini preferiamo non domandare oltre). In generale, quindi, prevale nel 2016 quella che viene definita norma di non discriminazio-ne: vale a dire, la regola codificata ed esplicita di comportamento secondo la quale gli individui sono da ritenersi eguali. Ma siamo sicuri che tale nor-ma valga anche a livello implicito? In altre parole: è sufficiente condannare socialmente il pregiudizio per estirparlo veramente? La risposta è no, come la ricerca scientifica in psicologia sociale ci ha mostrato negli ultimi decenni. Vediamo qualche esempio nel dettaglio.

Alcuni ricercatori (Dovido et al., 1997) ci hanno fornito un dato interessante: soggetti bianchi assolutamente non razzisti erano sottoposti alla visione su-bliminale (ovvero non cosciente) di volti di pelle scura o bianca e, in seguito alla presentazione di ogni volto, dovevano svolgere un compito di categorizza-zione che consisteva nel definire il più velocemente possibile come positiva o negativa una parola non neutra (ad esempio: buono, aggettivo positivo; brutto, aggettivo negativo). Furono osservati tempi di risposta più lunghi se i soggetti dovevano categorizzare una parola positiva dopo aver visto un volto nero e, viceversa, gli stessi soggetti era-no più rapidi nel rispondere se la parola presentata dopo un viso di pelle scura era negativa. Il nostro amico italiano, dunque, pur dichiarandosi non razzista, avrà un accesso cognitivo più rapido a parole semanticamente negative se in presenza del nostro amico africano.

A questo livello il pregiudizio resta im-plicito e, nella maggior parte dei casi, non si traduce in discriminazione attiva. Educazione, cultura e ambiente sociale hanno rafforzato in noi la norma di non discriminazione di cui sopra. Eppure, molte circostanze ci impediscono di riflettere con calma e ragionevolezza al fine di sopprimere le nostre valutazioni inconsce. Se l’italiano al supermercato fosse un poliziotto, infatti, le sue pro-babilità di sparare ad un potenziale criminale sarebbero molto più alte in presenza di un soggetto di pelle scura. Nel 2015, negli Stati Uniti, gli individui neri (se rapportati alla percentuale rappresentata nella popolazione totale) hanno avuto una probabilità nove volte superiore ai bianchi di essere uccisi dal-la polizia. È quello che viene chiamato “racial shooter bias”, ovvero la tendenza a sparare più frequentemente in caso di “black targets”: il dato è talmente rilevante e pervasivo da essere stato replicato in laboratorio (utilizzando un videogame) sia con partecipanti civili che con poliziotti (Correll et al., 2007).

La minaccia dello stereotipo è così forte da indurre persino i soggetti discrimi-nati ad interiorizzare il pregiudizio su loro stessi: se invitassimo la donna e l’africano a svolgere, rispettivamente, una prova di matematica e un test di intelligenza al fine di confrontare il loro risultato con coetanei maschi bianchi, la loro performance sarebbe effettiva-mente più scadente (Steele, 1997). Non

è un caso che le donne rappresentino un numero molto ridotto dei laureati totali in materie scientifiche e che sia raro trovare africani o afro-americani ricoprire incarichi dirigenziali. Che le ragazze non siano brave con la matema-tica o che i neri siano meno intelligenti, come parrebbero dimostrare i risultati appena citati, è in realtà null’altro che una profezia che si auto-adempie (così la definiscono sociologi e psicologi so-ciali): gli stessi soggetti, sottoposti alle medesime prove in contesti informali e senza menzione di successiva valutazio-ne e comparazione dei risultati, rivelano performance del tutto paragonabili a quelle dei coetanei.

Non se la passa meglio il nostro amico omosessuale: se identificato come tale, infatti, è probabile che in coda alla cassa gli altri uomini mantengano da lui una distanza maggiore di quella che avrebbero avuto con individui giudicati eterosessuali. È proprio quello che han-no osservato due ricercatori americani (Bromgard & Stephan, 2006): maschi eterosessuali adulti erano invitati a posizionare due sedie in una stanza in attesa del secondo soggetto speri-mentale, con il quale avrebbero dovuto successivamente avere una conversa-zione su un dato argomento (seduti su quelle sedie). I soggetti cui era detto che l’interlocutore fosse omosessuale, tendevano a collocare le sedie più di-stanziate di parecchi centimetri. Anche in questo caso, tuttavia, non si osservò alcuna differenza comportamentale durante la conversazione vera e propria: il pregiudizio ha dunque agito implici-tamente, sebbene i partecipanti fossero scolarizzati, intelligenti e assolutamente non omofobi.

Siamo dunque portatori sani di pregiu-dizio: la maggior parte di noi lo con-danna ma il nostro sistema cognitivo ne sembra affetto in modo incurabile. Non esiste alcun farmaco per ridurne almeno i sintomi? Aumentare il con-tatto interpersonale, introdurre scopi comuni tra differenti gruppi sociali, conoscere aspetti più dettagliati del singolo individuo sono tutte strategie rivelatesi scientificamente efficaci nel ridurre il pregiudizio (Aronson et al., 2013). Finché l’etichetta di africano, donna o omosessuale, tuttavia, sarà confermata da effettive disuguaglianze etniche o di genere, il pregiudizio, al-meno inconscio, continuerà ad attivarsi nel nostro (purtroppo limitato) cervello.

Portatori sani di pregiudizio: i limiti (anche inconsci) del nostro sistema cognitivoLa ricerca scientifica dimostra come ci siano forme di discriminazione “inconsapevole”Scritto da:Lorenzo Ciccione

L’attualità sale anche sul palcoscenico come fonte d’ispirazione per spettacoli

teatraliSbarchi, migranti, profughi. Barriere, accoglienza, diritti. Sono argomenti che da parecchi mesi alimentano la cronaca e il dibattito politico a livello trentino, italiano e internazionale. Il teatro, che da sempre indaga l’uomo e la realtà in cui vive, non poteva rimanere indiffe-rente. La tematica infatti è calda. Tra tutti gli spettacoli a cui ho preso parte quest’anno, almeno quattro – a mio parere – la affrontano in pieno: Chi ama brucia della Compagnia Ortika, Rumore di acque del Teatro delle Albe, Nella tempesta dei Motus ed Emigranti di AriaTeatro. Senza dimenticare Ma-gazzino 18 di Simone Cristicchi, le cui frasi finali sono perfettamente calzanti al discorso: «Io non ho un nome ma potrei averne milioni. Come i profughi di tutto il mondo, costretti a lasciare la propria terra, per sfuggire alla povertà,

all’odio, alla guerra».

Parla di sbarchi il potente, profondo e viscerale Rumore di acque sgorga-to dalla penna di Marco Martinelli. Alessandro Renda interpreta magi-stralmente un arrogante e mefistofeli-co comandante incaricato di censire i cadaveri; in mirabile contrasto si pone la meravigliosa vibrazione visionaria trasmessa dalle avvolgenti musiche dei fratelli Mancuso. Un’esperienza ancestrale da cui lasciarsi trasportare, un gioiello assolutamente da vedere.

Chi ama brucia tratta dei CIE, centri di identificazione ed espulsione, luoghi che dietro la patina del buonismo e dell’accoglienza celano una prigione alienante e spersonalizzante, per gli ospiti quanto per gli operatori. Alice Conti, artista completa, denuncia senza

retorica, vestendo i panni di una confu-sa crocerossina e, nel finale, della frivola garante. Spettacolo intenso e di una grammatica teatrale ineccepibile, dove ogni oggetto di scena ha il suo perché.

Nella tempesta parte dal quasi omo-nimo capolavoro shakespeariano per poi prendere altre strade e arrivare a parlare della stringente attualità, fatta di sbarchi e rivendicazione di diritti. Quella dei Motus è un’opera di pensie-ro e attoriale immane, che tocca temi come la rivoluzione sociale, il potere e la libertà, la xenofobia e l’immigrazione, a cui però un focus più preciso avrebbe

giovato.

AriaTeatro (regia di Giuseppe Amato) ha scelto Emigranti, amaro, sferzante e immediato testo del polacco Sławomir Mrozek. In un sottoscala mal arredato e indefinito, due personaggi senza nome, diversissimi per estrazione sociale, culturale, speranze e stile di vita, sono costretti a dialogare e condividere la condizione borderline che li accomuna. Denis Fontanari e Andreapietro An-selmi danno corpo ai fantasmi creati dall’autore con espressività e padro-nanza. (Segue a pagina 5)

Scritto da:Ivan Ferigo

Sulla scena il dramma dei migranti è caldo

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Mi pare di scorgere in tutte queste pro-poste un filo rosso che le lega: il fatto che il migrante, lo straniero, il diverso non abbia diritto a un nome. Cristicchi nomina vittime delle foibe per dare loro voce in quanto la Storia le ha di-menticate. In Rumore di acque ogni cadavere non è che un freddo numero. Chi ama brucia descrive un ambiente che crea in laboratorio la figura del clandestino. In un passaggio di Nella tempesta, Calibano dice di chiamarsi X. Nel suo dramma, Mrozek appella i suoi personaggi AA e XX. Cinque su cinque. Non può essere un caso, e nemmeno spicciolo compatimento buo-nista. Prima di giudicare uno straniero, il teatro ci invita a “dargli un nome”, ovvero a conoscere la sua storia, le traversie che l’hanno condotto davanti ai nostri occhi.

A Trento dal 2013 malati e rifugiati politici convivono in appartamenti grazie a un progetto delCentro di Salute Mentale.

Quando la diversità cura

Dal 2013 è attivo “Amici per casa”, un progetto ideato dal Dipartimento di Salute Mentale di Trento e finanziato dal

Comune, che riunisce in un percorso di convivenza individui afflitti da disturbi psichici e rifugiati politici: persone molto

diverse tra loro ma, allo stesso tempo, accomunate dall’essere entrambi portatori della pesante etichetta di “outsider”, soggetti

per i quali la società ha sempre incontrato enormi difficoltà nel trovare un ruolo consono e, soprattutto, degno. Abbiamo incontrato uno dei responsabili del progetto, Roberto Cuni,

presidente de “La Panchina”, Onlus locale di prevenzione sociale che supporta il Centro di Salute Mentale nell’assistenza ai

malati mentali.

Un progetto nato “per caso”

«Il progetto nasce un po’ per caso – confessa Cuni –, come rimedio sperimentale a una combinazione di problemi che la particolare situa-zione storica aveva fatto emergere: da una parte, le crescenti difficoltà che la Provincia riscontrava nella gestione dei rifugiati politici sbar-cati in seguito alla crisi libica del 2011, dall’altra, l’enorme dispendio economico che grava sull’assistenza dei malati nelle comunità di recu-pero (300 euro al giorno per ogni singolo paziente)».

Rischio reale era infatti che gli immi-grati, lasciati allo sbaraglio di fronte alla mancanza di strutture e supporto economico insufficienti al loro numero, venissero risucchiati nel vortice della criminalità costituendo un ulteriore ostacolo alla loro integrazione. Dall’al-tro lato, la reclusione in comunità come esclusivo strumento di cura in alcu-ni casi aveva portato addirittura dei

peggioramenti al malato che, relegato all’interno di una dimensione così lon-tana dal mondo quotidiano, perdeva contatto con la realtà riducendo così le possibilità di uscire, un giorno, dalla comunità stessa.

La soluzione è stata individuata da Renzo de Stefani, primario del Dipar-timento, che ha deciso di mettere a stretto contatto i due “problemi” at-traverso un’azione di affiancamento abitativo per convertire quella che si prospettava un’emergenza in un’oppor-tunità, stimolante dal punto di vista sia psichiatrico sia umano, nei termini di una terapia reciproca: «ci capita di dire, brutalmente, che da due sfighe abbiamo trovato una risorsa», sostiene infatti Cuni.

Neri per casa

Nel 2013, allora, ecco inseriti in 40 alloggi popolari del Comune di Trento gruppi da due o più persone, utenti e accoglienti rientranti in una fascia d’età che va dai 20 ai 35 anni, che si trovassero ad affrontare la quotidianità

in maniera autonoma e indipenden-te, combinando abilità degli uni con difficoltà degli altri. Naturalmente il progetto è seguito e monitorato in ogni sua fase, a partire da una selezione degli accoglienti stranieri (inclusi oggi anche individui non africani) da parte del Cinformi, un’unità operativa del-la Provincia deputata alla gestione e all’accesso degli stranieri ai servizi pubblici, che seleziona i soggetti in base alla loro predisposizione e sensibilità all’assistenza sociale e alla padronanza della lingua italiana.

Dopo la preselezione, gli idonei sono sottoposti a un corso intensivo di for-mazione professionale, composto da una parte teorica e da un tirocinio svolto in comunità per metterli alla prova sui compiti da svolgere una volta entrati in appartamento. Il progetto (inizialmente sorto col più evocativo e goliardico nome “Neri per casa”), è seguito dal Comune di Trento nella sua parte logistico-burocratica e fornisce a tutti gli stranieri accoglienti un contri-buto mensile che ammonta a 400/500 euro: «Tale stipendio non li vincola

esclusivamente al lavoro di assistenza a tempo pieno e, se le condizioni del malato lo permettono, sono liberi di trovarsi un lavoro parallelo, spesso in orario notturno», spiega Cuni.

I risultati del progetto

È importante sottolineare come la re-altà creatasi, seppur nata all’improv-viso, si cala perfettamente all’interno della filosofia del “Fareassieme”, che caratterizza l’innovativo e dinamico approccio della sanità trentina al di-sturbo mentale: l’esaltazione del sapere esperenziale, con l’affiancamento agli operatori sanitari degli UFE (Utenti Familiari Esperti), volontari che, spesso reduci da esperienze simili a quelle ora curate, trasmettono il loro supporto al malato per una terapia di tipo affettivo e relazionale, non solo basata sui far-maci. Ebbene, i risultati che “Amici per casa” ha conseguito, hanno suscitato sorpresa e stupore agli occhi degli stessi responsabili: le condizioni dei malati, in alcuni casi anche critiche, sono vi-sibilmente migliorate come dimostra il vertiginoso calo dei ricoveri dopo l’inizio del progetto.

Il motivo va ricercato all’interno di una prospettiva strettamente culturale: gli africani dimostrano un atteggiamento più aperto e meno stereotipato di noi europei verso il diverso, in quanto, in assenza di ospedali e cliniche, sono sempre stati abituati a vivere tutti insie-me. L’assistenza che questi forniscono s’incanala in un rapporto reciproco, sincero e genuino.

«Per loro il problema non è certo la diversità, la follia – sostiene Cuni – ma la guerra, la povertà». Proprio per questo, il rapporto che si instaura col malato non è di tipo propriamente sa-nitario, ma più sincero, vero: «Ormai sono come fratelli, vivono in armonia, hanno sviluppato interessi in comune, dalle agguerrite partite alla PlaySta-tion all’andare a pesca la domenica mattina».

Certo ci sono anche litigi e incompren-sioni ma, in fondo, è proprio questo il centro di tutto il discorso, il vero obietti-vo: farli sentire persone normali (anche se sappiamo bene che in psichiatria il termine è rinnegato), insegnare loro a convivere proprio come se fossero fuorisede all’Università, tra pregi e difetti, abilità e debolezze.

Scritto da:Fausto Fiorin

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Un modo innovativo per trovare casa a Trento durante gli studi universitari

Con Casa Solidale un’esperienza di coabitazione

Nata come progetto di coabitazio-ne promosso dall’Associazione Auto Mutuo Aiuto (A.M.A.) di Trento, Casa Solidale guarda a persone che per di-versi motivi si trovano ad affrontare il problema dell’abitare. È una realtà di incontro, conoscenza e dialogo che offre la possibilità a chi ha da offrire dello spazio nella propria abitazione ed è disponibile ad ospitare qualcuno, di entrare in contatto con chi invece ha difficoltà a trovare una soluzione

abitativa. Se da una parte studenti e lavoratori precari o temporaneamente disoccupati hanno ristrette possibilità economiche, dall’altra ci sono persone che a fronte di una separazione, di un lutto, del matrimonio di un figlio, si trovano in solitudine. Ma anche chi fatica a sostenere le spese di manteni-mento di una casa troppo grande, e chi per ammortizzare i costi è favorevole a cercare casa assieme agli altri, possono entrare a far parte del progetto.

Alla base non solo la necessità di condi-videre l’abitazione, ma anche la curiosi-tà di mettersi in gioco e il desiderio di

abitare insieme, di provare un’esperien-za di convivenza nella consapevolezza della diversità dell’altro e nel rispetto dei reciproci bisogni. Ad occuparsi del-la raccolta delle disponibilità e delle richieste sono gli operatori di Casa Solidale che sulla base di colloqui in-dividuali per comprendere aspettative, abitudini e esigenze di ognuno, orga-nizzano poi incontri di gruppo dove a loro volta le persone si presentano ed esprimono le loro richieste. Se ci saranno due persone “compatibili”, in seguito saranno loro a decidere se iniziare o meno l’esperienza di coabi-tazione definendone le modalità. Per questo ogni esperienza è sui generis. L’auto mutuo aiuto può assumere la forma di un contributo economico nella

gestione delle spese dell’abitazione, in un sostegno in alcune mansioni che risultano faticose (un anziano potrebbe chiedere una mano per fare la spesa), nel tenere pulita e ordinata la casa, o nel condividere alcuni momenti di compagnia.

Per maggiori informazioni

CONTATTI: Associazione Auto Mutuo Aiuto di TrentoProgetto Casa Solidalevia Taramelli, 17 – Trento (TN) 38122 0461 239640 [email protected]

www.automutuoaiuto.it

Scritto da:Eleonora Filippi

Attualità

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Alexander Schuster è il giovane avvocato che sta dietro la condanna dell’Italia da parte della Corte euro-pea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Cedu) per la discrimi-nazione delle coppie omosessuali, ma già prima dietro la sentenza della Corte costituzionale del 2010 che ha imposto al legislatore di tu-telare le coppie omosessuali. Con la sentenza europea è suonata una sveglia per la politica e l’opinione pubblica italiana, che si sono rese improvvisamente conto di avere un gap di qualche decennio, in tema di unioni omosessuali, rispetto a tutti o quasi i Paesi occidentali.

La prima domanda per Schuster, allora, non può che riguardare la legge Cirinnà: l’obiettivo è stato centrato oppure è un compromes-so al ribasso?

Sono, pur con tutti i limiti del caso, soddisfatto di ciò che è stato concluso, anche se siamo ancora lontani da una vera uguaglianza e pari dignità fra cop-pie omosessuali e coppie eterosessuali: c’è difficoltà a parlare di “famiglia omo-sessuale”, percepita come incompatibile con l’idea di genitorialità. Il risultato è comunque positivo per un contesto, qual è quello italiano, arretrato rispetto alle altre società occidentali. Il ddl Ci-rinnà ha aiutato l’opinione pubblica a capire che anche gli omosessuali hanno diritto a una famiglia, al pari di chiun-que altro. La rimozione dell’obbligo di fedeltà e lo scioglimento più veloce delle unioni civili rispetto al matrimonio sono discriminazioni, paradossalmen-te, in positivo: il matrimonio in Italia viaggia ancora su binari ottocenteschi.

La discussione attorno al ddl Cirinnà è partita dal caso Oliari, un omosessuale

trentino che con il suo compagno aveva chiesto al Sindaco di Trento le pub-blicazioni di matrimonio. Dal 2009, attraverso un lungo iter giudiziario, Lei ha portato la vertenza fino alla Cedu. Come si è arrivati da Trento a Strasburgo?

È stata una battaglia lunga, la mia prima in realtà: avevo appena finito il dottorato e aperto lo studio legale a Trento. Ho conosciuto due coppie, una delle quali segnalatami da una associazione di avvocati per la difesa dei diritti della comunità lgbt, la rete Lenford. Davanti al rifiuto del sindaco di Trento di effettuare le pubblicazioni, abbiamo portato il caso in tribunale. Dove, a dirla tutta, furono molto poco sensibili. Abbiamo fatto ricorso in corte d’appello ed è stato riconosciuto che, effettivamente, il rifiuto all’accesso al matrimonio poteva configurarsi come una discriminazione. Da lì nel 2010 siamo arrivati alla Corte costituzionale: con la sentenza 138 del 2010, senz’om-bra di dubbio storica, la Corte ha deciso che il legislatore, pur con i tempi e i modi ritenuti più opportuni, doveva riconoscere le unioni omosessuali. Da-vanti a tutto ciò, la politica italiana è rimasta sorda. Ma si sa, purtroppo in Italia non c’è una grande attenzione al rispetto dei diritti umani. A quel punto davanti a me avevo due stra-de: ricorrere in Cassazione, cosa che non ero abilitato a fare e che avrebbe allungato inutilmente i tempi; oppure appellarmi alla Corte di Strasburgo. Conoscevo bene i meccanismi della Cedu e quindi decisi per quell’opzione. Il risultato è la sentenza del 21 luglio 2015, che ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 8 della Conven-zione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.

Ci sono state pressioni da parte di persone o istituzioni che hanno provato a ostacolarvi? Qual era il clima che ha accompagnato il

percorso fino a Strasburgo?

Da parte delle istituzioni no, nessuna pressione. L’Italia, quando ha a che fare con i tribunali, non cerca quasi mai la conciliazione: spesso preferisce violare un diritto e poi pagare la penale, piuttosto che evitare la violazione. Altri Stati, invece, se riconoscono di avere torto cercano una mediazione. L’unica vera pressione è arrivata dalla stessa rete Lenford che mi aveva segnalato una delle prima due coppie. Uno dei fondatori non voleva che portassi il caso a Strasburgo, non ho mai capi-to il perché. Forse c’erano dei motivi personali. Minacciarono di dissociarsi pubblicamente dalla mia decisione. A quel punto, decisi di lasciare l’associa-zione e seguire la mia intuizione. Fu una decisione molto sofferta per me, non sono mai riuscito a comprendere le motivazioni dell’ostilità che mi fu riservata. Recentemente, inoltre, la rete Lenford si è opposta al ddl Cirin-nà, sostenendo che l’unico obiettivo dovrebbe essere il matrimonio, non andando in piazza il 23 gennaio per la manifestazione #SvegliaItalia. Io credo che, però, serva essere realistici ed accettare delle tappe intermedie: la Cirinnà è un primo passo.

Quanto ha contato la sentenza Oliari vs Italia per l’avvio della discussione sulle unioni civili in Parlamento?

Credo che abbia contato molto. Renzi e altri esponenti del centro sinistra ave-vano promesso un intervento in tema di unioni civili, ma senza la sentenza della Corte europea probabilmente i tempi sarebbero stati lunghissimi. Anche sul Parlamento e le commissioni ha pesato molto la condanna dell’Italia. Del resto, la minaccia era una marea di ricorsi da parte di moltissime altre coppie omosessuali in tutto il Paese.

Schuster, lei è anche esperto di bioetica e biodiritto. Dal disegno di legge Cirin-nà è stato stralciato il riferimento alla stepchild adoption, per il timore di cat-tolici e conservatori che potesse aprire la strada al cosiddetto “utero in affitto”. Qual è la sua opinione al riguardo? “Utero in affitto” è un termine odioso. Riduce la donna al proprio corpo, una gravidanza al semplice utero, senza considerare la dimensione personale, volendo, diciamo spirituale, della gra-vidanza e della scelta, che deve essere necessariamente libera, di una donna di compiere tale gesto per aiutare altri. Sembra di tornare ai discorsi pro-con-tro aborto degli anni Settanta. “Affitto” dà l’idea di una commercializzazione che, nella grande maggioranza dei casi, non c’è, perché la donatrice riceve un rimborso spese, spesso entro ferrei pa-rametri per evitare abusi. All’estero la procedura è controllata e, se emergono casi di maternità surrogata a fronte di pagamenti proibiti, si puniscono. Come in tutto l’agire umano, esiste il rischio di pesanti abusi e una regolamentazione deve prevenirli, prima di sanzionarli. Il dibattito in Italia, però, ha messo insieme unioni civili, stepchild adop-tion e maternità surrogata, cose che tra loro c’entrano pochissimo: a ricorrere alla maternità surrogata sono più le coppie eterosessuali che quelle gay. Per contestare la maternità surrogata servirebbero prove scientifiche di danni psicologici ai bambini, che non ci sono, oppure alle gestanti. Al nostro Parla-mento e alla nostra opinione pubblica manca un approccio serio, pacato e critico alla questione. Sta in ciò la mia grande paura: l’assenza di conoscenza e indagine, prima di decidere. E in questo periodo di caccia alle streghe, meglio non toccare né la legge sull’adozione, né quella sulla procreazione medical-mente assistita.

Alexander Schuster: «Così siamo arrivati alla legge sui diritti civili»Intervista al giovane avvocato trentino, che ha dato il via a un percorso per il riconoscimento di diritti troppo a lungo negati

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Scritto da:Fabio Parola

Il palazzo di vetro: sovraffollamento

e segregazione, ciò che impedisce

alle carceri di rieducare

Scritto da:Marianna Tentori

Da ogni parte del mondo arri-vano risposte molto diverse alla “questione penitenziaria”: dalle nuove proposte e linee d’azione spe-rimentali della Spagna in fatto di affettività e sessualità nelle carceri, al solitary confinement (isolamento assoluto del detenuto all’interno del carcere) sempre più in voga negli Stati Uniti, al metodo di “risveglio delle coscienze” brevettato nel car-cere indiano di Tihar.

L’Italia invece fa i conti con la condanna (2013) della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a causa dei “trattamenti inumani o degradanti” subiti da sette persone detenute nelle carceri di Bu-sto Arsizio e Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a disposizione. Problema noto a tutti, quello del sovraffollamento delle carce-

ri: uno scacco per qualunque tentativo di progresso.

Una struttura all’avanguardia

Un esempio vicinissimo alla realtà trentina è quello della Casa Cir-condariale di Spini di Gardolo (TN) che, inaugurata nel 2011, si presentava come luogo detentivo d’avanguardia. La Casa Circondari-ale, effettivamente dotata di grande potenziale strutturale e tecnologico ed al di sopra degli standard qualitativi di molte strutture penitenziarie del paese, nasce da un accordo fra la Pro-vincia Autonoma di Trento, il Comune di Trento ed il Governo Italiano. La convenzione prevedeva determinate caratteristiche per la struttura, in grado di ospitare al massimo 240 detenuti. Alla fine del 2015, i detenuti erano 300,

con previsione di accoglierne altri 50. Una situazione critica, che dimostra che le strutture all’avanguardia sono sicuramente un passo positivo, ma non la soluzione ad un problema che ha radici molto più profonde.

Da extrema ratio a strumento di segregazione

Un problema sempre più pressante, di fronte al quale le soluzioni più imme-diate sembrano essere o quelle simili alla concessione di indulto del 2006,

(Segue a pagina 7)

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misura estrema dettata dal fatto che semplicemente non c’era più spazio nelle carceri, o la continua costruzione di nuovi istituti di pena. Analizzando i dati nel dettaglio, però, si scopre che il 68% dei detenuti della casa circondariale di Gardolo sono stranieri (prevalentemen-te dalla Tunisia e dal Marocco), quasi tutti condannati a meno di 5 anni.

Situazione simile a quella che si riscon-tra in tutta Italia, dove la maggioranza della popolazione carceraria è costi-tuita da stranieri e tossicodipendenti (soprattutto in seguito alle leggi ex Cirielli, Bossi-Fini e Fini-Giovanardi).

Lo stesso vale per gli Stati Uniti: su quasi due milioni di detenuti, circa la metà sono afroamericani. Riflettendo su questi dati, il criminologo David Garland, professore della New York University, propone una teoria sulle ragioni del “successo” dello strumento carcerario negli Stati Uniti e sull’enor-

me aumento del numero dei detenuti. Gli Stati moderni, dice Garland, hanno mutato profondamente i loro compiti e funzioni: dominano ora le ideologie di legge ed ordine, gli imperativi di sicurezza e di controllo.

Anche il carcere, quindi, si assegna una nuova e fondamentale funzione: quella di mezzo “civilizzato” e “costitu-zionale” per segregare la popolazione problematica. A differenza del welfare state, che traeva la propria legittima-zione dalla garanzia di tutela dei singoli cittadini contro sventure e disgrazie individuali, la nuova fonte di legitti-mazione degli Stati moderni è fondata sulla tutela dell’incolumità personale dei cittadini, contro “minacce e timori rivolti a corpi umani, beni e habitat da attività criminali, dal comportamento antisociale della underclass e, ultimis-simamente, dal terrorismo globale”. Il carcere quindi da “extrema ratio (…) rivolto a coloro che non sono stati in

grado di rispondere positivamente ad altre misure risocializzanti” è diven-tato “strumento di segregazione per quelle fasce della popolazione rigettate dalle istituzioni – a loro volta in crisi – quali la famiglia, il lavoro, il welfare” o, anche se per periodi di tempo più limitati “deposito per malati mentali, tossicodipendenti, poveri e persone in cattiva salute alle quali i servizi sociali non sono più in grado di offrire una degna sistemazione”. Questo senza che negli Stati Uniti venga meno, a parole, l’intenzione di riabilitare, riformare, ri-educare, restituire alla comunità (come del resto in Italia: art. 27 della Costitu-zione). Indipendentemente o meno dal credere che l’analisi fatta da Garland sullo stato e la società nordamericane possa valere anche per l’Italia, c’è un dato indubbio. È crescente, in Italia, il numero di studiosi, penalisti, direttori di istituti di pena o altre figure profes-sionali legate al mondo penitenziario che denunciano il bassissimo utilizzo,

in Italia, di misure alternative alla de-tenzione.

Qualcosa che riguarda tutti

Inoltre, aldilà di qualunque diver-genza d’opinione, resta il fatto che il carcere è parte –in quanto suo strumento- della collettività. Ed in quanto parte della collettività, non può sottrarsi ad un continuo confronto con essa, non può non essere “qualcosa che riguarda tutti”. La metafora del carcere come “palazzo di vetro” deve valere in due sensi: sia in quello di una reale trasparenza, che mostri, oltre ai dati, le reali situazioni concrete e quotidiane, sia in quello di un reale interesse della collettività, non mediata da filtri né dalla convinzione che la questione penitenziaria sia esclu-sivo problema degli “addetti ai lavori”.

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Elezioni CNSU: 60% dei voti a

UDU, ma Facci non è eletto

La strada per una vera partecipazione studentesca è ancora lunga: affluenza al 7%

Trento. L’Unione degli Universitari trionfa alle elezioni studentesche per il rinnovo del Consiglio nazionale degli Studenti Universitari (CNSU). Circa il 60% degli studenti hanno scelto Udu, con 500 preferenze esat-te per il suo candidato d’Ateneo, Da-niele Facci, studente al terzo anno di Giurisprudenza, che tuttavia non raggiunge il quorum necessario per ottenere il seggio a Roma. Netto lo stacco dalla lista Student Office-A-teneo Studenti, che riceve il 26% dei voti con 248 preferenze per il suo candidato “trentino” Elia Frignani, studente al secondo anno di Giuri-sprudenza. Residuale l’ammontare dei voti ottenuti dalle liste di destra (Studenti per le Libertà, Azione Uni-versitaria) che portano a casa un 5% e pure quelli di Link-Coordinamento universitario, 4%.

Impressionante notare l’inversione di tendenza rispetto alla tornata

elettorale precedente, quella del 2013, dove Ateneo Studenti-Student Office (allora List One) avevano ottenuto ben il 49% dei voti, contro il 29% di UDU.

L’analisi del voto

L’assenza di candidati trentini nelle liste collocate agli estremi dell’asse sinistra-destra ha probabilmente disin-centivato la mobilitazione delle frange studentesche più radicali. Va messo in luce come poi numerosi fossero i punti in comune alle varie liste nei programmi elettorali (tutela del diritto allo studio, qualità della didattica, maggiori fondi per la mobilità internazionale, soluzioni per un più efficacie inserimento nel mercato del lavoro). Queste constata-zioni, che lascerebbero di per sé pensare ad una più o meno equa ripartizione dei voti fra la lista di Facci e quella di Frignani, non spiegano lo stacco di voti raggiunto da UDU (risultato non scon-tato, se si guarda alle tornate elettorali precedenti). Si può supporre che ad aver inciso nello spostamento dell’elettorato siano state, da un lato, le numerose iniziative (cineforum, conferenze, ape-ritivi) promosse in questo anno e mezzo dalle neo-elette rappresentanze UDU

nei vari Dipartimenti dell’Ateneo.

Dall’altro, ad aver giocato un impor-tante ruolo nei risultati dell’elezione sono state le modalità con cui è stata condotta la campagna elettorale. La campagna “diffusa” condotta a Trento da UDU e, in misura minore, da Ateneo

Studenti-Student Office, permettono sicuramente di comprendere le percen-tuali di voto ottenute. Happening quali aperitivi o pause caffè col candidato, banchetti informativi nei vari diparti-menti con la possibilità di ricevere in regalo gadget come accendini, penne o adesivi con lo slogan della lista sono state pratiche di cui si è fatto ampio uso in vista di questa elezione e che hanno evidentemente “premiato” chi vi abbia puntato. A conferma di ciò, si può portare come esempio il caso di Alessandro Olivo, candidato di Link all’Università di Trento, lista che è ri-uscita a raggiungere appena il 4% dei voti e 19 preferenze, risultato su cui certamente ha pesato l’assenza di cam-pagna elettorale.

Affluenza ancora bassa

L’affluenza cresce in alcuni dipartimenti in maniera significativa: Sociologia, che in passato faceva da fanalino di coda, giacché nelle elezioni del 2013 aveva visto recarsi alle urne solo 64 studenti, vale a dire il 3% dell’elettorato, adesso sale al 10,5%, rivelandosi il dipartimen-to più “virtuoso” d’Ateneo. In crescita i votanti anche a Giurisprudenza (8,8% di votanti contro il 6% di tre anni fa) e, pur mantenendosi i numeri bassi, pure a Rovereto (da 3% a 5%).

Accanto a questi esempi, che fanno sperare in una crescente attenzione degli studenti alle politiche universi-tarie, vi sono però i casi di Mesiano, di Lettere e Filosofia e, soprattutto, di Economia (da 16% a 8,5% di votanti), che dirigono speranze e osservazioni nella direzione opposta. Il risultato è un’affluenza totale del 7%, invariata rispetto a tre anni fa e ancora troppo bassa per far pensare a un reale inte-resse degli studenti per le istanze di cui si fa portavoce il CNSU.

Un Consiglio autoreferenziale?

Nel “Documento sulla proposta di ri-forma del Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari”, adottato all’u-nanimità dal Consiglio nell’adunanza del 2 e 3 marzo scorsi, si fa un’analisi dello stato attuale di efficienza e fun-zionamento dell’Organo. I redattori del testo, studenti del CNSU allora in carica, mettono in luce come questo soffra dei limiti dati da due differenti deficit: di rappresentatività, il primo e di poteri, il secondo.

Venendo al primo dei due problemi, si è spesso parlato di autoreferenzialità di un Consiglio che ha come interlo-cutore privilegiato il MIUR, “i piani alti”, e non la base che lo ha eletto, gli studenti. Un coinvolgimento diretto, formalizzato e quindi maggiormente attivo delle rappresentanze studente-sche dei singoli Atenei italiani potrebbe ovviare a tale limite. Per quanto riguar-da il secondo problema, invece, quello dell’incisività e dei poteri dell’organo, si reclamano tempi più ampi entro cui il Consiglio possa esprimere i propri pareri al Ministro e pure la garanzia di un’effettiva incidenza di tali pareri, che dovrebbero essere dati non solo dopo la stesura del provvedimento o del testo di legge, spesso sottoposto al CNSU in forma già definitiva, ma anche e soprattutto prima.

Al neo-eletto Consiglio degli Studenti, che si insedierà nella prossima assem-blea, la responsabilità di portare avanti queste istanze e di cercare di avvici-nare e sensibilizzare l’elettorato degli studenti alle politiche universitarie, puntando ad un loro sempre più diretto coinvolgimento.

Scritto da:Francesco De Vido

Foto di:Riccardo Bonanomi

Page 8: Numero 1 - l'Universitario

«Come è andato il primo giorno di università, Fredy?»

«Bene, molto bene. C’è stata la presentazione generale del corso di studi. Oggi però non sono po-tuto andare, c’erano le pattuglie della polizia che sparavano nei quartieri, siamo rimasti tutti in casa».

È da un anno ormai che Fredy mi manda messaggi simili. Una volta ho sentito da una nota vocale il suono degli spari, un altro giorno ho visto le foto dei cadaveri sulle strade.

Fredy è un ragazzo burundese di 24 anni, uno dei tanti che ho conosciu-to partecipando per due estati ai campi di volontariato del Centre Jeunes Kamenge, un centro giovanile situato nei quartieri periferici della capitale Bujumbura. Fredy non è il suo vero nome: quando gli ho chiesto se avesse voglia di rispondere a qualche domanda per scrivere un articolo su ciò che sta accadendo in Burundi ha accolto l’invito con la sua solita gentilezza e disponibi-lità, specificando però che non voleva che il suo nome comparisse nel pezzo. «So che è un giornale universitario, ma l’articolo potrebbe circolare su in-ternet, ed è pericoloso. Certe cose non si possono dire in Burundi».

Una spirale di violenze

Il 26 aprile 2015 il tenore e il conte-nuto delle nostre chiacchierate è cam-biato. In quella data il presidente del Burundi Pierre Nkurunziza si è ufficialmente candidato per il terzo mandato presidenziale, violando la disposizione della Co-stituzione che permette un solo rinnovo. Dopo dieci anni di governo corrotto e poco capace, che hanno fatto piombare il Burundi tra i 4 paesi più poveri del mondo, l’opposizione e gran parte della popolazione civile han-no deciso di scendere nelle strade per protestare contro la viola-zione della carta costituzionale, chiedendo il ritiro della candidatura. In quella data, il Burundi è pre-cipitato in una spirale di violenze che peggiora di giorno in giorno.

Dopo il tentativo di colpo di stato messo in atto dal generale Godefroid Niyomba-reh in maggio e fallito nel giro di pochi giorni, Pierre Nkurunziza ha vinto le elezioni nell’agosto 2015, quelle stesse elezioni che l’Unione Europea ha dichiarato “non credibili” annunciando il ritiro della missione di osservazio-ne elettorale. L’esodo di profughi burundesi cominciato già ad aprile ha assunto dimensioni spaventose: le agenzie umanitarie parlano di almeno 230 mila persone fuggite nei paesi

confinanti (Tanzania, Uganda, Rwanda, Repubblica democratica del Congo).

Per chi è rimasto, la vita è diventata un vero e proprio inferno. Negli ultimi mesi la repressione si è fatta più dura, e non coinvolge più solo i partecipanti alle proteste o gli appartenenti all’op-posizione: le persone, soprattutto i gio-vani, finiscono nel mirino della polizia e delle milizie giovanili del partito (gli Imbonerakure) per il solo fatto di vivere in uno dei quartieri dove si sono svolte le manifestazioni. I proiettili volanti nelle strade colpiscono indistintamente chiunque abbia la sfortuna di essere presente in quel momento, mentre chi riesce ad uscire dalle prigioni racconta di violenze disumane e torture: se-condo un rapporto Onu sono 345 solo dall’inizio del 2016 i casi di sparizione forzata e di torture tra i civili. Amnesty International già nell’agosto 2015 aveva denunciato l’utilizzo della tortura da parte del-la polizia per estorcere informazioni agli appartenenti all’opposizione, e nel gennaio 2016 ha dichiarato di aver individuato dalle immagini satellitari la presenza di 5 fosse comuni nei pressi della capitale.

Lo scontro etnico e il pericolo di “un nuovo Rwanda”

Ho più volte chiesto a Fredy perché non se ne andasse. Mi ha confessato che ci pensa tutti i giorni. Ma lui, a differen-za di tanti, è riuscito a mantenere un lavoro in centro città e con lo stipendio si paga l’Università. «In Burundi non funziona più nulla. Non c’è lavoro, non c’è sicurezza, non c’è assistenza sanita-ria. Medici, insegnanti, professionisti continuano a scioperare perché non vengono pagati. Ma non riuscirei ad andarmene. È questo il mio Paese».

Per lui, che è un tutsi, rimanere a Bujumbura rappresenta un rischio an-cora maggiore vista la direzione che stanno prendendo gli scontri: da qual-che mese infatti un conflitto che aveva connotazioni essenzialmente politiche sta assumendo i toni di uno scontro etnico. Le tensioni hutu-tutsi rese tristemente note dal genocidio rwande-se del 1993, che hanno caratterizzato anche la lunga guerra civile che dal 1993 al 2005 ha colpito il Burundi, sembravano essere ormai storia passa-ta: la composizione mista del governo Nkurunziza era la dimostrazione del raggiungimento di un equilibrio e di una pace interetnica che riguardava non solo i piani alti della politica ma anche la società civile. Ma qualcosa è cambiato nel corso di questo anno: il governo ha fatto leva sull’alta percentuale di tutsi che appartengono ai partiti dell’oppo-sizione e sulla composizione etnica dei quartieri in cui le manifestazioni sono scoppiate per avviare una propaganda anti-tutsi che, purtroppo, sta sortendo

i suoi effetti.

Le violenze nei confronti della mino-ranza etnica (i tutsi rappresentano solamente il 14% della popolazione) crescono in modo evidente e preoccu-pante. «Negli ultimi giorni sono stati uccisi molti militari tutsi. Allo stesso tempo però, ci sono anche tutsi che appartengono alla polizia e hutu che vengono uccisi tra i manifestanti. Ben-ché la componente etnica cominci ad assumere un ruolo rilevante non rap-presenta ancora il fulcro degli scontri» dice Fredy.

L’attenzione dei media internazionali si è concentrata soprattutto su questo aspetto, denunciano il pericolo di un “nuovo Rwanda”. Alcuni dei ragazzi burundesi con cui ho avuto modo di parlare hanno però criticato un tale modo di presentare la notizia da parte delle testate straniere: il rischio, secon-do loro, è quello di sviare l’attenzione dal vero problema – la presenza ille-gittima del presidente al potere – e al contempo svilire quel moto di coscien-za politica che fin dall’inizio anima le proteste e che riguarda la popolazione civile nel suo complesso.

Un Paese “dimenticato”

L’ attenzione e l’intervento dei pa-esi occidentali potrebbe essere l’ultima ancora di salvezza per un paese sull’orlo del baratro. Sembra averlo capito l’Unione Europea, primo donatore del paese, che al termine di negoziati avviati nel dicembre 2015 con il governo del Burundi ha deciso a marzo 2016 di sospendere il suo sup-porto budgetario allo stato burundese, garantendo però che gli aiuti destinati ai cittadini, ivi compresi quelli umanitari, saranno mantenuti.

Anche la comunità internazionale ha preso una decisione forte in seguito al fallimento dei numerosi tentativi di dialogo avviati sia dall’Onu sia dall’U-nione Africana: è del 26 aprile la notizia che il pubblico ministero della Corte penale internazionale, Fatou Bensouda, ha dichiarato l’apertura di un’inchiesta preliminare sulle violenze che hanno interessato il paese nell’ultimo periodo.

Che questo rappresenti una svolta?

Quando parlo con amici e conoscenti di ciò che sta succedendo in quel piccolo stato a forma di cuore al centro dell’Afri-ca i miei interlocutori rimangono stupiti dalla mancanza d’informazione da parte della stampa italiana, e l’uni-

ca cosa che mi viene da rispondere è che il Burundi è un paese povero, ignorato, dimenticato, e i profughi del Burundi non arriveranno mai sulle nostre coste. Una volta una domanda improvvisa e inaspettata si è fatta spazio dentro di me proprio nel momento in cui mi lamentavo di questa “discriminazione dell’informazione”: in un periodo così buio della storia occidentale, in cui si costruiscono muri, si ergono barriere, si assiste all’esodo di milioni di persone dalla Siria, in cui riusciamo ad ignora-re anche i problemi che ci toccano da vicino o che sono a qualche centinaio di chilometri, a Idomeni, ha davvero senso parlare e preoccuparsi di un pa-ese sperduto che si trova a migliaia di chilometri da noi?

L’umanità di un articolo di giornale

Quando a fine aprile ho letto su In-ternazionale la notizia degli scontri in Burundi, ho vissuto un’esperienza che non avevo mai provato: ho toccato con mano l’umanità di un articolo di giornale. Quel pezzo parlava anche di me, dei luoghi che avevo visto, delle persone che avevo incontrato, delle loro famiglie e delle loro vite. Non si trattava di un evento in mezzo agli eventi, di una storia qualunque destinata ad essere sommersa da altri mille input nel corso della giornata, fino a che i volti delle fotografie non perdono consistenza e le parole stampate non tornano ad essere semplici segni grafici. Per me era la storia di Fredy e di decine di altri amici, che mi hanno accompagnato durante tutto questo anno, condizionando il mio umore, la mia consapevolezza, il mio modo di vivere le giornate, le gioie, i dolori.

Preoccuparsi di un paese sperdu-to a centinaia di migliaia di chi-lometri da noi serve a ricordarci di dare un volto alla sofferenza che leggiamo: quello di un ragazzo burundese di 24 anni che ha visto la sua vita sconvolgersi nel giro di un anno, i suoi amici fuggire, finire in carcere, morire, il suo futuro sgretolarsi davanti agli occhi.

Quando l’Africa viene colpita al cuore

Storia di quello che sta accadendo in Burundi,

nell’indifferenza della stampa italiana

Scritto da:Sara Manstretta

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Immaginate il centro storico di Roma: folle entusiaste e lampio-ni eleganti, i più grandi marchi di abbigliamento di tutto il mondo, catene di ristorazione con cucine da ogni dove, megastore internazionali inseriti nei più bei palazzi del cuore romano; e ancora, immaginate il dinamico centro storico di Milano: happy hour e lounge music prove-nire da dietro l’angolo, bianche e immacolate luci per strada, cocktail dai nomi più esotici e cosmopoliti, i più importanti brand commerciali di tutto il globo, ristoranti vegani e le più rinomate catene commerciali ospitate nei magnifici palazzi della storia milanese; ora pensate a Vero-na, anzi no, Venezia! Oppure Londra o New York! Per pensare a tutti questi esempi non serve molta fan-tasia, dato che oggi siamo di fronte a quella che la sociologa americana Sharon Zukin – riferendosi al feno-meno della gentrification e della riqualificazione urbana – chiama “la perdita dell’anima” della città.

Città che cambiano

In generale la maggior parte delle città globali d’oggi ha perso la propria autenticità di fronte alle logiche di mercato internazionale. Contribuisca anche una politica locale debole, favorevole ad un’apertura sullo scenario globale sia per la prospetti-va di un maggiore gettito fiscale, sia per acquisire una maggior visibilità e desiderabilità sociale. Non solo: an-che e soprattutto per conferire alla città un’immagine culturale positiva e coerente, nascondendo le ordinarie contraddizioni che la caratterizzano dietro all’ombra dei riflettori voluta-mente puntati sul centro. A Trento possediamo un esempio lam-pante di riqualificazione urba-na nel quartiere “Le Albere” (ex

Michelin), firmato Renzo Piano, considerato uno dei più importanti architetti della scena contemporanea. L’impatto del nuovo quartiere a livello nazionale ed internazionale è stato forte, soprattutto grazie alla presenza del Muse. Dal punto di vista locale Le Albere hanno rappresentato però per il momento una vera e propria scon-fitta urbanistica: gli affitti alti e la scarsa accessibilità ai servizi primari l’hanno reso più uno spazio piacevole per trascorrere un pomeriggio di sole che un luogo da abitare.

La definizione

Come potremmo definire la “Gentrifi-cation”? Si tratta di un processo che fa sì che i quartieri operai del cen-tro cittadino vengano recuperati attraverso un influsso di capitale privato. Alla ristrutturazione degli immobili segue l’insediamento di nuovi inquilini middle class. Gli originari abitanti, invece, vengono “rimossi” e destinati a zone più periferiche. I centri storici spesso racchiudono in sé la cul-tura e la tradizione architettonica della città. Nel momento in cui si trasformano progressivamente, rischiano di essere colonizzati e appiattiti da una grande società cosmopolita fatta di business man, studenti universitari e creativi, che con sé portano nella città usi e costumi in discrepanza con la realtà locale. È per questo che in giro per il mondo, nelle grandi città, troviamo strade e negozi tra loro uguali, tap-pezzati dagli stessi brand e firmati da illustri architetti di fama mondiale che mettono in difficoltà la sopravvivenza delle piccole produzioni locali, nonché dell’identità legata al territorio.

Diversi tipi di “gentrification”

La gentrification è un fenomeno am-pio e articolato. Ne esistono infatti diverse declinazioni. La commer-cial gentrification consiste nella tendenza omologa della maggior parte delle città del mondo a smantellare il

centro dalle proprie attività locali e tradizionali, rimpiazzandole con catene (d’abbigliamento, di ristorazione, ma anche alberghiere) internazionali. La tourism gentrification riguarda le politiche ed attività aggressive di turismo massivo che caratterizzano gran parte delle grandi città, orientando qualsiasi attività commerciale e non agli standard turistici, stravolgendo il luogo storico, che diviene piuttosto un enorme spazio di flussi monetari. Infine, la student gentrification interessa principalmente i grandi poli universitari. Va a scontrarsi con una politica totalmente impreparata ed in-capace di integrare la fascia giovanile della popolazione (spesso non locale) agli autoctoni della città.

Le caratteristiche delle città universitarie

Sicuramente la vita dello studente rap-presenta per i proprietari immobiliari e per i commercianti un’ottima occasione per alzare i prezzi di vendita, fatto che ricade direttamente sulle spalle delle “normali” famiglie locali. Gli eventi e le attività delle città universitarie iniziano così a ruotare principalmente intorno al consumo culturale e terziario, riversan-do le proprie offerte soprattutto nelle fasce notturne della giornata, quando i giovani e gli studenti si dedicano al tempo libero. Oltre ai problemi legati al turismo aggressivo, è anche lo stan-dard di vita universitario ad ostacolare la vivibilità del cuore delle principali città universitarie italiane. Non aven-do sviluppato alcuna politica di decentramento dello svago, la movida notturna degli studenti rischia di entrare in conflitto con le abitudini degli altri cittadini.

Le nuove esigenze della vita notturna

La vita notturna rappresenta, special-mente nel caso di Trento, uno degli elementi più controversi. Essa ricopre un campo di analisi sociologica sempre

più importante, poiché consiste in uno spazio-temporale che mano a mano viene conquistato dal bisogno di con-sumo e di produzione. La possibilità di “consumare la notte” è strettamente legata al tipo di professione che si svolge e alla propria appartenenza sociale. Infatti – come sostiene Giovanni Semi, autore di “Gentrification. Tutte le città come Disneyland?” – «se i lavoratori, quantomeno quelli tradizionali, vivono ancora nella scansione giorno/notte e in quella tra settimana lavorativa/weekend di stampo fordista, questo è sempre meno vero da un lato per tutti i cosiddetti “lavoratori autonomi di seconda generazione”, per i giovani lavoratori e (…) per studenti e giovani non occupati».

Uno spazio del conflitto

Le trasformazioni legate al mondo del lavoro (e di conseguenza anche a quello del tempo libero) incidono profonda-mente sulla struttura della società, provocando il protrarsi dei tempi di passaggio dall’età giovanile a quella adulta e producendo una maggior quan-tità di individui istruiti che richiedono un certo tipo di consumo in città. La conseguenza della gentrification è una trasformazione dello spazio urbano in uno spazio del conflitto. O, meglio anco-ra, del conflitto di classe. Saranno così le persone con minor voce in capitolo, perché con meno strumenti economici e sociali a disposizione, a pagare le conseguenze del nuovo orientamento politico delle città. In termini quanti-tativi, la vita dello spazio pubblico viene messa quotidianamente a repentaglio da logiche libertarie di mercificazione del suolo urba-no, andando a minare la libertà del cittadino di vivere e abitare lo spazio e riducendo drasticamente a tutti noi quello che Lefebvre chiamava il “diritto alla città”. Ma – come di recente si è chiesta Sharon Zukin – “se questa è la gentrifica-tion, possiamo cambiarla?”.

Come e perché la “gentrification” sta

modificando le grandi cittàÈ un fenomeno urbanistico sempre più diffuso e pone

nuovi interrogativi. Anche a TrentoScritto da:Martina Mosconi

Ricerca e divulgazione

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LISA è l’acronimo per “Laser In-terferometer space antenna” ed è un progetto altamente innovativo nell’ambito dell’astronomia gravita-zionale. È parte di un programma scientifico ESA (Agenzia Spaziale Europea) a cui l’Italia partecipa per il 13% (sia a livello economico che intellettivo) tramite il lavoro e contributo dell’Università degli stu-di di Trento e del suo dipartimento di fisica. L’università di Trento è, infatti, il principal investigator, e quindi responsabile per gli stru-menti utilizzati durante la missione, del progetto tramite una squadra di circa quindici persone, di diversa provenienza (diverse regioni ita-liane ma anche di altri Paesi, in particolare catalani e americani).

Il progetto ha come obiettivo scientifico di dimostrare che è possibile monitorare e control-lare il movimento di due masse in caduta libera nello spazio in-terplanetario, con una precisione senza precedenti, limitando le cause di turbamento delle masse al punto di riuscire a misurare le accelerazioni gravitazionali.

Lisa si pone come precursore tecnolo-gico di un futuro osservatorio spaziale. La comunità scientifica internaziona-le, infatti, ha studiato per oltre cin-quant’anni un metodo per guardare lo spazio tramite le onde gravitazionali ipotizzate da Einstein. Partendo da qui, ha ora ideato il progetto LISA pa-thfinder come primo esperimento. Si tratta della terza missione del “cosmic vision” – programma dedicato alla ri-cerca delle onde gravitazionali (che sono le increspature nello spazio-tempo previste dalla teoria della relatività di Einstein) di ESA – che si dovrebbe com-piere nel 2034. Le persone estranee al panorama astronomico internazionale potrebbero non cogliere l’importan-za di questo mezzo secolo di ricerca, se non tramite un’efficace metafora proposta dallo stesso professor Vitale durante un’intervista: «Immagina di camminare nella giungla ma essere sorda, riesci a vedere tutti i magnifici spettacoli che la natura ti propone, ma manca qualcosa. Le onde gravitazionali sono le orecchie dello spazio».

LISA si compone di pochi ma essenziali elementi per compiere il suo lavoro. Questi s’identificano nei sensori iner-ziali, un sistema di metrologia laser e un metodo di controllo inerziale tra-mite micro propulsori. Il Lisa Tech-nology Package, o LTP, è l’unico vero strumento utilizzato dagli scienziati

a bordo di LISA ed è formato da due masse di prova (due cubi, uno d’oro e uno di platino) e dovrà dimostrare la perfetta caduta delle stesse misurando lo spostamento di una rispetto all’altra.

I due cubi (l= 4,5 millimetri) sono stati lanciati nello spazio da un razzo VEGA e sono contenuti in due scatole di 30 centimetri l’una, questo per evitare spostamenti eccessivi delle masse che nel momento in cui dovessero toccare o urtare la scatola, verranno riposizio-nate in modo corretto da un satellite. È necessario capire quali possano es-sere le cause del turbamento delle due masse e riuscire a misurare tali forze, tuttavia ciò sarebbe stato impossibile conducendo gli stessi esperimenti sulla Terra, poiché il pianeta avrebbe sotto-posto i due cubi a innumerevoli cause di turbamento e sarebbe stato troppo difficile e dispendioso calcolare l’entità delle onde gravitazionali. Sarebbe stato infatti necessario riuscire a isolare la forza delle onde gravitazionali da ogni altro tipo di forza presente sulla Ter-

ra. Conducendo gli stessi esperimenti nello spazio, le uniche forze presenti risulterebbero essere quelle prodotte dalle onde gravitazionali.

Analizzando più attentamente le masse di prova si può dedurre che le stesse sono state create da due metalli mol-to densi (oro e platino). Innanzitutto perché la loro densità gli permette di evitare certi tipi di forze, ma non quel-la prodotta dalle onde gravitazionali. Quindi perché sono inossidabili e ma-gneticamente puri.

LISA è stata lanciata nello spazio il 3 dicembre 2015 alle 05:04 dallo spazio porto di Kourou in Guyana francese da un vettore VEGA e si stanno già registrando i primi risul-tati positivi. Il professor Vitale non si sbilancia, ma è possibile seguire il progresso dell’esperimento su Twitter (@ESA_LPF) per rimanere informati sui risultati che vengono ottenuti giorno dopo giorno.

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Così Lisa permette di iniziare ad ascoltare lo spazioSi tratta di un progetto innovativo nel campo dell’astronomia gravitazionale, a cui partecipa anche l’Università di TrentoScritto da:Carlotta Maria Capizzi

The Death and Life of Great Italian cities

L’utilizzo degli “open data” apre nuove prospettive per la verifica di tesi sociologiche tradizionali

Lo scorso 4 maggio era il cente-nario dalla nascita di Jane Jacobs che, con il suo libro “The Death and Life of Great American cities”, ha rivoluzionato il modo di progettare le città.

Secondo la scrittrice, le aree cit-tadine dovrebbero possedere quattro condizioni fondamen-tali di diversità, per essere vitali e vivibili. Il quartiere dovrebbe per prima cosa avere molteplici utilizzi contemporanei per favorire la presenza ininterrotta di persone: le aree cittadine vitali avrebbero attività commerciali, abitazioni e luoghi di svago tutte co-modamente raggiungibili a piedi. Gli isolati dovrebbero essere quindi pic-coli e le intersezioni stradali frequenti, per favorire l’incontro di persone e lo sviluppo della comunità. Il vicinato dovrebbe essere anche sufficientemente popolato, offrire occupazione, ed essere composto da edifici nuovi e vecchi per permettere una facile coesistenza di diverse classi sociali.

Nuove condizioni per studiare le relazioni sociali

Con queste condizioni teoriche, nate dall’osservazione di New York e dalle molteplici battaglie a difesa della cit-tà, Jacobs influenzò governi, ammi-nistrazioni locali, e metropoli come New York e Toronto. Benché facilmente comprensibile, questa teoria non fu mai verificata, ma al contrario seguita quasi ciecamente. E se Jane Jacobs avesse torto? Avremmo quindi inutilmente te-nuto conto della sua teoria per decenni?

Se negli anni ‘60 le teorie sociologiche potevano essere testate solamente con l’osservazione manuale del compor-tamento umano, in mezzo secolo le condizioni per studiare la vita di una città sono totalmente cambiate. Siamo ora circondati da dati, e lasciamo con-tinuamente tracce digitali create dai di-spositivi che abbiamo quotidianamente in tasca. Ogni volta che chiamiamo un amico, che mandiamo un messaggio su Whatsapp o che effettuiamo una ricerca su Google, ci sono delle informazioni che vengono raccolte. Seguire queste tracce permette di studiare relazioni sociali, il movimento delle persone ed

il comportamento di intere città.

Con un lavoro durato sei mesi abbia-mo quindi operazionalizzato la teoria sociologica in metriche matematiche, ed osservato le dinamiche dei cittadini nei quartieri di sei città italiane tra cui Roma e Milano, utilizzando dati anonimizzati di telefonia mobile. Con una (ai più) comprensibile regressione matematica è stato quindi possibile concludere che la teoria di Jane Ja-cobs è ancora valida e che una città è resa vivibile dalle molteplici condizio-ni teorizzate circa 50 anni fa. Siamo stati inoltre in grado di provare che il lavoro e l’eterogeneità delle abitazioni influenzano notevolmente la vitalità di un quartiere. Dalla nostra osservazione potremmo affermare che i quartieri italiani più vitali hanno un giusto bi-lanciamento di offerta lavorativa, luoghi conviviali (terzi luoghi) raggiungibili a piedi, piccoli isolati ed edifici diversi l’uno dall’altro.

I dati come strumento per nuo-vi regole e leggi mirate

Questo nostro studio ha unito Open data (dati geografici ed informazioni

censuarie), social network (Foursquare) e dati telefonici, per creare una sorta di ricetta per una città che funziona. Questo è solo un esempio di come sia ora possibile utilizzare concetti mate-matici, dati e strumenti informatici per creare e testare empiricamente teorie sociologiche. Comprendere scientifi-camente le dinamiche cittadine vuole dire modellare i centri abitati per ren-derli più produttivi, creativi e vivibili, minimizzando allo stesso tempo i loro aspetti negativi, come crimine ed in-quinamento.

D’ora in poi possiamo quindi im-maginare un futuro in cui i dati siano uno strumento per creare regole e leggi mirate che tengano conto del vero tessuto socio eco-nomico. Similmente, i dati persona-li non rappresenteranno solo un vettore per attacchi alla privacy ma, come l’ex commissario europeo Megleva Kuneva afferma, il vero e nuovo petrolio alla base del miglioramento della nostra società.

Scritto da:Marco De Nadal

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Trent’anni dopo il disastro (vedi l’Universitario numero 0), lo scorso 29 aprile alla sede di Economia si è parlato di Chernobyl, approfon-dendo il tema dell’energia nucleare. Non solo per raccontare le storie di ieri, ma anche per discutere i problemi di oggi.

Al di là degli approfondimenti tecni-co-scientifici, si è parlato anche della realtà fatta di associazioni e volontari in cui anche il Trentino è stato (ed è ancora) in prima linea. Si tratta (tra le molte) di testimonianze come quel-la di Fabrizio Pacifici (fondatore dell’associazione “Aiutiamoli a vivere”) o Maria Aurora Ricca-donna (già nel direttivo deldistacca-mento trentino dell’associazione).

Per meglio comprendere la nascita e il ruolo di questi volontari (e delle loro associazioni) è però utile tornare in-dietro nel tempo. Erano i primi anni ‘90: la paura del “fallout” radioattivo

del 1986 era ormai scemata, il dibattito sul nucleare aveva perso di intensità e lontani sembravano i giorni in cui si aveva timore di cogliere la verdura dal proprio orto per la paura che potesse essere stata contaminata.

In questi primi anni ‘90, gli italiani stavano iniziando a viaggiare verso l’est Europa, scoprendo una realtà molto più povera e in difficoltà della loro, in cui le conseguenze di un disastro nucleare avevano gettato nel disagio (se non in un vero stato di emergenza) ancora più famiglie. Ma non solo: ci si rese conto di come le vittime più colpite dal disastro fossero state i bambini. S’iniziava inol-tre a capire che lo sarebbero state anche in futuro, con danni che si sarebbero manifestati ben oltre la durata di una generazione.

La Bielorussia in particolare si calcola sia stata maggiormente colpita (ancor più dell’Ucraina), con una contamina-zione da radiazioni che ha interessato il 23% del suo territorio. Fu così che iniziarono a nascere iniziative di volon-tariato: a nemmeno due anni dall’ab-

battimento del muro di Berlino, nel 1991 venne organizzata una gara di bicicletta tra l’Italia e la Bielorussia, con l’intento di avvicinare l’est Europa all’ovest. L’evento sportivo fu tuttavia solo l’inizio: già un anno dopo, nel 1992, dagli stessi volontari nacque l’associa-zione “Aiutiamoli a Vivere”.

In un paese come la Bielorussia, in cui uno stato dalle sfumature ancora sovie-tiche regolava quasi ogni aspetto della vita, alle persone pareva impossibile che qualcuno potesse investire il pro-prio tempo in un’azione così inconce-pibile come il volontariato: eppure con dei semplici furgoni prima, e con una vera coppia di tir poi, l’associazione iniziò a portare aiuti umanitari verso est (oggi contribuendo anche con volontari e concreti aiuti medici), dando poi vita a quello che resta il suo programma di aiuto più famoso: l’ac-coglienza in Italia dei bambini di Chernobyl tramite dei “soggiorni di risanamento”, periodi in cui tali bambini potevano essere allontanati da una realtà non più di sola povertà, ma anche di inquinamento radioattivo.

Nell’anno 2000 associazioni come“Aiu-tiamoli a vivere” (e molte altre nate sulla sua scia) sono riuscite a far soggiornare in Italia ben 36.000 bambini. Ad oggi l’emergenza non è più ingente come lo era 20 anni fa (sebbene lungi dall’essere considerata terminata), e l’interesse delle persone verso iniziative simili è purtroppo sempre più diminuito: tut-tavia ciò non ha impedito di mantenere alti i numeri dell’accoglienza, che nel 2015 contava 10.000 minori ospitati presso famiglie in Italia (di cui 404 ospitati in Trentino).

Lo stesso spirito che ha animato le iniziative dell’associazione in Bielorus-sia nel tempo ha portato i volontari di “Aiutiamoli a vivere” anche in Africa, in Palestina e in America Latina: dietro alla loro azione umanitaria si legge chiara la volontà di poter aiutare il prossimo, convinti a non voler consi-derare alcun confine.

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La gara di solidarietà dopo il disastro di ChernobylA trent’anni dall’esplosione alla centrale nucleare l’attenzione per le associazioni è diminuita, ma non l’importanza dell’accoglienza dei bambini bielorussiScritto da:Matteo Breda

Speciale Trento Film Festival

La nostra redazione culturale ha seguito il Trento Film Festival con una serie di servizi, pubblicati con regolarità sul nostro sito www.luniversitario.it. Qui riportiamo un bilancio, con le nostre riflessioni a conclusione dell’evento. Segue a pag 12

Foto di:Riccardo Bonanomi

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Bandierine al vento che si sfilac-ciano, sbiadiscono, ballano. Ognuna di loro ha impressa a china una storia diversa, eppure tutte loro sono sorelle in preda al vento e alle intemperie della montagna. Nessuna di loro oppone re-sistenza, ballano con il ritmo del vento. Le storie che le bandierine conservano probabilmente andranno dimenticate, man mano scompariranno ma è solo grazie ad esse se nuove ne nasceranno con le stesse fibre ma diverse trame.

È questa l’immagine dell’artista Mi-chele Tranquillini, manifesto che presenta e rappresenta la 64esima

edizione del Trento Film Festi-val compendiando alla perfezione “Il codice” che si nasconde tra le oltre 50 proiezioni. Inizialmente una tale varietà può disorientare ma come consiglia Sergio Fant, responsabile del program-ma cinematografico, ogni spettatore è chiamato a comporre il proprio Festival del Cinema secondo i propri sentimenti e interessi, percorrendo sentieri imma-ginari che relazionano più film che di primo acchito ci sembravano estranei.

Il punto forte della manifestazione si rivela proprio in questa “apertura” al pubblico, libero di tessere i vecchi fili delle sfilacciate bandierine in bandie-rine nuove pronte a fluttuare ancora nel vento.

Cultura e Tempo libero Bandiere al vento

Scritto da:Andrea Viani

Un’edizione di successo

Così, domenica 8 maggio si è ufficialmente conclusa la 64esi-ma edizione del Trento Film Fe-stival. Con numeri da record: il 21% in più di spettatori rispetto allo scorso anno, una delle edizioni più partecipate di sempre (come ha spiegato la direttrice Luana Bisesti alla cerimonia di premiazione). Un successo davvero sorprendente, dovuto in primis alle imperdibili serate, con ospiti d’eccezione: Reinhold Messner sulla storica spedizione antartica di Shackleton, don Luigi Ciotti e Luca Mercalli sulla crisi ambientale, Simone Moro e Tamara Lunger sulla prima salita invernale del Nanga Parbat, oltre al celebre gruppo di alpinisti lombardi, i Ragni di Lecco, invitato a festeggiare i 70 anni di fondazione nella splendida location del Teatro Sociale.

Tra gli eventi più partecipati vanno senz’altro segnalati MontagnaLibri, con i suoi incontri letterari, e la ma-nifestazione di arrampicata urbana Block&Wall.

Le proiezioni, fulcro centrale del pro-gramma, hanno avvicinato le diverse

esigenze di un pubblico certamente numeroso e di conseguenza anche molto variegato: da registi internazionali ben conosciuti come Guzman e Jodorowsky, a numerosissime figure probabilmente meno note tra le quali è doveroso citare Manu Gerosa, roveretano, e la regista Anca Damian che con il suo La Monta-gne Magique si è aggiudicata il premio più prestigioso del festival.

Gli stessi studenti universitari di Trento, Bolzano e Innsbruck sono stati chia-mati a premiare un film e tra tutti è stato scelto Café Waldluft di Matthias Koßmehl. Il pubblico ha dovuto poi assegnare due premi speciali: quello al miglior lungometraggio (My Love Don’t Cross That River di Jin Mo-young) e quello al miglior film di alpinismo (Sherpa – Trouble on Everest di Jennifer Peedom). Pellicole apparentemente agli antipodi (la tranquilla vita a contatto con la natura di due anziani coniugi co-reani da un lato, e il lavoro avventuroso dei portatori di montagna himalayani dall’altro), ma che, in definitiva, costi-tuiscono soltanto riflessi diversi di uno stesso soggetto: la montagna.

Scritto da:Monica Malfatti

La meraviglia del Film Festival pog-gia sulla sua ricchezza di spunti, di punti di vista, di storie. Si parte da uno stesso soggetto ed ogni film è un per-corso a sé, preziosissimo, particolare.

Eppure, alcuni viaggi hanno un sapore simile e confluiscono in un comune dominio. È il caso della sezione che quest’anno ha avuto come destinazio-ne il Cile, conservando l’ormai tra-dizionale interesse che ogni anno il festival rivolge ad un Paese del mondo esplorandone le coordinate e l’identità a partire dal territorio, protagonista sempre e comunque.

Destinazione... Cile, con suoi film, ha permesso agli spettatori un’esperienza drammatica della realtà cilena di oggi in tutte le sue coniugazioni: la storia così tristemente vicina ad un passato di sangue e terrore; il rapporto tra il po-polo cileno ed il territorio, il progresso, lo sviluppo industriale; l’inaridimento progressivo di zone un tempo floride; la dimensione geografica che fa del Cile un sottile gigante di montagne ed oceano.

Questi aspetti si mescolano e dialogano tra di loro, configurano l’intimo conflit-to che caratterizza una società e la sua terra in “[...] un desiderio inconscio che la natura ci invada, in una lenta e lunga ripresa.” - Tiziana Panizza Montanari, Tierra en Movimiento (2014).

Destinazione...CileScritto da:Andrea Bonfanti

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La ventinovesima edizione del festival internazionale di Mozart, tenutosi a Rovereto dal 25/04 al 15/05, ci ha permesso di esplorare arti di svariate tipologie e prove-nienze. Si sono esibiti musicanti talentuosi che ci hanno trasportato sino al 1769 , quando un Mozart tredicenne sorprendeva la popola-zione roveretana nella chiesa di San Marco con le sue note volteggianti e grintose, ma allo stesso tempo fluide e armoniche.

Mentre nel corso delle mattinate lo spazio è (stato) dedicato ai giovani in collaborazione con conservatori e scuole musicali, durante il giorno si è potuto assistere a vivaci spettacoli musico-teatrali ripercorrendo la vita e le opere del grande Amadeus per le strade della città. Eventi gastronomici e di degustazione hanno accompagnato l’intero corso del festival e uno spazio specifico è stato riservato per i bam-bini tra musica, teatri di burattini e l’opportunità di approcciarsi al mondo dell’arte. Infine, gli spettacoli serali incentrati sulla musica cameristica, ricchi di classicità, hanno permesso a diversi artisti di esprimere la propria creatività e trasmettere agli spettatori una vagonata di emozioni. E l’arte rap-presenta il linguaggio per eccellenza, laddove la sua comunicatività supera il dominio della lingua.

Tuttavia, una libera divulgazione cultu-rale non è così scontata, non per tutti. Quel che a noi appare ovvio, per altri è un diritto da conquistare. La libertà di esporsi, di fare arte e più in generale la libertà di esprimere se stessi è, in diverse parti del mondo, costantemente minacciata da autorità repressive.

E’ il caso di Keywan Karimi, regista iraniano condannato ad un anno di re-clusione e 223 frustate. La motivazione è riconducibile ad un video musicale presente sull’hard disk dell’uomo (e mai reso pubblico) che, per quanto ne sappiamo, offendeva la “sacralità islamica”. E’ per questo motivo, oltre che per la difesa di tutti i diritti umani, che il festival stesso sostiene Amnesty International (in collaborazione con il gruppo di Rovereto e Alto-Garda), per-mettendo agli attivisti di presenziare ad una serie di eventi per la raccolta firme, al fine di liberare Karimi ed evitargli la tortura.

La libertà di espressione è vista con occhi diffidenti dal potere politico e religioso, poiché mezzo di comunicazio-

ne popolare incontrollabile ed efficace (soprattutto se in forma artistica); per questo si tratta di un diritto da difende-re a tutti i costi. La condivisone di idee e opinioni, permettendoci di esplorare punti di vista differenti , contribuisce a darci una maggior consapevolezza di noi stessi e del mondo; in altre parole, contribuisce alla nostra individuazione e alla formazione di un pensiero critico. Chiunque ci impedisca di guardare il mondo attraverso gli occhi altrui, non sta solo violando la sua libertà di espressione, ma anche la nostra liber-tà di conoscere. E’ dunque un dovere schierarsi senza timore, in nome di chi lotta per poterlo fare. Per stimolare la libera circolazione di idee e per solle-citare governi come quello iraniano ad aprirsi alla libertà, perché essa non è pericolo, bensì il punto di partenza per l’emancipazione del singolo in funzione della collettività.

Wam: quando Mozart diventa un ponte per la libertà d’espressione

Scritto da:Gabriella Aloise

Speciale Trentino Film Festival

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Shakespeare: il piacere del complesso

e la riscoperta del quotidiano

A quattrocento anni dalla scomparsa, l’opera del bardo inglese continua ad essere attuale

Scritto da:Chiara Superbi

Sono trascorsi 400 anni dalla sua morte, eppure tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo sen-tito parlare di lui, in qualcosa che echeggiava in teatro, nei suoi sonetti o nelle citazioni diffuse da cinema e tv. Di chi stiamo parlando? Del più rivoluzionario drammaturgo e regista di tutti i tempi: William Shakespeare.

A partire dalle innovazioni che lui stes-so apportò al teatro vittoriano nel sedi-cesimo secolo, le produzioni shakespe-ariane non sono mai passate di moda, adattandosi di volta in volta alle nuove richieste del teatro internazionale. In Italia, nello specifico, l’interesse per la figura di Shakespeare si è sviluppata solo nel tardo ‘800, quando i primi traduttori adeguarono le produzioni inglesi alle necessità delle compagnie nazionali, ancora vincolate da un gusto recitativo patetico e per certi versi me-lodrammatico. Attraverso innovazioni scenotecniche, dallo Shakespeare in chiave simbolista fino alle destruttu-razioni tipiche del futurismo, l’autore inglese si è cristallizzato in una forma artistica al di fuori del tempo e dello spazio, conservando un’immagine di sé estremamente contemporanea.

Ma cosa significa, per un attore di oggi, mettere in scena un’opera shakespearia-na? E soprattutto, se sei un’attrice, come in questo caso, ma anche studentessa universitaria, impegnata socialmen-te, alle prese con i frenetici ritmi dei vent’anni, cosa vuol dire approcciarsi al mondo di Shakespeare e rivestire una delle sue parti?

Alessandra Mariani è iscritta all’università di Trento e da anni fre-quenta corsi di teatro. La sua collega, Silvia Libardi, viene da Levico, e tutti i giorni prende il treno per coor-dinare lezioni universitarie, prove e tirocinio prima di tornare a casa. En-trambe fanno parte di Spazio 14, una delle principali scuole di recitazione di Trento, e lavorano sotto la guida competente e stimolante di Elena Marino, regista, drammaturga e da anni colonna portante della scuola. Ma soprattutto, entrambe condividono con altre 5 persone di tutte le età, l’esperien-za del laboratorio teatrale, un corso per nuovi e vecchi masticanti di teatro che è iniziato a settembre e che quest’anno si è prefissato l’obiettivo di maneggiare il patrimonio shakespeariano e di as-semblarlo in due spettacoli differenti.

Il primo, Il mio regno per un cavallo, è stato messo in scena a di-cembre, e presenta un’umile compagnia di scapestrati che decide di imbattersi

nel “grande Shakespeare”, dando vita ad una costruzione meta-teatrale in cui le dinamiche laboratoriali dei sette protagonisti si mescolano alle avven-ture storico-affettive dei personaggi shakespeariani. Il tutto si snoda in una fluida mistione di scene quotidiane e monologhi tratti dai testi del Bardo, interpretati spesso in maniera così mar-catamente ridondante da ridicolizzare i tipici cliché dello stile shakespeariano.

Il secondo episodio, William, vede protagonista la stessa compagnia del precedente spettacolo, ora capace di approfondire l’analisi di Shakespeare in maniera più matura, plasmandola sui propri vissuti individuali.

Un lavoro, quello svolto dagli allievi del laboratorio sotto la guida quasi socra-tica dell’insegnante, che ha permesso a persone comuni di confrontarsi con l’intramontabile valore della cultura shakespeariana, basata sulla profon-dità della parola e su una raffinata complessità con cui raramente, oggi, riusciamo a confrontarci.

Le due attrici-studentesse, infatti, parlano del progetto come di un in-trospettivo percorso di crescita, che le ha aiutate a superare il terrore della classicità, comune a molti giovani di oggi, e a riscoprire se stesse nei versi e nello stile di una produzione arcaica,

elegante, a tratti difficile ma sorpren-dentemente attuale. L’analisi di questa temuta complessità diventa così una chiave di lettura con cui interpretare e valorizzare le bellezze della contempo-raneità, al di fuori delle nostre caotiche routine, zeppe di comodità e distrazioni.

Leggere Shakespeare per la prima volta e mettersi nei panni di un personaggio sconosciuto dell’ancor più sconosciuta opera shakespeariana non è sempli-ce: tendenzialmente ci si adegua agli schemi convenzionali con cui recitare la parte e si imparano a memoria ter-mini desueti che non useremmo nel linguaggio quotidiano. Ma analizzare Shakespeare parola per parola, assor-birne i significati ed azzardare una qualche relazione, ad esempio, tra i deliri del Riccardo III e gli scenari di guerra del nostro medio oriente, è un lavoro ben più appagante. Ogni frase è un invito a riscoprire il piacere delle proprie emozioni ed ogni vicenda si rivela un’anticipazione di ciò che ac-cade oggi.

Shakespeare come limite oltre cui sporgersi e Shakespeare come strumento attuale per conoscere e conoscersi. Perché questo intra-montabile artista, quattrocento anni dopo, ha ancora tanto da dirci!

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Marzio Tamer dipinge il silenzio della Natura

Il museo delle scienze svela così il suo lato romantico, ospitando dal 16 aprile al 25 settembre una mo-nografica del pittore veneto Marzio Tamer. Con 40 opere scelte, la mo-stra copre ben 18 anni di lavoro di quello che può essere considerato uno tra i più abili e sensibili pitto-ri della scena contemporanea. Un progetto ambizioso “che difficil-mente si potrà vedere riproposto nei prossimi 10-15 anni e di cui fare tesoro”, sostiene Lorenza Salamon, gallerista e curatrice dell’esibizione insieme al critico Stefano Zuffi.

Caratteristica di Tamer è proprio la formazione da autodidatta attraverso cui raggiunge una totale padronanza di diverse tecniche pittoriche; una raffina-tezza esecutiva di enorme impressione agli occhi, e non solo, di chi osserva.

La mostra è divisa in quattro sezioni tematiche – animali, paesaggi, nature

morte e sassi – e trova spazio in un allestimento ad opera dell’architetto Michele Piva che ne esalta l’atmosfera.

Entrare in questa sala significa uscire da quella rete di coordinate e riferimen-ti che compongono la nostra condizione quotidiana e particolare; significa avere l’occasione di abbandonare il marginale e toccare una forma dell’essenziale.

I lavori nitidi, placidi, atemporali e pieni d’istinto del pittore innescano uno stato di “sospensione” in cui è pro-posta un’idea di realtà e del silenzio che la circonda. In questo, la fedeltà alla forma dei soggetti è comunque totale, grazie a quella tecnica tanto sapiente e meticolosa in ogni dettaglio. Non si vedrà mai modificare il reale per velleità dell’artista. Tamer agisce al di là di questa ragione: il livello di interpretazione supera la dimensione immediata dell’esecuzione perfetta e, attraverso l’armonia della stessa, invita alla contemplazione.

È proprio questa una delle grandi qua-lità dell’artista. L’equilibrio con cui con-

duce la sua personale indagine attorno alla natura marca la dimensione di appartenenza, quasi riverenza, che Ta-mer possiede col mondo naturale e che vuole essere riportata all’osservatore. Dove l’uomo non è sostanzialmente mai rappresentato, le presenza dello stesso si riconosce esattamente nel ruolo di chi fa esperienza della tela. Il materiale umano è impiegato nella sua massima potenza come coscienza tesa alla bellezza e alla comprensione attraverso la più essenziale delle vie, l’osservazione. Tutto sta nel mettersi in gioco, lasciarsi trasportare e concedersi un breve spazio di atemporalità.

A stupire spesso gli ospiti è l’elemento roccioso come soggetto privilegiato di alcuni quadri, ovvero “Perchè proprio i sassi?”. La risposta è una risposta essenziale ed asciutta, al pari dello stile dell’artista: «Una volta dipinti cielo, alberi, terra, alla fine ti restano i sassi

– sono importantissimi».

Infine, con i paesaggi, si giunge alla massima esibizione di maestria del pittore veneto, che ancora è in grado di creare realtà plastiche e tangibili mantenendole distanti da ogni dato caratteristico o topografico. La sensa-zione data dai colori, i vuoti ed i pieni, insieme con le luci e le ombre, è quella di una natura solo apparentemente scultorea, in realtà plasmata sempre ed incessantemente dal “respiro solenne della natura”.

Una dimensione che è più grande di noi e che si muove al di fuori di noi, ma che unicamente l’uomo può riempire di senso in quanto, citando le parole del professor Marco Vitale presente alla conferenza in apertura della mostra,

Scritto da:Andrea Bonfanti

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l’Universitario consiglia...Fuocoammare

C’è un’isola che si frappone tra il ricco Occi-dente e il devastato Nord Africa. Quest’isola è Lampedusa, ormai una metà obbligatoria per chi fugge da condizioni di vita inimmaginabili, e Gianfranco Rosi ce la mostra in quella che è diventata la sua quotidianità: la disperazione dei migranti, le ricerche della marina e la com-passione dei suoi abitanti. “Fuocoammare” però non è solo un documentario, quanto, piuttosto, un film che si impegna a impartire una lezione all’Europa, astenendosi dal moralismo e da facili retoriche e concentrandosi sulla semplice realtà dei fatti. Sta a noi coglierla e dimostrare se siamo uomini o bestie inerti.

Scritto da:Mattia Andreola

I detective selvaggi di Roberto Bolaño

“Il viaggio infinito di uomini che furono giovani e disperati, ma non si annoiarono mai”, così Vila- Matas ha descritto l’opera che, insieme a 2666, costituisce il capolavoro dello scrittore cileno morto nel 2003. Una vita bohémienne, dissoluta e anti-conformista è quella che conducono le decine e decine di personaggi che compaiono nel romanzo, e in particolare i due protagonisti,Arturo Belano e Ulises Lima, giovani poeti fondatori di un impro-babile movimento letterario, il realismo viscerale. Con il consueto, straripante, strafottente talento narrativo, Bolaño descrive una realtà, seppure al fondo priva di senso, multiforme e sgargiante, in cui uomini disperatamente innamorati della vita si perdono, viaggiando, facendo sesso, leggendo libri. Tutte strade che non portano da nessuna parte, e su cui, nondimeno, “bisogna incamminarsi e perdersi per ritrovarsi di nuovo o per incontrare qualcosa, quello che sia, un libro, un gesto, un oggetto perduto, qualunque cosa, forse un metodo se si ha fortuna: il nuovo, quello che da sempre è stato lì”.

Scritto da:Martino Mancin

Adolf Hitler (un ottimo Oliver Mesucci) è tornato direttamente dal ‘45 più forte che mai in questa pungente satira sociale travestita da irriverente commedia, dove sketch da candid camera e forti messaggi subliminali si amalgamano perfettamen-te in un’altalena di emozioni, risate e riflessioni. Un finale profetico (?) e terribile va ad incorniciare una delle migliori pellicole, assieme a “Die Welle”, attorno all’argomento della dittatura.

Lui è tornatoScritto da:

Francesco Filippini

Le dodici domande di Vikas Swarup

Ram Mohammad Thomas è un ragazzo di umili origini che vince inaspettatamente la versione indiana di “Chi Vuol essere milionario?”. Come ci sarà riuscito? Il libro, che ha ispirato il film “Slumdog Millionaire” di Danny Boyle, ci porta alla scoperta di personaggi che rappresentano i lati affascinanti e contraddittori dell’India che hanno contribuito alla vittoria del giovane Ram.

Scritto da:Giulia Masciavé

L’Europa allo specchio Due europeisti attivi all’interno delle istituzioni europee parlano di Unione Europea, in un’intervista doppia che mette a confronto il giovane europeista ed esperantista Walter Bruno, eccellenza dell’ateneo trentino, con una delle voci più autorevoli della rappresentanza italiana al Parlamento Europeo: Cécile Kyenge.

Scritto da:Fabio Bulgarini

L’intervista

Walter Bruno: studente al II anno diGiurisprudenza a Trento, presidente di Uniek Trento (associazione europeista ed esperan-tista), membro del consiglio direttivo nazio-nale della gioventù esperantista italiana, commissario alle relazioni esterne di TEJO (organizzazione mondiale giovanile per l’e-speranto), già delegato giovanile italiano presso il Congresso del Consiglio d’Europa (29esima sessione).

Perché ti definisci Europeo ed Eu-ropeista?

Sono europeista perché da quando ho iniziato a praticare il movimento esperantista mi si è aperta la mente: ho iniziato a guardare oltre all’Italia, a vedere qualsiasi questione, politica

Cécile Kyenge: laureata in medicina echirurgia all’Università Cattolica di Roma, specializzata poi in oculistica all’Università di Modena. Già Ministro per l’Integrazione durante la XVII legislatura, ora eurodeputata, membro del Gruppo dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e Democratici (S&D), membro della Commissione Libertà Civili, Giustizia e Affari Interni (LIBE) e della Commissione Cultura e Istruzione (CULT).

Perché si definisce Europea ed Eu-ropeista?

Per il mio percorso biografico, che mi ha portato a scegliere una cittadinanza: la mia non è stata una costrizione, è stato quasi un percorso spi-rituale. Dopo sei anni che ero in Italia mi sono

e non, con un occhio fuori dai confini ed ho pensato che la strada migliore da intraprendere fosse quella di una integrazione tra i popoli e le culture, perché da diversità nasce progresso. La trasposizione sul piano politico di questa mia visione non può realizzarsi se non attraverso un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Unione Europea. La mia è un’impostazione più culturale che politica, proprio perché trova le sue origini nella scoperta dell’esperanto e cosa c’è di più culturale se non una lingua!?

Ma che ruolo gioca l’appartenenza nazionale nel del discorso europeista?

accorta che ero straniera quando tornavo nel mio paese di origine (il Congo ndr) e vivevo in un passato che per me non esisteva più, perché in quei sei anni di medicina la mia vita era andata avanti. Quegli episodi e quelle sensazioni mi hanno fatto riflettere. Ho cominciato a vivere giorno dopo giorno attivamente l’impegno politico in società e mi sono resa conto che in effetti in Italia e in Europa ero già a casa e cercavo altrove qualcosa che invece era alla portata della mia mano, una cultura da poter dire mia.

Ma che ruolo gioca l’appartenenza nazionale nel discorso eu-ropeista? (Segue a pagina 15)

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La questione è culturale: non esiste una cultura europea autonoma e indipendente da quelle nazionali, e poiché la cultura europea si compone di culture nazionali, la sua ragion d’essere è nel collegamento tra queste culture. Non si può pensare ad una cultura europea senza quantomeno quelle degli stati fondatori. Dipende poi dai punti di vista assunti: la nostra immagine di cultura europea, da europei, è quella di una Europa composta da tante diverse culture nazionali; ma agli occhi di un americano, o di un asiatico, la cultura europea è intesa come una cultura a sé stante. Per un non europeo è sufficiente ritenere che un europeo si senta tale per la semplice condivisione di un tessuto culturale che lo avvicina agli altri popoli d’Europa. Per un Europeo però questo non basta, perché è ben consapevole della eterogeneità delle culture che compongono il continente Eu-ropa. Tra l’altro un’Europa delle regioni è una mia utopistica proposta e, magari altrove, te ne parlerò.

L’Unione Europea è caratterizzata anche da vari problemi, tra questi ne figurano alcuni discussi forse in maniera superficiale: prendiamo ad esempio la questione linguistica, che è dirimente, un problema per altro noto anche alla Corte di Giustizia europea, che su questo si è più volte pronunciata contro la Commissione Europea, per la vio-lazione dei trattati costitutivi in materia di uguaglianza linguistica.

Uno degli ostacoli principali alla piena realizzazione del sentimento di comunanza europea è senz’altro la lingua. Diciamo che il piano culturale e politico vanno di pari passo: culturalmente parlando manca un collante, politicamente parlando manca un diritto, o mancano elementi politici che colleghino in maniera più stretta i popoli dell’Unione. Senza dilungarmi ora sul problema politico, lasciami dire che dal punto di vista culturale l’adozione di una seconda lingua comune e neutrale può essere il passo decisivo (pensa all’Esperanto ndr).

Insomma si potrebbe fare sul piano linguistico quello che si è tentato un po’ di fare con la cittadinanza europea: si potrebbe quindi adottare una seconda lingua, che si aggiunge a quelle nazionali e non le cancella, nel tentativo di dare un senso di appartenenza comune ed evitando così tutti quei problemi in cui è incorsa la Commissione Europea e a cui hai accennato nella domanda.

Avrebbe senso per te introdurre l’Esperanto come lingua di lavoro all’interno delle istituzioni europee?

Guarda, posso dirti questo: sono cofondatore di un’associazione locale esperan-tista che ha unito, forse per la prima volta, europeismo ed esperanto, senza che nessuno dei due elementi fosse superiore all’altro nell’azione dell’associazione. Europa ed esperanto per me vanno uniti. La risposta quindi è affermativa: considerato il fatto che quest’ultima è un lingua neutrale, avverrebbe una pa-ritaria comunicazione tra lingue e culture; inoltre è democratico e liberamente accessibile, si impara in brevissimo tempo e gratuitamente.

Analizziamo ora un altro problema dell’Unione: credi che la que-stione della distanza politica tra cittadini e istituzioni sia reale? Se sì, quali soluzioni si prospettano?

L’Europa è percepita come distante e non fa molto per sembrare più vicina. Dal punto di vista giuridico nessun cittadino sa che i trattati hanno una funzione di mezza costituzione europea, almeno sul piano sostanziale; non tutti conoscono la differenza tra Consiglio d’Europa e Consiglio Europeo e già ad un giurista risulta difficile sapere cosa c’è in un TUE piuttosto che in un TFUE*. Ricordia-moci che se l’informazione non passa non è solo colpa dei media nazionali, ma anche dell’Unione Europea, che ha grosse difficoltà comunicative. Informare su ciò che di buon c’è in Europa deve essere fatto perché l’Europa di cose buone ad oggi ne fa tante, forse anche più di quante ne sbagli. Ci sono però troppe derive tecnocratiche, sia in politica che in economia – la quale ha monopolizzato l’U-nione Europea facendole prendere una deriva finanziaria, deriva che non aiuta certo l’Europa ad avvicinarsi alla cittadinanza. Come soluzioni in questo senso, sul piano delle politiche pubbliche - oltre al già efficace programma Erasmus, che avvicina i giovani all’Unione - si dovrebbe insistere su una migliore infor-mazione e potenziare la legittimazione democratica degli organi UE, perché i cittadini europei si sentano davvero parte dell’Unione. L’Unione deve aiutare se stessa! Ma ho ancora vent’anni e spero di cambiare idea, altrimenti comincerei a preoccuparmi!

Abbiamo parlato di cittadini europei fino ad ora, ma urge una do-manda di sistema: identità europea è …?

Possiamo intendere l’Identità Europea in due modi, tra cui io stesso non saprei scegliere, anche se non credo siano due prospettive alternative. Si può intenderla come una ventinovesima identità che si aggiunge alle ventotto nazionali, come è stato fatto con la cittadinanza europea. Poi possiamo chiederci se l’identità europea non consista nella pacifica convivenza di tante culture diverse: forse identità europea è già questo.

Ad oggi la proposta di rivedere i trattati e dare loro una forma che si affermi come costituzione dell’Ue anche sul piano formale, come segnale di viva unità, ti piace?

Sì: io sono federalista, credo che sia necessario creare un’ unione politica oltre che economica. Ci sono molti europeisti che invece ritengono che l’unione eco-nomica sia il tramite per l’unione politica. Penso che l’unione politica sia una soluzione e uno strumento, non il punto d’arrivo.

*TUE (Trattato sull’Unione Europea) e TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) sono i due trattati che disciplinano il funzionamento, le competenze, le azioni e gli organi dell’Unione Europea sul piano politico, sociale ed economico.

Guarda oggi i due temi si confondono un po’. I giovani di oggi, soprattutto quelli della generazione Erasmus hanno vissuto un mondo senza frontiere. Per un italiano trovarsi in Francia significa oggi sentirsi all’interno dell’Unione, dove ormai da tanto tempo le frontiere sono scomparse. Quindi il discorso non è più tanto il parlare dell’ appartenenza ad uno stato. L’identità nazionale di una persona non è più una barriera: risulta difficile ad oggi definirsi attraverso l’appartenenza ad uno stato per poi riconoscersi europei solo in secondo luogo. No! Oggi si è europei, nel senso che una persona è europea e basta, che sia in Francia, in Italia, in Spagna: è così e non ci sono le frontiere. Per cui quella dell’appartenenza nazionale è solo un’appartenenza a un luogo geografico e cul-turale con una costituzione, ma si è europei. E’ difficile mettere una distinzione tra i due passaggi: un europeo è europeo. Altrimenti mettiamo in discussione il concetto stesso di Unione Europea.

L’Unione Europea è caratterizzata anche da vari problemi, tra questi ne figurano alcuni discussi forse in maniera superficiale: prendiamo ad esempio la questione linguistica, che è dirimente, un problema per altro noto anche alla Corte di Giustizia europea, che su questo si è più volte pronunciata contro la Commissione Europea, per la vio-lazione dei trattati costitutivi in materia di uguaglianza linguistica.

A mio avviso bisogna riconoscere anche lo strumento di tipo linguistico come parte del rafforzamento dell’identità europea. La lingua non è solo un mezzo di comunicazione: attraverso la lingua si possono trasmettere aspetti di una cultura altrimenti difficilmente esprimibili. L’impostazione stessa di una lingua pone le basi nella cultura di appartenenza. Ad esempio: io parlo sei lingue e non ho lo stesso approccio con tutte e sei queste lingue: gli approcci differenti derivano da un formazione che la mia mente ha avuto su libri scritti in una data lingua. L’uguaglianza tra le lingue (prevista dai trattati) è un passaggio che secondo me deve ancora essere sostenuto nell’Unione Europea, perché la tutela della diversità linguistiche è uno strumento di sostegno alla tutela delle diversità culturali. Non dimentichiamo che l’unione europea è caratterizzata dalla Diversità, la quale sul piano linguistico non è però promossa come si dovrebbe.

Avrebbe senso per lei introdurre l’Esperanto come lingua di lavoro all’interno delle istituzioni europee?

Nei fatti e in modo informale l’esperanto d’Europa è diventato l’Inglese. Al di là dell’Utopia esperantista, l’inglese – e in parte anche il francese - è la lingua parlata quando gli interpreti se ne vanno. Si sa che un europarlamentare deve capire l’inglese, se no è costretto a lasciare la riunione, non c’è altra lingua con cui comunicare.

L’inglese non è stata scelta come lingua dell’Unione, ma si è affermata come tale, seppur in maniera informale. Tutti noi comunque teniamo d’occhio a che ora se ne vanno le interpreti (ride).

Analizziamo ora un altro problema dell’Unione: crede che la que-stione della distanza politica tra cittadini e istituzioni sia reale? Se sì, quali soluzioni si prospettano?

Questa distanza esiste e va eliminata, ma questo dipende anche dalla volontà delle istituzioni, che devono scegliere di comunicare meglio. Purtroppo nelle discussione dei temi che si tengono a Bruxelles c’è molto tecnicismo. Questo crea la distanza tra il territorio e Bruxelles.

Poi si comunica poco: si è sempre detto che chi va a Bruxelles finisce per essere dimenticato… però eventi come questo (si riferisce all’evento dell’11 Marzo presso il Social Store di Trento, nel quale era impegnata come ospite in una discussione sulla questione dell’immigrazione, ndr) servono per accorciare le distanze tra le persone e le istituzioni. Bisognerebbe farne un po’ di più. Non è soltanto il fatto del tecnicismo, o il fatto che Bruxelles sia lontana a creare questo senso di distanza, secondo me c’è anche un altro fatto, che ho notato da quando sono in Europa: le scuole devono cominciare ad insegnare di più la cultura e le istituzioni europee, devono far conoscere le istituzioni europee. Io vedo molti studenti di quelle scuole che veramente hanno fatto formazione al loro interno che, finiti gli studi, si sentono molto vicini all’Europa. Una colpa ce l’hanno a Bruxelles, però una colpa ce l’hanno anche i territori, perché bisognerebbe che nei programmi scolastici si mettesse più Europa. Anzi è proprio da lì che bisogna cominciare per creare vicinanza tra istituzioni europee e cittadini europei.

Abbiamo parlato di cittadini europei fino ad ora, ma urge una do-manda di sistema: identità europea è …?

Diversità messe assieme, che si parlano tra loro e vengono anche valorizzate, cosa che difficilmente troviamo da un’altra parte. Identità europea è poi l’assenza di barriere. Oggi quando vado a Londra e chi è con me mi confida di voler tornare a casa, io rispondo: “Tu sei già a casa!” Il cittadino europeo che viaggia per l’ Europa, ovunque sia, è a casa: questa è la bellezza dell’Europa.

Ad oggi la proposta di rivedere i trattati e dare loro una forma che si affermi come costituzione dell’Ue anche sul piano formale, come segnale di viva unità, le piace?

Serve uno stato federale, sono per il federalismo europeo: dateci uno stato federale di cinquecento milioni di abitanti, allora saremmo la potenza … dappertutto. Ma per avere uno stato federale serve una costituzione.

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Continua il viaggio de l’Univer-sitario nel mondo delle discipline sportive di origine orientale. In questo numero parliamo del ‘Ka-tori’, più precisamente del ‘Katori Shinto-Ryu’. Il suo fondatore, Iiza-sa Ienao (1387-1488 circa) era un famoso samurai costretto, dopo la morte del suo Daimyo (signore feu-dale), all’isolamento nel monastero del Katori (cittadina giapponese).

Quest’arte marziale viene praticata usando la spada di legno (boken), un

bastone di 180cm (bo), una lancia con lama sulla punta (naginata) e una spada corta (kodachi). In Trentino sono due i luoghi dove si può praticare questa disciplina: a Bolzano e a Trento. Ab-biamo chiesto qualche informazione al maestro trentino Attilio Margoni: «Il Katori è stato l’ultima scoperta della mia carriera da marzialista, una vera e propria arte del combattimento pre-determinato, dove si rafforza la volontà di spingersi oltre, mettersi in gioco e provare la propria resistenza, sia men-tale sia spirituale. Nel momento in cui il Katori ti prende davvero, non vorresti fare nient’altro».

Alla scoperta dell’antica tradizione del Katori Scritto da:

Mattia Dellasega

Scritto da:Marco Aporti

Arriva l’estate e la sezione escursio-nistica dell’Universitario vi propone un itinerario nelle immediate vici-nanze della nostra città particolar-mente vocato per la tranquillità, il relax, la natura incontaminata e la possibilità di rinfrescarsi. Il nostro consiglio è di provare l’escursione appena prima o subito dopo un esa-me in modo da potersi rilassare, rigenerare e… perché no, per fare un bagno!

“Laghi di Lamar”

Acqua cristallina e natura incontaminata a due passi dalla città

CARATTERISTICHE TECNICHE

Accesso:

- Bus n° 206 da autostazione di Trentofino a Monte Terlago (Fermata Hotel 2laghi), circa 40 min

- Automobile: prendere SS45 (la stra-da della Valle dei Laghi che conduceverso Riva del Garda) in direzione Ca-dine, subito dopo quest’ultima svoltarea destra in direzione Laghi di Lamar,arrivati a Monte Terlago parcheggiarein località Vallene, dove si trova un hotel con un parcheggio adiacente.

(Ovviamente il nostro consiglio è quello di usufruire dei mezzi pubblici!)

Distanza da Trento: 12 Km

N° sentiero: strada asfaltata (via Stra-da dei Laghi di Lamar)

Quota di partenza: 697m (Monte Terlago)

Quota di arrivo: 713 m.s.l.m. (Lago di Lamar)

Difficoltà: T (turistico)

Durata: 1h 30 (solo camminata se si

parte da Monte Terlago)

Periodo: primavera e estate

Equipaggiamento: scarpe da trekking o comunque scarpe comode, zaino con cambio, borraccia, cappello, abbigliamento comodo e consono alla stagione, costume.

Descrizione dell’ITINERARIO

Imbocchiamo la strada asfaltata carroz-zabile e proseguiamo per la strada che, abbandonando le ultime case, comincia a introdursi nel bosco.

Passiamo vicino a un’area picnic e ci avviciniamo al primo dei laghi, il Lago Santo (circa 30 minuti di camminata) che ci invita a una breve pausa per go-dere delle sue splendide acque e dei suoi canneti. Proseguiamo sul lato sinistro, su un sentiero immerso nel verde che costeggia il lago. Tornando adiacenti alla strada asfaltata, dopo circa 20 mi-nuti raggiungiamo un secondo lago, il Lago di Lamar, meta finale del nostro itinerario.

Si tratta di un lago splendido contor-nato da abeti e da faggi, situato in una piccola conca in cui i raggi solari in grado di raggiungere l’acqua creano

giochi di luce color verde, turchese e azzurro. Un lago che ben si presta alla balneazione e anche alla possibilità di tuffarsi vista la presenza di alcune funi laterali che permettono ai più av-venturosi di lanciarsi in acqua con un pizzico di brivido.

Una curiosità del lago è la presenza, nel-la sua parte sud, dell’Abisso di Lamar, una grotta profonda circa 1850m che si è creata a causa dei fenomeni carsici che interessano la zona.

Dopo esserci rilassati in questo am-biente così incantevole e riposati dagli affanni universitari, torniamo verso Monte Terlago con lo stesso sentiero (circa 40 minuti).

l’Universitario numero 1 – 25 maggio 2016www.luniversitario.it

DIRETTORE RESPONSABILE:DANIELE [email protected]

Autorizzazione Tribunale di Trenton. 7 del 6/04/2016

Realizzato con il contributo finanziariodell’Università degli studi di Trentoe dell’Opera Universitariaattraverso il supporto organizzativodi “Studenti per Trento”

Stampa: Grafiche Dalpiazvia Stella 11/B, 38123, Trento

[email protected]

Vicedirettore:Giovanni Nicolo Borghesan

Caporedattori:Francesco De Vido (attualità),Luca Carbone (ricerca e divulgazione), Andrea Bonfanti (cultura e tempo libero)

Grafica e impaginazione:Alice Pezzutti e Davide Steccanella

PoesiaLinfa arrugginita

Ma secondo te, restare fermi per mezz’ora posseduto dall’irrefrenabile voglia di non fare nulla, ingabbiato in una sedia all’esterno di un bar che si sta spegnendo alle quattro di notte, dopo aver posato sotto la distorta lucidità d’occhi e d’orecchie altrui, compatito dai fraterni lampioni che s’infrangono contro la neve brillante lontana, a intuire la maestosa dilata-zione della pupilla che poco a poco mi scolora figure in un bosco di buio, senza che fumo o vino inibiscano reazioni o pensieri, senza la presenza di altre creature che possano narcotizzare questa vertiginosa solitudine, io che con me so stare solo fermo, su una sedia buia e fredda, privo di stimoli che mi spingano da dentro, assuefatto di spugnoso ozio color pece, diversamente da quando altri stanno con me, e in trappola come un’isola trasporto il mio corpo a fare o non fare, dire o non dire, quel che ha deci-so il flusso di cause e conseguenze, di paure e dolori, di gioie e passioni, dimmi, ripeto, secondo te, questa non è la mia piccola scommessa vinta con la noia? Non è la mia piccola dose eterea e forse eterna di libertà? Dimmi secondo te, perché io un’idea, quando poi mi sono dovuto alzare per tornare ad essere quello che sono, me la sono fatta: un albero in cui scorre linfa arrugginita.

Scritto da:Nicolò Sanese

Illustrazioni Chiara Zamboni e Alessandra Bignolin

EDITORE: Associazione “L’Universitario”[email protected] - con sede a Trento in via Moggioli 4

Presidente:Federico Crotti

Direzione editoriale:Valentino Inama, Yannick Daaza, Marianna Scaggiante, Elio Sallustio, Marianna Tentori, Andrea Viani, Giulia Castelli e Francesco Desimine

Numero chiuso in redazione il 23 maggio 2016