"Nugae" n.6

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“Nugae - scritti autografi” ANNO II - N.6 - Luglio/Settembre 2005

Rivista letteraria trimestrale autogestita. Organo ufficiale dell’ Associazione Culturale

“Nugae”

Presidente: Fabio De Santis

cell. 347-3098430

Sede legale: via G. Guinizelli, 14 Sc. A-22

84091 - Battipaglia (Sa)

Direttore responsabile: Alfonso Amato

Direzione, Redazione, Amministrazione: via XX Settembre, 23 - Battipaglia (Sa)

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via G. Guinizelli, 14 Sc. A-22

84091 - Battipaglia (Sa)

(sede vicariante)

e-mail :

Redazione:

Luigi Carbone; Vito Cerullo; Fabio De Santis; Antonia di Dario; Paola Magaldi;

Adriana Mazzella (correzione bozze); Michele Nigro.

Responsabile Redazione Modena:

Fabio De Santis

[email protected] cell. 347-3098430

Responsabile Redazione Napoli:

Luigi Carbone

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Responsabile Redazione Battipaglia:

Michele Nigro

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Pubblicità: Paola Magaldi

cell. 335-8384148

Tesoriere: Salvatore Colitti

cell.338-2025760

Stampa: Centro copie “Duc@s”

via E. De Nicola, 24 - Battipaglia

Registrazione del Tribunale di Salerno:

N° 20 del 28/Giugno/2004

Editore: “Associazione culturale Nugae”

Spedizione in Abbonamento Postale. TABELLA D Autorizzazione DCB/ SA/088/2005 Valida dal 16/05/2005

Chiuso in Redazione: 6 Luglio 2005

Norme per la collaborazione: la collaborazione è aperta a tutti, esordienti e scrittori editi, ed è completamente gratuita. Gli elaborati possono essere inviati, al fine di essere valutati ed eventualmente pubblicati, secondo le modalità di seguito riportate:

1)come allegati, in formato word, tramite e-mail all’in-dirizzo di posta elettronica:

[email protected] 2)utilizzando la posta ordinaria (si consiglia Raccoman-data con ricevuta) inviando i plichi all’indirizzo della Redazione vicariante:

“Associazione Nugae” c/o Michele Nigro

via G. Guinizelli n.14 Sc.A-22 84091 Battipaglia (Sa)

3)consegnando i lavori direttamente ai Responsabili di zona presso le sedi distaccate di Modena e Napoli (vedi recapiti).

I lavori devono essere nitidamente dattiloscritti e fir-mati, ove non fosse possibile l’invio (decisamente prefe-ribile) di floppy disk o cd-r contenenti i testi in for-mato word. Non saranno prese in alcuna considerazione per la pubblicazione, per ovvi motivi pratici e per preser-varle da possibili errate interpretazioni, le opere cal-ligrafiche, indipendentemente dal loro indubbio valore umano e letterario. I testi non dovranno superare la lun-ghezza di 8 cartelle. Le sillogi corpose (previo consenso dell’Autore) saranno suddivise in “sottosillogi” e queste ultime pubblicate su numeri consecutivi della rivista. La stessa regola verrà applicata ai racconti lunghi e ai romanzi utilizzando una suddivisione in “puntate” degli stessi, concordata con gli Autori e che ne rispetti l’e-ventuale capitolato originario. La Redazione non resti-tuirà il materiale pervenuto presso la sede del periodi-co. Si avvale, inoltre, della prerogativa di non pubbli-care gli elaborati ritenuti inidonei. Condividere con gli Autori le motivazioni della non pubblicazione dei testi non fa parte degli obblighi redazionali. Tuttavia ogni richiesta di chiarimenti sarà da noi gradita in quanto costituisce reciproca occasione di crescita umana e let-teraria. La riproduzione, anche parziale, della presente rivista, è consentita solo ed esclusivamente dietro auto-rizzazione scritta della Direzione e con la citazione della fonte. Gli organizzatori di premi letterari, rasse-gne o eventi culturali letterari che vorranno pubbliciz-zare i bandi/programmi, tenendo conto che i mesi di pub-blicazione del presente periodico sono Gennaio, Aprile, Luglio, Ottobre, dovranno far pervenire i testi dei ban-di/programmi entro e non oltre l’ultimo giorno del mese precedente al mese d’uscita. La stessa regola vige (l’alternativa è rappresentata dalla posticipazione del-l’eventuale pubblicazione) per quanto riguarda l’invio di scritti in qualità di libero collaboratore (saltuario o continuo). La Redazione si avvale comunque, a prescindere dal rispetto delle suddette scadenze, della prerogativa di rimandare la pubblicazione per motivi differenti: so-praggiunta saturazione del numero; incoerenza dei conte-nuti per i numeri cosiddetti “a tema”; precedenza di pub-blicazione per i lavori “a puntate” ecc. La Redazione, dopo attenta e scrupolosa analisi dei testi ricevuti, avvertirà gli Autori prescelti per la pubblicazione tra-mite i canali comunicativi attivati dagli Autori stessi. Gli articoli, i racconti e le liriche riflettono le opi-nioni dei loro Autori, che di essi risponderanno diretta-mente di fronte alla Legge. Gli scritti inviati dovranno essere inediti e accompagnati dalla seguente dichiara-zione: “LO SCRITTO INVIATO E’ UN MIO PERSONALE LAVORO E NON E’ MAI STATO PUBBLICATO”. Gli scritti pubblicati e inediti sono di esclusiva proprietà degli Autori e fa fede la data di pubblicazione sul presente periodico. I lavori degli Autori editi dovranno essere accompagnati da apposita autorizzazione rilasciata dall’Editore di origi-ne. Sono gradite le note bio-bibliografiche (con o senza foto) di quegli Autori che collaborano per la prima volta con il periodico. Il Foro di Salerno è competente per eventuali controversie.

In copertina:

disegno di

Marco Vecchio

[email protected]

Copertine arretrati

Numero 0 Numero 1 Numero 2 Numero 3 Numero 4 Numero 5

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CONTRIBUTO ANNUALE STAMPA

(4 numeri)

Tipologia contributi:

ORDINARIO ————————————————- € 15,00

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ARRETRATI(1 copia)————————- € 5,00

ANNATA ARRETRATA —————————- € 20,00

Il versamento del contributo può essere effettuato:

1)inviando i contanti in busta chiusa e tramite posta prio-ritaria (includendo l’indirizzo civico - comprensivo di C.A.P. - presso cui si desidera ricevere il periodico)al seguente indirizzo:

“Associazione Nugae”

c/o Michele Nigro

Via G. Guinizelli n.14 Sc.A-22

84091 Battipaglia (Sa)

2)versando la quota prescelta sul Conto Corrente n.49914047 intestato a Nigro Michele, via Guinizelli n.14-84091 Batti-paglia (Sa); specificando nella causale: <<contributo an-nuale stampa NUGAE - SCRITTI AUTOGRAFI>> o <<richiesta ar-retrati:copia/e…del/i numero/i…anno…>>

3)inviando un assegno o un vaglia al summenzionato recapi-to.

Qualunque sia la vs. modalità di versamento, Vi consigliamo di comunicare al più presto il tipo di contribuzione scelta (specificando l’INDIRIZZO CIVICO utile per effettuare il servizio di spedizione) utilizzando il seguente indirizzo e-mail: [email protected]

Per ulteriori informazioni: 333-5297260 / 347-3098430

LA SCADENZA DELL’ANNUALITA’ VERRA’ COMUNICATA TRAMITE APPO-SITO AVVISO PERSONALIZZATO INCLUSO NELLA SPEDIZIONE DEL-L’ULTIMO NUMERO.

PUNTI VENDITA

“NUGAE - scritti autografi”

§§§

Libreria Mondadori

Via Mazzini, 31— 84091 Battipaglia (SA)

Libreria Baol

Via Rocco Cocchia,12(zona Pastena)Salerno

Libreria Treves

Via Toledo, 249/250 — 80132 Napoli

Libreria “Il pavone nero” di Evelina Pavone

Via Luca Giordano 10/A – 80127 Napoli

Libreria

“Associazione culturale Porta Saragozza”

Via Saragozza 112 - Modena

L’EDITORIALE M. Nigro 2

L’INTERVISTA - “Marco Vecchio: ritratto di un artista salernitano” A. di Dario 3

“Il sarto di Piazza Farina” E. Meis 6

Poesie D. Dalmiglio 16

“L’età tradita” M. G. Greco 21

Poesie - “Parole con il bacio” G. Proietti 23

LA RECENSIONE - “Sulla Nuovissima poesia italiana” F. De Santis 26

“Sentieri caotici” P. Bartoli 27

riVISTE 30

“Poesie inattuali” (recensione di Vito Cerullo) A. Piccolomini 31

“Della vertigine cosmica” (seconda ed ultima parte) V. Cerullo 36

“Una stanza tutta per me” T. Castellani 43

“Note e vibrazioni in un frammento del testo di Ouspensky” D. Della Rocca 45

“Ottima normalità” G. Proietti 46

SPAZIO NUGAE - “Appello per l’istituzione di cattedre di Fantascienza” A. Scacco 48

SOTTO IL PORTICO 3ª

CONTROEDICOLA 4ª

SOMMARIO PAG.

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La propensione di questa Redazione all’antiprovincia-lismo, manifestata fin dalle “origini”, sembrerebbe essere giunta ad un’interessante fase di maturazione nel numero 6 di “Nugae – scritti autografi” per mezzo di una novità che è riportata, tra gli altri dati del pe-riodico, nella seconda pagina di copertina: il passag-gio, per intenderci, da un’unica redazione battipa-gliese a tre redazioni nazionali… Modena e Napoli diventano, così, succursali di una passione che non vuo-le sentirsi costretta nell’angusta definizione di “prodotto locale”, ma cerca di confrontarsi con le varie realtà nazionali con cui entra in contatto. Ed è un entrare in contatto pieno, fisico, non virtuale ma basato su relazioni vere o in procinto di essere co-struite… La collaborazione, già ampiamente testimo-niata nei numeri precedenti, con scrittori apparte-nenti a zone differenti della nostra penisola, si avvale, ora più che mai, di uno strumento che va al di là della comoda e fredda “conoscenza teleinformatica”: la redazione di zona diventa un punto di riferimento loca-le, pur confluendo nell’unico bacino scrittografico rap-presentato dal periodico “Nugae”… Redazioni decen-trate come sensori conficcati in terreni lontani e alla continua ricerca di alternative umane, di esperienze, di volti o anche solo di una stretta di mano… Oltre, naturalmente, che di scrittura…

Non contenti, abbiamo pensato di aggiungere una nuova, piccola rubrica – “Spazio Nugae” – con cui crediamo di agevolare la necessaria trasformazione della rivista da “vetrina” a “piazza” e diventare, final-mente, luogo di confronto e di discussione su temi umani e letterari, assecondando i naturali tempi lenti di un trimestrale! Qualcuno del pubblico, durante l’ultima presentazione di “Nugae” avutasi a Salerno nel mese di Aprile, ci chiese se avevamo intenzione, in futuro, di dare vita ad un “movimento”, oltre che ad occuparci delle sofferenze letterarie raccolte nel girone degli esordienti… La risposta a questa domanda, anche se la parola “movimento” è eccessiva e prema-tura, va ricercata nella disponibilità, nostra e dei Let-tori, a creare occasioni e luoghi adatti, cartacei e non, per dare voce alle idee e soprattutto per animare discussioni o avanzare proposte. Senza orgogli acca-demici o forzati atteggiamenti disincantati di chi cre-de di aver capito tutto sul crudele mondo dell’editoria; senza sciocchi timori nei confronti dello sperimentali-smo; senza presunzioni elitarie o snobismi di casta… Non a caso, e rispondo così alla domanda, il sottoti-

tolo di “Spazio Nugae” è: “...Appelli, proposte, eventi… Idee in movimento...” . Ad inaugurare “Spazio Nugae” sarà il Prof. Antonio Scacco di Bari, che conosceremo meglio nei numeri successivi della rivista, con il suo appello decisamente insolito, ma necessario ed inno-vatore.

Come premesso nel numero di Aprile, faremo una conoscenza più approfondita dell’artista salernitano Marco Vecchio che, oltre ad aver soddisfatto (ancora una volta, pardon, in bianco e nero!) le esigenze ico-nografiche di “Nugae”, ha rilasciato un’intervista in cui illustra non solo le proprie origini pittoriche e gli aspetti che riguardano la “sua” arte, ma ci conferma, pur essendone già convinti, l’esistenza di punti di congiunzione tra pittura e scrittura. Ricordiamo, per l’occasione, l’interessante testo di Ignace J. Gelb (“Teoria generale e storia della scrittura”- Fondamenti della grammatologia) in cui viene tentata una esposizione sistematica dell’evoluzione della scrittura dalle primissime fasi pittografiche fino alla sua compiuta realizzazione alfa-betica. Un libro che, sfuggito alla recensione di “Controedicola”, approfondisce alcune tematiche sfiorate nell’intervista.

Non raggiunge il quorum, questo mese, la rubrica “Raccontinani” che ritornerà ad Ottobre con nuovi esempi di brevità applicati alla narrazione. Questa pausa è anche un invito rivolto a Voi, Lettori/Collaboratori, affinché vi cimentiate, divertendovi, nella costruzione di quelle microstorie molto spesso più affascinanti di un racconto lungo o di un roman-zo.

Prima di lasciarvi alla lettura estiva del seguito, desi-dero, altresì, preannunciare la futura nascita, a parti-re dal prossimo numero di Ottobre, di una “scheda” dedicata agli aspetti tecnici (rivisitati, naturalmente, nell’ottica soggettiva di chi non vuole imporre “pagine di Vangelo”, ma semplicemente proporre un personale approccio ragionato sui meccanismi della scrittura) delle varie componenti letterarie (saggistica, poesia, narrativa…). Tutto ciò per tenere fede alle responsabilità nate dal binomio “laboratorio/rivista” con cui “osammo” definire “Nugae” nell’inci-pit dello scorso editoriale. Progetto pretenzioso ed improbabile? Forse… Ma sulla nostra volontà di “entrare” (seppure in punta di piedi) nei perché e nei come della scrittura, scusate se insisto, non ho dubbi!

Buone vacanze!

L’editoriale di Michele Nigro

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Marco Vecchio:

ritratto di un artista salernitano.

Marco vecchio nasce nel 1976 ad Agropoli. Si diploma al Liceo artistico di Salerno, città in cui vive e lavora. Comincia ad avere da giovanissimo dimestichezza con forme e colori “rubando” dai genitori un po’ di spirito artistico e la curiosità per il mondo.

Si laurea all’Università degli studi di Salerno in Lettere…

…Ma sarà meglio farsi raccontare da Marco stes-so un po’ di sé:

Quando ti sei accorto dell’importanza dei colori, delle forme, nella tua vita?

Da sempre! Sono i cromosomi della tua stessa natura. Già da piccolo il mio passatempo preferito era il disegno, giocavo con i colori. E già all’età di 5 – 6 anni non avevo dubbi sul percorso scolastico che avrei intrapre-so: il liceo artistico… Poi quella dell’Università è stata una scelta sacrificata; lo stu-dio lasciava poco tempo ai “giochi”, ma sono riuscito ugualmente a ritagliare dei momenti dedicati alla pittu-ra. Finiti gli studi ho preso la decisione di dedicarmi a tempo pieno a quello che era solo un passatempo e questo è diventato, così, un lavoro a tempo pieno, con tutte le difficoltà che questo comporta. Forse è una scelta folle!

Sappiamo che nasci in una famiglia di arti-sti: il padre pittore, la mamma costumi-sta… Quanta importanza ha avuto ciò nel tuo sviluppo d’artista?

Sicuramente molta. Il bello è che 4 persone con 4 storie diverse fondono sotto un unico tetto le loro storie. Ed è interessante vedere come accade. Da piccolo ho appreso irrazionalmente, assorbendo come una spugna, tramite le vie dell’inconscio, vivendo in questo ambiente di esperienze fuse; guardando anche nascere i quadri di mio padre. Ho imparato senza la fatica dell’apprendere, per-ché tutto era così naturale…

Quanta importanza può avere la scrit-tura in un mondo di colori?

Molta, soprattutto nel dar vita ai diari, che sono compagni di viag-gio, che mi accompa-gnano sempre nei luo-ghi che visito, e nel quotidiano. Questi diari sono una fusione intima di scrittura e disegno, raccontano ciò che vedo. Anche a distanza di tempo mi scopro a dipingere il volto di un passante di chissà dove… I diari non sono pubblici, almeno per il momento, poi, non si sa, potrei dedicarvi una mostra! Scri-vere è bello. Scrittura e poesia si integrano; cam-

minano assieme pur vivendo ognuna della propria autono-mia. Nel lavoro del pittore gli stimoli possono scaturire da più parti: e la scrittura è tra questi. Io amo particolarmen-te poeti come Gozzano, Go-voni; poeti visionari, che san-no usare le parole come se fossero colori.

Cos’altro può essere sti-molante per un artista?

Tutto è stimolo: ogni cosa che vedo rientra in ciò che faccio. Un grande aiuto, comunque, è dato dal viaggio: viaggio inteso come assorbimento di climi, colori, paesaggi. Noi siamo immediatamen-te percettivi e portiamo dentro anche l’aria che respiriamo. La visione è tutto. Devo vedere per dipingere. Anche un film può essere stimolo per un dipinto, se lascia emozioni e “visioni”. Nel momento stesso in cui lo vedo, non me ne accor-go, ma ho inglobato un’emozione che, poi, una volta metabolizzata, si riversa sulla tela ad espri-mere ciò che ho visto. Involontariamente tutto il vissuto rientra in ciò che faccio.

Nella tua produzione si notano dei “cicli” di colori… Questo è dovuto a stati d’ani-mo particolari…?

L’intervista a cura di Antonia di Dario

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ambizioni: certo, sarebbe bello vivere di ciò che di-pingo… Ma la pittura resta comunque l’unico modo per scrollarsi di dosso il negativo delle cose. Sublimo tutto nella creazione, e dipingere è bello al di là di ciò che può accadere. Sono me stesso allo stato puro.

Credi che si dipinga per se stessi o per gli al-tri?

Per se stessi prima di tutto, ma anche per gli altri. Dipingere è anche discutere attraverso un linguaggio a me più congeniale; esprimere concetti che attraver-

so altri linguaggi non saprei comunica-re… Vengo fuori nella mia pittura. Per conoscermi basterebbe guardare i miei quadri: sono i ritratti di Marco Vec-chio… ed è anche un modo per dare qualcosa di me agli altri, agli amici… a Maria Grazia, persone a me vicine, che corrono quando le chiamo perché con-dividono con me questa passione che è parte di me.

La scelta dei materiali da usare nelle tue opere nasce da un’esi-genza particolare?

Da due anni amo il legno come concet-to generico: il truciolato, ad esempio, perché è abbastanza versatile, assorbe bene qualsiasi tipo di tecnica. Io sono

alla continua ricerca del nuovo, ed il legno è un buon compagno in questa ricerca. In questo periodo mi sto dedicando molto al pezzo di legno trovato e trasformato. Il legno però è deteriorabile e quindi, per meglio conservare ciò che creo, preparo prima la superficie con colle e poi stendo il colore. La colla, oltre che proteggere, ha anche la funzione di rendere i colori più brillanti.

Dove si può acquistare un’opera di Marco Vecchio?

Solitamente la vetrina delle mie opere è la mia stan-za; ma ci sono anche le mostre, le presentazioni, le esposizioni. La prossima sarà il 23 Luglio presso un locale di Salerno, il “FLIPPER”, sulla “rotonda”, dove sarà esposta la nuova produzione che ho intitolato “Androidi”, un tema che richiama le stelle, lo spa-

L’uso dei colori varia a seconda dei periodi; nei quadri racconto le mie età… Questo è l’anno del blu; ci sarà una mostra intitolata “Naufraghi”, che è un omaggio al mare, ed oltre a dipinti esporrò sculture nate da legni trovati sulle spiagge, portati dalle onde. Questo colore, il blu, oramai fa parte di me, lo porto dentro, ho imparato ad amarlo ed ora non posso scinderlo da me stesso. Picasso lo definiva “il colore dei colori”. Guardando i lavori passati mi accorgo di aver usato molto i colori della Sicilia: colori caldi, ori, e per motivi che non so spiegare, in fondo credo che in arte ci sia comunque una magia, qualcosa che non si può spiegare; e mi piace, questo mistero…

Senti l’esigenza del confron-to?

Cacchio! E’ fondamentale il con-fronto con altri artisti, soprattutto quando si ha stima delle persone che fanno questo mestiere: è scam-bio gratificante ed atto di generosi-tà potersi dare delle cose. Dise-gnando assieme, passeggiando, dipingendo… Arricchisce entram-bi… Bisogna, però, considerare che il lavoro vero dell’artista è soli-tario. Si ha bisogno dei propri si-lenzi, del proprio spazio mentale: fondamentale per la creazione.

Ogni artista se vive solo del suo isolamento smar-risce la ricerca e tende a fare un lavoro manierista.

Confronto è guardare le cose con altri occhi, non cristallizzarsi solo sulla propria visione.

Hai aspettative relativamente a questo me-stiere?

Tante, anche se non dipende solo da me. Conosco i miei limiti, uno dei quali è la pigrizia: dovrei muovermi di più per potermi proporre di più. Ho un’aspettativa che è curiosità rispetto al linguaggio della pittura: il chiedersi cosa dipingerò tra qual-che tempo, dove mi porterà la pittura… Per quanto riguarda il lato economico, non ho molte

Marco Vecchio - tratto da “Icone di carta”

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zio… Non tutti i pezzi sono in vendita, solitamente quelli che appendo alle pareti sono quelli che mi re-galo. Sono opere nelle quali c’è una magia particola-re… E’ come se riuscissero ad esprimere il mio esse-re, più di altri… Anche se separarsi dal “sé” espresso può significare ricevere nuova linfa; privarsi delle proprie cose è un modo per sentire l’esigenza di riempire quel vuoto nuovamente. È trovare nuovi stimoli…

Una città come Salerno può risultare stretta ad un artista giovane che vuole farsi conosce-re?

Salerno, dal punto di vista artistico, offre poco: le gallerie in cui poter esporre sono poche, quindi la visibilità diminuisce. Con Salerno ho comunque un rapporto di amore – odio; infatti, se da un lato mi rendo conto di quanto possa limitare non solo me, ma tanti giovani artisti del posto, dall’altro non riesco ad allontanarmene, perché appartengo a questa città, ai luoghi che tornano nei miei quadri, nei miei diari. Per me Salerno è il centro storico, quel microcosmo nel quale vivo e del quale mi nutro; dove trovo ispi-razione e linfa, e non mi ha ancora stancato.

Principali mostre personali e collettive. Ritratti, Salerno 1997. Segnalibro d’autore, Monaco di Baviera 1998.

Dipinti, Palinuro 1999. Arte in campus, ricerca degli under 40, a cura di Silvana

Smisi. Università di Fisciano (Sa.) 1999.

Deserti, Palazzo Alario, Ascea (Sa.) 2000. Artisti per il Kossovo, Galleria d’arte Paola Verrengia,

Salerno 2000. Millenium 2000 strange days, Cattedrale di Pistoia

2000. Carte di Sicilia, Acireale (Ct.) 2001. Arte per la ricerca, Galleria d’arte Paola Verrengia,

Salerno 2001. Primo piano, Tenuta Vannulo, Paestum (Sa.) 2001. Omaggio a Mirò, gadgets, nell’ambito della mostra

MIRO’. Convento di S.Sofia, Salerno 2002-2003. Il corpo e le icone, Cava de’ Tirreni (SA) 2003. Alfabeti, Museo Città Creativa, Ogliara (SA) 2003. Oltre, Cava de’ Tirreni (SA) 2003. Totemica, L’atelier, Napoli 2003. Lo sguardo e il labirinto, Fondazione Alario, Ascea (SA)

2003. Figura, Galleria d’arte Il Labirinto, Caserta (NA)

2003. Biennale dei giovani artisti, Istituto d’Arte, Napoli

2004. Opere, Giardino dei Semplici, Salerno 2004. Contaminazioni ‘04, Balestrate (PA) 2004.

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Avviso ai Lettori

Nomi, luoghi, fatti e date contenuti nel racconto, sono frutto dell’immaginazione perversa dell’Auto-re. Tuttavia, ogni riferimento alla Rivoluzione Cubana e a certi personaggi storici, quali Ernesto “Che” Guevara e Fidel Castro, è subdolamente e nostalgicamente voluto.

L’Autore, fin d’ora, si scusa con quegli uomini e quelle donne politicamente impegnati che, per tale motivo, non dovrebbero sentirsi coinvolti (o almeno lo si spera) dalla trama irriverente del racconto.

§§§

“Lei crede nei sosia?” - chiesi all’improvviso.

Mi vergognai quasi immediatamente per quella domanda prematura e sciocca perchè, durante tutto il tempo delle prove dinanzi allo specchio, non ci eravamo rivolti nemmeno una sillaba. Met-tere su famiglia comporta alcune modifiche del giro vita e, questo, i miei abiti lo sapevano benis-simo. Così, di tanto in tanto, ero costretto a por-tare i pantaloni dal sarto per cercare, grazie ai suoi miracolosi interventi di alta sartoria proletaria, di indossarli ancora per qualche anno senza scoppiare o semplicemente per una piega nel caso in cui fossero freschi di negozio.

Il bugigattolo in cui cuciva, durante le ore del mattino, era generosamente esposto al sole e così, mentre mi dirigevo con il pantalone nuovo, ordi-natamente piegato sul braccio, mi auguravo di poter rivivere la scena già gustata altre volte in giornate simili. Voltai l’angolo ed eccolo lì: il sarto di Piazza Farina durante la prima siesta…! La bicicletta da passeggio, multicolore ed arruggi-nita, poggiata sul muro; il suo fedele cagnolino dai riccioli bianchi ma ingialliti dal fumo del padrone; la tendina di plastica che ondeggiava al vento… E leggermente adagiato su un lato dell’entrata, l'an-ziano sarto che si gustava la P.S. della giornata (Prima Sigaretta, da contrapporre alla U.S. di sveviana memoria!)

Mingherlino, basso di statura, la faccia color siga-ro scavata da solchi di sole e vento, con dei baffi

incanutiti alla Ibrahim Ferrer e abbronzato come un catador (1) di Santiago de Cuba, riesumò una delle due mani dalla tasca e senza sprecarsi in parole inutili scostò la tendina per farmi entrare mentre già esami-nava con gli occhi strabuzzati e lacrimosi l’oggetto del suo prossimo lavoro.

“Avrei bisogno di una piega!” - saltai subito al dunque in modo sintetico, risultando, tuttavia, il più chiac-chierone tra i due.

E lui, senza togliersi la sigaretta di bocca: “…domani sera!”

Ebbene… Io capisco che in quest’epoca di immagini e parole inflazionate si debba usare con parsimonia il linguaggio, ma bisogna riconoscere senza falsa mode-stia che noi, clienti del sarto di Piazza Farina, erava-mo tutti dotati di una particolare intelligenza lingui-stica, perché da quello scarno “domani sera” avremmo dovuto intuire la chilometrica frase “…c’è abbastanza stoffa per fare una piega decente e potrà ritirare il suo pantalone già domani sera! ”

I meno arguti se ne uscivano sconfortati perché tra-ducevano il grugnito baffoso in “ritorni domani sera, ora c'ho già altro lavoro!"

A volte la mia intelligenza si “distraeva”, ma quel giorno mi andò bene: rimasi in piedi in attesa di ordi-ni.

Con gli occhi mi indirizzò verso il soppalco dove i clienti, accostando una tenda di velluto riciclato, potevano comodamente spogliarsi e indossare il capo da provare. Mentre salivo la scaletta di ferro il cane mi accompagnava con una breve abbaiata d’ufficio per farmi capire che ero estraneo al contesto. E in-tanto potevo, da una favorevole visuale "aerea", valu-tare il piccolo mondo del sarto. L’omino era già ri-tornato nel suo angolo da lavoro e riprendendo in mano un pantalone lasciato a metà, continuò a scucir-lo sul tavolo minuscolo illuminato dalla lampada con cui aveva condiviso tante notti insonni per terminare lavori urgenti. Al suo fianco una macchina da cucire “Stillblitz” degli anni ’60 con la pedaliera lucida e consumata dalle migliaia di pantaloni confezionati. A rimpicciolire quello spazio già esiguo, due appendia-biti ricolmi di grucce in fila e vestiti finiti in attesa dei

Il sarto di Piazza Farina di Ettore Meis

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proprietari. E, a portata di mano, montagne di spilli e aghi come porcospini imbalsamati e rocchetti di filo di cotone per giocare con gli aquiloni della fantasia…

Avevo indossato il mio pantalone e con i piedi nudi sulla moquette del soppalco, mi apprestai ad attirare l’attenzione dell’artigiano il quale, quasi infastidito che fossi ancora lì, sollevò lo sguardo dal suo deschet-to. Aveva gli occhiali sulla punta del naso, la sigaretta eternamente in bocca senza mai causare danni ai tes-suti che lavorava e un ago che usava con perizia chi-rurgica.

“Sono pronto!” - dissi per accorciare i tempi - “…può salire per l’imbastitura, se vuole!”

Gli specchi dei sarti sono spietati. Il mio profilo pan-ciuto si rifletteva inesorabile in tutta la sua lunghezza e, ahimè, larghezza. Ma eravamo concentrati sulla piega. Il sarto inginocchiato aveva già dato un paio di colpi di filo sul bordo del pantalone ed al suo occhio esperto bastava per proseguire, anche senza la mia presenza, il suo lavoro solitario.

“Può toglierseli!” - disse senza troppi convenevoli mentre già si apprestava a scendere le scale per ritor-nare al suo precedente lavoro.

Fu proprio in quel preciso istante che ebbi la poco brillante idea di rivolgergli quella domanda assurda: “lei crede nei sosia?”

Si girò lentamente e guardandomi dal suo metro e sessanta, volle essere sicuro che non scherzassi: “…in che senso?”

“Mi scusi se le porgo una domanda tanto banale e soprattutto non vorrei farle perdere tempo…” - cer-cai di ricucire - “…io sono un suo cliente, non è la prima volta che mi servo da lei…” - avvicinandomi al dunque - “…ogni volta che la osservo non posso fare a meno di pensare che lei non appartiene a questa città, a questa regione. E nemmeno a questa nazio-ne… Anzi, le dirò di più: secondo me lei non appar-tiene nemmeno a questo tempo…!”

Stavolta l’avevo fatta grossa. Avrei dovuto cambiare sarto…

E mentre la cenere della sua sigaretta cadeva sulla moquette, tornò a ripetermi con uno sguardo più

interessato e intrigante: “…in che senso?”

“Lo so che non sono affari miei, ma lei ha parenti in America latina?”

“Può essere…!”

“No, perché, vede… Ecco… Mi sento ridicolo… Non so come dirglielo… E’ assurdo, lo so!..”

“Senta, ho del lavoro da sbrigare!” - pronunciò, forse, la frase più lunga della mattinata.

“…Lei è la copia esatta del… Lei è il sosia, il clone, il ritratto fotografico del “Generale del Popolo”, il mitico Antonio Louis Garzia Farinas, meglio conosciuto come “Cigarillos”, un nomigno-lo affettuoso e confidenziale datogli dalla sua gen-te a causa del suo fisico minuto e asciutto… Ma capace di smuovere interi villaggi per scatenarli verso un unico obiettivo rivoluzionario grazie al suo carattere tenace e appassionato… Ecco, l’ho detto! Ora, se permette, mi tolgo i pantaloni imbastiti e me ne vado, così la lascio lavorare in santa pace…!” - sudavo e volevo fuggire.

“…Antonio chi?...” - riprese con mia sorpresa il sarto, che fino ad allora non mi era sembrato tan-to propenso al dialogo. Approfittando di questa favorevole apertura, continuai: “…Il generale Antonio Louis Garzia Farinas, fu l’eccezionale istigatore e il padre ideologico della famosa “Rivoluzione dei torcedores” che nel lontano 1961 esplose nello stato sudamericano di Partagas…”

E vedendolo sempre più interessato e immobile sulla scaletta, incalzai: “…I torcedores sono gli ar-rotolatori di sigari, quei singolari artigiani che lavorando le foglie di tabacco con perizia e passio-ne, riescono a produrre ogni giorno centinaia di quei sigari meravigliosi, famosi in tutto il mon-do… I “Partagas”, per l'appunto: i sigari più buoni e costosi mai esistiti… E che lei certamente cono-sce dal momento che è un fumatore…!”

Mi stavo dilungando e lo sguardo del sarto non prometteva nulla di buono; cercai di abbreviare: “…poiché io lavoro presso il dipartimento di Sto-ria sudamericana… all’università… ecco… ab-biamo un archivio con centinaia di foto di perso-

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naggi storici sudamericani… e così… ho ricono-sciuto nel suo volto… quello del Generale…!”

Mentre seguiamo virtualmente nel nostro animo una traccia che ci appassiona e ci toglie il sonno, succede spesso che, una volta raggiunto lo scopo e dopo aver svelato i nostri tormenti, l’idea che ci aveva torturati per giorni e mesi, per non dire anni, finisce con lo “sfiatarsi” dinnanzi al disincan-to procuratoci dalla realtà. Ed è così che mi senti-vo in quel momento ridicolo e assurdo con lo sguardo ironico del piccolo sarto puntato dritto in mezzo ai miei occhi come per dire: “…stai male, amico?”

Forse tutto si sarebbe risolto con una grande risata da parte del taciturno mago dell’ago e me ne sarei andato a casa con la coda tra le gambe e qualche chilo di dignità in meno.

Ma non andò così. Il sarto risalì il primo gradino della scaletta e chiuse dietro di sé la tenda di vel-luto del soppalco. Mi guardò in un modo che non potrò mai dimenticare: come un padre che ritrova il figlio; come chi vaga attraverso i secoli in cerca del suo angolo di storia perduto; come il ladro scoperto in casa con le mani nell’argenteria. “…Y en voz bien alta, socialismo o muerte!” (2) - mi disse a bruciapelo con un timido sorriso che sorgeva dal volto scavato.

“Scusi…?” - conoscevo bene quel motto, ma non credevo alle mie orecchie.

“Pero se siente de la patria el grito … Todo lo deja todo lo quema … Ese es su lema, su religiòn.” (3)- insiste-va il sarto.

“Capisco che le mie affermazioni sui sosia siano da prendere con le dovute cautele, ma prendermi in giro ripetendo questi inni rivoluzionari letti o sentiti chissà dove… Non mi sembra il caso!” - protestai indignato.

“Calma, figliolo!” - mi tranquillizzò. “Non avevo intenzione di prendermi gioco di te!”

E accendendosi un’altra sigaretta: “…E’ solo che sono trascorsi molti, moltissimi anni dall’ultima volta che ho sentito scandire il mio nome comple-to… Antonio Louis Garzia Farinas… Generale

del Popolo… Per gli amici “Cigarillos”… Ah,ah,ah!!!” - era la prima volta che sentivo il mio sarto ridere.

“Sì, va bene… Come non detto: vedo che continua a rivolgere la sua politica ironica nei miei confronti… Ora vorrebbe farmi credere che lei è il Generale… Risorto!... Come il Cristo!… Io ho parlato di somi-glianze… Lei è il mio sarto e nulla di più!... Ora, se per piacere si accomoda fuori, mi sfilo i pantaloni e tolgo il disturbo! ” - dissi risoluto e pentendomi ama-ramente della sciocchezza commessa.

“Ma quale risorto!” - continuava. “Non sono mai mor-to!”

Risi di gusto davanti allo specchio e poi riacquistando la freddezza del ricercatore storico: “…e le foto, che hanno fatto il giro del mondo, in cui il Generale vie-ne ritratto a torso nudo, crivellato dai colpi di arma da fuoco dell’esercito regolare partagassiano? E la gente che ha letteralmente invaso la camera ardente per dare l’ultimo saluto al proprio idolo? E la madre che piange accanto al feretro? E il suo volto stampato sulle magliette rosse dei giovani di sinistra durante le manifestazioni contro il governo?”

“Pura strumentalizzazione! Io dovevo morire e basta!” - controbatteva inesorabile.

“…E il discorso pronunciato dal suo amico e compa-gno di battaglia, Rodriguez De La Rua, durante la veglia solenne in memoria del Generale in Plaza de la Revoluciòn il 18 Ottobre 1967 ?”

“…E’ stato lei a chiedermi se credo nei sosia, ve-ro?... E la risposta è sì ! Ci credo: perché le foto a cui accennava lei prima non ritraevano il sottoscritto, bensì il mio sosia Josè Carriò ucciso per errore dall’esercito regolare che ancora resisteva ad est di Partagas; credendo che fossi io, non hanno atteso nemmeno l’ordine dei superiori per aprire il fuoco… I nostri compagni guerriglieri ci prendevano spesso in giro, durante i bivacchi, per la nostra sconvolgente somiglianza… Era un buon soldato ed è morto per causa mia, come molti altri durante quei giorni tu-multuosi!”

“…Ma perché tenere nascosto l’errore? Perché non continuare la rivoluzione? Perché sparire in quel mo-

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do come se la battaglia fosse persa… Partagas oggi è vostra! Stretta nella morsa di un assurdo embargo, è vero, ma pur sempre rivoluzionaria e socialista… Avete infiammato gli animi dei torcedores e poi siete sparito… Perché, Generale? Avete dato un esempio unico al mondo di resistenza anticoloniale e antimpe-rialista… Perché sparire così?”

Il sarto non aveva più il sorriso iniziale e cercò una sedia… Si sedette… Non rispose subito ma, gustan-dosi l’altra metà della sigaretta, si guardò a lungo nello specchio mentre i suoi occhi normalmente umi-dicci, sembravano essere diventati improvvisamente secchi, stretti, sgonfi e ringiovaniti.

“Dovevo morire, amico mio…” - riprendendo final-mente il discorso. “…La revoluciòn era già morta sul nascere… Era cominciata, come ogni altra "buona" insurrezione della storia, tra i migliori propositi e le più fulgide speranze… Sai, prima della rivoluzione anche io ero un torcedor…”

“Sì, lo so… Ho letto molto su di lei durante il mio dottorato all’università!”

“…E l’esperienza di lavorare per conto di un padro-ne amico degli yankee, confezionando sigari che sareb-bero stati poi gustati in qualche ranch del Texas da petrolieri obesi, razzisti e guerrafondai, è stata l’e-sperienza più dolorosa della mia vita…” Ci fu un attimo di silenzio. Il sarto si alzò dalla sedia e aprendo il cassetto di un vecchio mobile, tirò fuori un pezzo di sigaro. Lo accese e, come se avesse atteso l’occa-sione giusta per fumarselo, aspirò soddisfatto la pri-ma boccata in nome dei bei tempi. Naturalmente non era un “Partagas” risalente all'epoca… Il tempo non avrebbe permesso una simile attesa; ma il vecchio sarto, tra un pantalone e una giacca da accorciare, non disdegnava, di tanto in tanto, l’acquisto di un buon sigaro. Il soppalco fu invaso dal fumo denso dell'aromatica combustione mentre il Generale ripre-se il filo dei ricordi facendolo passare attraverso la cruna della memoria: “…Fu durante quegli anni che maturai, insieme ad altri compagni di lavoro, l’idea di una Rivoluzione; l’utopia di un’economia locale ed autonoma, di un sistema agricolo e industriale indi-pendente dai canali obbligati della supremazia norda-mericana. All’inizio non pensavamo all'uso delle armi

perché speravamo nella lungimiranza dei nostri governanti che, se pur corrotti, non erano tanto stupidi da escludere a priori un facile arricchimen-to proveniente da una solida economia partagas-siana. Ma non andò così… Le repressioni non tardarono ad arrivare e molti torcedores, con le loro stesse famiglie, furono vittime della crudeltà del Presidente Curreros… Quel maledetto por-co, leccapiedi, schiavo degli americani…!” “Sì… Ma in un secondo momento, dopo che l’ Esercito dei torcedores si rifugiò sulle montagne di Partagas, la popolazione capì l’importanza della vostra rivolta e fu da quel preciso istante che co-minciaste a vincere… O mi sbaglio?”- imponen-domi con entusiasmo. E mentre il sarto cercava di riaccendere il pezzo di sigaro con boccate piccole e veloci, continuavo: “Ancora oggi mi vengono i brividi quando sento la registrazione della sua voce durante lo storico annuncio, dai microfoni della “Radio Liberata di Partagas”, che la Rivolu-zione era vincente e che la popolazione sovrana era riuscita a sconfiggere la classe politica filoame-ricana… C’erano ancora alcune sacche di resi-stenza ad est, ma Partagas era finalmente in mano ai torcedores…” Riacquistando un’aria perplessa, ritornai sui punti dolenti: “…Ma allora, perché fuggire? Perché sparire in quel modo? Non capi-sco…”Stanco della mia insistente curiosità storica, il sarto volle darmi un esempio di arte oratoria. Erano anni che la sua ideologia orante aveva la-sciato il posto alle lunghe giornate di silenzio in quell’esilio di grucce e cotone. Era un po’ arrug-ginito, ma…: “Hoy represento al pasado … No me puedo conformar!” (4)

“Sì, ma parli in italiano… Altrimenti i miei Letto-ri non la capiscono e sono costretto a venirle die-tro con un numero infinito di note a piè di pagi-na!”

“Mi scusi Meis…!”

“Di nulla, capita…!”

(Avete assistito ad un breve dialogo tecnico tra l’-Autore ed uno dei suoi personaggi che, essendo dotato di vita autonoma, crede di poter dire qua-lunque cosa e in qualsiasi lingua nei racconti scritti

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dagli altri. Ogni tanto bisogna riportarli all’ordi-ne! Mi scuso per l’interruzione. N.d.A.)

“La Rivoluzione era già strumentalizzata nel mo-mento stesso del suo acme… Non so come spie-garglielo… Le motivazioni erano giuste e la po-polazione aveva veramente bisogno di un cambia-mento radicale della politica e delle condizioni di vita. Dai campi di tabacco fino ai quartieri in stile coloniale di Partagas, si sentiva la pesantezza di un ruolo impostoci dal passato e dai continui com-promessi stipulati, senza il nostro parere, tra la classe politica latifondista partagassiana e i signori americani… Ma qualcosa non andava… Sentivo che la Rivoluzione non avrebbe estirpato la Febbre di Potere dalle viscere dell’essere umano e che anche il mio - come lo definisce lei ingenuamente - “amico”, Rodriguez De La Rua, era già corrotto fin dai tempi della costituzione dell’Esercito dei torcedores. Quando parlo di corruzione non mi riferisco alla corruzione monetaria e materiale, non mi fraintenda… La corruzione è qualcosa che va oltre le ideologie e le rivoluzioni. Va oltre i conti in Svizzera e i "paradisi fiscali"… E’ parte integrante della cosiddetta “natura umana”… La corruzione è il naturale esaurimento del fuoco ideologico; è la visione di un mondo più giusto ma paurosamente simile a quello che ci si è affan-nati a ribaltare; è l’illusione di un cambiamento che avviene con mezzi troppo simili a quelli con-tro cui si combatte…”

Il pezzo di sigaro era ridotto al minimo e presto lo avrebbe spento schiacciandolo nel posacenere.

“Ebbi paura di portare a termine la revoluciòn pur essendone l’ideatore e, come diceva lei prima, l’istigatore… Sentivo, con largo anticipo, che i cambiamenti sarebbero stati solo superficiali e non avrebbero scalfito nemmeno un pò i sistemi profondi dell’eterna istintività umana…” “Amavo la mia gente e vedevo con i miei occhi gli effetti della sommossa. Tutta la popolazione si sentiva non più schiacciata, ma parte attiva del proprio destino economico e sociale. Tutti stretti intorno ad un unico grande fuoco.” E con piglio dissacra-torio, aggiunse: “La gente ha bisogno di un ideale

in cui credere e non importa se a fornirglielo sia Gesù Cristo o il Generale Antonio Louis Garzia Farinas… Fu proprio questo passaggio a spaventarmi: se la gen-te aveva tanto bisogno di un cambiamento, perché aspettare un torcedor per avviare quel necessario pro-cesso di ribellione? Perché la gente, una volta rag-giunto lo scopo della sommossa, si affida nuovamente al “sonno dell’anima”? Perché l’essere umano sente questo impellente bisogno di stravolgimento a cui non segue, però, una continua e doverosa presa di coscienza? La vera Rivoluzione comincia da "dentro" e non credo che a Partagas sia mai approdata una tale rivoluzione...! Non volli infrangere quel sogno sca-tenato con le mie stesse mani e così approfittai del mortale equivoco che colpì il mio sosia ed uscii di scena. Naturalmente al mio “amico” Rodriguez non sembrò vera una tale occasione per poter vivere da solo la gloria della Rivoluzione e il futuro magnifico che avrebbe avvolto Partagas di lì a poco. E poi avere un amico martire da ricordare in ogni occasione uffi-ciale, fa sempre comodo… Quante fiaccolate in mio onore, quante veglie per il Generale, quante statue disseminate in tutta Partagas con la mia faccia, quante canzoni che parlano di me… E le poesie, i quadri, i romanzi, le magliette, le bandane, i cappelli, le scrit-te sui muri, gli striscioni, le bandiere, gli scioperi col mio nome ovunque… Pura strumentalizzazione, amico mio! Pura strumentalizzazione…”

Sembrava avvilito nel ricordare queste cose, ma non gli davo tregua e così ripresi a chiedere: “…Lei… Pensa di soffrire della Sindrome del Messia Laico?”

“E… E che sarebbe questa sindrome?”

“Colpisce tutti i rivoluzionari genuini che pur aman-do in modo viscerale la propria gente e la causa della revoluciòn - come dice lei - non fanno, ahimè, i conti con una componente atavica appartenente al genere umano fin dall’alba dell’ homo sapiens…!”

“E quale sarebbe questa componente?”

“L’egoismo… Mon gènèral! L’egoismo…”

“Adesso non cominci lei ad usare il francese, pe-rò…!”

“Ops, mi scusi!”

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“Io fuggii dall’egoismo della mia gente… E’ vero! Ma in realtà non facevo nient’altro che assecondare il mio egoismo…! E poi le ho già detto, prima, che avevo avuto sentore di corruzione... Ed il passo tra egoismo e corruzione è fin troppo breve!”

“Bell’intreccio!”

“Lei, però..." - riprese "Cigarillos" - "...ancora non mi ha rivolto una domanda che io ritengo fondamentale al fine di una seria ed approfondita ricerca storica… An-che se lei è venuto qui principalmente per farsi imbasti-re i pantaloni!”

“E quale sarebbe questa domanda?”- chiesi con sospet-to, realizzando chiaramente come il ruolo inquisitorio, che mi ero faticosamente ricavato, stesse passando nel-le mani del sarto.

“Il passaggio da condottiero di una rivoluzione sociali-sta sudamericana a sarto di una tranquilla cittadina ita-liana…! Da torcedor a “cucitor” - mi lasci passare la battu-ta!”

“Passi pure… E’ vero, ma ci sarei arrivato!... Alla do-manda… Ma visto che se l’è già formulata da solo, risponda pure…!”

“Saltare dalla rivoluzione armata alla macchina da cuci-re non è stato facile, ma riuscii a riconoscere in questa apparentemente umile e silenziosa professione - quella del sarto - una analogia filosofica con ciò che avevo lasciato a Partagas.”

“Analogia filosofica? Abbiamo un generale platonico…”

“Tenga a freno il suo sarcasmo e mi segua!”

“Certo, continui pure…”

“Se lei, invece di preoccuparsi della pancia, dedicasse un po’ più di attenzione agli intimi meccanismi della vita e alle imperscrutabili analogie che tengono insieme il mondo, forse sarebbe un uomo più consapevole e, chissà, più felice…”

Aveva ragione, ma non gli diedi soddisfazione.

“In realtà non c’è nessuna differenza tra il torcedor e il sarto: entrambi ripiegano qualcosa. Il torcedor ripiega e taglia foglie di tabacco per il piacere dei fumatori, mentre il sarto ripiega e taglia tessuto per il piacere degli elegantoni come lei… Mi segue?”

“Più o meno…! Ma che centra con la revoluciòn?”

“Un attimo, ci sto arrivando!… Cosa impedisce ad un sarto di organizzare una rivoluzione qui a Rionero?”

“Mah… Non saprei… Il troppo lavoro?”

“Ma cosa va dicendo!? Lei se ne intende di rivolu-zioni come un cavallo di algebra…!”

“Non incominciamo ad offendere.

Me lo dica lei, allora, Signor so-tutto-io-della- rivo-luzione-al-punto-tale-che-me-la-sono-svignata-sul-più-bello!

“Come…? Parli più piano…”

“Niente… Continui… Mi dice cosa glielo impedi-sce?”

“Il benessere, amico mio!”

“Ma se a Partagas non c’era il benessere, allora perché ha deciso di abbandonare una rivoluzione che sarebbe sicuramente riuscita? Visto che è il benessere a frenare le sommosse? Si può sapere che cosa vuole lei dalla gente? Se ci sono i presup-posti per una rivoluzione, lei che fa…? Si alza e abbandona il campo di battaglia proprio nel mo-mento della vittoria. Se non ci sono, allora si la-menta perché c’è troppo benessere per farla… Ma insomma! E’ proprio sicuro che tutto graviti intorno alla ricchezza di un popolo?”

“Quando decide di usare la materia grigia, vedo che è in grado di mettere in difficoltà il suo inter-locutore… Ma ho una risposta anche per la sua legittima perplessità…!”

“Sentiamo…!”

“Lei confonde il benessere con la coscienza!”

“Cioè?”

“Anzi, le dirò di più: voi cattolici..."

"Intendiamoci subito su un punto: io sono cattoco-munista. E ci tengo a precisarlo!"

"...Insomma: voi cattoqualcosa confondete ulte-riormente la coscienza con la Coscienza… Come se tutto ciò che proviene dall’umano pensiero

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fosse frutto di un dono divino… Per fare una ri-voluzione a me basterebbe la coscienza - quella con la “c” minuscola - non chiedo chissà quale presupposto… A Partagas avevamo il "bisogno materiale", l’impellente necessità di una rivolu-zione, ma non avevamo sufficiente coscienza per gestire il futuro… Ed infatti oggi Partagas non è nient’altro, si fa per dire, che un’esotica dittatura piena di belle donne, rhum e sigari, sognata dai vostri pseudointellettuali rivoluzionari di sinistra che non si sono mai mossi dalle loro fabbriche in eterna vertenza sindacale e dalle “okkupazioni” di vespai condominiali in cui organizzano “comitati pro-Chiapas” senza sapere dov’è!”

“Dov’è... cosa?”

“Il Chiapas…! Si svegli!” - puntualizzò impazien-te.

“Voi, invece, avreste la possibilità di risvegliare la vostra coscienza con i mezzi e le potenzialità di una società culturalmente e tecnologicamente avanzata, ma non lo fate! Avete la possibilità di conoscere cosa succede nel mondo, ma usate la televisione solo per vedere le partite di pallone; potete comprare un biglietto aereo a prezzi strac-ciati su internet, ma viaggiate solo per seguire la vostra squadra del cuore in trasferta o per andare a mettere il culo nel mare di qualche villaggio turistico in Oceania; potete stampare tutti i gior-nali che volete senza essere fucilati o dimenticati in qualche carcere in attesa di morire, ma trascor-rete il vostro prepensionamento mentale con la testa immersa nel Corriere dello Sport…”

“Secondo me è lei che confonde la coscienza con la necessità!”

“Si spieghi meglio, figliolo!”

“E dalle cò sto figliolo…!" - protestai - "La co-scienza è stimolata dalla necessità, ma coscienza e necessità - come spero si sia accorto - non sono la stessa cosa… Perché pretende che la gente di Rionero si metta a fare la rivoluzione proprio ora che ha raggiunto un certo benessere?... E non mi chiami figliolo!”

“Perché figl…? Vorrebbe dire che a Rionero in

passato non ci sono mai state rivolte popolari o som-mosse di alcun genere?”

“Non mi insegni la storia di un posto che conosco meglio di lei, la prego! Conosco bene le capacità ri-voluzionarie di questa gente e saperle in quiescenza, non le nascondo, mi infastidisce…!”

“Aaah! Oye se quema, se quema! (5) Ma allora lei mi da ragione, caro il mio storico pancione!”

“No, ferma, stop, buono…! Ottima la rima, un po’ meno il contenuto!”

“Anche lei sente il bisogno di risvegliare questa gen-te!”

“Manca l’analisi e poi non c’ho l’elmetto!” (6)

“Ma che fa? Ora si mette a rubare le battute di Ven-ditti?

“Una piccola digressione sul pensiero dei cantautori!”

“La pianti una volta per tutte e finisca la sua tesi…! Non vede che pian piano si avvicina al mio pensiero?” - il vecchietto sembrava aver riacquistato il suo antico carisma da “generale del popolo”. Ritornai serio.

“Chi le ha mai detto che il mio pensiero è lontano dal suo? Abbiamo sicuramente età ed esperienze diffe-renti e poi, stento ancora a crederci, lei è un pezzo di storia vivente, nascosto qui a Rionero… Mi dia alme-no il tempo di riorganizzare le idee… E visto che c'è, mi dia anche un pizzico per assicurarmi di essere sve-glio!”

“Ay candela me quemo aé! (7) Non credo che vivrò an-cora a lungo e speravo, prima di andarmene, di poter vivere una vera revoluciòn in cui coscienza e necessità fossero entrambe presenti sulle barricate… Ma l’uo-mo è come una fiamma nel vento… Amico mio! Vivrò i miei ultimi giorni col rimorso di non aver vissuto la mia rivoluzione quando ero abbastanza gio-vane per poterlo fare… Sono stato uno sciocco idea-lista e morirò durante un’inutile attesa. La coscienza è assopita dal benessere ed io non posso pretendere di far tornare questo paese nel medioevo, solo per riscoprire la necessità di fare la mia stupida rivoluzio-ne.”

“Non sia così pessimista! E’ sicuro che non ci sia

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un’altra strada in questa sua spietata analisi storica?”

“Sono anni che la cerco… Se lei è tanto bravo, si fac-cia avanti con la sua teoria… L’ascolto!”

“Quando prima mi riferivo alle capacità rivoluzionarie dei rioneresi, non intendevo dire che oggi ci sono gli stessi fattori predisponenti dei moti studentesco-proletari degli anni ’60 e ’70 e né tanto meno le con-dizioni per una nuova “rivoluzione delle pezze al culo” in stile Carmine Donatelli Crocco… La gente cambia e - le piaccia o no, carissimo Generale Farinas - cambia-no anche le necessità. Se prima si combatteva per la chiusura di una fabbrica, oggi si combatte per l’apertu-ra… Sa, la storia dell’inquinamento e del cosiddetto “progresso ecosostenibile”…? Il problema non è rico-noscibile nella mancanza di coordinamento tra neces-sità e coscienza, come asseriva poco fa, ma nella “quasi totale assenza di una coscienza!”

“Caspita… Ed io sarei il pessimista?” - disse preoccu-pato il sarto.

“Per assopire una coscienza, si presuppone l’esistenza di una coscienza da assopire… Mi segue Signor Gene-rale?”

“A stento… Ma prosegua, la prego!”

“Il problema della coscienza assopita presuppone solo due possibili approcci: o c’è una piccolissima fetta di coscienza ancora sveglia che si rende conto della si-tuazione attuale, oppure - come io penso, mio caro Generale - la coscienza è talmente poco sviluppata che è impossibile assopirla. Sarebbe come sparare su un paziente in coma!”

“Non c’è speranza, solo tristes recuerdos de tradicio-nes!” (8)

“Ed è qui che si sbaglia ancora una volta, Signor Fari-nas… Ed è in questo punto preciso che lei ripete, dopo decenni di solitudine, lo stesso identico errore commesso a Partagas negli anni ’60… Se lei mi avesse incontrato durante la Rivoluzione dei torcedores, non si ritroverebbe a fare il sarto a Rionero, ma sarebbe diventato il “Comandante” di Partagas. Anche se, a pensarci bene, forse, non se lo sarebbe nemmeno meritato… Se lei a distanza di decenni mi cade sempre sulla stessa questione, allora vuol dire che, proprio,

non era degno di essere il Generale del Popolo… Allora, questa piega?”

“Faccia poco lo spiritoso e finisca di dire ciò che ha cominciato a dire…!”

“Uffà! Ma non dovrebbe essere lei a darmi lezioni di storia e di coscienza storica?”

“Poche storie, sennò addio piega!”

“Calma, calma: la piega mi serve per domani… Non facciamo scherzi! Va bene?… Le spiego: bisogna saper riconoscere, in ogni epoca storica, il grado di coscienza sviluppato durante il periodo che abbiamo il privilegio di vivere… (E già questa operazione risulterebbe alquanto indaginosa!). Una volta fatto il bilancio delle potenzialità di questa benedetta coscienza, bisogna regolarsi in base ai risultati. Lei, all’epoca di Partagas, preten-deva di fare la rivoluzione e contemporaneamente di migliorare la coscienza della sua gente… Erro-re madornale! Prima si preparano e si risvegliano le coscienze tramite la poesia, la scrittura, l'arte nel suo più ampio significato,..."

"La poesia, la scrittura...? Ma ne è sicuro?... E le armi, le pattuglie di guerriglieri, gli esplosivi?" - si affrettò a correggermi il Generale, forse perchè colto in pieno nella sua passione per le strategie paramilitari .

"...Mi lasci concludere!... E solo dopo si scatena-no le rivoluzioni… Ogni sommossa che si rispetti c'ha i suoi meditati fattori predisponenti e i suoi tempi prodromici... Poco fa non ha affermato che la rivoluzione comincia da “dentro”? Poiché, in cuor suo, si era accorto dell’errore, ha pensato bene di gettare la spugna ed ora viene qui a Rio-nero pretendendo di risvegliare le coscienze dei rioneresi…?”

“Non ho mai preteso tutto ciò…!”

“Ma lo stava ipotizzando poco fa…! Non può negarlo!”

“Sì… Forse, un pochino!”

“Generale, Generale…! Ma ha visto bene in quali acque navighiamo qui in Italia? Altro che coscien-za e necessità: qui bisognerebbe ricostruire tutto

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daccapo… Cominciando dai partiti!”

“I partiti? E che centrano?”

“Generà!!! Ma lei da quanto tempo non esce dalla sartoria? Non ha notato come è ridotta la Sinistra in questo paese?

“La Sinistra… E la Destra dove la mettiamo?”

“Analizziamo uno schieramento alla volta, Signor Generale!”

“Mi scusi, faccia pure…”

“Grazie! Sorvoliamo sulla degenerazione degli orga-ni centrali della Sinistra… Sarebbe più facile comporre un puzzle di un milione di pezzi! La "gente di sinistra" ancora si salva, almeno nelle intenzioni e nonostante la confusione in cui è co-stretta a vivere la propria appartenenza politica... Ma c'è una buona fetta di "popolazione rossa" che lascia molto a desiderare... La Sinistra "alternativa", che avrebbe dovuto creare una co-scienza popolare, è stata fagocitata dal "calderone" immenso dell' Immagine che mercifica il pensiero. Gli ultimi rantoli, travestiti da finta evoluzione, sono rappresentati dai continui cambi di sigla e di simboli... Patetici! A volte verrebbe voglia di votare a Destra! In passato sicuramente la Sinistra ha smosso gli animi di molti cittadini e le battaglie che ne scaturirono fecero la differenza storica nel nostro paese. Ma oggi il "popolo" pre-ferisce seguire un tipo di governo che non gli procuri fastidi inducendolo a faticose prese di coscienza; e stando bene attento a non perdere di vista chi promette vita facile e assurde "formule aziendali" annebbiate da ottimistiche propagande televisive. Contenti loro...! L'importante è assi-curargli un buon "campo" sui telefonini e la "tredicesima" a fine anno! Cercare di capire il perchè delle cose è secondario...! Il simbolismo tec-nocratico e pseudoideologico ha decisamente scavalcato il bisogno intimo di una ricerca so-bria... E se all'alienazione ideologica sommiamo la "naturale" chiusura mentale di certi cosiddetti "comunisti", i quali si vantano di una elitaria e presunta logica materialista che in realtà nasconde solo una squallida pochezza spirituale capace di

danneggiare il potenziale umano ed ideologico del-l'ormai defunto Partito Comunista, i conti tornano sul perchè dell'evidente fallimento politico.

Vi siete mai fatto un giro nei cortei della Sinistra? A parte le magliette e gli striscioni con la vostra faccia stampata nero su rosso…”

“La mia faccia da giovane…? Oggi solo lei mi ha rico-nosciuto nonostante la vecchiaia!”

“La sua faccia nera su drappi rossi… Che bello! Ma se vedesse i tipi che la portano in giro, scommetto che vorrebbe scomparire anche da sopra quei drappi…! Altro che strumentalizzazione e corruzione!”

“Perché… Chi è che mi porta in giro?”

“A parte il fatto che non esistono più da diversi anni i presupposti per definirsi di sinistra, perché manca - ecco che ritorna - la necessità che una volta spingeva la gente verso un sano e genuino sentimento comuni-sta… Non nel senso di partito comunista, ma di messa in comune delle necessità.

Oggi invece nei cortei vedi scorazzare, per la mag-gior parte, giovani fricchettoni viziati e figli ribelli di stimati professionisti e noti imprenditori metropoli-tani che hanno scambiato il comunismo per una "moda"… Figlie di "buona famiglia" con i capelli “dreadlocks” e il blocchetto degli assegni del padre capitalista nella borsetta comprata in un mercatino peruviano durante l'ultimo raduno internazionale dei "no global"; distruttori di città che sfogano antiche frustrazioni familiari e sociali sublimandole in una triste pseudo-politica da strada; ricchi artisti - forzata-mente poveri - in cerca di fortuna per espiare i sensi di colpa derivanti da una fastidiosa ricchezza eredita-ta; piccolo borghesi travestiti da missionari laici che inneggiano ai diritti universali; pseudointellettuali snob con foulard di seta rossa che sculettano tra una mostra di pittura ed un sit-in per far vedere di essere engagé; subpopolazioni di esseri socialmente indecisi i quali pensano di essere di sinistra solo perchè parlano male del governo e che invece non sono niente !”

“Socialismo o muerte!”

“Appunto, Generale: molti pensano di aver scelto il socialismo, ma appartengono già alla morte…Non

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alla morte fisica, ma a quella politica e ideologica!”

“Che situazione, muchacho!”

“Lei, Generale, ha scelto l’autoesilio e forse, ripen-sandoci, ha fatto bene…! Ma è proprio convinto che sia arrivato il momento per lei di riprendere il discor-so sulla rivoluzione… con gente simile?”

“Ecco… Io, veramente…”

“Mi dia retta… Si goda la sartoria e la vecchiaia… Si legga un buon libro e lasci che la portino nei cortei… Tanto a lei non costa nulla!”

“Come la vuole la piega? Alla francese o normale?”

“Faccia lei, Generale… In questo è più esperto di me!”

“Venga a ritirare il pantalone domani sera!”

“A domani sera, allora... Hasta siempre, Comandante!”

1) Catador: chi vive e lavora per strada racco-gliendo spazzatura riciclabile e rivendendola a depositi e magazzini.

2) “…E a voce alta, Socialismo o morte!”: slogan rivoluzionario cubano.

3) “Ma lei può sentire il pianto della sua patria… Lei ha lasciato ogni cosa, ha bruciato tutto… E’ la sua vita, la sua religione”: tratto da “La Bayamesa” di Sindo Garay (1869); interpretata da Ibrahim Ferrer e Compay Segundo in “Buena Vista So-cial Club” di Ry Cooder.

4) “Ora io sono la storia. Non posso oppormi al cam-biamento”: tratto da “Veinte Años” di Marìa Te-resa Vera; interpretata da Omara Portuondo in “Buena Vista Social Club” di Ry Cooder.

5) “Senti, sta bruciando, sta bruciando!”: tratto da “Candela” di Faustino Oramas; interpretata da Ibrahim Ferrer ed Eliades Ochoa in “Buena Vi-sta Social Club” di Ry Cooder.

6) Tratto dal brano “Bomba o non bomba” di An-tonello Venditti; “Sotto Il Segno Dei Pesci” (1978)

7) “Oh fuoco, mi sono bruciato!” : tratto da “Candela”; vedi nota 5

8) “Tristi ricordi del passato”: tratto da “La Baya-mesa”; vedi nota 3 8) “Tristi ricordi del passato”: tratto da “La Baya-mesa”; vedi nota 3

7) “Oh fuoco, mi sono bruciato!” : tratto da “Candela”; vedi nota 5

6) Tratto dal brano “Bomba o non bomba” di An-tonello Venditti; “Sotto Il Segno Dei Pesci” (1978)

5) “Senti, sta bruciando, sta bruciando!”: tratto da “Candela” di Faustino Oramas; interpretata da Ibrahim Ferrer ed Eliades Ochoa in “Buena Vi-sta Social Club” di Ry Cooder.

4) “Ora io sono la storia. Non posso oppormi al cam-biamento”: tratto da “Veinte Años” di Marìa Te-resa Vera; interpretata da Omara Portuondo in “Buena Vista Social Club” di Ry Cooder.

3) “Ma lei può sentire il pianto della sua patria… Lei ha lasciato ogni cosa, ha bruciato tutto… E’ la sua vita, la sua religione”: tratto da “La Bayamesa” di Sindo Garay (1869); interpretata da Ibrahim Ferrer e Compay Segundo in “Buena Vista So-cial Club” di Ry Cooder.

2) “…E a voce alta, Socialismo o morte!”: slogan rivoluzionario cubano.

1) Catador: chi vive e lavora per strada racco-gliendo spazzatura riciclabile e rivendendola a depositi e magazzini.

Disegno di M

arco Vecchio

Note

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Storia di Odili

e dei suoi due figli

E’ difficile raccogliere una tradizione portarla lontano chiusa da un nodo

su strade improvvise oltre linee di frontiera con le luci dei villaggi che aspettano nelle valli sciogliere un telo sul selciato sconnesso ammiccare indulgenza all’umore di guardia suonare una terra ormai troppo cambiata. Giovani clienti in cerca di spezie zingari entusiasti per qualche tempo musicisti per qualche istante attratti dalle forme di strumenti esotici venduti per poco da un “buon selvaggio” su un telo stramato. Una notte lungo la costa trovai i soldi per farli passare i miei figli sbalzati da un gommone nell’acqua scura come pelle corpi tremanti impazziti di paura che strinsi a fatica nelle coperte ed al cuore correte oltre le dune lungo la spiaggia qualcuno galleggia contro il fondale

con gli occhi vitrei e la bocca nell’acqua ad ogni mareggiata li raccolgono con lunghi uncini per coprirne lo sguardo con teli neri. Carovane di clandestini risalgono l’Africa sul“sentiero dei piedi” costretti a sostare nei villaggi del deserto dove la pelle scolora ed i migranti da sud sono “negri di merda” sperando di rastrellare un passaggio nel ventre dei camion cisterna che arrancano tossendo verso il mare. Ci presero e sedemmo in terra lungo la banchina in cemento ci presero e ronzarono intorno per mescolare la nostra paura gli anziani parlano per proverbi gli anziani dicono che “il sole splenderà su quelli in piedi prima di splendere su chi sta in ginocchio alla sua ombra” Recintati a reticolo ci chiusero in un campo per evitare il contagio “I nomi non bastano, la tua parola non conta serve tempo per accertare le vostre identità non resterete comunque

Poesie

di Davide Dalmiglio

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una terra scomparsa altri sono partiti lungo rotte meno intasate con luci e suoni più freschi nella sabbia umida o sbarcati da un peschereccio traforato a ruggine. Ormai nessuno compra strumenti spaccio la loro musica chiusa in buste quadrate protetta dal vento con due elastici in croce siedo lungo i marciapiede ammiccando ai passanti distratti sull’orlo delle stazioni scruto il mio viso nello specchio sopra il lavabo conto il denaro all’ombra di un incrocio ed aspetto i miei figli spediti sulle corriere a suonare vecchi valzer stonati. Clacson generosi attorno ad un semaforo portiere ermetiche smorfie da mendicanti secchi di schiuma aree di sosta forzata trasformate in nuove economie un sogno di libera impresa.

Storia di Alvaro gli ultimi giorni

In prossimità di un funerale la collina si fa verde e gli abiti più scuri gli uomini maledicono il morto con i piedi affondati

più di due mesi” ripetevano spesso i soldati nel campo spiando le intenzioni nella fila di corpi affilati. I miei figli mi guardavano fissi la parola di un padre tra la mia gente non può portare menzogna aspettammo per giorni ciondolando a serpentina sulla terra dura dello spiazzo con i pensieri atrofizzati fra le latrine ed i piantoni fu soltanto nella confusione di una rissa trasformata in rivolta che li presi per mano e ci aprimmo un varco dietro un paio di tronchesi. Una notte bluastra con grigio giallo di grano tre volti taglienti dal fiato spezzato una rincorsa nel tempo attutita dai campi un viaggio interrotto che domanda fortuna il vento che rotola fra i nostri passi giocando a raccontare la fuga. Trovai riparo in un palazzo squassato dietro la stazione tubature crinate ed un pavimento rossiccio pareti gialle fiorite a lividi viola straniero tra la mia gente canto ormai

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nel cuoio bagnato una bambina irriga il prato ruotando a girandola il suo ombrello freddo teso contro il corpo dell’officiante schiaccia la tunica disegnando un profilo d’uomo fra le gambe asciutte e negli occhi umidi delle convenute. Gli ultimi mesi spesi sulla riva della branda nell’edificio geometrico del sanatorio pubblico illudendosi di consolare il cuore fumando brace fino alle dita nascosto all’attenzione dei camici con le braccia in grembo palpando incredulo un grumo di cellule dure come se l’ombra corta del suo orizzonte aspettasse solo la prima luce per sciogliere il cerchio dei passi lungo il linoleum consunto della rampa d’uscita lasciarlo oltre le porte scorrevoli a serpeggiare fra le ambulanze strappandosi dallo stomaco quel polipo impazzito osservava la barriera verde acqua del pannolone le cosce magre appena sotto persuaso impaurito forse ancora in piedi libero dal velcro bianco di quella gabbia con le spalliere smaltate. Sua figlia assopita nella sedia aveva smesso lo sguardo ottuso delle ultime ore ed il penoso carosello delle convenienze

appesantita tracimata dormiva spesso con la testa reclinata verso il muro e la tracolla della borsa scivolata al gomito per mostrare l’imbottitura pagine appallottolate il suo primo, ingenuo lavoro di censura fra le colone dei quotidiani in bella mostra sul comodino lucido. I sogni di Alvaro chiusi appena dietro l’angolo consumati fra gli stampi chiassosi per laminati metallici di una siderurgia come tante tornando alla sera srotolava i rullini impressi la domenica curvo sulle vasche dei reagenti aspettò a lungo lo scatto giusto ostinato come un mulo e rapito dal suo talento disgustato fra i suoi vicini. (...........) Le foto sono in mostra alla destra della pendola nel salotto incartato di fresco ora che i suoi occhi scuriscono poco a poco riconosce nel tramestio della corsia il trillo del telefono la risposta atona dell’impiegata ed il suo passo arrampicato sui tacchi lo squillare nervoso del centralino gli ricorda gli auricolari impigliati alle barbe e negli occhi dei suoi nipoti maschi rigidi e scomposti al suo capezzale fuori posto come le sedie a vite delle postazioni interinali dove se li figura a saggiare

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la formica compatta dei tavoli sagomati con i polpastrelli porosi. Il suo ultimo vezzo fu un colbacco di pile grigio ferro il vento teso che rotola fra gli abiti scuri prendendo la rincorsa dalle colline orientali le belle gambe di sua nipote tornite a pasta fine ed esibite nel giorno più triste ed il disagio dell’officiante inchiodato sotto la gonna.

Storia di Marta Circostanze, necessità e memoria

Le danze ed i canti dei nostri padri non sono legati a rime vistose un’ombra ordinata nascosta nel fiato un gesto scavato nel giro del sole. Marta guardava il suo amore partire la visiera su gli occhi la distanza di allora due gambe straniere ed un ventre eloquente la portiera che geme ed accoglie il suo peso. “Parti in fretta ricuci il tuo sguardo adegua i passi a quei capelli di fieno” d’istinto il vestito le cinse i fianchi

le gambe ben strette composte e sicure. Scomparve nell’auto costretto al guinzaglio torceva la testa voltandosi spesso i rimpianti non servono a consolare quel saluto tradito col vestito da festa. La guerra si accese sfumandone il viso scese in picchiata ad arare le piazze nei campi induriti fra le danze disperse il gelo soffiava a bruciare le porte. Negli ultimi sguardi fra uomini e donne non c’era più tempo per verificare migliaia di mani ogni giorno in coperta farfalle impazzite tracolle lucenti. Marta vestita di un nuovo candore prese un anello ad un uomo sudato lo vide partire nel tempo concesso esitando il saluto fra le case ed il porto. Il ricordo più vivo al suo ritorno è il fustagno rugoso di quei calzoni la nuca pulita e la stoffa graffiante

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lo slancio rimasto a gonfiarle il ventre. Le danze ed i canti dei nostri padri non sono legati a rime vistose un’ombra ordinata nascosta nel fiato un gesto scavato nel giro del sole.

Storia manifesto Appunti per la rivolta

Braccia ad elica ronzano la via gite dal fiato corto ricucite a sera in saltelli ritmati ironie disperanti accese sotto vetro nel rollio a buon mercato di bagliori d’oltreoceano claque in affitto arrampicate lungo i muri giravolte e mani serrate per non cedere il passo. Ho ballato questa piazza ridendo sui miti e leggende del cemento armato ho abbandonato le tribù accampate nelle aiuole tra fondali di cartapesta quando prodighi di trucchi li ho visti lanciare birilli colorati contro il cielo imprigionati in collari di conchiglie con due penne sintetiche fra il balsamo dei capelli. Serve un metodo un istanza critica

un progetto per comprendere e scrollarsi di dosso le scorie dell’incendio con una tracolla nuova d’utensili ritrovare zolle grasse fra le suole oltre il vuoto della pantomima cavare con le sgorbie un materasso spesso trucioli eventi minimi oltre la crisi raccontare senza righello oltre gli avanzi di una identità parco giochi che rimbalza fra un semaforo e l’altro.

Marco V

ecchio - tratto da “Icone di carta”

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“Ma come hai fatto a fidarti così, della prima venuta? Non dovevi neanche farla entrare!”

“E chi poteva immaginarselo? Fosse stata una ragaz-zotta che ciancicava gomma e parolacce…”

I suoi occhi annacquati di una stanchezza antica sem-brano rincorrere dentro la mente la figura che doveva essergli apparsa quel giorno.

“Invece… Una signora tanto per bene, un’aria pro-fessionale, con tanto di tailleur scuro e cartella da manager. E che modo di parlare… Ti incantava starla a sentire. Mi faceva le domande, amabilmente, intan-to che prendeva appunti. E poi, quando l’intervista si è conclusa, abbiamo preso un caffè e abbiamo conti-nuato a parlare del più e del meno, come vecchi ami-ci. E andata a finire che si è messa a mia disposizione per qualsiasi cosa mi potesse servire: che so, andarmi a fare la spesa, o pagarmi le bollette alla posta. O anche soltanto venire a trovarmi per fare due chiac-chiere, quando ne avevo voglia. E come resistere a tanto garbo? Senza contare che mi faceva anche co-modo. Lo sai, non ci vedo più tanto bene e poi, con i miei problemi alle gambe, andare in giro per negozi e uffici mi costa fatica. Ma soprattutto, sto sempre da solo... e vedere qualcuno ogni tanto, scambiare due parole…”

Un moto fulmineo di vergogna mi si staglia dentro. Sì, perché ho anch’io la mia parte di colpa per quello che è successo. Forse le cose sarebbero andate in mo-do diverso se solo avessi trovato il tempo di stargli un po’ più vicino, di farglielo sentire fino a che punto lui è importante per me.

“Così ha cominciato a venire sempre più spesso e a poco a poco mi sono reso conto…”

Abbassa per un attimo gli occhi. “…sì, che con lei stavo bene. Perché sai, Giorgio, con lei non mi senti-vo un vecchietto bisognoso d’assistenza. Parlavamo tanto, ci raccontavamo tante cose… Anche quelle di cui è più difficile parlare: quelle che ti passano den-tro la testa… e che ti rimangono dentro l’anima.”

Tace un istante, sembra ancora più pensoso.

“Finché un giorno mi ha detto quanto era difficile anche per lei vivere sola, dopo che il marito l’aveva lasciata per un’altra. Poverina… Era davvero tanto triste.

Pensa, le erano perfino spuntate le lacrime.”

Le parole si arrestano di nuovo.

“Eravamo qua sul divano e… mi è venuto spontaneo farle una carezza. No, non pensare male. Una carez-za innocente, da padre.”

Il tono adesso è quasi trasognato.

“Ho visto i suoi occhi diventare ancora più lucidi. Ha allungato la mano verso di me per ricambiare la carezza e poi… si è avvicinata un po’ di più e mi ha sfiorato le labbra con un bacio dolcissimo, casto.”

Il suo sguardo sembra ora smarrito in una fissità sognante.

“Cerca di capirmi, Giorgio. Alla mia età, dopo tanti anni di solitudine, sentire risvegliarsi sensazioni, sentimenti che credevo ormai perduti… Avvertire di nuovo il battito di un’emozione remota, risentire di colpo scorrere dentro la vita!”

Scuote la testa, sconsolato.

“Da quel giorno ho cominciato a contare le ore, nell’attesa che lei arrivasse. E lei non mi ha mai de-luso. Sempre più cara, sempre più dolce, con la pazienza che solo una donna davvero innamorata può avere con un uomo tanto più vecchio…”

Un lieve rossore gli colora appena le guance.

“…soprattutto in certi momenti.”

Ha chinato la testa e mi sembra ancora più affranto, più vinto. Mi fa tenerezza. Solo adesso riesco a sen-tire più caldo l’amore che forse non gli ho mai di-mostrato abbastanza.

Ma sento anche qualcos’altro di segno molto diver-so. Odio. Sì, odio allo stato puro!

Lo sento friggermi nelle viscere, premere dentro i pugni serrati, furiosi. Immobili.

Odio per quell’infame che, dopo aver fatto scempio dei sentimenti di un uomo solo e indifeso, non ave-va esitato a sparire nel nulla. Insieme al denaro che gli aveva estorto e agli oggetti di valore che era riu-scita a trafugare da casa.

La testa china mi sembra ancora più candida, ades-so. Ancora più stanca.

Quasi insensibilmente le dita, ancora serrate del

L’età tradita

di Maria Grazia Greco

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mio furore impotente, si aprono piano.

E non potrebbe essere più dolce la carezza che si posa sul volto di mio padre.

Nota bio-bibliografica

Maria Grazia Greco è nata a Roma nel 1954. Si è laureata in Lettere all’Università degli Studi di Roma La Sapienza discutendo una tesi di argo-mento etno-antropologico pubblicata nel 1983 ( Hopi: l’individuo come soggetto e come oggetto di rito – La Goliardica Editrice Universitaria).

Dirige l’Agenzia letteraria Mondolibro di Roma. Organizza e conduce corsi di scrittura creativa e comunicazione. Collabora con riviste culturali.

Ha partecipato a premi letterari per inediti conse-guendo numerosi riconoscimenti, tra i quali: Pre-mio Sykania 1997 (Giuria presieduta da Giuliano Manacorda); Premio Artemare 2000 di Riposto (CT); Concorso di letteratura giovanile Zaccaria Negroni 2001.

Diversi suoi racconti sono inseriti in volumi anto-logici.

Ha pubblicato, con la Serarcangeli ed., i romanzi:

-La stanza in fondo al tempo (Premio Cirò Marina 1997 per l’opera prima di narrativa, Premio La Pira 2003);

-Vite in gabbia (Premio Internazionale Frontiera 1998, Premio Speciale della Giuria Il Molinello 1999, Premio Giovanni Gronchi 2002- sezione speciale opere di alto contenuto sociale e umano);

-Le parole sono mie (Premio La Fonte – Città di Ca-serta 2001, Premio Città di Torino 2001, Premio Città di Avellino 2001, Premio Marco Pannunzio 2001);

-Vietato esistere – Monica G. una storia di mobbing;

-Dal territorio del diavolo (XXXI Premio di lettera-tura europea S.Benedetto).

Si è dedicata recentemente alla scrittura teatrale. La versione drammatica di L’età tradita ha parteci-

pato alla I Rassegna del corto teatrale tenutasi nel feb-braio scorso presso il Teatro Fara Nume di Roma. La versone drammatica di Dal territorio del diavolo verrà rappresentata nella prossima stagione presso lo stesso Teatro.

Attualmente sta lavorando a un progetto sulla vita e l’opera di Pier Paolo Pasolini.

Il racconto “L'età tradita” è stato segnalato per l a sez ione C del premio let terar io "Campagnola" (Padova) – XXIII edizione.

Marco Vecchio - tratto da “Icone di carta”

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Questo libro è dedicato a due bambine. La più grande ha due anni e sei lustri; la più gio-vane ha un anno in più e due lustri in meno. Se dopo aver risolto questo inaspettato proble-ma, la scoperta dell’età fa ancora sorridere, ag-giungo seriamente che ho cominciato a scrivere questo libro quando la seconda la portavo a spas-so con la carrozzina e la prima, invece di acco-darsi s’attardava a riempirsi di cioccolatini nel bar sottocasa e faceva finta di salutare un’amica per farmi credere che era quella la causa del suo ritardo. È colpa mia se sono cresciute e se c’è voluto tutto questo tempo per parlare di un bacio?

A Katia e Manuela,

Papà

PAROLE CON IL BACIO Breve è il corso che la vita ci dà. Come ai rigagnoli di pioggia; scivolano sull’eterna roccia che al sole s’asciuga la fronte. Il fuso del calore è un bacio. Possiamo rubarlo per il nostro benessere alla pioggia e alla roccia che si conten-dono l’eternità; per tramandarlo, presentarlo ai posteri. Che faranno i posteri chi lo sa? Però, se le montagne si salveranno dallo sprofondare negli oceani, e loro stessi non dovranno disputarsi una pozza d’acqua fangosa come fanno gl’ippopotami durante la siccità, e se qualcuno non perderà l’a-bitudine di baciare, vorrà dire che qualcosa dell’-abbuono attuale continuerà,e può anche darsi che migliorerà. Si arriverà persino a vedere i bambini nati dalla colonizzazione di Venere e di Marte,

scartare l’involucro dorato o argentato di un finis-simo cioccolato nostrano a forma di bocconcino e leggere la strisciolina di carta cerata con un afori-sma, una frase, breve e concisa, scelta apposta e scritta per invogliare, perseverare al bacio. Oppu-re si ricomincerà dai Primordi.

Gianfranco Proietti

Specchio d’acqua

è quest’anima;

fa cadere

goccia a goccia

la pioggia del tuo viso.

Ti ravviso

nel ticchettio dei baci.

°°°

L’amore

S’è addormentato

Quando lo baci

Sbadigliando.

°°°

Parole con il bacio

di Gianfranco Proietti (parte prima)

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Sei

nel tabarro che ho cucito,

l’ho cucito nell’abbraccio.

Butto forbici

ago e filo;

sei nelle maglie

strette del destino.

Dammi un bacio.

Non puoi fare altro.

°°°

Un bacio

che

ferisce

il labbro

è

un patto

di sangue.

°°°

Vuoi sapere

Che cos’è

Una poesia?

La tua presenza

Nella mia vita.

Ti penso.

La scrivo.

Metto una virgola

Dopo un bacio.

E col batticuore

Tra scogli e gomene

Lascio un bacio

Sottolineato

In un foglio d’invito.

°°°

In un bacio

Abbandonato

Già

S’è meditato

Il tradimento.

°°°

Un bacio

È

L’impiegato ideale

Nel pubblico

E nel privato.

°°°

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Se qualcuno

Si fosse azzardato

A venire

A darti un bacio

Fin lassù

Dove

Ti posi io,

Al centro

Dell’universo,

L’avrei ammazzato;

E se

Ci avesse provato

Ci avesse provato chi si crede dio

O di una casta privilegiata,

Anche loro

Avrei spazzato via.

°°°

Un Bacio

È come

La fortuna;

Se non lo cerchi

Non viene

A trovarti.

Gianfranco Proietti nasce e vive a Tivoli (RM); sposato, due figlie, di trenta e vent’anni… Nei dieci anni che appaiono inattivi, è stato membro attivo nel Nucleo Guardie Zoofile del Comune di Tivoli a titolo volontario e gratuito. Da sempre in contatto con la poesia, leggeva Ungaretti durante il servizio militare a Livorno, 1° RG.T. Paracadu-tisti “Folgore” (per questo motivo, forse, tiene chiuse in un cassetto bozze di racconti brevi, mol-to brevi e microstorie). Ha pubblicato due libri di poesie: “INTERNO DI RAGAZZO” e “A VISO APER-

TO”. Finalista nel 2001 al 2° Premio “Elsa Moran-te”; sezioni: poesia singola e raccolta di poesie. Quinto classificato al Premio “Parnaso” - anno 2004; sezione libro edito di poesie. Menzione speciale al Premio “La Tavolozza” - anno 2004. È presente nella “Biblioteca dell’Inedito” in CD. È inserito nella “Enciclopedia dell’Arte”, Carello Editore, volume “Realtà e Fantasia”.

Disegno di M

arco Vecchio

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26

Sulla Nuovissima poesia italiana

Incoraggia la presenza in libreria di un testo come la Nuovissima poesia italiana, edito da Oscar Mondadori. Incoraggia soprattutto chi legge e scrive poesie. La raccolta rafforza la convinzione di quanto l’interesse per i versi sia vivo, pur esi-stendo in condizioni diffi-cili. I curatori Maurizio Cucchi ed Antonio Riccar-di − a proposito dei giova-ni autori – scrivono di un mondo che non li incoraggia.

Nell ’ introduzione s i preoccupano di lasciare emergere alcuni tratti dei poeti che intendono pre-sentare, evitando esplicita-mente di tracciare dei sol-chi dove inserire tutto un improbabile movimento letterario.

Sottolineano quanto essi siano lontani da una qualsi-voglia operazione lettera-ria. È una generazione che racconta l’esperienza del mondo dentro la parola e dentro la forma varia della poesia, consapevoli che ben poche altre forme possano garantire un uguale spessore di testimonianza. Nel-l’incipit Cucchi e Riccardi si stupiscono – o fingo-no di farlo – di come un giovane, oggi così bom-bardato da messaggi, possa affidare il proprio fu-turo alla poesia. In un mondo che crea il bisogno dell’apparire, del successo rumoroso ed effimero, esistono dei giovani che cercano qualcosa di più sostanzioso, di più concreto. La loro ambizione è infatti molto alta, e dunque indifferente alla piccola ricompensa di un successo banale.

Il testo è così una bella testimonianza del corag-gio di affidare la propria storia alla poesia e di

questa che irrompe negli uomini sempre con grande intensità. Ma testimonia anche l’esistenza di un’attenzione ai linguaggi, alla costruzione di una struttura linguistica coerente, niente affatto lasciata alla fatalità del genio. È un altro aspetto confortante che emerge da questa generazione, la quale si trova nella condizione di ereditare una saturazione delle performance sperimentali e de-

costruzioniste; così il poe-ta si anima del desiderio di delineare dei campi poeti-ci dove ricostruire un lin-guaggio formale che dia il senso della specificità della poesia.

L’insistenza dei giovani nella ricerca della forma è il dato più esaltante che emerge dalla loro voce. Ma chi sono gli autori della Nuovissima poesia ita-liana? Sono un gruppo di diciotto poeti, una cam-pionatura si potrebbe defi-nire. Sono nati nel decen-nio 1970/1980. I nati negli anni Settanta, che hanno da raccontare, in particolar modo, il grande impegno a cercare di capi-re un ventennio denso di eventi e rapidamente in

movimento. Hanno anche il compito di sfuggire al banale etichettamento di chi – da parte del con-formismo − li vuole sbaragliati e non equipaggiati per farne merce plastica, modellabile; di chi – dalla parte di aristocratiche nostalgie borghesi di matrice anni ’70 − li definisce, invece, semplice-mente al di sotto di un idealizzato prototipo uma-no.

In verità il compito che essi hanno è un verdetto per la storia, certamente sarà qualcosa che s’in-treccia con una realtà sicura: il godimento che si prova dello scriver versi.

La recensione

di Fabio De Santis

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Saper leggere il libro del mondo

con parole cangianti e nessuna scrittura,

nei sentieri costretti in un palmo di mano

i segreti che fanno paura.

De Andrè-Fossati

Una zingara che legge il futuro nella nostra mano rappresenta l’immagine più spinta del determinismo; la previsione del futuro è sempre stata un’attrattiva molto presente nell’animo umano.

I metodi utilizzati per le previsioni dai nostri antenati sono stati assai vari; dalla strage di innocenti animali alla “lettura” dei fulmini, dalle magiche pietre dei pellerossa all’interpretazione delle geometrie del volo degli uccelli.

Il progresso scientifico ha permesso agli uomini di avvicinarsi all’antico sogno della predicibilità: rigoro-si modelli matematici partoriscono equazioni le cui soluzioni consentono la descrizione di tantissimi fe-nomeni naturali.

La descrizione deterministica del mondo si avvale del modello sviluppato principalmente da Newton e La-place: la conoscenza precisa di posizione e velocità di ogni singola particella dell’universo consente (grazie alle equazioni del moto) ogni previsione futura. (1)

In queste pagine si parlerà di un grave colpo inferto a questa visione del mondo.

Molte situazioni della nostra esistenza, infatti, sono dominate da un fenomeno per certi versi traumatico perché sconvolge il comune buon senso e per altri risulta, invece, un ottimo tonico per la nostra mente costringendola ad aprirsi, espandersi.

Iniziamo il nostro cammino sui sentieri del caos.

In maniera intuitiva faremo la conoscenza con i feno-meni caotici e ci accorgeremo che essi sono presenti in tante situazioni giornaliere, a volte addirittura ca-salinghe.

E’ bene chiarire subito che “caos” è un termine pura-mente tecnico che denota situazioni in cui fallisce il

determinismo. Assumiamo questa affermazione, per il momento, come definizione di caos ed ora cerchiamo di capirla attraverso un esempio molto importante che possiede anche un nome sufficientemente poeti-co: l’effetto farfalla.

Esso può essere sintetizzato attraverso la seguente domanda: il battito delle ali di una farfalla a Tokyo può influenzare le condizioni meteorologiche di Grottaferrata (radioso paesino dei colli romani)?

In maniera più generale ci si chiede se piccolissime variazioni delle condizioni iniziali di un sistema fisico possano alterarne l’evoluzione.

Esempio: una navicella spaziale deve raggiungere Marte; l’errore di un millimetro nella conoscenza della posizione del pianeta al momento del lancio, può pregiudicare la riuscita della missione spaziale?

Secondo la fisica deterministica la risposta è sempli-ce: le piccole influenze possono essere trascurate, non avranno effetto rilevante.

Per un certo tipo di eventi, invece, le minuscole per-turbazioni possono causare effetti notevoli: il battito di ali della nostra farfalla giapponese può provocare anche un temporale sulle colline laziali!

Non è giusto imprecare contro le farfalle orientali; è la natura non lineare di certi fenomeni (quelli atmo-sferici nella fattispecie) associata alla non perfetta conoscenza delle condizioni iniziali a determinare l’impossibilità di ogni previsione.

Diremo, ora che un evento è caotico quando è forte-mente influenzato dalle condizioni iniziali, fino al punto da divenire impredicibile se esse non sono note con esattezza.

Prima di chiarire cosa s’intende per fenomeno non lineare, usciamo per un momento dall’ambito scien-tifico per un paragone che ha il solo scopo di renderci familiare l’idea del caos.

Consideriamo la nostra vita come un fenomeno che evolve nel tempo (in effetti è così). Sappiamo che il nostro comportamento è sicuramen-te condizionato da esperienze precedenti, ma chiedia-moci in che misura, invece, piccoli accadimenti a cui

Sentieri caotici

di Paolo Bartoli

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non abbiamo dato eccessiva importanza possano i n f l u e n z a r e l e n o s t r e s c e l t e . In un film di qualche anno fa, la protagonista per un ritardo di pochi istanti non riesce a salire su un autobus, torna a casa e scopre l’infedeltà del pro-prio compagno; ciò le cambia radicalmente la vita. Parallelamente, l’autore ci propone anche la ver-sione nella quale la protagonista riesce a prendere l’autobus e la sua vita evolve in maniera completa-mente differente.

Una piccola fluttuazione casuale, visualizzabile nei pochi istanti di ritardo, crea una biforcazione nel-la vita di questa persona. Quanti di questi insigni-ficanti particolari possono accadere in una giorna-ta? Possiamo pensare, allora, alla nostra vita come ad una rete costituita da molteplici biforcazioni che evolve inevitabilmente su sentieri caotici.

Moltissime esperienze ( per tornare alla scienza), dai fenomeni meteorologici alle oscillazioni dei mercati, dalla turbolenza della scia di una nave ai “rubinetti che perdono” (2) ci fanno capire che viviamo continuamente a contatto con fenomeni caotici.

Dobbiamo attendere ancora un attimo prima di parlare dei fenomeni non lineari, in quanto è es-senziale chiarire che per la fisica il concetto di caos è ben distinto da quello di disordine. Il chia-rimento è necessario perché spesso, nel linguag-gio comune, i due termini assumono lo stesso significato.

Le innumerevoli particelle che costituiscono l’aria contenuta nella vostra stanza da letto, ad esem-pio, formano un sistema disordinato, ma prevedi-bile; le equazioni della meccanica statistica per-mettono di ricavare tutte le informazioni signifi-cative riguardanti la sua evoluzione temporale. Il fenomeno caotico, come abbiamo detto e ribadi-to, è, invece, caratterizzato dalla non predicibili-tà.

Un mio compagno di studi era famoso per la sua forte propensione a sbagliare strada quando viag-giava in auto. Per questo motivo prediligeva stra-de rettilinee con una sola uscita corrispondente al luogo che doveva raggiungere. Strade siffatte sim-

boleggiano eventi (o equazioni) lineari.

Lungo strade lineari, tutti arriveremmo a destinazio-ne facilmente e nei tempi previsti. (3)

Immaginate, ora, una strada tale che ogni dieci metri presenti biforcazioni, svolte, rotatorie, a volte inter-ruzioni; nessuna segnaletica (chi ha viaggiato nell’in-terland napoletano ha sicuramente un’idea precisa al riguardo).

Ecco un’equazione non lineare; ecco perché un pic-colissimo sbaglio può condurci in una località opposta a quella desiderata: è il caos!

In una strada del genere, l’abilità del guidatore è de-terminante. E’ necessaria la capacità di essere sempre presenti; la percezione dello spazio e del tempo in ogni millimetro e in ogni istante. Questa è coscienza di vivere. Non è più bello così?

A questo proposito, riporto con piacere, in conclu-sione, un’autorevole opinione di un grande scienzia-to: Eduardo Caianiello. Egli, a proposito della crisi generata in fisica dalla scoperta del caos, scrisse: “…abbiamo innanzi a noi un esempio straordinario di come a questa crisi la risposta effettivamente <<esista>>: è l’uomo stesso, che decide in tempi brevissimi, sopravvive in situazioni caotiche e si adatta a situazioni comunque com-plesse <<imparando>> quale comportamento meglio gli convenga adottare, a dispetto di tutte le argomentazioni che, secondo le conoscenze attuali, vorrebbero dimostrare il contrario. Non v’è maggior stimolo per un ricercatore che non conoscere le risposte; è augurabile, ed anche possibile, che gli studi ampiamente interdisciplinari che dappertutto vanno sviluppandosi su modelli di “attività mentale” diano un contributo sostanziale, forse decisivo, a queste investiga-zioni.”

Bibliografia

Caos - James Gleick - Sansoni Ed.

La rete della vita - Fritjof Capra - BUR Ed.

Divagazioni sulla scienza e sul mondo - Eduardo Caianiello - Guida Ed.

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Note

1) Quando Napoleone chiese a Laplace come conciliava questa descrizione del mondo con l’idea di Dio, egli rispose affermando che in un universo siffatto Dio non risultava un’ipo-tesi necessaria.

2) Una celebre esperienza di Shaw nel 1984 mostrò che gocce d’acqua da un rubinetto tendono, per piccole velocità di flusso, ad assumere un comportamento caotico.

3) Un fenomeno arcano è rappresentato dai treni delle Ferrovie dello Stato. Essi riesco-no ad accumulare forti ritardi nonostante viaggino su sentieri lineari chiamati binari.

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Graficamente sobria ma ricca di contenuti, “Future Shock”, pubblicazione quadrimestrale di saggistica e narrativa di fan-tascienza - unica fanzine da Roma in giù - presidia, da ben 17 anni, un territorio alquanto alieno da una serena discussione riguardante la letteratura fantascientifica. La rivista barese, nata anche grazie all’influenza che ebbe il saggio del sociolo-go americano Alvin Toffler – “Lo choc del futuro” (Future shock / 1970) – sul suo ideatore e curatore, il Prof. Anto-nio Scacco (direttore editoriale), affronta tematiche attualis-sime e offre ai Lettori una vasta gamma di stimolazioni saggi-stiche (dalla bioetica all’antropologia; dalla sociologia alla religione; dall’esplorazione spaziale all’inner space…) attin-gendo dalle opere, note e meno note, degli Autori di science fiction. Un’ampia porzione del periodico è dedicata alla pub-blicazione di scritti provenienti dal “pianeta degli esordien-ti”… Coordinate di riferimento per “Future Shock” sono: 1) una costante azione umanizzante promuovendo una fanta-scienza responsabile e riflessiva; 2) l’esigenza di non lasciarsi ibridare da un genere fantasy relativistico e disimpegnato. Per maggiori informazioni: www.futureshock-online.info/index.html oppure richiedete una copia gratuita al seguente indirizzo e-mail [email protected] o al civico Prof. Antonio Scacco, via Papa Giovanni Paolo I, n.6/M-A, 70124 Bari.

È’ un periodico di cultura, arte e letteratura. Il nucleo cen-trale è a Napoli, presso la libreria Dante&Descartes. Ha sede anche a Parigi e redazioni a Milano, Trento, New York. Giustamente la rivista si definisce europea. In Sud prevale la prosa, ma non manca la poesia. Gli scritti non sono mai segnalati da definizioni; racconto, testimonianza, saggio, si mescolano senza mostrare necessità di avvertimen-to. Attraente è anche il formato A3, composto come un q u o t i d i a n o . I l t e l e f o n o è 0 8 1 . 5 5 1 6 7 7 1 . La posta: [email protected]

riVISTE ...contattate e segnalate da “Nugae”

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Dagli elementi in nostro possesso ci sembra di una lirica organizzata a volte per criteri ermetici, rivestita di ricorren-te terminologia astrale “stelle” “Cosmi” “Universi” “galassie”; orientabile, almeno in un caso, su un motivo di caduta d’astri “terra… foglia rapita”, ossequio a rigorose metafore vegetali relazionate a vediche piante. Rievocazione per “piogge” deliberiane, per “anno mille” pascoliano. Ondose soluzioni di continuità, reminiscenze di “naufraghi” e “prigionieri”. Aggiungeremmo che l’Anubi Cane perpetua ai cieli la corsa al gatto amato da Lalande. La traccia del mito si ricollega a quella di un gridante Ungaretti, ai lampi di intuizioni bodiniane, e rappresentabile per scipionesca pit-tura.

Vito Cerullo Strade Strade Perdute In lontananza Abbandonate Scagliate Su incerti Risvolti Nel buio – Selvagge Terre di Frontiera – Strade. Scalinate Alle stelle Orfane Vellutate Dall’afa. Annunci Sirene Partenze Di treni –

Strade. Percorse Amate Vergini Donne Abbandonate In orgoglioso Silenzio – Rumori Lontani – Deserti Africani – Strade. Cosmi Sospesi Nel vuoto Universi Tra fiumi Di tempo. Attimi Lunghi La storia Di un vento o Di un mondo Vite Di un vagabondo Sogni, Guanciali Di nebbia. Strade. Ad ogni angolo Nuove galassie.

Poesie inattuali di Antonio Piccolomini

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Attimo La notte Come un’onda Porterà via Ogni cosa Tra le tue mani Scivolerà La sabbia E il vento Ti bacerà I capelli Il futuro – Steso Davanti a te Confuso Nel verdeazzurro Dei tuoi occhi Immenso – Nessun tramonto Nessuna Luna Il cielo macchiato di rosso – Soli Io e te Davanti Ad un oceano Come ad un tempo Infinito Disteso Luccicante Dimentico di noi La notte Come un’onda Porterà via Ogni cosa…

Un gatto Limpida notte Su strade assopite Palpo la luce densa E in tenebre Striscianti Nuoto La mente Straziata, Ostello Di ossessi Pensieri, Anela Alla tregua Notturna – Dormono tutti Dalla grondaia Un gatto Mi guarda. Pupilla di giada Nascosta Tra veli Di raso. Mistero Nobile e antico Immobile – Tremo Dinanzi Abissi Di ghiaccio, Anubi Infligge Eterna Dannazione – Il mio spettro Percorre Le terre Del Limbo – Grida Alle viscere Della notte

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E il silenzio Lo divora – Ecco! L’ora più tarda Spacca il rintocco Funereo – Una campana Echeggia Da colli Lontani… Il gatto Si inarca e Nell’ombra Si dilegua… Apatia Latrati di cani All’orizzonte Di fuoco Sulla città Morente – Inerte Rimango Su triclini Sudati e cuscini Imbrattati Di sangue. Il raggio Sanguigno Trafigge Persiane Distese – Senza motivo Contemplo Brandelli Di polvere Galleggiare Nell’aria.

Lontananze Tace la notte Tace l’insana speranza Di un giorno Tace la luna Sfavilla Di sogni perduti Tace l’oceano Carezza le spiagge Assonnate Cercandoti Smarrito In questo infinito Silenzio Tacciono tremule Isole d’argento… Poesia di (non) ritorno Anime solitarie, su strade Sospese nella nebbia, vanno Tremanti tra fiochi bagliori Di lampioni lontani Scompaiono sulla strada infinita. Un nero torrente serpeggia verso Mete precarie. L’interminabile Viaggio le porta lontano Ombre di pini silenti Drappeggiano oscurità ferite Da orfane luci… Mi parlano distanze percorse… Trapasso queste strade… Cerco l’anima tua Vagare lontana…

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La notte. L’occhio La luna stanotte imita il sole Brucia su un carro di fiamma Squarcia le nuvole fuliggine e pece Nell’ora più tarda della notte oscura. La luna divampa nel cielo spettrale Ferita sanguinante del paradiso addormentato Occhio di Satana che turba nel sonno Risucchia le stelle nel fuoco infernale. Oggi Di nuovo i tuoi occhi Tremendi Insostenibili Malefici & divini Neri Abissali Penetranti & infiniti Oggi Di nuovo il dolce veleno Che uccide nel sonno più nero. Vento Vento, fiume di ghiaccio Dannato flagello Sputato dalle fauci del cielo Rigurgito di abissi notturni; Fuggono uomini e bestie Il tuo triste lamento Sbatti su porte e finestre Rapito dal Tempo E così, esule e ramingo, Vai disperando Su strade deserte. Morte, issa la vela! Torna a spirare, bufera, e potenti Di nuovo si gonfino l’onde. Procedi fulminea, aggrappati al volo Cingi e incatena

Tempesta Fiato alle trombe del cosmo! Lampi rimbombano Sui flutti lontani Del mare in tempesta, Luci di navi perdute spariscono. Il mare ed il cielo Si fondono Tra lembi di raso E bighe fulminee cavalcano flutti Sbraitanti. Piovre e draghi marini Azzannano stelle, Notturne fenici… Angeli e demoni In turbini orgiastici Gridano venti selvaggi. Fiato alle trombe del cosmo! La terra è soltanto Una foglia rapita Dal vento, La mente soltanto Un lieve vascello. Visione da dimensioni irreali Avvolto dalla nebbia Nell’orizzonte insanguinato Compare improvviso Lo spettro del Vesuvio – Scogliera infernale Sulle sponde del Limbo – Drago accovacciato – Guardiano della terra Addormentato da millenni – Ombra di un veliero Che avanza Nella nebbia di Londra E fende silenzioso

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Il giovane Albatro Preda di flutti ruggenti. Vento ricolmo d’odio Calunnie e paure, Respinto da padri, schernito da amanti, Solo ti accompagni A scheletri e foglie E vecchie trecche ubriache e barboni Destino impietoso! Innanzi a te si schiudono strade celesti E tenebrosi abissi a cui ritorni Foreste e deserti, oceani in tempesta; Canti e fragori, silenzi d’un vuoto infinito E le lande addormentate dell’Asia Al lume soffuso di una carezza lunare.

Disegno di M

arco Vecchio

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condizione di assoluto stato di levità, “senza più peso e senza senso”(13) che Pascoli rimodula in una sua prosa La ginestra, in riferimento al perdere “a un trat-to il peso” per riscontri onirici. Il senso della nudità, della solitudine dell’uomo nell’universo viene legitti-mato definitivamente per diversi passaggi, sintesi delle inconcepibili percezioni visive e del pensiero “di là da ciò che vedo e ciò che penso”; del perpetuarsi in eterno del moto attraverso il riproporsi continuo dello spazio “da spazio immenso ad altro spazio im-menso”. Senza mai conoscere “sosta!”, senza un “fine… termine ultimo!” agli occhi del fanciullo stu-pefatto (14). Parimenti misteriosa e lontana si rivele-rà la “regione di Elenore” descritta da F. Thompson nella Donna della visione (15) sede di un universo pa-rallelo e invisibile, nella temporalità o meno, rag-giungibile varcando, impalliditi, sotterranee porte al deposto velo d’un cielo e d’una terra d’apocalisse. Per il Pirro di Borgese (Il viaggio meraviglioso di Pirro Spicchi) nel suo affascinante viaggio attraverso lo spa-zio siderale, avendo come orizzonte la prospettiva di un “Giudizio Finale – che – non ci sarà”, non si deter-mina viceversa trauma fobico o tensione varia. Una caduta, stavolta, di tipo terrestre e di portata minore, ma non da sottovalutare per la rilevanza emotiva che suscita l’evento, viene esemplificata da Pascoli in un paio di componimenti ulteriori: La quercia caduta nei Primi poemetti, e La quercia d’Hawarden in Odi e inni. Ovvero, é manifesto lo sfacelo di un universo vegeta-le, albergo di numerose esistenze ornitologiche, da intendersi sottilmente quale simbolo dell’intimo vio-lato nido del poeta, per estensione a quello dell’inte-ro pianeta. Ma siamo giunti ormai nell’ambito della trattazione di un orrore per sfumature generiche, di una caduta “della memoria”, ora, laterale al tema dell’abisso astrale; di un abisso riscopribile quindi “al nostro lato”(16) per il Sinisgalli d’Horror vacui. Rias-sumendo, in merito ai principali esempi trattati e pertinenti per nostra scelta, (L’aquilone, La piccozza, Chavez, Andrée, La vertigine) abbiamo denotato del dove é avvenuta l’ascesa dell’uomo; in che modo si é verificata: da fermo, a piedi, precipitando. Con quali strumenti é stata realizzata: aquilone, piccozza, aero-plano, pallone aerostatico, mente allucinata. Con

Con La vertigine (8) (Nuovi poemetti) siamo giunti in linea diretta con gli astri nel precipitarvi di un fobico (9) fanciullo complessato da errate infor-mazioni scientifiche, ritenendo gli esseri umani “penduli” nel vuoto e dunque non “eretti”. Sino a un crescendo di ossessione nel disperare di poter-si aggrappare (perduti di seguito appigli da consi-stenza maggiore a minore “rupe” “albero” “stelo”) anche a un esile “filo d’erba… un nulla”(10) per evitare di “cadere in cielo!”(11). Un dato, que-st’ultimo, a riconferma di una variabile inaugurata con l’ode Chavez e che trasferisce l’abisso in alto: “Cade... salendo”, “su l’alto cielo ei cade”. Con l’Inno secolare a Mazzini, IV, I, registriamo ancora: “L’eroe cadeva in mezzo all’universo”.

Dal cadere del cielo sulla terra e gli uomini, al cadere in cielo, dunque; fenomeno talmente in-quietante da indurre il fanciullo in essere a com-piere una lode delle radici (12), auspicare la con-dizione di immobilità al suolo (secondo un tema parallelo a quello del horror vacui) in un luogo dello stesso poemetto: la salvezza riposta in un “bosco, che s’afferra/ con le radici, e non si getta in aria”. La vicenda per Pascoli procede tuttavia in chiaroscuro; l’elogio prosegue per Ritorno a Ca-prera nella cui esemplificazione Garibaldi tende a dimostrare che la felicità si raggiunge piantando e facendo germogliare gli alberi. Di avviso contra-rio é l’esito del Torcicollo (Nuovi poemetti), dove s’illustra dell’impotenza al terreno di uno spaven-tapasseri “uomo d’una cappa/e d’un cappello” sbeffeggiato dai passeri avendo essi scoperto l’in-ganno escogitato dall’uomo per allontanarli dai campi coltivati. La tensione che trova il suo punto critico in espressione di “Su quell’immenso bara-tro tu passi/correndo, o Terra...” va stemperan-dosi poi negli “occhi” della “Grande Orsa” che lo “fissa” per la durata notturna, situazione prope-deutica per condurre a una eufemizzazione del dramma con l’enunciato di “firmamento” che lievita “sotto il mio precipitare!” (del fanciullo). Scemando senza più sintomatologia, nell’immagi-ne del franare “languido” “sgomento”, inabissan-dosi “d’un millennio ogni momento!”. In una

Della vertigine cosmica di Vito Cerullo

(seconda ed ultima parte)

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tra il mondo dei vivi e quello dei defunti, come illustrato in chiusura della ricordata lirica I gattici compresa nella stagione di Myricae.

Note

(8) O. Giannangeli (Le fonti spaziali del Pascoli, in Pascoli e lo spazio, Bologna 1975) attento osserva-tore alle fonti della poesia cosmica pascoliana, ipotizza che il poemetto in esame sia il frutto di un mosaico composto con tasselli ricavati dalla consultazione di diverse opere del Flammarion: Scienza e vita di Camillo Flammarion. Antologia di scritti e pensieri, a cura di G. V. Callegari, Roma 1919, rappresenta il testo da cui il Giannangeli ricava i passi a dimostrazione della validità della sua tesi. Nel menzionato lavoro scientifico riporta altresì la trascrizione di diversi brani dal romanzo Stella dello stesso Flammarion. Fruttuosi per il Pascoli riescono: ancora di Flammarion, L’astrono-mia popolare, Milano 1908, e di Meyer, Trattato di astronomia popolare. L’universo stellato, Torino, U-tet, 1900.

(9) L’epigrafe del poemetto recita così: “Si rac-conta di un fanciullo che aveva perduto il senso della gravità...”. Ispirata da una notizia forse ap-parsa sul “Corriere della sera”. Per l’antefatto di quella “cotal vertigine” data all’editore e confidata epistolarmente al Caselli, per notizie d’altre ope-re e spunti di vita in genere, vedi del Biagini il biografico Il poeta solitario, Milano 1963.

La cronaca per Pascoli assume termine di media-zione tra il dato attendibile e la fantasia dell’auto-re a porsi in atto. Secondo G. Getto (Giovanni Pascoli poeta astrale, in Carducci e Pascoli, Napoli 1965) suggestiva per il poeta potrebbe rivelarsi lo studio dell’Eureka di Poe, coi suoi passaggi carat-terizzati in “abissi… più neri dell’Erebo”, dimen-sione senza limiti dell’ ”Universo del Vuoto”. Rimarca Getto del convergere di “ogni cosa terre-stre… non solo al centro della Terra, ma… verso tutte le direzioni possibili”.

partecipazione attiva degli astri, direttamente coin-volti (La vertigine); neutra (La piccozza, Chavez, Andrée) assente (L’aquilone) ad eccezione della presenza del sole! A impostazione di uno schema inevitabilmente “verticale”(17) rispetto a un altro di caratteristica “orizzontale”, per percorsi terrestri, come ad esem-pio l’avventura dell’Ulisse dell’Ultimo viaggio nei Conviviali per restare a Pascoli. E si contempla una possibilità ulteriore di moto che compendia il compi-mento dello spazio esteriore e interiore insieme, attraverso quella fenomenologia nota come riti di passaggio (18). Sorvolando sulla vicenda del castagno (Il vecchio castagno, nei Primi poemetti) che dovrà essere abbattuto, e su quella del morente pontefice Leone descritto nella Morte del papa (Nuovi poemetti), a rap-presentazione d’ulteriore possibilità di congedo, ac-cenneremo in corsa al sentimento tra Rosa e Rigo sfociato in unione matrimoniale. Il passaggio definiti-vo quindi della protagonista del poemetto da un’esi-stenza di stampo familiare a un’altra di tipo coniuga-le, prevede prima l’assolvimento di altri riti interni, come la consegna della dote materna custodita nella cassapanca di noce in rappresentazione nel Corredo; e di conseguenza il dolore della figlia supplicante la madre a non lasciarla andare via, ottenendo in rispo-sta da lei la conferma che ciò avviene per volontà di “un altro”, l’amore. Si svolgono in successione imma-gini della chioccia singhiozzante che le si fa incontro, il contemplare di Rosa con pianto interiore per l’ulti-ma volta le cose a lei così care, “ma non era amore”. Ma soltanto un immenso bene non sufficiente al livel-lo dell’amore (superiore) per cui vale il caso mutare posto e abitudini: una creatura crudele che non le da tregua, la strappa via dagli affetti. Oscurabile ora nel compromesso fascino proprio di una conoscenza non completata, nell’inevitabile corporalità che l’acceca. La visione di quell’ “alto girasole,/nell’orto...”, con-cede un ultimo indugio ancora, riassume il massimo avvicinamento possibile tra i due mondi in relazione, quello che sta per passare a quello futuro come esem-plificato nel Saluto. Poiché l’amore é presente allo svanire, dentro l’equivalersi perenne di nascere e svanire sulla bilancia del tempo, alle partenze di per-sonali clessidre ingigantisce inesorabilmente quell’al-tro fiore. Ancora pertinente al nostro tema, “il fiore della morta”, i crisantemi; punto estremo di contatto

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voce di rapace (l’assiuolo) come afferma S.Vassalli (Momento estatico e sue componenti simboliche nella poesia pascoliana di “Myricae”, in “sigma”, 19, 1968). Riassumendo, l’espressione in “là” ”laggiù” “lassù”, identifica una situazione su un livello spaziale, nel livello stesso dell’ ”allora” che vuole significare una situazione temporale. Accennavamo alle onomatope-e, e in relazione a quest’aspetto Beccaria ricorda del-l’abilità del Pascoli nell’aver saputo ricreare aggettivi di una certa opacità onomatopeica di fondo. (Polivalenza e dissolvenza del linguaggio poetico: Giovanni Pascoli, in Le forme della lontananza, Milano 1989).

(11) Traina riporta di un’epigrafe di Macrobio ricava-ta dal Commentarium in Somnium Scipionis, probabil-mente determinante per l’intuizione pascoliana con-trassegnata da nota nel testo, cioè: “ne caderet in caelum”. La trovata del pascoli per il Traina assume valenza nell’espansione per tutti il pianeta della “condizione degli antipodi” (Presenze antiche nella poe-sia cosmica del Pascoli, in Poeti latini (e neolatini), Bolo-gna 1975).

(12) Elogio che Pascoli compie in precedenza attra-verso una lirica dal titolo Coloni Africi, dove ancora una volta precari si rivelano gli ormeggi alla terra. Il senso di tutto va inteso in digressione a Poematia et epigrammata, VI, in Carmina. Non é ben noto da quali componimenti prende le mosse l’intestazione Due che agli antipodi guardano in su. (Consulta in proposito G. Pascoli, Myricae, a cura di G. Nava, Firenze 1974). L’angoscia allo smarrimento delle coordinate spaziali investe anche il S. Agostino delle Confessioni (libro XIII); e nuovamente il Pascoli della Mirabile visione, dove il problema cronico viene sempre relazionato alla smarrita attrazione “di gravità fisica” come ci ri-corda G. Getto (Giovanni Pascoli poeta astrale, cit., p. 107). Da valutare per altro discorso il senso di quelle “radici della terra”, qui probabilmente stabili e avver-se ai Titani, a cui accenna K. Kerény (Gli dei e gli eroi della Grecia, Milano 1963).

(13) A. M. Girardi (Simboli cosmici ne “I due alberi”, in “rivista pascoliana”) associa quel preciso senso e-

(10) Affrontando la questione da un versante sto-rico-sociologico, contempliamo dell’angoscia di una classe media borghese “schiacciata… tra alta borghesia e proletariato”, in proiezione sullo schermo delle sue paure politiche e sociali di “incubi vertiginosi di fronte alla natura e all’uni-verso”. (Vedi E. Sanguineti, introduzione a G. Pa-scoli, Poemetti, Torino 1971). Per altro sintomo di vertigine (“vertigine spaziale”) non riesce immune neppure il volo agile dell’allodola illustrata in Di lassù. (Leonelli, Figure e orchestrazioni myricee, in AA. VV., Nel centenario di “Myricae”, cit.).

Un breve accenno va compiuto circa quelle singo-lari soluzioni avverbiali prossime al “lassù” della citata lirica, che adotta Pascoli. Il “là” per esempio esprime una forte emotività, sempre presente alla memoria: “Là nelle stoppie...“(Romagna). Vice-versa, il “laggiù” si rivela per un blando onirismo. Il “là-bas” che gli è equivalente in francese conferi-sce “all’idea della distanza una sfumatura di sogno” secondo L. Spitzer, Le innovazioni sintattiche del simbolismo francese, in Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna, Torino 1977, che attra-verso un preciso paragrafo La ricreazione sentimen-tale degli avverbi, circostanzia il concetto ritenendo la figura grammaticale testimonianza dell’ “irreale, la lontananza di tempo e di luogo”. In riferimento all’uso di “là” e di “lassù” da parte del poeta romagnolo ce ne riporta M. Pascoli in Lungo la vita di Giovanni Pascoli, Milano 1962. Spe-cificamente per quest’ultimo termine orientato sul volo dell’allodola, del senso dell’ “iterazione dell’avverbio di luogo”, vedi G.A. Camerino (Alle origini dell’ “Ultima passeggiata; metrica e varianti”, in AA. VV., Nel centenario di “Myricae”, cit.). Della “suggestione fonica” ipotizzata per “laggiù” riferi-sce F. Felcini, in (Le Myricae e D’Annunzio: un’ipote-si, in AA. VV., Nel centenario di “Myricae”, cit.). Da intendersi l’avverbio in questione anche in un’otti-ca di “irrevocabilità”: E. Pasquini (Osservazioni sul linguaggio di “Myricae”, in AA. VV., Nel centenario di “Myricae”, cit.). Dagli avverbi alle onomatopee il passo risulterà breve, con quest’ultima figura del linguaggio individuata in non soluzione di conti-nuità da suono di meteora atmosferica (il vento) a

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spresso nei due citati esempi pascoliani a una lirica di Baudelaire dal titolo Le gouffre e riportata in Fleurs du mal. La lezione discende all’Ungaretti delle opposte lune del “senza più peso” di un‘anima nel Sentimento del tempo, e di “Peso” nell’Allegria. Inaugurando la sequenza di riferi-menti in Sinisgalli, ritroviamo quasi in parallelo con lo stato d’animo pascoliano un “Senza peso e senza pena”, intanto, in Se una lucertola si ferma (Vidi le Muse); ribadito nel “senza peso e senza pena” di Fiori pari, fiori dispa-ri. E ancora un “senza peso” si deno-ta sempre nella stes-sa prosa. Il “senza peso” incosciente in a n n u l l a r s i d i ”gravità” enunciato in Calcoli e fandonie, ripropone da vicino la situazione espres-sa per versanti oniri-ci nella Ginestra del Pascoli, probabil-mente percepita ancora per la com-posizione della Mira-bile visione. In paral-lelo con quella di-mensione di pace originale dell’esiste-re, dove si auspica che un’altra anima fanciulla vi deponga “il peso dell’esistenza”. (M. Kerbaker, Intro-duzione alla Bagavadgìta, Firenze 1866-67). Solo di apparente matrice contraria si rivela l’ ”immobilità pesante” sofferta in Ventoso (Vidi le Muse), ovvero pro-spettiva del peso del non peso non più liberatorio; poiché preludio a risvolti angoscianti, apocalittici già resi altrove circa la strana “catalessi” del pianeta, la drammatica “epilessia cosmica” o l’impercettibile

franare che agisce dentro l’ “ordine delle cose”. Ci sembra doveroso porre in rilievo un ulteriore sottotema relativo alla pesantezza dell’uomo in funzione della leggerezza di una farfalla: il vocia-no Sbarbaro baratterebbe ben volentieri il corpo

pesante e una cospicua dote d’anni, in cambio dei brevi attimi di vita e dello slan-cio esile della creatura iridata. De Pisis (Meriggio in montagna, in Poesie) circoscrive con più dettaglio il sintomo della sua pesantezza: “come é pesante il mio cuo-re!” (equivalente della “mortale pesantezza” del cuore di Sbarbaro in Pianissimo) disagio espresso mentre nel folto della vegetazione si dirige “un volo tremulo di cavo-laia”. La situazio-ne si rovescia immediatamente in Govoni (A un tratto levò il vento in Govonigiotto) nell’anelare la

libertà di un cuore “senza peso” proteso nelle circonferenze degli azzurri aquiloni. In riferimen-to al binomio in esame, poi, riconfermandosi la costante della farfalla, muta l’interlocutore che si relaziona ad essa: in forma naturale ora “nero peso della terra” contro una macroglossa (Cuore e cervello). Quindi, di consistenza vegetale: un fiore “carico e peso” urtato da un’altra macroglossa (Elegia a mio figlio, in Preghiera al trifoglio). E, ad-

Marco Vecchio tratto da “Icone di carta”

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dirittura, la variabile prevede insetto in antitesi ad altro insetto, come vedremo poco oltre. Autono-mi, si riveleranno ancora un “peso del fiore” in Al tempo delle vigne, e in successione “peso dei frut-ti” (Propositi in L’odor moro). Di apparenza eterica e di fattore specifico impercettibile se orientato su astratte bilance, si dimostra il quasi “peso di memoria” assunto dal volo di una civetta, così come ci viene reso attraverso un passo del Savi (Ornitologia toscana, Pisa 1827). Con Gozzano (Della passera dei santi) denotiamo la stasi di un genere di insetti terricoli “popolo verde”, come abbiamo appena anticipato sopra, vissuta con invidia feroce verso “le farfalle al volo”. Circa questi versi, si contemplano delle differenze di interpretazione di ordine filologico, e di redazio-ne; in merito al secondo aspetto, ci viene fornita la tesi di G. Rocca (G. Gozzano, Tutte le poesie, Milano 1983 p. 610) alquanto suggestiva. Gozza-no rimodula in poesia la sintesi di alcuni passaggi in prosa da un’opera di Maeterlinch, Intelligence des Fleurs, Paris 1907. Per particolari ulteriori illuminante risulterà G. Gozzano, Poesie, a cura di E. Sanguineti, Torino 1973, n. 93, pp. 258ss.). Pur rimanendo attuale in questa lirica (e in quella che segue di Gozzano) il problema delle radici, non sembrano persuasive le teorie del Pirotti ( Pascoli e Gozzano, in AA.VV., Studi per il centena-rio della nascita di G. P., Bologna 1962, pp. 177s) secondo il quale risentirebbe di una suggestione pascoliana da Grande aspirazione nei Primi poemetti (dove vengono accomunati in un destino di stati-cità le piante e l’uomo “albero strano/che... cam-mina”, da possibile fonte evangelica circa l’episo-dio del cieco guarito. Nella misura in cui la pianta invano germoglia i fiori, l’albero dell’uomo pro-duce le parole. Ma nella premessa a La mirabile visione, Pascoli rigetta questo punto di vista asse-gnando all’umanità una sorte più nobile, non vincolante alla terra) tesi dicevamo valida per un altro componimento dell’autore dei Colloqui, L’amico delle crisalidi: ovvero di un uomo “sopravvissuto” che a vincere la gravità “Sull’ale” di quel gracile esserino prenda “i cieli dell’infini-to”. Identica é la fiduciosa prospettiva di larve “che sognano ali”, e ancora di siepi adornate nel

sonno da “grappoli di fiori”, in Colloquio da Myricae. Su quest’ultimo contesto pascoliano, Nava su sugge-rimento di G. Capovilla che si autorizza pascolista coi suoi La formazione letteraria del Pascoli a Bologna. Documenti e testi, Bologna 1988, e Il giovanile Ciclo lirico, in “Rivista pascoliana”, n.2, 1990, cita Miche-let che in una sua composizione dal titolo L’uccello, e in una successiva sull’Insetto, ripropone il desiderio cosmico della vita vegetale a vincere l’impedimento causato dalla forza gravitazionale. (In compendio, Nava, in G. Pascoli, Myricae, cit.). Di queste creatu-re diafane ne é ampiamente documentata la poesia del novecento (si pensi ancora a Pascoli, al Moretti di Tutti i ricordi, Milano 1962, a Montale di Dinard e Vecchi versi, alle “pieridi” di Poesie d’amore di Gatto; figure inquadrate canonicamente in un ruolo di mes-saggere dall’al di là delle anime dei defunti, tema peraltro concorrente a quello appena valutato) e anche quando non direttamente esplicitato, l’ele-mento rilevatore della leggerezza alata in opposto al peso dell’uomo, va sempre e comunque sottinteso! In tutte le sue direzioni possibili, il tema in essere viene esaustivamente esemplificato nell’evoluzione del lavoro di R. Aymone, Farfalle messaggere nella lirica da Pascoli a Montale: chi scrive ignora al mo-mento di notizie in merito a una pubblicazione (probabilmente in AA. VV., forse per studi in onore di G. Paparelli).

(14) “Stupefazione” che richiede d’esser modulata a seconda delle zone semantiche in cui rivela traccia di sé. In riferimento alle manifestazioni espressive del sembiante delegate dal Pascoli a ruolo fondamentale, un conto sarà l’incredulità del protagonista “attonito” del X Agosto, e altra valenza assumerà l’aver spento il campo visivo a una concezione arcaica del mondo mediante l’oscuramento dell’occhio al ciclope Polife-mo da parte dello scaltro Ulisse. (Cfr. F. Ferrucci, L’assedio e il ritorno. Omero e gli archetipi della narrazio-ne, Milano 1991, p. 72). L’orrore pascoliano per le cose nel guardarle, in un rapporto intrinseco con l’orrore delle cose (“occhi di draghi / e di leoni” nella Pecorella smarrita, “tondi /occhi”, l’Orsa, nella Vertigi-ne, “occhi dei leoni /vigili… sonnolenti occhi dell’orse”, nel Ciocco, “fisso occhio di Sirio”, nell’Au-

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rora boreale, “Sirio: occhio del Cane”, ancora nel Cioc-co.) quale conseguenza della proiezione di una perso-nale impressione d’orrore. (Cfr. F. Curi, Vedere a udire, in AA. VV. Testi ed esegesi pascoliana, cit.). Ne-gli innumerabili riflessi di uno sguardo espressivo di uno stato di coscienza va annoverata la componente d’inquietudine dell’occhio (dell’asino: doppio dell’-artista) che come dal fondo di uno schermo osserva le figure costituenti la Sacra Famiglia nel Riposo in Egitto del Caravaggio. (Vedi G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, Vol. III, Firenze 1983, p. 272s).

(15) Lirica riportata nella già citata antologia di M. Luzi, L’idea simbolista, Milano 1976.

(16) Immediata conferma ci offre in un aprente “abisso” ora “al mio lato” (in Naia noia, 3, in Vidi le Muse) La puntuale mediazione di Ungaretti “statua dell’abisso umano” si rileva nella lirica Statua, in Sen-timento del tempo, “vestigia d’abisso” in Horizon (Derniers jours). Inaugurata, la sequenza sinisgalliana prosegue con alcuni esempi da Nuovi campi elisi: spor-gente “abisso” dell’immune incoscienza di un fanciul-lo (Lucania), separante “abisso” (Nessuno più mi conso-la) ; increspante “abisso” (Laggiù). Quindi, “abissi” rasentati (Intorno alla figura del poeta). Sospendenti “abissi” (L’ architettura ovvero la Fenice in Furor mathe-maticus).

Di una prima “eufemizzata” figura dell’orrore, asse portante dalla poetica sinisgalliana (Vedi L. Sinisgalli, Vidi le Muse, a cura di R. Aymone, Cava dei Tirreni 1997, p. 221). Variante alla voce analizzata ritrovia-mo “precipizio” (Quell’ombra coglie il fiore, in La vi-gna vecchia); e di nuovo “precipizio” in Horror vacui. Variante a questi: “altarino/a picco sul fosso” (Il fosso di Libritti, in Dimenticatoio). Nel novero di figure “in equilibrio verso la luce” (L. Sinisgalli, Vidi le Muse, cit. p. 234) dei tipo “ombra… bilancia sulla corda”, “corda… sui ponteggi”, rispettivamente in Intesa al tuo slancio e Cantiere di Porta Vittoria, da Poesie e non riproposte in Vidi le Muse, va riportata anche quella in “bilico”. La costante precedente in aggiunta alla figura in esame: “In bilico sopra l’abisso” (Leonardo da Vinci e il volo degli uccelli, in Furor mathematicus). Di Mallarmé

quale “sentinella sull’orlo dell’abisso” ne riporta Sinisgalli in Ventiquattro prose d’arte. Per ulteriori dettagli si rimanda alla lettera a Cazalis del 14 mag-gio 1867, inviatagli dal poeta francese e riportata nell’antologia di M. Luzi, (L’idea simbolista, cit.). “nel cielo in bilico”, ovvero i muratori di Rosei del rosa dolce delle case con un piede “bianco” (il con-centrarsi cromatico del vuoto) sospeso “alle cima-se”. Dopo un ultimo episodio di “verità in bili-co” (Giorgio Morandi, in Furor mathematicus), nel procedere per altre serie in Sinisgalli, leggiamo: “anima bianca… piede bianco” (Le sorelle Pampi-glione, in Furor mathematicus), soprattutto in fun-zione di quest’ultimo dato cromatico. E in suc-cessione: “piede nell’ombra... funamboli sulla corda… piede nel bianco… cavalli sulla scacchie-ra” (Fiori pari, fiori dispari, X) variando in connota-zione d’ombra e di luce. E ancora una “metà in ombra” (quella del poeta in inespressa somiglianza per la madre) come una atipica faccia di luna per l’altra metà in luce (quella dell’altro figlio espri-mente qualche segreto di lei) in Viaggio da Bellibo-schi. Alla tradizione di un piede “bianco-luminoso” riconducibile a valenze simboliche me-diate da Valéry, sono da collegare i due esempi sinisgalliani “piede… chiaro”, Idillio (BBM) e “piede… luminoso” (Fiori pari, fiori dispari, IX). (L. Sinisgalli, Vidi le Muse, cit., p.233). In Pascoli, registriamo: “piede, bianco” (La buona novella, in Poemi conviviali). Il tema del vuoto enunciato in La visita di Pascal, in Il passero e il lebbroso, va previsto anche su di un piano sensistico: il Pascal (noto fisico autore dei Pensées e a cui si deve l’intuizione di un vuoto ideale traducibile anche in natura) che giunge sotto le spoglie di un lattaio, e non trovan-do la bottiglia lascia un messaggio sotto la porta, asserendo di non aver “trovato il vuoto”, lascia trasparire immaginariamente il significato di un’-ambivalente assenza.(Vedi complessivamente R. Aymone, Del senso del vuoto e dell’abisso, Postfazio-ne a L. Sinisgalli, Horror vacui, Cava dei Tirreni 1995). Ancora in Sinisgalli, si annuncia un “vuoto… senza tempo”, alimentato da “ciò che non si sa dire” (Calcoli e fandonie). Lucrezio affer-ma che lo spazio vuoto é vitale al movimento delle cose, senza il quale la materia rimarrebbe

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“stipata per ogni dove”, e in maniera d’ “inerte quiete” (De rerum natura, I). Ungaretti in Vita d’un uomo, non dissimile da quello rimasto sospeso “sul vuoto” col “suo filo di ragno” in La pietà (Sentimento del tempo), del Tramonto della luna di Leopardi, riferisce del “raggiungimento del nulla” in un’ora senza possibilità di luce prodotta dal sole (non ancora sorto) dalla luna (già tramontata) tra interdette stelle alla loro funzione; vuoto asso-luto, dunque. Di Canzone, ancora delucida di a-spetti di un nulla senza “vita… stagioni… gioia… veglia… sonno”; tema presente nello Zibaldone, da non escludersi per il Reverdy di Le voleur dem Talan (1917). Posizionato “au fond du gouffre” Ungaretti rimarca di una “vertige paludéen” in Mélancolie 1919 (Derniers jours) non distante emo-zionalmente dallo stato d’animo relativo a Perfec-tions du Noir (Derniers jours). Julien Green confessa di una “léger vertige” avvertita lungo il ponte di Jena (L’autre Sommeil).

(17) R. Aymone, Horror duplex: le radici e l’abisso, in Il bruco e la bella. Saggi pascoliani, Cava de’ Tir-reni 1999, p. 88.

(18) A. Van Gennep, I riti di passaggio, Torino 1981.

Circa il ricordato dolore di Rosa, va condotta una rapida ricognizione sul motivo d’essere del pianto in Pascoli: un piangere cosciente, e in opposto un altro senza un perché. In riferimento a questa seconda fase, viene ereditata a sintomo nei codici umani la matrice di un dolore delle origini, non nostro, dunque. Basti pensare all’inconsapevole singhiozzare della tacchina di Romagna, al belato della capra in Saba, o al razionalizzato “dolore di cose che ignoro” di Quasimodo di Acque e terre. Del piangere senza apparente motivazione, il Croce (Giovanni Pascoli, Bari 1956) lo ritiene per tale e non meritevole d’approfondimento. Re-mando controcorrente da questa ipotesi, il Debe-nedetti lo valuta per spiccata caratterizzazione in suono, e in seconda istanza rivedendo aspetti della sua tesi, lo stima anche a fenomenologia di senso.

(Pascoli: la rivoluzione inconsapevole, Milano 1979). Circa la categoria del pianto motivato, per il Pascoli un‘emotività repentinamente regressiva all’infanzia (contro il provocatorio “lasciatemi divertire” del Pa-lazzeschi, frutto del superamento di un’anacronistica ideologia sentimentale) viene celebrata attraverso Le ciaramelle; e, semmai, a ricercarne le fonti (Giusti, Porta...) di questa lirica, significherà cercarne per tutta la poetica pascoliana orientata verso questa spe-cifica sensibilità.

(P.P. Trompeo, Propaggini giustiane, in L’azzurro di Chartres, Caltanissetta 1960). Ad analisi di una perfet-ta sintesi a volte di mondo bucolico e rituale di pian-to, consulta due lavori di Aymone: (Addio ai campi, in Il bruco e la bella. Saggi pascoliani, cit., e Pianger di nulla, cit.). Delle esaminate soluzioni avverbiali e aggettivali, tralasciavamo (Grammatica del sentimento e senso dello spazio in Myricae, cit.) a complessiva illu-strazione scientifica. Parimenti, per criteri generali al tema degli astri si rimanda a P.De Stefano, Pascoli: il discorso cosmico, in “L’arengo”, 1995-96.

Marco Vecchio tratto da “Icone di carta”

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loro se ne dimenticavano.

Era come se pensassero: quale altra classe ci po-trebbe sostituire? Nessun'altra è venuta prima né un'altra verrà dopo di noi.

Leggo qualche bigliettino "confidenziale", di quelli che le ragazze mi affidavano in gran segre-to.

Su uno c'è scritto: "Cara professoressa, siamo Debora e Martina e le dobbiamo dire che quando lei non guarda, Paolo ci dà molto fastidio e poi quando lei si gira, fa l'angioletto. Ma non gli cre-da, perché è un diavoletto!"

E poi ci sono le cartoline provenienti da tutti i luoghi delle gite scolastiche.

Con affetto. La ricordiamo sempre. Alla mejo prof. della scuola (e a seguire, sparpagliati dap-pertutto, tutti i loro nomi. Mancava sempre la data).

Le lacrime si stanno pericolosamente facendo strada dai loro profondi recessi, ma forse le mie non stanno poi così in profondità, perché basta un niente per farle venire fuori.

Ma non è "un niente" quello che giace nel casset-to di sinistra dello scrittoio: lì dentro ci sono mo-menti irripetibili che hanno accompagnato anni e anni della mia vita lavorativa.

Non conosco cosa facciano o dove siano tutti quei ragazzi.

Molti di loro sono adulti, hanno dei figli già gran-di e probabilmente hanno dimenticato quelle fer-vide dichiarazioni d'affetto che mi indirizzavano quando ci frequentavamo.

Io non li ho dimenticati: qualcuno è evanescente, ma il loro ricordo mi è dolce.

Mi metterò a scrivere quando la stanza sarà riusci-ta a contenere la folla di ricordi che piano piano si stanno sprigionando dalle cose che vi sto metten-do: i libri che amo, primi fra tutti quelli di Natalia Ginzburg, la scrittrice tanto amata e mai dimenti-cata; le foto dei figli, quelle di quando avevano i capelli lunghi e a me piacevano tanto così capello-

Ore 8.45 di martedì 9 dicembre.

Due vigorosi facchini, uno dei quali è straniero, ov-viamente, introducono in casa mia uno scrittoio.

E' il mio scrittoio.

L'ho visto, l'ho scelto dopo un veloce e persuaso inna-moramento e gli ho detto: - Verrai a casa mia.

Ora attende, in quella stanza che sarà la "stanza tutta per me", di essere utilizzato.

I figli, quando vanno in altri nidi, lasciano tanto spazio dietro di sé.

Ancora sto prendendo le distanze da lui.

Cosa sarà capace di suggerirmi? Quali idee saprà farmi nascere?

Lo sto scrutando, ancora un po' diffidente.

Intanto, nell'attesa lo sto plasmando. Le foto incorni-ciate sono già sul piano dell'alzatina; nel ripiano a giorno sono esposte alcune scatoline dipinte. Nei cassetti hanno trovato posto il quadernone , i mille "non-ti-scordar-di-me" che i ragazzi mi hanno lascia-to durante i lunghi anni passati a scuola con loro, l'a-genda con gli indirizzi importanti.

Cosa manca?

Manco solo io che, seduta davanti a lui, mi decida a imbrattare le pagine di quel quaderno che giace lì, in attesa delle parole.

Io sono un po' preistorica: per creare devo scrivere a mano e poi, per necessità, copio e rimaneggio al com-puter.

Apro il cassetto di sinistra, quello dei ricordi (quello del cuore, mi viene da pensare, come se gli scrittoi avessero un cuore!).

Biglietti, cartoline, lettere, fotografie, fogli improvvi-sati su cui sono state velocemente scarabocchiate pa-role e frasi affettuose, teneri disegni di campanelle pasquali o di verdi abeti natalizi.

Cara professoressa le auguriamo buon Natale e felice Anno Nuovo, classe 1°B.

Alla nostra professoressa, classe 2°B.

Le date le dovevo aggiungere quasi sempre io, perché

Una stanza tutta per me di Teresa Castellani

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ni e imbronciati, le foto del marito che mi abbrac-cia, che sorride attraverso i baffi.

Dietro di me, su un tavolino, c'è perfino la gatteria, stracolma di gatti, i più vari: in ceramica, in metal-lo, in vetro, in terracotta.

Ecco, direi che ormai ci siamo quasi: fra poco potrò entrare pure io.

Ah, no. Prima entrano loro: i miei gatti in carne ed ossa.

Guardano critici e un po' apprensivi lo scrittoio.

"Cosa ne farai? Possiamo salirci? Scrivi? Scriverai anche di noi? Posso mettermi su questo foglio che ti è caduto? Ma poi ti ricorderai che abbiamo bisogno di te?"

"Buoni, su, buoni. C'è posto anche per voi, mette-tevi lì e non siate invadenti.

Questa è la stanza tutta per me, ma, lo sapete, dove sono io ci siete pure voi. Ma ora buoni, vi dico.

Sto per cominciare a scrivere."

Note

Teresa Castellani è nata nel 1947 a Città di Castello (PG), in cui ha abitato fino al compimento degli studi.

Dopo avere conseguito la Laurea in Lettere presso l’Università degli Studi di Perugia, ha iniziato ad insegnare nella Scuola Media: prima a Belluno e provincia, infine a Roma dove risiede tuttora.

Da sempre coltiva con tenacia la passione della scrittura e collabora a riviste per grandi e bambini,

con racconti e poesie.

Da tre anni collabora con l’Associazione O.N.L.U.S. Candelaria, presso la Casa Internazionale delle Don-ne a Roma, tenendo corsi di Lingua italiana a donne straniere e corsi di Cultura italiana a Mediatori cultu-rali.

Nell’ottobre del 2004 ha provato la gioia di veder pubblicato il suo primo libro, un romanzo per ragaz-zi: “Le Scoperte di Elisabetta”, scaturito dal bisogno di raccontare storie secondo la sensibilità e il punto di vista degli adolescenti, essendosi sempre sentita dalla loro parte e avendo sempre cercato d’interpretare il loro modo di affrontare la vita.

Il romanzo è stato ufficialmente presentato in occa-sione della 3° Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria, “Più Libri”, tenutasi a Roma nel dicembre 2004. Sono seguite altre presentazioni presso Libre-rie, Biblioteche comunali e Scuole, dove sta riscuo-tendo un discreto successo come testo di narrativa.

Testo di: Teresa Castellani

Illustrazioni di: Nicola Perugini

“LE SCOPERTE DI ELISABETTA”

Ed. ERA NUOVA Perugia.

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Le note, le v i b r a z i o n i , rappresentano la musica car-dine che echeg-gia tra le pagi-ne di un testo noto come il collante, crea-tivo, di un pa-rallelismo tra le leggi che regolano l’Uni-verso e l’Uo-mo; accoglien-te un’antica conoscenza che

rivela la statura di uno dei più grandi pensatori russi George Ivanovic Gurdjieff ad opera del suo allievo P.D.Ouspensky depositario di un vero e proprio “sistema di insegnamenti frutto di approfondimenti dei problemi della vita e delle istruzioni per il miglioramento dell’esistenza dell’uomo”. Si scopre come nella citata Legge cosmica dell’ottava possa rivivere l’Arte: - la musica - dove “la struttura della scala musicale” ed una realtà vibrazionale dell’Universo, offrono una base per comprenderne il significato riflettendo su come si verifichi incessantemente nella vita. Incontri, urti, deboli, forti di vibrazioni, dalle origini diverse, si articola-no in ogni tipo di materia arrestandosi l’un l’altra. Inter-valli, semitoni, come - rallentamenti “inevitabili” d’in-tensità di forze - fulcri di osservazione della qualità discontinua, cangiante, crescente, discendente, mo-bile del mondo. La lucidità risuona nell’illusione del raggiungimento di un “qualunque” obiettivo, nell’os-servazione, attraverso l’esperienza, del “tutto accade” uscendo dal “ruolo di spettatore passivo di quel che si verifica nell’uomo e attorno a lui”. L’integrazione avvie-ne ad opera di interventi, penetranti “l’inevitabile” attraverso l’idea o la creazione di “choc addizionali” che colmino esattamente intervalli, quando “si produce un rallentamento delle vibrazioni”. Esattamente “un pe-

riodo intercorrente tra un Do e un Do - un’ottava” -. Processo estendibile per analogia al generale “raggio di creazione”, riproduzione illimitata di una struttura umana.

____________________

¹ Capitolo VII di “Frammenti di un insegnamento sconosciuto” di P.D.Ouspensky

Note e vibrazioni in un “frammento”¹ del testo di Ouspensky

di Delva Della Rocca

George Ivanovic Gurdjieff

P.D.Ouspensky

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“Chi sono e che faccio?”

Rodolfo lo canta e lo dice, nella Bohèrne.

Anch’io a domanda rispondo: riparo rubinetti, scal-dabagno, tubature, perdite, rimetto guarnizioni, faccio saldature.

Senza essere esoso, eseguo lavori a domicilio, lavo-ro in proprio. Tengo materiale e attrezzature nel garage adibito anche a officina di riparazione. Mi sposto continuamente in macchina e riesco ad esse-re puntuale negli interventi, anche perché puntuale sono stato sempre ed ho lavorato quindici anni in una ditta a stipendio fisso senza assenze e ritardi.

Un collega che oggi lavora in proprio come me, mi dice che devo alzare i prezzi e il cliente lo debbo tenere in ansia per la riuscita del lavoro come se si trattasse di un intervento a cuore aperto o altret-tanto difficile e rischioso. “In fondo” conclude “non siamo i dottori del rubinetto e delle tubature?”.

A me sembra uno strano paragone. Ma perché con-traddirlo? Abbiamo imparato il mestiere insieme ed abbiamo avuto sempre un ottimo rapporto.

E poi alla mia età non si cambia. Leggo Topolino, i fumetti, guardo le videocassette che compravo per i miei ragazzi.

E le guardavamo assieme quando loro erano bambi-ni. Solo che hanno smesso ed io ho continuato.

I miei figli sono sposati e sono andati via; le video-cassette, la raccolta di Topolino, i fumetti sono rimasti nell’apposita libreria. Apposita perché l’ac-quistai per loro. Avevo ed ho un ottimo rapporto con i miei figli.

Rispetto i semafori, porto appresso la patente, il libretto, ben esposto c’è il tagliando dell’assicura-zione.

Forse sono bravo perché mi sento solo.

Dò la precedenza a destra e... anche a sinistra ades-so; toccherebbe a me passare, ma una bionda signo-ra m’ha tagliato la strada e le si è spento il motore. Gli ho mimato che aveva lo Stop e lei, dopo aver ritrovato la chiave dell’avviamento, reclinando la testa da una parte, mi ha sfoggiato un sorriso… con la tenerezza di una bambina, una scolaretta che ha

sbagliato il compito in classe.

………………

Mi ha fatto cenno di aspettare e, prima di abbassare la testa a cercare il cambio o il freno a mano, ha sorriso di nuovo più apertamente facendo le fossette. Sarà una neopatentata che si è avventurata da poco nel traffico e nelle precedenze, non avrà capito niente a Scuola Gui-da, ma neobella non si può definirla.

Questa era bella dall’Elementari! E alle Medie faceva scordare Dante e la Divina Commedia ai compagni ma-schi.

Titubante, ma ha trovato i meccanismi giusti, si muove, riparte a scatti. Mi saluta col capo, ma di nuovo sorride, sorride fissandomi e mordicchiandosi un labbro.

AHHIH!! Mi sarei meritato di più, almeno un bacio appassionato se la precedenza fosse stata tra pedoni; avremmo messo le mani avanti toccandoci per non scontrarci, come due macchine che si tastano i paraurti per non farsi male. E poi una scusa, un “Ma s’immagini” “Non è successo niente, possiamo presentarci?”

E poi il saluto spontaneo, con un lungo bacio appassio-nato. Il bacio affrancato dall’amore che si fa interprete di una risoluzione di simpatia sulle strisce pedonali.

Allungando l’episodio con la fantasia, la distrazione visionaria, sulla Tangenziale si paga presto.

Arriva una serenata di clacson e chiari gesti di saluto dal finestrino che mi mandano a quel paese, è un tripudio d’addii. L’ultimo, alza il braccio nell’abitacolo, vuole distinguersi perché gli altri hanno fatto tutti lo stesso saluto, tiene la mano in mostra nel classico gesto delle corna, la mostra fino a quando non vede più l’auto che ha sorpassato. La mia. Questo tizio, con intenzione o senza intenzione, riapre una ferita per la quale sono sempre sensibile perché si piazza nella mente, nello stomaco, nella gola; dentro la ferita c’è una normalissi-ma giornata di fine lavoro.

Ho finito di lavorare e mi sento come sempre un po’ vuoto, non sono mai soddisfatto, anche se mi hanno ringraziato sinceramente e mi hanno detto “Lei è molto disponibile”.

Forse sono disponibile perché mi sento solo.

In questa ferita c’è il vialetto che percorro.

Ottima normalità di Gianfranco Proietti

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Ho rimesso l’auto al garage e l’avvitatore sul caricabat-teria.

Verso di me viene un giovane, è uscito dall’atrio della villetta, è casa mia.

………………

Porta una cassetta per attrezzi, più che nuova, come fosse stata acquistata da due giorni o mai usata.

Si notano certe cose, anche perché da una vita vado a lavorare con cassette per attrezzi, e le mie invecchiano in due ore.

Mi passa accanto, m’ignora, io ho accusato uno strano malessere e mi sono sentito a disagio dopo averlo guar-dato.

Ho inciampato sullo zerbino per pensare a lui e a quello che non volevo pensare. Sono entrato e ho chiamato mia moglie, non si sa mai dove sta e che sta a fare, e senza salutarla perché abbiamo smesso di salutarci da qualche anno “Quel tizio chi era?” ho chiesto.

“Cheee?!!” lei è tranquilla, radiosa, lontana...

“Quel tizio chi era?” insisto.

Si stringe nella vestaglietta estiva, è ancora piacente come donna, si può desiderare, ma non c’è, è assente e…

“AH!! Si, è il tenore del coro di Don Mario...”

“Ma che ci faceva voglio sapere!”

“AHH! Sì, l’ho chiamato per il miscelatore... il bagno si stava allagando, poi avevamo le prove, il mezzosopra-no al semaforo…”

Il resto non l’ho sentito.

“Ecco dove ho visto quel tizio…” ho detto quasi a voce alta. Al semaforo, lunedì, sì lunedì, mi guardava... mi esaminava... e al verde mi ha bruciato come chi vuole dimostrarti che vale più di te, e se volessi la competizio-ne, lui è sicuro di superarti sempre.

Poi ha rallentato guardando allo specchietto per pochi secondi sperando forse che lo affiancassi, per che fare? Bruciarmi di nuovo o provocare una reazione faccia a faccia?

Una bella litigata, un sano ricorrere alle mani. Special-

mente quando lavoro non cerco rogne, evito di esse-re coinvolto perché non conosco la strada che si prende quando si decide, se si può decidere, di uscir-ne.

………………

Una sera d’inverno, stavo davanti al camino del Ru-stico, mia moglie scese dal piano di sopra e mi aggre-dì verbalmente per un vaso rotto.

Di rotto dentro casa c’erano cose più serie, io cercai di smorzare i toni dicendo che era un comunissimo vaso e che si poteva ricomprare anche al supermerca-to e... invece si fece ancora più provocatoria e vio-lenta, tanto che mio genero che fumava in giardino si precipitò dentro cercando in tutti i modi di farmi togliere le mani che le stringevano il collo, e dispera-to gridava “Così l’ammazzi, l’ammazzi!”.

Non l’ho affiancato per litigare,quella faccia da stron-zo.

Lui spinse sull’acceleratore della BMW e sparì sul rettilineo.

Oggi, proprio per la ferita, ci farei a botte se volesse fare il bis.

Perché è un falso idraulico che ha riparato un guasto in un appartamento che di rotto aveva solo gli occu-panti; canta veramente nel coro parrocchiale a stretto contatto musicale con una soprano leggera, leggera, di quella leggerezza che porta via una quarantenne sposata per caso ad un idraulico riparatore di mestie-re.

Ma l’artigiano della cui normalità ero certo fino a ieri, oggi si deve essere messo qualcosa in testa, den-tro la testa, qualcosa che si presenta ancora difficile da decifrare.

S’è comprata una BMW d’occasione, seminuova, ci va a fare la solita manutenzione, la tiene pulita nono-stante sia blu, è più distratto del solito, ed ho notato che quando si trova fianco a fianco con una BMW in doppia fila o al semaforo, fa una faccia strana, la guar-da di sbieco e sgomma così forte che sussulta sul sedi-le anatomico.

Forse perché non indossa più le cinture.

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“SPAZIO NUGAE”

...Appelli, proposte, eventi… Idee in movimento...

APPELLO PER L'ISTITUZIONE

DI CATTEDRE DI FANTASCIENZA

Il rapido progredire, oggi, della scienza e della tecnologia sottopone l'uomo, nel breve volgere della sua esistenza, a una serie di mutamenti così inattesi, profondi e molteplici che, in passato, si verificavano solo nell'arco di centinaia di anni. La visione del mondo era, per l'uomo del passato, del tutto rassicurante, tanto che l'umanista Caro-lus Bovillus poteva dire: "Hunc mundum haud aliud esse quam amplissimam hominis domum". L'avvento della scienza moderna sconvolse sin dalle fonda-menta tale concezione prescientifica. E poiché quella che è andata in frantu-mi è la visione armonica del mondo e l'uomo contempora-neo - afferma il filosofo tede-sco Max Scheler - "è diventa-to pienamente e completa-mente problematico a se stes-so; [né] sa più ciò che egli è, ma allo stesso tempo sa pure di non sapere, si designa il disagio dell'epoca moderna come "crisi umanistica".

Tuttavia, se la scienza è all'o-rigine della crisi umanistica contemporanea, non ha senso condannarla e rigettarla in nome di una improbabile ed idilliaca era pre-scientifica: nella storia i "ritorni" non sono possibili, meno che mai il ritorno ad un'età della pietra o ad un'età barbarica, che nessuno in pratica sarebbe disposto ad accettare. La soluzione della crisi è, invece, nello sforzo difficile ma non impossibile di integrare la scienza in un umanesi-mo rinnovato, alla cui realizzazione da' un notevo-le contributo la letteratura che alla scienza si ispi-ra: la science fiction o fantascienza. Non è facile esporre, in poche battute, il percorso critico, filosofico, epistemologico e pedagogico che ci ha portati ad intendere la fantascienza come ponte tra le due culture e come stimolo per i giovani ad acco-

starsi allo studio della scienza. Rimandiamo, perciò, quanti lo desiderano, ai nostri interventi più significa-tivi, che si trovano raccolti al seguente link: http://www.futureshock-online.info/pubblicati/html/cattedre.htm

Tuttavia, per poter assolvere il compito di educare le giovani generazioni all'uso corretto (umanistico) della scienza, la fantascienza ha bisogno di essere accolta nel mondo accademico italiano. Si rende dunque indispensabile la istituzione di cattedre universitarie, come normalmente avviene nel mondo anglosassone, dove recentemente, a Glamorgan (UK), è stato isti-tuito un corso universitario con diploma di laurea in

fantascienza. Ma è anche indi-spensabile l'appoggio di quanti credono nella bontà del nostro progetto, appoggio che può esse-re offerto sia divulgando la nostra iniziativa, sia dando la propria adesione al seguente link: http://w w w . m o o n c i t y . i t / p u b l i c /contatti.html. Il Comitato orga-nizzatore, di cui fanno parte Ro-berto Furlani (direttore della rivista fantascientifica on-line "Continuum"), Enrico Leonardi (docente di lettere, collaboratore di "Cultura Cattolica" e critico di fantascienza), Luciano Nardelli (scrittore di fantascienza), Miche-le Nigro (redattore di "Nugae – scritti autografi" e scrittore di fantascienza), Guido Pagliarino

(scrittore), Annarita Petrino (scrittrice di fantascien-za) e Luigi Picchi (insegnante liceale di Materie Let-terarie e critico letterario), raccoglierà le adesioni pervenute, che si spera siano abbondanti, e le presen-terà, a corredo del piano di studio per la laurea in fantascienza, agli organi competenti.

Distinti saluti.

Prof. Antonio Scacco

(Direttore editoriale “Future shock”)

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Ridefinire le distanze

Sarà una tale lontananza a non farmi contare più gli incontri, le volte che le parole fumate – proprio così - le abbiamo sfumate. In un micro cartoccio - che sbiadisce l’inchiostro – non faccio che pensare al pensare e cercarsi. Si comincia così una nuova sfida. Qui nel mezzo non resto. Avrò quarant’anni, e cinquanta, e ancora centocinquanta di occasioni ci saranno per ritrovarsi? Comincia la vera questione della vita: abbeverarsi goccia a goccia a rari sorrisi e parole vere. È un’epoca di fame e sete. Meglio soli, meglio solitudine che vedersi sfiorire d’inflazione. Perché non ci stupiamo: si accalcano alle soglie come esistesse razione di pace e libertà, passione forse. Noi siamo lì perché? Crediamoci, siamo lontani eppure ci guardiamo. Il mio balcone annuvolato mi costringe a traslocare. Questa volta e ancora una volta la vita non è ripetizione, avanza lentamente in movimento. Incontriamoci in più due o tre volte almeno, vedrai che festa e sorpresa: saranno le sole volte in cui ci guarderemo.

Nota

pensare e cercarsi è tratto da una poesia di Pasolini Ai redattori di Officina, pre-sente negli Epigrammi (1958) inclusi nella raccolta La religione del mio tempo. Invece mezzo viene fuori dal noto primo verso del-la Divina Commedia.

Fabio De Santis

Figlio. Dalle viscere dilaniate Dal cuore trafitto Dalla bocca impotente Dagli occhi senza più lacrime Figlio! Il dolore senza requie Le lacrime senza scopo Le preghiere senza movente Le domande senza risposta Figlio! Figlio senza colpa Come gridò sotto la croce L'altra Madre Figlio mio diletto Pensiero di ogni momento Figlio! Ti cerco a ogni respiro Risvegliandomi Addormentandomi Nel sonno Ti cerco nel sole E nelle tenebre Ovunque io speri Di trovarti Ovunque ti cerco Figlio!

Teresa Castellani

“Sotto il portico” galleria di poesie

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“Controedicola” In alternativa alla cultura dilagante del “ best seller da edicola” e all’ “enciclopedia da super-market”, Nugae - Scritti Autografi è lieta di presentare ai propri Lettori una piccola rubrica dedi-cata ai cosiddetti “libri particolari” - sconosciuti o quasi ; famosi un tempo, ora dimenticati -, agli “sfortunati” delle classifiche, ai “figli stampati di un dio minore”… A tutti quei testi, insomma, che un po’ per le tematiche affrontate e, in parte, a causa dell’ombra creata dai “grandi successi”, non hanno mai aspirato e mai aspireranno a risalire le “ top ten ” dei libri più venduti. Libri, antichi o moderni, che hanno ancora tanto da raccontare…

“Il popolo degli abissi”

di Jack London

L’opera dimenticata del grande scrit-tore americano. Mentre altri autori suoi conterranei si limitavano a canta-re ciecamente le glorie dell’Impero Britannico allora giunto al suo massi-mo fulgore, London, travestitosi da marinaio, si addentrò, nel 1902, nel-l’East End della capitale britannica, e si calò completamente nella più disa-strata delle realtà sociali: dormì nelle baracche, frequentò prostitute, pove-ri, ogni genere di umanità rifiutato dalla città “alta”.

Un capolavoro letterario e un vero e proprio trattato sociologico.

Robin Edizioni € 12,00

“Se tu vorrai sapere…”

Cinque lezioni su Franco Fortini

di Ennio Abate, Velio Abati, Luigi Carosso, Elisa Gambaro, Gianni Turchetta.

A cura di Paolo Giovannetti

A dieci anni dalla morte di Franco Fortini, il Punto Rosso gli ha dedicato un ciclo di cinque lezioni, nella con-vinzione che l’opera di questo straor-dinario intellettuale sia pienamente viva, pur in un contesto politico e ideologico come quello italiano d’og-gi che anche a sinistra fa di tutto per ignorare le urgenze della sua ardua riflessione, del suo instancabile utopi-smo. Da quell’esperienza realizzata con intenti soprattutto divulgativi da un gruppetto di ‘militanti’ e ‘accademici’, per una volta non con-trapposti è nato il presente volume. Una ricostruzione di alcuni ambiti dell’attività di Franco Fortini e (ce lo auguriamo) dell’insieme della sua figura: la poesia, la saggistica, l’azio­ne politica a un tempo analitica e appassionata, l’educazione, il ruolo e la funzione dell’intellettuale.

Edizioni Punto Rosso € 8,00

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“L’opera poetica

di Emilio Prados”

di Felice Pagnani

Questo volume di Felice Pagnani ha l’indubbio merito di andare ad illumi-nare una zona trascurata dagli ispani-sti, e non solo italiani, della così detta “generazione del ‘27”, quella per in-tenderci dei Lorca, degli Alberti, dei Salinas, dei Guillén, degli Aleixandre, ecc. E Prados è rimasto per troppo tempo, insieme al suo amico e colla-boratore Manuel Altolaguirre uno di questi eccetera.

Pagnani è nato a Contursi Terme (SA). Laureatosi in Lingue e Letteratu-re straniere, presso l’Università di Bergamo, è dirigente del “Centro di Cultura Popolare UNLA”.

Mauro Baroni Editore (1998)

L.25.000