NOTE OMERICHE E MICENEE -...

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NOTE OMERICHE E MICENEE di CARLO GALLAVOTTI 1) IL CATACLISMA DI THERA NEI POEMI OMERICI La geologia di Thera, in mezzo all'Egeo, è testimone di un'enorme ca- tastrofe che colpì i paesi rivieraschi del Mediterraneo durante l'ultimo pe- riodo dell'età del bronzo; tale cronologia si desume dalla tipologia dei reperti archeologici sepolti sotto i banchi di tufo pumiceo più profondi. La forma- zione di una caldera nel vulcano di Santorino durante violentissime eruzioni, e quindi il crollo finale di una gran parte del territorio dell'isola, produssero un maremoto di gigantesche proporzioni, che mutò probabilmente la geo- grafia e l'economia di molte terre, dal mar Ionio al Bosforo, a Cipro, al sahel egiziano, e naturalmente alle vicine coste dell'isola di Creta. Con questo tremendo fenomeno naturale si collega, secondo il Mari- natos 1, la distruzione del palazzo di Cnosso, intorno al 1500 a.C.; così si spiegherebbe il declino della talassocrazia minoica, con il susseguente insor- gere del prevalere politico ed economico dei regni micenei. Ma la violenza del maremoto, anche se calcolabile solo in maniera appros- simata, fu di tale potenza distruttiva che nelle isole e sulle coste dell'Egeo 1 La teoria del Marinatos risale a più di trent'anni fa, e ha goduto di largo interesse e di molto favore sino al suo ultimo rapporto degli scavi ancora in corso nell'isola di Thera. Si veda la bibliografia citata nel recente studio di Leon Pomerance, The linal collapse 01 Santorini (<< Studies in Medit. Archaeol.» voI. XXVI), Goteborg 1970. È da aggiungere ora un articolo di S. Hood, The Int. Scient. Congress on the Volcano 01 Thera (1969), in «Kadmos» 1970, pp. 98-106; inoltre un saggio di Denys Page, The Santorini Volcano and the destruction 01 M;noan Creta, London 1970. In questo saggio di D. Page sono riportati molti utili dati sul maremoto prodotto dal Cracatoa nel 1883, ma alla fine la catastrofe di Thera v,iene ridotta a una pioggia di cenere che, abbattendosi su una parte dell'isola di Creta, segnò la fine della talassocrazia minoica.

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NOTE OMERICHE E MICENEE

di CARLO GALLAVOTTI

1) IL CATACLISMA DI THERA NEI POEMI OMERICI

La geologia di Thera, in mezzo all'Egeo, è testimone di un'enorme ca­tastrofe che colpì i paesi rivieraschi del Mediterraneo durante l'ultimo pe­riodo dell'età del bronzo; tale cronologia si desume dalla tipologia dei reperti archeologici sepolti sotto i banchi di tufo pumiceo più profondi. La forma­zione di una caldera nel vulcano di Santorino durante violentissime eruzioni, e quindi il crollo finale di una gran parte del territorio dell'isola, produssero un maremoto di gigantesche proporzioni, che mutò probabilmente la geo­grafia e l'economia di molte terre, dal mar Ionio al Bosforo, a Cipro, al sahel egiziano, e naturalmente alle vicine coste dell'isola di Creta.

Con questo tremendo fenomeno naturale si collega, secondo il Mari­natos 1, la distruzione del palazzo di Cnosso, intorno al 1500 a.C.; così si spiegherebbe il declino della talassocrazia minoica, con il susseguente insor­gere del prevalere politico ed economico dei regni micenei.

Ma la violenza del maremoto, anche se calcolabile solo in maniera appros­simata, fu di tale potenza distruttiva che nelle isole e sulle coste dell'Egeo

1 La teoria del Marinatos risale a più di trent'anni fa, e ha goduto di largo interesse e di molto favore sino al suo ultimo rapporto degli scavi ancora in corso nell'isola di Thera. Si veda la bibliografia citata nel recente studio di Leon Pomerance, The linal collapse 01 Santorini (<< Studies in Medit. Archaeol.» voI. XXVI), Goteborg 1970. È da aggiungere ora un articolo di S. Hood, The Int. Scient. Congress on the Volcano 01 Thera (1969), in «Kadmos» 1970, pp. 98-106; inoltre un saggio di Denys Page, The Santorini Volcano and the destruction 01 M;noan Creta, London 1970. In questo saggio di D. Page sono riportati molti utili dati sul maremoto prodotto dal Cracatoa nel 1883, ma alla fine la catastrofe di Thera v,iene ridotta a una pioggia di cenere che, abbattendosi su una parte dell'isola di Creta, segnò la fine della talassocrazia minoica.

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quasi ogni forma di vita umana e associata dovette essere annichilita per un certo periodo di tempo. Con lo scoppio del vulcano verso il 1500 la civiltà micenea non sarebbe esistita. Di qui la tesi recente di Leon Pomerance; attra­verso un elaborato esame dei dati storici ed archeologici, e attraverso il con­fronto con gli spaventosi tsunami dell'età moderna, egli fa scendere di tre secoli la data del cataclisma nel Mediterraneo: al 1200 a.c., quando i palazzi micenei vengono distrutti, gli insediamenti micenei su tutte le coste dell'Egeo appaiono abbandonati, l'economia dell'intero bacino mediterraneo precipita, si frantumano i grandi imperi, e sopravviene l'età del medioevo ellenico.

La potenza energetica del fenomeno e la sua distruttività effettiva ven­gono calcolate dai naturalisti in via teorica, e forse alcuni dati restano incerti, compreso il dato fondamentale sulla precisa dinamica del fenomeno e sul volume della caldera prodotta dalle grandiose eruzioni che preparavano il collasso finale. È ad ogni modo una porzione enorme del territorio di km2 83 calcolabili per Thera, che precipita nella voragine improvvisamente, o in mo­menti successivi; la voragine incandescente ha il diametro di una decina di chilometri in superficie e una profondità di almeno 600 metri: il crollo risuc­chia e in parte ributta un volume colossale di acqua marina, pari al volume della caldera meno quello del coperchio crollato. .

Forse l'energia prodotta dallo sprofondamento di Thera fu almeno tre volte e mezzo superiore (data la maggiore superficie dell'isola) allo scoppio del Cracatoa nel 1883, che si calcola equivalente al potenziale di mille bombe termonucleari; o forse fu dieci volte superiore, come riferisce il Pomerance. Ma questo è probabilmente un dato teorico, non bene utilizzabile nell'apprez­zamento di vicende storiche, fino a che non si abbiano dati concreti per accer­tare quali furono realmente gli effetti geo-morfologici e fisici del fenomeno in terre lontane, come la Tracia o Cipro o le coste africane. Le condizioni ecologiche e meteoriche del Mediterraneo sono difficilmente comparabili con quelle oceaniche, e non abbiamo per questo bacino un'altra memoria avvici­nabile alla catastrofe che si presume per Santorino sulla base dei moderni tsunami del Giappone o del Cile (maggio 1960). D'altra parte, a parità del­l'energia cinetica sprigionata dal crollo finale (final collapse), gli effetti distrut­tivi di un maremoto nella baia ristretta dell'Egeo debbono essere, in propor­zione, molto maggiori di quelli prodotti in un oceano. Il maremoto cileno del 1960 attraversò l'Oceano Pacifico allargandosi fino alla Nuova Zelanda, e aggredi la costa giapponese di Hokaido dopo 22 ore, producendo morti e distruzioni. Lo scoppio del Cracatoa nel 1883 devastò le isole della Sonda, ma partendo dall'Oceano Indiano raggiunse dopo parecchio tempo le coste dell'America Meridionale, delle Isole Havaii e dell'Europa, alla distanza di dieci fino a sedici mila miglia, e precisamente il Canale della Manica dopo un intero giorno e otto ore e mezzo, con minori effetti. Ma Creta dista da Thera solo un braccio di mare che non arriva alle settanta miglia; e poco di più,

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circa 200 chilometri, distano Rodi e Chio, il sud Eubea, il capo Sunio, e il capo Malea.

Se immaginiamo uno scoppio del vulcano come quello del Cracatoa in Indonesia (per un territorio di soli km2 23), e se teniamo conto della velocità di trasferimento delle ondate (che è minore in un bacino poco profondo come il Mediterraneo, dove batte tuttavia i 200 o 300 all'ora), l'onda della morte raggiunse Creta in mezz'ora, la Messenia e la Troade in un'ora; Cipro in due, la Sicilia e la Siria in tre ore. Segnali d'allarme e premonitori saranno stati soltanto i boati dell'eruzione, una nube enorme di cenere e lapilli, le scosse telluriche, il mare agitato.

Per una ipotesi sulla datazione della catastrofe di Thera, assumiamo che il generale quadro archeologico e storico dell'Egeo concorra a rendere plausi­bile la data del 1200 a.C., cioè la fine del mondo miceneo, piuttosto che gli inizi o i primi tempi di quella esuberante civiltà. Resterebbe da interrogare i documenti. Per un fenomeno di proporzioni così colossali e totalitarie, come è descritto dal Pomerance secondo il calcolo di « dieci volte il Krakatau », o anche meno, parrebbe strano che un ricordo non fosse rimasto nella memoria degli uomini, cioè nei racconti storici e mitologici delle varie genti interessate. Il Pomerance ha interrogato, con incerto successo per questa parte, il Libro dell'Esodo e il primo Libro dei Re, gli Annali egiziani, e l'archivio di Ras Shamra. lo penso ai greci, e ad Omero. Infatti, dopo il tempo del diluvio e il mito di Deucalione, è rimasto nella storia greca la memoria di un'altra cata­strofe che fu prodotta non dalle acque del cielo, ma 'da quelle del mare: la distruzione delle flotte achee di ritorno da Troia, verso il 1200, al termine della civiltà micenea. E ancora un dato di estremo interesse va analizzato nel testo omerico, in concorrenza con il naufragio delle navi: la violenta de­vastazione marina del baluardo che era stato costruito dai Greci sulla costa della Troade.

* * * Una robusta trincea, con bastioni e palizzate, sopra un ampio fossato, è

il baluardo costruito nel nono anno della guerra, per proteggere il campo e le navi. Di questo muro, 'tELXOC;, si parla occasionalmente nel corso dell'Iliade; in H 436-41 e 465-6 ne è brevemente descritta la rapida e festeggiata co­struzione 2, avvenuta durante una tregua d'armi (e senza cerimonia religiosa). Ma del 'tELXOC; si parla specialmente nel libro 12, la 'tHXO~a.XLa. . Se ne parla fin dal principio del libro: in M 3 la menzione del muro è introdotta ex abrupto, durante la narrazione della battaglia, e solo in M 35 viene poi pre­cisato che là avvenivano ormai i combattimenti dopo la disfatta degli Achei. Il muro in quel momento li proteggeva, ma (questo è il significato logico

2 L'astuzia dei Greci, che costruiscono rapidamente il muro difensivo approfittando della tregua sancita per la sepoltura dei guerrieri, è rappresentata in breve, e con ciò

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dell'improvviso trapasso e del contesto) per poco tempo ancora era destinato a restare in piedi (vv. 2-9):

or. oÈ ~l.(ix;ov't'o

'ApYELOL xa.t TpWEC; é~L)..,a.06v. oùo' ap' E~EÀ.À.EV

't'a.q>pOC; E't'L crx1}(TELV A.a.va.wv, xa.~ 't'ELX;OC; V'ltEpl}EV 5 EÙPU, 't'ò 'ltOL1}cra.V't'O VEWV V'ltEp, à~q>~ oÈ 't'a.q>pov

i)À.a.cra.v, oùoÈ l}EOLcrL 06r:ra.v XÀ.EL't'èx.C; Èxa.'t'6~~a.c;,

oq>pa. r:rq>L'J vi'ja.c; 't'E l}oèx.c; xa.t À.T}toa. 'lto)..,).., i}v ÈV't'ÒC; EX;OV pUOL't'O . l}EwV O' àÉXT}'t'L 't'É't'ux't'o àl}a.va.'t'wv, 't'ò xa.~ oi) 't'L 'ltoÀÙv X;pévov E~'ltEOOV TiEV.

La struttura stessa dell'intero contesto dimostra la saldezza della costru­zione narrativa e la sua genuinità; ma un'ansia narrativa, o forse l'emozione per il ricordo di un evento straordinario, già traspare dall'intarsio concettuale di questi versi citati, ed anche traspare nelle giunture sin tattiche , al v. 3 e poi al v. lO, dove comincia la notizia dell'evento futuro (vv. 10-33):

10 oq>pa. ~Èv "Ex't'wp SWÒC; ET}V xa.t ~1}vL' 'AXLÀ.À.EÙC; xa.t npLa.~OLO ava.x't'oc; à'ltépl}T}'t'oc; 'lt6À.LC; E'ltÀ.EV, 't'6q>pa. oÈ xa.t ~ya. 't'ELX;OC; , AX;a.LWV E~'ltEOOV Titv. a.u't'àp È'ltEL xa.'t'èx. ~Èv Tpwwv l}a.vov Or:rr:rOL apLcr't'oL, 'lt0)..,À.0~ o' 'ApYEtW\l or. ~Èv Oa.~EV 01. oÈ À.t'ltov't'o,

15 'ltÉpl}E't'O oÈ npLa.~OLO 'lt6À.LC; OEXa...cp ÈVLa.U't'@, 'ApYELOL o' Èv \lT}ucrt q>tÀ.T}V ÉC; 'lta.'t'ptO' E~T}r:ra.V, oi} 't'6't'E ~T}'t'Léwv't'o nocrELoa.W\l xa.t 'A'lté)..,)..,wv 't'ELX;OC; &.~a.)"'OUVa.L 'lto't'a.~wv ~ÉVOC; ELr:ra.ya.y6v't'EC;.

stesso sottolineata, in H 435-441 e 465 (a cui segue la festosa gozzoviglia). Forse avevano ragione i grammatici alessandrini di espungere i vv. 442-464, in cui Posidone espone a Zeus il proprio rammarico e una certa invidia per la costruzione degli Achei, e Zeus predice che potrà essere lo stesso Posidone a distruggerlo (vv. 459-63, con strutture verbali che ripetono e riassumono M 27-33):

liYPE~ Ilav, o"t' ll.v <xihE xa.P7J xOllbwv"tEç 'AX<x~oL

460 oCxwv"t<X~ aùv v7Jua~ (jJLì, 7JV Èç 7t<X"tPLO<X y<xL<xV. "tELXOç a.v<xppT)s<xç "tò IlÈV dç (i)..<x 7tiiv X:<X"t<XXEij<x~.

<xv"t~ç O· T)Lbv<x llEya).. 7JV 1jJ<Xllaj}o~a~ x<xMIjJ<x~,

&ç xÉv "tO~ !lÉy<x "tELXOç a.1l<x)"OVV7J"t<X~ • AX<X~wv.

Se si elimina tutto il brano dei vv. 442-464, allora il rapido accenno alla costruzione del muro (436-441 più 465) e la festosa gozzoviglia che la celebra (466-475) si compongono in un unico quadro di vigorosa poesia. Astuzia, hybris, ed empietà, vengono insieme esaltate: per giungere a costruire il muro durante il breve periodo della tregua, gli Achei non perdono il tempo neppure a seppellire i loro morti, ma li gettano tutti in una fossa comune (H 435).

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Il cataclisma di Thera

oererot à1t' 'Ioatwv òpÉwv (n.aOE 1tpopÉouerw,

'tWV 1tav'twv op.6erE er't6p.a't' E'tpa1tE Il>OL~Oç 'A1t6)..,)"wv. 25 Èwi]p.ap o' dç 'tELXOç LEt p6ov, VE o' a.pa ZEÌJç

eruvEXÉç, oeppa XE Mererov aÀ.L1tÀ.oa 'tELXEa 1}ELTI. aÙ'tòç o' Èwoertyatoç EXWV XELpEerert 'tpLawav 'Ì)YEL't', Éx o' a.pa 1tav'ta 1}Ep.ELÀ.ta xup.aert 1tÉP.1tEV ept'tpwv xaL À.awv, 'ta 1}Éerav p.OyÉOV'tEç , AxatOL,

30 À.ELa o' É1tOLTlerEV 1tap' àyàppoov 'EÀ.À.1)er1tov'tov. aV'ttç o' 1)t6va p.EyaÀ.TlV ~ap.à1}otert xaÀ.u~Ev 'tELXOç àp.aÀ.ouvaç, 1to'tap.oÌJç o' E'tPE~E vÉEer1}at xap p60v TI 1tEp 1tp6erl}Ev LEV xaÀ.À.LppoOV uowp.

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Il baluardo, fatto di pietre rinforzate da una palizzata (v. 29), è co­struito trasversalmente alletto dello Scamandro e del Simoenta, dove avven­gono le battaglie (vv. 21 -23), e s'innalza (v. 4 U1tEp1}EV) sopra un lungo fossato ('taeppov àp.epL-i)À.aerav) o propriamente un dosso, che è pauroso per i cavalli, perché è profondo e fortificato (vv. 50-57). Altri particolari della costruzione, non tanto realistici quanto necessari alla descrizione dell' azione guerresca, vengono forniti dal sèguito del racconto.

Ma ciò che va rilevato sono i caratteri realistici che present; la descri­zione dell'inondazione, qualora si voglia interpretare secondo la dinamica di un grandioso maremoto che si avventa sulle coste settentrionali della Troade, fra il mare Egeo e il Bosforo. Tutti i fiumi, che dal monte Ida scorrevano al mare, dilagano nella pianura confondendo le proprie acque, e si avventano contro il muro. Il mare concorre alla distruzione: aggredisce il muro, e tra­scina indietro, dentro i gorghi marini (v. 28 xup.aerw È)C-1tÉP.1tE), tutto il mate­riale della costruzione (1tav'ta 1}Ep.ELÀ.ta); così spiana l'intera costa dell'Elle­sponto (v. 30). Ma poi di nuovo (v. 31 aV'ttç oÉ), dopo avere demolito il muro (v. 32 'tELXOç àp.aÀ.ouvaç), il mare torna a ricacciare verso le loro sorgenti le correnti dei fiumi (vv. 32-33), e abbandona la lunga riviera della Troade sotto una coltre di sabbia (v. 3l ~ap.a1}otert xaÀ.u~E).

È da notare anzitutto che le ondate sono due, quante ne presenta nor­malmente uno tsunami; e mentre la prima è di una violenza inaudita, la se­conda (vv. 31-33) risulta attenuata. Ma c'è un particolare che sembra incre­dibile geograficamente, là dove si legge che tutti i fiumi che scendono al Bo­sforo dal monte Ida (v. 19),

20 'Pi]er6ç l}' 'E1t'ta1top6ç 'tE KapTler6ç 'tE 'P60L6ç 'tE rp1)vtx6ç 'tE xaL Ai:erTl1toç oi:6ç 'tE kxap.avopoç xaL kLP.6ELç,

confondono le proprie acque e s'avventano contro il muro per nove giorni. Questa sarebbe la parte che svolge Apollo nella tremenda azione punitiva;

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l'opera di Apollo rimane distinta dall'intervento di Posidone (v. 27). Ma nella realtà fisica si tratta di piccoli canali che confluiscono nello Scamandro, e non possono, per le piogge (v. 25), arrivare a compiere anche insieme allo Sca­mandro e al Simoenta una tale devastazione come è descritta nel testo. Qui dunque pare che ci sia stata, da parte dei contemporanei, una interpretazione errata del fenomeno, che diamo per reale nella seguente forma: la prima ondata dello tsunami, che raggiungeva un'altezza di 20 fino a 30 metri, e si abbat­teva sulle coste o c c i d e n t a l i della Troade, dalla parte dell'Egeo, alla velocità di 200 fino a 300 chilometri all'ora, scavalcò il territorio pianeggiante della Troade, ad ovest della collinetta di Hissarlik, per un paio di chilometri, fino all'ansa dello Scamandro; e attraverso il letto dei fiumi e la vallata dello Scamandro, che corre in direzione del Bosforo da sud a nord, si scaricò sulle coste s e t t e n t r i o n a l i, nel mare del Bosforo, trascindando pietre e pali del muro acheo; nel medesimo istante, la stessa colossale ondata che aveva attraversato l'Egeo, varcava la strettoia dei Dardanelli, e sollevando il Bosforo inondava le coste dal nord. Poco più tardi, invece, la seconda ondata (vv. 31-33), che risultava attenuata, non superò il territorio della Troade dalla parte occidentale, ma solo invase la costa settentrionale dalla parte del Bo­sforo; risalì il letto dei fiumi (v. 33), e lasciò sepolta tutta la regione sotto un banco di sabbia (v. 31); e forse, aggiungiamo, sotto banchi di pomici: come quelli rimasti sulla costiera settentrionale di Cipro, e fino in Siria e in Pa­lestina.

Alla fantasia poetica bisogna dare una gran parte della descrizione ome­rica, sia l'opera muraria sia la devastazione. Ma non direi che il muro sia stato inventato da Omero per aver modo di narrare una teichomachia; se ne parla anche altrove nel poema, e non si vede il motivo per cui proprio a questo punto, all'inizio del libro 12, il poeta dovesse avvertire che il muro non esisteva più dopo il termine della guerra. E poi, se si crede alla sostanza storica della guerra troiana, è ben plausibile tatticamente la costruzione di un campo trincerato, alla testa di sbarco, di fronte alla città assediata, per una guerra di posizione.

Ma mi rendo conto che osservazioni di questo genere resterebbero vaghe e non cogenti, se non avessi da addurre anche un dato positivo: la coerenza che si può istituire fra l'episodio del muro e un'altra parte del tutto diffe­rente dei poemi omerici e del mito greco, cioè il mito già accennato del \locr .. oc; À,uypoC; (Horn. (J. 327, y 132). Tale coerenza, per lo meno, ci distoglierà dal fare ricorso a quel tipo di esegesi delle fonti, a cui ci ha abituati troppo spesso la critica storica, cioè ammettere la storicità del maremoto descritto da Omero ma riportare l'evento ad un'età diversa dalla guerra troiana.

La rispondenza fra il libro 12 dell'Iliade e i primi libri dell'Odissea (memorie di Nestore e di Menelao sul ritorno degli Achei), è da rilevare an­zitutto riguardo al tempo dell'evento. Nei versi qui sopra citati (M 13-18) è indicato con precisione in che momento avvenne la devastazione del muro:

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Il cataclisma di Thera

non molto tempo dopo quella battaglia (v. lO OV "t'L 1toÀ.Ù\I xpe\lo\l), e precisa­mente quando era caduta la città di Priamo nel decimo anno (v. 15), e gli Argivi si erano imbarcati per ritornare in patria (v. 16):

Proprio allora (v. 17 o'i) "t'O"t'E) Posidone e Apollo pensarono di distruggere il muro: Apollo fa dilagare i fiumi, e Posidone respinge le acque nel retro­terra. Questa è la collera degli dèi, a causa dell'ecatombe non offerta dai Greci (v. 6 oùoÈ ~Eoi:'(n oeO'a.\I X).,EL"t'cX<; ÈXa."t'o~~a.c; = H 450), e non tanto omessa al momento della costruzione del muro (v. 8 ~EW\l O' &.ÉX'Y}"t'L "t'É"t'ux"t'o), quanto al momento della partenza: se i Greci salpano per il ritorno in patria (v. 16) senza ringraziare gli dèi per la salvezza e la protezione data a loro dal muro, ciò significa che hanno dimenticato del tutto il loro obbligo religioso, ed è naturale che scoppi ora improvvisa la collera degli dèi, mentre i Greci sono all'àncora o impegnati nella lunga traversata: adesso Apollo e Posidone di­struggono il possente baluardo, perché non resti traccia della gloria degli Achei e della loro presenza nella Troade, davanti alle ruine fumiganti della città protetta da Apollo. Chi aveva costruito il muro di Laomedonte, anche pro­vava invidia per la possente costruzione che gli Achei si lasciavano alle spalle, sulla riviera dell'Ellesponto 3.

A quanto risulta dai racconti mitici, il momento della partenza non fu sereno per gli Achei e neppure sollecito. Si avvertivano i segni premonitori di una tempesta marina, o forse il pànico si era diffuso per rimorsi e scru­poli religiosi (y 132-36). La partenza fu ritardata dal sacrificio di Polissena, immolata sulla tomba di Achille; poi dall'adunanza che fu tenuta dai capi achei per condannare il sacrilegio commesso da Aiace nel sacrario di Atena, sull'acropoli troiana. Fu ritardata anche da un litigio che sorse fra Agamen­none e Menelao, come racconta Nestore a Telemaco nell'Odissea (y 130 ss.): contro il parere del fratello, Agamennone voleva indugiare, e proponeva di celebrare un solenne sacrificio prima di partire, con lo scopo di placare la collera di Atena (y 145). Ma la partenza diventa una fuga disordinata; molti arrivano fino a Tenedo (y 159), ma poi alcuni, compreso Ulisse (y 163), ri­tornano indietro. Nestore e Diomede, consci di un pericolo imminente, pro­seguono fino a Lesbo; là li raggiunge Menelao; ma sono preoccupati della rotta da seguire (y 169-72), e attendono un suggerimento oracolare (y 173):

Ìl"t'ÉO~E\I oÈ ~EÒ\l epl1\1Cl,L "t'Épa.c;, a.ù"t'cXp es y' 'i}~i:'\1

OEi:'~E, xa.t 'lÌ\lwYEL 1tÉ).,a.yoC; ~ÉO'O\l dc; EV~OLa.\I "t'É~\lEW, oeppa. "t'aXLO'''t'a. tJ1tÈx xa.xe"t''Y}''t'a. epUYOL~E\I.

3 Per questa 'invidia' divina, vedo Horn. H 452-3 e qui sopra la nota 2.

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Il pericolo che si avverte è grave e imminente; e se decidono di tagliare il mare puntando sull'Eubea, ciò significa che con una rotta di piccolo cabo­taggio si rischierebbe di restare troppo a lungo sul mare, o di buttare le navi contro gli scogli delle coste per l'improvviso insorgere di una tempesta. Eppure il mare è ritornato tranquillo, e il vento favorevole (y 176). In quattro giorni Diomede arriva in patria (y 180); Nestore e Menelao sono al capo Sunio (y 278). Nestore prosegue e riesce a raggiungere la Messenia (y 182), ma Menelao deve arrestarsi per l'improvvisa morte del pilota (y 280), e il breve ritardo gli è fatale: quando riparte, e giunge in vista del capo Malea, la sua flotta all'improvviso è risucchiata da ondate enormi (y 290 1tEÀ.WPLcx., anzi xU!J.cx.'t'cx. 't'POcpOEV't'cx.), che sembrano montagne (tO'cx. OPEO'O'LV) . La flotta è traspor­tata alla deriva fino alla costa meridionale di Creta, e sbattuta contro gli sco­gli, di fronte a Festòs (y 295); solo cinque navi si salvano, e sono ancora tra­scinate alla deriva per tutto il Mediterraneo fino all'Egitto (y 300).

La violenza e la vastità del sommovimento marino si riflette anche nei versi tremendi che descrivono la fine di Aiace (o 499). Questi naufraga in mezzo all'Egeo riuscendo a mettere il piede sugli scogli Girei (o 500); ma il mare spacca l'isola, e lo spezzone su cui si aggrappa Aiace viene lanciato in aria e poi ricade nel mare (o 508 't'ò OÈ 't'pucpOC; E!J.1tEO'E 1tov't'~), che lo trascina e lo travolge (o 510). Lo trascina lontano: la morte di Aiace non avviene nelle acque delle Cidadi, ma agli scogli Cafirei, secondo il poema cidico dei Nostoi, cioè alla punta meridionale della Eubea. Dei Nostoi, purtroppo, abbiamo solo uno scarno riassunto di Fozio, desunto da un manuale letterario del neopla­tonico Prodo:

Nost. 283 ... ALO!J.1J01]C; oÈ xcx.i NÉO''t'wp avcx.xMv't'EC; Ete; 't'i)v otxi.cx.v OLcx.O'W­SOV't'cx.L, !J.E~' OVC; ÉX1tÀ.EUO'cx.C; Ò MEVÉÀ.cx.OC; !J.E't'~ 1tÉV't'E VEWV Etc; Ai:yu1t't'ov 1tcx.pcx.yL­VE't'cx.L, 't'wv À.OL1tWV OLcx.cp~cx.pELO'WV VEWV Èv 't'Q 1tEÀ.a.YEL • .•

't'wv oÈ 1tEpi 't'òv 'Aycx.!J.É!J.vovcx. a.1to1tÀ.E6v't'wv 'AXLÀ.À.Éwc; EtOWÀ.OV Èmcpcx.vÈv 1tELpéi't'cx.L OLcx.XWÀ.UEW, 1tpoÀ.Éyov 't'~ O'u!J.~1]O'O!J.EVcx..

Et~' Ò 1tEpi 't'~C; Kcx.cp1]pLOcx.C; 1tÉ't'pcx.c; 01]À.Othcx.L XEL!J.wv, xcx.i 1) Ai:cx.v't'oc; cpi)op~ 't'ov Aoxpov.

Cf. Iliup. 266: Et't'cx. a1to1tÀ.ÉouO'w ot "EÀ.À.1]VEC;, xcx.i cpi)op~v cx.ù't'o'Lc; 1} 'Ai)1]vii xcx.'t'~ 't'ò 1tÉÀ.cx.yoC; !J.1]Xcx.Vii't'cx.L.

Anche in Euripide il massimo parossismo è all'Eubea (Tro. 84) e alle Ci­dadi (Tro. 89-90) :

aX't'cx.t oÈ Mux6vou A1)À.LoL 't'E XOLpa.OEC; l:xvp6c; 't'E Ai)!J.v6c; i)' cx.t Kcx.cp1)PELO(. 't" axpcx.L.

In un carme di Alceo, che è stato scoperto recentemente \ il sacrilegio di

4 Rimando al mio commento, Aiace e Pittaco nel carme di Alceo, «Boli. Class. Ace. Lincei », n.s., fase. 18, 1970, pp. 3-29.

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II cataclisma di Thera 15

Aiace e la vendetta di Atena sono descritti rapidamente. Quando le navi d'Aiace stanno doppiando a sud l'Eubea, alle isole Egi (7tapa7tÀ.Éov"tEç ALy<iç),

la furia del mare è tremenda e fatale (vv. 7-8):

OL O' au"tE] 7tap7tÀ.Éov"tEç ALyatç

&.pyaMaç] E"tUXOV i}aÀ.&.a'Craç.

Anche qui, come in Omero e in altre fonti, non si fa cenno di nubifragi, ma solo dell'improvvisa e violenta insurrezione dei gorghi màrini (vv. 25-28):

&'À.À.' 1jÀ.XE]V· &. oÈ OE~VOV tl7t' ocppucjt

al1,[~xpov] 7tEÀ.tOvwi}w:ra xà"t OLV07ta

lit;[E 7t6v]"tov, Èx O' &'cp&.v"tOtç

È;a7t[tv]aç Èxuxa i}uÉÀ.À.atç ...

È il mare che all'improvviso ribolle, e si scuotono le procelle nascoste negli abissi: È;a7ttv1}ç È;-Exuxa i}uÉÀ.À.<iç &'cp&.v"touç.

La fantasia poetica può certamente costruire dal nulla non solo una tempesta, ma anche un maremoto; ma è proprio un maremoto di grandiosa violenza (che spacca gli scogli e risucchia le navi dal capo Malea fino a Creta) quello che il mito greco dei nostoi intende rappresentare. Ed anche in questa parte del mito c'è il realismo naturalistico delle due ondate dello tsunami, che abbiamo rilevato nella devastazione del muro acheo sulla riviera dell'Elle­sposto; anche nel mito dei nostoi c'è la seconda ondata, perché al capo Malea, dopo Menelao, anche Agamennone è risucchiato dal mare, con minore vio­lenza (Hom. o 514-18), in un tempo successivo, perché aveva indugiato nella Troade ed era partito con ritardo rispetto al fratello.

Ad ogni modo, il dato più importante da sottolineare è la contempo­raneità dei due fatti che nel mito sono tenuti separati, e che invece nella realtà fisica sono riconducibili ad un unico fenomeno naturale: il naufragio delle navi a sud dell'Eubea e l'invasione marina delle coste sul Bosforo. Il naufra­gio è opera di Atena, secondo il mito, per punire il sacrilegio di Aiace; l'inon­dazione è opera di altri dèi, per tutt'altra ragione. Sono due miti diversi. Ma la contemporaneità dei due eventi risulta dall'interpretazione del testo ome­rico citato a principio (M 16-17), ed è anche asserita esplicitamente nel tardo poema epico di Quinto Smirneo, che si rifà probabilmente non solo ad Omero ma ap altre fonti, fino ai po'emi del ciclo: alla fine dei Posthomerica di Quinto si legge che, mentre le navi achee stanno facendo naufragio nelle acque del­l'Eubea, al capo Cafireo, Posidone insieme ad Apollo distrugge il muro sulla costa dell'Ellesponto (Posth. XIV 632-54), scagliando il mare sui lidi troiani e provocando un terremoto che inghiQtte l'opera fortificata degli Achei.

Gli accenni omerici al v60""toç À.uypòç si rifanno probabilmente a saghe più antiche, o si rifanno a quelle stesse memorie di uomini che diedero ma-

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teria ai poemi del ciclo epico, fra cui quello dei Nostoi. Il filo conduttore di questo poema, che insieme ad altri collegava la trama dell'Iliade con l'Odissea, doveva essere sostanzialmente il naufragio delle flotte greche nel mare Egeo; e poiché l'epica nasce di solito dalla storia, dobbiamo ritenere che il naufragio delle flotte achee narrato nei Nostoi rifletta un preciso fatto storico: non si riesce a concepire che sia soltanto un'invenzione poetica, e neppure si può ammettere che l'intero poema dei Nostoi sia nato da quegli scarsi accenni al naufragio, che si distribuiscono e si completano e si riannodano fra il terzo e quarto libro dell'Odissea. Anche se la redazione vulgata dei Nostoi si voglia datare a un'età più recente della composizione dei poemi omerici, la sostanza del racconto deve riportarsi a più antichi cantari o a racconti di antica tra­dizione. D'altra parte la maniera stessa, con cui nell'Odissea si accenna al di­sastroso ritorno degli Achei, ci prospetta un riferimento a materia che è già nota all'uditorio, e non si presenta come un'invenzione del momento da parte del poeta. In altre parole, l'Odissea s'inserisce nella materia generale del ri­torno in patria dopo la guerra troiana, e ne sviluppa liricamente un partico­lare (Ulisse), allo stesso modo con cui l'Iliade s'inserisce nella trama generale della guerra troiana, e ne svolge un piccolo [.l.Époc;, come dice Aristotele (Poet. cap. 23).

A parte il poema dei Nostoi, di cui abbiamo soltanto lo scarno riassunto di Proclo in Fozio, si deve notare che nel complesso del racconto omerico relativo al ÀuypòC; vécr't"oc; si riflette la memoria di un evento, che è di ordine naturale (il maremoto): qui non è valido, a mio parere, il principio molte volte e troppo spesso conclamato che, se ogni epica nasce da una memoria storica, tuttavia non è lecito da un poema epico desumere i particolari di una vicenda reale. Certo il discorso storico viene sempre trasformato dal racconto poetico. Ma Omero è autore di un romanzo storico, piuttosto che di un poema lirico, e molto più di Turoldo. Senza dubbio, il quadro che si compone con i molti dettagli narrati da Omero, è anzitutto da valutare come un racconto poe­tico immaginoso che trova in se stesso e nella sua natura poetica la propria fondamentale motivazione; ma il racconto in generale, con molti dei suoi par­ticolari, deve risalire a una tradizione antica di notizie e di memorie, contem­poranea a reali eventi, se per tali eventi noi siamo in grado di trovare un ri­scontro nella realtà fisica, e nella stessa epoca a cui il racconto si riferisce.

Se colleghiamo il racconto omerico al fenomeno naturale di Thera, allora il pànico che invade gli Achei al momento di salpare, la partenza e il ritorno di alcuni, il ritardo di Agamennone e la fretta di altri, e poi l'ansia per la rotta da seguire, quando il mare è tornato calmo e il vento propizio, sono memorie di contemporanei che hanno assistito a qualche segno premonitore lanciato dal vulcano; dopo pochi giorni, il naufragio a nord-ovest di Thera e la distruzione delle opere fortificate nella Troade sono l'effetto immediato del crollo finale della caldera.

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La gara dell'arco 17

2) LA GARA DELL'ARCO NELL'ODISSEA

Nella Poetica di Aristotele (cap. 24, 60a 13) sono citati alcuni esempi di irrazionalità, 1D..oyo;;;" che conferiscono meraviglia, i}au{.Lacr't"6v, al racconto ome­rico. Un esempio è la fuga di Ettore, quando ai Greci, schierati lontano, Achille correndo fa cenno di no con il capo (à,VÉVEUE), perché non lancino dardi contro il fuggitivo. Le parole alate dei poeti (E7tEa 7t'tEp6Ev'ta) potranno sem­pre raffigurare con delizia (i}ou), alla fantasia degli uditori, ciò che invece apparirebbe ridicolo (YEÀ.OLOV), o per lo meno irrazionale, se fosse rappresen­tato sulla scena teatrale o riprodotto in un esperimento realistico.

Così è il tiro meraviglioso di Ulisse, nel libro 21 dell'Odissea: la freccia è scagliata attraverso i manici delle dodici bipenni confitte nel terreno 1, e infilandoli tutti fino all'ultimo vola via dall'altra parte. I commentatori anti­chi, con vero senso di poesia, e sorretti dall'insegnamento aristotelico, non S1 pongono minuti problemi d'ordine materiale. Basterà pensare che ogni ma­nico (cr'tEÀ.EL'li, in q> 422) fosse abbastanza lungo, e terminasse con un anello o un foro abbastanza largo. Fin dal principio del racconto ('t 574), Penelope dice che le bipenni debbono essere allineate come opuoxo~, come una fila di paletti: Él;ECT)ç, opu6xouç wç •. Quindi si deve intendere che le lame delle bipenni sono conficcate nel terreno, e i manici di legno sono diritti verso l'alto. È questa la spiegazione tecnica che della gara dell'arco era stata accennata ab antiquo 2. Il testo omerico è chiaro in se stesso, non sottintende e non

1 Riporto i versi con cui Penelope propone la gara ('t 571-5):

~SE S1) 1]wç ErO'~ SVO'WVVIlOç, il Il' 'OSvO'i'joç otxov a.7tOcrx1)O"E~· 'IIV'II yà.p x~'t(llhiO"w iid»).o'll 't o ù ç 7t E). É x E ~ ç , 'toùç XELVOç ÈvL IlEYa.pO~~v ~OLO"W

tO"'t~crx' ~ t; d 11 ç, 6 p v 6 X o v.,; Cl .,; , 6WSEX~ 'Ita.v't~";,

O"'tli.,; S' /S yE 7t o ). ). ò v ii v E V 1) E S~~ppl1t't~O"XEV 6~0"'tov.

La parola SPUOXo~ 'paletti di legno (allineati)' dovrebbe essere accentata parossitona, *Spv-6xo~ (come Spv-'t6Iloç), se il suo reale significato fosse quello di 'sostegni (-OXo~) delle carene (Spu-, legni delle imbarcazioni)' in un arsenale. Ma forse il vocabolo veniva inteso genericamente per 'legni portanti' o 'pali allineati' (Spu-OXo~). È sembrato a taluni che nel passo omerico la parola SpuoXo~ venisse addirittura equiparata a 1tEÀ.ÉXE~";, e cosi parrebbe da Etym. Magn. v. Spvoxov.,;· 'toùç 1tEÀ.ÉXE~"; (il testo è riportato per intero nella nota seguente). Ma ivi mi pare necessario supplire, o comunque intendere, come è l'espressione nel passo omerico: Spv6xov.,; (Cl.,;), 'tOù,,; 1tEÀ.ÉXE~";. Infatti il commento del­l'Etym. continua spiegando il valore di Spuoxo~, in due modi: uno è il migliore (iiIlEWOV), e dà alla parola il suo giusto significato di t;u).~ opM (pali di legno), O''tEplYIl~'t~ (pali di sostegno). L'altra spiegazione della parola è forse un semplice autoschediasma ricavato dal testo omerico, e tuttavia dimostra come questo fosse stato inteso esattamente, poiché dice che quegli arnesi erano grandi anelli (xplxo~) su basi di legno (É1t' o~EÀ.lO"xwv XElIlEVO~), costruite per quello specifico tipo di gare all'arco (ClO''tE 6~' Clv'tc7lV 'tO;EUEW).

2 Etym. Magn. s.v. SpVOxov.,;, 'toù.,; 1tE).ÉXE~";· ot IlÈV x p l x o v.,; a.xouovO"t 'tw~.,;

2

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nasconde nulla. Ci fu chi lo intese meno bene anche in antico, pensando che la freccia non dovesse passare attraverso l'anello del manico, bensl attraverso il foro della lama in cui s'infila il manico 3; e l'errore ebbe successo: ma ciò càpita a volte, e non deve stupirci, perché ogni testo diventa un problema interminabile per i filologi, quando si mettono a creare difficoltà, o a sco­prire incertezze e contraddizioni: anche questo è un rilievo prezioso già fatto da Aristotele (Poet. cap. 25, 61b 1), e ancor prima da un altro commentatore omerico che Aristotele cita 4.

Quando Omero dice che Telemaco allineò perfettamente le dodici scud, come Penelope aveva indicato, e che Ulisse le passò tutte con la freccia, dalla prima all'ultima, ogni uditore sapeva bene in che modo raffigurarsi la scena con la fantasia, e non con il centimetro: i particolari tecnici, come l'altezza del bersaglio da terra e la lunghezza della gittata, o la dimensione degli anelli e la distanza dell'arciere, non hanno più alcun peso e non debbono averlo, per­ché il tiro sia veramente un ihxul1('J,0''t'6v. A creare il meraviglioso, mirano gli altri particolari esterni che il racconto contiene, e vi concorre anche il lungo intervallo che interviene fra la preparazione delle bipenni e il momento del tiro. Telemaco traccia un lungo solco (q> 120), vi dispone le lame delle dodici scuri ammucchiando via via un po' di terra intorno a ciascuna (q> 122) per mantenerle meglio infitte nel terreno, con il manico in alto; e Ulisse tende l'arco (è già q> 419), prende la mira (q> 421), e scocca la freccia che raggiunge il bersaglio.

llEYO:}.OUC;, È1t' Ò~E}.!O'XW\I XE~llÉ\lOUC;, ollc; xa'ta1t1]Y\liiO'lta~ Etc; 't1)\1 yi'j\l, &O''tE B~' aU'tw\I

'tO;EVEW. IillE~\lo\l BÈ ÙXOVEW Bpu6xouC; ;v}.a òpM, Èq>' W\I 'il 'tp6mc; ÉpdBE'ta~ 'ti'jc; 1t1]yw­

llÉ\l1]C; \lEWC;, Ttyou\I O''tEp! Ylla'ta.

Si veda anche Schol. (A) ad Horn. 'l' 851, a proposito di dieci bipenni e dieci scuri poste in palio per la gara (xcXB B' É't!ltE~ BÉxa llÈ\I 1tEì..ÉxEac;, BÉxa B' 'illlmÉ}.Exxa): oiJO''twac;

Éq>E;i'jc; lO''tO:\I'tEC; É1t! 't~\la ~alh.t6\1, ÉYUll\lo:t;o\l'to o~ 't0;6'ta~ 1tÉ!.I.1tO\l'tEC; B ~ cX 't W \I 't P 1] -

't W \I aV'tw\I 'tò ~É}.OC;, B~' 015 Èll~O:}.}.E'ta~ aV'toLC; o 0''tE}.E~6c;. Ma quest'ultimo inciso (<< nel punto in cui si inserisce il manico ») si collega male con ciò che precede (B~cX 'tW\I

'tp1]'tW\I ••• B~' 015), e potrebbe essere additizio. 3 S'intese male quando si diede a O''tE}.E~1) 'manico (della scure)' un significato che

non ha, cioè 'buco (in cui s'infila il manico)' . Cosi già Apollonio Solista (60, 28), donde Hesych. v. Bpvoxo~' 'tW\I O'~B1]pw\I 1tE}.EXVW\I al ò1ta!, dC; lic; 'tò O''tE}.EÒ\l É\lE!pE'ta~. Ed Hesych. v. O''tE}.E~1]· 'toii 1tE}.ÉxUOC; 'il {m1], dc; 1')\1 È\I't!ltE'ta~ 'tò ;v}.O\l (cf. Etym. Magn. v. O''tE}.E~O:) .

Ma tale interpretazione si produsse forse nelle successive manipolazioni della tradizione scoliastica, e non sul testo omerico direttamente; gli Scbolia vetera, nelle redazioni at­tuali, usano i termini generici di Ò1t1], 'tlli'jlla, 'tpi'jlla, atto 'tP1]ll1], 'tcX 'tp1]i;o:, 'tpv1ta~ 'tW\I

1tEì..ÉXEW\I. Si veda Schol. (H) ad Horn. 't 578: B~a~~~riO'E~ 'toii'to dc; 'tcXC; 'tpv1tac; 'tW\I

1tEì..ÉXEW\I, Schol. (V) ad Horn. <il 422: à1tò 1tpw't1]C; yàp ò1ti'jc; 'tW\I 1tEì..ÉXEW\I B~1]\lEXWC;

1'jì..ltE\I. Il significato di O''tE}.E~1] in Omero (come in tutta la grecità) non può differire da quello di un altro bapax che si legge in E 236: 0''tE}.E~6\1, dove il valore di 'manico' è esplicito.

4 Vedo «Boll. Class. Acc. Lincei », 1969, pp. 45-47.

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La gara dell'arco 19

Il bersaglio è il foro del manico della dodicesima scure, e per raggiun­gere quel bersaglio la freccia doveva necessariamente passare dentro tutti i fori degli undici manici precedenti, senza toccarli e senza deviare. Ulisse non mancò, OÙX i1IJ.~PO"tE (dice il testo, cp 421) la 1tpw"tT] CT"tEÀ.Et-r1 delle dodici bipenni:

"t6'J p' E1tL 1t-r1XEt ÈÀ.W'J EÀ.XE'J 'JEUPll'J 'Y À.ucpCoaç "tE, 420 aù"t61}E'J EX or:CPPOtO xa1}-r1IJ.E'Joç, TiXE o' OtCT"tÒ'J

a'J"ta "tt"tuCTx6IJ.E'JOç • 1tEÀ.ÉXEW'J o' OÙX i')IJ.~pO"tE 1tà'J"tw'J

1tpw"tT]ç CT"tEÀ.Eti'jç, Otrt. o' CLIJ.1tEpÈç TiME 1}vpa~E tòç xaÀ.xo~ap-r1ç •••

E dopo il colpo se ne vanta (cp 425): ... oùoÉ "tt "tOU CTX01tOU i1IJ.~po"to'J. La freccia, con la sua punta pesante di bronzo (xaÀ.xo~ap1Jç), infila tutti gli anelli uno dopo l'altro (Otrt.-CLIJ.1tEpÉç) e ne trapassa fuori (TiÀ.1}E Mpa~E). Il ter­mine Mpa~E al v. 422 non significa 'fuori della porta': le porte del megaron erano state chiuse per ordine di Ulisse (cp 236), e questi tira d'arco stando al suo posto (aù"t61}E'J EX OLCPPOtO), sulla soglia che immette nel cortile. Dunque. 1}vpa~E significa «fuori del varco », semplicemente «fuori »; e dunque la 1tpw"tT] CT"tEÀ.Et-r1 è quella che noi diremmo l'ultima.

Solo su questo punto mi pare ancora di dovere insistere, cioè sul signifi­cato che ha 1tpw"tT]ç CT"tEÀ.Eti'jç nel v. 422: l'aggettivo 1tpw"tT] qui significa sem­plicemente « primo », e non gli si deve attribuire come possibile alternativa il significato di 'principio del (manico)'. La freccia di Ulisse va a segno rag­giungendo la 1tpw"tT] CT"tEÀ.Et-r1. È chiaro che questa è "la prima della serie, ossia quella iniziale e principale: è l'ultima rispetto alla posizione dell'arciere (che sta a.'Jw1}E, vedo "t 575 sopra citato, n. 1), ma è la prima delle dodici: è quella che sta innanzi a tutte le altre, il vero CTxo1t6ç della frecciata.

L'aggettivo 1tpw"toç, o meglio 1tp6"tEPOç, può significare 'la prima parte' di un oggetto, ma riferito all'unità, e non alla pluralità; 1tpw"toç al singolare, in una pluralità di uomini oppure di oggetti, significa uno solo dei molti, quello che è il primo o il principale tra gli altri. Qui il testo non dice 1tpw"tw'J CT"tEÀ.EtW'J, ma dice oùx i')IJ.~PO"tE 1tpw"tT]ç CT"tEÀ.Eti'jç 1tEÀ.ÉXEW'J 1tà'J"tw'J. 'La prima di dodici' è una rispetto alle altre undici, e non può significare 'la parte ini­ziale di ognuna'. Dunque, la freccia « raggiunse il primo dei manici di tutte quante le dodici scuri », ossia «giunse fino all'ultimo anello delle dodici bipenni: li trapassò via via (Otrt. o' CLIJ.1tEpÈç nÀ.1}E) uscendone fuori (1}vpa~E) ».

Questo è l'esatto valore dei vv. 421-22, per il lessico e la sintassi: la seconda frase (Otrt. o' CLIJ.1tEpÈç) è coordinata alla precedente per mezzo di un BÉ, ma è esplicativa della frase precedente, come avviene più volte nella sin­tassi omerica. L'avverbio OtaIJ.1tEpÉç è in se stesso riferibile non ad un singolo, sibbene ad una fila o serie o schiera; qui si riferisce a tutte le scuri della fila (1tEÀ.ÉXEW'J 1tà'J"tw'J) fino all'ultima (1tpw"tT]ç CT"tEÀ.Eti'jç) da cui fuoriesce (1}vpa~E).

Il testo è di una evidenza cristallina; ogni difficoltà nasce soltanto dal

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non intendere il significato letterale del v. 422, quando si dà a 'ltpw"t''l1 un valore erroneo, che la sintassi non consente, e quando si dà a t.1"t'EÀ.EL1) un si­gnificato arbitrario, che il lessico non consente: infatti t.1"t'EÀ.EL1) significa 'ma­nico', e non il 'buco' della lama in cui s'infila il manico. Quindi ho creduto di dovere insistere un poco sul v. 422 ancor oggi, ma penso che milioni di lettori abbiano inteso cosÌ in ogni tempo, anche se i commenti al testo non lo dicono espressamente. Tutto il racconto della gara dell'arco è limpido e com­pleto, e non so come si possa definire « obscure and elliptic » 5. Più volte nel racconto ('t' 587, cp 97, 114, 127, cf. cp 328) la definizione della gara è data dalla formula chiarissima 'IIEVp1)'11 "t" È'II"t'a.'IIUt.1a.L OLO~t.1"t'EUt.1a.L "t'E t.1Loilpov « tendere l'arco e far passare la freccia attraverso ' (gli arnesi di) ferro »; cf. anche 't' 578 = cp 76 xa.t OLO~t.1"t'Eu01l 'ltEÀ.ÉXEW'II OVOXa.LOEXa. 'lt&.'II't'W'II, e inoltre cp 3 = 81 't'6~o'll iJ,'II'l1t.1"t'1)PEt.1t.1L 1}É~E'II 'ltoÀ.L6'11 "t'E t.1LO'l1PO'll.

Di ferro o di legno che fossero i manici delle scuri, a nessuno può venire in mente che la freccia trapassasse la materia, cioè bucasse il ferro o il legno, né una volta né dodici; se non altro perché, prima che si bucasse il manico, ogni scure sarebbe caduta. L'Odissea ci presenta una gara sportiva; non è un'opera di fantascienza o di magia. Il tiro di Ulisse non è miracoloso (come quelli inventati da cacciatori di ogni tempo o quelli descritti nell'epica in­diana); è pur sempre meraviglioso, ma tecnicamente o teoricamente possibile; richiede una mira eccellente e una traiettoria perfetta, insieme a una potenza balistica straordinaria; è teoricamente possibile, solo che il foro dei manici rispetto alla freccia non sia cosÌ stretto come la proverbiale cruna di un ago rispetto a una gomena.

Ora, in una brillante conferenza come quella già citata di Denys Page, si può intrattenere l'uditorio calcolando la lunghezza della gittata e la forza di gravità; si possono citare i manuali moderni del tiro all'arco, i racconti de­gli Indios e l'epica degli Indiani, con gli alberi ben radicati in terra e tra­passati da una freccia. Ma lo stesso Page, alla fine del suo scritto (pp. 561-2), deve riconoscere che la gara omerica dell'arco era stata intesa bene, nella sostanza, dagli antichi e dai moderni, e spiegata in due parole, senza altri sussidi che il testo di Omero. :È l'interpretazione che si legge in traduzioni italiane moderne, ma già in quella classica di Pope, dove è persino illustrata con un disegno (ediz. 1760). È l'interpretazione che oggi si legge in molti commenti; fu chiarita bene dal Blinkenberg a principio del secolo 6, ripetuta

5 Cosi D.L. Page, A problem in Homer's Odyssey, in «Epistemonikè Epeteris », seconda serie, voI. 14 (1963-64), pp. 541-62; vedo p. 554. La conferenza del Page è in gran parte riportata da A. Sacconi, Un problema di interpretazione omerica (ed. Bulzoni, Roma 1971, pp. 50) alle pp. 5-35 con le figg. 1-3.

6 Chr. Blinkenberg, Archaeol. Stud. (1904), p. 31 ss.; vedo fig. 28 (Beozia), rappre­sentazione vascolare di bipenne appesa per il manico, di età geometrica, con visibile anello di sospensione. Non è visibile l'anello in altre rappresentazioni vascolari della stessa età;

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La gara dell'arco 21

dal diffusissimo commento di Ameis nel 1911, quindi accolta dal Van Leeu­wen, da CarI Schuchhardt, e infine dal Wiist nella Real-Encycl. 17, 2 (1937) alla v. Odysseus, col. 1988.

* * *

Ma il punto critico dell'interpretazione è proprio quello che ormai si dà per ovvio, e cioè che bipenni di dimensioni normali, come attrezzi usuali da lavoro, avessero un buco o un anello all'estremità del manico al tempo di Omero, o nell'età micenea, o in quella minoica, per essere appese alle pareti. Questa può essere in Omero una memoria archeologica rivissuta dalla fan­tasia. Scuri o bipenni da lavoro non si appendono ai muri, e debbono avere il manico di.legno, perché si manovri l'attrezzo con maggiore efficienza ponde­rale. Sono soltanto le' bipenni votive, costruite di un solo pezzo in metallo, che hanno un foro all'estremità del manico per essere appese: ma questi sono oggetti di piccole dimensioni o semplici gingilli, e ne conosciamo molti esem­plari che provengono da insediamenti dell'età micenea o successiva 7. I manici di legno delle scuri da lavoro dell'età micenea non sono superstiti ora, come non lo erano neppure al tempo di Omero. Questi invece, e i suoi contempo­ranei, forse sapevano quale valore simbolico avesse avuto la bipenne nelle età remote, certo avevano occasione di vedere con i loro occhi i piccoli og­getti, anche d'oro, che si scoprivano come si scoprono oggi fra le rovine delle antiche città. Perciò dico che il particolare delle bipenni, nel racconto omerico, deriva da una memoria archeologica, che qui avanti cercherò meglio di deter­minare quale forse fu.

n vero problema, d'ordine storico e letterario, e non tecnologico, che il

vedo F. Matz, Gesch. d. griech. Kunst, voI. I (1950), tav. 27 b; B. Schweitzer, Vie geom. Kunst Griechenlands (1969), tav. 80 e 82. Per analoghe rappresentazioni vascolari d'età minoica vedo Buchholz (citato alla n. seg.), p. 16 fig. 3.

7 Vedo H.G. Buchholz, Zur Herkunft der kretischen Doppelaxt, Miinchen 1959, specialmente tav. I (o, q), tav. IV (c). Altri dati sull'argomento mi sono stati favoriti dalle dott.se Caterina Mavriyannaki e Lucia Vagnetti. Nelle rappresentazioni vascolari minoi­che sono frequenti le bipenni erette, con la lama in alto, infisse su basi che hanno la form~ di un tronco di piramide, oppure la forma delle cosiddette corna di consacrazione: vedo M. Nilsson, Minoan-Mycenaean Religion, p. 195 55.; un nuovo esemplare è pub­blicato da M.R. Popham, A Late Minoan Shrine al Knossos, in ABSA 65 (1970), p. 191 sS.

Si ricordino a tal proposito i grandi XpCXO~1 É'It' Ò~E)..CcrXW'll XeCP.E'IIO~, degli scoliasti omerici (qui sopra, alla p. 18, n. 2).

Cito anche da un dettagliato rapporto che mi ha fornito la dotto L. Vagnetti: «Non si conoscono esempi reali di bipenni appese alle pareti... Nelle rappresentazioni vascolari, a volte la bipenne compare sullo sfondo di scene di culto, senza che sia chiaro il sistema di sostegno (CMS, I, n. 17: anello aureo da Micene). L'unica rappresentazione di bipenni appese, in una cornice architettonica, è quella di numerosi pezzi attorno a una colonna, in un affresco di Cnosso: A. Evans, Knossos Fresco Atlas, London 1967, tav. V, 11>.

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racconto omerico comporta, è tutt'altro. Ci si può chiedere infatti se la gara dell'arco è una memoria antica in Omero, di tradizione micenea, oppure se è una gara sportiva del proprio tempo quella che Omero presenta come un agone dei tempi eroici. In generale è da escludere la tesi più volte accarez­zata da storici e da filologi, che nella composizione dei poemi omerici siano entrate larghe porzioni di antichi cantari, già strutturati in quella forma e in quel metro dagli aedi di molti secoli prima: lo stesso termine di 'ltE).,ÉXELC;,

usato nel racconto, avrebbe una differente struttura prosodica nel greco mi­ceneo, e le formule più sopra citate, con cui si definiscono più volte le mo­dalità della gara, non si potrebbero tradurle nel greco dell'età micenea senza guastare il metro 8.

A parte ciò, mi pare che nel racconto si ravvisino almeno due elementi, che ne denunziano la recenziorità. Uno è la menzione del ferro (O"L01'JPoc;) come metallo usualmente adoperato per un arnese di giornaliero impiego quale è una scure. L'altro è il particolare del solco che Telemaco scava nel terreno, ammucchiando la terra intorno alle lame; e invece i palazzi micenei sono la­stricati nel pavimento del megaron, quindi la collocazione delle scuri non po­teva avvenire in quel modo. Neppure l'impiego di bipenni fa risalire per se stesso il racconto all'età minoica o micenea, perché l'arnese è anche d'uso comune nell'età geometrica, al tempo di Omero. D'altra parte non è credi­bile che un sovrano miceneo, come Ulisse, adoperasse proprio le insegne della sua regalità per una gara sporuva.

Quindi, se il racconto omerico si rifà a una memoria antica, di tradi­zione micenea, dobbiamo aggiungere che il ricordo dell'antico agone è stato riplasmato in termini nuovi, che forse corrispondono alla realtà contemporanea della società omerica, ma rispondono ancora più a necessità compositiva della trama narrata. È un a).,oyo\l (direbbe Aristotele) che la scena della gara sia l'interno del megaron. Non si pratica lo sport dentro una stanza; e le mo­deste dimensioni delle sale nei palazzi micenei, come quelle di Cnosso, o di Tirinto, o di Pilo (m. 11 x 13), non consentono che vi si affollino tanti proci con tante tavole e sedie e con dodici bipenni allineate: lo spazio che serve ad Omero per le scene dei conviti o dei ricevimenti, nell'età eroica, e per la gara dell'arco e per la strage successiva, è uno spazio ideale e poetico; non corrisponde alla realtà architettonica che i Greci antichi, come ora noi, pote­vano avere davanti agli occhi.

C'è da mettere in evidenza un altro particolare che difficilmente può cor­rispondere alla tecnica agonistica degli arcieri, sia micenei sia contemporanei, ma si deve a mio parere attribuire soltanto alla fantasia poetica e al gusto

8 Sull'argomento si veda quanto SCrISSl 10 «Atti Congr. Micen.» (I.G. voI. 25, Roma 1968), pp. 831-61, e poi in «Problemi attuali n. 139 », Accad. Lincei, 1970, pp. 79-89.

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La gara dell' arco 23

dell'eroico: il numero delle scuri. Non ~i può fare a meno di pensare che una gara di precisione e di potenza balistica, come quella descritta da Omero, ri­chiede come necessaria e sufficiente attrezzatura, oltre l'arco e la freccia, sol­tanto due punti di riferimento, costituiti dal foro di mira e dal foro del ber­saglio. Quindi due sole bipenni, disposte a giusti intervalli, appaiono neces­sarie a quel tipo di agone: l'anello di un manico funge da mirino, e l'anello dell'altro funge da bersaglio. Il numero di dodici bipenni non aggiunge nulla alla sostanza agonistica della prova, e mi pare creato soltanto da un' esube­ranza di fantasia poetica che serve a fornire un altro elemento di meraviglioso e di straordinario al già mirabile tiro dell'eroe arciere. Avremmo dunque, nel libro 21 dell'Odissea, la memoria di un'antica o recente gara sportiva, e tuttavia ingrandita a cifre e misure eroiche secondo il gusto omerico.

Il dodici è un numero poetico o spirituale nel lessico di Omero, in molti luoghi del poema 9; e la misura dell'eroico si riscontra anche in un altro par­ticolare della gara, quando nessuno riesce a tendere e piegare l'arco per la frec­ciata, ma solo Ulisse. Omero annota però che anche Telemaco stava per riu­scirci (q> 128): dunque era una cosa straordinaria, ma tecnicamente possibile, piegare quell'arco: meraviglia dunque, e non miracolo, anche in questo parti­colare dell'agone. Meraviglia che è necessaria all'agone - perché la potenza balistica della frecciata, che quel tipo di gara richiede, può essere fornita sol­tanto da un arco di straordinaria resistenza e di violenta reazione.

* * * La gara avviene, secondo Omero, nel megaron del palazzo. Penelope porta

con le sue mani l'arco di Ulisse e la faretra con molte frecce (q> 59-60), se­guita dalle ancelle che portano un o"{XtOV, ossia una cesta capace lO. È evidente che nella cesta sono riposti gli arnesi che servono all'agone, cioè le dodici bipenni di ferro, o con anelli di ferro, che sono appunto chiamate àÉi}).,ta (q> 61-62):

't'n 6' a.p' a.p.' àp.q>t1to).,Ot q>Épov oX"{tOV, ~vi}a CTtO'llPO; XE~'t'O 1toÀ.ùc; xat XaÀ.x6;, àÉi}).,ta 't'o~o a.vax't'oc;.

9 È un numero tabuistico in Esiodo (Op. 41 s.) o religioso (ved. Op. 774 ss.); in Omero è spesso il termine di un periodo compiuto (A 425, 493, ~ 46, 81, il 31, 413, 667, 781, lì 747), quindi il 12 è il numero completo, per cui un 13 rappresenta il festoso supera­mento della misura massima (K 495 insieme a K 561); e il 12 si presenta come comple­tamento dell'H (~ 374, lì 588), anche se l'HO giorno a volte è proprio il termine atteso (~ 156, n 666, 't' 192).

lO È una cesta tondeggiante e panciuta, cfr. ~yxoC; 'curvatura, rigonfiamento'. Il vocabolo ~yXLO\l non è un derivato di ~yxoC; nel senso particolare di 'punta di freccia'; quindi non si deve intendere che le ancelle di Penelope portino una cesta di frecce. A parte tale interpretazione, è stata intravista da A. Sacconi (l.c., p. 36 ss.) la possibilità di istituire un rapporto fra iI testo omerico e un documento miceneo di Pilo (Ta 716).

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È da escludere, dunque, che le bipenni si trovassero già nel megaron, sia perché la sala era stata sgomberata di tutte le armi per ordine di Ulisse (X 25) sia perché le bipenni fanno parte essenziale della particolare attrezza­tura (àÉin.tcx.) di quel tipo di gara, e sono designate complessivamente con il termine di O"L01)pOt; nelle formule, già citate, con cui vengono definiti gli ele­menti dell'agone. Si ricordi specialmente q> 3 = 81:

't'6;ov ~V1)O"'t'1}PEO"O"t i}É~EV 1toÀ.t6v 't'E O"L01)pOV

a riscontro con q> 8-10:

~ij O' ~~EVcx.t MÀ.cx.~6vOE O"ùv à~q>t1t6À.otO"t yuvcx.t;tv ~O"Xcx.'t'ov, ~vi}cx. ÒÉ ot XEt~1}À.tcx. XEt't'O avcx.x't'ot; Xcx.À.x6t; 't'E Xpu0"6t; 't'E 1toMX~1)'t'6t; 't'E O"L01)POt;.

Difatti la sala del trono, in un palazzo miceneo, non sarebbe il luogo più adatto per depositarvi attrezzi da lavoro. E se bipenni si trovavano in un megaron miceneo, dovevano esserci come simbolo del potere politico e religioso che il sovrano incarnava, sedendo sul trono. Quando crebbe il sen­timento del passato eroico, dopo il medioevo ellenico, e si era perduto il senso storico di quella età e il senso politico di quella società micenea che ri­viveva nell'immaginazione poetica, soltanto allora una memoria archeologica poté trasformare il simbolo della sovranità in un attrezzo sportivo. Se è va­lida l'esegesi che dei documenti della serie Ta di Pilo illustrerò nella seguente nota, ora abbiamo probabilmente in uno di essi la preziosa testimonianza che non minuscole bipenni votive, come ci mostrano i reperti archeologici, ma due bipenni emblematiche o sacrificali adornavano la parete del megaron accanto al trono regale. E da una simile memoria archeologica è forse derivata la fantasia omerica della gara dell'arco, cioè dalla visione di due bipenni emble­matiche, di normale grandezza, trovate fra le rovine di un antico palazzo mi­ceneo, cadute a terra sul pavimento di un megaron, accanto al trono regale.

3) LA SALA DELLE CERIMONIE NEL PALAZZO DI NESTORE

È stato ormai chiarito, nella sostanza, il significato di quel gruppo omo­geneo e compatto di documenti micenei di Pylos che costituiscono la serie Ta: vi è registrato e descritto l'arredamento di una sala nell'occasione di una cerimonia. Come pare evidente, e come cercherò meglio di illustrare qui avanti, esiste fra le registrazioni dell'intera serie una coerenza e corrispon­denza di oggetti e cifre; quindi mi pare da escludere l'interpretazione più generica che ne è stata data, come registro di oggetti vari, redatto per un

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La sala delle cerimonie 25

passaggio di consegna all'interno del Palazzo di Nestore 1. E mi sembra an­che da escludere che si tratti, non di una sala da cerimonie, ma di una camera tombale: questa interpretazione riposa soltanto sul verbo teke = l}fi"E inteso per 'deposuit, sepelivit' nell'intitolazione del registro. Il titolo dice (Ta 711.1):

o-wide PU2keqiri ote wanaka teke aukewa damokoro.

Si può dunque precisare che questo è un registro di oggetti e mobili re-o datto da un maggiordomo del palazzo o cerimoniere, di nome PU2keqiri: il verbo wide (i:OE) designa esattamente l'atto. dell'ispezionare, costatare (cf. OLOCZ), e non un generico 'vedere'. Il termine damokoro risulta, anche da altri con­testi, una qualifica amministrativa 2, e il verbo teke è da assumere nel senso originario di 'fecit', cioè 'statuit', riferito alla nomina in carica di questo person~ggio di nome aukewa:

e Cloe: «ispezione del tale, quando il sovrano nominò Augia damokoro ». Per stabilire una successione nel testo del registro secondo un criterio

ordinativo (indipendente dagli occasionali numeri d'inventario), le tredici ta­volette della serie Ta vanno disposte in quest'ordine l, distinte in quattro gruppi:

a) 711, 709 (vasellame, attrezzi e braceri, tripodi), 641 (tripodi) b) 642, 713, 715 (undici tavole); 721, 722 (undici sgabelli) c) 707, 708, 71 O, 714 (cinque seggi e cinque sgabelli) d) 716 (bipenni e spade).

Delle tre tavolette del primo gruppo è sicura la posizione all'inizio del registro, e la loro successione. I gruppi b e c si definiscono in base ai mobili registrati e alle cifre relative, anche se all'interno di ciascun gruppo si volesse scambiare l'ordine delle tavolette; si osservi poi che in Ta 710 è annotata solo una predella isolatamente, ma è appunto la predella che manca ad uno dei due seggi registrati in Ta 708. Isolata è Ta 716, e si può collocare alla fine del registro; la ragione per cui l'ho messa dopo il gruppo c apparirà ma­nifesta dal sèguito dell'indagine.

Ora riporto qui la registrazione degli oggetti, seguendo il testo delle iscrizioni; solo dispongo lo scritto in prospetti più evidenti, incolonnando

1 Cosi M. Lejeune, in « Athenaeum» 1969, p. 182. 2 Vedo A. Heubeck, in « Atti Congr. Mic. 1967 », pp. 611-15. 3 Miglioro qui l'ordinamento che presentai in Inscriptiones Pyliae (1961), pp. 119-20;

in particolare si noti che Ta 709 deve precedere Ta 641.

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- finché è possibile - i termini corrispondenti o opposti che vengono usati nelle descrizioni degli oggetti.

(primo gruppo: vasellame)

711.2 qerana wanasewija qoukara kokireja VASf 1 qerana amotewija koronowesa

.3 qerana wanasewija kunaja qoukara toqidewesa V ASf 1

709.1 pijerai toqideja LABRUM 3

pakoto apetemene VASp 2 poroeketerija LIGULA 1 koterija 6

.2 aute 1 purautoro 2 qaratoro 1 ekara apiqoto pedewesa 1 ekara itowesa pedewesa soweneja audewesaqe 1

.3 tiripo keresijo-weke 34keu TRIPUS 1 tiripo keresijo-weke opikewirijeu TRIPUS 1

641.1 tiripode aikeu keresijo-weke TRIPUS 2 tiripo eme pode owowe TRIPUS 1 tiripo keresijo-weke apu kekaumeno kereha TRIPUS

.2 qeto V ASe 3

dipa mezoe qetorowe V ASd 1 dipae mezoe tiriowee VASe 2

dipa mewijo qetorowe V ASd 1 .3 dipa mewijo tirijowe V ASe 1

642.1

.2

.3

713.1

.2

dipa mewijo anowe V ASe. 1

topeza

topeza

topeza

topeza

topeza

(secondo gruppo: mense e sgabelli) 4

raeja weareja ajamena haroudopi kuwanoqe parakeweqe [apiqoto]

raeja menoeja erepate ajamena

raeja erepatejo popi ekamateqe /apigoto

raeja

enewope[za qeqinoto audepi

korupiqe 1 qeqinotoqe toqide

enewopeza/ kutesejo ekamapi erepatejoqe apiqoto enewopeza

qeginomena toqide 1 erepateja poroeke pitirjowesa wepeza

geqinomena toqide 1 .3 topeza kuteseja erepatejo ekamapi apiqoto enewopeza kokireja

715.1 topeza kuteseja erepatejo ekamapi apiqoto enewopeza kokireja

.2 topeza akarano erepateja apiqoto 1 topeza akarano erepateja poroeke 1

.3 topezo mirja / ajameno parakuwe/ apiqoto pukosoekee enewopezo toqidejo 2

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722.1 .2 .3 .4 .5

722.1 .2 .3 .4

707.1

.2

.3

708.1 .2

.3 710

714.1 .2

.3

La sala delle cerimonie 27

taranu ajameno erepatejo audepi toqideqe karuweqe SUBS 1 taranuwe ajameno erepatejo audepi sowenoqe toqideqe SUBS 3 taranu ajameno erepatejo audepi sowenoqe SUBS 1 taranu ajameno erepatejo audepi sowenoqe SUBS 1 taranu ajameno erepatejo audepi SUBS 1 taranu ajameno erepatejo atoroqo iqoqe porupodeqe ponikeqe SUBS 1 taranu ajameno erepatejo karaapi rewotejo sowenoqe SUBS 1 taranu ajameno erepatejapi karupi SUBS 1 taranu ajameno erepatejapi karupi SUBS 1

(terzo gruppo: seggi con predelle)

tono kutetajo kurusapi opikereminijapi onitijapi 1 taranuqe ajameno erepatejo audepi 1

tono kutesejo

taranu kuteso

tono kutesejo tono kutesejo

taranu kutesejo taranu

tono weharejo

taranu

erepatejapi opikereminijapi seremokaraore qeqinomena adirijateqe potipiqe 1

ajameno erepatejo audepi

ajameno opikereminija erepate 1 erepatejapi .opikereminijapi

seremokaraapi qeqinomena adirijapiqe ajameno erepatejo adirijapi rewopiqe 1 ajameno erepatejo audepi sowenoqe SUBS 1

ajameno kuwano parakuweqe kurusoqe opikereminija ajamena kuruso adirijapi

seremokaraoreqe kuruso kurusoqe ponikipi kuwanijoqe ponikipi 1

ajameno kuwano parakuweqe kurusoqe kurusapiqe kononipi 1

(quarto gruppo: bipenni e spade)

716.1 pasaro kuruso api tonijo 2 wao BIP~IS 2

.2 qisipee GLADIUS 2

Non si può essere certi a priori che il registro Ta sia completo, e che non sia andata perduta nessuna tavoletta della serie. Bisogna tuttavia rilevare alcune armonie tra le cifre degli oggetti registrati, e tali armonie e corrispon­denze già risultano evidenti nel gruppo compatto delle prime tre tavolette.

In questo primo gruppo di tre tavolette, che si susseguono nell'ordine (741, 709, 641), è registrato il vasellame: oltre alle due Èaxa.pat portatili (ekara) e agli attrezzi che ne formano il corredo, e cioè un aVCT't1)p (aute) o pa-

4 Per migliore evidenza del prospetto, qui ho dovuto spostare un paio di parole ri­spetto al testo originale, in due casi, che ho segnato con barre: in 642.3 le parole apiqoto enewopeza sono scritte nella tavoletta dopo topeza rae;a; in 715.3 le parole a;ameno parakuwe sono scritte alla fine del rigo, dopo toqide;o.

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letta s, due 1tUPa.vcr'tpw (molle per il fuoco, purautoro), e uno crmH,a.l}po'J (attiz­zatoio, qaratoro), si noti che vi sono registrati 6 koterija, 6 tiripode (tripodi di varia foggia), 6 orci (dipa, di cui 3 grandi e 3 piccoli). A questo numero di 6 sembrano forse da riportare le cifre del restante vasellame, cioè le 3 qerana con le 3 pijerai (q>tÉ).,a.t, q>t&').,a.t), e forse anche i 3 qeto con 2 pakoto e 1 po­roeketerija.

Si osservi d'altra parte che, di contro ai 6 tripodi e 6 orci e 6 koterija, nel secondo gruppo di tavolette sono registrate undici mense (topeza, 'tP&.1tEsa.) con undici predelle (taranu, l}piiwc;), e nel terzo gruppo sono registrati 5 seggi (tono, l}p6'Jot) con 5 predelle o poggiapiedi (taranu, l}piiwc;).

Se si prende come base il numero 6, queste cifre dei totali per il mo­bilio appaiono discordanti dalle cifre relative al vasellame; però si possono ricondurre facilmente ad una certa coerenza e simmetria, quando s'immagini che manchi la descrizione di una dodicesima mensa, e soprattutto di un sesto seggio con la relativa predella.

Potremmo fare l'ipotesi che sia andata perduta la descrizione del sesto seggio. Ma altrettanto bene, e forse meglio, sarà da fare quest'altra ipotesi: il sesto seggio, che si trovava nella sala, non fu registrato e descritto, perché non era un mobile di legno istoriato, con il relativo poggiapiedi, come gli altri descritti nella serie Ta; era invece uno scranno fisso e costruito in pie­tra: era il trono regale nella sala del megaron, come quello che conosciamo da tempo nel Palazzo di Cnosso, e quello stesso che si trovava nel megaron del Palazzo di Nestore a Pilo, cioè nello stesso palazzo di Epano Englianos che ci ha conservato l'archivio delle tavolette di argilla.

Allora le undici mense, con undici predelle 6, si potranno immaginare distribuite cosÌ: due per ogni seggio, e una sola davanti al trono regale. Di­fatti ce n'è una sola che ha foggia o dimensioni speciali, in quanto è più pic­cola rispetto alle altre. È la mensa descritta come wepeza in Ta 713, al r. 2, rispetto alle altre che sono enewopeza, o che non recano una precisa conno­tazione di questo tipo. La mensa speciale è descritta cosÌ:

topeza erepateja poroeke pitirjowesa wepeza qeqinomena toqide.

Delle altre dieci, invece, per sette di esse è detto che sono apiqoto enewopeza, e al duale enewopezo (715.3); di una è detto solo apiqoto (715.2); di una,

5 Ma vedo M. Sinatra in « Studi ciprioti e rapporti di scavo» fase. 1 (= B.e. voI. 1), 1971, p. 240.

6 Tralascio, nel presente articolo, di discutere vari problemi esegetici relativi a par­ticolari linguistici o sostanziali, e per esempio: perché si chiama bpo.wc; tanto la predella dei seggi quanto lo sgabello (?) delle mense, e perché ad ogni mensa corrisponda un solo sgabello, e che cosa realmente sono le mense, e cioè se sono tavole per un convito o soltanto piani per depositare oggetti.

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solo poroeke (ibid.), e per un'altra non c'è nulla di corrispondente (642.2), come si rileva dalla trascrizione prospettica dei testi, presentati qui sopra. Una sola, dunque, è poroeke pitirjowesa wepeza; per quanto riguarda il ma­teriale, questa è di avorio, erepate;a (È)"Eq>cx.'J't"Ei.cx., È)"Eq>cx.'J't"L'J1]), cioè con rive­stitura di avorio, al pari di altre due (715.2); e per quanto riguarda la deco­razione, è qeqinomena toqide come altre.

L'aggettivo we-peza, e corrispondentemente enewo-peza, è stato inteso « con sei piedi », e corrisp. « con nove piedi »; oppure « di sei piedi », come misura di lunghezza, in contrapposto alle altre di nove piedi. Ma forse wepeza vuole significare un piano di tavola, suddiviso in sei riquadri, in contrapposto alle altre mense che erano suddivise in nove riquadri. Infatti la parola 7tÉ~cx., homo 7tÉ~1], da *ped-ja, dovrebbe significare «pianta», «base», «piano», come 7tEOLO'J 'piano, pianura'. Anche l'etimologia tradizionale di 't"pci7tE~cx. ('a quattro piedi') è contestabile, come è noto 7; il primo termine del composto non sarà il numero quattro, ma piuttosto il grado ridotto di una radice ter-, lat. tero, e significare un piano di tavolo scomponibile o ripiegabile in un certo nu­mero di parti, o appunto piani di appoggio, 7tÉ!;cx.t.

Dunque l'unica tavola che è wepeza, a Pilo, ha una foggia speciale; forse ha un largo bordo (pitirjowesa, *7t't"~À.6Ecrcrcx.?), sporgente da una parte (poro­eke, 7tPOEx1)ç?) come un'ala (7t't"L)"O'J), e soprattutto ha una misura o una ca­pacità diversa dalle altre (wepeza): poteva essere collocata da sola davanti al trono regale, proprio in quel punto che davanti al trono, nel megaron di Pilo, è segnato da una mattonella con speciale arabesco 8. A questa mensa forse accedevano insieme al re gli altri cinque occupanti dei cinque seggi istoriati. Quanto alla coppia di mense che attribuisco ai singoli seggi, sarà forse una semplice curiosità che si riscontri in un testo ittito la medesima disposizione di due mense in rapporto ad un unico seggio 9. Ma ciò che i documenti ittiti ci suggeriscono è appunto questo, che le mense non sono tavole conviviali, bensì tavole disposte per una cerimonia; a me pare che tutta intera la descri­zione degli oggetti, contenuta nel registro Ta, non preluda a un convito, bensì a una cerimonia che era governata da un preciso rituale, e per la quale si do­vevano quindi predisporre tutt~ i materiali e gli attrezzi occorrenti.

Dun.que sono sei gli occupanti i sei seggi (5 + 1), con 6 koterija; cia-

7 Vedo Boisacq, Dict. étym., s.v. -rpei1tEt;ct, dove sono ricordate le tavole siriane scomponibili.

8 Precisamente un octopus, nel secondo riquadro davanti al trono; tutti gli altri riquadri del pavimento dell'intero megaron non hanno decorazioni figurative, ma solo astratte. Vedasi naturalmente C. Blegen, The Palace 01 Nestor.

9 Vedo KBo XXXV 133 I 18 ss. in A. Archi, Trono regale etc., in SMEA fase. 1 (= I.G. voI. XI, Roma 1966), p. 80: «Allora un seggio dispongono, poi i regali para­menti dietro ad esso dispongono, e innanzi al seggio depongono etc., inoltre una tavola a destra, una tavola a sinistra dispongono ».

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scuno ha un nappo per libare, e accede alla tavola per sei (wepeza). A cia­scuno corrisponde un tripode per l'illuminazione, un orcio per il vino (dipa). Altri si distribuiscono intorno alle coppie di tavole per nove. Ci sono due bracieri con i vari attrezzi per il fuoco (cx.ua'tT)p, 1tupcx.va'tpw, a1taÀ.cx.l}pov), e prezioso vasellame sulle mense (qerana, qeto, pijerai, pakoto, etc.). Per imma­ginarci l'intera scena che offre la sala durante la cerimonia, abbiamo due vie:

Una è quella di seguire la fantasia omerica quando descrive il megaron di Ulisse, dove banchettano e giocano i numerosi proci stando attorno alle 'tpa1tEScx.t sui loro l}p6VOL o OlepPOL (libri 17 e ss. dell'Odissea); o le altre sale in cui si svolge la vita giornaliera di una corte micenea, quella di Nestore a Pilo (Od., 1. 3) e di Menelao a Sparta, dove domina la figura di Elena (Od., 1. IV); oppure l'altra ancor più fiabesca dell'isola dei Feaci, con il re Alcinoo e la regina Arete (libro 6 v. 305, libro 7 v. 82 ss.). Ma penso che tutto ciò sia costruito dalla fantasia omerica; non c'è nessun megaron di palazzi mi­cenei che possa contenere tutta la gente e le cose che riesce a metterci Omero. E del resto non a un convito, come ho detto, sibbene a una cerimonia mi sembra che il registro Ta sia dedicato. Il megaron di Cnosso è ancora più pic­colo che a Tirinto e a Pilo: e giustamente, perché nei paesi meridionali la vita si svolge all'aperto. Tutte le stanze dei palazzi miceqei, tranne i magaz­zini, sono piccole: io credo che i conviti, e tanto più i giochi e le gare sportive (come quella dell'arco nell'Odissea), si svolgessero nell'ampia corte a cielo scoperto, e non nel megaron del palazzo.

Un'altra via più concreta ci viene offerta dalla pianta stessa del megaron di Pilo, scoperto e descritto da Carlo Blegen. Questa è una sala rettangolare, di m. 11 x 13 all'incirca; il trono era collocato al centro del lato lungo di nord-est; una grande vasca circolare sta in mezzo alla sala, fra quattro colonne di legno, che sostenevano il soffitto e un ballatoio; accanto al sito della co­lonna ad ovest, opposta al trono, c'è una mensa sacrificale; una sola porta, praticata nel lato corto a sud-est, immette nel vestibolo.

Naturalmente nelle tavolette del registro Ta non è descritta questa mensa sacrificale, né si menziona il grande catino circolare collocato in mezzo alla sala come focolare, e neppure si fa cenno di due bacini per libagioni, collegati da un canaletto di quasi due metri, alla destra del trono regale: non sono descritti nel registro Ta, appunto perché, come il trono regale, appartengono all'architettura della costruzione, e non all'arredamento della sala.

Ma se è valida questa mia tesi di stabilire un collegamento fra il re­gistro Ta e l'architettura del megaron di Pilo, resta ancora da rilevare un par­ticolare molto interessante che ci offre la tavoletta Ta 716: in questa mi pare di scorgere la menzione esplicita del sesto seggio, cioè del trono regale, pre­sente nel megaron ma non descritto in Ta.

Ro già detto che Ta 716 fa parte a sé, in quanto registra bipenni e spade;

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la sua coerenza con le altre tavolette della serie sarà da istituire proprio in questo senso, che le due bipenni sono collocate ai due lati del trono regale come insegna di regalità e sacralità. Il testo dice:

pasaro kuruso api tonijo 2 qisipee ENSIS 2

wao BIPENNIS 2

Qui abbiamo due spade (qisipee = ç!q>EE); queste si possono immaginare de­poste su una tavola o in una rastrelliera, oppure dentro una oouPOOOX'I1, come quella in cui Telemaco infila le due lance entrando in casa (Horn. r1 128); la oouPOOOX'I1 non è descritta nel registro, perché appartiene all'immobile, e non è un mobile. Ma nella prima riga del testo sono notati due cavicchi d'oro, 1tr1crcrriÀ.w xpucrÉw, che sono stati infissi nella parete; a questi evidentemente sono appese le due bipenni (wao = ?), indicate dall'ideogramma BIPENNIS

nella medesima riga del testo. Ora, i due cavicchi d'oro sono api tonijo, e ap­punto in questa espressione ritengo che sia da vedere l'esplicita menzione del trono regale.

Generalmente si ripete, per api-tonijo, l'interpretazione che si legge in Docs. p. 347 (Ventris e Chadwich, 1956), cioè /amphitorniO/, postu]ando un aggettivo *à(l.q>L"COP\lLOç, a confronto con à(l.q>!"Cop\loç documentato in Euri­pide (Tro. 1156, come attributo di àcr1t!ç). Ma a questa interpretazione si può obbiettare anzitutto che non ha senso specificare che i cavicchi sono arroton­dati (-"CoP\lOç) tutto intorno o, tanto meno, dalle due parti (à(l.q>L-). E neppure si spiegherebbe il suffisso -LOç in un presunto *à(l.q>L"'COP\lLOç, quando la mor­fologia normale richiederebbe à(l.q>L"COp\lOç. Meglio si spiegherebbe *à(l.q>LMp\lLOç con un suffisso di appartenenza -LOç, considerato il largo impiego del suffisso -ijo in miceneo con il valore di appartenenza. Sarebbe quindi plausibile ve­dere in a(m)phitho(r)nio l'elemento descrittivo con cui si stabilisce la posi­zione dei due cavicchi in rapporto al trono regale, in quanto i due cavicchi erano collocati vicino ad esso, e infissi alla parete, dall'una e dall'altra parte. Credo però di potere restare fedele alla mia prima interpretazione 10, anteriore alla pubblicazione dei Docs. da parte del Chadwich, ma generalmente trascu­rata, e cioè che tonijo sia un derivato di tono /thornos/ = i)'p6\1oç, cf. Mp\lr1ç, e cioè la stessa parola che è documentata in greco nella forma i)'pO\lLO\l (Etym. Magn. s.v. i)'pO\lOç). Non c'è difatti un motivo valido per supporre in api

IO Vedo Documenti e struttura del greco nell'età micenea (1955-56), p. 157. La tendenza degli scribi micenei è piuttosto quella di mantenere uniti i due termini

di un composto, per lo meno se si tratta di prefissi verbali; per le preposizioni che siano staccate nella scrittura, quando formano in realtà un composto, gli esempi sono in­certi e molto rari, come il tripode di Ta 641: apu kekaumeno kereha, se vale tX'ltOXE­

XClVIlÉ\lOç CTxÉÀ.ECl. Ma qui apu, in realtà, svolge funzione di avverbio piuttosto che di prefisso.

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toni;o una scrittura che sia stata divisa nei suoi elementi morfologici invece che mantenuta unita come in molte parole composte, nella scrittura micenea; quindi non si deve cercare di interpretare il testo come se api tonijo fosse scritto unito e non staccato. Né mi pare che si possa ritenere improbabile anche in età remota l'esistenza di una forma i}p6\1LO\l: non sarà da valutare come un diminutivo, ma piuttosto come un vocabolo specificativo, atto a de­signare, accanto ai i}p6\10L comuni, quello del sovrano. Perciò la lettura più semplice di api tonijo mi sembra <X1-Lq>L i}6P\lLO\l, che significa «accanto al trono », « ai due lati del trono ».

Ritornando al titolo del registro Ta, e precisamente alla formula o-wide, in una prossima nota cercherò di mostrare che in tali formule introduttive come o-didosi, jo-terepato, il prefisso pronominale o-/jo- non è altro che la congiunzione dichiarativa homo 8 ed usualmente 15"t'L (con il verbum dicendi sottinteso: dico quod).

Nel caso specifico è la dichiarazione che il tal dei tali rende all'archivio intorno all'ispezione dai lui compiuta nel megaron per i preparativi della cerimonia.