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Note e discussioni Verso una “nuova storia” del ... · Sullo stesso numero cfr. anche Raffaele...
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N o te e discussioni
Verso una “nuova storia” del Mezzogiorno?di Costantino Felice
Da alcuni anni la storiografia sul Mezzogiorno, in un contesto di generale ripensamento di tutta la contemporaneistica, è sottoposta a sollecitazioni che ne stanno ridisegnando metodi, contenuti ed ipotesi interpretative. Un fitto ed appassionato dibattito, con una innumerevole varietà di proposte ed interventi, si è andato sviluppando specie a partire dalla seconda metà dello scorso decennio. Taluni aspetti e momenti si possono cogliere già attraverso riviste quali “Quaderni storici”, “Rivista di storia contemporanea”, “Italia contemporanea”, “Studi storici”. Ma assai ricco è stato anche il proliferare di convegni e pubblicazioni, con maggior frequenza dedicati alle vicende delle campagne meridionali, che si sono presentati non soltanto come opportunità di divulgazione per lavori di ricerca spesso condotti su specifici ambiti regionali e locali, quanto soprattutto come insostituibili occasioni di discussione e confronto storiografi- co1. Ad un certo punto tanto è stato insistente questo interrogarsi — in specifico riferimento alla realtà del Sud più di quanto
accadesse a livello generale — sul che cosa e come si fa storia oggi da far ritenere che vi si esprimesse, come qualcuno ha scritto2, quel senso di smarrimento che è tipico di una fase di transizione e assestamento, dopo la crisi delle grandi filosofie della storia e della società.
Dal variegato panorama delle posizioni (che certo è impossibile ripercorrere qui analiticamente in ogni fase e sfumatura) emergono tuttavia alcune tendenze di fondo che, con diverse accentuazioni, sembrano convergere tutte verso un principale filone di storia sociale i cui risultati sul piano delle acquisizioni teoriche e su quello della ricerca applicata appaiono già di notevole rilievo. La pars destruens di tale ‘scuola’ si può riassumere in un insieme di critiche rivolte ai due “vizi” o, se si preferisce, “unilaterali- smi” più diffusi nella storiografia contemporanea: l’uno consistente nell’assunzione dei dati quantitativi a criterio esclusivo, o comunque predominante, dell’interpretazione storica; l’altro teso a privilegiare gli elementi conflittuali, politici, considerati come esau-
1 Per una parziale rassegna di tali iniziative, cfr. Luigi Masella, Mezzogiorno e fascismo, in “Studi storici” , XX (1979), 4, pp. 779-798; Piero Bevilacqua, Dopoguerra, campagne, Mezzogiorno, ibid., XXI (1980), 4, pp. 797-818; Salvatore Lupo, Mezzogiorno e questione contadina, in “Italia contemporanea”, 1981, 142, pp. 21-30; Nicola Galle- rano, Contadini e Mezzogiorno: su alcuni libri recenti, in “Movimento operaio e socialista” , IV (1981), 4, pp. 495-506.2 Paolo Macry, Sulla storia dell’Italia liberale: una ricerca sul “ceto di frontiera”, in “Quaderni storici”, XII (1977), 35, p. 521. Per un inquadramento dei principali problemi storiografici oggi in discussione, assai utile, dello stesso autore, è anche Introduzione alla storia della società moderna e contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1980.
“Italia contemporanea”, settembre 1987, n. 168
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stivi, o comunque fondamentali, rispetto al complesso delle dinamiche sociali. Il primo orientamento si è applicato soprattutto alla storia economica, i cui meriti nell’opera di svecchiamento ed arricchimento del patrimonio storico sono fuori discussione, ma che ad un certo punto è sembrata risultare sterile e ripetitiva. È stato lo stesso Pasquale Villani, da sempre fervido sostenitore delle analisi socio-economiche fondate soprattutto su rilevazioni statistiche, ad avvertire — in occasione del convegno su “Un secolo di vita unitaria: bilancio storiografico”, svoltosi nel dicembre 1976 a Napoli su iniziativa dell’Istituto universitario orientale — che “si è corso e si corre il pericolo di cadere in posizioni di volgare economicismo, per cui — per dirla con Hobsbawm — le teorie dello sviluppo sembrano basarsi ‘su ipotesi da libro da cucina, anche se molto più raffinate: prendete i seguenti quantitativi degli ingredienti da a a n, mescolate e cuocete e il risultato sarà il decollo verso la crescita autonoma’”3.
Analoghe cautele egli manifestava, qualche anno più tardi, nel tracciare il consuntivo di un “ventennio di ricerche” ad un al
tro importante convegno, quello svoltosi a Bari nell’aprile 1979 sulla storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea. Qui Villani, insieme ai numerosi apprezzamenti per quello che si era fatto (con particolare riguardo ai lavori di Ay- mard, Delille, Villari, Galasso, Lepre, Pla- canica), metteva anche in guardia dagli “schemi che finiscono per indulgere a forme economicistiche e deterministiche”, sottolineando il rischio che i modelli, pur utili, “diventino gabbie di ferro o argomento di fede”4.
La stanchezza, e talvolta l’insofferenza, verso la storiografia economica e quantitativa trovava intanto le sue espressioni più pungenti (e in qualche caso per la verità anche astiose), sia pure da tutt’altra angolatura, nelle note pagine di Lawrence Stone II ritorno della narrazione: riflessioni su una vecchia storia, dove — soprattutto in riferimento alla cliometria — si giungeva ad affermare che i risultati di tale indirizzo si erano spesso svolti in un miscuglio di inattendibilità e banalità5. L’articolo di Stone suscitava in Italia una vasta eco, tanto che i problemi in esso sollevati venivano fatti oggetto di
3 Pasquale Villani, Problemi e prospettive di ricerca: la storia sociale dell’Italia contemporanea, in “Quaderni storici” , XII (1977), 34, p. 216. Sullo stesso numero cfr. anche Raffaele Romanelli, Storia politica e storia sociale dell ’Italia contemporanea: problemi aperti (pp. 230-248); e Edoardo Grendi, Micro-analisi e storia sociale, ivi, pp. 135, 506-520. Gli interventi di Villani e Romanelli sono stati poi pubblicati in A a .V v . , Società e cultura nell'Italia unita, Napoli, Guida, 1978, che raccoglie gli A tti del convegno di Napoli.4 Pasquale Villani, Un ventennio di ricerche: dai rapporti di proprietà all’analisi delle aziende e dei cicli produttivi, in A a .V v . , Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea, a cura di Angelo Massafra, Bari, Dedalo, 1981, pp. 11-12.
A proposito di queste posizioni del Villani, Raffaele Colapietra ha parlato di “conversione centrista”, di cui sarebbe interlocutrice legittima la storiografia “descrittiva” e prolematica di Giuseppe Galasso, Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea: osservazioni e postille, in “Storia e politica”, 1982,2, p. 181).
Sull’importanza e sui limiti delle inchieste e dei dati statistici nella ricostruzione storica cfr. ancora “Quaderni storici” , XX (1980), 45, numero monografico dedicato a L ’indagine sociale nell’unificazione italiana. Si veda al riguardo anche Enrico Iachello, Agricoltura e contadini nel Mezzogiorno, in “Studi storici”, XXII (1981), 4, pp. 941-951.5 “Comunità”, XXXV (1981), 183, pp. 1-25. Ma, in proposito si veda anche il successivo intervento polemico di Eric Hobsbawm, The Revival o f narrative: Some Comments, in “Past and Present”, 1980,86, pp. 1-8 (l’articolo di Stone era stato pubblicato sul numero precedente).
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un apposito seminario organizzato dalla Fondazione Basso6.
Le riserve espresse da Villani al convegno di Bari venivano riprese e sviluppate — in una nota critica dedicata agli Atti dello stesso convegno — da Piero Bevilacqua, certamente tra i più lucidi e rigorosi protagonisti di questa “nuova storia” meridionale. Le sue perplessità investivano la sostanza complessiva delle “traiettorie di ricerca” così come emergevano dal volume e di cui lo stesso Villani e Maurice Aymard nelle riflessioni introduttive (il secondo insistendo soprattutto sul gap storiografico tra l’Italia e il resto dell’Europa riguardo agli studi di lungo periodo su rese produttive, rendite, prezzi) auspicavano proficui sviluppi. In particolare Bevilacqua metteva in dubbio il fatto che “attraverso una corposa serie di ricostruzioni parziali, elaborate sullo studio dei documenti dei patrimoni delle famiglie feudali e degli enti ecclesiastici” — come ha sostenuto uno degli intervenuti al convegno7 — si potesse pervenire ad una sufficiente rappresentazione delle varie congiunture nelle campagne meridionali. Il semplice accumulo di dati economici e di singoli contributi — scriveva — difficilmente porta a nuove decisive acquisizioni di conoscenza: con un uso meramente contabile e cumulativo delle fonti, l’analisi “rischia di appiattirsi su una descrizione senza rilievo, che non è in grado di af
ferrare un orizzonte problematico, né all’interno del suo ambito specifico, né in rapporto alla situazione sociale e politica più generale, che sta attorno all’azienda, feudale o borghese che sia”8. Come strada alternativa — o comunque integrativa e correttiva — rispetto alla “logica di ricostruzione quantitativa e seriale” Bevilacqua suggeriva, ad esempio, una maggiore attenzione alle “scienze della terra” , all’agronomia, insomma ai condizionamenti dei fattori naturali e dei processi materiali — la cui cancellazione dalla vicenda storica era imputata soprattutto a Croce —, per poter meglio cogliere l’uomo nella totalità dei suoi rapporti con gli altri uomini e con l’ambiente9.
In linea con questi presupposti, Bevilacqua si poneva al centro anche dell’altro punto di attacco degli storici sociali, e cioè, come si è anticipato, la denuncia dei limiti e delle ‘parzialità’ della tradizionale storiografia d’ispirazione politica. L’occasione per una dura ‘requisitoria’ veniva offerta dalla pubblicazione di due volumi collettanei, Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d ’Italia dal dopoguerra a oggi10, espressione esemplare del tipo di storia che era sotto tiro (per discuterne si organizzava anche un ennesimo convegno, questa volta a Palermo nell’aprile 1980: “A trent’anni dalla riforma agraria: Mezzogiorno, questione agraria e movimento operaio”). Il principale
6 Se ne veda il resoconto di Gianna Pomata, La storia: scienza o narrazione? in “Quaderni storici”, XVII (1982), 49, pp. 376-379. Ma di rilievo sono anche le considerazioni che, sempre partendo dall’articolo di Stone, ha svolto Piero Bevilacqua, La storia tra ricerca di identità e conoscenza, in “Laboratorio politico”, II (1982), 5-6, pp. 216- 229. Sull’argomento fondamentali sono — ovviamente — i richiami di Jacques Le Goff nella sua splendita voce Storia della Enciclopedia Einaudi, Torino, 1981, voi. 13, pp. 653-654.
S. Zotta, Rapporti di produzione e cidi produttivi in regime di autoconsumo e di produzione speculativa. Le vicende agrarie dello “Stato” di Melfi nel lungo periodo (1530-1730), in Problemi di storia delle campagne meridionali, cit., p. 222.8 Piero Bevilacqua, Agricoltura e storia delle campagne nel Mezzogiorno d ’Italia, in “Studi storici”, XXIII (1982), 3, pp. 674 sgg.9 Per ulteriori approfondimenti di questi temi, si veda, dello stesso Bevilacqua, Catastrofi, continuità, rotture nella storia del Mezzogiorno, in “Laboratorio politico”, I (1981), 5-6, pp. 177-211.10 Aa . Vv., Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d ’Italia dal dopoguerra ad oggi, Bari, De Donato, 1979.
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capo di accusa veniva individuato nel fatto che l’orizzonte problematico delle ricerche non si discostasse dalla memoria interna dello stesso movimento organizzato che era stato protagonista delle lotte oggetto d’indagine: il risultato era una pressoché assoluta improduttività conoscitiva, dal momento che gli elementi di giudizio che se ne potevano trarre finivano col coincidere con quelli già ampiamente acquisiti in sede politica e sindacale. E, a rincarare la dose, Bevilacqua aggiungeva: “Io credo che Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno rappresenti al più alto livello (almeno in alcuni saggi fondamentali), e realizzi in pieno, un’illusione metodologica che domina un po’ tutta la produzione storiografica di ispirazione politica e in particolare quella che si è occupata di questo dopoguerra. Illusione che si proietta in due direzioni distinte ma in qualche modo fra loro complementari. La prima è data dalla supposizione, mai apertamente teorizzata, che la dimensione del sociale non abbia una relativa autonomia, una propria logica di svolgimento, e che quindi non necessiti a livello scientifico di strumenti specifici per essere indagata [...]. La seconda direzione poggia su un altro presupposto: è il convincimento, più o meno esplicito, che per fornire risposte a interrogativi di natura politica la ricerca storica possa limitarsi a porre domande di carattere politico alle fonti che documentano il passato”11.
Questi temi venivano arricchiti di ulteriori indicazioni in positivo (perfino documenta
rie ed archivistiche) con un successivo contributo, dal titolo Movimento contadino e storiografia politica, letto da Bevilacqua al seminario su “Mezzogiorno e contadini: trent’anni di studi”, organizzato a Roma nell’aprile 1981 dall’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza e dall’Istituto Cervi12. Nella stessa circostanza altre relazioni ed interventi allargavano Io sguardo sia alle ascendenze gramsciane e/o gentiliane di un certo tipo di storiografia (Ester Fano), sia specificamente ai diversi momenti (Anna Rossi Doria dal 1945 al 1956; Nicola Gallerano negli anni sessanta e settanta) e settori (Amalia Signorelli per l’antropologia; Giovanni Mottura per la sociologia e l’economia agraria) in cui, per una lunga fase, si era andata articolando la ricerca sulla realtà meridionale.
Ma l’elemento di novità rispetto ad altre analoghe dispute del passato era che questa volta la messa a nudo delle ingenuità in cui era caduta la storiografia politica — ingenuità sulle quali per la verità era già stata autorevolmente richiamata l’attenzione dall’interno stesso di questa tradizione13 — non trovava in sostanza alcuna opposizione, come se si stesse sfondando una porta aperta. Mentre, ad esempio, nella seconda metà degli anni cinquanta — dopo il decimo Congresso internazionale di scienze storiche, svoltosi a Roma nel 1955, che segnò l’inizio in Italia dell’influenza storiografica delle “Annales” —, da parte di prestigiosi storici di formazione gramsciana, come Gastone
11 P. Bevilacqua, Dopoguerra, campagne, Mezzogiorno, cit., pp. 801-802.12 I relativi Atti, con lo stesso titolo, sono stati pubblicati in “Quaderni” dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza, 1981,4.13 Esplicite in proposito furono, ad esempio, le Conclusioni di Rosario Villari al convegno tenutosi a Bari il 2-3-4 novembre 1975 su “Togliatti e il Mezzogiorno” (ora in Aa.Vv., Togliatti e il Mezzogiorno, Roma, Editori Riuniti, 1977, vol. I, pp. 517-526), in cui, nel rilevare la “sfasatura”, la “discrepanza” fra il discorso dei politici e quello degli storici, si denunciava la “impostazione troppo interna”, 1’ “angolatura troppo strettamente politica e partitica” nella ricostruzione del movimento contadino e dell’azione dei comunisti nel Mezzogiorno. Ma su questi temi si vedano anche le analoghe osservazioni di Nicola Gallerano, Conflitti sociali e partiti di sinistra nel Mezzogiorno, in “Italia contemporanea”, XXIX (1977), 129, pp. 110-116.
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Manacorda e Ernesto Ragionieri14, si registrava un’appassionata reazione contro le invadenti tendenze d’Oltralpe, ora nulla del genere si verifica nei confronti di questi nuovi assalti, nonostante le fumosità ed incertezze della pars construens (come riconosceva lo stesso Bevilacqua in fase di replica) o comunque lo iato tra i discorsi in astratto e i risultati pratici. Si aveva anzi l’impressione — notava opportunamente Caracciolo — che si stesse sparando su un uomo morto, dal momento che il bersaglio da tempo non esisteva più. Il rischio poteva piuttosto essere quello di un’ennesima infatuazione, destinata ad esaurirsi rapidamente. E Caracciolo non mancava di ricordare alcuni di questi momenti: storia politica nell’immediato dopoguerra, quando si doveva costruire la democrazia italiana sul sistema dei partiti; storia economica nella seconda metà degli anni cinquanta (polemica Romeo, Gerschenkron, Cafagna, Villari) in parallelo con il cosiddetto boom economico; storia sociale (nel senso ampio) e sbornia ideologica verso la fine degli anni sessanta, in coincidenza con i grandi movimenti di massa; storia del vissuto, del ‘micro’, del privato, del locale, negli ultimi anni settanta, all’epoca del riflusso15. Certo, si trattava — secondo le intenzioni dello stesso Caracciolo — di uno schema un po’ caricaturale, ma il legame tra ricerca storica ed attualità restava un dato oggettivo, la cui ovvia verità del resto nessun grande storico
aveva mai contestato16. E sempre per quanto riguarda la storiografia dell’Italia repubblicana, quasi a conferma di questo assunto, s’incaricava di recente Francesco Barbagallo di analizzarne, con meticolosa puntualità ed inconfutabili riscontri, l’evoluzione in rapporto alle congiunture politico-economiche e al mutare degli atteggiamenti ideali17 18. I rischi della enfatizzazione dovuti alla moda potevano quindi esserci anche con la nuova storia sociale: ad evitarli — si diceva — era (ed è) necessaria un’attenta e costante vigilanza critica.
Pressappoco nello stesso periodo del convegno romano vedeva la luce un altro volume collettaneo, dall’esplicito titolo Dieci interventi sulla storia sociale1*. Elemento comune alle diverse posizioni — che autobiograficamente si configurano anche come un accorato bilancio di storici ‘militanti’ — era il riconoscimento di una crisi ormai irreversibile dell’uso, spesso acritico ed univoco, di categorie come “soggetto storico”, “classe”, “scala nazionale” , che per anni erano state alla base di appassionate analisi sul passato più o meno recente e sull’attualità. E si prescinde qui dal dibattito di natura preminentemente teorica — che pure in alcuni settori e per un certo tempo (si pensi anche alla ve- xata quaestio del rapporto spontaneità- organizzazione) s’era fatto spazio sotto la spinta della storiografia cosiddetta di ‘nuova sinistra’ — circa l’autonomia del “sociale”
14 II loro interventi, apparsi rispettivamente sul n. 9 di “Rinascita” e su “Il Contemporaneo” del 1955, si possono leggere ora anche in Luigi Masella, Passato e presente nel dibattito storiografico. Storici marxisti e mutamenti delia società italiana. 1955-1970. Antologia critica, Bari, De Donato, 1979, pp. XVIII sgg., 9-14. Su queste chiusure della storiografia marxista italiana degli anni cinquanta rispetto alla storia sociale d’ispirazione francese e in genere della sociologia viste come espressione della “ideologia americana”, cfr. Franco Andreucci-Gabriele Turi, Indirizzi storiografici e organizzazione delia ricerca, in “Passato e presente”, II (1983), 4, pp. 8 sgg.I! Alberto Caracciolo, Conclusioni in Mezzogiorno e contadini: trent’anni di studi, “Quaderni” dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza, 1981, 4, pp. 187-188.16 Si veda, per tutti, Edward H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Torino, Einaudi, 1966, le cui notazioni al riguardo (soprattutto pp. 24-35) restano ancora le più chiare ed esplicite.1 ' Francesco Barbagallo, Politica, ideologia, scienze sociali nella storiografia dell’Italia repubblicana, in “Studi storici”, XXVI (1985), 4, pp. 827-840.18 Aa .Vv., Dieci interventi sulla storia sociale, Torino, Rosenberg & Sellier, 1981.
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(e simmetricamente del “politico”), come anche dal quadro internazionale entro cui la “nuova storia sociale” si era andata definendo e sviluppando. Basti pensare, a questo riguardo, solo all’ampio dibattito provocato nella storiografia tedesca dalla Neue Sozial- geschichte — polemica, anche lì, rivolta soprattutto contro la tradizionale “storia politica” , imperniata sugli aspetti politicostatuali e sulle grandi personalità — dei cui principali esponenti, Wehler e Kocka, nel 1983 uscivano in italiano due importanti saggi, Sulla scienza della storia. Storiografia e scienze sociali, con una ricca introduzione di Gustavo Corni19.
Intanto, accanto alla chiarificazione teorica, cominciavano ad aversi anche i primi corposi risultati della ricerca concreta. Era ancora una volta Bevilacqua a produrre l’opera più matura in questo senso. Il suo Le campagne del Mezzogiorno tra fascismo e dopoguerra. Il caso della Calabria20 si presentava, per così dire, come una esplicitazio- ne sul campo della ricchezza di contenuti e della sofisticata strumentazione concettuale di cui può essere capace la storia sociale. Anzitutto il volume sanciva, in modo incontrovertibile e forse definitivo, una nuova scansione della storia meridionale: non più la fine del fascismo e le lotte contadine dell’immediato dopoguerra, ma la crisi del 1929 diventa la “sommità di uno spartiacque”, “la fase di inizio di un nuovo arco di
vicende e di periodizzazione storica” (p. 5). È da quel momento che prende avvio un processo inarrestabile di “disarticolazione molecolare dei vecchi rapporti sociali, di frattura anche dei legami di consenso fra i vari ceti e all’interno della tradizionale gerarchia di potere” (p. 9). Si ha allora l’inizio di quella “crisi del blocco agrario” — peraltro già focalizzata dal Villari21 — che in questo dopoguerra consentirà il dispiegarsi delle grandi lotte contadine e di una loro efficace spinta verso il rinnovamento democratico e il progresso civile. Gli événements, le vicende eclatanti e l’immediata incidenza, si connettono così, attraverso mille fili più o meno sotterranei ma solidi, con i processi di ‘lunga durata’. La realtà sociale viene colta in tutti i suoi molteplici aspetti: condizioni materiali (alimentari, igieniche, sanitarie, abitative), rapporti produttivi, quadri ambientali, peso fiscale e disponibilità del credito, circuiti e dinamiche di mercato, mentalità e comportamenti. A questi livelli di analisi, antiche e controverse questioni come quelle del ‘consenso’, dei rapporti Stato-società, del ‘sottosviluppo’, degli stessi caratteri del regime, o perdono quella forza euristica loro tradizionalmente attribuita o escono completamente rinnovate e illuminate d’insolita luce. L’immagine della Calabria non è più quella di una regione inchiodata al suo secolare immobilismo e alla sua arretratezza, come potrebbe apparire dalla tradizionale sto-
19 Hans-Ulrich Wehler e Jiirger Kocka, Storia e scienze sociali. Problemi di metodo, Bari, De Donato, 1983. Cfr. Giuseppe Cacciatore, “Neue Sozialgeschichte" e teoria della storia, in “Studi storici”, XXV (1984), I, pp. 119-130. Sullo stesso numero utili per le questioni che si affrontano nel testo sono anche Ettore Lepore, Storiografia contemporanea e dibattito teorico (pp. 131-137), e Francesco Barbagallo, La storia tra passato e presente (pp. 105-117).20 Piero Bevilacqua, Le campagne del Mezzogiorno tra fascismo e dopoguerra, Torino, Einaudi, 1980.21 Rosario Villari, La crisi del blocco agrario, in L ’Italia contemporanea. 1945-1975, a cura di Valerio Castronovo, Torino, Einaudi, 1976, pp. 105-143. C’è da dire, del resto, che l’assunzione della crisi del 1929 come momento periodizzante per la storia d’Italia risulta più aderente anche al quadro delle vicende che hanno caratterizzato l’intero mondo occidentale. Cfr. al riguardo Ernesto Galli Della Loggia, Verso gli anni Trenta: qualità e misure di una transizione, in “Belfagor” XXIX (1974), 5, pp. 489-509; Alberto Caracciolo, Dalle interpretazioni del fascismo all’analisi del sistema mondiale dopo gli anni ’30, in “Quaderni storici”, X (1975), 28, pp. 227-242; Antonio Prampolini, Il “ritorno alla terra” e la crisi del capitalismo negli anni Trenta: note introduttive, in “Società e Storia” , 1978, 3, pp. 581-594.
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riografia antifascista: il mondo contadino e le strutture agrarie diventano invece realtà dinamiche, assai articolate al loro interno, permeabili in taluni settori agli influssi del mercato, come anche alla penetrazione di forme e tecniche di modernizzazione. Viene, d’altra parte, ulteriormente smentita la nota interpretazione che fa della società civile un luogo di indiscusso ‘consenso’. Particolarmente suggestive e penetranti, a questo proposito, sono le pagine dedicate, in polemica più o meno esplicita con l’impostazione defeliciana, ai numerosi moti popolari che si sono sviluppati negli anni della ‘grande crisi’22.
Contemporaneamente agli studi di Bevilacqua sulla Calabria, anche in altre regioni si andavano diffondendo e prendevano vigore — con evidenti aperture verso il “sociale” — ricerche ed approfondimenti su circoscritti ambienti territoriali o settoriali. Basti pensare ai lavori di Giarrizzo, Barone, Lupo ed altri (tutti più o meno operanti all’interno dell’Istituto siciliano per la storia dell’Italia contemporanea o in contatto con esso) sulla Sicilia, di Calice sulla Lucania, di Franco De Felice, Biagio Salvemini e Masella sulla Puglia, di Colapietra e del gruppo di ricercatori raccolto attorno all’Istituto della Resistenza sull’Abruzzo; e naturalmente si potrebbe continuare23.
Nella nuova ottica si è cercato di analizza
re anche alcune fasi di emergenza événementielle. Significativo al riguardo il convegno su “L’altro dopoguerra” svoltosi a Roma nel giugno 1984 per iniziativa dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza. Il privilegiamento del ristretto periodo 1943-45 puntava, come scrive esplicitamente Gallerano nelle notazioni introduttive agli atti24 a rompere la meccanica equivalenza tra tempo breve e tempo esclusivo della politica, per cogliere nel profondo la specificità — ed anche le anticipazioni o i condizionamenti sugli sviluppi futuri — della “ambigua” situazione in cui vennero allora a trovarsi il Centro e il Sud, di essere cioè, in quanto ‘liberati’, un pezzo dell’Italia che vive un’esperienza completamente diversa da quella del Nord e, nello stesso tempo, parte integrante del paese nel suo complesso: in altri termini, terreno insieme di storia locale e di storia nazionale. Non c’è dubbio tuttavia che negli ultimi tempi, anziché sulle ‘origini’ e sulla ‘fine’ del fascismo, com’era accaduto in passato, l’attenzione degli storici — grazie anche alle stimolanti ricognizioni che taluni studiosi (tra gli altri Ester Fano, Paul Corner, Gianni Tomolo, Domenico Preti) all’inizio degli anni settanta hanno compiuto su grossi aggregati macro-economici della realtà nazionale in periodo fascista25 — si sia andata progressivamente concentrando sulla fase del cosid-
22 P. Bevilacqua, Le campagne del Mezzogiorno, cit., pp. 122-149.23 Come quadri di riferimento generali — dove però si possono trovare le ulteriori indicazioni bibliografiche — ci si limita a citare: Campagne e fascismo in Basilicata e nel Mezzogiono, Manduria, Lacaita, 1981, e Giuseppe Barone, Mezzogiorno e modernizzazione, Torino, Einaudi, 1986, di cui si dirà nel testo. Con specifico riguardo all’Abruzzo, cfr. Costantino Felice, L ’Abruzzo tra fascismo e dopoguerra: bilancio e prospettive della ricerca storica, in “Rivista abruzzese di studi storici dal fascismo alla resistenza”, V (1984), 3, pp. 59-86, ed il recentissimo Luigi Ponzia- ni, Dopoguerra e fascismo in Abruzzo. Orientamenti storiografici, in “Italia contemporanea”, 1986, 164, pp. 93-103.24 Nicola Gallerano, L'altro dopoguerra, in L ’altro dopoguerra. Roma e il Sud 1943-1945, a cura di N. Gallerano, Milano, Angeli, 1985, p. 31. Sempre di Gallerano, ricco di spunti sugli ultimi anni del fascismo è La disgregazione delie basi di massa del fascismo nel Mezzogiorno e il ruolo delle masse popolari, in Operai e contadini nella crisi italiana nel 1943-1944, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 435-493.25 Cfr. soprattutto i vari saggi contenuti in “Quaderni storici” , X (1975), 29-30 (dedicato appunto a L ’economia italiana nel periodo fascista), e Domenico Preti, Economia e istituzioni nello Stato fascista, Roma, Editori Riuniti,
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detto fascismo ‘maturo’, per cogliere soprattutto qui elementi di novità e di rottura rispetto alle lunghe permanenze.
Su un altro versante, non meno interessante e produttivo, la storia sociale conosceva pure fecondi sviluppi, per merito soprattutto della ‘scuola’ di Gabriele De Rosa e dell’attività svolta dall’Istituto per le ricerche di storia sociale e di storia religiosa di Vicenza: quello, appunto, dei fenomeni e della mentalità religiosa. Per rendersene conto basta fare ricorso alla rivista “Ricerche di storia sociale e religiosa” dalla sua fondazione nel 1972. A parte i contributi di studio riguardanti la realtà specifica del Mezzogiorno, innovative sollecitazioni sono venute anche per quanto riguarda l’ampio dibattito sull’uso e sulla qualità delle fonti (si pensi agli archivi parrocchiali e diocesani), sull’apertura interdisciplinare della storia verso le altre scienze sociali e sui rapporti tra micro e macro-storia, indagini a carattere locale e sintesi generali26.
Ma nei primi anni ottanta era proprio da parte degli scienziati sociali, sociologi e an- tropologi soprattutto, che provenivano si
gnificative novità, quasi ad evidenziare — come ha scritto Gallerano27 — le permanenti difficoltà che incontrano gli storici ‘puri’ nell’analisi della sfuggente realtà meridionale. Il volume di Gabriella Gribaudi, Mediatori1*, quello di Pino Arlacchi, Mafia, contadini e latifondo nella Calabria tradizionale19, e l’altro di Fortunata Piselli, Parentela ed emigrazione30, con un uso abile e raffinato di categorie e strumenti interpretativi mutuati dalla già consolidata “antropologia mediterranea”31, mentre — insieme agli apprezzamenti — non mancavano di suscitare riserve e perplessità tra gli ‘addetti ai lavori’32, avevano tuttavia il merito di battere sentieri inesplorati, offrendo contributi di conoscenza su aspetti della ‘questione meridionale’ (mafia, clientelismo, esercizio del potere, rapporti tra autorità centrale ed élites locali) che la ricerca storica o lasciava ancora avvolti nell’ombra o toccava solo marginalmente e in modo inadeguato. Questo tipo di studi confermava, d’altra parte, la stringente necessità (fino a porre un “problema di identità dello storico”, scriveva Lupo) di approcci inter e multidisciplinari per
1980. Per il settore terziario e la cosiddetta “meridionalizzazione” dell’apparato statale, fondamentale resta Sabino Cassese, Questione amministrativa e questione meridionale. Dimensioni e reclutamento della burocrazia dall’Unità ad oggi, Milano, Angeli, 1977.26 Ne è un esempio Antonio Lazzarini (a cura di), Economia e società nella storia dell’Italia contemporanea. Fonti e metodi di ricerca, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1983. Per quanto riguarda la tematica metodologica in riferimento specifico alle fonti, particolarmente ampio è stato il dibattito, negli anni settanta, su quelle orali. Per uno sguardo sintetico e i necessari riferimenti bibliografici, cfr. “Quaderni storici”, XIII (9177), 35, numero monografico dedicato a Oral history: fra antropologia e storia-, Luisa Passerini, Sette punti sulla memoria per l ’interpretazione delle fon ti orali, in “Italia contemporanea”, 1981, 143, pp. 83-92; Id., Le testimonianze orali, in Introduzione alla storia contemporanea, Firenze, La Nuova Italia, 1984, pp. 232-248; La storia: fon ti orali nella scuola, Venezia, Marsilio, 1982.27 N. Gallerano, La storiografia marxista sul movimento contadino e il Mezzogiorno negli anni Sessanta e Settanta, in Mezzogiorno e Contadini: trent’anni di studi, cit., p. 64.28 Gabriella Gribaudi, Mediatori. Antropologia del potere democristiano nel Mezzogiorno, Torino, Rosenberg & Sellier, 1980.29 Pino Arlacchi, Mafia, contadini e latifondo nella Calabria tradizionale, Bologna, Il Mulino, 1981.30 Fortunata Piselli, Parentela ed emigrazione, Torino, Einaudi, 1981.31 Se ne può vedere una rassegna critica in John Davis, Antropologia delle società mediterranee. Un’analisi comparata, Torino, Rosenberg & Sellier, 1980.32 Cfr. N. Gallerano, Contadini e Mezzogiorno, cit., pp. 499-505; Piero Bevilacqua, Calabria fra antropologia e storia, in “Studi storici”, XXII (1981), 3, pp. 665-669; Salvatore Lupo, Storia e società nel Mezzogiorno in alcuni studi recenti, in “Italia contemporanea”, 1984, 154, pp. 71-93.
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scandagliare con mezzi appropriati i complessi problemi del Sud33. La disponibilità — per la verità da entrambe le parti — ad allacciare legami più stretti tra storia e scienze sociali, intrecciando metodologie e ‘paradigmi’ diversi, si faceva di conseguenza assai più diffusa ed esplicita, con un salutare allargamento ed approfondimento dei campi di ricerca.
La scelta di questa strada, l’apporto cioè di molteplici specialismi come ineludibile requisito del fare storia, era il tratto peculiare di un altro lavoro che ha fatto discutere, suscitando convinte approvazioni ma anche qualche riserva: ci si riferisce al volume antologico Le bonifiche in Italia dal ’700 a oggi34 curato da un grande esperto di problemi agrari qual è Manlio Rossi Doria, e da Piero Bevilacqua. Oggetto dell’ampia ricognizione sono le secolari trasformazioni del territorio e del paesaggio rurale per mezzo dell’attività bonificatrice. Ma l’analisi non si ferma alle profonde modificazioni che da questa sono derivate nei reciproci condizionamenti tra uomo ed ambiente. Preoccupazione costante dei curatori è anche quella di far emergere i nessi che le varie forme di organizzazione e
di utilizzo del territorio hanno finito con l’intrecciare coi modi di produzione e coi rapporti sociali fra i ceti: basti pensare allo stretto legame tra bonifica collinare e mezzadria quale si evidenzia dalle elaborazioni dell’abate Landeschi o a quello tra utilizzazione privatistica della natura da parte di emergenti forze capitalistiche e selvaggio degrado dell’habitat come viene colto in alcune lucide pagine di Afan de Rivera.
Insolite dimensioni vengono dunque portate a galla nell’analisi dei processi e delle direttrici del mutamento. In questo quadro allargato lo stesso scenario dei protagonisti si arricchisce di nuove figure, portando talvolta ad una diversa dislocazione di ruoli ed incidenze. Soggetti di trasformazione diventano non tanto — o comunque non solo — le forze politiche, i governi, o le classi, bensì le élites tecnocratiche, le schiere di tecnici che — per quanto riguarda l’Italia — dal secondo Settecento ai primi decisivi decenni di questo secolo e, passando per il fascismo, fino al periodo repubblicano, sono andate conquistando un peso sempre più decisivo in parallelo col progressivo intensificarsi ed articolarsi degli interventi statali35. Ingegneri,
33 Cfr. al riguardo soprattutto Piero Bevilacqua, Quadri mentali, cultura e rapporti simbolici nella società rurale del Mezzogiorno, in “Italia contemporanea”, 1984, 154, pp. 33-70. Si tratta di un saggio di grande respiro analitico, non solo per le stimolanti riflessioni sui rapporti tra storia e scienze sociali (antropologia soprattutto), loro reciproci intrecci e possibili confini, quanto per la ricchezza di indicazioni su nuovi e inesplorati percorsi dell’indagine intorno ad un tema assai complesso e delicato come quello della mentalità contadina.34 Le bonifiche in Italia dal ’700 ad oggi, a cura di Manlio Rossi Doria e Piero Bevilacqua, Roma-Bari, Laterza, 1984.35 Sul ruolo dei tecnici, specie in riferimento alla problematica ruralista del regime, erano già usciti diversi studi. Si ricordino in particolare: Antonio Prampolini, La formazione di Arrigo Serpieri e i problemi dell’agricoltura lombarda, in “Studi storici”, XVIII (1976), 2, pp. 125-160; Lea D’Antone, I tecnici e la riforma agraria. Il dibattito degli anni 1945-1950, in “Archivio storico per la Sicilia orientale”, LXX (1974), I, pp. 113-149; Id., Politica e cultura agraria: Arrigo Serpieri, in “Studi storici”, XX (1979), 3, pp. 609-642; Carlo Fumian, Modernizzazione, tecnocrazia, ruralismo, Giuseppe Barone, Capitate fondiario e bonifica integrale nel Mezzogiorno fra le gue guerre, e Roberto Cerri, Note sulla politica della bonifica integrale del fascismo. 1928-1934, in “Italia contemporanea”, 1979, 137, pp. 3-81; Paolo Magnarelli, L ’agricoltura italiana fra politica e cultura. Breve storia dell’Istituto nazionale di economia agraria dal fascismo ai primi anni sessanta, Milano, Edizioni di Comunità, 1981; Antonino Checco, Stato, finanza e bonifica integrale nel Mezzogiorno, Milano, Giuffrè, 1984; Mauro Stampacchia, Tecnocrazia e ruralismo. Alle origini della bonifica fascista (1918-1928), Pisa, Ets, 1983. Per un esame particolareggiato ed esauriente di questo tipo di lavori, cfr. Franco Cazzola, Tecnici e bonifica nella più recente storiografia sull’Italia contemporanea, in “Società e storia” , 1986, 32, pp. 419-439.
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“pianificatori del territorio”, tecnici del calibro di Serpieri, Omodeo, Ruini, Iandolo, Petrocchi, ecc. sono stati — si legge a proposito del gruppo che negli anni venti fu artefice della bonifica integrale — “veri realizzatori di storia” , forse più di quanto non lo siano stati primi ministri e uomini di governo enfatizzati da tanta storiografia36. In tale ottica anche il giudizio sul periodo fascista cambia ovviamente di segno: dal momento che le bonifiche — “a differenza di molti processi di trasformazione che costituiscono la ‘stoffa’ del processo storico” — hanno un loro svolgimento del tutto particolare, una propria sotterranea linea di continuità o di rottura, che travalica generalmente il destino dei singoli governi i quali di volta in volta vi si cimentano37, sminuire la portata storica dell’attività bonificatrice svolta durante il regime — voluta e promossa dalle “forze produttive delle campagne, le più dinamiche ed intraprendenti” — significa schiacciare l’intera prospettiva “entro i limiti di un giudizio sostanzialmente politico sul Ventennio”38.
Ma era proprio su questo nodo dei rapporti tra tecnocrazia, fattori socio- economici e ceto politico dirigente che l’impostazione di Bevilacqua e Rossi Doria suscitava qualche perplessità. In particolare Massimo Legnani rilevava “la necessità di ricomporre la compresenza di spinte sociali, ruolo dei ‘tecnici’ e azione dei governi non per giustapposizioni ma per intrecci, illuminando i modi concreti attraverso i quali cia
scuno di questi soggetti interagisce con gli altri”39.
Qualche riserva sulla scarsa sottolineatura del problema del “potere” veniva avanzata anche da Giuseppe Barone. Ma si trattava di un’osservazione lontana da giudizi ricalcabi- li su categorie etico-politiche (del resto anche Legnani si colloca in tutt’altra ottica). La questione, secondo Barone, riguarda soprattutto il ruolo svolto dallo Stato nel processo d’industrializzazione, oltre naturalmente al tenace profilarsi delle resistenze sociali opposte alla modernizzazione da parte di “blocchi corporativi d’interesse sostenuti dalle élites locali” : donde la conclusione che “dietro la presunta neutralità delle scelte tecniche riguardanti le sistemazioni idrogeologiche della montagna e della pianura, lo storico non può eludere le lotte di potere che si svolgono attorno al controllo del territorio, delle sue risorse, del suo assetto fisico ed economico”40 41. Per il resto egli non solo condivideva il giudizio sull’estrema rilevanza della bonifica, ma anzi faceva del processo di ‘modernizzazione’ del Sud — di cui gli interventi di bonifica costituivano ovviamente momenti essenziali — il tema prescelto delle sue ricerche che hanno poi trovato compimento nel recentissimo Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell’Italia contemporanea4' . Al centro dell’ampio studio, assai bene articolato e condotto in gran parte su documentazione inedita o poco utilizzata, è posto quello che egli considera “il più lucido e vasto piano di
36 Le bonifiche in Italia, cit., pp. 58-59.37 Cfr. su questo aspetto anche Teresa Isenburg, Acque e Stato. Energia, bonifiche, irrigazione in Italia fra il 1930 e il 1950, Milano, Angeli, 1981.38 Le bonifiche in Italia, cit., p. 59.39 Massimo Legnani, recensione in “Italia contemporanea”, 1985, n. 160, p. 157.40 Cito dal testo dell’intervento di Giuseppe Barone all’incontro organizzato a Roma dall’Istituto Cervi (28 giugno 1984) sul volume di Rossi Doria e Bevilacqua, in “Studi storici” , XXVI (1985), 4, pp. 965-966. Sullo stesso fascicolo sono riportati anche gli interventi di Lucio Gambi e dello stesso Rossi Doria.41 Giuseppe Barone, Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell’Italia contemporanea, Torino, Einaudi, 1986.
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intervento modernizzatore nelle campagne del Mezzogiorno mai concepito dopo l’Unità”42, vale a dire il progetto elettroirriguo elaborato, negli anni a ridosso della prima guerra mondiale, da alcuni tra i maggiori gruppi elettrici e finanziari italiani e sostenuto dal- l’entourage politico e tecnocratico raccolto attorno a Nitti43, oltre che da consistenti settori socialriformisti, con il quale si prevedeva la costruzione di grandi impianti idroelettrici come premesse della disponibilità di energia a basso costo a fini industriali e della creazione di un razionale sistema d’irrigazione. “Nel contesto internazionale del dopoguerra il piano elettroirriguo socialriformista e nittiano pone per la prima volta il Mezzogiorno al centro di una ipotesi complessiva di riorganizzazione delle forze produttive e dei gruppi sociali come protagonisti di una diversa qualità dello sviluppo. Da Nitti a Turati, attraverso Omodeo e l’intervento del trust elettrofinanziario, questo progetto si qualifica essenzialmente come scommessa sulla trasformazione socioeconomica della sezione arretrata del paese, non tanto con riforme del regime di proprietà (formazione della piccola proprietà, modifica dei patti agrari) secondo il modello sonniniano, né per mezzo degli sgravi fiscali e della politica doganale (secondo una linea che da Fortunato giunge al meridionalismo liberista), quanto con una moderna impostazione infrastrutturale centrata attorno al governo delle acque e alla elettrificazione, come la più congrua a modificare in profondità l’assetto produttivo italiano e ad integrare alcune aree del Sud con le zone ‘forti’ dell’economia industriale settentrionale”44.
In realtà questa visione pone fuori gioco non solo le logore ricette del ruralismo sonniniano o del meridionalismo liberista, quanto soprattutto — anche se in proposito l’autore non è mai del tutto esplicito — la tradizione storica e politica d’ispirazione gramsciana che ha indicato nell’alleanza operai-contadini il nuovo ‘blocco storico’ da sostituire a quello industriali-agrari per guidare in Italia la transizione verso il socialismo. Il vero asse strategico vincente (Barone parla di linea Turati-Omodeo-Comit-Bastogi-elettrici), capace di portare il Sud fuori dal sottosviluppo, sarebbe invece stata l’alleanza tra gruppi industriali e finanziari in espansione e forze politiche riformatrici. Significativa in proposito anche l’evidenziazione dei nessi tra tale disegno di modernizzazione e la vicenda del “capitalismo organizzato” nella Germania di Weimar, per non dire del parallelo col New Deal americano45. Ma questo progetto di “via italiana” al capitalismo, che nella ricostruzione di Barone sembrava dotato di tutti gli elementi di congruità per potersi tradurre in atto, e che avrebbe dovuto legare il ‘caso’ italiano alle esperienze più avanzate del capitalismo europeo e mondiale, era in realtà destinato a concretizzarsi solo in minima parte, e con effetti assai lontani dall’auspicata modernizzazione del Mezzogiorno. La possibile alleanza riformismo-capitalismo illuminato s’infrange1 contro rincalzante squadrismo fascista; l’attacco dell’Opera nazionale combattenti all’assetto latifondistico dell’agricoltura meridionale fallisce già prima del 1922; il piano elettroirriguo supera indenne — è vero — la censura politica della marcia su Roma, rag-
42 G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione, cit., p. 121.43 Gli elementi di modernità presenti nel pensiero e nell’opera dello statista lucano sono comunque ben evidenziati anche nella ricca e documentatissima biografia di Francesco Barbagallo, Nitti, Torino, Utet, 1984. Partendo da questa opera si è svolto a Potenza, il 27 e 28 settembre 1984, un convegno su “Nitti: meridionalismo ed europeismo”, organizzato dalla Regione Basilicata. Cfr. G. D’Andrea, F.S. Nitti e il Mezzogiorno, in “Bollettino storico della Basilicata”, I (1985), pp. 155-159.44 G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione, cit., p. 83.45 G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione, cit., p. 85.
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giungendo anzi il suo momento più alto proprio nel primo periodo del fascismo, ma nella seconda metà degli anni venti s’impantana anch’esso nelle paludi del ruralismo e della colonizzazione di regime. Barone approda alla conclusione che quella della bonifica, contrariamente alle apparenze, non è la storia di un fallimento46. Ma di fronte agli esiti ricordati riesce difficile sfuggire ad una simile impressione. Ed è qui che il discorso, anziché chiudersi, si riapre, come notava Le- gnani a proposito del libro di Bevilacqua e Rossi Doria. Perché il disegno di ‘modernizzazione’ — un termine per la verità, nonostante la sua intrinseca ambiguità concettuale, sempre più adoperato nel linguaggio storiografico, non a caso ripreso dalla sociologia — non è riuscito a fare breccia nel Sud, lasciando tuttora aperta la ‘questione meridionale’? Perché ciò che si realizza negli Stati Uniti e parzialmente in Germania non trova sbocchi in questa parte d’Italia? Sono interrogativi che ancora una volta, per dirla con lo stesso Barone, ripropongono il problema del potere, l’intreccio dei rapporti centro-periferia, il ruolo delle forze politiche, l’articolarsi dei loro equilibri interni e il peso delle loro scelte: e a dare soddisfacenti risposte non è certo sufficiente chiamare in causa l’opposizione del ‘blocco agrario’.
Ma il campo d’osservazione della schiera di nuovi storici meridionalisti — non tutti e non sempre per la verità etichettabili sotto la formula della new social history — non è certo limitato al periodo fascista, né al solo Novecento. Grandi spaccati tematici e territoriali si aprono molto spesso quanto meno fino all’Unità, ma non solo neppure trascurabili gli innovativi studi sul Settecento (si
pensi a quelli di Paolo Macry) e sulla prima metà del secolo scorso (per esempio John Davis).
La serie “Le Regioni” della prestigiosa Storia d ’Italia einaudiana — ricominciata ad uscire a distanza di qualche anno dall’acceso dibattito seguito al primo volume (un apposito convegno si svolse a Roma nel febbraio del ’79)47, quello sul Piemonte del 1976, l’unico scritto ad una sola mano da Valerio Castronovo — rappresenta sicuramente il tentativo più riuscito di combinare la ricostruzione fatta di apporti interdisciplinari col privilegiamento dell’ambito regionale come dimensione ottimale per approdare a risultati di storia sociale. Il recente libro, di cui sono curatori Piero Bevilacqua e Augusto Pla- canica, sulla Calabria costituisce un modello da questo punto di vista48; anch’esso, come il primo, particolarmente sensibile al confronto con le scienze sociali. Sono loro i due consistenti saggi d’apertura in cui, con intelligenza e rigore, vengono ricostruite le lunghe permanenze e le trasformazioni molecolari che attraverso i secoli hanno finito col dar luogo ai ‘caratteri originali’ della regione. Fanno quindi seguito le ricerche monografiche di economisti, agronomi, sociologi, urbanisti ed altri giovani studiosi, che con le loro specifiche competenze contribuiscono a fornire un quadro organico e tuttavia assai sfaccettato dei molteplici mutamenti — economici, sociali, politici, territoriali — che hanno interessato, a partire dall’Unità, questa parte della penisola, definendone la fisionomia.
Ma il gruppo che ruota attorno alla casa editrice Einaudi — animatore principale Carmine Donzelli, collaboratore della stessa
46 G. Barone, La storia delle bonifiche in Italia, in “Studi storici”, XXVI (1985), 4, p. 965.47 Per un breve ma arguto resoconto cfr. Raffaele Romanelli, Il sogno delle regioni, in “Quaderni storici”, XIV (1979), 41, soprattutto pp. 778-781.48 Piero Bevilacqua e Augusto Placanica (a cura di), Calabria. Le regioni d ’Italia dall’Unità ad oggi, Torino, Einaudi, 1985.
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casa editrice — è protagonista di un’altra impresa che si va già profilando di considerevole rilievo nel panorama della storiografia meridionalistica: la fondazione dell’I- mes, l’Istituto meridionale di storia e scienze sociali, avvenuta nella primavera del 1986 a Catanzaro nell’intento, tra l’altro, di dar vita ad una rivista. L’iniziativa raccoglie gran parte delle migliori energie — dagli storici agli economisti, dai sociologi agli urbanisti, dagli antropologi ai geografi, dai politologi ai giuristi — che stanno rinnovando profondamente gli studi sul Mezzogiorno, in connessione col complessivo ripensamento dei criteri di lettura della società contemporanea. In una sorta di bozza programmatica (elaborata e discussa da G. Barone, P. Bevilacqua, S. Bruni, D. Cersosimo, S. Lupo, P. Pezzino, F. Piselli, A. Placanica, G. Sorie- ro, R. Teti e C. Donzelli, che ne è l’estensore materiale) sono state tracciate le coordinate dell’iniziativa. Partendo dalla “constatazione che esiste una sproporzione, uno scarto grave e crescente, tra l’immagine scientifica della realtà meridionale che va emergendo dai più avanzati ed innovativi segmenti di ricerca, e la percezione di quella realtà che si continua ad avere a livello di politica, di società, di senso comune”, e chiarito che non s’intende affatto riesumare la generica categoria di ‘impegno meridionalistico’, quanto piuttosto riflettere sul tema del “che fare storiografico e scientifico” , vi si afferma: “Il limite principale del meridionalismo è stato forse quello di concepire i problemi del Mezzogiorno come il frutto di tare storiche delle sue classi di governo, come risultato di una sorta di incapacità collettiva delle società meridionali ad esprimere gruppi dirigenti capaci di risolvere i problemi interni e/o di farsi valere verso l’esterno (quest’ultimo presupposto sempre come ‘cattivo’ e ‘colonizzatore’).
Ma il quadro complessivo dell’inserimento del Mezzogiorno all’interno di un più ampio e integrato sistema di relazioni mondiali
non è dipeso e non dipende se non in misura limitata dai comportamenti delle ‘forze locali’. La posizione d’ingresso nell’ambito di questo sistema dipende da un numero molto elevato di variabili storiche, che vanno analiticamente indagate. Il mutamento verso l’alto della posizione relativa all’interno del sistema può essere avvenuto, o può avvenire, anch’esso per il prodursi di numerosi fattori esterni o interni, ma è un processo molto lento e difficile, che si può realizzare solo per grandi accumuli molecolari di trasformazioni.
Il Mezzogiorno è entrato nella storia contemporanea, o se si vuole essere più precisi, nella storia del sistema mondiale capitalisti- co, come il segmento debole di un pezzo ‘medio’. Le categorie interpretative di volta in volta elaborate per dare ragione di questo, come di tanti altri disequilibri organici del sistema complessivo (‘sottosviluppo’, ‘dualismo’, ecc.), hanno avuto il torto di essere adoperate in modo eccessivamente schematico, per non dire manicheo: o si era ‘ricchi’ o ‘poveri’; o ‘sviluppati’ o ‘arretrati’; o ‘Nord’ o ‘Sud’. È evidente che è esistita una spinta forte (e tendenzialmente crescente) verso l’integrazione e l’omogeneizzazione del sistema. Ma è evidente anche che si è determinata e si ridisegna continuamente una complicata gerarchia dei vari segmenti, un insieme di correlazioni tra centri e periferie, dove chi sta peggio tende a spingere per migliorare la propria posizione, e chi sta meglio tende a resistere e a rafforzarsi ulteriormente. Meno evidente, o meno studiato, fino ad ora, è il carattere spazialmente complesso di questa dislocazione gerarchica, il fatto cioè che le relazioni spaziali fra centri e periferie raramente tendono a disporsi in modo lineare e univoco. Proprio il reticolo analitico di queste relazioni spaziali costituisce l’aspetto da indagare, tenendo presente che si tratta spesso di relazioni multipolari, in cui ciascun polo è dotato di differenti intensità d’attrazione.
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Applicato al caso meridionale, ciò vale sia per il Mezzogiorno nel suo complesso, per le relazioni che esso ha avuto ed ha con il resto del sistema, sia per i vari ‘mezzogiorni’, per quell’insieme variegato di funzioni e gerarchie interne che tendono anch’esse a disporsi in certe condizioni reciproche di dominio e di dipendenza” .
In tale ottica (che la lunga citazione dovrebbe servire a rendere sufficientemente chiara), il problema del Mezzogiorno non si pone più in termini di ‘arretratezza’ o di ‘ritardi’ (categorie tra l’altro considerate dotate di un’implicita carica valutativa e moralistica), quanto di analisi delle interdipendenze, dei sistemi di correlazione, delle integrazioni spaziali tra una molteplicità di ‘centri’ e ‘periferie’. Ponendosi il Sud all’interno del ‘sistema’, sia pure come segmento subalterno, si tratta di vedere come lo‘svilup- po’ vi si è realizzato: eterodirezione o autodirezione? Che tipo di modernizzazione? Quali gli agenti? Con quali intrecci tra centro e periferie? Tutte questioni sulle quali, all’interno dello stesso gruppo promotore, i pareri sono tutt’altro che concordi. Ma — è detto nel documento — su un punto c’è intesa: “La riflessione sulle ‘categorie teoriche’, sui concetti generali e le chiavi interpretative complessive non può e non deve volgersi in astratto, ma deve riguardare l’oggetto della ricerca, i metodi e gli strumenti adatti a condurre il lavoro analitico di ricognizione; deve cioè svolgersi ‘sul campo’”.
Entro questo orizzonte di problemi e con tali premesse — rispetto a cui la prevalente attenzione alle tendenze dinamiche (e, in
contrapposizione, alle forze di ‘resistenza’), come pure il privilegiamento di una “lettura del Mezzogiorno che veda le peculiarità della sua storia alle prese con la modernità” , non sono che logiche conseguenze — i temi da scandagliare in via prioritari non potevano che essere le ‘borghesie’ meridionali, le dinamiche di mercato, il ruolo dello Stato, la qualità ed incidenza dell’intervento pubblico, la ‘mediazione’ delle élites locali. Ed infatti il primo seminario che Fîmes ha organizzato a Catanzaro nell’aprile 1986 ha avuto per titolo “Mercato e borghesie” e si è occupato specificamente di “Spazi e circuiti dei mercati” (interventi introduttivi di Piero Bevilacqua, Sergio Bruni, Domenico Cerso- simo, Marcello Gorgoni e Biagio Salvemini) e di “borghesie, classi medie, nobiltà sociale” (interventi introduttivi di Raimondo Catanzaro, Carmine Donzelli, Paolo Macry, Paolo Pezzino).
Nel successivo seminario, tenutosi sempre a Catanzaro nel giugno 1986, l’argomento è stato invece “Quadri ambientali. Circuiti politici”, suddiviso a sua volta in “Il territorio e l’evoluzione dei quadri ambientali” (relazioni di Giuseppe Barone, Angelo Massafra, Augusto Placanica, Bernardo Rossi Do- ria) e “Le reti di relazione e i circuiti della politica” (introduzioni di Gabriella Gribau- di, Salvatore Lupo, Luigi Musella, Fortunata Piselli, Carlo Triglia). In attesa della pubblicazione dei materiali, già dai titoli e dai nomi dei relatori si può vedere quale sia lo spettro delle analisi e degli orientamenti verso cui si muovono in prevalenza gli studi sul Mezzogiorno.
Costantino Felice
Acqua contro carbone
Emigrazione e lavoro nelle bonifiche lazialidi Guido Crainz
Nel saggio che apre un volume di vari autori dal titolo La Merica in Piscinara1 Antonio Parisella osserva che ‘i ’emigrazione veneta in Agro romano e pontino è un tema di studio che si presta bene per verificare gli intrecci tra storia ‘nazionale’ e storia ‘locale’, tra storia e altre discipline sociali” , dal momento che esso impone di misurarsi sia con il maturare di decisioni politiche nazionali sia con il modo specifico in cui tali decisioni segnano gruppi sociali e familiari determinati (e con il modo in cui essi, di converso, interagiscono con tali decisioni). E impone quindi di dipanare, aggiunge Parisella, “il complesso intrecciarsi di problemi che di volta in volta toccano la politica e l’economia, la religione e gli usi quotidiani, il lavoro e le manifestazioni della cultura”.
È un giudizio certamente condivisibile e può essere esteso senza timori allo studio più generale delle campagne laziali e delle loro trasformazioni nel Novecento: lo conferma ad esempio un altro volume recente che analizza'le vicende del bracciantato ravennate a Ostia2. Esse hanno avvio, come è noto, da una decisione che matura all’interno dello stesso bracciantato ravennate, e a questi aspetti è dedicato il primo saggio, di Giuseppe Lattanzi (ma ancora stimolanti sono i
saggi di vari autori raccolti in un volume di vent’anni fa, opportunamente ristampato nel 1983 dalla Lega delle cooperative di Ravenna: Nullo Baldini nella storia della cooperazione).
In Pane e Lavoro i contributi più ricchi nella direzione prima indicata vengono indubbiamente dal saggio di Vito Lattanzi, che meglio esplicita i presupposti teorici della propria indagine. La questione dell’identità dei romagnoli in rapporto alla realtà preesistente del territorio laziale è assunta come nodo problematico e al tempo stesso “come ‘chiave’ per svelare i meccanismi del sistema sociale nato a Ostia con la bonifica e per interpretare le operazioni ideologiche (endogene ed esogene) di definizione e di (auto)rap- presentazione dei romagnoli” .
Va subito aggiunto che “identità” è qui intesa come identità culturale, prima e più che politica, ed al centro dell’indagine è posto prioritariamente un sistema di valori, un modo specifico di rapportarsi alla vita, al territorio, al lavoro. E vi sono, anche, gli elementi che hanno fatto della bonifica di Ostia una “storia esemplare”, gli aspetti che caratterizzano la costruzione di un immaginario, di un “mito sociale” .
Da questo punto di vista è significativa la lettura che Vito Lattanzi offre della famosa
1 La Merica in Piscinara, Abano Terme (Padova), Francisci, 1986, pp. 334.2 Giuseppe Lattanzi, Vito Lattanzi, Paolo Isaja, Pane e lavoro. Storia di una colonia cooperativa: i braccianti romagnoli e la bonifica di Ostia, Venezia, Marsilio, 1986, pp. 500.
“Italia contemporanea”, settembre 1987, n. 168
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lapide posta nel 1904 a ricordo dei bonifica- tori romagnoli e il cui testo fu dettato da Andrea Costa (“Pane e lavoro / gridando / e brandendo le lucide forti armi della fatica / uomini donne e fanciulli / esercito di pace / dai dolci colli di Romagna / qua trassero...”). In modo molto convincente Lattan- zi analizza il processo mitopoietico messo qui in atto, secondo uno schema che caratterizzerà anche le successive “(auto)-rappre- sentazioni epicizzate... deH’impresa di bonifica e della colonia agricola di Ostia” e che sottolinea il vittorioso opporsi dei romagnoli (dell’ “ente romagnolo”) alla naturalità ostile dei luoghi, all’incultura, alla desolazione del territorio (incultura e desolazione storicamente rafforzate da “ignavia di principi e prelati / ed inerzia colpevole di governi”, per citare ancora la lapide). La tesi qui sostenuta è dunque che l’evolversi di questo schema fondi le “coordinate simboliche di un cosmo culturale”, e più di una conferma viene indubbiamente dal “montaggio” di brani tratti da numerosissime testimonianze orali, curate e presentate da Paolo Isaja assieme a un prezioso repertorio iconografico.
Non è possibile soffermarsi su tutti i versanti del discorso svolto: particolarmente densa è, ad esempio, l’analisi che Vito Lat- tanzi fa dei momenti di socializzazione e di festa in cui la tradizione romagnola si manifesta prepotente e in cui la separazione dalla “tradizione cattolico-rurale” è indubbiamente forte. Va solo aggiunto di sfuggita che le fonti orali sono sottoposte a un rigoroso vaglio critico, ed è semmai da rimpiangere (in riferimento soprattutto al primo saggio, già citato) che uguale cautela non sia sempre utilizzata nei confronti del documento scritto. È piccolo rilievo, mentre indubbiamente altro merito nel libro è quello di
non perdere mai la dimensione della storicità e di cercare costantemente i nessi fra l’evoluzione del paese e la specificità di Ostia: da questo punto di vista più di uno spunto può venire dai materiali che rimandano al periodo fascista, altra riprova di quanto le indagini sul campo possano contribuire a superare cristallizzazioni e impasses del dibattito storiografico.
Al periodo fascista più direttamente e “perentoriamente” ci riconducono altri due testi. Il primo ha come titolo Fascio e aratro. La condizione contadina nel Lazio tra le due guerre3, è curato e introdotto da Carlo Vallami e raccoglie un’ampia messe di documenti presentata da brevi saggi di Annalisa Zanuttini, Elisa Bizzarri, Patrizia Luzzato, Maria Ida Gaeta. Sono considerate nell’ordine le condizioni di vita e di lavoro negli anni trenta, l’esperienza di Maccarese, la bonifica dell’Agro pontino e infine l’opposizione al fascismo che si sviluppa nelle campagne; il materiale documentario è tratto in larga parte dall’Archivio centrale dello Stato o desunto da diverse pubblicazioni.
Più decisamente sul terreno della ricerca e dell’esplicitazione di ipotesi complessive di lettura si collocano i saggi raccolti nel grà citato volume dal titolo La Merica in Pisci- nara, curato da Emilio Franzina e da Antonio Parisella. Esso considera più da vicino, come suggerisce il sottotitolo, “emigrazione, bonifica e colonizzazione veneta nell’Agro romano e pontino fra fascismo e postfascismo” e raccoglie sostanzialmente gli atti di un convegno tenutosi a Treviso nel 1984 per iniziativa dell’assessorato alla Cultura di quel Comune, con la collaborazione dell’Istituto romano per la storia d’Italia e del Centro veneto di ricerche sull’emigrazione.
Fascio e aratro. La condizione contadina nel Lazio tra le due guerre, Roma, Cadmo, 1985, pp. 286.3
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Alle già indicate ragioni di interesse del libro un’altra almeno ne va aggiunta, richiamando ancora il saggio introduttivo di Antonio Parisella: gli studi proposti tendono sì a recuperare la dinamica del “quotidiano”, a uscire da un “primato della politica” astrattamente inteso, ma questo spostamento dalla “dinamica delle istituzioni” alla “vita personale” non avviene — a differenza che in altri approcci attuali al fascismo, amplificati con forza dai media più influenti — a scapito dell’analisi puntuale degli aggregati sociali (“classi, ceti, gruppi, forme locali di vita associata”).
Per questa via è possibile misurarsi anche con i nodi più intricati, ed Emilio Franzina apre il suo stimolante contributo interrogandosi sulle ragioni di un “consenso” al regime che sembra essere maggiore proprio negli anni di crisi.
Il saggio di Franzina è troppo ricco per poter essere adeguatamente sintetizzato: in esso la rivisitazione del dibattito storiografi- co si intreccia a spezzoni di ricerca, a ipotesi interpretative, a puntuali riflessioni metodo- logiche. Non vi è dubbio, comunque, che la colonizzazione dell’Agro pontino non possa essere studiata se non considerando insieme “miti, memoria e realtà” di essa, ponendo in piena luce la “funzionalità simbolica” dell’operazione fascista e l’efficacia di essa: da questo punto di vista le diverse “testimonianze”, scritte e orali, qui riproposte e ri- percorse offrono più di uno stimolo, più di un supporto.
Anche qui (come, per altri versi, nel volume su Ostia) il Veneto è l’ispiratore dell’indagine e nel contempo il punto di partenza dei coloni: sono cioè esaminati in maniera privilegiata modelli, forme di cultura, relazioni sociali, stereotipi che hanno nel Veneto la loro origine e che si trovano ad interagire
con i messaggi del regime. E naturalmente nelle “osservazioni sparse sulla cultura popolare di contadini e immigrati durante il fascismo” vengono richiamati molteplici nodi interpretativi connessi alle “ricerche condotte sui livelli dell’acculturazione promossa dai ceti dirigenti terrieri e del mondo cattolico” , e vengono al tempo stesso indicati alcuni approcci possibili al canonico problema dei rapporti fra mondo cattolico e fascismo. Ai diversi livelli della comunicazione (o delle comunicazioni), della “costruzione di immagine”, è poi dedicato l’ultimo capitoletto del saggio, prima di un epilogo che di nuovo colloca la “particolare epopea del ‘Veneto- Pontino’” nella questione più generale del consenso, dell’“effettivo grado di coinvolgimento delle classi subalterne e del popolo italiano nel fascismo”, sottolineando l’importanza di analizzare “le interazioni del loro immaginario collettivo che non fu solo quello popolare allo stato ‘puro’ ma anche quello che scaturiva da un piano di propaganda più sottile e articolato di quanto normalmente si pensi” .
Frutto di una ricerca specifica sull’Agro pontino dal fascismo agli anni settanta poi il saggio di Oscar Gaspari, che riprende e sviluppa qui i temi da lui stesso affrontati ne L ’emigrazione veneta nell’Agro pontino durante il periodo fascista4. Il volume, che utilizza sia fonti scritte sia fonti orali, dà un notevole contributo alla conoscenza più precisa delle caratteristiche dell’emigrazione veneta, dei prezzi sociali e umani pagati, del definirsi di quei tesi rapporti fra i coloni e le popolazioni locali che hanno lasciato un segno profondo nella storia di questa zona. Viene ancor meglio alla luce, per questa via, quella diffusa “lotta di difesa” dei coloni nei confronti dell’Opera nazionale combattenti che già era stata sottolineata da Riccardo
4 Oscar Gaspari, L ’emigrazione veneta nell’Agro pontino durante it periodo fascista, Brescia, Morcelliana, 1985, pp. 192.
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Mariani, Fascismo e “città nuove”,5 e che assume spesso le caratteristiche di un’ “arte dell’arrangiarsi” intessuta di quotidiane illegalità. Opportunamente però Gaspari — correggendo in questo la lettura di Mariani — mette al tempo stesso in luce i limiti che segnano gli atteggiamenti contadini: più esattamente, rileva il coesistere di una tensione aspra nei confronti dell’Onc e di una mitizzazione favolistica, invece, della figura di Mussolini (di un “Mussolini amico dei coloni” di cui troviamo traccia anche nelle testimonianze raccolte a Ostia e proposte dal già citato Pane e Lavoro).
Su questo terreno, la propaganda del regime sembra fungere da “amplificatore esterno” nei confronti di un tratto della mentalità contadina che ha radici antiche: la convinzione che le disgrazie e le umiliazioni dei poveri non siano colpa del re (in questo caso del duce) ma dei funzionari rapaci e corrotti che agiscono a sua insaputa. Interessanti sono anche (ne La Merica in Piscinara) alcuni spunti che vengono dal prolungamento dell’indagine alla fase del secondo dopoguerra: si pensi al modo in cui viene analizzato il nuovo riaccendersi delle tensioni fra i coloni e i braccianti dei Monti Lepini nel quadro politico del dopoguerra, e anche ad alcune indicazioni (ancora iniziali e frammentarie) relative all’azione della Cassa del Mezzogiorno, all’insediamento di decine di stabili- menti industriali e ai suoi riflessi sul terreno sociale.
Degli altri saggi raccolti nel volume, occorre almeno citare i contributi di Michelangelo Mari e Antonietta Cerocchi che, a partire da indagini svolte sul terreno etnomusi-
cologico, tentano di delineare elementi di permanenza della cultura tradizionale e caratteristiche dell’identità collettiva dei coloni riconoscibili in due borghi specifici dell’Agro (Borgo Pogdora e Borgo Grappa). Il saggio di Alfredo Martini, infine, ci conduce a un altro tipo di emigrazione veneta nelle campagne laziali, quella che ha come sbocco — sempre nel periodo fascista — l’azienda di Maccarese, nell’Agro romano. E ad altri aspetti ancora, più nettamente diversificati, rimanda un libro dello stesso Martini con il quale concludiamo questa rassegna, I contadini, la terra e il potere,6
Il sottotitolo avverte che sono qui considerate “economia, politica e cultura nelle campagne laziali tra Ottocento e Novecento” , ma i tre capitoli del libro riguardano principalmente l’area a sud di Roma, in particolare la provincia di Frosinone. Al di là dei molteplici apporti di conoscenza che questo testo fornisce, una pista di ricerca almeno va segnalata: quella che tende a porre in luce la sovrapposizione e l’intreccio di forme tradizionali di protesta e di nuove forme di organizzazione e di protagonismo contadino. Bastano per la verità pochi tratti, pochi sintetici riferimenti per far cadere una schematica cesura fra i due momenti e per ipotizzare invece una “lunga transizione” in cui vecchio e nuovo tendono in qualche modo a sovrapporsi, a entrare in reciproco rapporto. E nella quale il riemergere della “protesta” , delle forme più antiche di resistenza e di protagonismo contadino sono, come osserva Martini, la spia, il segnale costante di un’ “estraneità” più complessiva.
Guido Crainz
5 Riccardo Mariani, Fascismo e “città nuove", Milano, Feltrinelli, 1976.6 Alfredo Martini, I contadini, la terra e il potere, Roma, Bulzoni, 1985, pp. 100.
Tempo e societàdi Paola Pirzio
Nell’attuale e talora estremamente varia produzione libraria sempre più spesso si notano titoli che propongono riflessioni su categorie storico-critiche considerate, ad un esame superficiale, appartenenti ad un linguaggio ormai consolidato o evocatrici di reminiscenze filosofiche liceali. I volumi sul “moderno” possono oggi costituire oggetto di ampie ricerche critiche1. Non si può certamente mettere tra parentesi la nuova e stimolante apertura tematica che propongono. Come il Saggio sul tempo2 di Norbert Elias, si muovono in un’area multidisciplinare tra storia-sociologia-filosofia aprendo itinerari di ricerca svincolati da stretti ambiti disciplinari per proporre percorsi storici non già di eventi, ma di concetti il cui impiego è continuo non solo nel linguaggio quotidiano ma nella produzione storiografica, dal manuale per studenti alla saggistica più raffinata. In particolare alcuni di questi studi si caratterizzano per la presenza di una dimensione storico-sociale in categorie interpretative in cui era prevalsa una definizione in termini teorici.
Il Saggio sul tempo raccoglie una serie di scritti risalenti al periodo 1974-1984, alcuni già pubblicati sulla rivista tedesca “Merkur” nel 1982. Elias3 considera il tempo come un momento interno al processo di civilizzazione4, una complessa dinamica data dai rapporti sociali e dalle modificazioni di comportamento che la vita associata impone agli uomini nel corso della storia. Il processo di civilizzazione secondo Elias, comprende sia il divenire della società sia, di riflesso, le modificazioni della struttura mentale individuale. Si potrebbe elaborare una psicologia storica, ossia una disciplina atta a spiegare la struttura psichica nel suo divenire collegandola ai rapporti tra gli uomini e al trasformarsi del tessuto e dell’organizzazione della società. Dice anche Elias: “ ...è necessario procedere ad una ricerca psicogenetica, finalizzata a cogliere l’intero campo dei conflitti e dell’attività delle energie psichiche individuali, la struttura e la conformazione dell’autocontrollo pulsionale, così come quello del cosciente”5. Nel corso del processo di civilizzazione il singolo è portato a tra-
1 Tra gli interventi più interessanti ricordo: Antonio Villani, Le chiavi del “postmoderno”: un dialogo a distanza, in “Il Mulino”, 1986, n. 303; Sulla modernità, in “Problemi del socialismo” , 1986, n. 5; Paolo Rossi, “Idola” della modernità, “Rivista di filosofia”, 1986, n. 3.2 Norbert Elias, Saggio sul tempo, Bologna, Il Mulino, 1986.3 N. Elias ha studiato medicina, filosofia e psicologia seguendo i corsi di Heinrich Rickert, Edmund Husserl, Karl Jaspers; laureatosi con Alfred Weber, ha insegnato a Francoforte presso il Dipartimento di Sociologia chiamato da Karl Mannheim; dopo l’espatrio in Francia e Inghilterra per ragioni razziali, ora vive ad Amsterdam.4 N. Elias approfondisce il tema in Potere e civiltà. Il processo di civilizzazione, Bologna, Il Mulino, 1983.5 N. Elias, Potere e civiltà, cit., p. 372.
Italia contemporanea”, settembre 1987, n. 168
1 3 8 Paola Pirzio
sformare la sua economia mentale nella direzione di una continua regolazione della sua vita e del suo comportamento, non più influenzato da una costrizione esteriore, ma mosso da un processo di autocontrollo. Diventa così possibile individuare una sorta di parallelismo tra la stabilità delle funzioni di autoregolazione nel comportamento e la formazione delle istituzioni centrali6 che comportano un infittirsi dei rapporti di dipendenza e delle catene di relazioni interpersonali. Di conseguenza prevale la tendenza a controllare le proprie attività spontanee e l’affettività muovendo dalla consapevolezza che l’esistenza sociale verrebbe compromessa da un affermarsi incondizionato della vita istintiva.
Le relazioni tra i noti termini freudiani Io, Super-Io, e Es mutano nel corso del processo di civilizzazione in conformità alla trasformazione dei rapporti sociali7. Le considerazioni di Elias tendono a introdurre una dimensione temporale anche nella formazione delle angosce, considerate tradizionalmente in un singolo individuo: “l’intensità, la forma e la struttura delle angosce che covano o esplodono nell’individuo non dipendono mai solo dalla sua natura umana, soprattutto nelle società più differenziate, non dipendono mai dalla natura in seno alla quale egli vive; in ultima analisi, sono sempre determinate dalla storia e dalla struttura effettiva dei suoi rapporti con i suoi simili, dalla struttura della sua società, trasformandosi con essa”8.
Nel Saggio sul tempo prosegue l’analisi della struttura mentale iniziata in Potere e civiltà, soprattutto spostando la sua attenzione sul versante della formazione della conoscenza. Secondo Elias il tempo sociale e il
tempo fisico vengono considerati spesso distinti. Nel corso delle loro ricerche sulla natura gli uomini si sono abituati a prenderne le distanze per meglio analizzarla: in seguito, nella loro immaginazione, questo processo mentale si è trasformato in una distanza realmente esistente tra il soggetto e il mondo degli oggetti. In tal modo il tempo fisico è apparso un aspetto della natura, una sorta di archetipo del tempo in generale, mentre il tempo sociale venne declassato a prodotto: la natura di conseguenza venne vista come più reale del mondo sociale. Si verificò una sorta di capovolgimento dei rapporti causa- effetto e il tempo delle scienze naturali apparve più solidamente strutturato di quello vissuto in quanto misurabile e quantificabile. Ne è derivata una contrapposizione tra natura e società del tutto fittizia, come dice Elias: “la ‘società’ e la ‘natura’ non sono realmente separate tra loro sul piano esistenziale nei termini che ci fa credere il nostro odierno modo di pensare e di parlare. Separate le une dalle altre sono piuttosto le scienze che hanno per oggetto di ricerca ‘natura’ e ‘società’”9.
Elias conduce una serrata critica al modo tutto filosofico di intendere il tempo come categoria a priori, riconducibile ad una modalità limitata di esperienza, vista solo in relazione all’arco di vita di un singolo e non come un’entità strutturatasi nel corso della storia dell’umanità. Ma più che le critiche che rivolge alla teoria cartesiana e kantiana, critiche decisamente riconducibili a motivi empiristici, è interessante la definizione di tempo come funzione di “coordinamento e di integrazione”10. Anche se ancora oggi nel linguaggio comune ci si riferisce al tempo come ad una realtà, esso è più assimilabile
6 N. Elias fa riferimento ai “monopoli della costrizione fisica e del fisco” in Potere e civiltà, cit., p. 306.7 N. Elias, Potere e civiltà, cit. p. 316.8 N. Elias, Potere e civiltà, cit. p. 422.9 N. Elias, Saggio sul tempo, cit. p. 106.10 N. Elias, Saggio sul tempo, cit. p. 67.
Tempo e società 139
ad una relazione che un gruppo di uomini istituisce tra due o più serie di eventi, di cui una viene assunta come quadro di riferimento dell’altra11. Solo ad uno stadio abbastanza tardo dello sviluppo delle società umane si è formata la capacita di elaborare un continuum temporale in cui inserire anche la serie di eventi della vita individuale. La dimensione temporale è soprattutto presente negli stati industriali, ove si configura sia come mezzo di orientamento e di regolazione del comportamento sia come costrizione esteriore. Il punto di arrivo, come afferma Elias, si configura come “una teoria sociologica del sapere e della conoscenzasociologica: infatti il soggetto della conoscenza non è più qui il singolo, ma lo scorrere generazionale dei molti, o se si preferisce, lo scorrere del genere umano nel suo sviluppo”12.
Ma se le considerazioni di Elias sul piano teorico aprono importanti prospettive di analisi, la definizione di categorie interpretative legate alla specificità di un’epoca appare appena accennata. Una interpretazione più articolata e soprattutto comprensiva della dimensione assunta dalla nozione di tempo da Aristotele ad Einstein e del suo carattere polisemico viene proposta da Krzysztof Po- mian nella voce Tempo-temporalità àe\YEnciclopedia Einaudi13.
Il tempo è visto come una struttura stratificata prodotta dalla storia e che “corrisponde grosso modo a quella dell’architettura temporale della civiltà industriale”14 i cui strati provengono da epoche diverse. Relativo ad una prospettiva individuale e legato a
stati affettivi, è il tempo psicologico; all’individualità del tempo psicologico si affianca poi il carattere collettivo del tempo solare (uguale per tutti gli abitanti di un territorio), del tempo religioso (che stabilisce i periodi del sacro), e del tempo politico che fissa l’inizio dell’anno civile, valido per tutti i cittadini di uno Stato. Ma il tempo che scandisce la vita di tutti è il tempo quantitativo della vita collettiva, proprio della civiltà industriale, ove ogni aspetto dell’esistenza viene ritmato da strumenti di precisione15. La disciplina del lavoro delle industrie ha contribuito a introdurre la dimensione quantitativa nella vita e nei meccanismi psichici degli individui: regolamenti, multe e orari di ogni specie hanno trasferito con brutalità contadini e artigiani dal “mondo del pressapoco all’universo della precisione” nella scansione della giornata16. Il conflitto tra tempo qualitativo (psicologico, solare, religioso e politico) e tempo quantitativo non appartiene solo al passato. Anche se la dimensione quantitativa ha prevalso da oltre un secolo, la resistenza che le si oppone si riproduce nella vita quotidiana ogni volta che si trovi ad adattare i propri ritmi di vita individuali e collettivi alle velocità uniformi delle macchine.
Sia gli studi di Elias e di Pomian sul tempo17 che i saggi su “moderno” e “post-moderno” propongono una apertura delle barriere disciplinari tra storia-filosofia-sociologia che sembra utile ad un superamento sia di una storia descrittiva sia di una disamina astratta su categorie storiografiche.
In questa direzione Reinhart Koselleck nel saggio Storia dei concetti e storia sociale
11 N. Elias, Saggio sul tempo, cit. p. 61.12 N. Elias, Saggio sul tempo, cit. p. 38.13 Krzystof Pomian, Tempo-temporalità, Enciclopedia, voi. 14, Torino, Einaudi, 1981, pp. 24-102.14 K. Pomian, Tempo-temporalità, cit. p. 82.15 Cfr. anche Jacques Le Goff, Tempo delia Chiesa e tempo del mercante, Torino, Einaudi, 1977.16 L’espressione è di Alexandre Koyré, Dal mondo del pressapoco all’universo della precisione, Torino, Einaudi, 1967, pp. 102-108.17 Vedi anche il volume recentemente pubblicato a cura di Umberto Curi, Le dimensioni del tempo, Milano, Angeli, 1987.
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pubblicato nel volume Futuro passato18 — libro molto problematico che richiede anche una considerazione a sè stante — analizza i problemi e le modalità di un collegamento tra storia dei concetti e storia della società, più complesso di “un semplice rapporto di riconducibilità di una disciplina ad un’altra” . Sostiene Koselleck, “senza concetti comuni non c’è società, soprattutto non c’è unità di azione politica”19. La relazione tra i due campi di indagine va approfondita tenendo conto della dimensione storica e teoretica dei concetti per pervenire così ad una maggiore comprensione dei termini della storia socio-politica. Vengono prese in esame soprattutto le categorie concettuali dotate di una portata semantica maggiore di quella delle “semplici parole generalmente usate nella sfera politico-sociale”20. Ad esempio il termine tedesco Bürger non può essere inteso nel suo significato preciso se non viene visto nel suo divenire storico-concettuale, dallo Stadt-Bùrger, ossia dall’“abitante” della città del 1700, allo Staats- Biirger ossia al ‘cittadino dello Stato’ del 1800, sino al Bürger ‘borghese’ non proletario del 1900. Stadt-Bürger era un concetto ‘cetuale’, in cui confluivano determinazioni giuridiche, politiche, economiche e sociali; verso la fine del diciottesimo secolo venne definito sulla base della non appartenenza allo ‘stato’ dei contadini e della nobiltà e divenne lo Staats-Bürger che nel 1848 acquistò diritti politici definiti, divenendo così cittadino dello Stato. Nella seconda metà del
l’Ottocento in una società liberale in cui vigeva l’uguaglianza giuridica, divenne possibile una definizione puramente economica del Bürger, del borghese.
L’affermarsi secondo Koselleck di una storia dei concetti come disciplina specifica ha influenzato la stessa impostazione di alcuni problemi di storia sociale. Dapprima ha assunto i caratteri di una critica all’applicazione ad eventi del passato di categorie appartenenti all’attualità, per pervenire successivamente ad una analisi critica della storia delle idee considerate spesso come entità costanti nel loro nucleo essenziale, anche se adattabili a situazioni diverse. Il procedimento di analisi proprio e della storia dei concetti e della storia sociale, prende le mosse da un accertamento diacronico dei contenuti concettuali per approdare ad una definizione del significato attuale che il concetto assume nella nostra visione del mondo. In questa fase i termini vengono isolati dal loro contesto, legato ad una situazione specifica e il loro spessore semantico viene ricostruito sulla base della successione diacronica.
Elias, Pomian e Koselleck hanno indicato e in parte percorso alcune tappe di una riflessione in gran parte appena iniziata e che potrà svolgersi anche tenendo conto delle proposte di problematiche e delle indicazioni di metodo presenti in questi testi così complessi, come Futuro passato.
Paola Pirzio
18 Reinhart Koselleck, Futuro passato, Genova, Marietti, 1986.19 R. Koselleck, Futuro passato, cit., p. 92; il saggio Storia dei concetti e storia sociale è stato scritto in relazione al lavoro compiuto in collaborazione con Otto Brunner e Werner Conze per la redazione del lessico Geschichtliche Grundbergriffe (Concetti storici fondamentali), Stuttgart, 1972.20 R. Koselleck, Futuro passato, cit.