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Note e discussioni Le donne nella seconda guerra mondiale I lavori pubblicati in questo fascicolo fanno parte di un più folto gruppo di comunicazioni sul te- ma “donne e guerra”, presentate nel novembre del 1992 al seminario “Ricerche sulla seconda guerra mondiale”, (terza sessione del Seminario permanente del Novecento) organizzato dall’In- silili e dall’Istituto storico per la storia della Resistenza e della storia contemporanea in provincia di Vercelli (cfr. Gianni Sciola, Il Novecento degli Istituti. L ’Italia nella seconda guerra mondiale, “Italia contemporanea”, 1993, n. 190). Il seminario rappresentò per gli Istituti storici della Resi- stenza un momento di confronto e di discussione sui temi che erano più presenti alla loro atten- zione, come la guerra nelle città, la rappresentazione del conflitto nella propaganda fascista, il rapporto fra donne e guerra. Quest’ultimo argomento, introdotto dalle relazioni di Penny Sum- merfield e di Anna Bravo che qui si leggono, fu sviluppato da un gruppo di studiose di vari Isti- tuti, che avevano avviato una comune esperienza di lavoro sul tema. Essa era iniziata alla fine de- gli anni Ottanta, dapprima con l’attenzione e la partecipazione alle varie iniziative promosse a Torino dalla ricerca “Donne guerra memoria”, che in Italia aveva introdotto una prospettiva di genere nella storia della guerra (cfr. Anna Bravo, Donne e seconda guerra mondiale: esperienza, racconto, “Mezzosecolo”, 1989, n. 8), era cresciuta successivamente con la costituzione di un “se- minario itinerante” che mirava a confrontare periodicamente ipotesi di ricerca e metodi di lavoro: vi furono incontri a Torino e a Parma nel 1991, a Napoli, Ancona e Bologna nel 1992. Sollecitavano l’attenzione del gruppo questioni di contenuto e di metodo. Si voleva innanzi tut- to capire cosa avesse rappresentato la seconda guerra mondiale per le donne italiane: ciò signifi- cava supplire al silenzio della storiografia e della stessa memoria femminile — appena sfiorato dagli studi e testimonianze sulla Resistenza — stimolando ima produzione, sia pure assai tardiva, di fonti di memoria e analizzando le disperse fonti scritte, coeve e posteriori. Inoltre, quello stesso silenzio si poneva come un problema, da esaminare riflettendo anche su quella “complicità con- flittuale” di oblio e memoria di cui ha parlato Remo Bodei. Proprio al silenzio delle donne sulla loro guerra fu dedicato il seminario “Raccontare, raccontarsi: parole, memoria, silenzi delle don- ne”, promosso a Torino dall’Istituto storico della Resistenza in Piemonte (23 ottobre 1991). L’al- tro ordine di questioni riguardava l’uso delle nuove fonti e gli strumenti specifici con cui queste dovevano essere utilizzate. Nei lavori delle studiose italiane la ricerca si è rivolta alla soggettività delle donne, differenziandosi fortemente dagli studi condotti altrove, in particolare nei paesi an- glosassoni, i più impegnati sul tema. L’intervento di Penny Summerfield, che ha dato di questi un bilancio complessivo, ha eviden- ziato le specificità e le differenze, suscitando un confronto assai stimolante. I lavori di Summer- “Italia contemporanea”, giugno 1994, n. 195

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N o te e discussioni

Le donne nella seconda guerra mondiale

I lavori pubblicati in questo fascicolo fanno parte di un più folto gruppo di comunicazioni sul te­ma “donne e guerra”, presentate nel novembre del 1992 al seminario “Ricerche sulla seconda guerra mondiale”, (terza sessione del Seminario permanente del Novecento) organizzato dall’In­silili e dall’Istituto storico per la storia della Resistenza e della storia contemporanea in provincia di Vercelli (cfr. Gianni Sciola, Il Novecento degli Istituti. L ’Italia nella seconda guerra mondiale, “Italia contemporanea”, 1993, n. 190). Il seminario rappresentò per gli Istituti storici della Resi­stenza un momento di confronto e di discussione sui temi che erano più presenti alla loro atten­zione, come la guerra nelle città, la rappresentazione del conflitto nella propaganda fascista, il rapporto fra donne e guerra. Quest’ultimo argomento, introdotto dalle relazioni di Penny Sum- merfield e di Anna Bravo che qui si leggono, fu sviluppato da un gruppo di studiose di vari Isti­tuti, che avevano avviato una comune esperienza di lavoro sul tema. Essa era iniziata alla fine de­gli anni Ottanta, dapprima con l’attenzione e la partecipazione alle varie iniziative promosse a Torino dalla ricerca “Donne guerra memoria”, che in Italia aveva introdotto una prospettiva di genere nella storia della guerra (cfr. Anna Bravo, Donne e seconda guerra mondiale: esperienza, racconto, “Mezzosecolo”, 1989, n. 8), era cresciuta successivamente con la costituzione di un “se­minario itinerante” che mirava a confrontare periodicamente ipotesi di ricerca e metodi di lavoro: vi furono incontri a Torino e a Parma nel 1991, a Napoli, Ancona e Bologna nel 1992.

Sollecitavano l’attenzione del gruppo questioni di contenuto e di metodo. Si voleva innanzi tut­to capire cosa avesse rappresentato la seconda guerra mondiale per le donne italiane: ciò signifi­cava supplire al silenzio della storiografia e della stessa memoria femminile — appena sfiorato dagli studi e testimonianze sulla Resistenza — stimolando ima produzione, sia pure assai tardiva, di fonti di memoria e analizzando le disperse fonti scritte, coeve e posteriori. Inoltre, quello stesso silenzio si poneva come un problema, da esaminare riflettendo anche su quella “complicità con­flittuale” di oblio e memoria di cui ha parlato Remo Bodei. Proprio al silenzio delle donne sulla loro guerra fu dedicato il seminario “Raccontare, raccontarsi: parole, memoria, silenzi delle don­ne”, promosso a Torino dall’Istituto storico della Resistenza in Piemonte (23 ottobre 1991). L’al­tro ordine di questioni riguardava l’uso delle nuove fonti e gli strumenti specifici con cui queste dovevano essere utilizzate. Nei lavori delle studiose italiane la ricerca si è rivolta alla soggettività delle donne, differenziandosi fortemente dagli studi condotti altrove, in particolare nei paesi an­glosassoni, i più impegnati sul tema.

L’intervento di Penny Summerfield, che ha dato di questi un bilancio complessivo, ha eviden­ziato le specificità e le differenze, suscitando un confronto assai stimolante. I lavori di Summer-

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field sono infatti l’espressione matura di una ricerca sulla condizione femminile nelle guerre, che nei paesi anglosassoni ha quasi un secolo di tradizione: il ruolo delle donne nella guerra civile americana era stato subito oggetto di attenzione (ricordo Woman’s work in the Civil War di Li­nus Pierpont Brockett, 1867), mentre la loro mobilitazione nella prima e nella seconda guerra mondiale fu sostenuta, indirizzata, osservata nel corso delle guerre stesse con inchieste e rapporti che indirizzarono la politica governativa di intervento sociale e fornirono la base documentaria di successivi studi sociologici e storici. Fonti quali il Central Office o f Information e il servizio di Mass Observation — che operò in Inghilterra a partire dal 1937, raccogliendo materiali di vario genere, come lettere, diari, rapporti — si rivelano tuttora miniere preziose per la ricerca (cfr. P. Summerfield, Mass-Observation on Women at Work in the Second World War, “Feminist Pra­xis”, 1992, n. 37-38). Incrociandosi col filone altrettanto ricco degli studi sul lavoro femminile, gli studiosi si sono dunque orientati verso la valutazione dei mutamenti sociali prodotti dal conflitto, in particolare dal massiccio impatto delle donne con la produzione bellica, ponendo la questione se la guerra abbia o no avuto per loro effetti di modernizzazione.

La novità della posizione di Summerfield è di rilevare la parzialità delle risposte affermative o negative, spesso viziate dai paradigmi degli studiosi su ciò che è “progressivo” per le donne, di storicizzare l’ideologia degli stessi servizi che stimolarono la produzione di quelle fonti e ne dette­ro le prime stime, e soprattutto di rivolgere ai documenti domande che non erano ancora state poste, riguardanti le aspettative, i desideri reali, le esperienze personali.

Ne risulta un quadro molto più articolato, in cui la categoria “donne” non viene accorpata in un unicum indistinto, ma viene disarticolata per differenze di età, stato civile, condizione sociale, razza. Tenendo conto di tali variabili, Summerfield vede nella seconda guerra mondiale una fase cruciale per il mutamento, se non dei ruoli, dei costumi e della mentalità. Le fonti personali ven­gono così cohiugate con quelle statistiche e quantitative, concorrendo all’indagine storica e socio­logica.

Assai diversi i presupposti della ricerca in Italia, dove i dati ufficiali o prodotti dalle stesse don­ne sono molto più carenti per la seconda guerra mondiale che per la prima, in cui il ruolo femmi­nile fu subito documentato e esaltato ai fini della lotta per il suffragio: nel secondo dopoguerra persino il voto, decretato dal governo Bonomi mentre il Nord della penisola era ancora sotto l’occupazione tedesca, “cadde addosso” alla maggioranza delle donne, anche quelle che combat­tevano nella Resistenza, come una concessione. Alla rarità delle fonti, cui non ha supplito l’atten­zione della storiografia, corrisponde il silenzio delle donne stesse: si è verificato per loro la stessa rimozione soggettiva e collettiva che segregò la memoria dei reduci dalla prigionia e dalla depor­tazione, secondo un’assimilazione tanto convincente quanto suggestiva che Anna Bravo sta svi­luppando sulla base delle sue ricerche su entrambi i terreni (il tema, anticipato al convegno “Shoah e deportazione nella didattica della storia” nell’aprile del 1993, è stato sviluppato in A. Bravo, Daniele Jalla (a cura di), Una njisura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia, Milano, Angeli, 1994). Il silenzio è stato rotto solo in anni recenti, e per sollecitazione della storia orale, del femminismo, dei media. I dati rilevabili da queste fonti sono utili evidente­mente non ad accertare la condizione delle donne nella guerra, ma la loro percezione di quella e di se stesse. Nel valutarli, occorre tener conto della segregazione culturale operata dal fascismo, come del fatto che essi restituiscono la memoria di un paese diviso, occupato in ogni sua parte, percorso dalla guerra civile. Il peso del non detto (per esempio sulle violenze sessuali) come del persistente rifiuto di parlare (nel caso delle donne fasciste), deve essere adeguatamente considera-

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to. L’analisi di tali fonti parrebbe negare l’effetto in qualche modo modernizzante della guerra suggerito da Summefield, evidenziando la preponderanza di aspetti conservatori-regressivi: la me­moria interrogata restituisce un’esperienza per lo più offesa, incentrata su un ruolo di protezione che ha il suo momento più esaltante nel maternage di massa esercitato l’8 settembre 1943 da don­ne sposate o no verso i soldati sbandati e i prigionieri fuggiti dai campi.

L’articolo di Bravo che qui si pubblica ritorna su questa ipotesi interpretativa già esposta nel suo contributo al volume Donne e uomini nelle guerre mondiali, (Roma-Bari, Laterza, 1991) e cerca di verificarla attraverso la riemergenza di tali comportamenti nelle guerre contemporanee. In tal modo questi appaiono una costante legata al riproporsi di condizioni strutturali portate dai conflitti, quali il moltiplicarsi di relazioni disuguali, la creazione di minorità nuove, che ribadisco­no la tradizionale disparità delle donne, portandole a rifugiarsi in quel ruolo materno, naturale o simbolico, che costituisce tradizionalmente la loro forza. La scelta di questa chiave di lettura non esclude per Bravo che la guerra abbia prodotto dei mutamenti di mentalità e di costume: ma il si­lenzio al loro riguardo la induce a ritenere che essi siano avvenuti a un “livello molecolare” che non produce trasformazioni sensibili, comportamenti e valori nuovi, riconosciuti e condivisi. La pubblicazione, ormai prossima, dei risultati complessivi della ricerca “Donne, guerra, memoria” coordinata da lei e da Anna Maria Bruzzone, fornirà l’ampia casistica su cui si fondano queste ipotesi.

Altre fonti, sondate dalle studiose del “seminario itinerante” non si discostano molto da queste conclusioni. I contributi al seminario di Vercelli — alcuni dei quali già pubblicati altrove — si so­no orientati in tre direzioni: l’analisi dei meccanismi della memoria, esaminati da Rosella Prezzo sulla base dell’ingente documentazione giunta nel 1991 alla Rai, in risposta all’inchiesta televisiva “La mia guerra” (R. Prezzo, La seconda guerra mondiale sul filo della memoria. Memoria e sog­gettività rammemorante. Il fondo “La mia guerra”, “L’impegno”, 1993, n. 1); lo studio di scrit­ture personali coeve e posteriori alla guerra (Francesca Koch, Simona Lunadei, Laura Mariani, Ersilia Alessandrone Perona); l’incrocio di fonti orali e scritte, utilizzato per due casi significativa­mente diversi, quelli di Ancona e di Napoli, nei due articoli di Maria Grazia Caminetti e di Laura Capobianco e Cesira D’Agostino qui pubblicati.

Nelle lettere, nei racconti, nei diari inviati in gran parte da donne, Prezzo rileva il riemergere di ferite profonde, traumi rimossi, non elaborati come esperienze se non alla luce di un più tardo mutamento di senso prodotto dalle trasformazioni della coscienza individuale e collettiva. Attra­verso l’analisi delle sue fonti, come attraverso quella di diari e memorie depositati presso l’Archi­vio diaristico nazionale, e gli scritti di alcune intellettuali romane (cfr. F. Koch, Lo sfollamento nella memoria femminile. Proposte di lettura di alcuni testi dell’Archivio diaristico nazionale, “L’Impegno”, cit.; Id., Una tragedia muta, S. Lunadei, Sguardi di donne sulla guerra, “Armale 1992” dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza) si ricava che per le donne “comuni” la guerra ha tempi diversi dalla cronologia ufficiale, scanditi dalle vicende che hanno sconvolto la loro esistenza; essa è sofferenza, separazione, “perdita delle coordinate fisiche e mentali” (Koch): non a caso una delle esperienze più ricordate è quella dello sfollamento. E an­che quando la guerra stimola energie insospettate, nuove strategie di sopravvivenza, “ciò non comporta un salto nella modernizzazione da parte delle donne, né fa della guerra una ‘guerra femminile’” (Prezzo).

Diversi i toni, i contenuti della memoria delle donne che parteciparono alla Resistenza; ma an­che nel loro caso, analizzato da Laura Mariani, si coglie il senso di una delusione, che ha indotto

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alla scrittura come a un atto di pietas, uno svelamento di storie personali o collettive mai dette (cfr. L. Mariani, Guerra e Resistenza a Bologna, Memorie e scritture delle donne, in corso di stampa negli atti del convegno “Bologna in guerra”, a cura dell’Istituto storico della Resistenza in provincia di Bologna).

I contributi di Camilletti e di Capobianco-D’Agostino concordano con tali valutazioni. La loro lettura contestuale consente tuttavia anche di rilevare importanti differenze da luogo a luogo, confermando non solo che la percezione femminile della guerra ha una sua cronologia, ma anche che le modalità di tali percezioni variano da zona a zona, secondo una geografia che è ancora tut­ta da rilevare. Essa è determinata non solo dal dato ovvio dell’occupazione tedesca e americana che ha diviso il territorio nazionale, ma anche dall’incrocio delle vicende militari con le caratteri­stiche socioculturali delle varie regioni e con le subculture locali: di qui — per scegliere solo un esempio — l’ostilità alla guerra fascista ricordata dalle donne di Ancona, legate a un sostrato di cultura politica ancora vivo in una città con forte tradizione operaia, contro il ricordo sostanzial­mente positivo delle donne di Napoli, condizionate da una cultura patriarcale e gerarchica. Inol­tre, all’interno delle stesse zone, si rilevano sensibili differenze tra donne di città e contadine, ope­raie e borghesi; ed hanno un ruolo non trascurabile l’istruzione, l’età, lo stato civile, l’apparte­nenza a minoranze discriminate.

Le autrici non mancano di problematizzare l’uso delle loro fonti, soprattutto di quelle orali, mostrandosi consapevoli del complesso rapporto fra soggetto interrogante e soggetto interrogato. Si potrebbe desiderare, tuttavia, un uso più chiaramente differenziato di scritture e testimonianze orali, con più riguardo dei rispettivi statuti: il “patto” che presiede a ciascun tipo di fonte è speci­fico, e ciascuna di esse richiede strumenti di analisi suoi propri, “malgrado l’illusione della traspa­renza” che entrambe creano (cfr. D. Peschanski, Effets pervers, “Les cahiers de PLH.T.P.”, 1992, n. 21; J.P. Rioux, Individu, mémoire, histoire, in Croire la mémoire? Approches critique de la mémoire orale, Aosta, Musumeci, 1988). Rispetto alle scritture, in particolare, non si può prescindere dalle consapevolezze della critica testuale, che mentre mette in guardia dalla pretesa sincerità delle scritture personali, consente un recupero dei testi letterari all’autobiografia. Per orientarsi su questo terreno, occorre collocare chiaramente le scritture negli ambiti temporali e culturali in cui sono nate, per comprenderne intenzioni e destinazione, e decifrarne le intertestuali­tà più o meno consapevoli (a questo era dedicato l’intervento al seminario di Vercelli presentato da chi scrive, Sincronie e diacronie nelle scritture femminili sulla seconda guerra mondiale, ora in “Passato e presente”, 1993, n. 30). Poiché sappiamo di poter ricostruire, attraverso le fonti sog­gettive, soprattutto la percezione femminile della guerra, per di più mediata da molte variabili, ed espressa attraverso tutti i condizionamenti della dicibilità e della scrittura, appare importante che essa si sveli nelle sue stratificazioni, mettendo in chiaro in tal modo anche gli agenti delle successi­ve modificazioni.

Ersilia Alessandrone Perona

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Guerre e mutamenti nelle strutture di genere

Anna Bravo

Questo intervento parte da una ricerca su Donne e seconda guerra mondiale: esperien­za, memoria, condotta a Torino e in Pie­monte negli ultimi tre anni1. Anche se sono stati moltissimi gli spunti offerti dalla docu­mentazione d’archivio (di organizzazioni cattoliche, di ospedali, dell’Archivio di Sta­to, dell’Istituto storico della Resistenza, so­prattutto dell’ospedale psichiatrico di Colle­gno presso Torino), abbiamo puntato prio­ritariamente alla costituzione di un corpus di fonti narrative personali, raccogliendo circa 150 racconti biografici di donne per la mag­gior parte lontane da qualsiasi protagoni­smo sul piano politico o militare. La ricerca è ora nella fase conclusiva per quanto ri­guarda la raccolta di materiali, mentre il gruppo di lavoro sta ridiscutendo le ipotesi che hanno via via preso corpo in questi an­ni, in particolare sul rapporto fra guerra e “modernizzazione” nelle strutture di genere.

La lettura che ci è sembrato di poterne da­re, e che tende a sottolineare più gli aspetti conservativo-regressivi che quelli di innova­zione, è partita dal grande peso del registro materno nelle storie vissute e raccontate del­le nostre protagoniste. Non che si tratti di un aspetto esclusivo: altri versanti dell’iden­tità e altre modalità di relazione — in parti­colare con il maschile — sono presenti e for­ti2, spesso nelle medesime testimoni che as­

sumono con più energia narrativa la dimen­sione, reale e simbolica, del materno. Ma il primato di questa cifra dell’esperienza, al­meno a partire dall’otto settembre, ci è par­so netto3.

Certo questo primato va visto nel suo contesto storico: l’occupazione nazista, la guerra sul territorio, il crollo delle istituzio­ni, la crisi delle reti di relazione precedenti; e nel suo contesto narrativo: tradizioni di rac­conto, femminili e non, sulla donna forte e oblativa, un orizzonte di attesa oggi molto favorevole alla valorizzazione della materni­tà, il desiderio di trasmettere alle più giovani un messaggio vitale, o di rivendicare l’im­portanza dell’esperienza delle donne cosid­dette comuni, identificate quasi esclusiva- mente come madri. E naturalmente altro an­cora, trattandosi di un terreno di discussione ricchissimo.

Ma in queste pagine vorrei non tanto pre­sentare una analisi dei racconti, quanto pro­porre alcuni spunti di riflessione quali mi so­no stati suggeriti dalle tracce che in luoghi e tempi diversi parlano della crucialità e persi­stenza del materno. Se si guarda alle guerre che hanno segnato la “pace” degli ultimi 45 anni — almeno a quelle a noi più vicine dal punto di vista geografico e delle possibilità di informazione — mi sembra affiorare un dato significativo: da una parte nuove figure

1 La ricerca è stata promossa dal Consiglio regionale piemontese e si svolge nell’ambito dell’Istituto storico della Resistenza in Piemonte. Vi partecipano, oltre alle coordinatrici Anna Maria Bruzzone e Anna Bravo, Eleonora Bi- sotti, Anna Gasco e Grazia Giaretto.

E avvertibile in vari racconti la componente emancipativa sottolineata da Miriam Mafai, Pane nero, Milano, Mondadori, 1987.

Oltre che come modello/risorsa di comportamento (cfr. A. Bravo, Simboli del materno e Lucetta Scaraffia, De­vozioni di guerra, in A. Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma-Bari, Laterza, 1991), il re­gistro materno è presente, come rimpianto per una protezione di cui si sono sentite private, nelle donne costrette al­la marginalità, cfr. A.M . Bruzzone, Da Torino durante la guerra. Parole, memoria, silenzi delle donne, “Il Grande Vetro”, 1992, n. 110.

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femminili, le donne soldato israeliane, le combattenti dei movimenti di liberazione nel sud del mondo, le americane nella guerra del Golfo — oggetto, soprattutto queste ultime, di inquietudini largamente accolte dai me­dia4. Dall’altra, e penso in particolare ai paesi del Medio Oriente, una enfasi ininter­rotta sulla maternità come valore e come servizio principale che le donne devono ren­dere allo Stato e alla nazione.

Un’importante raccolta di testimonianze di donne palestinesi, israeliane, siriane, egi­ziane, conferma quanto sia difficile sottrarsi all’immagine della madre del martire, della donna “virtuosa” che offre i suoi cari alla patria, e li vive come protagonisti di una scelta eroica5.

Fra tutte le intervistate solo una vede nel marito una vittima del militarismo, un mor­to senza averlo voluto, e in questi termini ne parla ai figli; è anche la sola che, a dispetto delle pressioni sociali, rifiuta di viversi come eterna vedova di guerra. Per le altre, la ri­sorsa principale per dare senso alla sofferen­za è la figura della madre sacrificale. Anche molti resoconti dai territori occupati lo sug­geriscono, parlando dei piccoli altari casa­linghi con cui le donne ricordano i loro mor­ti; e in un recente seminario sul rapporto fra guerra, militarismo, genere e nazione6, una giovane dirigente palestinese rivendicava il ruolo protettivo-materno delle donne nei confronti dei militanti dell’Intifada7. Da­vanti a realtà come queste, sarebbe evidente­mente assurdo usare i nostri metri di misura, mettendo fra parentesi il fatto che viviamo in un paese dove l’unità nazionale esiste da

oltre un secolo e non è minacciata dall’ester­no. Ma non può non far riflettere il braccio di ferro fra popolo israeliano e popolo pale­stinese per la palma della natalità, una guer­ra demografica nella guerra combattuta, che è ben rappresentata nel modo di dire comu­ne: “bisogna battere il nemico a letto, non solo sul campo”. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la battaglia demografi­ca è diffusa ben al di là dei gruppi meno ac­culturati e socialmente più deboli. Una col­lega del collettivo “Visitare luoghi difficili”, impegnato da anni a tessere rapporti con donne di tutte e due le realtà, raccontava di aver conosciuto un’americana emigrata in Israele, un’intellettuale che aveva fatto parte del movimento studentesco e di quello paci­fista, sposata a un uomo della stessa forma­zione: avevano appena avuto il loro nono fi­glio.

In questi casi la propaganda, spesso vio­lentemente nazionalista, deve aver trovato un terreno fertile nella tradizione del bacino mediterraneo, fatta di culture anche molto diverse, ma che tutte enfatizzano la materni­tà, e la maternità di figli maschi. Nonostan­te il modo in cui a volte amiamo rappresen­tarci, anche l’Italia è storicamente parte di quest’area; e credo che, senza dimenticare lo scarto temporale e le differenze che ci sepa­rano dai paesi della riva sud del Mediterra­neo, uno sguardo comparativo potrebbe es­sere utile, in particolare per quanto riguarda le religioni e i capi religiosi, e gli effetti della loro pretesa a regolamentare direttamente o indirettamente la vita delle donne e la fami­glia. In questa prospettiva l’attenzione di

4 Vedi l’analisi di J. Wheelwright, It was exactly like the movies! The Media’s Use o f the Feminine during the Gulf War, relazione presentata al seminario “Women at War: Images of Women Soldiers”, novembre 1991; e sul riaf­facciarsi del mito delle amazzoni, V. Russo, The constitution o f a gendered enemy, in “Women at war”, cit., e Ma­rina Cattaruzza, Le Amazzoni, o del mito rivissuto, in Donna e guerra, mito e storia, Quaderno Dars, Udine, s.d.5 Laurence Deonna, La Guerra a due voci, Milano, Mursia, 1988.6 Si tratta del seminario “Molte donne un pianeta”, Loiano, 11-18 sett. 1992.7 In termini simili si esprime Islah Gad, Dalle signore dei salotti ai comitati popolari: le Donne della Rivolta, “In­chiesta”, 1991, n. 91-92.

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tanti dirigenti politici e militari italiani a evitare un’immagine promiscua della Resi­stenza non sarebbe tanto un’anomalia o un residuo nell’orizzonte nordoccidentale, quanto l’espressione di un’altra area cultu­rale, dove il corpo femminile è ritenuto im­puro e pericoloso, e dove la politica è co­stretta, avvezza, e spesso interessata, a rico­noscere alla religione una opzione sui com­portamenti ritenuti moralmente rilevanti, in primo luogo quelli delle donne8.

Per quanto riguarda l’altro teatro di guerra vicino a noi, la ex Jugoslavia, mi li­mito a ricordare come l’aspetto più dram­matico, l’esplosione violenta delle “etnie”, abbia inevitabilmente al centro maternità e corpo femminile9: come strumento e bersa­glio delle politiche di “pulizia etnica”, come base per un concetto di cui non si sarebbe più voluto sentir parlare, il diritto di sangue.

Insistendo sulla pervasività del materno, non voglio farne uso per minimizzare i fe­nomeni assegnabili al polo dell’innovazio­ne: le donne al lavoro in settori maschili, quelle impiegate o combattenti nei movi­menti di liberazione e negli eserciti regolari; e, a titolo diverso ma ugualmente rilevante, quelle che trasgrediscono sul piano del co­stume, come le saudite che durante la guer­

ra del Golfo hanno manifestato alla guida di automobili, contro il divieto di farlo im­posto da un’interpretazione della legge cora­nica10.

I miei dubbi vengono dall’interno stesso dei fenomeni innovativi, dal vecchio che perdura nel nuovo. Per il lavoro di mercato, molte hanno fatto notare che le guerre di questo secolo non portano né a un riesame concettuale né a un riassetto stabile della di­visione sessuale del lavoro, ma più modesta­mente a uno spostamento provvisorio dei suoi confini, imposto da un cambiamento dei ruoli maschili (dalla sfera produttiva a quella militare) anziché da una ridiscussione di quelli femminili11. Tanto che resta immu­tato quell’aspetto della divisione del lavoro che assegna alle donne i compiti domestici, di cura dei figli, di manutenzione della vita.

Tratti simili mi sembrano all’opera anche per quanto riguarda l’ingresso delle donne negli eserciti regolari. Il caso degli Stati Uni­ti è piuttosto chiaro. Se è vero che ha pesato la forte spinta alla parità in tutti i campi da parte delle organizzazioni femminili/femmi- niste liberal, determinanti sono stati due obiettivi di politica militare messi a punto negli anni settanta: controbilanciare la pre­senza crescente di giovani neri sventando la prospettiva di un esercito troppo di colore;

Manar Hasan, On Fundamentalism in Our Land', Tikva Honig-Parnass, Jewish Fundamentalism as Inherent in the Jewish-Zionist State, materiali preparatori per il seminario “Molte donne un pianeta”, cit.; Raffaella Lamberti CFerite, “Inchiesta”, cit.) ricorda come alcune militanti palestinesi, informate del lavoro svolto in Italia da giuriste e avvocate per la costruzione di un diritto “sessuato”, abbiano sottolineato la crucialità per loro di sostituire alla leg­ge islamica una legislazione civile e di “contrastare intanto a più livelli l’asse privilegiato madre/figlio quale si con­figura nella loro tradizione patriarcale” .

Nella relazione su “Gender and Nation”, preparata per il citato seminario “Molte donne un pianeta”, Nira Yu- val-Davis ricorda sul piano generale come spesso “la distinzione fra un gruppo etnico e un altro sia costruita in mo­do centrale sulla condotta sessuale delle donne”.10 N. Yuval-Davis, The Gendered Gulf War: Women’s Citizenship and Modern Warfare, in H. Bresheeth e N. Yu- val-Davis (a cura di), The Gulf War and New World Order, Londra, Zed, 1991, pp. 219-220.

Cfr. Gail Braybon, Penny Summerfield, Out o f the Cage: Women’s Experiences in Two World Wars, Londra, Pandora, 1987; U. Frevert, Women in German History, Oxford, Berg, 1989; Margaret R. Higonnet, P.R.L. Hi- gonnet, The Double Elix, in M.R. Higonnet et al. (a cura di), Behind the Lines. Gender and the Two World Wars, Londra-New Haven, Yale University Press, 1987; F. Thébaud, La femme au temps de la guerre de 1914, Parigi, Stock, 1986. Per 1’Italia, Francesca Bettio, The sexual division o f labour. The Italian case, New York, Oxford Uni­versity Press, 1988.

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sostenere il volontariato prevenendo tensio­ni popolari simili a quelle contro la guerra del Vietnam e, nello stesso tempo, diffon­dendo un’immagine del servizio militare co­me lavoro, e lavoro non più “sporco” di al­tri12. Che presto siano nati conflitti e proble­mi (dalle differenti opportunità di carriera alle molestie sessuali) è un invito, rivolto in­nanzitutto a me stessa, alla cautela nel defi­nire vecchio e nuovo e loro rapporti.

Ma il tema del reclutamento femminile ha tali risvolti, a partire dal legame storico fra il portare le armi e la piena cittadinanza13, che richiederebbe una riflessione specifica. Quello che invece vorrei rilevare qui è che la divisione sessuale del lavoro si prolunga al­l’interno delle forze armate e al fronte, men­tre, non diversamente che nelle guerre mon­diali, al mutamento dei ruoli lavorativi ex­trafamiliari delle donne non corrisponde al­cuna sostanziale ristrutturazione dei compiti e delle responsabilità nello spazio domesti­co: durante la guerra del Golfo, la cura dei bambini e della casa delle donne arruolate è ricaduta per lo più su altre donne — nonne, parenti, vicine, addette agli asili — molto di rado su uomini, e comunque come fatto temporaneo ed eccezionale14.

Che nel nuovo sia incorporata una parte del vecchio è scontato. Ma in questo caso si tratta di un carattere fondante: è nello spa­zio domestico che risiede il primo terreno di

organizzazione della disparità. Se il nuovo si ferma alla sua soglia, i mutamenti economi­ci e lavorativi rischiano di non intaccare nel­la sostanza i rapporti di genere; le conquiste politiche di restare inerti o di essere vanifica­te, non esclusa quella rappresentata dal di­ritto di voto, sbocco classico delle guerre e delle vittorie dei movimenti di liberazione nazionale. In Algeria, con l’ultimo codice elettorale, non integralista, si è infatti tenta­to di inficiarlo dando agli uomini la possibi­lità di votare a nome delle donne. A riprova di come sia difficile preservare uno spazio politico, se non si può mettere contempora­neamente in questione quello culturale e simbolico.

È proprio l’interesse a questi aspetti e alla loro capacità di autonomia dai mutamenti strutturali che ci ha spinto a sottolineare il versante conservativo-regressivo, quanto meno per le situazioni su cui più abbiamo ri­flettuto, l’Italia nelle due guerre mondiali.

Ci sono nell’una e nell’altra molte e diver­se tensioni al nuovo, e un nuovo che si rea­lizza spesso portando a compimento tenden­ze già in atto di cui sarebbe ingeneroso non tenere conto (come sarebbe ingeneroso non chiedersi quanto il voto nel 1918 alle donne britanniche debba all’impegno pluridecen- nale delle suffragiste, oltre che alla necessità di dare riconoscimento alla mobilitazione femminile in guerra). Ma quel che regge so-

12 C.H. Enloe, The Militarization o f First Class Citizenship: Some Lessons from the Gulf War, in “Women at War”, cit.; N. Yuval-Davis, The Gendered Gulf War: Women’s Citizenship and Modern Warfare, cit. Sull’arruo­lamento delle donne come risposta alle tendenze alla delegittimazione dell’uso della forza, cfr. L. Sebesta, Women and the Legitimation o f Force: the Case o f the Female Military Service-, sul vantaggio economico per le donne, Eli­sabetta Addis, The Reality and the Image. Women and the Economic Consequences o f Being a Soldier, ambedue in “Women at War”, cit.13 Cfr. C.H. Enloe, The Militarization o f First Class Citizenship, cit., e il fondamentale Jean B. Elshtain, Donne e guerra, Bologna, Il Mulino, 1991, soprattutto la Parte prima, La virtù civica armata. Si veda anche: Gabriella Bo- nacchi e Angela Groppi (a cura di), Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Roma-Bari, Laterza, 1993, in particolare Vinzia Fiorino, Essere cittadine francesi: una riflessione sui principi dell’89.14 Nira Yuval-Davis (The Gendered Gulf War: Women’s Citizenship and Modern Warfare, cit.) ricorda l’intervista radiofonica di un padre inglese che, dovendosi occupare di due bambini piccoli dopo la partenza della moglie per il Golfo, confessava il suo sgomento per la mole di lavoro ed esprimeva la fervida speranza che lei tornasse al più pre­sto e se ne facesse nuovamente carico.

Guerre e mutamenti nelle strutture di genere 371

no le coordinate di fondo dei rapporti fra donne e uomini, fra statuti del femminile e del maschile, in altre parole l’impronta “pa­triarcale” della società, con la divisione ses­suale del lavoro, il predominio maschile nel­le norme e nei valori sociali, nel diritto, nel linguaggio, nella politica, dove l’acquisizio­ne di diritti formali uguali può non intaccare affatto la marginalità femminile.

È un fenomeno ancora più significativo se si pensa che il rivoluzionamento tocca prati­camente tutte le strutture politiche e sociali, dalle forme di governo ai rapporti fra paesi europei e mondi coloniali; e che è percepito anche dagli individui come svolta irreversi­bile. Se pure con gradazioni diverse da una guerra all’altra, le donne continuano invece a rappresentare il luogo cui l’uomo può tor­nare in cerca di un minimo di stabilità: forse l’unico luogo di cui si può ancora sperare che sia o torni come prima.

Ci è sembrato di poter vedere in questi esiti — qui necessariamente schematizzati — un rapporto non solo con il carattere tempo­raneo ed eccezionale dei mutamenti, ma an­che con la qualità dell’esperienza di guerra, vale a dire appunto con la pervasività del materno, sia nei discorsi politici, ideologici, religiosi, sia nei comportamenti e nella sog­gettività delle donne: donne che nella nostra ricerca sono di diverse età, classi, culture, madri e non madri, e diversamente legate al registro materno sul piano psicologico e cul­turale.

E una maternità che spesso deborda dalla famiglia e dal privato, come quando le don­ne si fanno in qualche modo carico del desti­no di altri, sfamando, nascondendo, proteg­gendo qualcuna delle innumerevoli vite mes­se a rischio dalla guerra. La mobilitazione femminile dell’otto settembre per sottrarre i soldati sbandati all’arresto ne è un esempio forte, e credo che sia insufficiente interpre­

tarlo, come ha per lo più fatto la nostra sto­riografia, in termini di umanitarismo, una categoria che non precisa nulla su chi aiuta e su chi è aiutato, né sul rapporto che li uni­sce. Mi pare invece che l’otto settembre sia all’opera una disponibilità femminile nei confronti di un destinatario ben determina­to, il giovane maschio vulnerabile e dipen­dente, che si rivolge in quanto tale alla don­na come a una figura salvifica, forte e obla- tiva, vale a dire a una madre. Per questo parlerei piuttosto di maternage di massa.

Non sottovaluto la presa della propagan­da, o il ruolo della Chiesa e della religione, che con la figura di Maria offre/impone un simbolo difficilmente sorvolabile15; e neppu­re il peso che le forme dell’individuazione femminile hanno sulla capacità/volontà di non separarsi dall’altro, dai suoi bisogni e desideri. Ma, mentre sarebbe assurdo pensa­re a una “naturale” oblatività femminile, non credo neanche si debba parlare di un semplice adattamento a norme e modelli. È un’ipotesi povera, come lo è il binomio adattamento/rifiuto. Più produttivo pensare in termini di un far fronte, di una contratta­zione, vale a dire di un intreccio fra ricono­scimento delle norme e capacità di eluderle e di manipolarle, di crearsi spazi di autonomia nelle maglie dei codici e delle rappresenta­zioni dominanti.

Cos’altro spinge allora tante donne ad agire e a identificarsi nella cifra del mater­no, in una fase storica in cui la maternità fi­sica non è ormai più il solo destino possibi­le, in una situazione in cui protezione e aiu­to sono un’impresa difficile e spesso alta­mente pericolosa? Ho già ricordato il biso­gno e la vulnerabilità dei giovani sbandati. Ma mi sembra necessario riflettere, più in generale, sul modo in cui le guerre moderne intervengono nel modificare lo statuto degli individui e le forme di rapporto interindivi-

15Luisa Accati, Il padre naturale, “Memoria”, 1987, n. 21.

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duale. Mentre proclama l’unità di tutti i cit­tadini ugualmente votati alla nazione, la guerra moltiplica nello stesso tempo il cam­po delle relazioni disuguali, che sfuggono al modello dominante sul piano teorico nelle nostre società: quello fondato sullo scambio equivalente fra individui uguali, tendenzial­mente autosufficienti e indipendenti. Stanno fuori da questo paradigma solo i rapporti tra le generazioni dentro la famiglia, rappor­ti disuguali che hanno al centro bisogno e dipendenza al polo del minore, protezione e cura al polo dell’adulto. Anomalo rispetto all’uno e all’altro modello, il rapporto uo- mo/donna ne intreccia in modo contraddit­torio vari caratteri, realizzando un modello del tutto specifico, anche se come è ovvio storicamente variabile.

Il punto è che la guerra crea minorità nuove, intendendo appunto con questo ter­mine la perdita della possibilità di vivere in relativa autonomia e di negoziare liberamen­te i limiti della non interferenza reciproca. Minorità che possono riguardare tutti, ten­dendo il rapporto cittadino-stato a scivolare verso quello suddito-sovrano. O possono colpire aggregati specifici: i soldati in primo luogo, la cui figura sociale acquista presti­gio, mentre quella giuridica perde diritti e facoltà; ma anche gruppi e singoli persegui­tati e discriminati: le minoranze razziali, i cittadini di origine straniera, gli oppositori politici, i combattenti dei movimenti di libe­razione, gli sbandati, i disertori. Sia pure su basi diverse, minorità è anche la condizione di quanti la guerra priva di autonomia sul piano materiale o psicologico: feriti, mutila­ti, vulnerabili di ogni natura, donne e uomi­

ni che siano. Ma per le donne uno statuto svantaggiato non rappresenta una novità.

Credo vada tenuto in conto l’impatto sui rapporti di queste nuove minorità, che pos­sono saldarsi alla socializzazione femminile al materno e ai messaggi ideologici fino a determinare il maternage esplicito e la colo­ritura materna di molti comportamenti usuali. È un materno che può mettersi al servizio dello Stato e della nazione o avere esiti antimilitaristi, come per esempio l’otto settembre — ma va detto che nell’Italia del 1943 non era affatto chiaro dove e cosa fos­sero nazione ed esercito nazionale16. Si trat­ta in ogni caso di una modalità di esperienza e di rapporto che rappresenta bene l’intrec­cio fra vecchio e nuovo, e il peso del primo sul secondo: le donne sono e appaiono più forti dell’uomo, ma in quanto madri reali o simboliche, vale a dire nella sola forma so­cialmente accettata. Per quanto riguarda l’I­talia, neppure il movimento di liberazione ha l’effetto, né si propone, di rompere que­sto schema: si esaltano madri e sorelle puta­tive, si guarda con diffidenza alla femminili­tà delle partigiane, mentre resta quasi del tutto assente un’attenzione critica al priva­to, più che altro temuto come luogo del ce­dimento e della “perdizione”17.

Non voglio in alcun modo usare l’adesio­ne al materno come metro di misura dell’ac­cettazione o meno dell’esistente: la materni­tà è un fatto e un simbolo troppo ricco e contraddittorio per essere ricondotto a un solo significato18. Quel che temo è, se mai, altro: che il primato del materno protettivo e oblativo nelle storie vissute e raccontate, nella letteratura, nell’ideologia, finisca per

16 Come ha ampiamente mostrato Claudio Pavone, Una guerra civile: saggio storico sulla moralità nella Resisten­za, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, in particolare nel capitolo La scelta.17 C. Pavone, Una guerra civile: saggio storico sulla moralità nella Resistenza, cit., pp. 521-522. Molti spunti tutto­ra interessanti si trovano in A.M. Bruzzone e Rachele Farina, La resistenza taciuta, Milano, La Pietra, 1976, e in Bianca Guidetti Serra, Compagne, Torino, Einaudi, 1977.18 Sulla ricchezza e l’ambivalenza del materno, ma soprattutto sul materno come pensiero, da cui può prendere le mosse un nuovo discorso politico-filosofico, cfr. Sara Ruddick, Maternal Thinking, New York, Ballantine Books, 1989.

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cancellare altri aspetti dei comportamenti. Per esempio il calcolo, più o meno consape­vole. Non mi disturba affatto pensare che le donne che peregrinavano fra comandi tede­schi e fascisti per chiedere la liberazione del marito avessero in mente anche la propria sicurezza e il proprio status. Che altre, dedi­te per anni alla “risocializzazione” di un ma­rito o figlio ex prigioniero, abbiano pensato che un uomo, anche vulnerabilissimo, è me­glio che nessun uomo. O, ancora, che nella duratura e rischiosa protezione offerta da tante contadine (e contadini) ai militari al­leati fuggiti dai campi di prigionia italiani dopo l’otto settembre19, abbiano pesato la convinzione che i tedeschi avessero ormai perso la guerra, e la valutazione dell’aiuto che un giovane uomo poteva dare nel lavoro dei campi.

Mi sembra anzi che la capacità di calcola­re e pensare avendo in mente se stesse, arric­chirebbe queste figure femminili, corregge­rebbe lo stereotipo della donna che agisce solo per sentimento, e solo guardando agli altri. Quanto fosse forte anche lo stereotipo speculare sulla femmina perennemente cal­colatrice è suggerito dal fatto che motivazio­ni di questo tipo sono praticamente assenti dai racconti, se non quando vengono attri­buite a figure negative. Credo comunque che il “tornaconto” maggiore stia nella straordinaria autorità, nella quota di potere che si accompagnano alla maternità, tanto più alla maternità protettivo-sacrificale pri­meggiarne nella guerra, sull’onda di una tra­dizione ancora oggi inesaurita. Alla sua base preme, mi sembra, una concezione per così dire “proprietaria”, in cui il figlio, non im­porta se adulto, continua ad appartenere al­la madre, che può darlo o rifiutarlo (all’e­

sercito, a un’idea, a un’altra donna), ma sempre come cosa sua, in un rapporto go­vernato da una sorta di diritto naturale ina­lienabile. Penso non solo alle madri in guer­ra, ma all’oggi, per esempio alle molte ma­dri di soldati di leva che, di fronte alla pro­spettiva di impiego dell’esercito sul territo­rio, hanno minacciato in più occasioni di andare a riprendersi i figli: è stato così per il presidio italiano in Libano, e, sia pure in modo più morbido, per l’invio di soldati in Sicilia e Sardegna.

Certo vale anche in questi casi il discorso sulla “minorità” del militare; certo per molti — e io sono fra questi — era opportuno fare resistenza a questo uso delle forze di leva. Ma mi ha colpito che nessuno all’interno dell’opinione antimilitarista abbia giudicato problematico il fatto che, in sostituzione di giovani adulti a tutti gli effetti, agissero le loro madri, disputandoli all’esercito come oggetti non responsabili, come eterni mino­renni. Difficile non pensare a un detto italia­no tuttora diffuso: “mio figlio, io l’ho fatto, io lo disfo” .

Non stupisce che della costellazione di ele­menti che connotano questo codice materno facciano parte due aspetti di particolare ri­lievo nelle guerre. Il primo è il coesistere di una netta presa di distanza dalla violenza e di una difficoltà altrettanto netta a disso­ciarsi da quelli che l’hanno esercitata, un sorvolare, un minimizzare, quasi un rifiuto di vedere20. Gli sbandati dell’otto settembre, i “minori” vulnerabili che le donne conten­dono ai nazisti come vittime incolpevoli, so­no gli stessi che hanno combattuto i tre anni di guerra fascista, possono essere gli stessi che hanno invaso altri paesi, commesso cri­mini, tollerato che fossero commessi. Aguz­

19 Anche a distanza di molti anni resta fondamentale l’analisi di Roger Absalom, Per una storia di sopravvivenze: contadini italiani e prigionieri evasi britannici, “Italia contemporanea”, 1980, n. 140.

Una contraddizione simile è vissuta da alcune madri israeliane di oggi, che “possono dire che avrebbero voluto essere pacifiste e allo stesso tempo raccontare con orgoglio che il loro figlio è in una unità scelta dell’esercito” (Y. Deutsch, Donne israeliane contro l ’occupazione e per la pace, “Inchiesta”, cit.).

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zino e figlio di mamma non sono figure in­compatibili, salvo agli occhi delle madri stes­se. In questo senso l’atteggiamento di molte donne — ma non solo delle donne — da un lato può aver fatto da spalla popolare ai ten­tativi politico-diplomatici di presentare l’Ita­lia come sostanzialmente immune dai crimini di guerra, a cominciare dalla persecuzione degli ebrei, dall’altra non ha certo contribui­to a sollecitare un’autocoscienza personale e nazionale.

Il secondo punto è la radicale desessualiz­zazione: si è prima madri che dorme, o anzi­ché donne, e madri di figli maschi, secondo la tradizione mediterranea. Il sogno di Vitto­rini in Conversazione in Sicilia21 — una gran­de madre che sfama, disseta, dà asilo al sol­dato e infine gli offre il proprio corpo — è tutto maschile, anche se non molti uomini avrebbero il coraggio di sognarlo; ed è quello di ricomporre nella letteratura una dissocia­zione di lunga durata.

Nei racconti femminili che conosco la ses­sualità è praticamente assente (se mai compa­re quella maschile come minaccia), quasi fos­se impossibile parlarne senza esporsi a con­danne. Anche qui esiste una lunga tradizione di silenzio che arriva ancora oggi a toccare donne molto più giovani delle nostre narra­trici22; anche qui bisogna porsi il problema dello scarto fra vita vissuta e vita raccontata.

Ma quel che mi interessa dire ora, è che il silenzio suggerisce quanto meno un’ipotesi: se la guerra ha prodotto mutamenti su questo piano, deve essere stato a quel livello moleco­lare che non necessariamente sbocca in una

trasformazione avvertibile, si concretizza in comportamenti e valori nuovi, riconosciuti e condivisi. Con il risultato che alla conflit­tualità fra i generi, già compressa dagli ap­pelli e dai sentimenti di solidarietà familiare, di gruppo, di classe, nazionale, è sottratto un terreno primario: non si apre un conten­zioso con un maschile filiale e pericolante, tanto meno a partire da una realtà cui è ne­gata rilevanza.

Mi rendo conto di una mia probabile ot­tusità nel riconoscere gli elementi emancipa­tivi delle guerre, forse per timore che am­mettere alcuni effetti positivi di un grande male finisca per sminuirne la portata; so an­che che questa posizione può far sottovalu­tare in alcuni casi il ruolo dell’imprevisto, attraverso il quale spesso i gruppi privi di potere fanno ingresso nella storia.

Ma se è opinione comune che ci siano vi­ta e mutamento solo dove c’è conflitto, bi­sogna chiedersi che rapporto esiste fra i conflitti, dove si lotta per cambiare, e le guerre della modernità, dove si combatte per annientare. Credo che le seconde, con l’ideologia e con la violenza, scaccino i pri­mi: annichilendoli, o accelerando il loro passaggio a forme rivoluzionarie, con i tanti esiti distruttivi che conosciamo. Per quanto riguarda i rapporti di genere, i risultati più importanti sono legati al tempo di pace, o quantomeno a forme di lotta poco milita­rizzate23. Mi chiedo se qualcosa di simile non valga anche per altri conflitti.

Anna Bravo

21 Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, Milano, Bompiani, 1958.22 Cfr. il n. 28 di “Memoria”, dedicato a Bambine. Racconti d ’infanzia.23 Come per esempio la prima fase dell’Intifada. Mentre, ricorda Elisabetta Donini, “il rovesciamento accaduto nel 1990 (con lo scontro spostato sempre più verso la spirale strage-reazione-repressione-vendetta-nuova strage e con una riduzione in ambito palestinese dell’impegno per l’autonomia sociale e produttiva) ha significativamente tolto respiro alle donne” (E. Donini, Che cosa resta, “Inchiesta”, cit.).

Condizione femminile, produzione bellica e società in Gran Bretagna 375

Condizione fem m inile, produzione bellica e società in Gran Bretagna

Penny Summerfield

Fin dagli anni cinquanta, quando Stanislaus Andrzejewski elaborò la teoria del livello di mobilitazione militare e Richard Titmuss scrisse i suoi saggi War and Social Policy e The Position o f Women, gli storici e i socio­logi hanno rivolto la loro attenzione al fatto che la seconda guerra mondiale ha significa­tivamente cambiato la posizione sociale del­le donne1. Andrzejewski sostenne che la guerra di massa, coinvolgendo una elevata porzione della popolazione totale, ebbe un effetto di livellamento delle differenze socia­li. Titmuss sviluppò questa posizione soste­nendo che il ruolo delle donne, in quanto la­voratrici dipendenti nel periodo bellico, sti­molò lo sviluppo di politiche sociali che ri­dussero le ineguaglianze e migliorarono la condizione femminile. Egli inoltre attirò l’attenzione sui cambiamenti demografici dell’epoca che stavano modificando in mo­do fondamentale la posizione delle donne al­l’interno della famiglia e sul mercato del la­voro. La cresciuta incidenza dei matrimoni stipulati in giovane età dopo la guerra e le nascite ravvicinate nei primi anni di matri­monio di un limitato numero di bambini, si­gnificavano che le donne sposate al di sopra dei trent’anni erano divenute la principale fonte di reclutamento della forza lavoro2.

Nel 1956 Alva Myrdal e Viola Klein stu­diarono il trend individuato da Titmuss e so­stennero la tesi del duplice ruolo delle donne nel lavoro domestico ed in quello retribuito, considerando l’impatto della guerra sulla

condizione femminile come rilevante da tre punti di vista. Innanzitutto ritenevano che “la discriminazione di sesso in fatto di lavo­ro era quasi scomparsa” . In secondo luogo sostennero che la ridefinizione delle condi­zioni di lavoro, realizzata al fine di andare incontro alle necessità delle donne lavoratri­ci, assumeva dimensioni tali da poter essere considerata una rivoluzione sociale. Da ulti­mo affermarono che nel dopoguerra si veri­ficò una notevole riduzione del numero delle donne sposate impiegate nei lavori extrado­mestici, nonostante l’evidente volontà delle donne di mantenere i propri impieghi alla fi­ne delle ostilità3. Il fondamento della loro argomentazione era che ciò che la guerra aveva provato essere possibile si era ripetuto negli anni cinquanta e sessanta: si potevano convincere le donne sposate a divenire parte della forza lavoro ed a sommare le responsa­bilità lavorative domestiche e extradomesti­che senza effetti negativi in ciascuno dei due ambiti.

Negli anni sessanta e settanta Arthur Mar­wick diffuse la tesi secondo cui la seconda guerra mondiale aveva contribuito in modo significativo allo sviluppo dell’uguaglianza tra i sessi. Come Myrdal e Klein egli sosten­ne che le donne, durante la guerra, fecero i lavori degli uomini, ricevettero la stessa pa­ga, e che queste furono conquiste destinate a durare. Diversamente da loro, però, pensa­va che la mobilitazione civile per il lavoro decretata dal governo “giocò un ruolo se-

1 La tesi di Andrzejewski è sviluppata nel volume Military Organization and Society, London, Routledge, 1954; i saggi di Richard Titmuss sono pubblicati nella raccolta Essays on ‘The Welfare State’, London, Allen and Unwin, 1958.j Cfr. R. Titmuss, Essays on ‘The Welfare State’, cit.

Cfr. Alva Myrdal, Viola Klein, I due ruoli della donna. Famiglia e lavoro, Roma, Armando, 1973 (ed. orig. 1956), pp. 81-83.

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condario nei cambiamenti della condizione lavorativa femminile” . Sostenne, inoltre, che divenne più accettabile l’idea di impiega­re donne sposate come lavoratrici salariate4. Più in generale l’approccio di Marwick ve­deva nella guerra un fattore cruciale di ‘mo­dernizzazione’ della posizione della donna, perché aveva dato loro maggiore fiducia in se stesse e un ruolo pubblico più visibile nel lavoro, nella politica e nella vita sociale. Per esempio Marwick così concludeva il dibatti­to riguardo agli effetti della guerra sulle donne inglesi, americane, russe e tedesche pubblicato nel 1974: la partecipazione come lavoratrici allo sforzo bellico “può essere vi­sta ovunque come un elemento di ulteriore miglioramento dello status sociale delle don­ne”5.

Sia Titmuss, Myrdal e Klein che Marwick sostennero l’idea che gli anni della guerra e del dopoguerra abbiano costituito “un pe­riodo di crescente emancipazione per le don­ne”6. Le studiose femministe degli anni set­tanta non potevano accettare tale interpreta­zione. Era assai evidente che nel dopoguerra le donne, specie quelle delle classi lavoratri­ci, non erano libere dalla casa, che esse ri­manevano tradizionalmente dipendenti e che si trovavano in una posizione subordinata sul lavoro. Se le donne avevano raggiunto un più elevato status durante la guerra, non sembrava che lo avessero mantenuto succes­sivamente. Il dibattito ruotava intorno al­l’interpretazione dei concetti di ‘emancipa­zione’ e ‘status’. Myrdal e Klein non pensa­vano in termini di uguaglianza assoluta tra i sessi ma piuttosto ad un riconoscimento di quelle che essi consideravano attitudini spe­

cifiche delle donne, che includevano sia la competenza pratica sia il senso materno. La guerra aveva chiesto alle donne di porre tali qualità al servizio della nazione, e “le donne avevano risposto positivamente a tali richie­ste”7. Analogamente Marwick teorizzava che entrambi i conflitti avevano provocato un passaggio dalla subordinazione a quelle che si potrebbero definire forme emancipati­ve di femminilità: da una condizione in cui le attività delle donne erano ingabbiate entro i rigidi dettami vittoriani della modestia e del decoro alle possibilità di frequentare i pub, viaggiare, avere esperienze sessuali al di fuori del matrimonio, usare il rossetto, indossare gonne più corte, fumare in pubbli­co8.

Comunque negli anni settanta e ottanta le femministe acquisirono la convinzione che i cambiamenti nella morale e nelle abitudini erano dei punti di riferimento ingannevoli rispetto agli elementi realmente determinanti la posizione sociale delle donne e il loro ruo­lo economico nel lavoro fuori di casa ed in quello domestico. In polemica con Myrdal e Klein, le femministe avevano l’impressione che l’idea che le donne avessero speciali atti­tudini fosse servita a rinforzare le discrimi­nazioni nei loro confronti. Piuttosto che ap­provare entusiasticamente la pratica di farsi carico di una attività lavorativa, oltre agli impegni domestici e di considerare questo come un miglioramento della condizione delle donne, le femministe chiesero perché il lavoro domestico dovesse essere esclusiva- mente identificato con i ruoli femminili e perché la manodopera femminile fosse tra­dizionalmente meno pagata di quella ma-

4 Arthur Marwick, Britain in the Century o f Total War. War, Peace and Social Change 1900-1967, London, The Bodley Head, 1968, pp. 291-294.5 A. Marwick, War and Social Change in the Twentieth Century, London, Macmillan, 1974, pp. 137 e 159-161.6 R. Titmuss, Essays on ‘The Welfare State’, cit., p. 101.7 A. Myrdal, V. Klein, I due ruoli della donna, cit., p. 3.8 Cfr. rispettivamente il citato saggio di A. Marwick, Britain in the Century o f Total War, p. 127 e, dello stesso au­tore, The Home Front: the British and the Second World War, London, Thames and Hudson, 1976, p. 138.

Condizione femminile, produzione bellica e società in Gran Bretagna 377

schile. L’emancipazione veniva ora equipa­rata non con il fatto che le donne fornivano il loro specifico apporto in quanto donne alla società e neppure con la loro apparente mag­giore indipendenza, ma piuttosto con la tota­le soppressione della divisione sessuale in ca­sa e sul lavoro.

Il problema di ciò che era successo durante la guerra rimaneva un fattore importante per la comprensione delle opportunità storiche apertesi per le donne e del come esse le aves­sero sfruttate. Le ricerche condotte da Juliet Mitchell, da Denise Riley e da chi scrive negli anni settanta e nei primi anni ottanta, che ri­guardavano la misura del cambiamento del periodo bellico ed il suo grado di permanen­za, affrontavano i tre temi proposti all’atten­zione da Myrdal e Klein: il ruolo svolto dalla politica sociale nel liberare le donne dalla “domesticità”, l’impatto della guerra sulla posizione delle donne all’interno della forza lavoro, e il problema delle risposte soggettive delle donne rispetto al lavoro durante e dopo la guerra.

Donne e politiche sociali del periodo bellico

In termini di politica sociale si trattava di chiarire in che misura si fosse assistito alla sostituzione delle funzioni domestiche delle donne, quali la cura dei figli, e al parallelo sviluppo di una ideologia finalizzata a legitti­mare tale situazione. Mitchell in Psicoanalisi e femminismo9 sostenne che si trattò di un fenomeno molto ampio che procedéva di pa­ri passo con una temporanea trasformazio­ne ideologica, rispetto al ruolo femminile, e che entrambivennero drasticamente elimina­ti alla fine della guerra per costringere le donne a far ritorno a casa. In questo la fami­

glia, “una istituzione ideologica primaria”, venne successivamente destrutturata dalle pressioni sociali del tempo di guerra e, quin­di, ricostruita dopo la guerra aU’interno del corpo teorico e pratico della psicoterapia so­ciale. Fu riaffermata la centralità delle donne rispetto alla famiglia. “Nel dopoguerra la stabilizzazione politica e la ricostruzione eco­nomica portarono alla restaurazione di for­me sociali conservatrici. Le scuole materne e le mense comuni furono chiuse: laddove le donne erano state assunte nelle industrie ora le si incoraggiava a sposarsi e, se maritate, le si escludeva da quasi tutte le professioni e da molti lavori: invece che lavoratrici per la pa­tria dovevano essere donne di casa” e soprat­tutto madri, il cui posto era la casa con i fi­gli. “Lo psicologo dell’infanzia Bowlby, le cui idee venivano divulgate alla radio e sulle riviste femminili, insegnava che ogni persona succhia letteralmente la propria stabilità emotiva con il latte materno”10.

Denise Riley nel 1983 nel suo War in the Nursery11 indagò le connessioni tra le politi­che sociali del periodo bellico e le convinzio­ni di ordine ideologico più intensamente del­la Mitchell e concluse per un quadro più ric­co di sfumature. Esistevano contraddizioni nelle politiche sociali del periodo del conflit­to che non erano tanto estese né erano state così radicalmente abbandonate successiva­mente, come Juliet Mitchell aveva creduto. Da un lato ci si aspettava che la madre a tem­po pieno fosse una cittadina attiva, dall’altro le si chiedeva di svolgere un lavoro retribui­to. Esistevano delle divergenze tra la teoria psicologica, la politica e le pratiche sociali. L’idea che “il governo del dopoguerra avesse utilizzato la teoria di Bowlby della cosiddetta ‘deprivazione materna’ per ricacciare le don­ne britanniche dai loro posti di lavoro fin

9 Juliet Mitchell, Psicoanalisi e femminismo. Freud, Reich, Laing e altri punti di vista sulle donne, Torino, Einau­di, 1976 (ed. orig. 1974).

Così J. Mitchell, Psicoanalisi e femminismo, cit., pp. 258 e 259.Denise Riley, War in the Nursery. Theories o f the Child and Mother, London, Virago, 1983.

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dentro le loro cucine” era errata12. Allo stes­so modo, l’ideologia degli anni della guerra metteva in contrapposizione la “donna lavo­ratrice” con la “moglie e madre” , e nei di­scorsi postbellici a favore dell’incremento della natalità uno dei destini della donna era quello della madre a tempo pieno che porta­va la maggior quota di responsabilità per lo sviluppo fisico e psicologico dei suoi figli.Il lavoro di guerra delle donne, pure nelle rappre­sentazioni del loro eroismo collettivo, era lavoro svolto da donne, segnato da cima a fondo dal ge­nere di chi lo svolgeva e conseguentemente dalla particolarità di essere limitato nel tempo perché lavoro di donne che erano madri... Tutto quanto riguardava l’impiego di donne sposate nell’indu- stria si opponeva al loro essere prese seriamente in considerazione come lavoratrici a tutti gli effetti: dal 1945 la retorica dominante fornì una contrap­posizione tra il modello della madre e quello della donna lavoratrice. Il collasso postbellico degli asi­li di guerra sottolineò esclusivamente la ‘speciale natura’ delle concessioni temporanee alle madri lavoratrici13.

Nel mio Women Workers in the Second World War14 ho analizzato la formulazione e l’applicazione delle politiche sociali del pe­riodo bellico nei confronti delle donne con maggiore profondità sia di Mitchell che di Riley. Ho dimostrato che vi erano visioni contrastanti sul ruolo delle donne durante e dopo la guerra, in ambiti quali la cura dei fi­gli e della casa. Le tradizionali aspettative patriarcali riguardo alle donne entravano in collisione con le esigenze della produzione bellica che richiedeva soluzioni al problema della mobilitazione della forza lavoro fem­minile. Così nei ministeri quali quello del La­voro e degli Approvvigionamenti, durante la guerra ci fu chi sostenne i metodi collettivisti

di organizzazione del lavoro domestico e li giustificò in termini di necessità nazionale e di progresso per le donne. E ci fu anche chi, all’interno di questi ministeri ed di quello della Sanità e dell’Alimentazione, fondò le linee politiche di intervento sull’idea della santità del focolare domestico e del posto della madre con il suo bambino all’interno di questo, malgrado le necessità del periodo bellico15. Lo Stato non fu guidato interamen­te dagli interessi del capitale e neppure da quelli patriarcali. Il risultato del conflitto di interessi fu un dibattito, senza precedenti a livello governativo, sul lavoro necessario per mandare avanti una casa, sull’organizzazio­ne parziale e temporanea della cura collettiva dell’infanzia e l’insistenza ufficiale sul fatto che il lavoro retribuito dovesse essere orga­nizzato sulla base del part-time per mobilita­re le donne che dovevano anche mandare avanti la casa. Ma “la grande parte del lavo­ro domestico nel periodo bellico fu ricacciato indietro nella sfera privata delle risorse pro­prie di ogni donna e di quelle della sua fami­glia, dei suoi amici e dei suoi vicini di ca­sa”16. Nel settore della politica sociale c’era, dunque, poco da disfare alla fine della guer­ra. Gli asili nido della fase bellica furono consegnati a rigorose autorità locali che ri­tornarono all’orientamento prebellico di or­ganizzare asili giornalieri per casi particolari di povertà o difficoltà piuttosto che ad un servizio per ogni donna impiegata nel lavoro. E alle donne occupate si lasciò decidere se fosse più conveniente per loro continuare con soluzioni part-time. Non ci fu una “rivo­luzione sociale” scaturita dalla politica socia­le bellica del tipo immaginato da Myrdal e Klein.

12 D. Riley, War in the Nursery, cit., p. 189.13 D. Riley, War in the Nursery, cit., p. 195.14 Penny Summerfield, Women Workers in the Second World War. Production and Patriarchy in Confict, Lon­don, Croom Elm-Routledge, 1984 (seconda ed. 1989).15 Cfr. P. Summerfield, Women Workers in the Second World War., cit.16 P. Summerfield, Women Workers in the Second World War, cit. (ed. 1989), p. 185.

Condizione femminile, produzione bellica e società in Gran Bretagna 379

Le donne nella forza lavoro

Per quanto riguardava la collocazione delle donne all’interno della forza lavoro, la tesi di Mitchell implicava di considerare le don­ne come un esercito di riserva del lavoro, che era stato immesso sul mercato durante gli anni bellici di crisi della produzione e ne era stato successivamente cacciato. Anche io ho concordato con questa tesi — assai diffu­sa ancora tra i sociologi — in un articolo de­gli anni settanta17. I dati globali sembrano confortare questa opinione. Calcolando un incremento di 1 milione e 500 mila donne nella forza lavoro tra il 1939 ed il 1943 (ap­prossimativamente da 6 milioni e 250 mila a 7 milioni e 750 mila) si realizzò un decre­mento di 1 milione e 750 mila unità nell’oc­cupazione femminile tra il 1943 e il 1947. La contrazione della fascia di età giovanile della popolazione rispetto al totale spiega parzial­mente tale notevole decremento. Ma anche la percentuale di tutte le donne adulte che svolgevano lavoro retribuito crollò dal 51 per cento nel 1943 al 40 per cento nel 1947 e al 35 per cento nel 1951, analogamente al dato percentuale del 193118, che era dal 34 per cento.

La teoria dell’esercito di riserva, secondo i termini in cui l’aveva sviluppata Marx, ri­guardava la creazione di una riserva di lavo­ro da parte del capitale che assolveva una duplice funzione: comprimere i salari di co­loro che erano impiegati, perché vi erano sempre possibili sostituti che aspettavano ai margini, e costituire una fonte di lavoro a basso prezzo e facilmente disponibile nell’e­ventualità di uno sviluppo della produzione. Marx non aveva collocato le donne specifi­

camente in qualcuno dei tre settori sociali che aveva individuato: quello fluttuante (temporaneamente disoccupato), quello la­tente (cronicamente disoccupato) e quello stagnante (di fatto inoccupabile, ai margini estremi del mercato del lavoro). Studiosi successivi, come Veronica Beechey, pensa­vano che la posizione delle donne sposate al­l’interno della famiglia le collocava nell’am­bito della manodopera latente. Esse costitui­vano un settore non impiegato che poteva essere assorbito all’interno della forza lavo­ro a bassi costi, in virtù della presenza del sostegno economico rappresentato da un marito ed essere ricacciate in una posizione subordinata quando non più necessarie, sen­za divenire oggetto di assunzione di respon­sabilità pubbliche19.

Questa spiegazione può rendere conto del­la posizione delle donne nella forza lavoro durante la seconda guerra mondiale a due condizioni da verificare. Una riguarda la provenienza di queste donne: se reclutate dal settore latente dell’esercito di riserva, esse dovevano essere disoccupate prima della guerra o comunque — considerata la depres­sione economica degli anni tra le due guèrre — manodopera giovane senza esperienza. La seconda si riferisce alla loro collocazione successiva. Finita la crisi della produzione, esse avrebbero dovuto ridiventare dipenden­ti dai loro mariti a casa.

Un problema direttamente connesso con tale teoria è costituito dall’ordine di gran­dezza della forza lavoro femminile prebelli­ca. Più di sei milioni di donne risultavano impiegate in un lavoro retribuito nel 1939, l’ottanta per cento del dato registrato nel 1943. Sembrerebbe, dunque, che la maggior

lg P- Summerfield, Women Workers in the Second World War, “Capital and Class”, primavera 1977.Cfr. le considerazioni contenute in P. Summerfield, Women War and Social Change: Women in Britain

in World War II, in A. Marwick (a cura di), Total War and Social Change, London, Macmillan, 1988, pp. 97-98.

Veronica Beechey, Some Notes on Female Wage Labour in Capitalist Production, “Capital and Class”, 1977, n. 3, pp. 45-66.

380 Penny Summerfield

parte delle donne impiegate nel lavoro, du­rante la guerra, non possa esser considerata parte della riserva mobilitata per la produ­zione bellica. I dati aggregati corrispondono comunque a istantanee parziali. I sei milioni censiti sul lavoro nel 1939 potrebbero non essere le stesse donne conteggiate nel 1943.

Le indagini sistematiche sulle condizioni sociali del tempo di guerrra (Wartime Social Survey), condotte attraverso interviste ad un campione rappresentativo di 2.609 donne occupate nell’ambito dell’industria civile nel 1943, ci rivelano di più riguardo ai flussi di entrata ed uscita delle donne dal mercato del lavoro. Le donne che non avevano un impie­go retribuito immediatamente prima del conflitto costituivano il 28 per cento del campione. Una minoranza (il 6 per cento dell’intero campione) aveva avuto accesso al lavoro durante la guerra direttamente dalla scuola, dunque furono nuovi soggetti ad en­trare nella forza lavoro piuttosto che com­ponenti dell’armata di riserva. Buona parte del rimanente 22 per cento aveva svolto la­vori retribuiti saltuari prima della guerra, per cui non erano completamente inesperte. L’ultima occupazione retribuita di alcune era stata nella produzione di munizioni nella prima guerra mondiale20. Questo gruppo, principalmente di donne che avevano cessa­to il lavoro al momento del matrimonio, presenta maggiori tratti di affinità con l’e­sercito di riserva, ma costituì solamente una parte del totale della forza lavoro femmi­nile.

È chiaro, quindi, che non è proficuo considerare le lavoratrici del periodo bellico in generale come un esercito di riserva del lavoro. Nondimeno, si potrebbero ancora considerare le lavoratrici di guerra sposate come componenti dell’esercito di riserva,

secondo l’interpretazione che Beechey vor­rebbe proporre della teoria dell’esercito di riserva stesso. Però le indagini sulle condi­zioni sociali del periodo bellico dimostrano che non tutte le lavoratrici sposate erano state reclutate per il lavoro direttamente dal­le loro case. Più della metà delle donne spo­sate che stavano nel campione analizzato nel 1943 (il 59 per cento) erano impiegate in un lavoro retribuito nel 1939 (tuttavia l’inchie­sta non ci dice se esse fossero già sposate al­lora). Solo nel 41 per cento dei casi la vicen­da di lavoratrici di guerra sposate che si tro­vavano ‘a casa’ prima dello scoppio del con­flitto, sembra, comunque, collimare con la descrizione dell’esercito di riserva. Se le cose stessero così, ci si dovrebbe aspettare che fossero state escluse dalla forza lavoro alla fine della guerra e che pertanto la percen­tuale di coniugate fosse ritornata al livello prebellico. Ma il fatto è che, sebbene la pro­porzione delle donne sposate nella forza la­voro si sia abbassata leggermente dal picco raggiunto durante il conflitto, negli anni quaranta rimase ben al di sopra del livello degli anni trenta e ascese regolarmente nel decennio successivo, come osservarono sia Titmuss, sia Myrdal e Klein. Nel 1931 solo il 16 per cento delle donne lavoratrici erano sposate. Nel 1943 il dato era salito al 43 per cento, cadde al 40 per cento nel 1947, quin­di risalì nuovamente al 43 per cento nel 1951 ed al 52 per cento nel 1959 per raggiungere il 64 per cento nel 198521. Negli anni cin­quanta Titmuss analizzò i cambiamenti de­mografici che stavano dietro tale fenome­no. Vi era una crescente percentuale di don­ne sposate nella popolazione perché si ri­dusse lo squilibrio tra i sessi, si abbassò l’età media del matrimonio, si accrebbe l’a­spettativa di vita, mentre la dimensione del­

20 I riferimenti sono tratti da Geoffrey Thomas, Women at Work: the Attitude o f Working Women towards post war Employement and Some Related Problems, in Central Office of Information, Wartime Social Survey, 1944, pp. 7-10.21 Cfr. P. Summerfield, Women, War and Social Change: Women in Britain in World War II, cit., p. 100.

Condizione femminile, produzione bellica e società in Gran Bretagna 381

le classi di età adulta imboccò un trend di di­scesa22. Rimane tuttavia il fatto che le donne sposate non vennero espulse dalla forza la­voro dopo la guerra come il meccanismo dentro-fuori della teoria dell’esercito di ri­serva vorrebbe sostenere.

La teoria dell’esercito di riserva permette, quindi, limitate possibilità di comprensione della partecipazione della forza lavoro fem­minile alla seconda guerra mondiale. In par­ticolare non dice nulla riguardo alla maggior parte delle donne lavoratrici durante la guer­ra, sia di quelle sposate che di quelle nubili, che erano già impiegate allo scoppio delle ostilità. Le inchieste sulle condizioni sociali del periodo bellico nel 1944 rivelarono un elevato grado di mobilità dei generi di lavo­ro e dei settori industriali tra queste donne. Per esempio solo il 47 per cento delle addet­te alle macchine e all’assemblaggio nel 1943 si trovavano in tale categoria prima della guerra. Il resto proveniva da altre occupa­zioni: il 28 per cento erano “lavoratrici e collaboratrici domestiche” e il 6 per cento si trovavano nelle professioni amministrative e impiegatizie23. Confrontando i dati delle in­dustrie con quelli dell’occupazione, i mecca­nismi di reclutamento nel settore delle co­struzioni meccaniche evidenziarono i mag­giori cambiamenti. Solo il 22 per cento delle donne addette al settore meccanico nel 1943 vi era impiegato prima della guerra; il 51 per cento proveniva da un altro settore di attivi­tà, il 24 per cento direttamente dal lavoro domestico ed il 4 per cento dalla scuola. In termini di distribuzione tra i settori il nume­ro delle donne crollò in numerose delle indu­strie che ne avevano impiegato una larga percentuale prima della guerra, come per esempio il tessile, dove il numero delle don­

ne assicurate cadde da 656.000 a 456.000 tra il 1939 ed il 1943. Una contrazione simi­le si verificò nell’industria dell’abbigliamen­to, nelle ceramiche, nella produzione di ge­neri derivati dal cuoio, di cibo, bevande, ta­bacco, nella distribuzione e nei servizi al consumatore24. Dall’altro lato l’insieme del­le donne crebbe nelle industrie in cui la loro percentuale era relativamente bassa prima della guerra. Per esempio, il numero delle donne nelle costruzioni meccaniche crebbe da 97.000 fino a 602.000 e dal 10 al 34 per cento dei lavoratori dell’industria dal 1939 al 1943. Notevoli incrementi si verificarono inoltre nelle industrie metallurgiche e chimi­che, nel settore automobilistico, nei traspor­ti, nel settore del gas, acqua ed elettricità e nella cantieristica25.

Benché molto più drammatica e consi­stente, la ridistribuzione delle donne nel­l’industria durante la guerra non era in contrasto con quanto avvenuto precedente- mente. Negli anni venti e trenta l’industria tessile si contrasse e la quantità e la percen­tuale delle donne impiegate nei trasporti, nella chimica, nel settore automobilistico ed in quello meccanico e metallurgico creb­be anche se la dimensione dell’incremento fu contenuta. Nella meccanica, per esem­pio, la percentuale delle donne crebbe dal 6,5 al 10,3 per cento tra il 1923 ed il 1939. Questo non è quanto la teoria dell’esercito di riserva sostiene che sarebbe dovuto acca­dere in un periodo di depressione economi­ca nel quale le donne avrebbero dovuto es­sere le prime a perdere i loro impieghi. Ri­ferendosi allo stesso fenomeno negli Stati Uniti, Milkman notò che le donne nel pe­riodo tra le due guerre erano protette dalla disoccupazione a causa della loro segrega-

42 R. Titmuss, Essays on ‘The Welfare State’, cit.Central Office o f Information, Wartime Social Survey, 1944, cit., p. 9.

J4 Central Statistical Office, Statistical Digest o f the War, London, Hmso, 1951, p. 9.G.M. Beck, Survey o f British Employment and Unemployment 1927-1945, Oxford, Oxford University Institute

of Statistics, 1951, tab. 40.

382 Penny Summerfield

zione occupazionale26. Le donne erano im­piegate in nuovi generi di lavoro, per esempio nelle linee di produzione delle fabbriche di materiale elettrico, di macchine da scrivere e di macchine calcolatrici da ufficio. Esse erano considerate come appartenenti a settori sepa­rati di lavoro nei quali venivano corrisposte paghe più basse di quelle degli uomini27.

La guerra affrettò questo processo. Alla sua fine si verificarono dei riassestamenti che comportarono una considerevole perdita di lavoro da parte delle donne e, con il ritor­no degli uomini, una diminuzione rilevante della percentuale di donne occupate nelle at­tività operaie e impiegatizie. Comunque, la ristrutturazione di genere nell’ambito della forza lavoro, che era cominciata lentamente prima della guerra, proseguì stimolata dal­l’accelerazione dei cambiamenti del periodo bellico nei processi lavorativi e nell’emanci­pazione femminile. Dopo la guerra i valori assoluti e le percentuali delle donne nel set­tore meccanico, automobilistico, metallurgi­co, del gas, acqua e elettricità, nei trasporti e nell’amministrazione decrebbero rispetto al dato del 1943 ma rimasero più elevati di quanto fossero nel 1939. Nel 1950 la distri­buzione delle donne nell’industria era netta­mente differente rispetto al 1939 come mo­stra la tabella seguente.

Questo trend di lungo periodo si accorda­va con quanto sostenuto dall’economista Leser, secondo cui “non tanto il lavoro degli uomini toccò alle donne quanto piuttosto i settori che occupavano manodopera femmi­nile nelle industrie interessate guadagnarono a spese di quelli che impiegavano prevalente­mente gli uomini”28. In altre parole, la guer-

Percentuale della manodopera femminile impie­gata in alcune industrie (1939-1950)

1939 1943 1950

Ind. meccanica 10 34 34Ind. metallurgica 6 22 12Trasporti 5 20 13Pubbl. amm.ne 17 46 38

Fonte: Conrad Emmanuel Victor Leser, Men and Wo­men in Industry, “Economie Journal”, 1952, n. 246.

ra non fece conquistare alle donne un perma­nente accesso ai ‘lavori maschili’ ma allargò il numero delle posizioni segregate e subordi­nate aperte loro in queste industrie. Simulta­neamente le opportunità di lavoro si contras­sero in molti dei principali settori di tradizio­nale impiego femminile come il tessile ed i servizi domestici. Allo stesso modo, ove si prenda in considerazione la caduta delle clas­si di età adulta, si verificò una globale espan­sione della forza lavoro femminile in rappor­to al periodo prebellico. Verso il 1948, se si fosse verificato un ritorno allo status quo del 1939, “il numero delle donne assicurate do­veva essere caduto di più di 400.000. Ma di fatto crebbe di circa 350.000 unità”29.

La teoria dell’esercito di riserva era un modello troppo semplicistico per spiegare questo complesso processo. Al suo posto sto­rici come chi scrive o sociologi come Sylvia Walby svilupparono una interpretazione al­ternativa circa la collocazione delle donne nella forza lavoro, considerando quest’ulti- ma come determinata dall’interazione tra in­teressi capitalistici e patriarcali30. Per sinte-

26 Ruth Milkman, Women’s work and the economical crisis: some lessons o f the Great Depression, “Review of Ra­dical Political Economy”, 1976, n. 1, pp. 73-97.27 Parliamentary Papers, A Study of the Factors which Have Operated in the Past and Those which Are Operating now to Determine the Distribution o f Women in Industry, cmd 3508, December 1929, London, HMSO, 1930; si veda anche W. Hobby, Women in Changing Civilization, London, Lane, 1934.28 Comad E.V. Leser, Men and Women in Industry, “Economic Journal”, 1952, n. 246, p. 330.29 C.E.V. Leser, Men and Women in Industry, cit.30 Silvia Walby, Pathriarchy at Work, Cambridge, Polity, 1986.

Condizione femminile, produzione bellica e società in Gran Bretagna 383

tizzare, l’interesse capitalistico di formare manodopera a basso prezzo e semispecializ­zata, che era impegnata anche nella riprodu­zione del lavoro maschile e dei figli, si era co­me intersecato con la preoccupazione pa­triarcale che le donne, come forza lavoro non pagata, non sfidassero il potere del capofami­glia maschio e gli procurassero servizi dome­stici e d’altro genere. Tale intersezione pro­dusse un poderoso concentrato di forze (che includevano lo stato, i datori di lavoro, i sin­dacalisti maschi e i mariti) che contribuì alla segregazione della forza lavoro femminile.

Così nella seconda guerra mondiale i sin­dacalisti delle Trade Unions non considera­rono la forza lavoro femminile inclusa negli interessi dell’intera classe operaia, come somma di uomini e donne da trattare come un’unica forza lavoro con identici interessi di fronte al capitale. Essi cercarono, piutto­sto, in due modi di difendere il lavoro ma­schile dall’intrusione delle donne che erano meno pagate. Da un lato si impegnarono in una rigida linea di difesa attraverso accordi per cui uomini e donne ricevessero la stessa paga (per difendere i livelli salariali maschili da tagli e decurtazioni) nella convinzione che le donne sarebbero state licenziate alla fine della guerra (per proteggere il lavoro degli uomini). Dall’altro lato i sindacalisti maschi cercarono di opporsi ad una classifi­cazione del lavoro (in particolare delle nu­merose mansioni scaturite dai cambiamenti nei processi lavorativi durante la guerra) co­me lavoro femminile, che sarebbe stato pa­gato ai livelli salariali delle donne e quindi perso dagli uomini. Entrambe le strategie furono dettate da una concezione patriarca­le e contrastate dagli interessi capitalistici. I datori di lavoro cercarono di trovare delle

soluzioni riguardo agli accordi di parità sa­lariale per evitare di pagare le donne quanto gli uomini e per mantenerle in un ambito di lavoro poco retribuito. Il padronato rilanciò la classificazione sessuale del lavoro sulla base delle proprie percezioni del quadro na­zionale del mercato del lavoro e delle pro­prie convinzioni riguardo alle innate capaci­tà femminili, cosicché molti generi di attivi­tà, dallo spazzare il pavimento ai lavori di fonderia, furono ridefiniti come lavori fem­minili31. L’evidenza non conferma l’affer­mazione, citata sopra, di Myrdal e Klein, se­condo cui “la discriminazione di sesso in fatto di lavoro scomparve” .

Le risposte soggettive delle donne

Nel 1986 Harold Smith presentò quella che si pensava l’estrema conseguenza della tesi ap­pena abbozzata da Marwick, sostenendo che la guerra contribuì molto limitatamente al­l’incremento della dimensione della forza la­voro femminile e che non scalzò la segrega­zione sessuale nel lavoro32. Così egli seguiva da lontano studiosi precedenti. Egli, inoltre, pose in rilievo il problema delle risposte sog­gettive delle donne ai cambiamenti del perio­do bellico e sostenne che le donne non aveva­no gradito l’opportunità fornita loro dal con­flitto di svolgere un lavoro retribuito e che il lavoro stesso non le aveva lasciate scontente della tradizionale divisione sessuale dei ruoli.

Secondo Smith le donne erano ansiose di tornare alle loro abitudini di vita prebelli­che, la più importante eredità della guerra per loro fu “un rafforzamento dei tradizio­nali ruoli sessuali, piuttosto che l’emergere dei nuovi”33.

31 Cfr. in particolare il capitolo 7 dell’edizione del 1989 di P. Summerfield, Women Workers in the Second World War, cit.

Harold L. Smith, The Effect o f the War on the Status o f Women, in Id. (a cura di) War and Social Change: Bri­tish Society in the Second World War, Manchester, University Press, 1986.

H.L. Smith, The Effect o f the War on the Status o f Women, cit., pp. 56-57.

384 Penny Summerfield

Smith considerò che l’evidenza si confi­gurava come sufficientemente chiara per of­frire questa categorica interpretazione. Altri studiosi tra cui Myrdal e Kleine, Riley e l’autrice del presente saggio, considerarono come più problematico il dato riguardante ciò che le donne volevano dalla guerra. Myrdal e Klein citarono le inchieste del pe­riodo bellico che avevano mostrato che “la percentuale di chi desiderava rimanere al la­voro, particolarmente tra le donne anziane, era straordinariamente alta” , ma, ad ogni modo, “con la fine della guerra la maggior parte delle donne sposate tornò a casa”34. Essi cercarono spiegazioni di questa situa­zione apparentemente contraddittoria in fattori esterni quali il declino della quantità di lavoratori part-time e la chiusura degli asili, e considerarono una causa anche “l’o­pinione che i posti di lavoro dovessero esse­re ‘presi dai ragazzi’ e che le donne dovesse­ro cedere il passo”35. La risposta di Denise Riley al problema di tale, apparentemente discorde, evidenza fu di proporla come il principale esempio delle difficoltà della ri- costruzione storica. Si trattava di un aspetto del problema più profondo di scoprire “per­ché e come la gente fornisca formulazioni particolari riguardo a ciò che desidera”36.

Passando ad una prospettiva di analisi femminista che associava il lavoro retribui­to con la liberazione dalla dipendenza do­mestica e con l’emancipazione femminile, l’autrice confessò di essersi essa stessa tro­vata ad

oscillare tra due modelli di spiegazione: il primo sostiene che “le donne volevano realmente lavo­rare, che esse chiedevano degli asili nido; se leg­

giamo correttamente le risposte a questi scialbi questionari, possiamo sicuramente decifrare i lo­ro desideri; oppure possiamo scoprire l’evidenza sotterranea degli incontri pubblici, delle dimo­strazioni e delle petizioni per rivelare ciò che ve­ramente desideravano”. E il secondo che affer­ma che “non ci si deve meravigliare che lp donne furono, nel loro complesso, indifferenti: che al­tro potevano fare queste donne nel 1945, in quel­le condizioni politiche e in quelle situazioni di la­voro?”37.

L’autrice rifiutò entrambi i modelli perché essi presupponevano che le donne avessero una serie di desideri e bisogni chiari e defi­niti che potevano essere rivelati “togliendo una patina a postfazioni e riscritture stori­che”38. Benché non credesse ancora che questo fosse possibile, non aveva un ap­proccio alternativo da proporre, malgrado continuasse a vedere come storicamente im­portante il problema di identificare ciò che le donne volevano.

Come Denise Riley ho esaminato minu­ziosamente le inchieste realizzate dal Warti­me Social Survey and Mass Observation per evidenziare la volontà delle donne nel dopo­guerra. Entrambe le organizzazioni asseri­vano che la maggioranza delle donne dopo la guerra propendevano per il matrimono e la vita domestica piuttosto che per un im­piego salariato. Per esempio il Mass Obser­vation sosteneva che “l’opinione più diffusa sembra essere che le donne vogliono tornare a casa o assumere lavori che prima della guerra erano abitualmente considerati adat­ti a donne in attesa del matrimonio”39. In contrasto con il consenso dato da Smith a simili interpretazioni, ho posto l’attenzione sulle contraddizioni tra i dati della statistica

34 A. Myrdal, V. Klein, I due ruoli della donna, cit., p. 53.35 A. Myrdal, V. Klein, I due ruoli della donna, cit., pp. 53-54.36 D. Riley, War in the Nursery, cit., p. 190.37 D. Riley, War in the Nursery, cit., pp. 190-191.38 D. Riley, War in the Nursery, cit., p. 191.39 Mass Observation, The Journey Home, London, John Murray, 1944, p. 66.

Condizione femminile, produzione bellica e società in Gran Bretagna 385

stessa e le conclusioni che ne venivano trat­te40. Entrambe le organizzazioni di fatto rac­colsero dati che mostravano come la mag­gioranza delle donne interpellate voleva con­tinuare il rapporto di lavoro retribuito part- time o a tempo pieno oppure aveva lasciato che le sue decisioni in proposito dipendesse­ro da una serie di fattori tra cui le opportuni­tà di lavoro, il guadagno dei rispettivi mariti e le condizioni economiche generali41. Con­trariamente ai dubbi di Riley riguardo alla capacità delle risposte delle donne di rivelare ciò che esse effettivamente volevano, ho analizzato le loro risposte come indicative della perenne incertezza femminile riguardo al modo di equilibrare le esigenze del lavoro domestico con la pressione delle costrizioni economiche. Ho inoltre visto che le conside­razioni degli autori dell’inchiesta su tali ri­sposte erano il riflesso delle opinioni, sia di parte progressista che di parte reazionaria, sull’aspetto privato della ricostruzione po­stbellica. Qualunque cosa allora volessero, le donne non dovevano competere con gli uo­mini sul mercato del lavoro ma dedicarsi alle faccende di casa e ad allevare i figli42.

Le domande con le quali Riley affrontò gli orientamenti delle donne nel dopoguerra erano, come lei stessa ammise, piuttosto in­dirizzate. Invece di domandare perché le donne non volessero svolgere lavori retribui­ti o lottare per ottenere asili nido, sarebbe stato probabilmente più efficace ridurre il peso della indagine in modo tale da permet­tere alle questioni realmente importanti per le donne di venire a galla. Le fonti autobio­grafiche, incluse quelle orali, hanno offerto

questa possibilità perché tutte portavano i caratteri di uno sguardo rivolto al passato. Nel raccogliere tale materiale per il volume che ho scritto assieme a Gail Braybon43, ri­sultò chiaro che la decisione riguardante se lavorare o meno non era affatto la sola co­sa che le donne ricordavano delle loro espe­rienze del periodo bellico. È possibile segna­larne altre, molte di esse comportavano sia aspetti positivi che negativi per chi le aveva vissute. Un simile elenco includerebbe la possibilità di andare in diversi ambienti di lavoro lontano da casa, di frequentare altre persone, di sperimentare la separazione; di imparare diversi tipi di lavoro e trovarvi soddisfazione o noia; di assaporare nuove opportunità nella socialità e nuove modalità di corteggiamento così come di essere ogget­to di molestie sessuali; di fare i conti con la fatica e i problemi correlati alla nocività del lavoro; di confrontarsi con la penuria di ci­bi e vestiario e con le trasformazioni del­la fine della guerra; di provare la gioia di contribuire allo sforzo bellico come pure i dubbi riguardo al produrre strumenti di morte.

Era impossibile ignorare il fatto che molte donne rilevarono che la guerra comportò dei cambiamenti nelle loro esistenze e che molte la consideravano anche una fase cruciale in termini di cambiamento e di sviluppo a livel­lo personale. Come Mona Marshall, una giovane bambinaia del Lincolnshire che di­venne operaia metalmeccanica e intervistata quando era ormai settantenne nel corso del programma A people’s War trasmesso dalla rete Channel 4, riferendosi alla guerra, af-

40 Rimando rispettivamente al mio già citato saggio Women Workers in the Second World War (ed. 1989, p. 190) nonché, per una trattazione generale, ancora a P. Summerfield, Mass Observation on Women at Work in the Se­cond World War, “Feminist Praxis”, n. 37-38, 1992.41 Central Office o f Information, Wartime Social Survey, cit., pp. 12-13; Mass Observation, The Journey Home, cit., pp. 54-63.42 Cfr. P. Summerfield, Mass Observation on Women at Work in the Second World War, cit.43 Gail Braybon, P. Summerfield, Out o f the Cage. Women's Experiences in Two World Wars, London, Pandora, 1987.

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fermò: “Per me fu un salto grandissimo. Mi fece imparare a camminare con le mie gam­be, mi diede maggiore consapevolezza di me stessa”44. E Marjorie Wardle, di estrazione medio borghese, figlia di un industriale, dis­se che le sue esperienze di guerra nei servizi ausiliari femminili della regia marina diven­nero “il fondamento della mia esistenza”45. Entrambe erano giovani e nubili allo scop­pio della guerra. Per una donna più matura con figli giovani come Muriel Windle, il cui marito fu inviato in Estremo Oriente nel 1941 e non fece ritorno fino al 1945, la guer­ra fu più che altro una prova di sopravvi­venza. “Allora non si aveva proprio il tem­po di pensare, la vita doveva andare avanti, ogni giorno portava la sua routine e i suoi problemi e sovente era un caso a spingerti all’impegno seguente [...] tuttavia finì ed eravamo sopravvissute”46. La testimonianza autobiografica enfatizza le diversità delle esperienze del periodo bellico così come la loro importanza per le donne.

Il problema ora è combinare un approccio al tema donne, guerra e trasformazioni so­ciali che abbandoni le asserzioni esagerate secondo cui la seconda guerra mondiale emancipò le donne e riconosca che la guerra fu una esperienza di significato maggior­mente personale per molte donne. Allo stes­so tempo è necessario destrutturare la cate­goria ‘donna’ e domandarsi in quali modi gli effetti della guerra furono diversi per donne le cui condizioni di vita erano diffe­renti. Così bisogna conoscere le esperienze del periodo bellico, per esempio, di donne giovani e anziane, sposate e nubili, operaie o

appartenenti alla classe media, bianche e di colore, e in che misura i cambiamenti del periodo bellico nelle loro esistenze si sono messi in relazione rispetto alle tendenze di più lungo periodo. Le differenze etniche hanno appena iniziato ad essere studiate47. Comunque è possibile delineare le differen­ze nell’impatto della seconda guerra mon­diale a seconda dell’età, dello stato civile, come chi scrive ha iniziato a fare qualche anno fa e dire qualche cosa riguardo alle differenze di classe come ha fatto Margaret Alien48.

Esperienze diversificate

Le statistiche, così come le testimonianze personali, rivelano l’estensione e la perma­nenza dell’effetto della guerra sulla colloca­zione delle donne sposate e più anziane nella forza lavoro. Abbiamo già notato che la guerra contribuì a determinare una perma­nente espansione della percentuale delle la­voratrici che erano sposate dal 16 per cento nel 1931 al 43 per cento nel 1943 e nel 1951. Inoltre salì la percentuale di tutte le donne sposate che svolsero un lavoro retribuito tra il 1931 ed il 1951 dal 10 al 22 per cento. Sfortunatamente non esistono diagrammi attendibili della percentuale delle donne co­niugate impiegate nel lavoro immediatamen­te prima e durante la guerra. Comunque le stime per il periodo postbellico suggeriscono che la guerra determinò un andamento co­stantemente ascendente. Geoffrey Thomas stabilì che nel 1947 il 22 per cento di tutte le

44 A People’s War, Thames Television, Channel 4, 1985, interviste trascritte.45 Intervista rilasciata nel 1986; i materiali sonori sono in possesso dell’autrice.46 R. Windle, War and Social Change, (dattiloscritto non pubblicato), Durham University, Extra Murai Depart­ment, 1975.47 Cfr. B. Bousquet, C. Douglas, West Indian Women at War. British Racism in World war Two, London, Law­rence and Wishart, 199148 Cfr. P. Summerfield, Women, war and social change: Women in Britain in World War II, cit.; Margaret Allen, The Domestic Ideal and the Mobilization o f Womanpower in World War II, “Women’ Studies International Fo­rum”, n. 4, 1983, pp. 401-412.

Condizione femminile, produzione bellica e società in Gran Bretagna 387

donne sposate svolgeva un lavoro retribuito, la stessa percentuale registrata nel 195149.

Un analogo cambiamento duraturo si ve­rificò per quanto riguarda l’età delle lavora­trici. Prima della guerra le fasce d’età più giovani prevalevano largamente. Nel 1931 il 41 per cento delle donne che lavoravano era al di sotto dei 25 anni di età. Nel contesto del massiccio reclutamento bellico delle fa­sce di età adulta, la percentuale del gruppo più giovane cadde fino al 27 per cento nel 1943. Ma dopo la guerra non ritornò alla sua precedente consistenza. Nel 1947 solo il 24 per cento delle donne che lavoravano era sotto i 25. Le fasce di età al di sopra dei 35 mostrarono il maggiore incremento durante e dopo la guerra: nel 1931 il 32 per cento si trovava nella fascia tra i 35 e i 59 anni; nel 1943 era il 42 per cento e il 49 per cento nel 1947. Risultava che l’età media delle donne in condizioni di impiego era più elevata nel 1947 che nel 194350.

Le due serie di trasformazioni si presenta­rono congiuntamente. Geoffrey Thomas, autore di statistiche sociali relative al perio­do della guerra ed alla fase successiva ri­guardo alle donne lavoratrici, commentò che il conflitto aveva visto “una grandissima modificazione degli abituali modelli di im­piego” con particolare riferimento alle don­ne sposate e sopra i 35 anni51. Dopo la guer­ra le donne più giovani, nubili o sposate, la­sciarono l’industria. Esse erano il gruppo sociale più incline a considerare l’attività do­mestica come un’opzione full-time. Dichia­ravano di lasciare il lavoro per sposarsi, per fare un figlio e per far fronte ai doveri ed al­

le responsabilità della casa. Thomas applicò il test X2 di rilevanza statistica a tali ragioni, e trovò che “il matrimonio è di gran lunga il fattore più importante che dissuade le donne dal lavoro”, un fattore che supera di ben cinque volte la cura dei figli52. Sembra che l’abitudine di dedicarsi al marito ed alla casa fosse un deterrente più forte, rispetto al la­voro, della presenza di figli a dispetto dell’i­deologia della maternità del dopoguerra. I bambini in età prescolare erano un ostacolo ma “le donne sposate con figli intorno ai cinque anni e più lavorano con la stessa fre­quenza delle donne sposate senza figli”53. In verità il gruppo che il governo credeva che più volentieri volesse lasciare il lavoro alla fine del conflitto, le donne sposate e con fi­gli, continuò a svolgere una attività di lavo­ro extradomestico. Come ho segnalato pre­cedentemente, la guerra giocò un ruolo rile­vante nella transizione dalla situazione pre­bellica, nella quale la maggioranza delle donne che lavoravano erano giovani e nubi­li, a quella degli anni cinquanta quando la tipica figura della lavoratrice era una donna sposata più avanti negli anni e con figli54.

Le statistiche da sole non ci dicono nulla riguardo a come le donne sperimentarono tali trasformazioni. È vero che, come insiste Harold Smith, nel 1943 la maggioranza delle donne sposate “desiderava ferventemente di poter ritornare alle abitudini di esistenza prebellica”?55. Modificava in qualche modo le abitudini matrimoniali ed i ruoli domestici il fenomeno dell’uscita di casa per lavorare da parte di donne meno giovani, sposate e madri di figli sotto i 14 anni?

49 Geoffrey Thomas, Women in Industry: an Inquiry into the Problem o f Recruiting Women to Industry Carried out for the Ministry o f Labour and National Service, in Central Office o f Information, Social Survey, 1948, p. 8.50 Census of England and Wales, Occupation Tables 1931, London, Hmso, 1934, tab. 3; ma si vedano anche le in­chieste del Central Office o f Information, rispettivamente del 1944 (p. 1) e del 1948 (pp. 6-7).51 Central Office o f Information, Wartime Social Survey, 1944, cit., p. 7.5" Central Office o f Information, Wartime Social Survey, 1948, cit., p. 10.43 Central Office o f Information, Women, War and Social Change, cit. p. 8.4 P. Summerfield, Women, War and Social Change, in A. Marwick (a cura di), Total War and Social Change, cit.

55 L. Smith, The Effect o f the War on the Status o f Women, cit., p. 225.

388 Penny Summerfield

La politica governativa di reclutamento del periodo bellico dà l’impressione che le donne sposate furono lavoratrici riluttanti. Essa era basata sul presupposto che le donne sposate e meno giovani non potevano essere distratte dalle solite occupazioni del lavoro domestico e della cura dei figli e che le giova­ni non ancora sposate, la tradizionale forza lavoro femminile, dovessero essere il princi­pale destinatario della politica di mobilita­zione. Fu solo la grave carenza di manodope­ra che persuase il governo ad incoraggiare le donne a lavorare, nel marzo 1941, ed a pro­cedere alla loro precettazione nel dicembre 1941. L’operazione lasciava largo spazio a esenzioni determinate dalle idee prevalenti dell’autorità circa i doveri domestici delle donne. Per esempio la moglie senza figli di un militare in servizio non poteva essere spe­dita lontano a svolgere lavoro bellico finché fu considerato vitale che essa fosse disponi­bile per lui, nella ‘sua’ casa quando egli tor­nava in licenza. Soprattutto, mentre essere marito e padre non esentava nessuno da nul­la, nessuna donna poteva essere chiamata nelle forze armate e nessuna mamma con un figlio sotto i 14 anni convivente poteva essere indirizzata anche solo al servizio del lavoro locale. In tale situazione il problema era che non si liberava una quantità sufficiente di forza lavoro. Nel 1943 il governo prese due misure per incoraggiare le donne meno gio­vani ad entrare nei servizi civili del lavoro: innanzi tutto alzò il tetto dell’età per entrare nell’amministrazione dai quaranta ai cin­quanta anni; in secondo luogo iniziò ad indi­rizzare le casalinghe, prima dispensate, verso il lavoro part-time.

È forse quasi sorprendente che le donne sposate esprimessero dubbi durante la guer­ra riguardo allo svolgere un lavoro dipen­dente, specie nel contesto del conservatori­

smo delle pratiche di assunzione del padro­nato che tendeva a preferire delle donne giovani, nubili, bianche e inglesi rispetto a persone più mature, sposate, reclutate altro­ve, per esempio irlandesi o provenienti dalle colonie britanniche nei Caraibi. Una indagi­ne condotta nel 1941 rivelava che un terzo delle donne apparentemente disponibili non avrebbe voluto entrare nella produzione bellica a causa degli impegni domestici e dell’avversione rispetto alla prospettiva di lasciare la casa e queste ragioni dichiarava­no in particolare le donne più anziane56. Le più giovani, specialmente appartenenti ai ceti medi, erano più inclini ad accettare vo­lentieri il lavoro di guerra a causa dell’op­portunità di viaggiare, frequentare altre persone e apprendere nuove mansioni. I due più piccoli e più selezionati servizi armati femminili, il Wrns (Corpo ausiliario femmi­nile della marina) e il Waaf (Corpo ausilia­rio femminile dell’aereonautica), e l’Eserci­to territoriale femminile (Wla) erano parti­colarmente popolari in questo gruppo socia­le. Tutto sommato le donne giovani della classe media consideravano la mobilità, se temporanea, uno status relativamente eleva­to e una forma di impegno preferibile (e più patriottico) rispetto al continuare per tutta la guerra nel ruolo limitativo della “figlia di famiglia”57.

Per contro i dubbi delle donne più matu­re, se accettare o meno di entrare in servizio, si incentravano su considerazioni pratiche riguardo al modo in cui poter trovare un equilibrio tra le responsabilità domestiche e le esigenze del lavoro dipendente (un proble­ma con cui, come abbiamo visto, si dovette confrontare un numero crescente di donne negli anni cinquanta e successivamente). Molte criticavano la mancanza di chiarezza da parte del governo riguardo ad orari, livel­

56 Central Office o f Information, Wartime Social Survey, 1941, cit., pp. Ili e 6.57 Central Office o f Information, Wartime Social Survey, cit.

Condizione femminile, produzione bellica e società in Gran Bretagna 389

li salariali, eventuali permessi per la cura di figli e per le spese. Per esempio una donna di Coventry, sposata e con figli, appartenen­te alla classe media, rispose all’organizzazio­ne di ricerca sulla pubblica opinione, Mass Observation, nel 1941, che aveva inutilmen­te chiesto un lavoro part-time all’Ufficio di collocamento. “Ci potevano dare un lavoro a tempo pieno ma avremmo portato la guer­ra nelle nostre case se lo avessimo accetta­to”58. L’incoraggiamento ufficiale ai datori di lavoro perché organizzassero il part-time nel 1942-1943 e il tentativo di indirizzare verso di esso nel 1943 le donne meno giova­ni, sembra aver fatto diminuire le preoccu­pazioni delle donne riguardo alla gestione equilibrata degli impegni di lavoro e di casa. Il part-time certamente permise di reclutare molta manodopera: da 20.000 nel 1942 a 900.000 nel 1944. I padroni impararono ra­pidamente il vantaggio offerto loro visto che poterono assegnare le mansioni più monoto­ne, sgradevoli e meno pagate alle addette al part-time senza contraccolpi negativi sul­l’andamento della produttività59. Anche così comunque risulta nettamente evidente che il lavoro part-time era popolare tra le donne e che, come pensavano Myrdal e Klein, se fos­se stato disponibile sul mercato, esse lo avrebbero continuato anche dopo la guerra. Il Mass Observation raccolse una quantità di commenti come il seguente, espresso da una donna di 45 anni:

Vede, per me è la libertà. È un tale cambiamento dopo essere sempre stata in casa... la vecchia casa che conosci anche troppo bene. Ti fa sentire più giovane e ti fa sembrare più giovane andare al la­voro ogni giorno. Posso fare i miei lavori di casa

e le spese al mattino e lascio un po’ andare la mia casa ora. Mio marito torna a casa di sera e gli pre­paro una cenetta. E viviamo così. Ora non devo racimolare e mettere insieme ogni penny. Mi au­guro che si continui a far ricorso al lavoro part-ti­me60.

Non tutte le donne sposate e più anziane la­voravano part-time. Da un lato il Mass Ob­servation rilevò che alcune sentivano di aver bisogno di un lavoro a tempo pieno a fronte dell’assenza dei mariti e della crescita dei prezzi61. Dall’altro esistevano differenze tra le classi sociali. Non era difficile per una donna della classe media evitare perfino il servizio di lavoro bellico part-time. Margaret Alien citò fonti del ministero del Lavoro per indicare esempi di donne appartenenti ai ceti medi e sposate, che resistevano ai suoi sforzi di condurle a svolgere un lavoro differente da quello che avevano svolto prima del ma­trimonio, abitualmente come impiegate o in­segnanti62. L’inchiesta sociale del periodo bellico conferma che in pratica esisteva una notevole continuità nell’impiego tra prima e durante il conflitto per le donne che si trova­vano nelle categorie “professionali, ammini­strative e impiegatizie”63. Alien utilizzò le te­stimonianze autobiografiche per illustrare la riluttanza di queste categorie ad intraprende­re qualsiasi lavoro di guerra. Per esempio ci­ta una ex stenodattilografa il cui elenco delle esperienze di guerra era il racconto della fuga dalle grinfie del ministero del Lavoro. Que­sta donna svolse una attività impiegatizia part-time che essa giudicava preferibile per sé rispetto all’andare “in qualunque posto l’ufficio di collocamento avesse la possibilità di mandarmi”, quindi lo abbandonò ma più tardi trovò un impiego simile “per placare

58 War Work Coventry, 18 novembre 1941, in Mass Observation-Archive, Tc 66/4/C-H.59 “Part-time women... in the engineering industry”, Pro Lab 8/634 October 1942-January 1943.60 Mass Observation, The Journey Home, cit., p. 58.6' Mass Observation, The Journey Home, cit., p. 57.62 M.V. Allen, The Domestic Ideal and the Mobilization o f Womanpower in World War II, cit., pp. 410-411.

Central Office o f Information, Wartime Social Survey, 1944, cit., table 14, p. 9.

390 Penny Summerfield

l’Ufficio di collocamento” . Lasciò tale im­piego per prendersi cura della figlia diciot­tenne e rifiutò ulteriori offerte di attivi­tà part-time come segretaria: “da quando sono stata a casa a curare Joyce il Colloca­mento non mi ha più infastidita e sono stata perciò a posto con la legge per qualche tem­po”64.

Nondimeno, l’organizzazione di un “non casuale” lavoro per donne di tipo impiegati- zio, in fabbrica e nei servizi sulla base di un criterio di part-time fu, come la partecipa­zione al lavoro di donne più anziane e spo­sate, una eredità permanente della guerra ed il mezzo più importante attraverso cui que­ste donne entrarono nella forza lavoro du­rante il conflitto e successivamente. Nel 1947 approssimativamente un quarto delle lavoratrici era assunto part-time, nel 1973 la percentuale era salita ad un terzo65. L’esem­pio delle donne più anziane e sposate non sembra dare sostegno alla generalizzazione di Smith secondo la quale le donne svolsero il lavoro di guerra con rassegnazione e nel­l’attesa ansiosa di smetterlo. Le giovani non sposate sembravano, d’altra parte, aver avu­to più preoccupazioni riguardo al loro futu­ro dopo la guerra esprimendo ansie riguardo alle loro prospettive sia matrimoniali che di mantenimento dell’impiego66. Come indica­no le statistiche di Thomas esaminate prece­dentemente, alla fine della guerra le donne nubili o sposate al di sotto dei 35 anni erano le categorie più pronte a lasciare il lavoro ed a dedicarsi completamente al matrimonio. Risulta tuttavia evidente che alcune alla fine si annoiarono a svolgere esclusivamente la­vori domestici una volta che li ebbero speri­mentati ed è, presumibilmente, da questo

gruppo che sono stati reclutate le donne spo­sate, più avanti negli anni e lavoratrici part- time dei decenni successivi67.

Rivolgiamo ora lo sguardo alla questione se i cambiamenti del periodo bellico verso le donne sposate e meno giovani abbiano pro­vocato qualche scarto nelle abitudini matri­moniali e nei ruoli domestici. Smith sostiene che non ne provocarono, che non ci furono modificazioni della divisione sessuale del la­voro all’interno del matrimonio durante la guerra. Certamente i compromessi del lavo­ro part-time resero possibile una gestione normale della vita domestica, come la donna prima citata ha chiaramente testimoniato. Myrdal e Klein ed altri sostennero largamen­te il lavoro part-time perché esso non distur­bava la divisione dei ruoli sessuali68. I lavori di casa e le spese potevano esser fatti “intor­no” alle ore di lavoro, mariti e figli poteva­no fare i loro pasti principali a casa, inoltre era più facile organizzare la sostituzione del­la cura dei bambini più piccoli per alcune ore piuttosto che per tutto il giorno.

Il governo era quindi meno coinvolto nel trovare sostituti per la donna di casa, i dato­ri di lavoro non dovettero far fronte a un ec­cessivo assenteismo e le lavoratrici non si portarono “la guerra dentro casa” come ri­sultato della sfida ai tradizionali ordinamen­ti domestici rappresentata dal lavoro a tem­po pieno.

Risulta tuttavia evidente che la guerra contribuì a modificare le abitudini matrimo­niali, benché sia impossibile stabilire in qua­le misura. In numerose relazioni compare una certa insoddisfazione da parte delle donne riguardo al matrimonio durante e do­po la guerra. Per esempio il Mass Observa-

64 Margaret V. Allen, The Domestic Ideal, cit., p. 410.65 Central Office o f Information, Wartime Social Survey, 1948, cit., p. 3 ma si veda anche il lavoro di G. Routh, Occupation and Pay in Great Britain 1906-1979, London, Macmillan, 1980, p. 46.66 Mass Observation, The Journey Home, cit., p. 61.67 G. Braybon, P. Summerfield, Out o f the Cage, cit., p. 280.68 Cfr. il capitolo 10 del saggio di A. Myrdal e V. Klein, I due ruoli della donna, cit. ed i dati riportati in Political and Economic Planning, Planning, XV, n. 285, luglio 1948.

Condizione femminile, produzione bellica e società in Gran Bretagna 391

tion sosteneva che le donne rifiutavano par­ticolarmente il ruolo della “moglie che stava legata in casa, priva della libertà di movi­mento e impossibilitata a provare i diverti­menti della vita da single ed i piaceri esterni alle mura domestiche”69. E la testimonianza autobiografica, che ho citato altrove, mo­stra che perfino le donne che non intendeva­no continuare a fare un lavoro dipendente dopo la guerra pensavano che, dopo le espe­rienze del periodo bellico, non sarebbero tornate ad essere le casalinghe di prima. Zel- ma Katin dopo aver lavorato sugli autobus e i tram di Sheffield si convinse del fatto che suo marito dovesse dividere con lei il lavoro di rigovernatura dei piatti e di cura della ca­sa; il ruolo che Nella Last aveva svolto nel servizio volontario femminile locale cambiò il suo modo di vedere il marito e le diede la sicurezza per rivendicare una stanza tutta per sé70.

Quando Zelma e Nella sostennero convin­te che le mogli nel dopoguerra non avrebbe­ro voluto essere “tenute in gabbia separata- mente nelle loro sfere separate” e che “nel mondo di domani il matrimonio sarà — do­vrà essere — più che altro un rapporto tra eguali”, esse riecheggiavano una nuova or­todossia71 . I discorsi pubblici andavano pro­gressivamente enfatizzando le nuove abitu­dini matrimoniali che si fondavano sul rap­porto tra eguali, sulla collaborazione e sul­l’amicizia72. Vi era nondimeno una conside­revole incertezza riguardo all’opportunità di incoraggiare abitudini matrimoniali che te­

nessero le donne meno confinate nelle pare­ti domestiche. Alcuni attribuirono la re­sponsabilità sia della caduta del tasso di na­talità durante la guerra sia del numero cre­scente di divorzi durante e dopo il conflitto alla maggiore libertà delle donne all’interno del matrimonio, mentre altri si richiamaro­no ai modelli di amicizia e di reciprocità tra i coniugi come soluzione per entrambi i problemi. In pratica la politica fece poco per incoraggiare tali tendenze. Per esempio, benché William Beveridge mettesse in evi­denza che il matrimonio era un rapporto al­la pari, nelle sue proposte del dopoguerra per la sicurezza sociale la moglie era dipen­dente dai contributi del marito e dalle in­dennità che egli riceveva per lei. Le indagini degli anni cinquanta mostravano che l’idea­le di un matrimonio tra compagni era più diffuso tra le donne che tra gli uomini e che era raramente realizzato nella pratica73. Malgrado tutto, questo divenne il nuovo obiettivo del matrimonio, al cui raggiungi­mento la guerra sembra aver dato un signi­ficativo contributo.

Per concludere, ho raccomandato un ap­proccio al tema donne e cambiamenti socia­li nella seconda guerra mondiale che evi­ti affermazioni perentorie sull’emancipazio­ne o presenti un quadro inesatto di radica­li cambiamenti e improvvise inversioni o una ugualmente irrealistica rappresentazio­ne ove alla fine nulla cambia. Ho suggeri­to un approccio che rifiuta di prendere in considerazione la donna come una categoria

69 The State o f Matrimony, June 1947, p. 17, in Mass Observation Archive, File report 2495.Riferimenti più dettagliati in P. Summerfield, Women, War and Social Change: Women in Britain in World

Warll, cit., p. 109.Zelma Katin, Clippie. The Autobiography o f a war time conductress, London, John Gifford, 1944, pp. 49, 123;

R. Broad, S. Fleming (a cura di), Nella Last’s War: a Mother Diary 1939-1945, Bristol, Falling Wall Press, 1981, p. 255.

Una riflessione complessiva riguardo alle “nuove frontiere” del matrimonio nel saggio di J. Finch e P. Sum­merfield, Social Reconstruction and the Emergence o f Companionate Marriage 1945-1959 in D. Clark (a cura di), Marriage, Domestic Life and Social Change. Writings for Jacqueline Burgoyne (1944-1988), London, Routledge, 1991.

J. Finch, P. Summerfield, Social reconstruction, in D. Clark (a cura di), Marriage, domestic life, cit.

392 Maria Grazia Caminetti

omogenea, rendendo possibile identificare gli effetti dei cambiamenti della fase bellica in fasce sociali distinte. Su questo punto è necessario un ulteriore lavoro di ricerca spe­cialmente attraverso l’indagine delle diffe­renze etniche e di classe. Scomporre il sog­getto ‘donna’ in sottocategorie consente di osservare la ristrutturazione e ridistribuzio­ne della forza lavoro femminile anche se questa non aveva subito un rilevante incre­mento quantitativo né aveva usufruito di

migliori opportunità. Inoltre porta a mettere a fuoco il sorgere di nuove aspettative e di nuove norme sociali, anche se esse non furo­no necessariamente realizzate. In breve, mi sono convinta che vada messa in discussione la tesi che la guerra trasformò la posizione sociale delle donne, senza però gettare via l’acqua sporca con il bambino dentro.

Penny Summerfield[traduzione dall’inglese di Gianni Sciola]

Racconti delle donne di Ancona

Maria Grazia Caminetti

Ricostruire la memoria della seconda guerra mondiale, rispetto alla dimensione della quotidianità, nel racconto di donne ancone­tane, sia attraverso interviste sia attraverso diari coevi o memorie elaborate e scritte po­steriormente, è l’obiettivo di una ricerca av­viata da chi scrive con la collaborazione di un gruppo di ricercatrici1. Il lavoro si è rac­cordato, con intento comparativo, a quello di studiose di altre città con momenti di ri­flessione collettiva su obiettivi e metodolo­gie, attraverso seminari “itineranti” sul te­ma, svoltisi a Torino, Parma, Napoli, Anco­na, Bologna2. L’analisi si è per ora soffer­mata sui dati emersi dalle interviste fatte a donne della città di Ancona e della campa­gna circostante di età compresa tra i sessan­ta e i novanta anni, di diversa estrazione so­ciale, differente grado di scolarizzazione e diversa collocazione professionale.

Sono stati considerati elementi nodali da focalizzare: il rapporto tra percezione e me­moria, tra rilevanza del ricordo e rimozio­ne, tra soggettività interrogante e interroga­ta in un continuo movimento intersoggetti­vo. In particolare si è cercato di rintracciare negli elementi e nelle modalità della narra­zione e nel non detto, segni di mutamento di identità o di diversa percezione di sé e della realtà esterna, scaturiti dall’impatto con la guerra, con tradizioni e culture diver­se, cercando di “restituire soggettività”, di individuare “forme di autonomia e creativi­tà delle donne, in relazione tra di loro e con le realtà sociali segnate dall’appartenenza al maschile”3.

Lo scenario rivelatosi più utile per questa ricognizione è stato lo spazio/tempo dello sfollamento che nel ricordo delle donne an­conetane assume valenze particolari e sfac­

1 Hanno collaborato alle interviste: Marisa Galeazzi Saracinelli, Rossana Mazzuferi, Maria Grazia Salonna, Fran­cesca Saracinelli, Leonilde Speciale Totti.2 Torino ottobre 1991, Parma, Napoli febbraio 1992, Ancona giugno 1992, Bologna luglio 1992.3 Luisa Passerini, Storie di donne e femministe, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991.

Racconti delle donne di Ancona 393

cettate, a volte molto differenti da quanto emerge ad esempio nei ricordi di donne ro­mane e napoletane4. Anche gli elementi cro­nologici del racconto assumono una conno­tazione soggettiva, che non sempre corri­sponde al tempo “ufficiale”, e che per lo più coincide con immagini fortemente se­gnate da emozioni, con ferite dei sentimenti e della psiche. Le donne sollecitate a narra­re i loro ricordi di guerra hanno mostrato disponibilità ad essere intervistate, tutte hanno dichiarato che è fondamentale ricor­dare perché “la guerra è una cosa terribile che non deve ripetersi più” , “perché è terri­bile avere ammazzato la gente senza sapere perché”, “per evitare che ci sia un’altra guerra. Quando la televisione ci fa vedere immagini di guerra, io spengo, non si può vedere il terrore. Mi fa male, non sopporto la guerra. Subire un’altra guerra non è pos­sibile, non lo sopporterei” (A. Fallana). So­no concentrate, nell’elementarità di queste espressioni, che non hanno bisogno di or­pelli linguistici, la tragicità di un’esperienza che si vorrebbe irripetibile e la paura della sua insignificanza per le nuove generazioni: “i nipoti [...] ci dicono che eravamo stupi­de, che non capivamo niente” , “non credo­no a quello che raccontiamo”, “ora hanno tutto, come fanno a credere che vivevamo in quel modo?” . Ecco allora che nelle loro speranze l’istituzione culturale, incarnata nella figura della ricercatrice, sembra sim­bolicamente avere l’autorevolezza per supe­rare la barriera di incomunicabilità tra ge­nerazioni; avere un ruolo sostitutivo, opera­re cioè quella trasmissione di tradizioni che

per alcune avveniva nell’ambito familiare: la madre che aveva partecipato alla Settima­na rossa, il padre ferroviere repubblicano e antifascista licenziato perché non aveva vo­luto prendere la tessera del partito fascista; mentre per altre, poche, nel partito comuni­sta o nel movimento partigiano. Una donna di estrazione contadina ha invece dichiarato spontaneamente il proprio desiderio di usci­re dall’anonimato “voglio finire in un libro” (G. Refe).

In pochi casi si è palesata inizialmente diffidenza o reticenza nel raccontare, non sempre facilmente interpretabile, e spesso riconducibili a motivazioni diverse ed incro­ciate: paura del giudizio e quindi autodife­sa, sottovalutazione di sé e del proprio vis­suto, pregiudizi ideologici, ma non, appa­rentemente, impossibilità ad esprimersi per una avvenuta lacerazione interiore5. Grazie alla dinamica intersoggettiva, in un primo momento giocata dalle intervistatrici sulla ricerca di agio comune, di reciproco scam­bio6 e sull’esplicitazione del modo di proce­dere (sottolineando ad esempio il valore del­la dimensione quotidiana e dell’“occhio” che la guarda e della parola che l’interpre­ta), è poi scaturito il racconto. Ne sono de­rivati diversi problemi rispetto alla modalità dell’interrogare, a come far interagire le di­verse soggettività delle intervistatrici e delle intervistate, alla necessità di affermare il coinvolgimento e la “responsabilità” delle ricercatrici come interpreti7. È apparso fon­damentale tornare ad interrogare, “forzare” la memoria, distaccarsi dalla spontaneità del ricordare, come suggerisce Luisa Passe-

4 Si vedano le relazioni presentate al convegno di Vercelli del 1992 da Francesca Koch, Lo sfollamento nella memo­ria femminile. Proposta di lettura di alcuni testi dell’archivio diaristico, “L’impegno”, 1993, n. 1, e da Laura Ca­pobianco e Cesira D ’Agostino, La memoria delle donne di Napoli, qui pubblicato.

Cfr. relazione L. Capobianco, La memoria delle donne di Napoli, cit.Molto utile in proposito quanto osservato da Celia Kitzinger, The Social Construction o f Lesbianism, London,

Sage, 1987.7 Cfr. Ann Oakley, Interviewing Women: a Contradiction in Terms, in Helen Roberts (a cura di), Doing Feminist Research, London, Routledge & Kegan Paul, 1981.

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rini8. Questo ha significato riflettere su noi stesse, rivedere le nostre categorie interpre­tative e le aspettative ad esse connesse, espli­citarle e contestualizzarle per vedere se le donne sono state capaci di porsi come sog­getti nelle modalità storicamente possibili.

La ricostruzione del vissuto nel periodo del­la guerra e i modi di organizzazione della memoria. Due sono gli aspetti a prima vista inconciliabili che si evidenziano nel raconto di guerra delle donne: da una parte, la ripe­titività quasi monotona di alcune situazioni, che immediatamente suggeriscono l’idea di un mondo omogeneo, arcaico, chiuso all’in­formazione e incapace di rielaborazione9; dall’altra, attraverso lo scavo nella memo­ria, la pluralità di atteggiamenti e di modi di autorappresentarsi, nonché la diversa cono­scenza e percezione della realtà esterna.

Per tutte la guerra non sembra iniziare il10 giugno, anche se c’è un ricordo, sia pure vago, della dichiarazione di Mussolini, im­magine probabilmente restituita nel tempo grazie anche ai film luce, alle ricostruzioni televisive posteriori ecc.; o meglio sembra non esserci intervallo tra questo primo fram­mento e il fluire successivo dei ricordi che ri­porta sempre la sensazione di paura del pri­mo bombardamento dell’ottobre del 1943 o11 dolore per la partenza del marito, per la morte della sorella, del padre, dell’amico. Attraverso la lente dei sentimenti, infatti, si percepisce la tragicità del precipitare di una situazione, c’è un’accelerazione temporale nella memoria, da fotogramma cinemato­grafico, che prima sembrava molto rallenta­to su una immagine sfocata di preparativi di guerra, di stereotipi diffusi: “la guerra sem­brava lontana e poi [...] dicevano che sareb­be stata una guerra lampo [...] e poi ecco da

lontano gli aerei — così, senza nessuno stacco temporale e secondo un “tempo inte­riore” —, “si, c’era meno da mangiare, ma eravamo incoscienti” . Il caso di un padre capocaseggiato che ha in dotazione una ma­schera antigas viene percepito dalla figlia ragazzina come un elemento curioso più che preoccupante. Anche nel caso di donne ap­partenenti ad una classe sociale più elevata, con un grado superiore di cultura e capaci di maggiore riflessione su di sé, le immagi­ni, le impressioni non si discostano di molto “[...] il ricordo della guerra è di quello che si sentiva alla radio. Ricordo che — il 10 giugno — stavo sul balcone della nostra ca­sa in Piazza Cavour, vedevo la gente che passava. Avevo insomma questa emozione, ma di preciso... non ho saputo chiarirla a me stessa”.

Le donne che dichiarano di essere state consapevoli fin dall’inizio dell’immane tra­gedia che si stava preparando sono quelle che in seguito sceglieranno la lotta partigia- na e che quasi sempre hanno un padre anti­fascista (tranne in un caso in cui il modello è materno), attivo nel partito comunista, che ha fatto filtrare all’interno della fami­glia idee contrarie al fascismo, sia pure in una comunicazione percepita dalle figlie quasi sempre come insufficiente. Si potreb­be pensare ad una situazione legata a rela­zioni simboliche tradizionali, perché ad esempio nel racconto di una intervistata ap­pare l’immagine della madre e della nonna che trattengono le lacrime a fatica alla noti­zia dello scoppio della guerra, mentre del padre viene ricordata la frase “perderemo la guerra, ma il fascismo cadrà e questo sarà il modo con cui ci libereremo di Mussolini” (R.D.); ma le parole di altre danno rilievo a particolari diversi, a spazi di protagonismo

8 L. Passerini, Storie di donne e femministe, cit., p. 209.9 Per la cosiddetta questione marchigiana si veda Giorgio Mangani (a cura di), L ’idea delle Marche, Ancona, Il La­voro Editoriale, 1989.

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femminile, come Nedda Petrini che delinea i contorni di una scena riempita da “da donne in fila per il sussidio che — anche se non or­ganizzate — parlano del fascismo [...], che riuscivano a portare questa voce”, anche se poi aggiunge “erano le mogli e le sorelle di quelli che più tardi furono partigiani attivi” .

Le contadine offrono, come era prevedi­bile, data la situazione del sistema mezzadri­le marchigiano, un quadro di estremo isola­mento10: non c’è radio, la giornata è tutta concentrata sul lavoro dei campi “io partivo alla mattina alle sette e tornavo alle dieci di sera [...] chi veniva nei campi ad informar­ci?”; non ci sono occasioni di incontri, a parte la messa la domenica, con il padre da­vanti e le figlie in fila dietro che emerge per esempio nel racconto di una intervistata; o spazi di socialità, tranne la cosiddetta “ve- glietta” d’inverno alla sera, quando le donne della famiglia, la “vergara”, le figlie, le nuo­re, le cognate, cuciono insieme il corredo. È intuibile la tentazione da parte di chi inter­roga di cercare, in questi momenti di rela­zione femminile, spazi discorsivi significativi ed in questa direzione si sta ancora lavoran­do. Comunque, per tutte le contadine, la di­chiarazione di guerra coincide con la parten­za degli uomini della famiglia, con quella frattura affettiva che vuol dire impatto re­pentino e violento con una realtà fino a quel momento estranea ed anche aggravio di la­voro in termini di ore e di compiti. Ma le “voci”, spie dei giudizi, attraversavano que­gli spazi femminili quando una donna rievo­ca i fatti attraverso una curiosa sequela di espressioni e detti popolari, di cui le parole che seguono suonano come esempi indicati­

vi: “quando si diceva che iniziava la guerra si diceva ‘Mussolini con Hitler, facciamo la guerra, vincere vinceremo’ allora il re gli disse ‘cosa vuoi fare la guerra che non ab­biamo una camicia per uomo, cosa vuoi fare la guerra!’ E lui ‘o con l’oro o col ferro la guerra vinceremo’”; e per il periodo prece­dente, a proposito della guerra d’Africa “52 nazioni hanno fatto le sanzioni e il duce ‘l’I­talia sa far da sé’ e gli inglesi ‘l’impero ita­liano è piccolo’, rispose Mussolini ‘l’ho fat­to in sette mesi’” (G. Refe). Il giudizio sul regime appare contraddittorio, mediato co- m’è dai problemi legati alle condizioni di vi­ta e c’è un’ulteriore differenza tra le donne che appartengono alle famiglie di affittuari, mezzadri o piccoli proprietari. In questi due ultimi casi infatti si insiste spesso sul fatto che “Mussolini ha fatto molto per l’agricol­tura” , “con Mussolini la battitura e il conci­me li doveva pagare il padrone”, “è stato tradito [...] se non fosse stato tradito” , con una interpretazione lontana dalle conclusio­ni a cui sono giunti studiosi del sistema mez­zadrile marchigiano, che sottolineano la progressiva dequalificazione del mezzadro con la perdita graduale delle sue caratteristi­che principali di “comproprietario”, quasi in termini di “proletarizzazione” crescente11. Ma un’altra donna ricorda perfettamente che la propria famiglia comprò il terreno nel 1933 in un momento favorevole e che poi l’aumento del prezzo del grano, dilatato in modo spropositato nel ricordo, li ha “spez­zati di debiti” . È abbastanza evidente in questi casi la mediazione e il peso del pensie­ro paterno, tuttavia è ancora da chiarire l’intreccio di motivazioni che portano donne

10 Paola Magnarelli, Aspetti della società marchigiana dal fascismo alla resistenza, in P. Magnarelli et al., Aspetti della società marchigiana dal fascismo alla resistenza, Urbino, Argalia, 1979: Gianfranco Bertolo et al., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Milano, Feltrinelli, 1974; Ester Fano, Problemi e vicende dell’agricoltu­ra italiana tra le due guerre, “Quaderni Storici”, 1975, n. 29-30; Sergio Anseimi, Mezzadri e terre nelle Marche, Bologna, Patron, 1978; Giorgio Pedrocco, Storia dell’agricoltura nelle Marche dall’Unità a oggi, Urbino, Cueu, 1978.11 P. Magnarelli, Aspetti della società marchigiana, cit.

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che vivono in terreni situati a pochi chilome­tri di distanza a valutazioni tanto differenti. C’e tutta una gamma di giudizi, a cui si può solo accennare: alcune ricordano soltanto miseria e affermano “la colpa è tutta di Mus­solini”, altre delineano un rapporto tutto sommato positivo con il padrone del terreno “non ci ha fatto mancare nulla, ci ha fatto ri­fugiare nella sua villa”, “la signora che sape­va il tedesco è intervenuta, ha dato lonza e vino all’ufficiale e ci ha salvato”; nei ricordi di altre, con famiglie numerose e gli uomini che partiranno tutti per il fronte, appaiono fame e fatica, ma anche tanta ingegnosità femminile. Tuttavia, come emergerà meglio in seguito, la pur degradata economia di au­toconsumo sarebbe bastata a sfamare conta­dini e sfollati.

Anche nelle testimonianze delle donne di città, soprattutto di chi frequentava in quel periodo le scuole superiori o aveva un lavo­ro, il giudizio su Mussolini e il regime, alla vigilia della guerra, appare variegato e con­tradditorio, con un elemento però in comu­ne: quasi tutte evidenziano la capacità di rie­laborare personalmente gli avvenimenti, sia pure in fasi diverse. Emerge di frequente il conflitto tra il condizionamento a cui erano sottoposte nella scuola fascista, che si espri­me magari, sia nelle più semplici che nelle più avvertite, nel piacere di ritrovarsi in divi­sa, insieme ad altre ragazze, per gare di di­verso tipo, e l’atteggiamento critico dei geni­tori. Molte, infatti, appartengono a famiglie antifasciste, per una certa tradizione anar­chica della città che interessava anche le fa­miglie benestanti; mentre va ricordato che folta era la schiera di repubblicani o anarco — comunisti impiegati nelle ferrovie o presso i cantieri navali. In ciascuna risulta comples­sa la ricostruzione del conflitto interiore tra due referenti autorevoli e la conquista di un proprio punto di osservazione degli avveni­menti, con un rimpianto — quasi una rabbia diffusa — che il padre, il fratello, il cognato antifascista o comunista comunicassero poco

il loro sapere e la loro esperienza. Wilma Bacchielli racconta, ad esempio, di litigate con il padre che accusava di “non capire, di non saper vedere tutte le cose che le insegna­vano a scuola”, ma allo stesso tempo aveva “occhi per vedere” , per superare quel primo moto di eccitazione di fronte alla guerra sen­tita inizialmente come “una splendida avven­tura”. Ornella Tacchini racconta:il livello di informazione era a senso unico. Ricor­do in occasione della guerra d’Africa che noi stu­denti facemmo il funerale del negus al porto, con grande partecipazione, perché le cose ci venivano presentate in una certa maniera. Quando in casa si sentiva qualcosa di diverso eravamo infastidite [...] mio padre diceva a proposito della decisione di Mussolini di entrare in guerra: ‘È come se io fa­cessi a pugni con Camera’, frase che io mi guar­davo bene dal ripetere perché forse dentro di me pensavo che fosse un po’ disfattista. Poi è comin­ciata la realtà della guerra.

Olide Galeazzi non può perdonare il cognato Goffredo, comunista, confinato a Ventotene di non averle fatto capire in tempo: “avrei potuto darmi da fare, diventare una staffet­ta” . Ma c’è anche chi — sono però casi isola­ti — sviluppa sentimenti di odio contro il re­gime per un moto di ribellione contro un’in­giustizia: è il caso di Antonietta Bertini, di famiglia fascista, che lega questo suo stato d’animo al divieto da parte del padre a lei “estroversa e amica di tutti” di frequentare tra gli altri un compagno di scuola ebreo, emarginato dopo la promulgazione delle leg­gi razziali. E c’è infine chi, come Marcella Palma, continua a subire il fascino di Musso­lini, anche a guerra avanzata, malgrado la tragica morte della sorella durante un bom­bardamento, anche se molte sono le spie di un groviglio psicologico non facile da deci­frare: difesa dell’autonomia della propria scelta, rivalsa di classe.

I bombardamenti. L ’identificazione del ne­mico. — Il processo di cambiamento è in quasi tutte evidente quando la guerra arriva davvero in città nel 1943: allarmi, bombar­

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damenti continui, morti, distruzioni intere di quartieri, fame, una fame per alcune in­sostenibile “quando abbiamo cominciato a sentire che [...] la guerra non era una guerra di fronte, lontana da noi, ma che riguardava tutti”.

La parola che tutte hanno sulle labbra è “paura”, che sembra evocare una situazione costante in un tempo cristallizzato che solo a fatica trova una determinazione temporale (“dall’ottobre del 1943 al giugno del 1945: questa è la nostra guerra”) e che in alcuni racconti riporta, in un linguaggio spezzato ed estremamente sofferto, momenti di ma­lattia: “sono stata in un ospedale per due anni perché mi sono andate via le mestrua­zioni e sono stata malissimo...” e la madre aggiunge “abbiamo finito tutti i nostri soldi per comprarle le medicine, perché niente le faceva bene...”; o scene drammatiche di morte: “l’ho cercato per otto giorni... sotto le macerie... mi hanno mandato via... all’o­spizio dei vecchi dove avevano portato dei cadaveri... e poi di nuovo lì, alla stazione, dove scavavano ho visto una mano con un anello di fidanzamento... mia sorella aveva una bellissima mano... aveva vent’anni ed io ventiquattro” (M. Palma.). “C’è stato il bombardamento... c’erano quei tubi gran­di... mio marito ci ha infilati dentro i tubi... quando è finito siamo scappati via col bam­bino... io gridavo come una pazza... c’era un carro tutto coperto. Io ero stanca, mi sie­do lì... ero curiosa... sollevo la tela... e ho visto tutti i pezzi di morti che avevano già raccolto...” (R. Galeazzi), con un intreccio di tempi verbali nel raccontare, che fissa in un presente incancellato la scena.

Negli atteggiamenti è riconfermata spes­sissimo quella dilatazione del materno di cui parla Anna Bravo12 che, connesso ad un

sentimento diffuso di pietas che non trova cedimenti nelle donne, anzi si rinforza, ride­finisce di volta in volta il nemico, senza im­plicazioni ideologiche. I fascisti sono sempre peggiori dei tedeschi e se si dichiara l’odio per i tedeschi la memoria rinvia poco dopo una scena al centro della quale c’è il ragazzi­no tedesco in fuga pieno di paura, “che ha negli occhi la morte” o “una testa di ricci biondi allo scoperto, nel campo, staccata dal corpo e appoggiata sopra” per cui le parole gridate sono “figlio mio, te po’ trovà mam­ma tua!” e l’azione conseguente “sono an­data nel campo, ho preso una zappa [...]”. I tedeschi che, con il passaggio del fronte, oc­cupano le case dei contadini e rubano, “ru­bano per mangiare” e, nei racconti delle contadine, rubano sempre dai vicini (“che non ce l’avevano con noi, perché non era colpa nostra”) e sono “gentili” con le fami­glie di cui occupano le case. “Poi siamo di­ventati quasi amici... ci trattavano da perso­ne”: è la dichiarazione della stessa donna che ricorda i propri genitori non iscritti al partito fascista, che riescono a comprare un piccolo terreno, che ricorda bene i prezzi del grano, le regole mezzadrili, che aveva fatto la sesta elementare e amava leggere “La Do­menica del Corriere” .

C’è come uno spostamento continuo di fatti e responsabilità, di “sentito dire”, di violenze attribuite ai tedeschi che non si in­carnano mai in corpi conosciuti, in luoghi definiti, familiari e frequentati. Difesa del proprio “territorio” in senso antropologico? Parcellizzazione culturale e spaziale? Anche in questo caso bisogna vincere la tentazione di scegliere la motivazione più facile, che ha in passato prodotto da parte degli studiosi tanti stereotipi sulle donne contadine, poi smentiti dagli studi di storia delle donne13.

12 Anna Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma-Bari, Laterza, 1991.13 Cfr. ad es. Amalia Signorelli, Il pragmatismo delle donne. La condizione femminile nella trasformazione delle campagne, in Piero Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, vol. II, Marsilio, Venezia, 1990; A. Signorelli, Dai taccuini di ricerca sulle contadine meridionali, “Memoria”, 1982, n. 6.

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Autorappresentazione. — Infatti se analiz­ziamo i modi di rappresentarsi sia delle don­ne contadine sia delle donne di città, verifi­chiamo nel “pragmatismo” la modalità do­minante, non inteso come attitudine all’a­dattamento, come riduzione alla sfera bio­psicologica, ma secondo quanto dice Amalia Signorelli, come “il correlato culturale, il si­stema di conoscenze, valori e simboli che corrisponde alla parte pressoché universal­mente loro assegnata nella divisione del la­voro sociale: il lavoro della riproduzione e il lavoro della sostituzione”14.

Sono evidenti in questi spezzoni di auto­rappresentazioni femminili i primi segni di una coscienza che si connota come percorso soggettivo, come dialettica tra libertà e com­portamenti non liberi. Si è discusso molto e in modo controverso sulla velocità del cam­biamento culturale, sulle “uscite” dalla guerra delle donne, sul loro rapporto con la “modernizzazione” . Senza dubbio è in una congiuntura eccezionale, come quella belli­ca, che cambiano più facilmente e più rapi­damente le concezioni del mondo, vengono stravolti i valori di riferimento, ridisegnati i rapporti sociali. Ora è anche evidente che in un processo drammatico e complesso non può esserci una sostituzione repentina del nuovo con il vecchio, ma ci sarà un fluire di intrecci e di interconnessioni, non semplici­sticamente districabili, “di adeguatamento di ciò che è tradizionale al nuovo e di ade­guatamento del nuovo a ciò che è tradizio­nale”15.

Nelle autorappresentazioni delle donne anconetane emergono i segni di questo per­corso, le forme attraverso le quali nel perio­do bellico si è realizzata la soggettività intesa come “esercizio di capacità culturali, di scel­te esistenziali e di relazioni sociali”16.

Nel ricostruire la vita quotidiana in tempo di guerra moltissime delle intervistate deli­neano immagini di donne forti o comunque momenti in cui è significativa la loro capaci­tà di capire la realtà e di intervenire su di es­sa, assumendosi anche responsabilità e com­piti, che fino a quel momento non facevano parte del loro vissuto: non risulta a tal fine discriminante il grado di consapevolezza e di impegno politico. Adriana Ciasca è stata staffetta partigiana e moglie di partigiano, ma il modello di riferimento è la madre, di Comacchio, che aveva fatto il primo sciope­ro delle mondine, definita “una donna intel­lettuale che scriveva per tutta Ancona”. Con parole potenti e ancora piene di entusiamo descrive le donne di Capodimonte (uno dei quartieri di Ancona, dove più forte era la protesta popolare) che manifestavano per il pane e l’olio “andavano giù... proprio rivo­luzionarie... la polizia mi prende ‘assassini, si muore di fame’. Eravamo tutte donne...”. È anche la stessa che racconta la presenza di spirito della cognata che la salva da un grup­po di tedeschi che cercavano donne, guidati da un fascista del paese dove erano sfollate (Polverigi). Il valore che si dà alla costruzio­ne di un rapporto tra donne, alla solidarietà e al crescere di una coscienza femminile di fronte al doppio sfruttamento del padrone e del regime emerge con chiarezza nella storia di Derna Scandali, di famiglia operaia, quarta elementare, con una madre definita “più intelligente” del padre, che le fa leggere Carolina Invernizio e le poesie di Gorki; operaia presso la fabbrica di confezioni di un noto fascista della città. Tanti sono gli episodi in cui appare tutta la sua capacità di comunicare con le operaie, di conquistare la loro fiducia, anche delle più diffidenti:” du­rante la mensa si parlava, c’era tanto mate­

14 A. Signorelli, Il pragmatismo delle donne, cit., p. 653.15 A. Signorelli, Il pragmatismo, cit.. Sul rapporto tra donne e guerra sono molti i testi usciti recentemente, vorrei ricordare fra gli altri Jean B. Elshtain, Donne e guerra, Bologna, Il Mulino, 1991.16 L. Passerini, Storie di donne, cit.

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riale da utilizzare, sul terreno concreto: la fame, i vestiti, le scarpe con le cartoline sot­to [...] era terreno per far capire che il fasci­smo ci avrebbe portato alla guerra” . È an­che la stessa, però, che rivendica, in quel coacervo complesso di atteggiamenti a cui accennavo sopra, una moralità di classe (“c’erano le impiegate che andavano con gli inglesi”)17 e che riconosce di essersi accorta della differenza tra uomo e donna non du­rante la Resistenza, ma dopo “mentre si di­ceva nel partito che l’uomo e la donna sono la stessa cosa, l’esempio dell’Unione Sovieti­ca, tutti i raffronti, io ero ammirata, però la differenza c’era, anche tra compagni. Potevi fare dieci volte di più, però prima di fare la scalata” . Anche le donne più lontane dalla politica e dalla sfera pubblica sembrano tro­vare una forza e una capacità di inventiva e di mediazione con l’esterno cha va mutan­do, sconosciute a loro stesse: energie inso­spettate nel trovare cibo e surrogati, nel ri­cavare scarpe e vestiti da materie prime im­pensabili, nel fare chilometri e chilometri a piedi, spesso incuranti dei bombardamenti, magari solo per recuperare una porta nella propria casa che serviva a rendere più vivibi­le lo spazio occupato durante lo sfollamen­to; coraggio e risolutezza nell’infrangere norme sociali: “ho rubato, ho rubato anche un bicchiere e un cucchiaio al prete” , per poi dire “toccava alla donna fare questo, passava così” . Emerge anche nelle donne apparentemente più fragili una grande pre­senza di spirito che, in alcuni casi, ottiene il risultato di liberare i mariti restrellati dai te­deschi e avviati a costruire trincee, “È stata una mia idea, m’è venuto di andare, sono andata ed è andato tutto bene, un santo m’ha aiutata” (Margherita Leto); l’abilità e la costanza incrollabile nell’andare per uffi­ci, nel trattare con il governo alleato, con il sindaco per strappare una casa. Ci sono su

questo racconti rallentati, pieni di particola­ri, che sembrano seguire passo passo le tap­pe di quel calvario femminile. Le immagini maschili appaiono in gran parte sfocate nei racconti, figure — forse oltre le intenzioni delle donne — deboli, spesso oggetto di pie­tà rude anche nella scelta del matrimonio: “quella volta se loro decidevano di sposarsi, li mandavano a casa [...] così lui si racco­mandava di fare del tutto per farlo venire per sposarsi [...] io ero molto giovane [...] però per non farlo soffrire [...] comunque ci siamo riusciti a farlo venire e ci siamo spo­sati” (Adria Orsetti).

Il lavoro di guerra, in sostituzione degli uomini (riempiono uffici pubblici, banche, società zootecniche e portuali) è costante- mente descritto come una cosa “naturale”, che dà soddisfazione, ma per alcune è altret­tanto “naturale” alla fine della guerra la­sciare il posto agli uomini che tornavano dal fronte. Ma non è così per tutte e bisogna scavare maggiormente per capire quali sono le motivazioni profonde, nascoste dietro af­fermazioni tanto nette e riconducibili a pri­ma vista al ripristino dei ruoli sessuali tradi­zionali. Tante avrebbero voluto capire subi­to e rimpiangono di non essere state infor­mate e aiutate. Per alcune la memoria rinvia immagini che non piacciono, che non appar­tengono più, che alludono ad un sofferto percorso di cambiamento interiore: “Questo è il grave: non abbiamo vissuto profonda­mento le cose. Mio marito più di me, era cresciuto in una famiglia borghese dove non si parlava di politica ma solo di guadagnare quei quattro soldi [...] Allora ero passiva e oggi disprezzo queso modo di comportar­mi” (E. Chiodoni). Il giudizio presente sul sé di allora appare più severo di quanto i fatti e gli episodi narrati possano far pensare e non rendono giustizia a quella giovane donna, madre di due figli, che uscita dalla

17 Anche nelle testimonianze di altre donne compare un giudizio severo sugli inglesi, che vengono descritti “sempre ubriachi, correvano come pazzi sui loro camion indifferenti alla gente investita e uccisa”.

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tragedia della guerra trova la forza di sce­gliere — in totale contrasto con l’ambiente familiare — di lavorare alla Camera del la­voro di Ancona, di leggere libri fino a quel momento considerati proibiti e di frequenta­re il partito comunista.

Lo spazio-tempo dello sfollamento. — È stato osservato come il rifugio (grotta, cuni­colo, sotterraneo) muti in tempo di guerra il suo tradizionale valore simbolico, da simbo­lo di morte a simbolo di vita: realisticamente luogo di riparo, di socialità sia pure coatta. Nei ricordi delle donne di Ancona è “la trappola per i topi” , il cunicolo scavato a caso o la cantina che come tale può trasfor­marsi solo in una tomba (e lo divenne dav­vero proprio nel rifugio ritenuto più effi­ciente, presso il carcere cittadino di Santa Palazia, per tante donne e uomini, comprese centinaia di “orfanelle”, tramandata imma­gine di orrore). Meglio correre allora fuori città per i campi, che si caricano a loro volta di valori simbolici. La campagna, nei rac­conti delle donne anconetane, diventa la so­pravvivenza, il rifugio-libertà del periodo dello sfollamento. Lo si può sostenere con sicurezza pur nella varietà delle situazioni evocate, legate, come è prevedibile, ancora una volta alle condizioni sociali ed economi­che. Poggio, Varano, Camerano, Loreto, Ostra, Polverigi, Osimo, ma anche paesi più lontani come Corinaldo, Montecarotto, Sas­soferrato, Arcevia ecc. delineano una geo­grafia dello sfollamento spontaneo delle fa­miglie a seguito dei primi bombardamenti, che non coincide affatto con il piano di sfol­lamento preparato dalla prefettura dopo l’8 settembre, in previsione di un attacco alla

città che, con il suo porto e il suo nodo fer­roviario, rivestiva un ruolo importante per l’approvvigionamento delle forze militari te­desche, schierate più a sud per bloccare l’a­vanzata degli alleati. Lo sfollamento doveva avvenire in più fasi e per rioni, ma di questo non c’è traccia nella memoria delle donne, anche perché la popolazione fu tenuta in­spiegabilmente allo scuro del piano di eva­cuazione18.

Il ricordo dell’esodo inizia dopo le prime bombe alleate sganciate il 16 ottobre del 1943 sulla stazione di Ancona, il 20 dello stesso mese su quella di Passo Varano e Lo­reto, il 1° novembre sui quartieri più antichi e popolari nelle vicinanze del porto, che causarono migliaia di morti. L’esodo seguì direttrici legate a relazioni di parentela e di conoscenze e, solo nelle situazioni più diffi­cili, a indirizzarlo furono il caso e la dispe­razione; durò quasi per tutti fino alla libera­zione, nella primavera/estate del 1944. Su questi elementi concordano tutte le testimo­nianze. Ma, come in altre zone italiane, si ri­propone un’antitesi tra due situazioni limi­te19: da una parte una rottura repentina con il mondo domestico, con le forme di sociali­tà precedenti, con i ritmi e i riti imposti dal lavoro familiare ed extrafamiliare, spesso in una sorta di riduzione “allo stato di natura” che si identifica con la perdita di oggetti simbolici, della casa, quasi sempre distrutta dai bombardamenti, dei mobili e delle mas­serizie, che provacano spesso i ritorni a piedi in città (“chilometri e chilometri”) per una ricerca affannosa tra le macerie, tra un bombardamento e l’altro, con il rischio per alcuni/e di morire in quel tentativo di ricon­quista della “proprietà” . Dall’altra la crea-

18 Roberto Lucioli, “Occupazione tedesca, sfollamento e Resistenza in provincia di Ancona (1943-1944)”, tesi di laurea, 1988; Prefettura di Ancona, “Piano di sfollamento per la città di Ancona e Jesi”, dattiloscritto senza data, in archivio dell’Irsml Marche.19 Alessandro Portelli, Assolutamente niente. L ’esperienza degli sfollati a Terni, in Nicola Gallerano (a cura di), L ’altro dopoguerra, Roma e il Sud 1943-1945, Milano, Angeli, 1985; Sandra Lotti, Donne nella guerra: strategie di sopravvivenza tra persistenze e mutamenti, in Giorgio Rochat, Enzo Santarelli, Paolo Sorcinelli (a cura di), Linea Gotica 1944, Milano, Angeli, 1986.

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zione di nuove forme di comunità e sociali­tà, di nuovi aggregati solidaristici.

Il flusso è unidirezionale, dalla città alla campagna, il nuovo spazio di vita è costitui­to dalla stalla, da una stanzetta in una casa di contadini, nei casi più fortunati la villa padronale che, oltre agli anconetani, acco­glie a volte sfollati amici provenienti anche da altre parti d’Italia e gli stessi contadini le­gati da un rapporto di lavoro (coloni o mez­zadri).

Il “terreno” di incontro e di mediazione è, per quasi tutte le situazioni, la famiglia este­sa. Ricorrono con altissima frequenza espressioni di questo tipo: “ [...] abbiamo avuto tanta paura, ma eravamo tutti insieme (e qui segue l’elenco di tutti i familiari), si mangiava insieme, si stava bene”.

Mentre per le donne di altre città, Pesaro, Terni, Roma20, lo sfollamento è rappresen­tato come un periodo buio da cancellare, nel ricordo delle donne anconetane si carica di valenze positive, assume un valore liberato­rio, quasi proiezione di un mondo “elemen­tare” sognato e sospensione acronica: il cibo non manca mai, i contadini sono quasi sem­pre generosi, grande è la solidarietà. Così lo descrive Rossana Duca, allora studentessa liceale, attualmente medico:L’epoca dello sfollamento è stato un momento di grande solidarietà. Quella è stata la guerra per noi. Lì sì la gente era solidale, sia da parte della gente che ci ha accolto in casa sia da parte degli anconetani che non si sono fatti malvolere. Un’e­poca di solidarietà in tutti i sensi: mangiare, ve­stire, scambio merci, lavori artigianali. E poi la gente che è stata nelle grotte... era qualcosa, un modo di essere tra persone, che poi non c’è più stato. Un momento temporaneo, finito il perico­lo si riprendono i vecchi individualismi.

Se prendiamo in esame i racconti delle con­tadine, vediamo che non si discostano di molto.

Loro sono venuti a chiedere lo sfollamento. Noi non li conoscevamo. I rapporti erano buoni, co­me una famiglia, poi ci siamo rivisti in seguito, nel loro bar. Erano due, moglie e marito. Per mangiare mia suocera faceva tanto per noi, tanto per loro; il bestiame nostro c’era, e come fami­glia stavamo bene, da mangiare c’era per tutti” (Adria Orsetti).

Poi gli sfollati... sono arrivati... c’era una cop­pia con otto figli. Sono stati nostri ospiti nella ca­sa nostra che però era tutta rotta; c’era però una capanna. Mio padre li ha accolti, loro venivano da Posatora: sono partiti di pomeriggio e nessu­no li aveva ospitati. Sono arrivati con i figli, stanchi. Nel magazzino c’erano i buchi nel pavi­mento. Poi ha aggiustato la capanna... per letto ci ha messo il carro con cui si trasportava l’er­ba... la sfollata mungeva... loro ci davano una mano per lavorare... passavamo le giornate tutti insieme (Nazzarena Fabietti).

Quest’ultima è la stessa donna che quasi grida a proposito del regime “chi veniva nei campi ad informarci?” e sembra rim­piangere, nel ricordare, il senso di comuni­tà avvertito nella convivenza con gli sfol­lati.

Certo se osserviamo bene nelle pieghe dei racconti le diversità di situazioni emergono: Gina Refe (di famiglia contadina) ricorda che al Poggio si moriva di fame, che gli sfollati andavano a tagliare gli alberi dei proprietari per riscaldarsi, e che i contadini per paura dei padroni in un primo momen­to li fermavano, ma poi li lasciavano fare perché afferma “È brutto a pensarci bene, anche a trovarsi fuori casa, dover lasciare la casa, senza mangiare, senza niente, se gli dai un pezzo di pane, un bicchiere d’acqua è qualcosa che si può fare” . Altri fram­menti di storie di donne emergono a fatica, delineando della stessa piccola frazione di Ancona un’immagine angusta, cristallizza­ta su una mentalità chiusa ed arcaica: Ani­ta ha il marito in guerra, vuole il suo bam-

20 A. Portelli, Assolutamente niente, cit.; S. Lotti, Donne nella guerra, cit.; F. Coch, Proposta di lettura, cit.

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bino (“si diceva che il padre fosse uno sfolla­to”), ma viene cacciata dalla sua famiglia di origine e dopo aver partorito muore sola, per un’emorragia, per aver camminato tanto sot­to la neve, dall’ospedale anconetano al suo paese. Storie drammatiche accanto ad esem­pi di frode e grettezza (“ci costringevano a Castelfidardo a mangiare i polli ammalati”), oppure il riemergere di frasi pronunciate per spaventare i bambini di allora (“Stai zitto se no ti faccio mangiare dagli sfollati... gli sfol- latacci”), ma sono ricordi sporadici, la me­moria sembra nella maggior parte dei casi voler ricomporre le dissonanze.

Indubbiamente, tra le donne di città, la percezione delle madri di famiglia è diversa rispetto a quella delle figlie giovanette. Gli uomini sono quasi assenti, per cui le più an­ziane si assumono la responsabilità della fa­miglia allargata: si muovono molto per cer­care il cibo, soprattutto sale, zucchero o og­getti da barattare con i contadini, affronta­no lavori del tutto nuovi, nei campi, ma an­che a livello artigianale (Marcella Palma ad esempio fa borse a rete che poi baratta; le sorelle Galeazzi si improvvisano parrucchie­re — per le polacche però — in cambio di carne). Tutto questo contribuisce a mutare il ruolo femminile e la percezione di sé. È in questa fase che le donne mettono in campo tutta una serie di strategie di sopravvivenza che le fortifica, le attrezza anche alla con­trattazione con i tedeschi, durante il passag­gio del fronte e con le truppe alleate. Anche se le differenze di classe risaltano in questo periodo: “Avevo la donna che passava il fronte, andava a prendere il latte, nonostan­te ci fossero i tedeschi” (Laura Archibugi).

Le giovani invece sperimentano nuove forme di socialità; ricordi di spensieratezza, delle corse per i campi con i figli dei contadi­ni, dall’allegria e dell’amicizia; nei racconti

appare anche un professore “molto simpati­co, di matematica, che si muoveva da un paese all’altro con la sua bicicletta ‘puppa- tella’ per prepararle ai futuri esami” . Tra lo­ro c’è anche chi affronta fatiche fino allora impensabili, per lo status a cui apparteneva, e che matura un diverso punto di vista sugli avvenimenti. Ornella Tacchini ricorda:

I problemi erano delle donne. Gli uomini se li ve­devano [i tedeschi] li portavano via, perché raz­ziavano tutto il bestiame che bisognava accompa­gnare per farlo camminare. Quindi uomini di qualsiasi età venivano presi... gli uomini doveva­no stare nascosti e facevamo tutto noi donne. Ri­cordo le vesciche sulle mani per spingere un car­retto, perché c’era un mulino fuori Ostra, aperto e dove si poteva prendere la farina. I primi tempi era un sogno il pane di Ostra, a confronto di quello con la cenere di Ancona21. Lì invece anda­vamo al forno e tornavamo con le pagnotte sotto il braccio. Poi, a un certo punto, non c’era più niente.

I tedeschi in ritirata, gente che era scappata do­po essere stata impegnata col fascio e che aveva in mano l’organizzazione del paese. Non c’era più niente. Ricordo quando siamo andate noi donne a prendere la farina [...] poi dovevamo spingere i carretti, tanto che ci sembrava di essere diventati proprio animali; sputavamo sulle mani [...] Andavo io, mia madre cercavo di non farla venire perché aveva un carattere molto emotivo. Io invece mi controllavo meglio. Anche con i te­deschi. Poi col fatto che avevo studiato tedesco al liceo...

Grazie alla conoscenza della lingua e alla sua determinazione Ornella riuscì a convin­cere un capitano viennese ad utilizzare i par­tigiani nascosti nel campanile della chiesa di Ostra soltanto per scavare trincee. Per un’altra, Anna Pucci, si interrompe brusca­mente il periodo “spensierato” dello sfolla­mento quando assiste a violenze e ruberie ad opera di noti fascisti della città, lei che si era

21 Per il problema alimentare cfr. tra l’altro Luigi Cavazzoli, La gente e la guerra. La vita quotidiana del “fronte interno”. Mantova 1940-45, Milano, Angeli, 1990.

Racconti delle donne di Ancona 403

dibattuta fino a quel momento — ed il con­flitto interiore è tutto ricostruito nella testi­monianza — tra sentimenti di amicizia per ragazzi ebrei e per ricchi giovani di famiglia fascista:

La seconda guerra mondiale ha fatto sentire so­prattutto alla popolazione civile, che era impre­parata, la tragedia generale: bombardamenti, de­portazioni, pericoli di tutti i generi, smembra­mento delle famiglie. Mi ricordo di una famiglia in cui un figlio era andato a combattere con gli inglesi, un altro si era dovuto presentare qua, e la madre diceva che un giorno si sarebbero sparati tra di loro. Io mi auguro che non si ripeta più una cosa di questo genere, perché ha sorpreso i sentimenti di tutti, la vita di tutti è cambiata enormemente e penso che nessuno sia più tornato come prima, perché questa esperienza ha segnato tutti.

Segni di mutamento. Incontro /scontro con i partigiani. — È proprio attraverso l’espe­rienza dello sconvolgimento totale di un si­stema morale e sociale che si avvia un proces­so di mutamento delle coscienze, — che si­gnifica percepire in modo diverso se stesse in relazione ad una realtà non più rassicurante e immediatamente interpretabile — e matura­no atteggiamenti nuovi: per alcune si traduce nella partecipazione alla lotta partigiana, an­che se sulla loro decisione (“sapevo di fare una scelta inusuale” dice Derna Scandali) pe­sa molto anche l’ambiente familiare di riferi­mento (famiglie operaie e comuniste per al­cune, di tradizione socialista per altre, come Nanda Tiraboschi). La campagna diventa così il teatro d’incontro con la città non solo nella forma dello sfollamento ma anche in quella della guerra partigiana. Dice Derna Scandali: “senza contadini la guerra par­tigiana non si poteva fare” . Ma nei racconti di alcune donne intervistate, dove talvolta i toni diventano favolistici, i partigiani ap­paiono più come espressioni dell’immagina- rio che del vissuto reale, in una dimensione dai contorni riduttivi, riflesso di una perce­

zione particolare; abitanti di un mondo “eroico” ma lontano, oppure oscuro, che a volte incute timore o addirittura tiranneg­gia, riproponendo la bipolarità della situa­zione dello sfollamento. L’allentamento dei vincoli sociali abituali o del rapporto con il posto di lavoro determinano in questi casi la concentrazione totalizzante sui problemi connessi alla vita materiale e alla sussisten­za, pongono la centralità dell’affettività, au­mentano l’isolamento, accentuano il preesi­stente distacco dalla sfera pubblica e si esprimono in un atteggiamento di neutrali­tà. I frammenti di testimonianze, qui di se­guito riportati, vogliono illustrare e far ri­flettere proprio su questo aspetto della bipo­larità comportamentale delle donne:I partigiani volevano soldi e provviste, però non ci hanno fatto del male. Hanno portato via tante cose da mangiare... (Laura Archibugi).

Si stava sempre con la paura. I tedeschi sono venuti, hanno comandato, volevano da mangia­re. La mattina si diceva: ‘Chi verrà stamattina a Ostra, i fascisti o i partigiani?’ (Elena Barilatti, zia di Achille, medaglia d’oro della Resistenza).

Sapevo dei partigiani. Dove stavamo c’era un nucleo di partigiani che dipendevano da S. Seve­rino e avevano tutta la zona del monte chiamato ‘Buca d’aria’. Ne conoscevo uno di Castelrai- mondo. Lui si prendeva gioco di noi ragazzette. Un giorno è venuto — ‘dov’è tua madre?’. Lui era serio e mia madre uscì fuori chiedendo cosa volesse. ‘Devo tagliare i capelli a tua figlia perché va facendo propaganda fascista’ — ‘Mia figlia propaganda fascista? ma se è una ragazzina!’ (aveva sedici anni) — ‘Ragazzina? le cose che di­ce le ho sapute da fonte sicura. Su, su, dobbiamo tagliare i capelli’. È stato uno scherzo, capito? [...] Un giorno ho accompagnato mio fratello da un pastore perché l’aveva chiesto per pascolare le pecore. Un lavoro — aveva undici anni mio fra­tello — e tornava a casa una volta alla settimana.II contadino era un partigiano e un giorno disse ‘stasera non ti mando a casa perché è notte’. Io la notte sono rimasta lì, ma è stato tutto un corri corri di questi partigiani perché avevano preso un tedesco prigioniero e lo portavano su nella frazio­ne Quattro Case, c’era una torre antica e l’hanno rinchiuso lì. La mattina mi hanno detto cosa era

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successo e mi hanno detto di andare a casa. Io avevo paura, perché dovevo attraversare tutto il monte e i partigiani mi avevano impressionato— i mitra, i fucili —; io non volevo andare ma mi disse ‘ho avvertito tutti, tu puoi passare, puoi andare tranquilla’. Mentre ero fuori sull’aia si avvicina un uomo e mi chiede — ‘Di dove sei?’— ‘Vengo da Ancona, sono sfollata a Crispie- ro’ — ‘Tu mi faresti comodo per fare la staf­fetta’ — ‘Cosa vuol dire fare la staffetta?’ — ‘Devi portare la corrispondenza da una parte al­l’altra del monte’. Io mi misi a piangere. Il con­tadino uscì fuori — ‘Lasciala perdere, perché non può fare il lavoro che dici tu’. Sono scappa­ta. In alto alla (sic) montagna, da dove vedevo Crispiero, ho notato alcuni partigiani che mi correvano dietro. Però me la sono scampata” (M. Gherco).

“Poco abbiamo saputo della Resistenza, per­ché dalle nostre parti di partigiani ce ne sono stati pochi pochi. So solo che volevano dare proprio a me una tessera di partigiana perché quando sono passati gli alleati un ragazzino ha raccolto per terra un oggetto che era una bomba, l’ha buttata

La memoria delle

Laura Capobianco

Le fonti della memoria sono state utilizzate in questa ricerca per far risaltare la parteci­pazione delle donne al secondo conflitto mondiale. Né estranee, né innocenti simboli di pace1, le donne sono state coinvolte pro­prio perché la seconda guerra mondiale è stato un evento totale, combattuto all’ester­no ma anche all’interno della persona, co­stretta in tal modo nel ruolo di combattente indipendentemente dall’età, dalla classe, dal genere. Partendo da queste considerazioni

là, passava una motocicilista polacco e per poco non l’uccide. I polacchi, non sapendo che era sta­to un ragazzino, hanno cominciato i rastrella­menti, hanno rallestrato anche noi e ci hanno chiuso in un campo. Io ho chiesto in inglese cosa succedeva; questi mi hanno fatto fare da interpre­te con le altre persone per domandare le generalità ed altre informazioni: questo interrogatorio si è protratto dalle dieci di mattina fino alle quattro del pomeriggio poi il fatto si è chiarito. Quando sono andata in paese, il giorno dopo, il Comitato di liberazione che c’era, mi ha detto che mi avreb­bero dato la tessera di partigiana, io dissi che avrei dovuto chiedere in famiglia, avevo diciotto anni [...] A casa mio padre disse che io non avevo fatto niente per la Resistenza, solo un servizio ai nostri vicini e che non meritavo la tessera [...] Da noi, camuffati da partigiani, ma non lo erano... c’erano stati episodi poco felici: gente, né resi­stenti né partigiani (sic), ma volgari ladri, che si presentavano nelle case e si facevano dare pro­sciutto, olio, minacciando oscuri mali (A. Pucci).

Maria Grazia Caminetti

donne di Napoli

Cesira D ’Agostino

generali che emergono con chiarezza dai la­vori di Anna Bravo, Nuto Revelli, Maria Grazia Caminetti, la ricerca analizza il nesso donne e guerra nell’Italia meridionale met­tendo in evidenza, attraverso la memoria, lo sconvolgimento delle condizioni materiali, ma anche dei sistemi di valori, degli affetti, dei sentimenti. Volendo mettere alla prova, nell’area meridionale, le categorie frequen­temente usate dalla storiografia sul tema, quali ad esempio il carattere modernizzante

1 Su questo tema cfr. le tesi di Anna Bravo, Simboli del materno, in A. Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Bari, Laterza, 1991 e di Jean B. Elshtain, Donne e guerra, Bologna, Il Mulino, 1991.

La memoria delle donne di Napoli 405

della guerra2, l’estraneità delle donne3, la possibilità di uscire in vari modi dalla guer­ra4, bisognava superare gli stereotipi e osser­vare da vicino come le donne ricordano il lo­ro essere state “in prima linea” . Per rico­struire in storia il soggetto donna, sia sul piano simbolico che su quello materiale, bi­sogna tener conto di una molteplicità di va­riabili e saper rivolgere lo sguardo verso si­tuazioni particolari che restituiscano le dif­ferenze nella differenza di genere. Da questo punto di vista il locus belli e il vissuto perso­nale diventano variabili assai significative, tali da consentire la costruzione di cronolo­gie e topografie differenziate. È evidente che aver vissuto nel Nord o nel Sud dell’Italia può essere stato un elemento determinante nella decisione di distaccarsi o rimanere ade­renti al fascismo, come pure può aver porta­to ad identificazioni del nemico attraverso modalità diverse. Nello stesso Sud la guerra non è stata vissuta allo stesso modo: a Caiazzo, sede di episodi terribili come quello di Monte Carmignano, lo scontro armato si è protratto per pochi mesi e in maniera tan­genziale rispetto ad altri territori; Ortona, dove si è attestata la linea Gustav nel settem­bre del 1943, è diventata caposaldo opposto alla pressione dell’8a Armata fino a giugno del 1944; a Ponza la guerra è arrivata solo di

rimando, senza essere accompagnata.'dagli eventi distruttivi verificatisi altrove. Le don­ne difficilmente ricordano eventi precisi e coincidenti con la cronologia ufficiale, an­che il venticinque luglio e l’otto settembre spesso hanno poco risalto nei loro racconti. L’impressione complessiva che si ricava è che la memoria a tante voci delle donne non ricalca il calendario unico della storia perché ognuna evidenzia e sottolinea inizi e fine propri.

Diversamente che in altre parti d’Italia5, a Napoli non sono state reperite significative fonti autobiografiche scritte. Alcuni diari e racconti coevi sembrano eccezioni in quanto sono stati prodotti da donne non napoletane o con una formazione culturale diversa da quella della maggior parte delle donne di Napoli6. È possibile che molte abbiano scrit­to e che le loro lettere e i loro diari siano ri­masti nei cassetti e nemmeno la ricerca di questi anni sia riuscita a riportarli alla luce. Per questa ragione si è deciso di prendere in considerazione il fondo “La mia guerra” ed usarlo come elemento di confronto rispet­to alle testimonianze orali. Si tratta, com’è noto7, di una fonte non coeva ma realiz­zata nel 1990 in occasione di una trasmissio­ne televisiva della terza rete. Il mezzo tele­visivo ha restituito alla memoria una sorta

2 Sull’effetto di modernizzazione delle guerre cfr.: Ernesto Galli Della Loggia, La grande guerra e la memoria mo­derna, Bologna, Il Mulino, 1984 e Una guerra “femminile”, in A. Bravo (a cura di), Donne e uomini, cit.; Miriam Mafai, Pane nero, Milano, Mondadori, 1987; Gianfranco Vené, Coprifuoco, Milano, Mondadori, 1989.3 Sara Ruddick, Il pensiero materno, Como, Red edizioni, 1993, propone una tesi discutibile secondo la quale l’at­tività di madre produrrebbe ‘istintivamente’ e ‘naturalmente’ un pensiero pacifista e una prassi politica non vio­lenta.4 Guido D ’Agostino, La guerra a Napoli tra tedeschi e americani, “Quale Storia”, 1990, n. 1.5 La raccolta più importante su diari inerenti la memoria della seconda guerra mondiale è presso l’Archivio diari- stico di Pieve Santo Stefano. Interessanti osservazioni a riguardo in Francesca Koch, Lo sfollamento nella memoria femminile, “L’Impegno”, 1993, n. 1.6 Ad esempio il diario-racconto di Elena Canino, Clotilde tra due guerre, Milano, Longanesi, 1956.1 I materiali raccolti per la trasmissione “La mia guerra” sono stati consegnati dalla Rai all’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia e sono stati studiati da Anna Amendola, La mia guerra 1940-45: av­venture, gioie e dolori degli italiani raccontati da loro stessi, Milano, Leonardo, 1990; da Giovanni De Luna, La te­levisione e la “nazionalizzazione” della memoria storica, in Id., L ’occhio e l ’orecchio dello storico. Le fonti audio­visive nella ricerca e nella didattica della storia, Firenze, La Nuova Italia, 1993 e da Rosella Prezzo, La seconda guerra mondiale sul filo della memoria. Memorie e soggettività rammemorante. Il fondo “La mia guerra”, “L’Im­pegno”, cit.

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di legittimazione nel senso che esperienze soggettive fin qui tacitate e dalle amnesie dei percorsi di vita e dalla storiografia sono sta­te autorizzate a venire in superficie, in ma­niera spontanea e in forma di testo autono­mo. Più complesso è invece il discorso che riguarda le testimonianze, la cui raccolta è avvenuta in varie fasi, la prima delle quali sembrava far prevalere la rimozione. L’e­vento bellico, in alcuni casi, è stato troppo doloroso per poter essere ricordato o, alme­no, alcune donne non hanno trovato le pa­role per raccontarlo. Si tratta — se non per la drammaticità oggettiva almeno per l’im­patto soggettivo — di qualcosa di simile al­l’esperienza dei sopravvissuti dei lager, “un paradosso della memoria [...] impossibile da dimenticare e di cui risulta nello stesso tem­po impossibile la testimonianza”8. Le parole di una ebrea napoletana diventano al riguar­do particolarmente significative:

quel periodo l’ho dimenticato; fino a pochissimo tempo fa ho avuto la sensazione che non fosse vero niente di quello che mi era capitato.La guerra è proprio il Male; si abbatte sulla vita della gente ma per fortuna è una parentesi; i par­ticolari non si possono raccontare perché sono passati, sono fatti che ci si augura di non vivere più.

La guerra, racchiusa in una tranche defi­nita, non sembra interagire né con un pri­ma né con un poi, non costituisce un conti­nuum nel percorso dell’esistenza ma rimane confinata in una zona d’ombra altrimenti insostenibile. Nel complesso la maggior parte delle donne è stata disponibile ad es­sere intervistata, ma le testimonianze appa­rivano scarne, prive di partecipazione, sen­za spessore. In realtà, “silenzi, memoria, espressione nell’oralità e nella scrittura

hanno una fenomenologia strettamente col­legata alle situazioni storiche: la volontà di dire o di non dire si confronta con la dispo­nibilità ad ascoltare e capire da parte di un pubblico più o meno determinato”9. Da questo punto di vista le donne non racconte­rebbero perché non danno valore alla pro­pria esperienza ritenendola poco importan­te, e addirittura senza significato. Se ciò è vero sempre vale a maggiore ragione per la guerra, accadimento che in genere divide gli uomini dalle donne; i primi, infatti, hanno a disposizione un solco, un modello narrativo entro cui possono facilmente collocare la propria memoria. Non così le donne che, le­gate al quotidiano, hanno spesso contribuito a far ritenere la guerra ambito strettamente maschile.

Il procedere della ricerca ha consentito il graduale superamento della diffidenza e del­le reticenze grazie alla modifica delle moda­lità del rapporto tra le intervistate e le inter­vistatrici, ma anche all’effetto persuasivo e moltiplicatore dei mezzi di comunicazione di massa. Si è come aperto un varco per le mol­te voci che erano state compresse sin lì e molte difficoltà sono state superate. Con le donne che incontravamo si è prodotta una sorta di complicità e di interazione per cui se noi potevamo aiutare le testimoni a ritrovare parole e immagini efficaci — non esistereb­be, sostiene la Passerini a riguardo, una me­moria spontanea, ma si ricorda attraverso il legame con qualcuno che ha ricordato prima o insieme — le intervistate potevano aiutarci “a rivedere le nostre categorie interpretative e le aspettative ad esse connesse”10. Si è dun­que verificato, anche in questo caso, ciò che alcune storiche sostengono da tempo, che cioè le donne vivono in una doppia condi­zione di interno/esterno che le costringereb-

8 R. Prezzo, La seconda guerra mondiale sul filo della memoria, cit., p. 43.9 Ersilia Alessandrone Perona, intervento al Seminario “Raccontare, raccontarsi; parole, memoria, silenzi delle donne”, Torino, 23 ottobre 1991.10 Maria Grazia Caminetti, I ricordi delle donne di Ancona, qui pubblicato, p. 394.

La memoria delle donne di Napoli 407

be ad opporsi anche a se stesse. Capire in­fatti le voci delle donne che incontravamo significava capire e riconoscere i nostri stessi modi di interpretare. Formate culturalmente sul modello dell’emancipazione per quanto riguarda l’essere donne e sugli ideali resi­stenziali per quanto attiene alla guerra, non riconoscevamo in realtà i vissuti proposti da coloro che potevamo considerare nostre ma­dri. Si è così rimessa in moto la nostra stessa memoria, rimandandoci un passato rimasto inattuale e misconosciuto. Quei racconti li avevamo già sentiti, la nostra infanzia, la nostra adolescenza ne erano stati pieni. È stato scritto che è tipico dell’esperienza emancipativa il percepirsi in rapporto al fu­turo a partire dal presente, con un effetto di azzeramento del passato che si vorrebbe non esserci stato. In realtà erano stati anche i racconti di guerra delle nostre madri a fon­damento delle nostre scelte di cambiamento, così come quegli stessi racconti erano serviti a loro per superare i terribili anni del dopo­guerra e i lenti e faticosi anni cinquanta. Dalla guerra, le donne, come tutta la società meridionale, erano uscite all’indietro: rico­struire, per molte donne, ha significato ri­mettere in piedi il mondo precedente, riela­borando il vissuto della guerra attraverso modalità che consentissero, senza eccessiva sofferenza, questa operazione. Da qui pen­siamo che sia nato quel modo di raccontare che appartiene alla media e piccola borghe­sia di quella generazione nella quale si è an­data a consolidare una tradizione narrativa che è servita a dare senso ad un presente, in cui le spinte alla normalizzazione sono state forti e rassicuranti. Tradizione che si è co­struita dando espressione all’esperienza che urgeva dentro e che serviva a soddisfare un bisogno elementare di autoconsiderazione e

di valorizzazione: “Noi ce l’abbiamo fatta, siamo comunque state capaci di attraversare la guerra e uscirne indenni” . Tradizione che serviva anche per uno scopo di ammaestra­mento, per conferire al proprio rapporto con i figli, con i giovani, un’autorevolezza volta a giustificare e a far condividere i valo­ri del tempo fondati sulla parsimonia, sulla previsione, sull’evitare ogni forma di spre­co. Gli elementi di questa tradizione, che potremmo definire di donne borghesi, si so­no intrecciati e in qualche caso contrapposti con altri che appartengono ad una tradizio­ne più antica, in qualche modo più facile per noi da organizzare ed identificare perché più distante da noi, come resa estranea da un’al­tra appartenenza di classe. È quella che ab­biamo chiamata la tradizione narrativa delle donne del vicolo, che non hanno abbando­nato mai, nemmeno nel tempo di guerra, il luogo in cui sono nate e vissute11. Si propo­ne mediante un linguaggio materiato, pro­prio di chi non ricorre a forme di concettua­lizzazione, ma lega strettamente le parole ai corpi e alle cose, restituendo con immedia­tezza il concreto dell’esperienza. Alcuni ele­menti appartengono a tutte le testimonian­ze: non c’è adesione al fascismo, non certo per consapevole opposizione politica quanto per il permanere di un attaccamento alla monarchia che fa riconoscere esclusivamen­te nella persona del re e dei suoi familiari, oltre che nei simboli della regalità, i tratti protettivi e di riferimento. L’esasperato ri­cordo della fame, della mancanza di acqua e di ogni genere di elementare sussistenza, si accompagna alla descrizione, a volte diverti­ta, a volte drammatica, degli espedienti a cui queste donne hanno fatto ricorso: saccheg­gi, contrabbando, piccoli commerci alla borsa nera. Anche l’individuazione del ne­

11 La tradizione narrativa delle donne del vicolo è parte del lavoro del gruppo di ricerca sulla seconda guerra mon­diale dell’Istituto campano della storia della Resistenza. Una ampia trattazione è stata svolta da Rosetta Gervasio al Convegno “1943. La scelta, la lotta, la speranza”, Napoli, 29-30 settembre-1 ottobre 1993. Gli atti sono in via di pubblicazione.

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mico avviene attraverso ricordi di persone concrete: la tipologia dell’americano è di­stinta da quella tedesca ma entrambi sono ricordati come aggressori e in quanto tali vengono riproposti con risentimento analo­go. È evidente infine che il racconto si ripro­pone sempre nella forma dell’io e della pro­pria capacità di garantire la sopravvivenza e i destini della famiglia insieme al sentirsi ap­partenenti comunque alla comunità del vico­lo o del vicinato.

Tratti di una tradizione narrativa. L’imma­gine di Mussolini e l’entrata in guerra rap­presentano per le donne una diade. Al con­trario degli uomini che avrebbero rimosso gli anni della guerra fascista 1940-194312, le donne non mostrano imbarazzo nel rievoca­re il clima in cui vissero a Napoli i momenti iniziali della guerra. Nel complesso un’alta­lena di sentimenti: in molte c’è ansia e preoccupazione di fronte all’ignoto, la mi­naccia che urge dentro però si alterna alla festa e alla baldanza del fuori:La guerra per noi ragazze era una specie di av­ventura di cui non si intravedevano ancora i con­torni, ma quando vidi tutti i fascisti che scende­vano in strada e cantavano fui presa da un mo­mento di esaltazione.

Si visualizza in tal modo nel ricordo un’inte­ra collettività che conviene in un luogo che per la città ha sempre avuto un valore sim­bolico: la piazza del Plebiscito. Il quadro che viene delineato rappresenta tino spazio traboccante di gente, festosa e rassicurata dalla compattezza della massa; tutti atten­dono il discorso del duce e dalla sua voce ri­cavano l’orientamento, la rassicurazione e l’esaltazione che si aspettano. In queste don­ne in particolare è proprio la figura di Mus­

solini che veicola l’accettazione della guerra. La storiografia meridionale ha dimostrato come la popolazione del Sud è andata orien­tandosi sempre più verso Mussolini allonta­nandosi dal fascismo13. Il mito del duce si è affermato con forza nel Sud, da sempre go­vernato da un personale politico corrotto e percepito come incapace di interventi effica­ci nel sociale; a lui si attribuiscono capacità concrete: è efficiente, onnipresente, insieme capo ma anche padre protettivo. Mussolini diventa per le donne una figura emblematica dal momento che hanno ancora nel Sud grande valore i nuclei sociali elementari (fa­miglia, parentela, vicinato) all’interno dei quali vige una forte gerarchia per quanto ri­guarda i ruoli sessuali che attribuisce alle fi­gure maschili (padre, marito, sacerdote) pre­stigio e autorevolezza. Il duce, per queste donne, ha i tratti della figura di famiglia ma occupa un posto al di sopra di tutti; in lui si condensano le figure del padre, del condot­tiero e in qualche modo anche della patria:Eravamo tutte per il duce, talmente infatuate da vedere in lui un liberatore, un grande condottiero che risvegliava l’orgoglio nazionale.

È noto del resto che Mussolini ed il suo en­tourage erano riusciti a veicolare l’idea che la guerra sarebbe stata breve e vittoriosa:La guerra-lampo apriva alla speranza, si pensava che sarebbe finita presto e che Lui sarebbe stato capace di sedere con i Grandi al tavolo della pace per procurare grandi vantaggi agli italiani.

La guerra si sentiva perché quell’“Uomo” ave­va la capacità di trascinare tutti; la voce, le paro­le, il modo di parlare, l’abilità nel condurre il progetto era sempre convincente. Lui ci esaltò verso la guerra.

La dichiarazione di guerra, la guerra annun­ciata, si propone nei racconti come una sor-

12 Di rimozione parla anche Aurelio Lepre nel volume da lui curato La guerra immaginata. Teatro, canzone e foto­grafia 1940-43, Napoli, Liguori, 1989.13 La tesi è sostenuta anche da Paolo Varvaro, Una città fascista. Potere e società a Napoli, Palermo, Sellerio, cfr. in particolare le pp. 55-56.

La memoria delle donne di Napoli 409

ta di duplicato rispetto alla guerra reale, al momento in cui entra nel vissuto condizio­nandolo radicalmente. L’immagine positiva della guerra dichiarata non viene scalfita, si sovrappongono semplicemente gli eventi di­struttivi man mano che vengono percepiti nel proprio quotidiano con tutta la loro for­za dirompente. La guerra da immaginata di­venta reale quando si sperimenta in prima persona la difficoltà crescente nel procurare i beni di prima necessità, quando i bombar­damenti spezzano gli equilibri individuali e costringono a convivere con la paura. Si può parlare di un inizio diverso per ognuna delle donne intervistate:Cominciai a capire che c’era la guerra quando i giovani furono richiamati e cominciarono a par­tire. Eravamo sposati da pochissimi giorni, quan­do mio marito fu chiamato alle armi il mondo crollò all’improvviso.

Ma sono i bombardamenti l’elemento nuovo e dirompente per la popolazione civile:Quando cominciò l’inverno del 1941 capimmo che la guerra non era più quella che si combatte­va al fronte: gli inglesi infatti avevano cominciato a bombardare anche le città.

Per molte è il terribile bombardamento del 4 dicembre del 1942 a dare inizio alla guerra vera14. Si tratta del primo attacco aereo diurno, a ondate successive non dirette su obiettivi miliari ma sul centro della città che viene colpita con particolare violenza. Sara Girosi, la testimone che ne parla, ancora og­gi collega alla guerra via Monteoliveto, una strada del centro della città dove furono col­pite due vetture tramviarie cariche di passeg­geri, comprese lei e la madre:

Erano le quattro del pomeriggio, io ero uscita con mia madre a comprare alcune cose. Ricordo di aver sentito un rombo fortissimo, ho subito al­zato la testa e mi sono ritrovata in via del Chio­stro per lo spostamento d’aria. Né io, né mia ma­dre potevamo muoverci, sentivamo i lamenti dei feriti, vedevamo gente con la faccia a terra [...] ad un certo punto l’aereo è tornato e ha mitra­gliato di nuovo. Quella era la guerra, la vedevo per la prima volta; da quel momento non mi so­no più liberata di quei suoni, di quei rumori as­sordanti, di quel dolore.

Un’altra donna racconta che la sua guerra è cominciata dopo l’8 settembre, quando i te­deschi hanno cominciato a portar via gli uo­mini e a far sentire agli italiani il disprezzo che provavano verso di loro.Dicevano sempre con arroganza “sporchi italiani traditori” e sputavano a terra anche quando non ci facevano niente di male. Nella guerra gli italia­ni hanno fatto le spese dello scontro terribile tra gli inglesi e i tedeschi.

Per alcune donne infine la guerra è comin­ciata proprio quando a Napoli ha avuto ter­mine; si tratta di coloro che hanno cercato di sottrarsi alla violenza dei bombardamenti dell’estate del 1943 sfollando in Abruzzo; una donna in particolare ha raccontato di aver capito che cosa è la guerra quando è ri­tornata al suo paese di origine, Ortona, e qui, sola, senza marito e senza parenti si è trovata sulla linea di fuoco tra l’esercito te­desco e quello degli alleati che risalivano lungo la costa dell’Adriatico.

L’inizio della guerra dunque non è uguale per tutte, ma nel racconto di tutte compaio­no le limitazioni a cui si è costrette: il disa­gio materiale, la mancanza di viveri necessa-

14 Per i bombardamenti sulla città rimane ancora utile il testo di Aldo Stefanile, I cento bombardamenti di Napoli. Igiorni delle am lire, Marotta, Napoli, 1968. Anche le testimonianze de “La mia guerra” concordano sul carattere particolare del bombardamento in questione, il più dirompente per la vita privata e civile, tanto che la ricostruzione narrativa assume talvolta toni fiabeschi. Scrive Maria Di Maio: “ [...] ma un pomeriggio del 4 dicembre 1942, gior­no di S. Barbara, c’era la squadra navale nel porto. Rientravo dal lavoro a piedi, verso S. Giovanni a Teduccio, camminavo nei pressi dei ponti dei Granili, era il tramonto, guardando il cielo vidi molti aerei che sembravano do­rati; erano molto belli, proprio perché scintillavano nel sole [...] ma subito dopo cominciarono a sparare le mitra­gliatrici”.

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ri, la rinuncia a tutto ciò che costituiva la vi­ta precedente, i bombardamenti, l’esperien­za dei ricoveri, lo sfollamento. È l’affresco dolente del tempo della mancanza e della privazione. Per Anna la mancanza più forte è stata per i viveri:Desideravo fortemente lo zucchero, me lo sogna­vo ad occhi aperti [...] ero sempre affamata, ave­va voglia mia madre di ricorrere a trucchi nel ten­tativo di saziarci; finimmo con il non sedere più a tavola, perché ci guardavamo male tra noi, in at­tesa di poter rubare qualche cosa dal piatto degli altri.

Per altre, il dato più doloroso deriva dalla costrizione dei movimenti:Mi sentivo costantemente prigioniera, non si po­teva più uscire per fare una passeggiata, si era co­stretti a camminare rasente i muri solo per quelle strade dove sapevamo che c’erano i ricoveri. Ma le cose non erano uguali per uomini e donne; gli uomini durante l’oscuramento uscivano, noi non potevamo farlo.

Si avverte anche il venir meno di una possi­bilità di intimità, di uno spazio personale in cui poter stare da sola o con i propri fami- gliari: “Mi mancava il silenzio e la solitudi­ne, mi mancavano i libri e la libertà di stare con me stessa” .

Per tutte le donne la guerra è straniamen- to, sospensione della quotidianità, un conti­nuo sovrapporsi del fuori sul dentro. La so­pravvivenza, il mantenere se stesse e gli altri in vita continua ad essere “affare da don­na”, ma adesso si deve realizzare fuori dello spazio dzWoikos, anche quando la casa non è stata distrutta. Tutte sono costrette ad uscire, le più anziane ed esperte per procura­re cibo ed acqua, le più giovani per provve­dere ad altro, vestiti e scarpe, come se un re­siduo di senso estetico avesse fatto suddivi­dere i compiti nel tentativo di esorcizzare la

paura e la morte: “Noi ragazze ci demmo da fare: ci procuravamo le scarpe, i calzettoni, le stoffe per i vestiti. Io mi sapevo organiz­zare molto bene, mi facevo perfino cappelli­ni, ero considerata elegante” . Tutte, giovani0 anziane, sono state capaci, di fronte alla necessità, di sovvertire le regole, in qualche caso senza nemmeno riconoscere più la con­notazione trasgressiva; molte dicono di aver preso parte a saccheggi come se si trattasse di azioni naturali e di tutti i giorni. Scrive Antonietta nella sua testimonianza per “La mia guerra” :Così un giorno incominciarono a svaligiare i quartieri militari [...] chi correva e prendeva quello che c’era, io corsi e presi delle tovaglie da tavola per farmi dei vestitini e mi ricordo che era­no di un colore verde e bianco a quadretti piccoli.

Negli ultimi mesi del 1941 e dal dicembre del 1942 al settembre del 1943 per i napoletani la casa non può dare nessuna rassicurazione:1 bombardamenti sono continui soprattutto quando agli aerei inglesi si sostituiscono quelli americani, molto più precisi, con voli diurni volti a colpire oltre che obbiettivi mi­litari anche i centri abitati. La guerra viola il “dentro” della persona, i suoi affetti, la sua intimità. Grazia Rattazzi così si esprime:L’impressione più tremenda l’ho provata quando sono arrivati gli aerei, li chiamavano “le vacche volanti” perché arrivando producevano un rumo­re pieno, sordo, possente, seguito da quello lace­rante degli Stukas. L’apparecchio ti arrivava den­tro, ti colpiva senza difese.

Il ricovero, lo spazio chiuso in cui costringo­no i bombardamenti per molte ore, a volte per intere giornate, non consente di ritrova­re una forma di tranquillità personale simile a quella domestica, né fa nascere nuove for­me di socializzazione basate sull’aiuto reci­proco e sulla solidarietà15. C’è come un’im-

15 È noto che in altre città italiane l’esistenza collettiva assunse in guerra caratteristiche diverse. Si rimanda ad esempio al caso di Torino analizzato da Giovanni De Luna (in particolare il suo contributo A Torino, durante la guerra. Le coordinate dell’esistenza collettiva, in A. Bravo (a cura di), Donne e uomini, cit.).

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possibilità a dimensionare lo spazio, troppo ampio e incontrollabile quando si tratta del­le grandi cave di tufo nella Napoli sotterra­nea nelle quali si sta come se si fosse in una tana. Il ricovero casalingo, a sua volta, non offre né uno spazio sicuro né più accogliente nonostante la limitatezza delle dimensioni e, in molti casi, il vantaggio di stare con perso­ne conosciute: troppi i disagi, notevole la precarietà, evidente l’assoluta inadeguatezza di locali che mancavano di ogni attrezzature ed elementi di sicurezza16. In città esistevano ancora altri tipi di ricoveri come gli spazi sotterranei della metropolitana e i trafo­ri cittadini; erano per lo più assai frequen­tati, soprattutto dal proletariato urbano che vi aveva trasferito masserizie e suppel­lettili. Erano diventati in tal modo luoghi di grande confusione e promiscuità, dove c’era diffidenza e ognuno temeva dell’altro, chiudendosi in un’ostinata difesa del pro­prio.

Si camminava al buio, nessuno si riconosceva, ognuno teneva stretta la borsa in cui racchiudeva quel poco che aveva potuto portare con sé, so­prattutto le tessere annonarie [...] mia madre te­neva strette a sé me e mia sorella che era già una ragazza e ci diceva di non parlare con nessuno.

Solo lo sfollamento può essere una tregua e può servire a riequilibrare parzialmente il dentro e il fuori; in alcuni racconti il perio­do in cui ci si è trovati a contatto con la campagna17, senza i bombardamenti conti­nui e in un luogo in cui le ferite della guerra sono meno visibili, viene ricordato come

una pausa, il momentaneo allentarsi della paura, la ripresa di una qualche forma di esistenza:

Sfollammo a Piano di Sorrento presso una fami­glia amica; ci accolsero bene e stemmo meglio. Dalla campagna si ricavava di più e si riusciva a mangiare. La vita fu più facile.

Quando andammo fuori stemmo veramente bene: i coloni avevano tante provviste e noi face­vamo con loro ogni forma di scambio. Noi ragaz­ze — eravamo quattro sorelle — avevamo impa­rato a cucire e a ricamare. Per i contadini cuciva­mo vestiti e biancheria e loro ci davano i viveri.

In altri casi lo sfollamento ha rappresentato un’inaccettabile ritorno al passato, a model­li di vita tanto arretrati da far desiderare il ritorno in città con grande intensità; del re­sto soprattutto dopo l’otto settembre la rea­zione del mondo contadino rispetto agli sfollati diventa molto ostile, non è più possi­bile né solidarietà né scambio. Per alcune in­fine, come già detto, l’allontanamento da Napoli ha significato il ritrovarsi nel pieno della guerra, in condizioni di totale perdita, in un fuori definitivo, dove manca qualsiasi possibilità di orientamento.

Ci trovammo tra la controaerea tedesca e i can­noni e i bombardamenti degli inglesi. Fu l’in­ferno.

Per gli uomini l’identificazione del nemico in guerra è un’operazione necessaria: Fornari sostiene che “la colpevolizzazione dell’altro fa evitare il proprio senso di colpa che co­munque la guerra provoca”18. Jean Elsthain

16 L’insicurezza dei ricoveri ritorna in tutte le testimonianze. Fernanda Ventrella ricorda: “Mentre si stava pran­zando si sentì l’allarme. Mia madre, il mio fidanzato, con la sua intera famiglia, scesero nel ricovero di fortuna del­lo stesso palazzo. Si trattava di una specie di cantina insicura, con una parete non salda. Una scheggia colpì di stri­scio proprio qella parete. Crollò il palazzo e tutti rimasero sepolti sotto le macerie. I soccorsi giunsero in ritardo quando ormai per molti non c’era più niente da fare”.

Sono soprattutto le testimonianze de “La mia guerra” a rimandare un senso di liberazione e di benessere a con­tatto con la campagna. Scrive Mila Ambroselli: “Si mangiava bene ogni giorno, c’erano a disposizione grandi prov­viste, si arrostiva la carne sulla brace e la si mangiava all’aperto, accovacciati sull’erba, e i vecchi raccontavano sto­rie come favole”.

Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 40.

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a sua volta scrive che gli uomini “combatte­rebbero come incarnazioni della violenza le­galizzata di una nazione”19. Le donne invece0 perché eredi di tradizioni culturali che le ritengono fautrici della pace o perché co­strette dall’organizzazione sociale, non si immedesimano nella figura del combattente, per cui stentano ad identificare con precisio­ne il nemico20.

Dopo le sanzioni imposte per la conquista dell’Etiopia la propaganda fascista aveva tentato in tutti i modi di screditare gli inglesi anche attraverso slogan diffamatori. A Na­poli i risultati ottenuti furono abbastanza scarsi almeno a giudicare dal fatto che que­gli slogan vennero immessi nel variegato as­sortimento di canzoni, scherzi linguistici che circolavano tra le persone con una certa leg­gerezza, senza riuscire a far nascere senti­menti di grande ostilità. I racconti delle don­ne sono una riconferma di ciò. Nemmeno i bombardamenti hanno poi sedimentato un sentimento di odio verso gli inglesi perché, al contrario degli americani che “scaricava­no le bombe alla rinfusa e non solo su obiet­tivi strategici” essi “non colpivano diretta- mente la popolazione e poi ci trovavamo in guerra” . Più complesse sono le considera­zioni di queste donne per quanto riguarda i tedeschi: c’è sempre la consapevolezza di ciò che è accaduto in altre parti dell’Italia dopo l’otto settembre, ma a questa immagine fat­ta di violenza, terrore e distruzione si ac­compagna in parallelo quella costruita tra esperienza diretta ed immaginazione. Il te­desco spesso è rievocato come un giovane bello, guerriero ma gentiluomo, insieme af­fascinante e irraggiungibile:1 tedeschi erano molto disciplinati, garbati, edu­cati e distanti.

Erano belli, biondi, molto ben vestiti; colpiva­no la fantasia, non incutevano paura. Del resto erano i nostri alleati e davano un senso di sicurez­za. Io pensavo: i tedeschi hanno molte armi, per questo vinceremo.

Perfino Vanda Sacerdote che nel suo diario dello sfollamento in un paese al confine con l’Abruzzo ha scritto delle continue perquisi­zioni a cui sottoponevano la sua casa e di es­sere stata incarcerata per alcuni mesi perché scoperta ad ascoltare Radio Londra, propo­ne questo tipo di giudizio:

però io non ce l’avevo con i tedeschi: quando passeggiavo con le bambine per il paese stringevo amicizia con qualche soldato tedesco: erano co­mandati, non avevano colpe.

Molte testimoni riconfermano la difficoltà a riconoscere il nemico, in alcuni casi si fa strada addirittura la pietà, come unico senti­mento possibile in quel periodo terribile:

I partigiani stavano nascosti, gli italiani, i fasci­sti, cominciarono a sparare. Due soldati scappa­rono e furono raggiunti da vari gruppi che spara­vano alle spalle. Caddero sotto il mio balcone. Mi ricordo che dissi alla mia matrigna: — come sono giovani, mi fanno pena, chissà se la loro madre li sta aspettando —.

I tedeschi dopo l’armistizio mi sono apparsi di­versi, erano un pericolo. Provavo più simpatia per i partigiani, mi facevano pena tutti. Non so­no nemica di nessuno, nemmeno dei tedeschi.

Nelle memorie de “La mia guerra” la con­danna dei tedeschi è più marcata. Ci sono ri­ferimenti ad episodi di scontri armati tra te­deschi ed alleati, anche se spesso le vittime appartengono alla popolazione civile. Per quanto riguarda Napoli c’è un solo riferi­mento alle crudeltà perpetrate dai tedeschi durante le Quattro giornate quando avreb­

19 J.B. Elshtain, Donne e guerra, cit., p. 37.20 Le recenti esperienze di guerra, in particolare quella della guerra del Golfo, hanno prodotto mutamenti sostan­ziali anche da questo punto di vista; probabilmente è necessario ripensare il rapporto complessivo tra donne e vio­lenza. Interessanti riflessioni a riguardo sono state fatte da Anna Maria Bruzzone nel Seminario su “Donne e guer­ra” tenutosi a Napoli il 19 giugno 1992 e da A. Bravo nel Seminario di Vercelli.

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bero attirato nell’Albergo dei poveri, in piazza Carlo III, la gente invitandola a por­tar via le vettovaglie ammassate in quel luo­go, per poi sparare indiscriminatamente su tutti. La testimone Maria Di Pietro conclu­de comunque così il suo racconto: “Que­st’ultimo episodio non l’ho vissuto, ma mi fu raccontato da chi si era salvato

Per quanto riguarda gli americani tutte riconoscono di aver avuto qualche vantag­gio materiale dal loro arrivo, ma essi non sono presentati con i tratti dei liberatori; le scene di festa proposte dai cinegiornali del tempo e dai film del dopoguerra non vengo­no riconfermate: “Io non mi sono sentita li­berata, erano andati via i tedeschi con le ar­mi ed erano venuti gli americani con i loro atteggiamenti di falsi amici” . Si intuisce dalla narrazione il senso profondo di delu­sione che queste donne provarono. La guer­ra sembrava finita, in realtà alla fame, alla precarietà (i viveri continueranno a scarseg­giare a lungo e contemporaneamente si avrà un disordinato e incontrollabile aumento dei prezzi)21, va ad aggiungersi una nuova forma di sconvolgimento, dovuto ad un im­patto con forme diverse del vivere, violento per le particolari modalità con cui que­ste vengono proposte. Gli americani hanno uno stile di vita molto diverso da quello dei napoletani che non trovano in questo mo­mento un modo per fare ostacolo al suo dif­fondersi; chi può e sa si “americanizza” ; tale scelta in realtà significa perdere i propri pun­ti di riferimento, le proprie coordinate di vi­ta senza per questo acquistarne altre, più moderne e significative. Napoli è dal settem­bre del 1943 all’estate del 1945 una sorta di

“rest-camp” dove i soldati trascorrono licen­ze, periodi di convalescenza e di riposo22:[...] gli americani entravano nelle famiglie [...] anche troppo

[...] era una cosa che ti stringeva il cuore; vede­vi passare i soldati e la gente impazziva appresso a loro ognuno alla ricerca di qualche cosa e non so­lo perché non ce la facevano più a campare.

Per me gli americani sono stati un esercito inva­sore, ci hanno affamati perché hanno fatto salire i prezzi e tutto si è corrotto.

Al momento in cui arrivarono in città, nel­l’ottobre del 1943, tutti sperarono che si po­tesse tornare a vivere nella normalità — da qui le scene di esultanza — e gli americani sembravano poter soddisfare questo deside­rio grazie ai loro mezzi; ma non fu così, né sul piano delle scelte politiche, né su quello dei valori e dei comportamenti. Con l’arrivo del colonnello Poletti la macchina del gover­no angloamericano si metterà in moto per ri­portare nella “civiltà” l’informe aggregato che era diventata la città, ma lo farà riciclan­do tutto il personale politico coinvolto dal fascismo. Tra il vecchio e il nuovo non si produrrà nessuna dialettica positiva: agli americani ci si poteva solo “dare” altrimenti bisognava ritrarsi:Dopo tante privazioni il fatto di poter di nuovo mangiare, di poter uscire, di poter ballare, ci face­va impazzire dalla gioia, ma loro si sono compor­tati male, da conquistatori.

Alleati nemici dunque che non hanno però i tratti della tracotanza propri di chi pensa di appartenere ad una civiltà superiore:Un esercito ben nutrito, con un abbigliamento co­stoso, ma sempre un po’ sbracati: i soldati non

21 Cfr. G. Chianese, L ‘esperienza della guerra a Napoli: storia del conflitto, storia della città, “Quale Storia”, cit.La presenza dilagante degli americani negli anni indicati è molto presente nel ricordo delle donne. Grazia Radaz­

zi, Una donna a Radio Napoli, in Alle radici del nostro presente. Napoli e la Campania dal fascismo alla repubbli­ca, 1943-1946, Guida, Napoli, 1986 ha scritto: “Gli alleati si servirono di tutto ciò che la città poteva offrire; rego­larmente requisirono ciò che poteva servire” . Questa idea viene rimandata anche da libri scritti dagli stessi america­ni seguendo ottiche del tutto differenti. Cfr. ad esempio John Horne Burns, La Galleria. Un americano a Napoli, Milano, Baldini & Castoldi, 1992.

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avevano un’aria spavalda, ma davano sempre la sensazione di essere un po’ sbronzi.

Le foto del tempo23, lette in concomitanza con i racconti di queste donne, sono straor­dinariamente consonanti. I soldati america­ni, spesso giovanissimi e a loro modo inno­centi si accompagnano con donne, giovani a loro volta, ma dal viso dipinto e artificioso. Si propone in tal modo una dinamica soffe­rente tra conquistatori e prede; i corpi delle donne sono offerti ma le “avances” amorose sono poi accolte passivamente, senza alcuna corrispondenza. C’è nel complesso qualcosa di patetico, sofferenze celate, senza eroti­smo e soprattutto senza affetto. Ciò contri­buisce a spiegare la ragione del distacco con cui le intervistate parlano di questa esperien­za; una linea di demarcazione distingue un “noi” che le comprende insieme alle altre donne della propria famiglia e del proprio ambiente alle quali la cultura, il decoro, il senso di sé avrebbero impedito il contatto con gli americani, e “le altre” , le signorine dei ceti popolari, che avrebbero consumato voracemente un eccezionale spazio di possi­bilità, inconsapevoli o incuranti della corru­zione e del degrado a cui andavano in­contro.

Tratti di soggettività tra vincoli comunitari e tendenze modernizzanti. L’esperienza della guerra non è solo sconvolgimento del quoti­diano, ma costringe ed altera, rafforza mo­delli preesistenti, consolida vecchie adesioni, innesca anche nuovi comportamenti, crea spazi per aspettative diverse. Come si è già detto, la recente storiografia ha confermato che il Sud, a differenza del Nord, è uscito dalla guerra all’indietro, “in maniera non li­beratoria e proiettata verso un futuro diver­so, bensì con un’identità traumatizzata e

con un bisogno di tornare ‘nel guscio’”24. Questo giudizio può essere esteso anche al vissuto e al ruolo sociale delle donne. È pos­sibile tuttavia cercare di capire come la guer­ra è entrata nelle loro vite, in che maniera ne ha marcato momenti importanti, quali ele­menti di soggettività si sono consolidati in quella esperienza. Non si possono evidente­mente ricostruire percorsi chiaramente in­tenzionati, ma si delineano comunque tratti individuali attraverso i quali le singolarità si costruiscono, strette a volte da necessità in­superabili, altre volte proiettate in avanti da scatti improvvisi che non sempre liberano da vincoli e costrizioni. È alla guerra che Im­macolata Miale attribuisce il non essersi spo­sata e soprattutto il non aver potuto avere figli suoi, costretta in tal modo ad acconten­tarsi di allevare bambini di altri per soddi­sfare il suo bisogno di tenerezza. Probabil­mente non è vero e lei stessa ne è consapevo­le, ma ha bisogno di condensare in questo modo la deprivazione di un tempo fonda- mentale della vita, la giovinezza, che spesso le ragazze della sua generazione vivevano come preparazione al matrimonio (Immaco­lata aveva diciassette anni allo scoppio della guerra). Per molte donne, adolescenti in quegli anni, la guerra ha negato il tempo del gioco e della spensieratezza. Cecilia Bran- chini si rammarica molto di ciò.Ho perduto per sempre la visione di un mondo felice, ovattato, dove tutto è bello e non c’è la sofferenza; forse avevo letto molti romanzi rosa ma mi sono trovata all’improvviso in un mondo dominato dalla prevaricazione dei capi, del pote­re, e dove sono sempre i più forti, anche quando fingono di essere amici, ad avere la meglio.

La rapida maturazione a cui sono state co­strette è sentita come un furto, come se fos­sero state defraudate per sempre.

23 Ci si riferisce ad esempio a quelle riprodotte da Sergio Lambiase e Gian Battista Nazzaro, Napoli 1940-45, Mila­no, Longanesi, 1978.24 G. D ’Agostino, La guerra a Napoli, cit., p. 84.

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L’adolescenza non l’ho vissuta perché la guerra mi ha fatto diventare subito adulta, sono dovuta maturare molto in fretta. Prima della guerra pen­savo solo a divertirmi. Dov’è finita la serenità? Dovevamo solo cercare di sopravvivere. Abbia­mo perduto qualcosa di molto importante, quat­tro anni della nostra vita (Anna Esposito).

In alcuni casi la guerra è stata ancora più drammatica, si tratta di donne che sono sta­te vittime di traumi fisici o psichici, per cui la guerra non ha coordinate temporali preci­se, finisce addirittura con l’essere la cifra della vita:La guerra non finisce mai, è una cosa che dura sempre. Non ricordo niente di prima, per me è stata guerra dal 1935 e se pensi che allora avevo sette anni.

Il racconto ritorna su quell’unico evento lut­tuoso, quello che ha toccato il proprio corpo e la mente tanto da mettere in ombra il re­sto. È così per Sara Girosi, resa invalida permanente da un bombardamento, per An­na Esposito, l’unica scampata al massacro provocato dall’esplosione di un ordigno, per Fernanda Ventrella, ferma al racconto della morte straziante della madre e del fidanzato. La paura e la malattia sono i segni di una guerra che non finisce.Io ero là; ad un tratto ho sentito una voce che mi diceva: voltati. Io mi sono girata e la bomba è esplosa.

E così che la paura è entrata nella vita di Anna che è vissuta come in uno spazio so­speso, ansioso, dall’esterno può sempre ve­nire una minaccia.Mia madre è stata trovata cementata nel fango, il mio fidanzato gonfio, con i lineamenti deforma­ti, irriconoscibile.

Fernanda tenta da quel momento di sottrarsi a qualsiasi manifestazione di vita. Perde il senso dell’equilibrio, vive intere giornate al buio, non può più mangiare, non vuole più muoversi. In queste donne la normalità è le­sionata, la soglia sempre fragile tra la salute

e la malattia è stata varcata; l’esperienza traumatica della guerra ha agito sul presen­te, amputando o condizionando gravemente il futuro.

Spesso le donne hanno trovato nella strut­tura familiare, sia nucleare che allargata una risorsa importante; abbiamo già ricordato come negli anni in questione le donne conti­nuano a ricavare elementi d’identità all’in­terno dei nuclei sociali elementari, è facile dunque intuire che ciò avvenga, a maggior ragione, durante il conflitto. Per assicurarsi almeno la sopravvivenza e una qualche for­ma di protezione i vincoli familiari sono ne­cessari, in assoluta mancanza di un sociale organizzato, per il progressivo peggioramen­to delle condizioni di vita e il dilagare della borsa nera e del contrabbando. Donne rima­ste sole per la partenza del marito sono por­tate a cercare le sorelle e le madri; a volte vanno a raggiungere la suocera, quasi per sostituire il marito assente, in genere si cerca la presenza rassicurante del padre. Questo bisogno di protezione viene restituito dalla memoria perché il racconto diventa più sicu­ro, assume un tono più equilibrato quando si può parlare dei figli, del marito, dei geni­tori, a conferma che la tradizione familiare costituisce un elemento fondamentale per la costruzione della mentalità e della capacità di giudizi e valutazioni. È spesso la figura paterna a orientare i processi di formazione e a rappresentare un ponte tra il micro fami­liare e il macro sociale. Il padre, “uomo onesto, dignitoso e scrupoloso”, esponente del Partito popolare italiano, sindaco fino al 1923 di un paese del salernitano, è ricordato da Maria Borgia come il sicuro punto di orientamento dell’intero nucleo familiare, non tanto perché suggeriva idee politiche, ma perché spingeva a prestare attenzione ed interesse verso gli avvenimenti del tempo. Lei poi si racconta come una bambina entu­siasta della partecipazione all’organizzazio­ne sociale fascista (“Io sono stata figlia della lupa, piccola italiana, ho seguito con amore,

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ho vissuto molto intensamente l’organizza­zione fascista”). Il sociale è vissuto in realtà come un’emanazione della famiglia: la so­cietà gerarchizzata che il fascismo propone è la proiezione all’esterno della gerarchia in­terna, strutturata sulla preminenza della fi­gura paterna, amata e idealizzata. Quasi mai per le donne è l’ideologia a spingere ad en­trare in sintonia con il regime, è piuttosto la proiezione in esso, quasi una forma di pro­lungamento, degli elementi della propria ap­partenenza familiare. Una riconferma viene anche da un’altra testimone, Vera Martinel­li, di origine aristocratica:

La guerra per me era davvero la bella guerra. Se ci andavi e morivi, diventavi un eroe. La morte in guerra non comportava dolore, era rapida, senza sofferenza.

Ad una tradizione più antica si sovrappon­gono elementi più recenti, consolidatisi nelle memorie di famiglia:

Avevamo avuto un cugino morto nella guerra d’Africa ed uno zio nella prima guerra mondiale. Siamo cresciute nel loro ricordo.

La persistenza di una cultura aristocratica, all’interno della quale è comunque il padre il modello di riferimento, ancora forte in am­biti cittadini, consente a Vera di consolidare il proprio senso di appartenenza che dà for­za al sé, operando un forte distacco dagli altri.

Tutte le donne che allora erano figlie fan­no risaltare, in genere, il ruolo attivo dei ge­nitori, senza dei quali la loro vita sarebbe stata impossibile. Nel racconto di Gaetana Marconi, che allora aveva 12 anni, la madre è ricordata come corpo protettivo:

L’unico rifugio per me era il lettone di mia madre che sentivo come protettrice immediata: aveva quel corpo grande, io mi mettevo molto vicino a lei, quasi sotto... rivolgersi a Dio in quei momen­ti mi sembrava inutile, perché avrebbe dovuto salvare proprio me? Mia madre mi avrebbe salva­ta. Pensavo: lei muore io mi salvo.

In altri casi la madre è colei che sceglie che cosa è meglio per tutti:

Siamo stati sempre una famiglia molto unita, ma allora sentivamo la necessità di stare insieme, di non separarci mai. Mamma prendeva le decisioni perché aveva un carattere forte, papà era come un altro figlio per lei (Anna Esposito).

A differenza delle donne della campagna che, pur sostituendo gli uomini in tutti i la­vori, continuano ad attribuire loro il ruolo fondamentale nelle decisioni, le donne della città sono disponibili a riconoscere autore­volezza anche alle figure femminili, purché collocate all’interno della famiglia. Si pro­pone nel loro vissuto la centralità e la forza dell’unità familiare, l’obbligatorietà dello stare insieme ad ogni costo. La solidarietà, che altrove sarà il connettivo di relazioni so­ciali e di nuove forme di organizzazione, a Napoli si è espressa prevalentemente all’in­terno dei nuclei familiari, rinsaldando anti­chi vincoli di sangue in un contesto che ri­mane arcaico.

Bisogna dunque scartare del tutto ipotesi di modernizzazione e di emancipazione per le donne di Napoli, tutto al più si possono leggere momenti in cui un io di donna si af­faccia e si fa strada nel mondo sconvolto. Ciò accade, ad esempio, quando lo spazio del ‘fuori’ si sovrappone a quello del ‘den­tro’ e bisogna trovare un ancoraggio per im­pedire l’annichilimento di sé:

Nonostante tutto non ho mai voluto rinunciare ai miei libri. Quando gli altri nel ricovero si lascia­vano sopraffare dalla paura, imprecavano o pre­gavano, io leggevo e studiavo (Cecilia Branchini).

Mi ero data delle regole, mi costringevo a svol­gere ogni giorno delle mansioni in modo da man­tenere delle abitudini che riempissero la giornata; speravo così di allontanare l’ansia dei bombarda- menti e soprattutto continuare ad essere guida per gli altri. Mi sforzavo di creare un’atmosfera di normalità intorno a me (Grazia Rattazzi).

Si tratta di donne che hanno piena consape­volezza di aver saputo agire su di sé per otte­

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nere forme di autocontrollo che esse senti­vano necessarie per rassicurare i propri fa­miliari, soprattutto i figli. Capacità messa in risalto anche da Bianca Levi Zagari che, du­rante i reiterati spostamenti, quasi un lungo peregrinare, mantiene la capacità e la lucidi­tà per dare alle abitazioni provvisorie in cui è costretta con la famiglia comunque qual­che segno di decoro e di vivibilità.Mi preoccupavo subito di procurarmi le tendine, dei piccoli soprammobili, qualche cosa che ser­visse a togliere lo squallore e il senso di preca­rietà.

Che cosa propongono queste donne? Un ge­nerico e comprensibile senso di attaccamen­to alla vita? O si può riconoscere un’atten­zione alle cose dietro la quale si ripropone la cura degli altri? Si può allora dire che anche nel tempo di guerra le donne conservano la capacità di occuparsi degli altri, di averne cura? In questo si differenziano dagli uo­mini?

Qualche volta la guerra, che è anche tem­po di sospensione delle regole, consente ad alcune spazi di libertà: “Per la prima volta mi sono sentita importante, gli uomini mi guardavano e dai loro sguardi ho capito che ero bella”. Eugenia Gargiulo, allora sedi­cenne, aveva vissuto senza madre, con il pa­dre e la sorella, un’esistenza appartata, in cui c’era stato posto solo per lo studio e la cura per la casa. La guerra le porta in casa i soldati, alcuni militari inglesi. In questo contesto, che dovette essere assai particola­re, in un’atmosfera romantico-sentimentale, vive per parecchi mesi i primi corteggiamen­ti, il piacere di essere ricercata, infine l’amo­re di un ragazzo che per lei “aveva prepara­to un altarino di lino bianco”. Alcune donne hanno affrontato per la prima volta un’e­

sperienza lavorativa fuori delle mura dome­stiche con l’arrivo degli americani.

Mi sono resa conto che si poteva anche vivere fuori della famiglia, anche bene e dignitosamen­te. Cominciai a fare lavori che prima non facevo. Ricordo che anche altre donne in quel tempo fa­cevano cose insolite, anche le meccaniche, le idrauliche (Lucia Palermo).

“Nuovissima” — come lei stessa la definisce — è l’esperienza di Grazia Rattazzi che da Radio Napoli, l’emittente radiofonica atti­vata e organizzata dal Psychological Warfa­re Branch, fa sentire la sua libera parola25. È “il primo assaggio di libertà”, ma è anche un impegno responsabile di una donna che riesce ad istaurare con le ascoltatrici un rap­porto corale, quasi portavoce dei bisogni, dei disagi, in cui si trovavano a vivere le donne di Napoli. Da questa coralità la Rat­tazzi si sente caricata emotivamente e men­talmente, “ricca di vita e di slancio [...] sve­gliata ad una realtà più ricca e complessa di quella individuale” . L’autorappresentazione di queste donne spinge a collocare la loro partecipazione al conflitto tra un rafforza­mento dei vincoli familiari, e quindi dei ruo­li tradizionali e la capacità/necessità di agire diversamente, saper prendere decisioni, tro­vare soluzioni insolite di fronte al nuovo e all’imprevisto. Né nuove né vecchie, sche­matizzazioni davvero inadatte, né certamen­te spinte verso la modernità, le donne non possono essere ricacciate in un quadro di estraneità proprio di chi non fa storia. Più adeguato ci sembra allora riportare il com­portamento delle donne entro categorie che comprendono la dimensione del vissuto che i racconti propongono. Utile è allora sia quel concetto di pragmatismo che usa Amalia Si­gnorelli26 per delineare i modi diversi entro

G. Rattazzi, Una donna a Radio Napoli, cit., pp. 287-291."6 Cfr. le osservazioni a riguardo di Amalia Signorelli, La condizione femminile nel tramonto della società rurale (1945-1960), in Paola Corti (a cura di), Le donne nelle campagne del Novecento, “Annali dell’Istituto Alcide Cer­vi”, 1991.

418 Laura Capobianco Cesira D’Agostino

cui si trovano a vivere le contadine quando sta per scomparire la società agricola tradi­zionale, sia la proposta di Anna Bravo di leg­gere l’esperienza in termini di “contrattazio­ne ininterrotta”27. Il rapporto donne-evento viene calato infatti in un contesto di relazioni e mediazioni che non le schiaccia nella stret­toia di scelta/non scelta ma consente di dare valore e significato anche allo scarto minimo e alle diverse dimensioni del cambiamento. Le scelte, nella maggior parte dei casi, sono state fatte all’interno di spazi circoscritti dove comunque sono in gioco strategie di soprav­vivenza, spesso è alle donne che si deve l’esse­re rimasti in vita. Un agire fondamentale, quello delle donne, che non sarà riconosciuto come tale a guerra conclusa, in ciò il Nord e il Sud non presentano differenze significative dal momento che dovunque le relazioni tra uomo e donna rimarranno asimmetriche. Non avrebbe potuto essere diversamente, so­prattutto a Napoli, dove il sostanziale trionfo

del moderatismo prodotto dalle scelte del co­lonnello Poletti e dei governi angloamericani, l’immediata alleanza che la Chiesa propone al potere politico e la rapida riorganizzazione capillare delle parrocchie, l’impossibilità per molte di conservare quei posti di lavoro che avevano potuto occupare in assenza degli uo­mini, riproporrà in forme molte nette il con­trollo sulle donne.

A conflitto concluso le donne di Napoli avranno lo sguardo rivolto all’indietro, come se il bisogno del nuovo, in qualche caso speri­mentato, dovesse essere messo da parte ri­spetto alla necessità, che il contesto faceva sentire come più forte ed urgente, di normali­tà e protezione. Arretramenti materiali, lutti, dolori ma anche scissioni interiori, esperienze di scacco, chiusure di spazi di libertà: questa sembra l’eredità della guerra. Ma altrove è accaduto diversamente?

Laura CapobiancoCesira D ’Agostino

27 La definizione di ‘contrattazione ininterrotta’ per spiegare i comportamenti delle donne è stata proposta da A. Bravo nel saggio Simboli del materno, in Id. (a cura di) Donne e uomini nelle guerre mondiali, cit.

STUDI STORICISommario del n. 4,1994

Delio Cantimori. Gli eretici del Cinquecento e la crisi europea tra le due guerreAdriano Prosperi, “Eretici" da rileggere; Massimo Firpo, Per una discussione su Delio Canti­mori e la nuova edizione degli Eretici italiani] Giovanni Miccoli, La ricerca storica come “storia positiva”', Antonio Rotondò, Alcune considerazioni su Eretici italiani del Cinquecento; Silvana Seidel Menchi, “Ein Neues Leben": contributo allo studio di Delio Cantimori', Corrado Vivanti, Intorno a Umanesimo e Riforma; Bruno Bongiovanni, Rivoluzione e controrivoluzione conser­vatrice, Enzo Collotti, Gli scritti di Cantimori sulla crisi tedesca-, Jens Petersen, Cantimori e la Germania; Appello per la raccolta dei carteggi di Delio Cantimori.Il presente come storiaEnzo Ciconte, Mafia, ’ndrangheta, camorra: un processo di unificazione?

Opinioni e dibattitiPietro Adamo, L’interpretazione revisionista della rivoluzione inglese.RicercheInnocenzo Cervelli, Questioni sibilline.Note criticheGiuseppe Ricuperati, In margine all’edizione delle “Opere” di Giambattista Vasco.

I l d ib a ttito sugli Is titu ti della R esistenza

Oltre la normalizzazionePer una storiografia critica (e un nuovo senso comune democratico)

Stefano Battilossi

Gli Isr: una crisi di progettualità

L’errore più imperdonabile che si potrebbe commettere discutendo — vorrei dire, final­mente — del presente e del futuro degli Isti­tuti storici della Resistenza sarebbe certo quello di considerare la questione in un’otti­ca puramente interna alla vita degli Istituti stessi. Purtroppo, sempre più rare si sono fatte in questi anni le occasioni per riflette­re, pubblicamente e senza inutili diplomati- smi, sul ruolo della storiografia (e degli sto­rici) nella cultura e nella società italiane.

[...] la ragione che pretende di essere critica e per­ciò di assistere e avanzare il processo di emanci­pazione, deve confrontarsi con il senso comune, l’avversario più potente. Di fronte al senso comu­ne che riflette la mancanza di autonomia che de­finisce l’esistenza quotidiana, è la ragione, prote­sa verso la responsabilità adulta e la liberazione dell’azione umana, che è passibile di scherno e di confutazione sul piano dell’evidenza. C’è ben po­co nell’esperienza di senso comune che possa da­re adito a speranza. Anzi, la totalità della routine quotidiana sembra invece rivelarne l’ingenuità e screditarne le promesse. La ragione emancipati- va, sin dall’inizio, non ha il vantaggio dell’evi­denza disorganizzata e spontanea, cosa invece di cui beneficia il senso comune. Appare quindi in­fondata, senza radici, mutilata da tutte quelle fragilità che il senso comune, articolato nel posi­tivismo, addita come il più odioso dei peccati che la conoscenza possa commettere — fantasia, uto­pismo, irrealismo [Zygmunt Bauman].1.

D’altra parte, l’importanza stessa del ruolo svolto nell’ultimo quarto di secolo dall’Isti­tuto nazionale e dalla rete degli Istituti nel decollo, per così dire, della contemporanei- stica italiana, impone di sollevare lo sguardo al contesto politico e culturale degli anni più recenti. Senza contare poi le sollecitazioni prepotenti ad una riflessione di carattere ge­nerale che provengono dalla consapevolezza di uno spostamento deciso a destra degli equilibri politici e sociali del paese, e dalla percezione netta che dentro tale dislocazione abbiano agito con forza le trasformazioni

1 Zygmunt Bauman, Critica del senso comune. Verso una nuova sociologia, Roma, Editori Riuniti, 1982, pp. 146- 147 [An Essay on Commonsense and Emancipation, Routledge & Kegan Paul, 1976].

“Italia contemporanea”, giugno 1994, n. 195

420 Stefano Battilossi

culturali degli anni ottanta. Credo perciò che muovere da un orizzonte più ampio di riflessione corrisponda pienamente agli obiettivi che Luca Baldissara si era proposto nel suo intervento comparso nel precedente fascicolo di “Italia contemporanea”, dando per primo voce ad una sensazione di crisi de­gli istituti sicuramente diffusa tra quanti in questo ambito si muovono, e però incapace finora di articolarsi in iniziative concrete e in esplicite prese di posizione.

Per parte mia, la necessità di ragionare su questa crisi si ricollega in primo luogo ad una impressione complessiva di afasia degli Istituti, di crescente marginalità della loro proposta nel panorama culturale del paese, in una parola alla percezione della loro diffi­coltà ad intessere un dialogo fecondo con la società e a mobilitare nuove energie intellet­tuali. In questi anni, mi è parso di cogliere questa difficoltà soprattutto nella incapacità di rappresentare un punto di riferimento forte per la domanda di storia contempora­nea — in senso ampio, come conoscenza e coscienza delle molteplici dimensioni della contemporaneità — che, pur in forme non sempre immediatamente decifrabili e tra mille contraddizioni, hanno continuato ad esprimere le nuove generazioni. Natural­mente una notazione del genere non vuol suonare come un verdetto ingeneroso sull’e­sperienza degli istituti, o come un giudizio di merito sulla loro attività; né ciò implica tan­tomeno una sottovalutazione del ruolo di quegli istituti capaci al contrario di proporsi come presenza culturale attiva nelle rispetti­ve realtà2.

Tuttavia di crisi si può e si deve parlare. E con maggior convinzione quanto più si ri­fletta, anche in chiave del tutto impressioni­stica, sull’analoga condizione di logoramen­to che in questo decennio è stata condivisa da pressoché tutte le istituzioni culturali che hanno incarnato le tante tradizioni della si­nistra, e non soltanto in campo storiografi- co. Gli Istituti Gramsci, la Fondazione Fel­trinelli, la Fondazione Basso, l’Istituto Er­nesto De Martino, per non citare che le sigle più gloriose — ma su un diverso versante si potrebbe menzionare il caso del Centro per la riforma dello stato — negli anni ottanta hanno attraversato, e nella migliore delle ipotesi solo parzialmente superato, fasi di grave offuscamento, rendendo evidente una generalizzata consunzione delle esperienze dei centri di ricerca legati, direttamente o in­direttamente, alla sinistra storica. Gli istituti — per quanto alieni da una connotazione spiccatamente partitica, ed anzi tradizional­mente caratterizzati da una robusta autono­mia (un patrimonio, questo, decisivo per il futuro) situata al crocevia tra partiti, asso­ciazioni partigiane e istituzioni locali — han­no condiviso appieno questa parabola di­scendente, sebbene una fisionomia in certo modo più istituzionale abbia contribuito a salvaguardare in parte le condizioni materia­li della loro esistenza. Si è insomma fatta strada la convinzione che sia ormai giunto a conclusione un ciclo vitale di quella rete, mai particolarmente fitta, invero di istitu­zioni culturali che, sull’onda della grande mobilitazione degli anni sessanta e settanta, avevano accompagnato e sostenuto il conso-

2 Chi scrive dispone di una conoscenza del tutto approssimativa e indiretta dell’attività generale della rete degli isti­tuti, ed è dunque tra le persone meno indicate a tracciarne un bilancio. Tuttavia gli elementi di giudizio ricavabili, ad esempio, dalle più recenti Anagrafi delle attività (convegni, seminari, mostre, iniziative di aggiornamento didat­tico e divulgazione) per il 1991 e 1992 testimoniano, oltre al funzionamento tutt’altro che ottimale della rete — alla redazione delle Anagrafi stesse ha partecipato in media la metà degli aderenti — anche il forte addensamento delle attività in un ristretto numero di istituti, a loro volta decisamente concentrati dal punto di vista territoriale. Cfr. “Notizie e Documenti”, 1992, n. 6, e 1993, n. 7, inclusi in “Italia Contemporanea”, rispettivamente 1992, n. 186, e 1993. n. 190.

Il dibattito sugli Istituti della Resistenza 421

lidamento disciplinare della contemporanei- stica, contribuendo al radicamento di uno spiccato senso della storicità nella coscienza di una fetta non marginale della società, tra­dizionalmente estranea (e per ottime ragio­ni) alla storiografia accademica3. Per ciascu­no si è posta da tempo la questione, ostica ma ineludibile, di come trasformare la crisi attuale in una fase di maturazione e di rin­novata capacità progettuale, preludio ad un efficace rilancio della propria presenza cul­turale: passaggio arduo e niente affatto scontato, ma che tuttavia va perseguito se si vuole — per citare una felice espressione di Giuseppe Vacca — “riannodare i fili dell’in­telligenza scientifica e della decisione politi­ca” e “ricostruire l’agenda dell’educazione alla democrazia”4. Nessuno infatti può illu­dersi di poter conseguire risultati di qualche spessore, e di accedere a prospettive non aleatorie di consolidamento, senza che il ri­lancio della capacità di iniziativa assuma con convinzione e coerenza anche, ma vorrei dire soprattutto, il profilo di una energica battaglia culturale: una scelta che, del resto, affonda le proprie radici nel codice genetico degli istituti e della stessa tradizione antifa­scista.

I rischi della spoliticizzazione della storio­grafia (e del passato)

L’appello ai valori dell’antifascismo non può tuttavia limitarsi ad un richiamo di ma­niera, né tantomeno chiudersi nella pura e semplice riaffermazione di un patrimonio ideale e morale. Tanto più che negli ultimi mesi, anche da pulpiti del tutto inaspettati, erano fioccati giudizi (oggi possiamo dire per lo meno improvvidi) suH’esaurimento della funzione dell’antifascismo5, mentre ora la sconfitta politica della sinistra si pre­senta non scevra dal rischio, prontamente denunciato, di un “riflesso conservativo di un ancoraggio consolatorio al passato, fos- s’anche il più nobile e il più ignobilmente vi­tuperato” , come appunto nel caso dell’anti­fascismo e della Resistenza6. Più avanti cer­cherò di chiarire in che senso il patrimonio dell’antifascismo, o meglio ancora una sua rielaborazione critica, possa fornire basi so­lide ad un rinnovato impegno culturale. In primo luogo, tuttavia, mi preme ribadire la necessità di un recupero pieno del cuore di una tradizione che ha a lungo considerato l’impegno storiografico come un modo di declinare il rapporto tra cultura e politica,

3 Un profilo generale della crescita del “bisogno di storia” nell’Italia degli anni sessanta e settanta è stato tracciato da Massimo Legnani, L ’organizzazione delia ricerca storica: Italia, in II mondo contemporaneo, Gli strumenti del­la ricerca, 2, Firenze, La Nuova Italia, 1983, e Orientamenti storiografici e consumo di storia, “Movimento Ope­raio e Socialista”, 1988, n. 1, pp. 91-97.

Il mantenimento di una fisionomia di sede di ricerca politica, fedele alla impostazione originaria, è il tema di fon­do che ha dominato la recente discussione all’interno del Centro per la riforma dello stato (costituito nel 1972 su impulso di Umberto Terracini). Altri centri di ricerca, come il Cespe (Centro studi di politica economica) o il Cespi (Centro studi di politica internazionale), hanno viceversa già maturato un netto distacco dalla loro esperienza pre­cedente, trasformandosi da centri produttori di ricerca autonoma in fornitori di servizi e consulenze. Si vedano il panorama tracciato da Aldo Garzia e gli interventi di Giuseppe Vacca e Pietro Barrera, “Il Manifesto”, 23 ottobre1993.

Sebbene possa suonare contrario alla corrente deontologica professionale, mi piace segnalare due brevi interven­ti, di taglio prevalentemente politico, nei quali ho ritrovato una profondità di riflessione storica non comune e spunti critici particolarmente felici nei confronti dell’attuale cultura politica della sinistra: Stefano Rodotà, Centri­sti, moderati, benpensanti, “Il Manifesto”, 5 dicembre 1993; e Rossana Rossanda, Aspettando la destra pulita, “Il Manifesto”, 8 aprile 1994.

Nicola Gallerano, Antifascismo. Come eravamo, come siamo, “Il Manifesto/Il Cerchio Quadrato”, 24 aprile1994, che sensatamente conclude: “Il miglior modo di richiamarsi oggi all’antifascismo consiste nel proporre una critica serrata dei suoi limiti storici”. Un senso analogo ha l’invito di Mario Isnenghi (Come tenersi le radici senza metterle in un museo, ivi) a non costituirsi in partito della memoria.

422 Stefano Battilossi

intesa come esercizio intellettuale e morale, come coscienza e pratica della democrazia. È noto come quella continuità abbia cono­sciuto alla soglia degli anni ottanta una in­crinatura profonda. Qui è necessario collo­care la radice dell’attuale debolezza della contemporaneistica in Italia: una debolezza che scaturisce non dall’incertezza del suo statuto disciplinare — situazione comune, oggi, ad ogni scienza sociale; del resto, ogni processo di revisione di quelli che, con una formula oscura e allusiva, siamo soliti defi­nire statuti epistemologici, prelude solita­mente ad un salto di qualità dei paradigmi conoscitivi — ma piuttosto dal declino della sua funzione sociale.

L’ultimo ventennio storiografico ha assi­stito ad una grande maturazione metodolo­gica, ad una apertura tematica senza prece­denti, all’instaurazione di un rapporto fe­condo e originale con le storiografie stranie­re: un processo di arricchimento, revisione e rinnovamento, composito ma accomunato — è stato scritto — da “un’ansia di concre­tezza, perseguita grazie allo smontaggio di categorie astratte, di forze impersonali, dei grandi aggregati macro-sociali (si parla ora di borghesie e non di Borghesia, di operai e non di Classe Operaia, dei meccanismi e de­gli apparati amministrativi piuttosto che del­lo Stato, ecc.), un’enfasi sulla diversità, una preferenza dichiarata per l’analisi piuttosto che per la sintesi, il rifiuto di recitare la lita­

nia delle Grandi Narrazioni, ma pure — punto dolente — dal “fastidio non solo per una troppo facile cedevolezza alle sollecita­zioni del presente ma anche in molti casi per la stessa, inevitabile ‘politicità’ della storio­grafia”7. In questo processo di spoliticizza- zione della storiografia si è gradualmente dissolto quel nesso forte con la riflessione e l’elaborazione politica che aveva nutrito, con intenti legittimatori o critici, l’intera pa­rabola della contemporaneistica italiana, dalla tradizione storicistica del gramscianesi- mo alla rottura successivamente consumata dalla storiografia della nuova Sinistra, che ha rappresentato anche, per così dire, il ra­mo sul quale si è innestata la nuova storia sociale8. Che questa trasformazione abbia comportato anche una perdita per la con­temporaneistica, pur nel giudizio unanime sul carattere salutare del bagno anti-ideolo- gico subito dalla storiografia a partire dalla fine degli anni settanta, appare una perce­zione comune e sufficientemente condivisa dagli storici, anche nella diversità degli ap­procci e delle appartenenze generazionali. Tale consapevolezza si è in alcuni casi con­centrata sulla separazione della progettualità politica dalla riflessione storiografica sulle trasformazioni conosciute dal nostro paese dalla crisi degli anni trenta al grande rivolgi­mento sociale e culturale degli anni sessanta e settanta9; talvolta si è soffermata a consta­tare le sue ricadute negative sullo status pub-

7 Nicola Gaìlerano, Storie d ’Italia. Revisione e rinnovamento, “Linea d’Ombra”, 1993, n. 88.8 Mi limito qui a rimandare, dato il taglio dell’intervento, ai riferimenti essenziali che a mio giudizio meglio di altri rendono il senso della trasformazione della cultura storiografica italiana dagli anni cinquanta agli anni ottanta: in primo luogo l’antologia Passato e presente nel dibattito storiografico. Storici marxisti e mutamenti della società italiana 1955-1970, curata da Luigi Masella (autore anche di una preziosa introduzione), Bari, De Donato, 1979; la riflessione svolta tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta all’interno della Fondazione Basso (se ne col­gono gli elementi di fondo nei contributi di Alessandra Pescarolo, Storia della classe operaia e “operaismo” in Ita­lia. Alcuni problemi interpretativi, e di Mariuccia Salvati, Cultura operaia e disciplina industriale: ipotesi per un confronto tra correnti storiografiche, entrambi in “Movimento Operaio e Socialista”, rispettivamente 1979, n. 1, e 1980, n. 1; infine i bilanci critici tracciati da Francesco Barbagallo, Politica, ideologia, scienze sociali nella storio­grafia dell’Italia repubblicana, “Studi Storici”, 1985, n. 4, da Nicola Gaìlerano, Fine del caso italiano? La storia politica tra "politicità” e "scienza”, e Marco Revelli, Storia e scienze sociali: una storia senza tempo per un tempo senza storia?, “Movimento Operaio e Socialista”, 1987, n. 1-2.9 A partire dalla fine degli anni settanta “la dimensione storiografica, sempre rivendicata come indispensabile stru-

Il dibattito sugli Istituti della Resistenza 423

blico degli storici stessi (“una delle conse­guenze più preoccupanti — è stato scritto non senza una punta di amara autocritica generazionale — della de-politicizzazione eccessivamente accelerata, è stata la pro­gressiva scomparsa di qualsiasi altra forma di identità collettiva e di impegno sul piano pubblico, sostituita invece troppo spesso dal consolidarsi delle regole di obblighi e comportamenti di più o meno ristrette fa­miglie regionali, accademiche o politi­che”10); mentre in altri casi ha puntato sul­la denuncia del vuoto creato dalla autoe­marginazione degli storici dal terreno della politica culturale e dal declino di una con­cezione fortemente militante del lavoro sto­riografico, e rapidamente colonizzato da tentativi apertamente strumentali e di corto respiro di asservire la storia alla politica11.

È stata proprio la cultura storiografica della sinistra, protagonista principale di quel rinnovamento, a subire i più duri con­traccolpi di questa trasformazione. Forma­tesi lungo un ciclo culturale nel quale storia e politica si fondevano in un sistema orga­nico di rimandi reciproci, varie generazioni di storici di sinistra, di fronte alla crisi di un’ispirazione “esternalista” di che viveva la ricerca storica come una prosecuzione, è stato detto, della propria militanza politi­ca12, sembrano aver subito la cesura della fine degli anni settanta senza riuscire a rie­laborare positivamente quel legame tra mi­litanza e “mestiere” che — in modi certo profondamente differenziati nelle premesse e negli esiti — rappresentava una matrice

ampiamente condivisa. Molti hanno sposa­to la causa della “professionalizzazione” dell’attività di ricerca e produzione storio­grafica, sana reazione contro vecchi ideolo­gismi e strumentalismi, ma che in troppi casi ha tuttavia silenziosamente oltrepassa­to il confine che separa il consolidamento disciplinare dalla normalizzazione accade­mica, per approdare infine al disimpegno e alla rinuncia a ricercare forme diffusive di socializzazione della propria attività. La de- ideologizzazione ha comportato dunque an­che la spoliticizzazione della storiografia; si potrebbe dire, l’esaurimento di un’esperien­za della politica vissuta prevalentemente in chiave ideologica ha affossato anche la po­liticità — 1’ “impegno” nei confronti della società, un “orientamento alla prassi” de­clinato nelle forme della battaglia culturale — come dimensione imprescindibile della pratica storiografica (ma in generale di tut­te le scienze sociali). Anche nei casi che meglio di altri si sarebbero prestati ad un discorso pubblico sul passato — penso alla “celebrazione” del ventennale del Sessan­totto — l’autobiografia collettiva ha avuto la meglio sull’analisi interpretativa, la me­moria degli storici ha finito per sovrastare la storia stessa. Se perciò in quel caso gli storici, come è stato notato di recente da Marco Grispigni, hanno finito per ritrovar­si estromessi dal processo di formazione di una memoria comune capace di costituir­si in identità e, più in generale, faticano a trasformarsi in maitre à penser, la ragio­ne di fondo non andrebbe ricercata tanto

mentazione del laboratorio strategico dell’area della sinistra storica, sembra uscita di scena quantomeno per quel che riguarda la ricostruzione/interpretazione dell’ultimo mezzo secolo, senza nemmeno il modesto omaggio di una citazione esplicativa”: Io ha sottolineato M. Legnani in La storia contemporanea oggi: le ragioni di una crisi, con­versazione a cura di Alberto De Bernardi, “Storia in Lombardia”, 1985, n. 3, p. 93.

Queste le somme tirate da Paola Di Cori, Soggettività e pratica storica, “Movimento Operaio e Socialista”, 1987, n. 1-2, p. 89.

Cfr. Tommaso Detti, La moda dei centenari: il “caso Garibaldi’’, “Passato e Presente”, 1982, n. 2, pp. 3-7.La notazione è espressa da N. Gallerano nella conversazione con Alberto De Bernardi, La storia contemporanea

oggi, “Storia in Lombardia”, 1988, n. 3, pp. 149-150. Un punto di vista esplicitamente generazionale adotta Ma­riuccia Salvati, Oltre il “disagio” di un generazione, “Movimento Operaio e Socialista”, 1988, n. 1, pp. 99-103.

424 Stefano Battilossi

nell’impaccio di dover instaurare un rappor­to col passato in una società che vive nell’e­terno presente causato dalla disgregazione diacronica delle proprie vicende13, quanto piuttosto in quella sorta di ipersoggetivismo storiografico, chiuso nella elaborazione della “matrice di significati” (Portelli) costruita dalla propria memoria, e dunque tutto rivol­to a declinare il senso del “pubblico (la mobi­litazione sociale e politica) in identità “priva­ta”, generazionale, piuttosto che a collocare quel poderoso fenomeno in una più generale prospettiva interpretativa delle società italia­na e della storia del paese14. Se di crisi della contemporaneistica si può parlare, dunque, essa va intesa come difficoltà di elaborare un nuovo rapporto con la società, come incapa­cità di agire positivamente all’interno dei processi collettivi di produzione di senso e di formazione delle identità culturali e sociali, e di far fruttificare in quella direzione il carat­tere sempre più diffuso del sapere (pregio in­dubbio, pur in mezzo a tante contraddizioni, dell’esperienza dell’università di massa). Una via d’uscita da questa impasse non si profila spontaneamente all’orizzonte; tutta­via essa non può essere ricercata al di fuori del recupero alla storiografia — e, vorrei ag­giungere, al suo dialogo con le altre scienze sociali — di una ispirazione illuministica, “critica” e “emancipativa”15.

Sull’abbandono da parte della storiogra­fia di sinistra (continuiamo a definirla così per intenderci) del terreno della politicità gravano pesanti responsabilità per l’affer­mazione di un nuovo revisionismo, pro­grammaticamente volto alla spoliticizzazio- ne non soltanto della storiografia, ma del passato stesso. Al termine della parabola compiuta dal ruolo pubblico della storia, ci si è trovati infatti per un decennio a fare i conti con un massiccio uso pubblico della storia, una inedita dimensione della comuni­cazione politica che attiene soprattutto alla portata mediologica, dunque potenzialmen­te di massa, del discorso pubblico sul passa­to16. Questo nuovo discorso pubblico sul passato si è fondato sulla sua sistematica de­contestualizzazione, meglio sulla riconte­stualizzazione di alcuni suoi frammenti al­l’interno di un discorso svolto prevalente­mente nella forma puramente controversisti- ca della moderna comunicazione politica. L’introduzione del passato, a partire dagli anni ottanta, in questo inedito universo co- municazionale — elemento che possiamo considerare la sedimentazione della funzione legittimante (in senso alto) svolta in passato dalla riflessione storica nei confronti delle identità politiche — si è sviluppata nel qua­dro di una sufficientemente chiara egemonia politico-culturale-informativa che per ora

13 Marco Grispigni, L ’infido terreno di un presente ancora da raccontare, “Il Manifesto”, 10 febbraio 1994. L’in­tervento, che pure forniva numerosi spunti di dibattito, è rimasto significativamente privo di interlocutori.14 Lo stesso Grispigni aveva notato in precedenza come la maggior parte della letteratura prodotta dagli storici sul Sessantotto si fosse concentrata essenzialmente sulla ricostruzione di un “clima”. Cfr. M. Grispigni, Il Sessantotto. Un ciclo incompleto di protesta, “Italia contemporanea”, 1990, n. 181, pp. 737-741.15 Innumerevoli spunti forniscono in questo senso le molte sociologie critiche con le quali, viceversa, la storiografia italiana, abbacinata dal funzionalismo anglosassone, ha rinunciato a confrontarsi: penso, ad esempio, ad Alain Touraine, Per la sociologia. La mentalità sociologica come strumento di liberazione, Torino, Einaudi, 1978 [Pour la sociologie, Paris, Editions de Seuil, 1974], oltre che allo stesso Z. Bauman, Critica del senso comune, cit.16 Nel corso dell’ormai famoso Historikerstreit tedesco, è stato Jürgen Habermas a sottolineare (in riferimento alla tesi revisionista per cui l’Arcipelago Gulag sarebbe antecedente ad Auschwitz): “Solo quando un quotidiano pub­blica un articolo in questo senso, il problema delPunicità dei crimini nazisti può assumere il significato che lo rende così dirompente nel contesto dato, per noi che ci appropriamo delle tradizioni dalla prospettiva di chi è in causa. Nella sfera pubblica, per la formazione politica, per i musei e per l’insegnamento della storia, la questione della produzione in termini apologetici di visioni della storia diventa un problema immediatamente politico”: J. Haber­mas, L'uso pubblico della storia, in Gian Enrico Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa. I crimi­ni nazisti e l ’identità tedesca, Torino, Einaudi, 1987, p. 107.

Il dibattito sugli Istituti della Resistenza 425

chiamerò neo-moderata, contraddistintasi, per i ripetuti attacchi, dall’intento aperta­mente denigratorio, alla cultura politica della sinistra storica, esercitatasi dapprima nella spoliticizzazione del fascismo (dall’at­teggiamento revivalistico e consumistico proposto dalle mostre del 1982-1984 sull’e­conomia negli anni tra le due guerre agli sceneggiati televisivi stile “duce in pantofo­le”17) e concentratasi successivamente nella demolizione della stessa tradizione antifa­scista, la cui immagine è stata schiacciata su quella del Partito comunista — a sua volta stravolta ad arte (si vedano i casi “triangolo della morte” e Togliatti-Armir) — per meglio colpirli entrambi18. Oggi ci troviamo dunque a veder maturare i frutti dell’offensiva di quelli che Mason battezzò a suo tempo “paladini della nuova compia­cenza e della nuova consensualità naziona­le”: offensiva amplificata a dismisura dal sistema mediologico che ha concentrato la propria potenza di fuoco, non a caso, pro­prio sulla tradizione antifascista, rappresen­tata come “sinonimo di pregiudizio, di ignoranza, di oscurantismo, di moralismo col dito alzato”, e accusata di “combattere le battaglie di ieri, [di] essere per la disu­nione nazionale oggi”19. Il consenso diffuso

riscosso di recente nell’opinione pubblica dalla retrodatazione della “spartizione par­titocratica” alla fase del Cln e dal battage sulla “pacificazione” nazionale (avviata sin dall’autunno del 1993 e culminata nella maldestra ma rumorosa operazione “Com­bat Film”), soprattutto tra i giovani meno forniti di anticorpi culturali e politici auto­nomi e perciò più esposti ad una ricezione passiva e conformista dei messaggi prove­nienti dal contesto dominante, ci hanno mostrato una volta di più, nel caso ve ne fosse bisogno, i guasti procurati dalla dif­fusione di questo nuovo senso comune, spoliticizzato e moderato, destinato a sal­darsi spontaneamente al vecchio e nuovo vizio nazionale del qualunquismo.

Alle implicazioni di questa evoluzione si è prestata purtroppo, negli anni passati, un’attenzione assai inferiore al necessario20. Essa riporta prepotentemente alla ribalta l’urgenza di riflettere in generale sul ruolo degli intellettuali in un’epoca in cui la tra­sformazione dei sistemi sociali di comuni­cazione pone all’ordine del giorno la que­stione — come è stato scritto — della “co­lonizzazione delle menti”, e dunque obbliga a “considerare diversamente le questioni della libertà e della democrazia [poiché] la

17 Vedi, tra l’altro, Nicola Tranfaglia, Fascismo e mass media: dall’intervista di De Felice agli sceneggiati televisivi, “Passato e Presente”, 1983, n. 3, pp. 135-148; e Tim Mason, Il fascismo “made in Italy”. La mostra sull’economia italiana tra le due guerre, “Italia Contemporanea”, 1985, n. 158 pp. 5-32. Mason per primo ha insistito sugli aspetti di “apoliticizzazione della coscienza storica” e di “compiacenza postuma” (riprendendo un’espressione usata da Nello Ajello) e sulla denigrazione dell’antifascismo come componenti organiche del progetto craxiano di “sociali­smo tricolore”.18 Nulla può essere aggiunto a tale proposito alle lucide notazioni di Gianpasquale Santomassimo, Tradizione co­munista e azzeramento della storia, “Passato e Presente” , 1990, n. 22, pp. 9-18; di Guido Crainz, Il conflitto e la memoria. “Guerra civile” e “triangolo della morte”, e Salvatore Lupo, La grande tempesta e la grande bonaccia. A proposito del caso Togliatti, “Meridiana”, 1992, n. 13, pp. 17-78.19 L’espressione fu stata, con riferimento al revisionismo “afascista” (defeliciano, ma non solo), da T. Mason, Il fascismo “made in Italy”, cit., p. 24, che concludeva: “La storiografia italiana dal 1946 in poi, ci viene spiegato in Tv [...] è stata viziata dalla prospettiva della Resistenza” . Vedi a tale proposito anche le lucide osservazioni di M. Legnani, La storia contemporanea oggi, cit., pp. 88-91; e di N. Gallerano, Critica e crisi del paradigma antifasci­sta, “Problemi del Socialismo”, 1986, n. 7, pp. 123-125.80 “Oggi paghiamo la sottovalutazione del revisionismo come soggetto politico capace di egemonia”: questa la sconsolata ammissione emersa dal colloquio tra Alberto Burgio e Pier Paolo Poggio, Il revisionismo storico ultima deriva del senso comune, “Il Manifesto”, 30 novembre 1993.

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libertà politica non si limita al diritto di esercitare la propria volontà, ma obbliga ad interrogarsi su come tale volontà si è forma­ta”21. “Ogni potere — ha ricordato recente­mente Alfonso Berardinelli, riprendendo al­cune magnifiche pagine della sociologia cri­tica di Charles Wright Mills — per reggersi, ha bisogno di una cultura e del suo potere di seduzione. Ne ha tanto maggiore e costante bisogno il potere moderno di tipo liberale e democratico, che si regge più sul consenso che sulla coercizione. Ma ogni consenso, an­che quando esclude la coercizione, ha biso­gno di un uso strumentale della cultura. Ha bisogno di usare la cultura, o almeno una parte di essa, come semplice mezzo di auto­difesa apologetica”22, come strumento es­senziale di conservazione della stabilità so­ciale. Ciò non deve implicare tanto la re­staurazione di una visione apocalittica, vete- ro-foucaultiana del potere demoniaco dei “manipolatori” delle coscienze — magari calando Berlusconi nelle braghe totalitarie (esageratamente ampie rispetto alla gracilità del personaggio) del Grande Fratello orwel- liano — quanto piuttosto interrogarsi sui molteplici, e talvolta contraddittori, piani di

produzione, formazione e sedimentazione di un “sentire” pacificato, sempre più norma- lizzato e opaco (un “senso comune”, appun­to) che prepara il terreno ad un “consenso” — verso un modello culturale e sociale, in primo luogo, basato sul privatismo e sul consumismo politico23 — capace poi di tra­dursi, all’occasione, anche in consenso elet­torale24.

Norma, normalità, normalizzazione: la “modernità” come ideologia del revisioni­smo italiano

È possibile rintracciare una matrice cultura­le omogenea nella costruzione di questo “di­scorso pubblico” moderato e pacificato sul­l’Italia contemporanea? La questione appa­re ovviamente troppo complessa per poter essere sciolta in poche battute. Quel che è certo, tuttavia, è il fatto che sulla bandiera issata dalle truppe, regolari e mercenarie, che da oltre un decennio combattono questa battaglia, campeggia a lettere di fuoco il motto: Modernità. La Modernità è infatti senza dubbio il logo, il marchio distintivo

21 Armand Mattelart, Come resistere alla colonizzazione delle menti, “Le Monde Diplomatique/Il Manifesto”, 2 aprile 1994, p. 2.22 Alfonso Berardinelli, C’era una volta... La critica della cultura, “Linea d’Ombra”, 1993, n. 88, p. 23.23 Illuminanti, e in qualche modo profetici, gli avvertimenti lanciati in piena era craxiana da Tim Mason, Moder­no, modernità, modernizzazione: un montaggio, “Movimento Operaio e Socialista”, 1987, n. 1-2, pp. 57-58: “oc­corre ancora polemizzare con forza con chi [...] considera la smobilitazione politica come un elemento essenziale della maturità civile e il disinteresse per la vita pubblica un risultato positivo della modernità. L’anti-giacobinismo post-factum è particolarmente esplicito negli studiosi di scienza politica conservatori negli Stati Uniti [riferimento esplicito a Seymour M. Lipset] [...] ma tendenze simili possono essere rintracciate in tutti i paesi europei, special- mente in Italia, dove i modernizzatori stanno tentando apertamente di trasformare la partecipazione politica in pu­ro consumo politico. [...] Questo aspetto del problema sembra essere completamente trascurato dai commentatori democratici e di sinistra, che hanno la tendenza ad ammettere [...] che i vantaggi della modernizzazione costituisco­no un insieme indivisibile e che si consolida reciprocamente; che la riduzione del ribellismo e del clientelismo con­durrà, non si sa come, ad una crescita della partecipazione democratica e delle virtù civiche. Niente di più ingenuo. Molte specie di civiltà vanno perfettamente d’accordo con l’apatia politica, il consumismo politico e il rifugio nel privato, e molti influenti studiosi, uomini politici e responsabili dei media ritengono che così le cose dovrebbero an­dare. Non è un paradosso [...] osservare che a Craxi e Berlusconi l’appello [...] ai valori civili e al civismo attivo de­ve apparire come un pericoloso arcaismo”.24 Riflessioni di grande interesse, assai ricche di spunti problematici, ho trovato nella conversazione tra Luisa Pas­serini e Claudio Pavone, Sentire/consentire: conversando di mass media e di libertà, “Problemi del Socialismo”, 1988, n. 1 pp. 142-158.

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del revisionismo nostrano: un revisionismo, occorre dire, mai approdato alla fondazione di una corrente storiografica, o all’elabora­zione di una proposta interpretativa coeren­te — invano si cercherebbe su giornali e rivi­ste la solidificazione di un Historikerstreit italiano — ma rimasto per così dire allo sta­to gassoso, diffuso e sfuggente al tempo stesso, “senso comune” in grado di conqui­stare senza grande clamore l’opinione media.

Di questo “clima culturale” si possono tuttavia enucleare alcuni elementi fondativi sufficientemente chiari. Senza dubbio, pro­prio dall’orecchiamento di alcune categorie interpretative mutuate dalla sociologia della modernizzazione Renzo De Felice, negli or­mai lontani anni settanta, trasse spunto per costruire (con l’aiuto interessato di molti) intorno alla famosa Intervista sul fascismo il primo media-event storiografico dell’Italia contemporanea, riuscendo ad accreditare come operazione di innovazione culturale un’opera, la famosa biografia mussoliniana, segnata viceversa, come è stato notato da più parti, da una decisa regressione storici­stica (la convinzione dell’unicità e individua­lità dei fenomeni storici, la diffidenza per l’approccio comparatistico delle scienze so­ciali) e dalla ricaduta nel peggior positivismo doumentario25. Fu in realtà il suo intento esplicitamente polemico nei confronti della vecchia e nuova storiografia di sinistra ad essere percepito da molti — specie da quegli

intellettuali che sull’abiura pubblica e rumo­rosa della precedente militanza comunista hanno costruito le proprie fortune di opi­nion-maker — come la rottura di una sorta di tabù culturale, un vero e proprio atto li­beratorio. Così proprio le ben note debolez­ze concettuali di De Felice — l’uso pura­mente evocativo e incoerente della “moder­nità” del fascismo; la cancellazione sia della realtà politica del regime reazionario di mas­sa, sia della dinamica dei conflitti sociali nell’Italia tra le due guerre; la demolizione del fascismo come problema storico (il nodo del rapporto tra regime autoritario e svilup­po del capitalismo italiano) fino alla sua ba­nalizzazione e dissoluzione nei tanti “fasci­smi” personali26 — hanno rappresentato probabilmente, e in modo solo apparente­mente paradossale, il miglior viatico di suc­cesso: proprio perché sul piano della bana­lizzazione, della semplificazione del messag­gio, dell’allentamento dei vincoli della coe­renza espositiva, la falsa acribia dello stori­co “afascista” si è potuta incontrare sponta­neamente con l’esperienza autobiografica e l’opinione moderata tipica di quella maggio­ranza grigia e silenziosa che, assolvendo in parte anche se stessa, aveva già rimosso e metabolizzato l’esperienza del fascismo co­me “una dittatura all’acqua di rose” (Galle- rano).

Non sorprende dunque che qualche anno più tardi proprio sulla difesa di De Felice dal “tentativo di scomunica” messo in atto

25 II testo fondativo del revisionismo defeliciano resta la famosa Intervista sul fascismo, a cura di Michael A. Le- deen, Bari, Laterza, 1975. Per capire i suoi referenti culturali — dai sociologi americani della modernizzazione ai teorici del totalitarismo, fino all’influenza evidente del primo Nolte (quello del fascismo come “rivoluzione conser­vatrice”) — può risultare utile una lettura attenta dei giudizi disseminati nelle pagine de Le interpretazioni del fasci­smo, Bari, Laterza, 1977 (I ed. 1969), in particolare pp. 83-153. Notevoli discussione suscitò anche l’intervista su fascismo-antifascismo concessa da De Felice al “Corriere della Sera”, del 27 dicembre 1987.26 Per una critica all’impostazione defeliciana cfr. le osservazioni di M. Legnani, La storia contemporanea oggi, cit., pp. 95-96, e di N. Gallerano, Critica e crisi, cit., pp. 110-120, che parlano di un rapporto col passato “revivali­stico, nostalgico, interamente pacificato”, richiamando la nota espressione di Le Goff sul “disincanto degli uomini di fronte alle asperità della vita vissuta”. Sul presunto “totalitarismo incompiuto” del regime fascista rispetto al “totalitarismo realizzato” del nazismo, cfr. la replica di Enzo Collotti, Lo stato totalitario, in Guido Quazza, E. Collotti, M. Legnani, Marco Palla, G. Santomassimo, Storiografia e fascismo, Milano, Angeli, 1985, pp. 25-40.

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dalla storiografia politicizzata di sinistra abbia preso le mosse il violento attacco di Ernesto Galli della Loggia (che per l’occa­sione depose gli abiti di opinionista e pole­mista politico, per indossare quelli — certo per lui meno usuali — dello storico) contro “la fondazione ideologico-polemica della storiografia contemporaneistica italiana”: un attacco tutto giocato appunto sulla con­statazione di un rapporto “tormentato” con la modernità, di una “radicale sordità” opposta dalla cultura nazionale all’ “avven­to del moderno e della sua epoca” e di una inveterata incapacità di “approntare gli adeguati strumenti critici e conoscitivi per affrontarlo”27 28. E appunto questo appare, in realtà, la basilare ragion d’essere del re­visionismo italiano: la demolizione e la de­legittimazione della tradizione culturale del­la sinistra storica, e in primo luogo dell’e­sperienza comunista. In questo ampliamen­to alla sfera culturale delle movenze deni­gratorie del “duello a sinistra” , moderniz­zazione si è rivelata la parola chiave con­cetto la cui forza riposa proprio nell’inde­terminatezza, nel carattere allusivo, nella capacità di fungere da sinonimo di catego­rie generiche quali trasformazione e cam­biamento^, ma con un surplus normativo che ne fa un’arma ambigua e particolar­mente efficace29. Proprio sull’uso prevalen­temente normativo del concetto di moder­nizzazione si è retta l’ossatura di base del revisionismo nostrano. Niente sembra in ef­fetti adattarsi al contesto italiano meglio

della notazione secondo la quale “quanti scrivono di modernizzazione in generale danno giudizi di valore sul passato e di­chiarano il loro impegno nei confronti del futuro: vogliono che il loro lavoro intellet­tuale contribuisca ad una particolare forma di progresso culturale e politico”30. La mo­dernizzazione ha giocato insomma un ruolo cruciale in quanto base di una “retorica dell’intransigenza” (Hirschman) che ha ro­vesciato la tradizionale attribuzione di se­gno politico tra destra e sinistra: nel nuovo quadro di riferimento, alla prima è infatti spettata la palma dell’innovazione, del cambiamento, della maturità, laddove la seconda è stata confinata nell’arretratezza e nella conservazione. Questa duplice dimen­sione della modernizzazione, come catego­ria interpretativa e come norma, ha agito anche all’interno della distinzione operata da Cafagna tra modernizzazione attiva e passiva: laddove la prima è presentata ap­punto come “modernizzazione-progetto”, relativa essenzialmente alla dimensione po­litica, che comporta la presenza di un atto­re politico e sociale “che accolga la ‘sfida’ e articoli la ‘risposta’”31. Quello che ha preso corpo in questi anni appare dunque un universo complesso e in larga parte au­toreferenziale, un campo fitto di rimandi e cortocircuiti. Come categoria interpretativa applicata alle trasformazioni sociali del paese, la lettura in chiave di modernizza­zione (prevalentemente come trascinamento passivo del paese in un mainstream interna-

27 Ernesto Galli della Loggia, Una storiografia indifferente, “Il Mulino”, 1986, n. 4, pp. 594-599, nel corso del quale l’autore, forse nell’intento di regolare alcuni conti in sospeso, parla con inconsueto livore della storiografia “di sinistra” in termini di “eccesso di veemenza, eterogeneità di motivi, frequente elusiva capziosità dell’argomen­tazione”.28 Vedi, oltre a T. Mason, Moderno, modernità, modernizzazione, cit., pp. 45-51, anche le considerazioni di Carla Pasquinelli, Il posto della tradizione, “Problemi del Socialismo”, 1988, n. 2-3, pp. 70-72.29 Sulla forte carica normativa della categoria di modernizzazione, oltre ai contributi già ricordati, vedi anche Hans U. Wehler, Teoria della modernizzazione e storia, Milano, Vita e Pensiero, 1991, pp. 103-104 [Modernisie- rungstheorie und Geschichte, Gottingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1975].30 T. Mason, Moderno, modernità, modernizzazione, cit., p. 52.31 Luciano Cafagna, Modernizzazione attiva e modernizzazione passiva, “Meridiana”, 1988, n. 2.

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zionale32) è stata infatti vissuta a sua volta come modernizzazione della cultura italiana e cesura rispetto alla tradizione storicista- marxista (si è parlato giustamente di un uso esplicitamente polemico del comparatismo come contestazione degli assunti della sto­riografia egemone e nazionalizzante, dun­que come una sorta di contro-storia nazio­nale33); al tempo stesso, utilizzata come idealtipo, essa è venuta tracciando il profilo di un modello — economico, sociale, politi­co — alla cui realizzazione puntava pro­grammaticamente, normativamente, la stes­sa cultura modernizzante. Su questa ambi­guità, interpretativa e prescrittiva, della mo­dernizzazione si è giocata larga parte della più recente riflessione sulla tradizione anti­fascista e comunista, e per estensione sulla storia dell’Italia repubblicana.

Questo discorso eminentemente politico — una vera e propria critica dell’antifasci­smo in quanto base di legittimazione dei grandi partiti di massa protagonisti della vi­ta pubblica nel dopoguerra — è stato recen­temente portato ad una esasperazione radi­cale da Cafagna e Galli della Loggia. L’uno ha dedicato un agile pamphlet a demolire ogni singola pietra della tradizione politica dei comunisti italiani: assimilando la critica gramsciana della democrazia all’“agitazioni- smo intellettuale” dei Papini e dei Prezzoli­ni; enfatizzando nel patrimonio culturale del Pei la continuità col peccato originale della radice soreliana (la politica come “mito” op­posta alla politica democratica “dell’interes­se e dello scambio”), dunque “la irresistibile propensione di adottare una logica della guerra, della rivoluzione, della dittatura”;

bollando la linea delle “riforme di struttura” come puro artifizio retorico rivolto alla mo­bilitazione permanente, basata sulla “ampli­ficazione delle aspettative” e finalizzata al mantenimento del carattere “bellico” del partito; teorizzando infine come le fortune dei grandi partiti di massa — comunista e democristiano — siano dipese nel dopoguer­ra dalla loro capacità di occupare lo “spazio autoritario” lasciato vuoto dalla caduta del regime: interpretazione geniale, ancorché scarsamente argomentata, che gli consente in un sol colpo di smontare la mitica coppia antifascismo-comunismo e di dimostrare le origini autoritarie della partitocrazia34. L’al­tro ha rivolto i suoi sforzi (divisione del la­voro davvero esemplare!) a far piazza pulita della tradizione azionista, anzi del “gobetti- smo” e del “giellismo” torinese (Bobbio, Foa, Galante Garrone), erede anch’esso di quella “ideologia italiana” — “il paradigma mazziniano-desanctisiano, con i successivi innesti orianeschi, soreliani, vociani” — vo­tata alla mobilitazione delle energie morali e sociali, alla saldatura tra intellettuali e “po­polo” , “al di fuori e ‘oltre’ i normali canali della rappresentanza e la dimensione ordina­ria della politica democratica”, dunque col­pevole di aver elaborato un’interpretazione “asimmetrica” della democrazia (il “fonda­mentalismo antifascista” e la “opzione per un rapporto privilegiato con l’esperienza co­munista”), di flirtare con i nemici mortali della democrazia (“pas d ’ennemis à gau­che”), di “scimmiottare tutti i consiliarismi, proteggere tutti gli spontaneismi, auspicare tutte le socializzazioni di attività economi­che e tutte le democrazie dal basso, [...] tut-

3~ La notazione è espressa da Mariuccia Salvati in un intervento (Società e politica nella storia d ’Italia di Paul Gin- sborg, “Quaderni Storici”, 1990, n. 74, pp. 611-612) a margine del libro di P. Ginsborg, Storia d ’Italia dal dopo­guerra ad oggi. Società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989 [A History o f Contemporary Italy. Society and politics 1943-1988, London, Penguin Books, 1990],

Cfr. Mariuccia Salvati, Storia contemporanea e storia comparata oggi: il caso dell’Italia, “Rivista di Storia Con­temporanea”, 1992, n. 2-3, pp. 502-503.

Luciano Cafagna, C ’era una volta... Riflessioni sul comuniSmo italiano, Venezia, Marsilio, 1991.

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te le cose che non c’entravano nulla con qualsiasi supposta ispirazione liberal-demo- cratica o liberal-socialista”, di aver perpe­tuato insomma sin dentro l’Italia degli anni settanta “una temperie ideale e culturale da entre-deux-guerres” e “alimentato in modo decisivo e costante entro il campo democra­tico da essi influenzato, la tendenza a inter­pretare perennemente i movimenti sociali, nonché il ciclo e gli attori politici della scena repubblicana, in funzione della triade fasci- smo-antifascismo-comunismo: quasi che so­lo queste fossero le forze primigenie della storia contemporanea”35.

Se ho scelto di dilungarmi nell’esemplifi­cazione, per quanto episodica, dei temi por­tanti di questa letteratura, è perché da que­sta emerge senza inibizioni l’atteggiamento revisionistico di fondo, vorrei dire il rove­sciamento di segno che in questi ultimi anni ha dominato in Italia il discorso pubblico sul passato repubblicano ed ha accompa­gnato la transizione dalla prima alla secon­da repubblica (e mi si perdoni l’uso, per bieca comodità, di questo luogo comune). Sarebbe tuttavia unilaterale un’interpreta­zione che guardasse a questo passaggio esclusivamente come una sorta di “rivela­

zione” postuma dell’anticomunismo in quanto autentica base di legittimazione del­la repubblica: problema che conserva benin­teso una sua corposità36, e che sotto certi aspetti si lega anche alle ripercussioni degli avvenimenti del dopo 1989, in una senso che esula peraltro dai confini nazionali per assumere una dimensione europea37. Più che combattere a viso aperto una coerente battaglia culturale, questo revisionismo ha occupato gli spazi abbandonate da una sini­stra, assediata dalla sua stessa impotenza politica, che in questi anni ha silenziosa­mente consumato la rottura con la propria tradizione, ha rinunciato a ripensare e ri­scrivere la propria storia38, ha introiettato anch’essa l’orizzonte della modernizzazione con una valenza evocativa (anche qui mo­dernizzazione suona espressione dai contor­ni indefiniti, sinonimo di “tradizione occi­dentale” , “socialismo europeo”, “riformi­smo”, “democrazia di tipo liberale”) e un impeto normativo e discontinuista spesso non inferiore a quello dei suoi avversari, seppure orientato in questo caso ad adegua­re la propria cultura politica al “compro­messo socialdemocratico”, alla logica dello scambio politico39. Qui la riflessione storica

35 E. Galli della Loggia, La democrazia immaginaria. L ’azionismo e V “ideologia italiana”, “Il Mulino”, 1993, n. 2. Per dovere di completezza, va aggiunto che Galli della Loggia aveva già da tempo iniziato a regolare i suoi conti col Pei descrivendo la cultura nazional-popolare come adattamento italico di uno zdanovismo impastato con Croce e Gramsci, e attribuendo la “crescente politicizzazione e socializzazione degli intellettuali” e l’impegno “a si­nistra” della cultura alla trasformazione impressa alla figura degli intellettuali dal fascismo: cfr. E. Galli della Log­gia, Ideologie, classi e costume, in Valerio Castronovo (a cura di), L ’Italia contemporanea 1945-1975, Torino, Ei­naudi, 1976, pp. 398-404.36 L’ha ricordato lo stesso Norberto Bobbio nella sua corrispondenza con Gian Enrico Rusconi, Lettere sull'azio- nismo, “Il Mulino”, 1992, n. 6, p. 1024.37 Cfr. le recenti notazioni di Jürgen Habermas sul ruolo svolto dall’anticomunismo nella Germania di Adenauer come mezzo per creare una falsa continuità della storia tedesca, espresse nel corso di una lunga conversazione con Adam Michnik: J. Habermas, A. Michnik, Overcoming the Past, “New Left Review”, 1994, n. 203, pp. 9-10.38 Vedi l’intervista di Marcello Flores a Enzo Collotti, Il Pei fra tradizione e rinnovamento, “Problemi del Sociali­smo”, 1985, n. 6.39 Numerosi potrebbero essere i riferimenti in proposito. Mi limito qui a segnalare Leonardo Paggi, Massimo D ’Angelillo, I comunisti italiani e il riformismo. Un confronto con le socialdemocrazie europee, Torino, Einaudi, 1986, in particolare il capitolo dedicato alle “modernizzazioni del Pei”; Gianfranco Pasquino, Il concetto di mo­dernizzazione e il caso italiano, “Problemi del Socialismo”, 1988, n. 2-3; e il corposo saggio dedicato da Massimo L. Salvadori, Il fondamento unitario della “doppiezza” di Togliatti, apparso sull’ “Avanti” dell’l l marzo 1991, la cui tesi di fondo si riassume nella conclusione per cui “l’essenza dell’eredità storica del togliattismo è quella di aver

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sul “sistema politico bloccato” , sull’incapa­cità della sinistra di assumere il governo del paese, a partire dalla crisi della politica del compromesso storico ha trovato il proprio centro di gravitazione nell’universo concet­tuale della scienza politica, anzi nella subli­mazione di una “storia della politica”40 che è si fatta appunto storia della modernizzazione della politica, e rivolge la propria attenzione quasi esclusivamente ai sistemi politici e alle loro regole, ai modelli organizzativi, al com­portamento elettorale41, con una inclinazio­ne giuridico-formale e costituzionale che tra­duce sul piano storico una cultura politica autoconfinatasi all’interno del sistema politi­co, una vera e propria monocultura istituzio­nale.

Non è difficile cogliere, in questo passag­gio, un intento di omologazione culturale che si fa progetto politico di una nuova le­gittimazione. Non a caso, il riflesso storio­grafico di questo spostamento culturale, di questa ricerca di una “normalità” negata dalla propria storia si è manifestato di re­cente nel peso preponderante assunto dal problema dell’identità nazionale 42, concen­tratosi sui limiti dell’integrazione della so­cietà nello Stato attraverso i partiti e sul

conseguente atteggiamento di “distanza, passività, attesa” dei cittadini nei confronti dello Stato, in virtù del quale la atavica cul­tura nazionale del non impegno ha “assunto le vesti moderne della diffusa accettazione del sistema dei partiti” (Salvati). Di qui la denuncia della mancanza di un comune sen­so di nazione “affidato alla sedimentazione di culture e di atteggiamenti morali, ideali e culturali che in questo paese, negli ultimi cinquant’anni, non sono stati edificati e, do­ve c’erano, sono stati smantellati”43. Di qui anche le critiche alla modernizzazione italia­na incompiuta, “strozzata, abortita” (Lana- ro), incapace di realizzare una piena “socie­tà industriale” (Sapelli) e di trasferirsi dal terreno della crescita economica e tecnologi­ca a quello dello “sviluppo sociale e civi­le”44, e l’affannosa ricerca delle cause della “perdita dell’identità nazionale nell’Italia del dopoguerra”, ricercate di volta in volta nell’eredità del fascismo e della guerra, nel- l’intoriezione del concetto di sovranità limi­tata (quindi derivante dalla collocazione in­ternazionale), nel carattere universalistico dei grandi partiti di massa (De e Pei), nella pratica del consociativismo. Di qui infine anche le considerazioni sull’ostacolo frappo-

costituito un ‘residuo* assai corposo sul cammino della modernizzazione del sistema politico e dei rapporti sociali in Italia”. Ad esso ha replicato con pacatezza e lucidità Aldo Agosti, Tradizione comunista e ",modernizzazione”. A proposito di un intervento su Togliatti, “Studi Storici”, 1991, n. 2.40 Piero Bevilacqua, Storia della politica o uso politico della storia?, “Meridiana”, 1988, n. 3.41 Sposa con disinvoltura questa programmatica riduzione del campo di indagine Maurizio Ridolfi, Storia sociale e “rifondazione” della storia politica, “Italia Contemporanea”, 1993, n. 192, pp. 529-536, che esemplarmente identi­fica nel Centro ricerche di storia politica di Bologna il demiurgo del più recente rinnovamento della storia politica italiana.42 Cfr. H.U. Wehler, Teoria della modernizzazione e storia, cit., pp. X-XI.43 Così l’intervento di Silvio Lanaro nella tavola rotonda svoltasi presso il Dipartimento di storia dell’Università di Firenze nel novembre 1992, con la partecipazione di Paul Ginsborg e Pietro Scoppola: cfr. la registrazione in L ’Ita­lia repubblicana: tre autori a confronto, “Passato e Presente”, 1993, n. 29, pp. 19-20.44 Alcuni temi di fondo sviluppati da Lanaro nella recente Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, Venezia, Marsilio, 1992, tra cui quello della snazionalizzazione e della mancata costruzione di una identità nazionale, si trovano enucleati anche nella sua opera precedente, L ’Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988, Torino, Einaudi, 1988, soprattutto nel capitolo conclusivo Senza più patria?. Di contrapposizione tra “stato senza società” e “appartenenze senza stato” parla anche Mario Isnenghi, Dalle Alpi al Lilibeo. Il “noi” diffi­cile degli italiani, “Meridiana”, 1993, n. 16, pp. 41-59. Cfr. anche Giulio Sapelli, L ’Italia inafferrabile. Conflitti, sviluppo, dissociazione dagli anni cinquanta a oggi, Venezia, Marsilio, 1989, che parla di “incompiuto sviluppo qualitativo”, di “precaria cittadinanza industriale” , di carente “integrazione funzionale”.

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sto alla integrazione tra società e Stato dalla carica antiformalistica propria sia della cul­tura cattolica sia di quella comunista (en­trambe, si è detto, scuole di democrazia, vei­coli basilari dell’adattamento del paese alle istituzioni democratiche, ma accomunate dalPantiformalismo, l’una in nome del dirit­to naturale contro quello positivo, l’altra in nome della democrazia reale contro quella formale), e l’affermazione della necessità del passaggio della cultura politica della sini­stra dal terreno del conflitto a quello della cittadinanza, ovvero dall 'etica della convin­zione all’etica della responsabilità*5. Come si vede, per questa generazione di “storici-te­stimoni” (la definizione è di Raffaele Roma­nelli) che, osservando l’intreccio tra conti­nuità e innovazione, va puntando il fuoco dei riflettori “sui caratteri della trasforma­zione che si ritengono insoddisfacenti, ovve­ro non rispondenti ad un modello atteso, o prefigurabile, di modernità”45 46, il tema dell’i­dentità spesso si è tradotto davvero in “un labirinto di segnali, analogie, allusioni”47:

meno riflessione sul passato e più sintomo della reazione di una generazione di intellet­tuali ad una “crisi di identificazione” cultu­rale e della ricerca di un rapporto di questi storici con il proprio passato, a conferma di una “vicinanza ambivalente” tra identità culturale e identità nazionale (ciò che con­sente di rintracciare una “comunità interio­re” e di tenere separati la nazione e lo Sta­to), al punto di spingere Balibar a chiedersi “se la nozione di identità culturale non [sia] oggi nient’altro che la metafora dell’identità nazionale? ”48ossia non solo una sua rappre­sentazione ma anche, e soprattutto, sposta­mento, fuga in avanti.

Una nuova storiografia critica, una diversa militanza culturale

L’offensiva che gli Istituti si trovano oggi a fronteggiare rappresenta dunque l’approdo di un lungo percorso attraverso gli anni ot­tanta, e rispetto al quale non vi sono facili

45 Cosi M. Salvati nell’intervento a margine del libro di Ginsborg, cit., pp. 612-614, nel quale è svolta la seguente breve digressione hirschmaniana esemplare di questo atteggiamento: negli anni ottanta “è cresciuta (nell’area catto­lica come nell’area comunista, anche al di là dei pochi che già la praticavano) la consapevolezza che contro questo disinvolto e ben poco nobile ‘antiformalismo’ non valga tanto un richiamo ai ‘valori’, alla democrazia ‘reale’ (il che rappresenterebbe ancora una sorta di exit o defezione dalle ‘responsabilità’ attuali) quanto una convinta prote­sta per il rispetto della correttezza formale e della coerenza giuridica in quelle che si pretende (e vogliamo che sia) uno Stato di diritto. Il segno della fine della cultura che ha dominato il ‘lungo dopoguerra’ sta nella consapevolezza di questo cambiamento anche da parte di chi di quella cultura aveva fatto parte” .46 Così si è espresso, cogliendo a pieno nel segno, Raffaele Romanelli, Lanaro gioca in contropiede. A proposito di ‘Storia dell’Italia repubblicana’, “XX Secolo”, 1993, n. 7-8, p. 45, che scrive: “Poiché oggi tocca a una generazio­ne di cinquantenni dare i primi rendiconti del mezzo secolo di storia repubblicana, è inevitabile che la ricerca di una identità collettiva rechi tracce di autobiografismo. [...] Come storici-testimoni ci accingiamo a documentare i pro­fondi mutamenti avvenuti durante il cinquantennio in una società che in ogni senso si è ‘modernizzata’, ma i dati sono così presenti nella nostra biografia che stentiamo ad esporli [...], ciò che ci urge è il commentarli, e gridare una delusione”.47 G.E. Rusconi, Identità, “Laboratorio Politico”, 1982, n. 5-6, p. 158.48 “Non è significativo che la nozione di identità culturale sia invocata di preferenza in congiunture di conflitto o di ‘crisi’? L’identità non è mai tranquillamente acquisita: è rivendicata come garanzia contro una minaccia di annien­tamento. [...] L’identità è un discorso della tradizione. E uno dei nomi privilegiati della tradizione, nelle società contemporanee, è precisamente ‘cultura’. In realtà, non c’è perciò una identità o più identità, ma solamente identi­ficazioni: sia con l’istituzione stessa, sia con altri soggetti tramite l’istituzione. O, se si vuole, le identità non sono che l ’ideale perseguito da processi di identificazione, il punto d’onore, di certezza o di incertezza, della loro co­scienza, quindi il loro referente immaginario”: Etienne Balibar, Cultura e identità, “Problemi del Socialismo”, 1989, n. 3, pp. 17-19 e 27.

Il dibattito sugli Istituti della Resistenza 433

vie di fuga. Non stupisce perciò che, nell’at­tuale dibattito massmediologico (più simile, a dire il vero, ad un confuso corpo a corpo) destinato presumibilmente a preparare il ter­reno per le celebrazioni del cinquantennale della Liberazione, le argomentazioni — e tanti protagonisti (i Colletti, i Melograni, i Guerri) — siano gli stessi di dieci anni fa, con quel più di arroganza conferita loro dal­la favorevole congiuntura politica49. Ben più grave mi pare, oggi, il segnale che proviene dalla reazione di coloro che all’orizzonte ideale dei valori della Resistenza e dell’anti­fascismo hanno continuato a richiamarsi: una reazione puramente difensiva, di arroc­camento, tutta racchiusa nella riaffermazio­ne di quella cultura dell’antifascismo pro­fondamente radicata nella grande mobilita­zione democratica della metà degli anni set­tanta, fortemente debitrice del clima dell’u­nità nazionale contro 1’eversione neofascista e il terrorismo brigatista — la continuità del patto antifascista sottoscritto dalle forze po­litiche nella Resistenza, la Costituzione co­me cemento unitario dello stato repubblica­no — recuperando quasi integralmente quel­la dimensione patriottica e nazionale che i movimenti degli anni sessanta e settanta ave­vano contestato in nome di una visione spontaneista o classista, in ogni caso anti-i- stituzionale, della lotta di liberazione.

Occorre dire perciò che difendere la pro­

pria identità non basta. Anche senza voler cedere al catastrofismo d’occasione, i più re­centi avvenimenti politici hanno dimostrato fino a che punto quel sentimento collettivo e unitario si sia venuto sfibrando nel corpo della società italiana; così come la memora­bile e generosa risposta popolare del 25 apri­le non può alimentare facili illusioni sulla possibilità di superare d’un sol colpo l’eredi­tà culturale di un decennio di disgregazione e di traumi ideali e sociali. Lo aveva già se­gnalato, quasi dieci anni or sono, Nicola Gallerano: “la critica diffusa del paradigma antifascista segnala il logoramento della funzione cui esso aveva assolto nel quaran­tennio repubblicano, di fondamentale stru­mento di legittimazione del sistema dei par­titi uscito vincitore dalla Resistenza”50; ciò appare oggi tanto più vero quanto più la cri­si dei partiti della sinistra storica ha abbattu­to definitivamente molti argini interiori, mentre molta nuova intellettualità di sinistra guarda oggi alla propria tradizione con di­sincanto laicistico, con cinismo e talora per­sino con insofferenza, come ad un impaccio di cui sgravarsi nel modo più indolore. Di fronte al rischio di limitarsi alla riproposi­zione dell’antifascismo come schieramento, “connotato conservatore di legittimazione [di un] ordine politico dominante” (Revelli) ormai consunto, occorre perciò recuperare all’ispirazione della proposta culturale degli

49 Fu allora che dalle pagine del “Corriere della Sera” Lucio Colletti pronunciò la famosa sentenza (poi ripresa in innumerevoli ossasioni) secondo cui, mentre la democrazia doveva considerarsi sempre antifascista, vicerversa non sempre l’antifascismo poteva considerarsi democratico. Per avere un’idea del clima generale intorno al quaranen- nale della Liberazione basta scorrere la rassegna stampa curata da Massimo Legnani, Paola Pirzio e Chiara Rober- tazzi, “Italia Contemporanea”, 1985, n. 159, pp. 135-141.

N. Gallerano, Critica e crisi del paradigma antifascista, cit., pp. 128-129, che denunciava anche il silenzio e la la­titanza della sinistra antifascista, politica e intellettuale, bloccata da una pavidità culturale recalcitrante di fronte all’idea di affrontare apertamente luoghi comuni e tabù della propria tradizione: tra questi Gallerano ricordava “l’immagine ortodossa di un antifascismo unanimistico e appiattito sul terreno patriottico”, la “rimozione del lace­rante e contraddittorio processo vissuto dalla coscienza collettiva per liberarsi dalle sue compromissioni con il fasci­smo”, il problema della violenza e della “guerra civile”, augurandosi infine che la crisi del paradigma antifascista rappresentasse l’occasione per sciogliere quei nodi irrisolti. A quasi dieci armi di distanza — e pensando anche al paradossale effetto sortito, a livello di dibattito pubblico, dalla pubblicazione dell’opera di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1981 — quei nodi appaio­no sempre più irrimediabilmente inestricati.

434 Stefano Battilossi

istituti l’orizzonte di una cultura dell’antifa­scismo, basata su una concezione della de­mocrazia radicale, partecipata, sociale, an­tagonistica, aperta al conflitto e alla sfida tra democrazia dal basso e organizzazione del consenso51, ma anche sul rifiuto del raz­zismo e della cultura dell’esclusione, sul pa­cifismo e la solidarietà tra i popoli. Solo una cultura antifascista che si faccia portatrice di una coscienza critica della struttura gerar­chica della società, dei poteri forti, dei livelli di dominio palesi e occulti può replicare con successo ad una cultura dominata dal fun­zionalismo, dal rispetto dell’ordine e delle norme compatibili con i meccanismi sociali dominanti, dalla percezione del conflitto co­me disordine, patologia sociale, radice di di­sgregazione52. Solo una cultura politica de­mocratica basata suH’ampliamento e sull’ar­ricchimento dei contenuti della cittadinanza, sull’auto-organizzazione e sull’autogoverno della società, può contrastare culturalmente un ciclo politico che si preannuncia domina­to da forze che, legittimate dalla devastazio­ne operata dal cinquantennio di potere de­mocristiano — un welfare particolaristico e clientelare, un mercato del lavoro segmenta­to e inefficiente, un sistema formativo scle- rotizzato — disegnano senza infingimenti un percorso a ritroso, di restringimento della cittadinanza53.

Alla costruzione di questa nuova cultura critica la storigrafia deve saper partecipare con grande intensità. Sul terreno storiografi- co, una rinnovata consapevolezza della poli­

ticità intrinseca del sapere storico non potrà che alimentarsi costruttivamente della ten­sione, ormai consolidata nella contempora- neistica, tra microstoria e macrostoria, tra soggettività e oggettività, spazio all’interno della quale può maturare il contributo più originale della storiografia alla conoscenza critica delle società capitalistiche contempo­ranee. Per questo, il futuro programma di ri­cerca degli istituti — ché questo mi pare un passaggio ineludibile per il rilancio dell’atti­vità — non potrà che porre al centro della propria riflessione, e in tutta la sua latitudi­ne, la questione della “democrazia” (“realtà e apparenza della democrazia” recitava nel 1972 il programma della appena costituita “Rivista di storia contemporanea”) elabo­rando nuove categorie interpretative e coniu­gando la prospettiva, dei governati — una storia della cittadinanza, come critica dei po­tere e storia dei diritti civili e sociali — a quella istituzionale dei governanti — il “dop­pio stato”, le riforme mancate.

Contro ogni tentazione di smobilitazione intellettuale, contro il rischio di far vincere una cultura passiva della democrazia, il ri­lancio degli istituti può costituire inoltre l’occasione di una inconsueta mobilitazione culturale. La via da tentare mi pare quella di una “militanza intellettuale”, capace di tro­vare il proprio referente non più nel moder­no Principe decaduto, ma nella autonoma capacità di raccogliere, organizzare, pro­muovere ad una dimensione attiva e parte­cipativa nuove energie intellettuali. Per

51 Ha felicemente riassunto questo orizzonte Marco Revelli, Fascismo e antifascismi, “Italia Contemporanea”, 1990, n. 179, pp. 307-311.52 Dello struttural-funzionalismo come di una “filosofia sistemica perennemente preoccupata anch’essa dell’ordine e dell’equilibrio in ossequio alla sua vocazione ideologica” parla giustamente Maria Caterina Federici nella voce Conflitto, in Marina D ’Amato, Nicola Porro, Sociologia. Dizionario tematico, con una prefazione di Franco Fer- rarotti, Roma, Editori Riuniti, 1985.53 Sulla divaricazione tra l’ottimismo evoluzionistico di T.H. Marshall, che considera la cittadinanza come acquisi­zione irreversibile, e viceversa la contestazione di questo carattere di necessità e irreversibilità dei processi di esten­sione della cittadinanza da parte non solo dei sociologi neomarxisti, ma anche di autori come Giddens, aperti all’in­fluenza teorica del marxismo, cfr. la concisa ma efficace voce Cittadinanza, curata da Nicola Porro, in M. D’Ama­to, N. Porro, Sociologia, cit.

Il dibattito sugli Istituti della Resistenza 435

questo credo che si imponga alla discussione anche una profonda revisione del modello associativo degli istituti, con l’obiettivo di farne — oltre che centri promotori di ricerca e di progettazione culturale — anche organi­smi capaci di costituirsi in comunità scienti­fica e intellettuale, di mobilitare la parteci­

pazione attiva e propositiva di quella intel­lettualità diffusa prodotta dall’università di massa, e che rappresenta una risorsa latente e spesso non sfruttata solo per mancanza di punti di aggregazione e di riferimento.

Stefano Battilossi

Dagli istituti “militanti” agli istituti “scientifici”

Stefano Magagnoli

È oramai risaputo da tutti coloro che opera­no a contatto con gli istituti storici della Re­sistenza che intorno ai grossi nodi della vita organizzativa ed associativa (attività storio­grafica, organizzazione interna e rapporti federativi nella rete, prospettive organizzati­ve terminata la celebrazione del Cinquante­simo, ecc.) sta cominciando ad articolarsi un dibattito serrato, reso probabilmente più sentito in questa fase dagli avvenimenti poli­tici nazionali, ma che trova all’interno degli istituti i punti principali di partenza. A tale dibattito si vuole offrire un contributo con queste note, convinti della necessità di por­tare alla superficie con solerzia tutti gli in­terrogativi di fondo, ragionando e discuten­do approfonditamente le possibili opzioni. Certo la forte disomogeneità esistente tra i vari istituti — sotto il profilo statutario, dei referenti finanziari, degli ambiti e dei livèlli della loro attività — costituisce un energico richiamo alla realtà: e come tale deve agire, evitando affrettate generalizzazioni e mante­nendo dunque l’intera discussione in equili­brio tra riflessioni di natura generale e con­siderazioni attinenti ad ogni specifica realtà locale. L’intervento dunque si interrogherà su temi ed aspetti generali della vita degli istituti, la cui origine va però ricercata, al tempo stesso, nel portato e nelle esperienze

maturate nel caso locale (quello dell’Istituto di Modena). Ma intende essere anche inter­vento di sollecito — di pressante sollecito — affinché le discussioni e le proposte, le ipo­tesi e le perplessità, finora mormorate a mezza voce, si trasformino nelle voci di una discussione collettiva da cui non disgiunge­re, peraltro, i caratteri dell’urgenza avvertita e manifestata pressantemente da più parti, che su questi temi invita a confrontarsi quanti si “riconoscono” nel ruolo e nell’atti­vità svolti dagli istituti.

Istituti, Resistenza e storia d’Italia: il “nodo delle origini”

La comprensione dell’intera parabola di na­scita e di sviluppo degli Isr non può essere compiutamente articolata senza calarla nel contesto storico-politico nel quale essi prese­ro forma e la cui cornice racchiude il quadro di profonde lacerazioni — percepibili tanto sul piano politico quanto su quello morale — che caratterizzò la nazione italiana nel­l’immediato dopoguerra. La volontà, dun­que, di ricostruire i collegamenti e gli stru­menti per l’unità, prima ancora che politica, morale tra gli uomini che in prima persona avevano posto in campo la propria soggetti­

436 Stefano Magagnoli

vità vivendo attivamente l’esperienza resi­stenziale, costituì l’intelaiatura primaria del pensiero dei primi ideatori e sostenitori della fondazione dell’Istituto nazionale nel 1949.

Al centro del proprio programma di attivi­tà — programma che per certi versi rappre­senta la più autentica dichiarazione di identi­tà — l’Insmli si prefisse il compito di docu­mentare gli eventi resistenziali, attraverso la raccolta di materiali archivistici (ma non so­lo), soggetti altrimenti al rischio di dispersio­ne o all’inglobamento nelle strutture statali, con i conseguenti vincoli alla consultabilità che ne sarebbero conseguiti. Non di sola rac­colta si trattò, però, bensì anche della crea­zione delle condizioni per avviare la ben più rilevante opera di documentazione/ interpre­tazione critica che si andò successivamente consolidando. A ben vedere, tuttavia, le mo­tivazioni che spinsero sulla via della docu­mentazione della Resistenza furono in realtà più complesse, sottilmente intrecciate fra lo­ro a costituire una valenza non univoca e tut­tavia, nella logica dei “fondatori” — ben venga il bisticcio —, armoniosamente logica.

Proporsi di documentare la Resistenza si­gnificava così affermare — sottolineando l’affermazione col tratto rosso di un concre­to operare — la centralità nella dialettica politica dei valori fondanti e pervasivi della Resistenza, che venivano posti come elemen­ti determinanti e discriminanti nella costru­zione e nell’affermazione di un sistema poli­tico democratico antifascista. E al tempo stesso si creavano le condizioni per afferma­re la legittimità politico-culturale di coloro che nella Resistenza avevano investito piena­mente il proprio impegno — identificando con essa il proprio destino — rivendicando­ne il ruolo di nuova classe dirigente del Pae­se. Intrinseca peraltro a quell’obiettivo e strettamente collegata alle altre valenze, si celava 1’“eresia storiografica” fondativa de­gli Istituti: la rivendicazione, avanzata dagli storici più sensibili, della piena legittimità di fare storia anche degli avvenimenti recenti.

L’acquisizione, in altre parole, sul piano metodologico, del presente come oggetto storico, derivato da un passato così vicino da apparire quasi — come tanto a lungo ap­parirà — un ingombrante presente.

Fissato tale presupposto si trattava di identificare i criteri metodologici di lavoro, gli strumenti con i quali filtrare una così de­licata operazione storiografica. La scientifi­cità documentaria, il rigore filologico, l’one­sta — e dichiaratamente “militante” — in­terpretazione degli avvenimenti furono i presupposti con cui lo studio della Resisten­za venne avviato, affermando lo schietto e preciso rifiuto di una storia presuntamente neutrale, “anodina”; acquisendo e valoriz­zando così i principi ispiratori dell’antifasci­smo. Momento della ricerca e momento del­la militanza civile in questo modo coesistono e si fondono, armonizzandosi in un unico e bivalente programma di attività. L’intreccio tra impegno civile e storiografia appare dun­que come parte essenziale e costitutiva del patrimonio degli istituti: si rivela in sostanza elemento genetico della loro presenza e nella loro attività. Parte essenziale e, direi, quali­ficante sotto il profilo del loro rapporto con la società, ma soprattutto diversificante ri­spetto all’opaca “neutralità” delle Deputa­zioni di storia patria o di un mondo univer­sitario che in modo particolare negli anni cinquanta appare ancora totalmente calato nel più paludato “accademismo”.

Tale intreccio comunque fu portatore an­che di embrionali nuclei di contaminazione, che avrebbero manifestato in seguito i pro­pri tratti di ambiguità. Ma in che modo? Quando nel 1958 Giampaolo Pansa mosse un’articolata critica a determinati aspetti dell’attività dell’Insmli, fotografò uno dei due elementi latenti di insidia. Egli, infatti, sottolineò l’esistenza di una frattura genera­zionale tra una corrente di giovani, che non avevano potuto vivere gli eventi resistenziali e che a distanza di quindici anni stavano ri­scoprendo l’esperienza della lotta di libera­

Il dibattito sugli Istituti della Resistenza 437

zione tentando di rielaborarla sul piano del­la storiografia, e certi protagonisti che sta­vano attardandosi in una terra di nessuno, ubicata fra memorialistica e storiografia, senza partecipare chiaramente né al primo, né al secondo di questi settori. Pansa coglie­va, cioè, una delle prime contraddizioni che la genetica costitutiva dell’Insmli, e più in generale degli Isr periferici, stava provocan­do sul piano dell’attività e dell’elaborazione scientifica. Questa contraddizione in seno all’Istituto nazionale, tra repliche e polemi­che, avrebbe trovato tuttavia una soluzione con l’affermazione di una nuova leva di sto­rici professionali in grado di condurre l’atti­vità fuori dalle secche denunciate da Pansa. Tutto ciò però si rivelò sovente ben più dif­ficile da risolvere per gli istituti periferici, i cui indirizzi di ricerca e la cui produzione scientifica sarebbero stati influenzati anche in seguito dagli effetti della demarcazione debole tra storiografia e memorialistica e da cui anche i lavori di taluni giovani studiosi locali — dunque non protagonisti dell’espe­rienza resistenziale — sarebbero stati infi­ciati.

Il secondo aspetto dell’“ambiguità” sta nell’irrisolto nodo del richiamo ai valori del­l’antifascismo, i cui concetti di fondo neces­sitano oggi di un’operazione di precisazione e di puntualizzazione. Per sgomberare il ter­reno da eventuali equivoci, vorrei anzitutto premettere che le riflessioni che avanzerò non vogliono in nessuna maniera avallare le tesi di coloro che nella Resistenza, e nel suc­cessivo e conseguente processo di impianto e di sviluppo dei partiti politici — tesi che in­vero hanno trovato in anni recenti fortuna crescente —, hanno creduto di rinvenire il gene maligno della nazione italiana, P“arca delle alleanze” perverse in cui si sono celate ed annidate tutte le cause dei disagi politici del dopoguerra. Il nostro è semmai un tenta­tivo di riflessione, disincantato quanto l’ap­partenere ad una giovane generazione può consentire, ma pur solidale sul piano delle

affinità politico-culturali con i tratti distinti­vi delle scelte fondative. In altre parole, è possibile un’operazione capace di precisare e articolare il concetto del richiamo alla Resi­stenza ed all’antifascismo, in modo tale da rendere più fluide — e comprensibili — le variegate sfumature che in esso si interseca­no e che concorrono alla sua coesione?

In primo luogo, mi sembra irrinunziabile operare una salutare disincrostazione dei se­dimenti agiografici sulla Resistenza che gli stessi Isr — non in tempi recenti che anzi so­no stati testimoni dell’avviarsi della ricerca e della produzione bibliografica su ben altri sentieri, ma in un passato però nemmeno troppo lontano — hanno concorso a pro­durre. L’antifascismo è stato propulsore e cemento coesivo del movimento di liberazio­ne, sta nelle radici stesse degli ideali della Resistenza, ma non si esaurisce, né appare circoscritto al solo biennio armato, perva­dendo sin dagli anni venti fasce significative, ancorché minoritarie, della società italiana. È, poi, nella lotta di liberazione che esplicita il proprio potenziale migliore, la propria espressione più alta, manifestando attraver­so forme violente di lotta ma anche attraver­so l’elaborazione di un paradigma propositi­vo sul piano politico, economico e istituzio­nale per il dopo-liberazione, la propria effet­tiva consistenza e il proprio radicamento. L 'antifascismo si presenta come testimo­nianza ed affermazione di un pensiero anti­fascista (la tautologia non è casuale), che del fenomeno e dell’esperienza fascista rigetta totalmente le implicazioni della violenza as­sunta a strumento di azione e di potere, del­l’assenza di dialettica politica e culturale, della censura del pensiero libero, dell’arbi­trio e dell’esercizio della coercizione nei rap­porti sociali e politici; che “riconosce [...] il carattere intimamente oppressivo del fasci­smo come fattore costitutivo e non solo de­generativo, nei confronti di ceti, classi, idee, individui determinati [...]”, perché si tratta di un regime nel quale “la distruzione dello

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stato di diritto non è un fatto accidentale o incidentale [...]; è un fatto costitutivo dell’i­deologia e della pratica del fascismo”1.

Quasi per paradosso, però, tali valenze dell’antifascismo possono essere astratte dall’esperienza resistenziale del 1944-1945, poiché per quanto caratterizzata da essa in profondità, non ne fu però la culla esclusi­va2. Sono persuaso, infatti, che al concetto di antifascismo vada attribuita una valenza specifica trascendente i poli cronologici del­la Resistenza (da ciò consegue l’acquisizione consapevole che il processo di documenta­zione degli eventi di guerriglia deve trasfor­marsi da soggetto della militanza a oggetto di studio). Tale valenza però è necessario che sia profondamente radicata in mature forme di pensiero democratico, di cui la dia­lettica, la tolleranza, l’autonomia, il rifiuto dei sistemi autoritari ed il diritto al dissenso costituiscano l’articolazione primaria. È, al­lora, l’assunzione di questa discriminante antifascista il topos caratteristico degli Isr, e con essa l’affermazione dei valori di unità nazionale, politica e culturale, al riparo delle contaminazioni pregne di carica nazionalista e razzista delle quali la cronaca di oggi è te­stimone; è, infine, il riconoscimento della dialettica e dell’autonomia come valori e pa­trimonio fondamentali (rifuggendo tuttavia da quella logica “ciellenistica” di ricerca di equilibrio e compensazione che troppo a lungo ha caratterizzato la vita di taluni isti­tuti, anche quando finiva per tradursi in im­mobilismo o inerzia). In queste proposizioni sta la testimonianza più autentica e disincan­tata dei valori trasmessi dall’esperienza resi­stenziale: un patrimonio ricco e fecondo che oggi — proprio oggi che assistiamo ad un preoccupante rigurgito di tendenze razziste ed autoritarie — deve comunque stare alla

fondamenta dell’identità primaria degli Isr. Peraltro, ponendo l’analisi su questo bina­rio si è condotti a concordare con le opzioni che prevalsero negli anni quaranta e cin­quanta, nelle quali il fatto stesso di dare vita e garantire il funzionamento degli istituti della Resistenza rappresentava la dimostra­zione più solida di un impegno etico-civile. Ma la prospettiva si offusca negli anni a ve­nire, quando cioè — in un contesto socio­politico in trasformazione che incideva in profondità sui meccanismi del confronto e del pensiero, erodendo profondamente gli stessi “valori di appartenenza” a Resistenza e ad antifascismo — gli interessi e le attività degli istituti virarono di rotta, passando dal­la documentazione e dallo studio della resi­stenza armata all’ampliamento del proprio orizzonte cronologico, aprendosi allo studio dell’intero Novecento italiano. Tutto questo però avvenne senza che si intervenisse sulla elaborazione del nesso scientificità engage­ment, precisandone i fili che lo attraversano.

È dunque condizione necessaria che oggi si operi per ridefinire questo nesso, per pre­cisare gli spazi ed i livelli della sua consisten­za. Che si discutano, cioè, le diverse opinio­ni che stanno emergendo sul modo di inten­dere tale rapporto che, nella quarantennale presenza degli Isr, ha in ogni modo concor­so a caratterizzare l’intera esperienza degli istituti, attraverso la quale si sono delineati metodi ed opzioni di fondo. Nella frammen­tazione di un quadro esplièativo che va ri­componendosi a fatica, soltanto per accenni e sottintesi, filtra con chiarezza però quale legame, sottile ma resistente, unisca stretta- mente la “società civile” alla polimorfa pre­senza degli Isr. Un legame inscindibile e — aggiungerei — irrinunziabile, ché se nel pri­mo termine si riassume e trova testimonian­

1 Enzo Collotti, Fascismo e fascismi, Firenze, Sansoni, 1989, p. 166 e p. 24.2 Con quest’ultima riflessione non si vogliono evidentemente riproporre le tesi di un’automatica continuità tra le esperienze dell’antifascismo e della Resistenza su cui la storiografia ha già formulato e documentato giudizi esausti­vi e convincenti.

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za la quarantennale attività degli istituti, nel secondo si sostanzia la convinzione della as­soluta necessità della loro esistenza. Gli Isr hanno attinto dalla società energie, risorse e proposte; hanno svolto ruoli di supplenza alle istituzioni statali — o comunque pubbli­che — laddove esse apparivano poco meno che latitanti (salvaguardia del patrimonio archivistico; costruzione di un rilevante ca­pitale scientifico; formazione e sostegno ai ricercatori); hanno concorso con la propria attività nel campo storiografico all’afferma­zione della dignità epistemologica della con- temporaneistica, contribuendo, in quello della didattica alla divulgazione scolastica degli avvenimenti storici recenti, giocando un ruolo essenziale per il loro inserimento nei programmi ministeriali. E gli Isr hanno sostanziato il proprio ruolo di istituzioni culturali proprio su questi terreni impervi, attraverso alterne congiunture, subendo ta­lora condizionamenti anche profondi nelle proprie attività. Eppure nel legame con i va­ri segmenti della società non si ravvisano elementi di casualità: il rapporto è frutto di un’opzione consapevole che, per quanto di­somogenea nelle diverse realtà locali, ne ha rinsaldato la reciprocità, caratterizzandosi, nel presente, come tratto fisiognomico es­senziale. Ma proprio per ciò, proprio per quella sensibilità dimostrata dagli Isr nei confronti della società, le alterne congiuntu­re socio-politiche che l’hanno attraversata nella storia repubblicana hanno influito su obiettivi, attività e dibattiti maturati nel loro seno. Non è evidentemente questa la sede per dettagliare e documentare i vari momen­ti ed i vari snodi di tale dialettica: di certo vi è che si è trattato di un’influenza forte che ha continuativamente attraversato vita ed attività degli istituti. Ebbene proprio da ciò mi sembra che discendano parte dei disagi e delle preoccupazioni che investono nell’at­tuale fase politica coloro che alPinterno de­gli Isr (in modo particolare di quelli locali, che proprio dalle istituzioni pubbliche trag­

gono le proprie maggiori risorse finanziarie) svolgono la propria attività di dirigenza o di collaborazione scientifica. Infatti, ha ora­mai assunto le dimensioni di un convinci­mento collettivo la convinzione che l’opera di delegittimazione e destrutturazione dei cardini della fase storico-politica, originata dai processi storici dei quali fanno parte Re­sistenza, patto costituzionale e l’associazio­nismo partitico, possa finire per identificare nella rete degli Isr un frutto maturo di quei fenomeni, se non addirittura una delle loro espressioni associative. Caduta perciò quella “rete di protezione” che nel passato era sta­ta rappresentata dai soggetti politico-istitu­zionali; venuto meno o affievolitisi — o in via di divenirlo — il sostegno delle associa­zioni partigiane o dei partiti politici, gli isti­tuti verrebbero così a trovarsi “in mezzo al guado” delle celebrazioni del Cinquantesi­mo senza ottimistiche né rassicuranti previ­sioni in merito agli eventi successivi. Quanto di vero vi sia in tutto ciò e quanto, invece, rappresenti un’impropria trasposizione di termini dello scontro politico nelle questioni degli istituti non intendiamo stabilirlo attra­verso queste note. Tuttavia la formulazione di ipotesi sul futuro cui gli Isr stanno andan­do incontro, proiettati nella “seconda re­pubblica” si potrebbe affermare in vulgata giornalistica, sulle modalità con cui affron­tare gli irrisolti nodi fisiologici e con cui rap­portarsi alle trasformazioni esterne, è un’e­sigenza che appare assolutamente indifferi­bile

Gli Isr tra “militanza” e “scientificità”: qua­le futuro?

Il tornante delle celebrazioni del Cinquante­simo della liberazione dovrebbe rappresen­tare — secondo un’opinione relativamente diffusa tra chi lavora, o che semplicemente collabora, all’interno degli istituti — un pas­saggio delicato e determinante per la loro vi-

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ta: c’è chi vi vede la possibilità di una svolta capace di consentire loro un incremento quantitativo e qualitativo dell’attività e c’è chi, invece, vi percepisce fondati timori per la loro stessa sopravvivenza. Due poli antite­tici, difficilmente conciliabili, che muovono tuttavia dalla periferia del medesimo evento e che — nei fatti, se non sempre nelle inten­zioni — evidenziano la profonda necessità di un ripensamento delle identità degli Isr, del­la loro organizzazione e dei loro indirizzi di lavoro, determinando di fatto — aprendo la discussione sui risultati di tali riflessioni — l’avvio di un processo di trasformazione. Ma quali sono i connotati, e i contenuti, da immettere nell’articolazione di un dibattito capace di coinvolgere tanto le singole realtà locali, quanto di investire più complessiva­mente l’intera rete nazionale? Quali le mo­dalità con cui avviare il processo?

Sono persuaso, e con ciò condivido le no­tazioni di Luca Baldissara apparse sul prece­dente numero di “Italia contemporanea”, che l’approfondita riflessione sul bilancio dei quarant’anni di attività degli istituti deb­ba rappresentare il punto di decollo dell’in­tero dibattito, cogliendo e filtrando tutte le esperienze che da essi sono state acquisite; ragionando sugli obiettivi raggiunti; valu­tando con onestà intellettuale e spirito criti­co successi conseguiti ed errori commessi. Ne sono persuaso per il motivo più ovvio: per la necessità, cioè, di dare respiro e pro­spettiva alle riflessioni che si svilupperanno nel dibattito, evitando l’eccessivo condizio­namento di visuale derivante da un’acquisi­zione troppo rigida e schematica delle tra­sformazioni avvenute — ed ancora in corso — nella società come unico elemento di pressione e di condizionamento sulla vita de­gli Isr. Con queste trasformazioni è necessa­rio fare i conti, beninteso, evitando tuttavia di vederne coincidere pienamente gli effetti con la crisi degli istituti (e poi: è lecito argo­mentare di crisi? O non sarebbe più oppor­tuno parlare di disagi, di vischiosità?), con il

risultato di attribuire a patologie esogene la causa di taluni vizi fisiologici. Il bilancio cri­tico, perciò, deve poter divenire l’attributo primario della discussione propedeutica alla formulazione di proposte sui futuri indirizzi di lavoro degli Isr; al tempo stesso può con­tribuire alla “rivitalizzazione” (così la defi­nisce Baldissara) di quella specificità degli Isr — racchiusa nel binomio scienza-militan­za, che sta alla radice delle motivazioni della loro fondazione, e che sono convinto debba anche per il futuro caratterizzarne l’attività.

Se dunque assumiamo l’apertura di tale dibattito come passaggio preliminare, viene naturale interrogarsi anche su quali forme e quali sedi ipotizzare per il suo sviluppo. Ri­tengo naturale che se, in un primo momen­to, la sede più ovvia possano essere proprio le pagine di questa rivista, come dei numero­si altri periodici che gli istituti pubblicano, si debba però in un secondo momento convo­gliarne gli esiti entro le strutture dirigenti dei vari istituti, operando affinché queste rifles­sioni assumano i caratteri di riflessione col­lettiva, densa di contributi ed aperta alle proposte di tutti. Inoltre, proprio in consi­derazione dei forti vincoli che gli Isr hanno sempre mantenuto con il proprio “esterno” — cioè la società —, mi sembra che nell’a­pertura e nell’avanzamento delle riflessioni sia estremamente importante che la dialetti­ca Isr/società sia mantenuta presente, se possibile rafforzata, filtrando con il proprio patrimonio autonomo le proposte e le aspet­tative che da quest’ultima dovessero prove­nire. Il radicamento di ogni istituto locale nel proprio contesto politico-culturale è di­fatti uno degli elementi più caratteristici e peculiari; con esso l’interscambio di propo­ste e di attività deve essere non solo gestito nell’esistente, ma perseguito e rafforzato sempre più. Taluni istituti già si sono avviati in questa direzione, con l’offerta, da una parte, di una pluralità di “servizi” atti a le­gittimare un proprio autonomo ruolo di “istituzioni culturali”, accreditando, dall’al­

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tra, la propria presenza come “soggetto cul­turale” in grado di rispondere ad esigenze le più differenziate negli ambiti specifici di at­tività degli Isr.

Va dunque incentivata e rafforzata quel­l’attenzione catalizzata all 'interno degli isti­tuti nel gestire e nell’offrire alla consultazio­ne i propri archivi e le proprie biblioteche con quella liberalità e flessibilità che ne ca­ratterizza la diversità rispetto alle istituzioni pubbliche: una ricchezza da valorizzare at­traverso il loro pieno utilizzo ed attraverso l’acquisizione di fondi destinati altrimenti a possibile dispersione. Eppure tutto ciò, che già rappresenterebbe una positiva acquisi­zione qualora efficacemente articolato, non esaurisce del tutto le potenzialità che gli Isr hanno di caratterizzarsi, come istituzioni culturali, nel campo di quei “servizi” ora ac­cennati. La loro collocazione “sociale” può e deve essere connotata in modo ben più ar­ticolato. Alfieri dell’inserimento della storia contemporanea come materia di insegna­mento nelle scuole superiori3, gli Isr dovran­no investire larga parte delle proprie risorse nel campo della didattica, stringendo con la realtà scolastica del contesto territoriale nel quale sono calati rapporti e collaborazioni ancor più solide di quanto già oggi non sia dato constatare. Corsi di aggiornamento per insegnanti, realizzazione di unità didattiche, interventi diretti nelle scuole — che in un certo senso fanno parte di un patrimonio e di una prassi relativamente diffusi — do­vranno così venire affiancati da nuove ipote­si di intervento capaci, ad esempio, di coniu­gare attività di ricerca e didattica. Tutto ciò configura, evidentemente, la creazione di una sorta di “laboratorio” didattico-storio- grafico permanente, che se da una parte consentirà agli Isr di stringere maggiormente i propri rapporti con insegnanti e studenti —

e complessivamente con il mondo della scuola —, potrà permettere un rafforzamen­to dei legami con le istituzioni pubbliche lo­cali come naturali referenti anche finanziari degli Isr, ridestando interesse per le sorti de­gli istituti che in non pochi contesti è venuto affievolendosi. E ciò al tempo stesso, confi­gura altresì il rinsaldamento dei legami tra gli istituti locali ed il Landis, la cui attività ed i cui contributi diverrebbero in questo modo determinanti nell’elaborazione pro­gettuale degli obiettivi ora suggeriti. Ma la costruzione di un nuovo rapporto con la cit­tà ed i suoi soggetti culturali prospetta anche altre opportunità di attività, il cui ventaglio si presenta ampio e diversificato.

La frequente assenza degli Isr dal panora­ma del dibattito politico-culturale locale — laddove la loro specificità nel campo della cultura storica del Novecento consentirebbe invece di intervenire con legittimità — mi sembra vada assunta come un negativo se­gnale di “lontananza” , interpretabile certo sotto una pluralità di aspetti, ma dai quali non sono assenti gli elementi di una “debo­lezza d’immagine” che colloca gli Isr ai mar­gini della vita politico-culturale. Ed è pro­prio attraverso il rafforzamento dei propri campi di interesse, della propria disponibili­tà, della propria intraprendenza, che deter­minati “vizi” di lunga data — ormai sedi­mentati, almeno in determinate realtà — po­trebbero essere rimossi. E tutto ciò appare doppiamente significativo se abbinato alle riflessioni sugli aspetti della “militanza civi­le” degli Isr: temi quali l’immigrazione, il razzismo, le riforme degli assetti istituziona­li potrebbero infatti consentire loro di inter­venire in materia, coerentemente con la loro specifica identità e con la valorizzazione del­le loro competenze scientifiche. Telaio della programmazione dell’attività degli Isr deve

Luca Baldissara, Massimo Legnani, Michele Pedrolo, Storia contemporanea e Università. Inchiesta sui corsi di laurea in storia, Milano, Franco Angeli, 1993.

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dunque divenire l’intreccio continuo con la progettualità e le espressioni culturali della città, proponendo un’autentica valorizzazio­ne della propria specificità, filtrata attraver­so un’opera costante di sovrapposizione tra rigore scientifico e partecipazione sul piano della “presenza civile” .

Il terreno, tuttavia, che costituisce il car­dine principale della loro presenza, assor­bendo una quota di progettualità e di risorse probabilmente non sempre adeguata alle reali necessità, è quello della ricerca. Un ter­reno, si è ricordato, nel quale gli istituti — talvolta — hanno lungamente ricoperto (co­me d’altronde per certi versi tuttora ricopro­no) un ruolo di supplenza delle insufficienze manifestate da enti istituzionalmente prepo­stivi. La constatazione di tutto ciò non deve però allontanare la consapevolezza che nella loro quarantennale attività in tale direzione gli Isr si sono dimostrati capaci di assolvere a ben più di un semplice ruolo suppletivo, elaborando e sviluppando una “propria” storiografia che, in più di un’occasione, è stata caratterizzata dall’originalità degli ap­procci e dei metodi. Significativa al riguardo la querelle con le interpretazioni del fasci­smo di Renzo De Felice, la cui lettura del fa­scismo in chiave di semplice svolta autorita­ria, di “accentuazione illiberale dei tratti au­toritari dello stato liberale nella tradizione italiana”4, del tutto scollegata nella sua pre­sunta “unicità” dal fenomeno generale del fascismo in Europa, è stata in modo deciso criticata e delegittimata dall’attività storio­grafica di coloro che hanno trovato un pro­prio retroterra aH’interno degli Isr. L’attivi­tà svoltasi negli Isr nel campo della ricerca si

è peraltro caratterizzata con l’affermazione di un proprio metodo di lavoro, che ha con­sentito a giovani studiosi in formazione di condividere con gli storici professionali e con gli accademici interi percorsi di ricerca: dalla progettazione degli impianti, alla so­cializzazione delle acquisizioni e dei risultati emersi.

Eppure nella fisiologia dell’organizzazio­ne della ricerca degli Isr sono ravvisabili tratti fortemente criticabili, vischiosità, iper­trofie, la cui sedimentazione finisce per osta­colare a volte pesantemente l’articolazione dell’attività di ricerca o per connotarne ne­gativamente i risultati. Un’attenta e critica osservazione della produzione storiografica sviluppata in particolar modo dagli istituti periferici della rete pone infatti in rilievo re­sistenza della fortissima connotazione “loca- listica” delle opere prodotte, ottenuta attra­verso un processo di moltiplicazione espo­nenziale dei lavori la cui unica delimitazione appare costituita dall’esaurimento degli spezzoni territoriali su cui indagare. Si è così sviluppata una produzione di ricerche volte a moltiplicare all’infinito le indagini su que­sto o quell’aspetto della storia nazionale, ri­cercandone legami o dissonanze su scala — a volte — talmente “micro” che la spropor­zione di essa rispetto ai temi indagati appare palese ancor prima di averne verificata con­cretamente la consistenza attraverso la ricer­ca. Gli studi sull’età giolittiana a San Leo5 si sono così sviluppati in quantità probabil­mente eccessiva, riportando agli onori della cronaca l’estrema attualità dei suggerimenti proposti da talune riflessioni sulla storia lo­cale6 che — in certe realtà territoriali —

4 E. Collotti, Fascimo e fascismi, cit. p. 42.5 Esempio portato come paradigma di contestualizzazione forzata, prodotto da “quel mostriciattolo della storia lo­cale tradizionale” , da Mario Ciani ed Ercole Sori (Ancona contemporanea, Ancona, Clua, 1992). La recensione da cui ho tratto spunto è di Paola Magnarelli, Le sorprese della normalità: a proposito di una ricerca di storia locale contemporanea, “Storia e problemi contemporanei”, n. 12, 1993.6 Guido D ’Agostino, Nicola Gallerano, Renato Monteleone, Riflessioni su “storia nazionale e storia locale”, “Ita­lia contemporanea”, n. 133, 1978.

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paiono essere transitate senza aver quasi la­sciato traccia di sé. Una salutare riapertura dei temi del dibattito storia locale/storia na­zionale appare perciò come passaggio obbli­gato per lacerare la maglia “localistica” di taluni impianti di ricerca, sulla cui trama ri­gidamente identificata territorialmente nella circoscrizione amministrativa, viene subor­dito lo sviluppo dell’analisi storiografica. Tale modo di procedere rischia di annullare le complessità e le rilevanze, appiattendo e piegando l’indagine storiografica entro scansioni precostituite che non di rado fini­scono per oscurare o nebulizzare i risultati conseguiti.

Concretamente, ciò che ritengo sia possi­bile proporre, è dunque la riapertura — da un lato — di quel dibattito che, sia attraver­so oramai collaudate formule seminariali, sia trovando sede nel corpo delle iniziative di studio e di confronto impiantate dall’In- smli (penso ad esempio al Seminario perma­nente del Novecento), potrebbe produrre utilità non marginali nel processo di ridefini­zione dell’assetto delle ricerche degli Isr. Dall’altro lato, il tema del “locale” non può oggi sottrarsi alla “sprovincializzazione” de­gli ancoraggi territoriali che sul piano dell’e­conomico, dell’istituzionale, del politico, ecc., recenti acquisizioni di ricerca sono ve­nute teorizzando, ipotizzando — ma anche documentando — la necessità di indagare su segmenti territoriali che manifestino affinità od omogeneità, utilizzando criteri di selezio­ne del tutto indipendenti dalla rigida suddi­visione amministrativa7. Ripensamento, quindi, delle rotte di ricerca da cui non può essere assente la ricerca di un confronto scientifico all’“esterno” della rete, infran­gendo quel sigillo di “autarchia” (di “auto- referenzialità”?) che troppo frequentemente è ravvisabile negli impianti delle ricerche de­

gli Isr. Ed è proprio in tali direzioni che gli Isr hanno le strumentazioni e le potenzialità per muoversi, impegnandosi e coordinando­si alTinterno della rete su progetti di ricerca comuni, finalizzati allo studio di problema­tiche storiche che, per loro naturale specifi­cità, implichino l’assunzione di un’angola­zione prospettica “interprovinciale” . Un compito senza dubbio non agevole (in termi­ni finanziari e di coordinamento), ma che non poco gioverebbe al superamento di certe angustie localistiche dalle quali parte delle ricerche degli istituti locali non sembra an­cora essersi liberata, consentendo peraltro una migliore gestione delle varie risorse im­pegnate, evitando, infine, quella parcellizza­zione delle indagini che, se in profondità hanno consentito la scomposizione dei qua­dri generali in unità più piccole, rinviano, tuttavia, il momento della loro ricomposi­zione in una prospettiva analitica di più am­pio respiro.

L’incamminarsi in questa direzione com­porta una più stretta — e pianificata — col­laborazione tra gli istituti locali, da realizza­re non tanto sul piano di una maggior divul­gazione nella rete degli studi prodotti, quan­to su quello di una “volontà programmatri­ce” comune; costantemente ravvivata da un agire ed un pensare paralleli. Tutto ciò, na­turalmente, porta anche ad interrogarsi sulla fisionomia e sul funzionamento della “re­te” , l’analisi delle cui modalità relazionali e collaborative, unita ad un attento vaglio cri­tico delle attività comuni, diviene perciò un passaggio estremamente significativo delle riflessioni. Un aspetto di questa “volontà programmatrice” potrebbe esplicitarsi, in primo luogo, nel ripensare e riprogettare i canali di divulgazione delle proprie attività: le riviste degli istituti. La loro estrema ato­mizzazione e polverizzazione, che induce

Acute, a tale riguardo, le osservazioni di Pier Paolo D ’Attorre, Aspetti economici e territoriali del rapporto cen­tro /periferia, “Italia contemporanea”, n. 184, 1991.

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ogni istituto locale che ne abbia le possibilità a dare corso ad una propria pubblicazione, non fa sorgere perplessità sulla portata di ta­le fenomeno, nel quale ogni esperienza edi­toriale appare conchiusa e del tutto imper­meabile rispetto alle altre? Probabilmente, però, tale situazione altro non è che una proiezione maggiormente visibile del feno­meno più generale dell’“autosufficienza” (o dell’“isolamento”) in cui operano i vari Isr; una parziale soluzione potrebbe essere con­tenuta nell’ipotesi di realizzare riviste che, su scala regionale o comunque capace di ac­corpare una pluralità di istituti, si propones­sero, sotto il profilo delle attenzioni territo­riali, un respiro più ampio ed articolato. Ciò consentirebbe, peraltro, una maggiore e più diffusa “visibilità” degli istituti, il cui esito più immediato si tradurrebbe in una conse­guente maggior “spendibilità” dei propri la­vori, coinvolgendo, in tal modo, una più ampia fascia di interessi.

Nel quadro complessivo delle proposte che sono venute sin qui articolandosi non può evidentemente essere assente una rifles­sione sulla questione dei comandi degli inse­gnanti distaccati nei vari istituti. Da sempre fonte primaria di energie, essi costituiscono una risorsa fondamentale per l’intera rete, garantendo in non pochi contesti la soprav­vivenza stessa del locale istituto, soprattutto laddove l’esiguità delle risorse finanziarie impedirebbe qualsiasi soluzione alternativa. Il ruolo del comandato è così venuto ade­guandosi alle necessità degli istituti, assu­mendo frequentemente di fatto i tratti e le funzioni caratteristici della dirigenza scienti­fica. Tale meccanismo ha tuttavia scompo­sto la valenza specifica del distacco dalla scuola all’Isr: l’essere cioè un’esperienza qualificante ma transitoria di un insegnante, finalizzata all’acquisizione di metodi e stru­mentazioni particolari nel campo storico, la cui destinazione principale deve però essere lo stesso mondo scolastico di origine, al cui interno tutte quelle acquisizioni debbono es­

sere riportate per una loro effettiva fruizio­ne. L’inceppamento di tale meccanismo, comprensibilissimo e nient’affatto stigmatiz­zabile, determinato proprio dalla centralità acquisita dai comandati negli Isr, ha però impedito che si creasse l’automatico e co­stante interscambio di esperienze tra mondo della scuola ed istituti. Ciò evidentemente nulla toglie al fatto che il “prestito a lungo termine”, divenuto non per scelta ma per necessità tratto caratteristico dei comandi Isr, abbia contribuito ad ovviare a carenze e ad insufficienze di varia natura da sempre prerogativa degli istituti; ed ancor meno sot­trae al lavoro degli insegnanti comandati, che hanno senza alcun dubbio acquisito e filtrato ben di più di una semplice “esperien­za qualificante” . Tuttavia, mi sembra neces­sario che anche su questi aspetti si soffermi la discussione e che esperienze quali quelle recentemente praticate dall’istituto di Mode­na (selezione del comandato per concorso da una commissione interna presieduta da un accademico esterno; durata del comando quinquennale eventualmente rinnovabile per una sola volta) possano finire per prevalere sulle consuete procedure di cooptazione e di gestione.

Il bilancio complessivo non può però esse­re ancorato alle singole esperienze; così co­me neppure la proposta di discussione di uno snodo così importante tra Isr e mondo della scuola può essere impostata sul presup­posto che l’esperienza dei comandi si tradu­ca in un prestito forzoso unidirezionale dalla scuola verso gli istituti. Ed è proprio su que­sto tema, allora, che lo sforzo di tutti — co­mandati in testa — deve tradursi in una ri­flessione aperta, che salvaguardi le specifici­tà ed i meriti dei singoli, ma che non perda di vista la questione più generale.

Tassello dopo tassello, il quadro che si è venuto sin qui componendo appare estrema- mente sfaccettato, percorso da innumerevoli fili intrecciati fra loro; ciò che tuttavia mi sembra sia visibile con chiarezza è la duplici­

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tà degli aspetti in discussione: da una parte si riferiscono all’organizzazione interna de­gli Isr; dall’altra alla loro interazione con l’esterno. Le riflessioni e le proposte qui in­dicate si interessano sia dell’uno che dell’al­tro aspetto, ritenendo quanto mai necessa­rio che, nell’aprire un dibattito sul futuro degli Isr, i due piani siano tenuti uniti per ricercare e per valutare risposte e soluzioni all’altezza dei problemi.

La caduta del quadro di riferimento so­cio-politico nel quale gli Isr erano sorti e nel quale essi hanno operato ha senza dubbio accelerato l’avvio del processo di ripensa­mento critico sul loro ruolo e sulla loro atti­vità; ad essa tuttavia non possono essere ri­condotte fisiologie preesistenti entro gli Isr e la soluzione dei problemi non può passare attraverso un azzeramento del proprio patri­monio genetico, operazione che avallerebbe— di fatto — la fondatezza di quel senso co­mune che ravvisa negli Istituti della Resi­stenza una filiazione diretta del “patto dei partiti” stretto nel dopoguerra. Ad esso ven­gono fatti risalire tutti i vizi dell’Italia re­pubblicana e gli Isr avrebbero rappresentato— secondo questo pensare comuhe — il “braccio storico-culturale”, caratterizzato ed “infettato” dalle stesse patologie.

È dunque partendo dall’acquisizione con­sapevole del proprio Dna che gli istituti deb­bono ripensare e riprogettare la propria fi­sionomia ed il proprio ruolo: Dna da sempre caratterizzato dalla coniugazione tra scienza e militanza, tra storiografia e presenza etico­civile. Alla luce di tutto ciò sono dunque persuaso che ogni ipotesi di rinnovamento, orientata a trasformare gli Isr in istituti di servizi o di ricerca tout court, prospettereb­be una soluzione inaccettabile, introducen­do, da una parte, una profonda saturazio­ne della loro identità e imboccando, dall’al­tra, una pista che rivelerebbe immediata­

mente la propria inconsistenza. Del resto, una cosa è ipotizzare un innalzamento del tono e del respiro complessivi delle attività, attraverso una limitazione del peso decisio­nale dei soggetti politici (associazioni parti- giane in modo particolare) ed un parallelo innalzamento di quello della direzionalità scientifica; un’altra perseguire il totale di­stacco tra i due momenti, con l’affermazio­ne di un’ipotesi di lavoro “equidistante” e “asettica” .

Certo gli Isr debbono oggi fare i conti con una molteplicità di fattori mutati che impongono una riprogettazione critica del loro ruolo. Oggi non è più automatica l’i­dentificazione tra impegno di ricerca ed im­pegno etico-civile, possibile nel passato; le trasformazioni avvenute all’interno degli istituti e nella società determinano la “ridi­scussione e la rifondazione” della loro fisio­nomia culturale e della loro stessa specifici­tà. Il terreno di una militanza rinnovata sta nella “riscoperta” (fatta di indagini e di analisi) delle nuove forme di fascismo, “che si definiscono nei comportamenti collettivi di società private di un solido sistema di va­lori, di solidarietà, di ammortizzatori sociali abbattuti dalla trionfante foga liberista”, come ha scritto Luca Baldissara. Di qui muovono i fili della discussione. Di qui, prestando la massima attenzione a che il modello non diventi quello di una “debole militanza di risposta”, originano le prospet­tive future degli istituti, i quali, proprio nel­le frenetiche attività del Cinquantesimo, do­vranno trovare ed alimentare le energie ne­cessarie per “ridiscutersi” e “ripensarsi”, creando le condizioni migliori per la costru­zione, intorno a sé, di una più vasta rete di relazioni e di referenti, garanzia di un conti­nuo interagire con la società.

Stefano Magagnoli