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Mentre gli anni ’50 avevano visto l’Unhcr preoccuparsi per gli avvenimenti europei e gli anni ’60 per quelli africani, successivi alla decolonizzazione, gli anni ’70 videro un’ulteriore espansione delle sue attività, a mano a mano che insorgevano problemi di rifugiati in stati di nuova indipendenza. Sebbene, negli anni ’50, l’organizzazione avesse per breve tempo prestato assistenza ai rifugiati cinesi di Hong Kong, solo negli anni ’70 intervenne su larga scala in Asia. Nel quarto di secolo compreso fra la fine della seconda guerra mondiale e il 1970, quasi tutti i paesi ex coloniali dell’Asia ottennero l’indipendenza. In alcuni stati la transizione fu pacifica, ma in altri – fra cui l’Indonesia e, in minore misura, la Malaysia e le Filippine – la lotta per l’indipendenza fu accompagnata dal ricorso alla violenza. Gli sconvolgimenti più drammatici, tuttavia, avvennero nel subcontinente indiano, dove le violenze etniche diede- ro luogo, nel 1947, allo smembramento dell’India e alla creazione di due stati separati: l’India e il Pakistan. Qualcosa come 14 milioni di persone furono allora costrette all’esodo, con i musulmani che fuggivano dall’India in Pakistan e gli induisti che fuggivano dal Pakistan in India. Analoghi eventi ebbero luogo, su scala più ridotta, anche negli anni suc- cessivi. Inevitabilmente, un processo di tale entità produsse tensioni nei paesi da poco deco- lonizzati, per molti dei quali risultò difficile mantenere un ordinamento politico democra- tico, dati i problemi economici che dovevano affrontare, le sfide politiche provenienti da sinistra come da destra e le pressioni, dominanti su tutto il resto, della guerra fredda. In vari paesi asiatici, l’esercito si impadronì del potere politico, con una serie di colpi di stato iniziata circa un decennio dopo l’indipendenza: dapprima, nel 1958, in Pakistan, poi, nel 1962, in Birmania e, nel 1965, in Indonesia, dei regimi militari sop- piantarono i governi democratici, esercitando, salvo in rare eccezioni, una repressio- ne sui partiti politici democratici e, in molti casi, trattando con durezza le minoranze etniche. In alcuni casi, la presa del potere politico da parte dei militari fu accompa- gnata da grandi spargimenti di sangue, come in Indonesia nel 1965-66, quando oltre mezzo milione di persone rimasero uccise: molte vittime del colpo di stato facevano parte della minoranza di origine cinese. Analogamente, in Birmania, le minoranze etniche furono soggette a una dura repressione militare. In Pakistan, il passaggio a un regime militare ebbe effetti disastrosi, provocando la guerra civile, lo smembramento del Pakistan come stato unitario, la guerra con l’India e un massiccio esodo di rifugiati, come non si era mai visto dopo la spartizione dell’India, nel 1947. Con qualcosa come 10 milioni di persone che abbandonarono l’allora Pakistan orientale per l’India, fra aprile e dicembre 1971, fu quello il maggiore esodo di rifugiati della seconda metà del secolo. Fatto degno di nota, per quanto traumatici fossero quegli eventi, la grande maggioranza degli esuli ritornarono nel giro di un anno in quello che 3 La spaccatura dell’Asia meridionale

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Mentre gli anni ’50 avevano visto l’Unhcr preoccuparsi per gli avvenimenti europei egli anni ’60 per quelli africani, successivi alla decolonizzazione, gli anni ’70 videroun’ulteriore espansione delle sue attività, a mano a mano che insorgevano problemidi rifugiati in stati di nuova indipendenza. Sebbene, negli anni ’50, l’organizzazioneavesse per breve tempo prestato assistenza ai rifugiati cinesi di Hong Kong, solo neglianni ’70 intervenne su larga scala in Asia.

Nel quarto di secolo compreso fra la fine della seconda guerra mondiale e il 1970, quasitutti i paesi ex coloniali dell’Asia ottennero l’indipendenza. In alcuni stati la transizione fupacifica, ma in altri – fra cui l’Indonesia e, in minore misura, la Malaysia e le Filippine – lalotta per l’indipendenza fu accompagnata dal ricorso alla violenza. Gli sconvolgimenti piùdrammatici, tuttavia, avvennero nel subcontinente indiano, dove le violenze etniche diede-ro luogo, nel 1947, allo smembramento dell’India e alla creazione di due stati separati:l’India e il Pakistan. Qualcosa come 14 milioni di persone furono allora costrette all’esodo,con i musulmani che fuggivano dall’India in Pakistan e gli induisti che fuggivano dalPakistan in India. Analoghi eventi ebbero luogo, su scala più ridotta, anche negli anni suc-cessivi. Inevitabilmente, un processo di tale entità produsse tensioni nei paesi da poco deco-lonizzati, per molti dei quali risultò difficile mantenere un ordinamento politico democra-tico, dati i problemi economici che dovevano affrontare, le sfide politiche provenienti dasinistra come da destra e le pressioni, dominanti su tutto il resto, della guerra fredda.

In vari paesi asiatici, l’esercito si impadronì del potere politico, con una serie dicolpi di stato iniziata circa un decennio dopo l’indipendenza: dapprima, nel 1958, inPakistan, poi, nel 1962, in Birmania e, nel 1965, in Indonesia, dei regimi militari sop-piantarono i governi democratici, esercitando, salvo in rare eccezioni, una repressio-ne sui partiti politici democratici e, in molti casi, trattando con durezza le minoranzeetniche. In alcuni casi, la presa del potere politico da parte dei militari fu accompa-gnata da grandi spargimenti di sangue, come in Indonesia nel 1965-66, quando oltremezzo milione di persone rimasero uccise: molte vittime del colpo di stato facevanoparte della minoranza di origine cinese. Analogamente, in Birmania, le minoranzeetniche furono soggette a una dura repressione militare.

In Pakistan, il passaggio a un regime militare ebbe effetti disastrosi, provocando laguerra civile, lo smembramento del Pakistan come stato unitario, la guerra con l’India eun massiccio esodo di rifugiati, come non si era mai visto dopo la spartizione dell’India,nel 1947. Con qualcosa come 10 milioni di persone che abbandonarono l’allora Pakistanorientale per l’India, fra aprile e dicembre 1971, fu quello il maggiore esodo di rifugiatidella seconda metà del secolo. Fatto degno di nota, per quanto traumatici fossero queglieventi, la grande maggioranza degli esuli ritornarono nel giro di un anno in quello che

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divenne lo stato indipendente del Bangladesh, con la più vasta operazione di rimpatriomai realizzata dopo la seconda guerra mondiale. In una successiva azione di vaste pro-porzioni, nel 1973-74 l’Unhcr contribuì in modo determinante all’organizzazione di unponte aereo per il trasferimento di un gran numero di esuli fra il Bangladesh e il Pakistan.

La nascita del BangladeshQuando il Pakistan ottenne l’indipendenza, nel 1947, era non solo un paese etnicamen-te misto, seppure in maggioranza musulmano, ma anche fisicamente diviso, con unaregione orientale e una regione occidentale. Quest’ultima dominava politicamente ilnuovo stato, provocando risentimenti nel Bengala orientale. Dopo l’avvento al potere, nel1958, del regime militare del generale Ayub Khan, i rapporti fra le due regioni del paesenon fecero che peggiorare: sebbene ospitasse la maggioranza della popolazione, ilPakistan orientale esercitava scarsa influenza sulla politica nazionale.Anche nella pubbli-ca amministrazione i bengalesi erano scarsamente rappresentati, e la loro presenza nel-l’esercito era probabilmente inferiore al 10%. Per giunta, gli interessi economici delPakistan orientale erano subordinati a quelli della parte occidentale del paese.

Le rivendicazioni di autonomia bengalesi si intensificarono negli anni ’60, coinci-dendo con sommosse nel Pakistan occidentale: culminate in dimostrazioni e scioperi,esse portarono, nel 1969, alla caduta del governo del generale Ayub Khan. Il regime mili-tare che seguì, capeggiato dal generale Yahya Khan, annunciò ben presto che si sarebbetrattato di un governo transitorio, che si sarebbe sforzato di trasferire il potere a un’au-torità civile. Nel gennaio 1970 fu revocato il bando dei partiti e dell’attività politica. Il 7dicembre dello stesso anno si tennero regolarmente le elezioni per una nuova assembleanazionale. Con sorpresa di quasi tutti gli osservatori, la Lega Awami, a base regionale eguidata dallo sceicco Mujubur Rahman, riportò a livello nazionale la maggioranza asso-luta dei seggi, conquistati tutti nel Pakistan orientale. Nella parte occidentale del paese,tale maggioranza fu conquistata dal Partito popolare del Pakistan, diretto da Zulfiqar AliBhutto. Inizialmente, la Lega Awami chiese l’autonomia della regione orientale, con unavaga unione con quella occidentale. Risultò impossibile, tuttavia, raggiungere un con-senso politico fra la Lega, il Partito popolare del Pakistan e l’esercito 1.

Col crescere del malcontento ad est, i negoziati per un compromesso costituzio-nale fallirono. Il presidente Yahya Khan rinviò a tempo indeterminato l’insediamentodell’assemblea nazionale, previsto per il 3 marzo 1971, provocando violente protestenel Pakistan orientale. Il 26 marzo, a seguito di un giro di vite delle forze armate e del-l’imposizione di un regime militare, fu dichiarata l’indipendenza della Repubblicapopolare del Bangladesh. La Lega Awami fu dichiarata fuori legge e l’esercito pakista-no lanciò una massiccia operazione controinsurrezionale. Le aggressioni su larga scalacontro i presunti sostenitori della Lega Awami, nonché la repressione generalizzataaccompagnata da gravi violazioni dei diritti umani, provocarono migliaia di morti frala popolazione civile e un esodo di rifugiati di dimensioni colossali 2.

L’esodo di 10 milioni di rifugiati

Il 29 marzo 1971, il Delegato dell’Unhcr in India, F.L. Pijnacker Hordijk, avvertì l’AltoCommissario di un imminente afflusso di esuli 3. Come in tante altre crisi di rifugiati, tut-

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tavia, le dimensioni dell’esodo furono sottovalutate. Nel giro di un mese, entrarono inIndia quasi un milione di profughi, che cercavano scampo dalla repressione militare in attonel Pakistan orientale.A fine maggio, l’afflusso medio superava le 100mila persone al gior-no, raggiungendo un totale di quasi quattro milioni.Alla fine del 1971, le cifre fornite dalgoverno indiano alle Nazioni Unite indicavano che il totale era arrivato ai 10 milioni.

Un tale esodo provocò, come era inevitabile, enormi problemi per il paese ospi-tante. Sin dall’inizio, il governo indiano aveva precisato che non avrebbe in nessuncaso consentito ai rifugiati di insediarsi nel paese, ma si rese comunque conto sempre

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0 50 100

Chilometri

Mizoram

Bihar

Assam

Meghalaya

Tripura

Bengala occidentale

PAKISTAN ORIENTALE/ BANGLADESH

INDIA

BIRMANIA

NEPAL

Khulna

Calcutta

Chittagong

DACCA

Confine amministrativo

Confine di stato

Principali campi profughi

Città / villaggio

LEGGENDA

Capitale di stato

G o l f o d e l B e n g a l a

Assam

Ubicazione dei principali campi profughi in India, nov. 1971 Cartina 3.1

Fonte: Unhcr; Global Insight Digital Mapping ©1998, Europa Technologies Ltd; Unhcr, A Story of Anguish and Actions, Ginevra, 1972, pag. 43.

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più chiaramente che, per far fronte a un tale afflusso, avrebbe avuto bisogno di aiutiinternazionali. Il 23 aprile 1971, il Rappresentante permanente indiano presso leNazioni Unite, Samar Sen, in un incontro col Segretario generale dell’Onu, U Thant,sollecitò l’assistenza della comunità internazionale 4. Di fronte alle crescenti richiesteinternazionali di aiuti per i rifugiati, il 26-27 aprile l’Alto Commissario Sadruddin AgaKhan ebbe un incontro col Segretario generale nella capitale svizzera, Berna, per discu-tere la situazione. Due giorni dopo, U Thant annunciò che l’Unhcr avrebbe costituitoun “punto focale” per il coordinamento di tutti gli aiuti dell’Onu. Per la prima voltain una crisi, all’organizzazione era affidato il compito del coordinamento generale.

Quello del “punto focale” era un concetto innovativo, diverso dalle tradizionalicompetenze dell’Alto Commissariato: comportava la mobilitazione degli aiuti e deifinanziamenti internazionali, il reperimento e la fornitura dei soccorsi umanitariall’India, nonché il coordinamento col governo indiano, che ne organizzò la distribu-zione. All’inizio di maggio, Sadruddin Aga Khan inviò una missione ad alto livello inIndia, composta dal Vice Alto Commissario, Charles Mace, dal direttore delleOperazioni, Thomas Jamieson, e dal consigliere giuridico, Paul Weis. La missionedoveva valutare in loco la situazione, attuare un certo coordinamento fra gli organi-smi dell’Onu attivi nell’assistenza ai rifugiati, e discutere con le autorità indiane lemodalità della fornitura degli aiuti internazionali 5.

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I milioni di rifuiati bengalesi fuggiti in India nel 1971 furono sistemati in circa 800 campi. A causa del sovraffollamento,in alcuni campi scoppiò una grave epidemia di colera. (PAM/T. PAGE/1971)

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Riquadro 3.1 La comunità dei rifugiati tibetani in India

I rifugiati tibetani che vivono inIndia sin dalla fine degli anni ’50sono stati spesso trascurati,soprattutto per il fatto di esseresopravvissuti con aiuti internazionalirelativamente modesti. Un primoconsistente gruppo arrivò in India nelmarzo 1959, dopo che i cinesiavevano domato una rivolta e dopo lafuga del Dalai Lama, capo spirituale epolitico del popolo tibetano. Lamaggior parte delle decine di migliaiadi tibetani che, da allora in poi,hanno cercato scampo dal dominiocinese, sono fuggiti a piedi,compiendo un pericoloso viaggio disettimane attraverso l’Himalaia.Benché il lato cinese della frontierafosse stato ermeticamente chiuso nel1960, i tibetani hanno da alloracontinuato a fuggire. Per la maggiorparte, arrivano in India attraverso ilNepal, approfittando di un centrod’accoglienza nella capitaleKathmandu. Oltre 40 anni dopol’inizio dell’esodo dal Tibet, lacomunità rifugiata in India contaattualmente circa 100mila persone.

Quando i profughi cominciarono adaffluire in India, furono sistemati incampi di transito a Missamari,nell’Assam, e a Buxa, nel Bengalaoccidentale. Un ufficioso “Comitatocentrale di soccorso” curava lasupervisione di tutto ciò che liriguardava, ricevendo qualche aiutodall’estero, mentre le organizzazioniinternazionali, fra cui l’Unhcr, nonerano ancora coinvolte. La guerra diconfine sino-indiana del 1962 segnòuna svolta, perché fu allora che siriconobbe che i tibetani nonsarebbero ritornati molto presto nellaloro patria.

Fu anche allora che le autoritàindiane richiesero, per la prima volta,aiuti internazionali per i rifugiatitibetani ospitati nel paese. L’Unhcrcominciò a fornirli nel 1964, ma fusolo nel 1969 che stabilì una propriapresenza ufficiale nella capitale, NewDelhi. Gli aiuti internazionalirimasero, tuttavia, alquanto modesti.A partire dagli anni ’60, l’assistenzaai rifugiati tibetani fu canalizzata in

generale attraverso l’Ufficio tibetanodel Dalai Lama. Al riguardo, sia igoverni che le organizzazioniinternazionali si muovevano concautela, consapevoli del fatto cheessa poteva essere considerata dalleautorità cinesi un’interferenza nellapolitica interna.

A partire dal 1962, i programmi diassistenza ai rifugiati comprendevano,fra l’altro, la creazione di insediamentiagricoli e corsi di qualificazioneprofessionale. I governi dei vari statiindiani assegnarono a ogni famiglia inmedia tre acri (circa 12mila mq) diterra, aiutandole nella costruzionedelle case. Fornirono anche assistenzaalle comunità tibetane per impiantarereti idriche, servizi pubblici, centri diartigianato e scuole. In tutta l’Indiaesistono attualmente circa 85 scuoletibetane, con all’incirca 25milastudenti.

Le autorità indiane hanno ancherilasciato tessere di razionamento,documenti d’identità, permessi disoggiorno e documenti di viaggio airifugiati tibetani registrati, cheufficialmente sono considerati inpellegrinaggio in India. Benchéconsiderati stranieri ai sensi di unalegge del 1946, essi hanno potutobeneficiare dei diritti fondamentalidella maggioranza dei cittadini, manon possono presentarsi comecandidati né votare alle elezioni.Quelli entrati in India prima delmarzo 1959 e che, da allora, hannosempre vissuto nel paese, sono presiin esame, su base individuale, per laconcessione della cittadinanza. Lastessa possibilità è offerta ai coniugidi cittadini indiani.

Il governo indiano hadeliberatamente promosso unapolitica che consente alla comunitàtibetana di mantenere la propriaidentità e i propri valori culturali,assieme ad un suo sistema politico-amministrativo. Sin dall’inizio,appositi insediamenti sono statiprogettati e realizzati in zoneopportunamente situate dal punto divista geografico, per assicurare ai

tibetani un’autonomia economica,sociale e religiosa. Un governo inesilio tibetano ha sede a Dharamsala,nello stato dell’Himachal Pradesh.

In un periodo di tempo relativamentebreve, delle comunità di rifugiatitibetani si sono stabilite in vari statiindiani: Himachal Pradesh, Sikkim,Uttar Pradesh, Orissa, ArunachalPradesh, Karnataka, Madhya Pradesh,Bengala occidentale e Maharashtra. Inalcune regioni, come il Darjeeling, ilSikkim e l’Arunachal Pradesh, dove letradizioni culturali non sono dissimilida quelle del Tibet, i tibetani si sonoadattati rapidamente. Altrove, comenel Karnataka e nell’HimachalPradesh, di tanto in tanto si èmanifestata una certa ostilità dellapopolazione locale per la presenza,ben visibile, dei tibetani e il lorosuccesso economico.

All’inizio, molti tibetani hanno avutoproblemi nel passaggio da quella cheera una società fortementetradizionalista e pressoché chiusa, allasocietà culturalmente eterogeneadell’India democratica. In genere,tuttavia, sono riusciti a conservare leloro tradizioni culturali e religiose.Come ha osservato un autore, lacapacità dei rifugiati tibetani “dicostruire e finanziare in terra stranieranumerosi monasteri di un livelloarchitettonico straordinariamenteelevato e il loro successo nellacreazione di comunità monastichevitali, simili a quelle del Tibet, sonouno dei miracoli del 20° secolo” i.

Malgrado tali risultati positivi, lamaggioranza dei rifugiati tibetani inIndia desidera sempre ritornare nelTibet. Se è vero che le condizioni divita di molti di loro sonorelativamente buone, il problema èperò tuttora irrisolto, come dimostrail fatto che ogni anno dei rifugiatitibetani stabiliti non solo in India,ma anche nel Nepal e nel Bhutan,continuano a chiedere asilo inOccidente. Oltre quarant’anni dopol’inizio del loro esodo, sembra ancoraquanto mai remota una soluzioneduratura del problema.

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Fra il 16 e il 19 maggio, la missione dell’Unhcr visitò numerosi campi profughi nelBengala occidentale, nel Tripura e nell’Assam, gli stati indiani più interessati dall’afflus-so di rifugiati, ed ebbe incontri con funzionari indiani ad alto livello, organismidell’Onu e organizzazioni non governative (Ong). In un telegramma inviato all’AltoCommissario, la missione si dichiarava “sgomenta per la situazione e per il terrore cheregna evidente sul viso di persone inebetite e in alcuni casi come prive di espressione...Abbiamo visto molti uomini, donne e bambini con ferite da arma da fuoco... Non siparla che di incendi dolosi, stupri ed espulsioni” 6. Mace aggiungeva: “mi mancano leparole per descrivere la tragedia umana cui abbiamo appena assistito” 7.

La missione dell’Unhcr coincise con una visita del primo ministro indiano, IndiraGandhi, negli stessi stati del Bengala occidentale, del Tripura e dell’Assam. In alcunidistretti, i rifugiati erano già più numerosi della popolazione locale. A metà maggio,Indira Gandhi dichiarava nella Lok Sabha, la camera bassa del Parlamento indiano, cheerano stati allestiti circa 330 campi per ospitare i rifugiati, che avevano ormai rag-giunto la cifra di ben quattro milioni. Alla fine dello stesso mese, erano 900mila nelsolo stato collinare del Tripura, contro una popolazione locale di 1,5 milioni di abi-tanti 8. Come osservarono due studiosi della guerra del 1971, “per l’India il problemanon era solo la presenza dei rifugiati, ma dove erano presenti” 9.

Il colera nei campi profughi

Il senso generale di crisi creato da un così enorme afflusso fu aggravato da enormi pro-blemi sanitari nei campi profughi. Il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef)riferì che in particolare i bambini erano gravemente sofferenti, e in molti casi seria-mente denutriti 10. Le condizioni sanitarie, estremamente precarie, furono ben prestorapidamente aggravate dal problema della dissenteria, soprattutto fra i giovani rifugia-ti. A fine maggio, un corrispondente dello Hindustan Standard riferiva:

Molti rifugiati soffrono di malattie infettive. Circa 626 sanitari e 60 rifugiati medici si sfor-zano di far fronte a una situazione generalizzata, aiutati da circa 800 infermieri e assistenti sani-tari. Nei 42 ospedali esistenti sono stati aggiunti oltre 2.700 posti letto, ma quale sarà la situa-zione domani? Solo oggi sono arrivati altri 100mila rifugiati, nel solo distretto di Nadia 11.

In maggio e giugno, nei campi profughi cominciò a propagarsi il colera. In un bat-ter d’occhio, le scorte mediche del Bengala occidentale andarono esaurite. Fu quindilanciato un appello urgente all’Organizzazione mondiale della sanità per la fornituradi vaccini e di fluido contro la disidratazione, che furono inviati da Ginevra con unponte aereo d’emergenza. All’inizio di giugno, il numero dei casi di colera era valuta-to in 9.500; a fine settembre, la cifra era salita a oltre 46mila. Un giornalista britanni-co descriveva la situazione in un ospedale, nel quotidiano londinese Observer:

Il colera è un modo orribile e umiliante di morire. L’unica consolazione è che è relativamen-te rapido. Il reparto colera si trova in due edifici, dietro il nucleo principale dell’ospedale. Nonci sono letti: i malati giacciono su lamiere metalliche che ricoprono il pavimento in cemento.La malattia produce diarrea e vomito incontrollabili, i cui effetti si vedono dappertutto. Coloroche possono ancora farlo si sventolano debolmente; quelli troppo malconci per farlo sonocoperti di mosche. Ci sono uomini e donne di ogni età 12.

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Col diffondersi della malattia fra i rifugiati, aumentarono le pressioni sulle autoritàindiane. La crisi sanitaria sarebbe potuta risultare molto più grave; per fortuna, il paesedisponeva di sufficienti scorte alimentari, cui le autorità poterono attingere per i rifu-giati. La storia delle precedenti carestie di proporzioni catastrofiche, come quella del1943, in cui nel Bengala morirono oltre un milione e mezzo di persone, è abbastanzadrammatica da far capire quanto più grave sarebbe potuta essere quella del 1971.

L’operazione di soccorso umanitarioMalgrado le riserve alimentari di cui l’India disponeva, i rifugiati imposero un gravo-so onere economico; il governo di New Delhi sperava quindi che la comunità inter-nazionale avrebbe rimborsato gran parte delle spese sostenute per l’assistenza ai rifu-giati. In maggio, una missione dell’Unhcr non potè fare a meno di insistere sul fattoche sarebbe stato irrealistico accollare tali spese interamente alle Nazioni Unite, datoil carattere volontario dei contributi al loro bilancio. Cionondimeno, il 19 maggio1971, il Segretario generale U Thant lanciò un appello a livello mondiale per finan-ziare gli aiuti d’emergenza ai rifugiati ospitati in India, sollecitando la comunità inter-nazionale a rispondere generosamente 13. Un mese dopo, lo stesso U Thant lanciò unanalogo appello in favore dei rifugiati presenti nel Pakistan orientale. Nel giro di pochesettimane dal primo appello, erano stati annunciati contributi per circa 17 milioni didollari 14. Il 22 giugno, quando l’Alto Commissario Sadruddin Aga Khan si recò a NewYork per riferire a U Thant sulla sua visita, durata quasi due settimane, nel subconti-nente indiano, il totale aveva raggiunto i 70 milioni di dollari.

Sin dall’inizio della crisi del Pakistan orientale, Indira Gandhi aveva ribadito ilmassimo impegno dell’India ad assistere i rifugiati, che però non sarebbero potutirimanere nel paese a tempo indeterminato. La ferma posizione indiana, secondo cuisarebbero dovuti rientrare nel paese d’origine, si rifletteva nella gamma di misure

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Stato Numero di Rifugiati ospitati Rifugiati ospitati Numero totale

campi profughi nei campi presso famiglie di rifugiati

Bengala occidentale 492 4.849.786 2.386.130 7.235.916

Tripura 276 834.098 547.551 1.381.649

Meghalaya 17 591.520 76.466 667.986

Assam 28 255.642 91.913 347.555

Bihar 8 36.732 – 36.732

Madhya Pradesh 3 219.298 – 219.298

Uttar Pradesh 1 10.169 – 10.169

Totale 825 6.797.245 3.102.060 9.899.305

Fonte: ‘Report of the Secretary-General Concerning the Implementation of General Assembly Resolution 2790(XXVI) and Security Council Resolution307(1971)’, doc. Onu A/8662/Add.3, 11 ago. 1972.

Rifugiati del Bangladesh in Indiaal 1° dicembre 1971

Fig. 3.1

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adottate dal governo di New Delhi. A metà aprile del 1971, il ministero del Lavoro edella Ricostruzione, che coordinava l’operazione di soccorso, decise di creare 50campi profughi, ciascuno attrezzato per ospitare 50 mila rifugiati, che sarebbero statigestiti da funzionari del governo centrale.

Le autorità indiane registravano i rifugiati all’arrivo alla frontiera, dove ricevevano undocumento d’ingresso, una speciale razione alimentare per continuare il viaggio e veni-vano vaccinati contro il colera e il vaiolo. Coloro che non si registravano alla frontieraerano considerati ospitati presso parenti, amici o altre famiglie. Ai primi di dicembre1971, le cifre in possesso del governo indicavano che 6,8 milioni di rifugiati vivevano neicampi profughi, mentre altri 3,1 milioni erano alloggiati presso famiglie [cfr. figura 3.1].

I complessi problemi dovuti a un afflusso così massiccio imposero lunghe con-sultazioni fra l’Unhcr e le numerose emanazioni del governo indiano. Fu quindi crea-to un Comitato centrale di coordinamento, sotto l’egida del ministero del Lavoro edella Ricostruzione, con rappresentanti di vari altri ministeri, della Croce rossa india-na e dell’Unhcr. Dal giugno 1971 sino alla fine della stagione dei monsoni, la princi-pale preoccupazione, a parte quella di strutture sanitarie e sistemazioni adeguate peri rifugiati, fu il mantenimento dei vitali canali di approvvigionamento fra Calcutta egli stati periferici del nordest. I monsoni crearono ulteriori problemi operativi per lagestione degli aiuti umanitari, e le piogge incessanti provocarono nuove infermità.

L’Unhcr, che aveva aperto un ufficio a New Delhi, svolse una funzione di grande rilie-vo per la raccolta dei fondi e il collegamento con i governi e le Ong, ma fu il governoindiano ad assumersi la responsabilità globale della gestione della crisi sul terreno. AGinevra, l’Alto Commissario Sadruddin Aga Khan creò una Unità consultiva interistitu-zionale permanente dell’Onu, da lui stesso presieduta, per facilitare le comunicazioni frale varie componenti del sistema delle Nazioni Unite più direttamente interessate al pro-blema dei rifugiati. Tale organo facilitò la cooperazione fra le varie agenzie e la messa apunto di una posizione comune dell’Onu sui problemi dell’assistenza, e ricevette le offer-te di aiuto dei governi e delle organizzazioni, sia intergovernative che non governative 15.

Cresce la tensione fra India e Pakistan

Sin dall’inizio della crisi, l’India aveva annunciato che i rifugiati sarebbero dovuti rimpa-triare entro sei mesi, definendoli “evacuati” per sottolinearne lo status giuridico tempo-raneo. Fu quella una seria limitazione politica per la programmazione degli aiuti, in quan-to significò che formalmente non esistevano piani d’emergenza a più lungo termine. Inteoria, il periodo di sei mesi era cominciato all’inizio del primo afflusso di rifugiati, nelmarzo 1971, e quindi doveva terminare in settembre. Pur prestando una generosa assi-stenza ai milioni di esuli che attraversarono la frontiera, il governo indiano non volle peròmai accettare un insediamento permanente in India di rifugiati del Pakistan orientale.

Col passare del tempo, apparve chiaro che i rifugiati non sarebbero potuti rimpa-triare entro il termine di sei mesi, perché continuavano le persecuzioni che avevano pro-vocato la loro fuga in India. Le autorità indiane sostenevano che il governo pakistano cer-cava di risolvere la situazione di stallo politico del Pakistan orientale attraverso l’espulsio-ne in massa di gran parte della popolazione, in maggioranza bengalesi di religione indui-sta. L’India intendeva sempre più imporre in tale regione una propria soluzione politica.

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Già in aprile, il governo indiano aveva di fatto sanzionato l’esistenza di un governo in esi-lio operante sul suolo indiano, nonché l’addestramento di forze militari bangladeshi.

Da parte sua, a partire dal 21 maggio il Pakistan aveva ripetutamente affermato lapropria disponibilità a riammettere i rifugiati. Il 28 giugno, il presidente Yahya Khannominò addirittura un bengalese, A.M. Malik, come assistente speciale per gli esuli.Nel Pakistan orientale, però, la situazione in materia di diritti umani non migliorava,mentre continuava l’esodo dei rifugiati verso l’India. Le autorità pakistane mantene-vano la messa al bando della Lega Awami ed erano decise a processarne il leader, losceicco Mujubur Rahman, per sedizione.

Il governo indiano considerò inadeguata la risposta internazionale alla crisi, e isuoi rapporti con le Nazioni Unite – ivi compreso l’Unhcr – divennero sempre piùtesi. Gli sforzi compiuti sotto l’egida dell’Onu per comporre la controversia e persinoper fornire aiuti umanitari erano a volte visti con scetticismo dalle autorità del paese.Il governo indiano criticò in modo particolare l’Alto Commissario, Sadruddin AgaKhan, per essersi recato in giugno nel subcontinente, su invito del presidente pakista-no Yahya Khan, che l’aveva autorizzato a percorrere in lungo e in largo il Pakistanorientale. La visita fu giudicata come un avallo alle iniziative pakistane tendenti a con-vincere i rifugiati al rimpatrio, e per di più prematura, data la necessità di una solu-zione politica prima che i rifugiati potessero rimpatriare in condizioni di sicurezza. Altermine del viaggio, l’Alto Commissario si recò a New Delhi per colloqui col primoministro Indira Gandhi. Per molti membri del governo indiano, quella visita assomi-gliava troppo a un tardivo ripensamento 16.

Le iniziative dell’Unhcr per poter operare nei campi profughi in India furono secca-mente respinte dal governo del paese, che si oppose egualmente agli sforzi dell’organizza-zione per essere presente anche nei centri d’accoglienza del Pakistan orientale.Anche la pre-senza delle Ong nei campi diveniva sempre più insostenibile, in quanto New Delhi avevaaumentato il suo sostegno ai Mukhti Bahini, i guerriglieri bangladeshi che aveva tolleratosin dall’inizio della crisi. Inoltre, col crescere della tensione fra l’India e il Pakistan e delleprobabilità di una guerra, le iniziative dell’Onu per una mediazione nel conflitto divenne-ro sempre più irritanti per New Delhi. A fine settembre, il Segretario generale U Thant sioffrì di mediare fra l’India e il Pakistan, anche a seguito della mobilitazione militare in corsonei due paesi. Mentre il Pakistan reagì favorevolmente, l’India interpretò l’iniziativa come untentativo per salvare il regime militare pakistano, che riteneva responsabile del massiccioesodo di rifugiati. Il governo indiano sollecitò il Segretario generale a trovare una soluzio-ne politica, che tenesse conto delle aspirazioni della popolazione del Pakistan orientale 17.

La guerra indo-pakistana

Sin dall’inizio della crisi, nel marzo 1971, gli obiettivi fondamentali dell’India eranostati: primo, il rimpatrio di tutti i profughi fuggiti dal Pakistan orientale; secondo, iltrasferimento del potere politico in tale regione alla Lega Awami. Pertanto, qualunquesoluzione della crisi che non includesse disposizioni per il ritorno dei rifugiati erasemplicemente inaccettabile 18. Sin dall’inizio, tuttavia, era difficile immaginare comeciò potesse accadere senza una sconfitta militare del Pakistan e la sua estromissione dalPakistan orientale.

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Un intervento militare diretto fu preso in considerazione dai dirigenti indiani sin dal-l’aprile 1971.Tuttavia, il capo di stato maggiore indiano, generale Manekshaw, accantonòla proposta come prematura, sostenendo che l’esercito non era pronto per una qualsiasioperazione offensiva, e avrebbe avuto bisogno di sei-sette mesi per prepararsi ad un con-flitto su entrambi i fronti. Quando più tardi il governo indiano scoprì che sia gli Stati Unitiche la Cina fornivano armi al governo pakistano, per mantenere l’unità del paese, la suaposizione si irrigidì. A fine luglio, aveva ormai raggiunto un consenso sulla questione delPakistan orientale, che prevedeva una supervisione diretta sul governo bangladeshi in esi-lio e l’addestramento militare dei Mukhti Bahini e di altre “forze di liberazione” delBangladesh. Nell’agosto 1971, l’India concluse un trattato ventennale di pace e amiciziacon l’Unione sovietica, mentre il primo ministro Indira Gandhi si recava in Europa occi-dentale e negli Stati Uniti per promuovere la causa di un Bangladesh indipendente.

Malgrado gli sforzi di mediazione del Segretario generale dell’Onu U Thant, lasituazione continuò a deteriorarsi, con notizie di scontri isolati e di incursioni alla fron-tiera tra l’India e il Pakistan orientale. In visita in India fra il 6 e l’8 novembre 1971,l’Alto Commissario Sadruddin Aga Khan si dichiarò preoccupato per la crescente ten-sione e per i suoi prevedibili effetti sulla distribuzione degli aiuti ai rifugiati. Per tuttoil mese di novembre, alle frontiere dell’India col Pakistan, sia occidentale che orienta-le, la situazione continuò a peggiorare. Il 3 dicembre, il Pakistan sferrò attacchi aereicontro basi situate sul fronte occidentale dell’India. Successivamente, le forze indianeentrarono in forze nel Pakistan orientale. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu discusse alungo la questione, ma fu paralizzato dal ricorso al veto da parte dell’uno o l’altro deimembri permanenti. Il 5 dicembre, Indira Gandhi riconosceva l’indipendenza delBangladesh e il 16 Dacca cadeva in mano delle forze indiane 19. Il responsabiledell’Ufficio locale dell’Unhcr, John Kelly, svolse un ruolo essenziale di intermediarioper negoziare una tregua fra gli opposti eserciti 20. Con la resa dell’esercito pakistano,la guerra terminò, spianando la strada all’indipendenza del Bangladesh.

Il rimpatrio e gli scambi di popolazioneLa strada era ormai aperta per il ritorno dei rifugiati. L’India annunciò ben presto chetutti i rifugiati entrati nel paese dopo il 25 marzo 1961 sarebbero dovuti tornare inBangladesh entro il febbraio 1972. Tale termine sembrò ottimistico, e il reperimentodei mezzi di trasporto necessari per la maggioranza dei 10 milioni di esuli provocòenormi difficoltà operative; eppure, entro pochi giorni dalla fine delle ostilità i profu-ghi cominciarono spontaneamente a rimpatriare. In realtà, alcuni di loro avevanocominciato a farlo addirittura durante i combattimenti. Il 6 gennaio, il direttore delleOperazioni dell’Unhcr,Thomas Jamieson, telegrafava alla Sede centrale di Ginevra rife-rendo che un milione di rifugiati avevano già lasciato l’India: “Sforzi prodigiosi ecoordinati vengono compiuti su entrambi i lati della frontiera... Ogni giorno partonotreni speciali e altri sono previsti nelle prossime settimane” 21.

A fine gennaio, qualcosa come sei milioni di esuli erano già ritornati alle loro case.In un rapporto dell’Unhcr si osservava:

Nello stesso periodo, i visitatori delle zone in cui si trovavano i campi profughi si meraviglia-vano dell’incessante fiumana di persone in movimento, a piedi, in bicicletta o in risciò, o anche

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Riquadro 3.2 L’espulsione degli asiatici dall’Uganda

Il decreto adottato, nel 1972, dalpresidente dell’Uganda Idi Amin, con cuiordinava la partenza della popolazioneugandese originaria dell’Asiameridionale, innescò un esodo di massa.Mentre migliaia di asiatici ugandesicercavano paesi disposti ad accoglierli,l’Unhcr e altre organizzazioni svolseroun ruolo rilevante nell’assistenza allevittime dell’espulsione.

Gli abitanti originari dell’Asia meridionaleerano insediati nell’Africa orientale daantica data e appartenevano a diversiretroterra socioculturali. Di religioneinduista, musulmana, sikh o cristiana,provenivano da varie regioni delsubcontinente indiano. Fra loro sitrovavano mercanti dell’epocaprecoloniale, manovali e artigiani fattivenire dai britannici per costruire leferrovie, piccoli commercianti, personetrasferite nel paese per lavorarenell’amministrazione coloniale, come puresgranatori e commercianti di cotone, poipassati ad altre attività economiche.

Quando l’Uganda divenne indipendente,nel 1962, agli asiatici che vivevano nelpaese fu offerta la possibilità diacquisire la cittadinanza. Alcuni lofecero, ma molti altri preferironoconservare il passaporto britannico, conla possibilità in futuro di trasferirsi nelRegno Unito. All’inizio degli anni ’70, inUganda gli asiatici erano più o meno75mila. Circa la metà aveva unpassaporto britannico, un terzo aveva lacittadinanza ugandese o ne aveva fattodomanda, e gli altri avevano lacittadinanza indiana, pakistana okenyana. Durante l’epoca coloniale, gliasiatici erano stati periodicamente presidi mira dall’ostilità del resto dellapopolazione, soprattutto perchécontrollavano vasti settori dell’economia.Dopo l’indipendenza, il fenomeno andòaccelerandosi, mentre i nazionalistiafricani attizzavano le rivendicazioni di“indigenizzazione”, nel tentativo dirimediare all’esclusione degli africanidalle strutture del potere economico epolitico. Tali tendenze erano stateosservate dapprima nel vicino Kenya, eavevano coinciso con le misure adottatedal Regno Unito nel 1968 per limitarel’ingresso nel paese, di fronte allacrescente preoccupazione per unamassiccia immigrazione dalle ex colonie.

In Uganda, i tentativi compiuti neglianni ’60 dal predecessore di Idi Amin,

Milton Obote, per trasferire il controllodel commercio dagli asiatici agliafricani, accrebbero le tensioni fra ledue comunità. Anche in reazione a talitentativi, la maggioranza degli asiaticiaccolse con favore la conquista delpotere, all’inizio del 1971, da parte diAmin. Mentre l’economia, però, andavadi male in peggio, lo scontento dellapopolazione urbana e delle forze armateindusse Amin a cercare un caproespiatorio per i mali dell’economia delpaese. Verso la fine dell’anno, lo stessoAmin convocò una riunione di membrieminenti della comunità asiatica,rinfacciando loro il dominio di interisettori dell’economia e accusandoli dinon riuscire a integrarsi.

Improvvisamente, nell’agosto 1972,Amin annunciò che tutti gli abitantioriginari dell’Asia meridionale, prividella cittadinanza ugandese, dovevanolasciare il paese entro tre mesi.Successivamente ordinò la partenza ditutti gli asiatici, anche se in possessodella cittadinanza ugandese; ritirò poitale diktat, ma molti di coloro i qualiavevano richiesto la cittadinanzaricevettero un rifiuto, divenendo difatto apolidi. Ci furono varie deroghe,soprattutto per persone con istruzionesuperiore, ma il clima di insicurezza eintimidazione dominante provocò unesodo di massa, via via che il terminefissato si avvicinava.

Oltre 50mila asiatici abbandonaronol’Uganda fra l’ordinanza di espulsione ela scadenza di novembre, mentre altrise ne erano andati già prima. Dopo iltermine, rimasero in Uganda appenaduecento famiglie di origine asiatica.Fu istituito un Consiglio per la custodiadei beni degli asiatici partiti (DepartedAsians’ Property Custodian Board),incaricato di vigilare sull’alienazione deibeni degli espulsi. Se non erano riuscitia trasferire fondi o beni all’estero primadella partenza, quanti fuggironodall’Uganda arrivarono nei nuovi paesiospitanti con ben poco perricominciare.

Nel corso della crisi, il Regno Unitoaccettò, seppur con riluttanza, disospendere il contingente annualestabilito per l’immigrazione, ammettendoin totale circa 29mila asiatici ugandesimuniti, in maggioranza, di passaportobritannico. Nel contempo, il governobritannico si appellava ad altri paesi

perché accogliessero gli asiatici espulsi.Alla fine, circa 6mila asiaticidell’Uganda, molti dei quali conpassaporto britannico, furono reinsediatiin Canada e altri 1.500 circa, fra cuialcuni di nazionalità imprecisata, negliStati Uniti.

Per partire dall’Uganda, gli asiatici avevanobisogno di un documento di viaggiovalido, di un paese d’asilo temporaneo opermanente, nonché dei mezzi per ilviaggio. Per quegli asiatici che ancora nonrispondevano a tali tre condizioni mentresi avvicinava la data limite, una missionedell’Onu, comprendente un rappresentantedell’Unhcr, si recò a Kampala, capitaledell’Uganda, per negoziare un’evacuazioned’emergenza. Il Comitato internazionaledella Croce Rossa accettò di rilasciaredocumenti di viaggio a coloro che neerano sprovvisti, mentre il Comitatointergovernativo per le migrazioni europee(precursore dell’Organizzazioneinternazionale per le migrazioni) organizzòil trasporto verso i paesi di reinsediamentotemporaneo o permanente.

L’Unhcr chiese alla comunitàinternazionale di intervenire con offertedi reinsediamento permanente e confinanziamenti per il trasporto el’assistenza alle persone in transito. Larisposta fu positiva e, in meno di duesettimane, circa 3.600 persone furonotrasportate in aereo verso centri ditransito situati in Austria, Belgio, Italia,Malta e Spagna. Oltre al Regno Unito, alCanada e agli Stati Uniti, i seguentipaesi offrirono un reinsediamentopermanente: Australia, Austria, Belgio,Danimarca, Nuova Zelanda, Norvegia,Paesi Bassi, Svezia e Svizzera. L’India e ilPakistan accolsero circa 10mila degliespulsi, ma molti di loro non vi sistabilirono definitivamente. Alcunigoverni e organismi non governativifornirono alloggi, viveri e assistenzamedica ai profughi in transito, mentre lespese furono sostenute dall’Unhcr.

Solo negli anni ’80 fu ottenuta unaqualche riparazione da partedell’Uganda. In un primo tempo, lecose procedettero a rilento, ma alla finevarie migliaia di asiatici poteronotornare nel paese, per breve tempo oper periodi più lunghi, per riprenderepossesso o vendere buona parte deibeni confiscati a seguitodell’espulsione.

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in piedi sui camion, con l’unica idea in mente di raggiungere al più presto le località d’origi-ne del Bengala orientale. In gennaio, in media 210mila persone attraversavano ogni giorno lafrontiera del Bangladesh 22.

Durante il rimpatrio, i rifugiati ricevevano viveri per il viaggio, assistenza medi-ca e razioni di base per due settimane. Fatto degno di nota, a fine febbraio 1972 oltrenove milioni di rifugiati erano già rientrati in Bangladesh. Il desiderio di tornare acasa aveva avuto ragione dei problemi pratici, e il 25 marzo il governo indiano valu-tava in appena 60mila i rifugiati ancora presenti nel paese.

A fine maggio 1972, i contributi per l’operazione rimpatrio, annunciati all’Unhcra seguito dell’appello del gennaio precedente, ammontavano a 14,2 milioni di dolla-ri, di cui 6,3 milioni furono versati al governo del Bangladesh, per finanziare progetti

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Il ponte aereo dell’Unhcr in Asia meridionale, 1973–74 Cartina 3.2

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Chilometri

REPUBBLICA POPOLARECINESE

NEPALBHUTAN

INDIA BANGLADESH

PAKISTANNEW DELHI

Calcutta

Lahore

Karachi

COLOMBO

DACCA

Madras

Bombay

Confine di stato

Città principali

LEGGENDA

Capitale di stato

Ponte aereo dell’Unhcr

M a r e A r a b i c o

G o l f o d e l B e n g a l a

O C E A N O I N D I A N O

SRI LANKA

KATHMANDU THIMPHU

Fonte: Unhcr, ‘Airlift:The Sub-Continent Repatriation Operation September 1973–June 1974’, Ginevra, 1975.

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di assistenza umanitaria e aiuto alla ricostruzione a beneficio dei rimpatriati. L’Unhcravallò un accordo fra la Croce Rossa indiana e quella bangladeshi, per trasferire a que-st’ultima le attrezzature e le dotazioni dei centri nutrizionali che operavano in India.A sua volta, la Croce Rossa del Bangladesh avrebbe realizzato programmi di preven-zione in favore dei rimpatriati. L’Unhcr accettò, inoltre, la proposta indiana per la ces-sione al Bangladesh di 800 camion, 300 fuoristrada e 136 ambulanze che l’India avevaricevuto dall’Alto Commissariato.

L’indipendenza del Bangladesh creò le premesse per il ritorno in massa dei rifu-giati. Se è vero che, a seguito del rimpatrio, non si registrarono grosse vertenze, i rifu-giati non disponevano però di alcun mezzo di sostentamento. Una volta inBangladesh, potevano transitare per uno dei 271 campi appositamente allestiti, in cuivenivano forniti di assistenza medica, razioni alimentari e trasporti gratuiti. La grandemaggioranza dei rifugiati, tuttavia, si recò direttamente nelle rispettive località d’ori-gine, senza presentarsi agli uffici di registrazione situati nei campi profughi, in India,e nei centri di transito, in Bangladesh. L’Ufficio di collegamento dell’Unhcr a Daccaaveva continuato ad operare durante tutta la crisi, collaborando strettamente conl’Operazione di soccorso delle Nazioni Unite nel Pakistan orientale, istituita per coor-dinare gli aiuti internazionali a seguito del catastrofico ciclone del novembre 1970.

Anche se l’operazione di rimpatrio in Bangladesh fu di gran lunga quella di mag-giori dimensioni, essa fu solo una delle molte effettuate durante gli anni ’70. Comeosservava, parecchi anni dopo, un funzionario dell’Unhcr, le affermazioni di quell’e-poca, secondo cui il rimpatrio costituiva una “soluzione secondaria, addirittura tra-scurabile”, si rivelarono errate. Al contrario, “rispetto alle realtà politiche del TerzoMondo, la priorità data dagli occidentali nel dopoguerra all’integrazione in nuovecomunità, come soluzione normale, non corrispondeva più alle realtà predominantiin altre parti del mondo” 23. Fra gli altri rimpatri avvenuti in Asia, ci furono quello dicirca 300mila rifugiati che tornarono in Cambogia, principalmente dalla Thailandia,nel 1979, e quello di circa 200mila rohingya che rientrarono in Birmania dalBangladesh, nel quadro di un’operazione più controversa, nel 1978-79 [cfr. riquadro3.3]. In Africa, i rimpatri volontari più consistenti, che interessarono in totale quasidue milioni di persone, ebbero luogo in Nigeria (1970-71), nel Sudan (1972), inAngola, nel Mozambico e nella Guinea-Bissau (1975-77), nonché nello Zaire (1978).

Gli scambi di popolazione del 1973–74

In conseguenza dello smembramento del Pakistan, dell’indipendenza del Bangladesh edella guerra indo-pakistana, migliaia di individui si ritrovarono sbandati, in paesi deiquali non volevano più far parte. Nel marzo 1973, oltre un anno dopo la fine della guer-ra, lo sceicco Mujubur Rahman, divenuto primo ministro del Bangladesh, scriveva daDacca al Segretario generale dell’Onu Kurt Waldheim, chiedendo l’assistenza dell’Onu inquella che veniva definita un’operazione di “rimpatrio”. Alcuni dei rimpatriati si eranoritrovati sbandati nell’una o nell’altra metà del paese durante il conflitto, mentre altriavevano scelto di trasferirsi dal Bangladesh al Pakistan, o viceversa, a seguito della muta-ta situazione politica. In aprile, l’India e il Bangladesh pubblicarono una dichiarazionecongiunta che invitava al rimpatrio simultaneo dei prigionieri di guerra, degli internati

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Nel 1973-74, nel subcontinente indiano circa 230mila profughi furono rimpatriati grazie ad un ponte aereo organizzatodall’Unhcr. (UNHCR/1973)

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civili e delle loro famiglie. La dichiarazione auspicava, inoltre, il rimpatrio dei bengale-si che si trovavano nel Pakistan e dei pakistani che si trovavano in Bangladesh. Fu ungrosso passo avanti per sbloccare la situazione risultante dal persistente rifiuto delPakistan di riconoscere l’indipendenza del Bangladesh. Il mese successivo, l’AltoCommissario visitava entrambi i paesi, su richiesta del Segretario generale, per discute-re con i governi la possibilità di un rimpatrio in massa.

Il 28 agosto 1973, i governi del Bangladesh, dell’India e del Pakistan firmaronol’accordo di New Delhi, che comprendeva disposizioni per il rimpatrio simultaneodelle tre principali categorie interessate: i prigionieri di guerra e gli internati civilipakistani che si trovavano in India, tutti i bengalesi che si trovavano in Pakistan, non-ché “un numero rilevante di non bengalesi” presenti nel Bangladesh che avevano“optato per il rimpatrio in Pakistan”. I “non bengalesi” erano comunemente chiama-ti bihari, poiché erano in maggioranza indiani musulmani, originari dello stato delBihar, venuti nel Pakistan orientale all’epoca della spartizione dell’India, nel 1947. LeNazioni Unite furono chiamate a fornire assistenza per facilitare il rimpatrio. Dato ilrecente intervento dell’Unhcr come “punto focale”, il Segretario generale chieseall’organizzazione di coordinare tutte le attività umanitarie. In tale ruolo, l’Unhcr col-laborò strettamente col Comitato internazionale della Croce Rossa.

In base all’accordo di New Delhi, il ritorno dei prigionieri di guerra e degli inter-nati civili pakistani doveva essere organizzato a livello bilaterale fra l’India e il Pakistan.L’Unhcr doveva assistere nel rimpatrio le altre categorie di persone. Il 13 settembre1973, l’Alto Commissario Sadruddin Aga Khan lanciò quindi un nuovo appello uma-nitario per il reperimento di 14,3 milioni di dollari, sottolineando “il ruolo che que-sta operazione di rimpatrio su larga scala può svolgere per creare le premesse dellapace e della stabilità nel subcontinente” 24. In novembre, l’Alto Commissario visitò siail Bangladesh che il Pakistan per rendersi conto personalmente dell’andamento delprogramma.

A fine ottobre 1973, era già in corso una colossale operazione di rimpatrio per viaaerea, con velivoli messi a disposizione dalla Germania orientale, dall’Unione sovieti-ca e dal Regno Unito. In novembre, operavano sei aerei, che trasportavano una mediadi 1.200 persone al giorno. A fine gennaio 1974, circa 90mila persone erano state tra-sportate dal Pakistan al Bangladesh, e oltre 44mila in senso inverso 25.

In mancanza di relazioni diplomatiche e di infrastrutture di comunicazione tra ilBangladesh e il Pakistan, l’operazione aerea fu irta di difficoltà. L’Unhcr dovette nego-ziare l’autorizzazione al sorvolo del territorio indiano e la possibilità di effettuare scalitecnici 26. Nello svolgimento dell’operazione dovette, inoltre, mantenere un costantecontatto con i governi, le compagnie aeree e altri partner. Di fatto, l’Unhcr divenne l’a-genzia esecutiva dell’accordo di New Delhi del 1973.

A metà febbraio 1974, oltre 200mila persone erano state rimpatriate nel quadrodi tale accordo. La felice attuazione dell’accordo non fu estranea alla decisione delPakistan, adottata il 22 febbraio 1974, di riconoscere il Bangladesh. Il 1° luglio 1974,d’accordo con i governi interessati, l’Unhcr concludeva gradualmente l’operazionerimpatrio, iniziata nel settembre precedente. A tale data, all’incirca 9mila personeerano state trasportate via mare fra il Bangladesh e il Pakistan, mentre altre 231milacirca erano state trasferite in aereo da un capo all’altro del subcontinente. Queste ulti-

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me comprendevano: circa 116mila bengalesi trasportati dal Pakistan al Bangladesh,circa 104mila non bengalesi dal Bangladesh al Pakistan, come pure circa 11mila paki-stani dal Nepal al Pakistan, in precedenza fuggiti in quel paese per via terrestre dalBangladesh 27. Si trattò, a quell’epoca, del più grande ponte aereo d’emergenza maiorganizzato a beneficio di civili.

I binari del Bangladesh

Uno dei problemi allora insoluti, e che in molti casi lo è tuttora, fu lo status giuridi-co e la cittadinanza dei bihari. All’epoca dello smembramento dell’India, nel 1947,circa un milione di musulmani dello stato indiano del Bihar si trasferirono in quelloche divenne il Pakistan orientale. La maggioranza era di lingua urdu, il che li legavapiuttosto al Pakistan occidentale, ma viveva relativamente bene nel Pakistan orientale.Col crescere della tensione fra la regione occidentale e quella orientale del paese, tut-tavia, si ritenne che i bihari parteggiassero per il Pakistan occidentale. Nel corso del1971, molti di loro entrarono nelle milizie pakistane o collaborarono con l’esercitopakistano. Di conseguenza, dopo la resa di questo, a metà dicembre del 1971, l’inte-ra comunità bihari dovette affrontare le ire dei nazionalisti bengalesi, e i suoi compo-nenti furono accusati di collaborazionismo con l’amministrazione e le truppe pakista-ne. Molti furono uccisi e i loro beni furono in gran parte confiscati.

Sebbene i bihari rientrassero fra le categorie accettate dal Pakistan nel quadro del-l’accordo di rimpatrio dell’agosto 1973, il governo fu lento nel concedere le autoriz-zazioni 28. In una ulteriore riunione dei ministri degli Esteri dei tre paesi, svoltasi a NewDelhi nell’aprile 1974, fu concluso un nuovo accordo tripartito per una seconda fasedi rimpatrio, nel quadro della quale oltre 170mila bihari si trasferirono in Pakistan 29.Questo paese, tuttavia, interpretò in maniera restrittiva le categorie di “non bengalesi”menzionate nell’accordo, e non riammise tutti i bihari. In aggiunta a questo primomovimento, altri 9.900 circa rimpatriarono in Pakistan fra il 1977 e il 1979, seguiti daaltri 4.800 nel 1982. Infine, nel 1993, altre 53 famiglie bihari furono accolte nel paese,prima che le proteste della popolazione ponessero fine all’operazione.

Gli osservatori attribuiscono la riluttanza del Pakistan a riammettere i bihari, chesi sono sempre considerati cittadini pakistani, al timore che la loro presenza potesseesacerbare le tensioni etniche e politiche già esistenti nel paese. In Bangladesh, i biha-ri hanno incontrato problemi per acquisire la cittadinanza, poiché le disposizioni inmateria, risalenti al 1972, la negano a chiunque “dimostri, dichiari o riconosca,espressamente o per il suo comportamento, fedeltà a uno stato estero” 30. Sebbene difatto molti bihari siano stati accolti in Bangladesh, nel 1999 oltre 200mila di loro vive-vano ancora in 66 campi profughi male attrezzati, disseminati in tutto il paese. Il lorostatus giuridico incerto in materia di cittadinanza causa innumerevoli problemi.Poiché né il Pakistan né il Bangladesh sono disposti ad assumersene l’intera responsa-bilità, i bihari sono potenzialmente apolidi. Dopo tanti anni di un’esistenza compara-bile a quella di rifugiati, esistono ora indicazioni secondo le quali un certo numero diloro preferisce ottenere la cittadinanza del Bangladesh 31.

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Riquadro 3.3 Il dramma dei rohingya

Alla fine degli anni ’70, l’Unhcrdovette intervenire, alla frontieraorientale del Bangladesh, inun’operazione di rimpatrio complessae controversa in favore dei rohingya,una minoranza musulmana dello statodi Arakan, nella Birmania amaggioranza buddista, che si erarifugiata in Bangladesh.

La Birmania aveva una lunga storia diconflitti interetnici e di migrazioniinterne. Quasi subito dopol’indipendenza dal Regno Unito,ottenuta nel 1948, nell’Arakan siaggravò la tensione tra i rohingya ela popolazione locale, di etniarakhine. Il governo birmano sostenevache i rohingya erano emigratirelativamente di recente dalsubcontinente indiano e che laCostituzione non li includeva,pertanto, fra i gruppi etnici chepotevano aspirare alla cittadinanza. Irohingya furono quindi emarginati edebbero crescenti difficoltà perbeneficiare dei servizi pubbliciessenziali, come l’assistenza sociale,la scuola e l’assistenza medica.Nel marzo 1978, le autoritàdell’Imminigrazione lanciaronol’operazione Nagamin Sit Sin Yay(Drago reale), con lo scopo dichiaratodi esaminare sistematicamente lostatus giuridico di coloro chevivevano nelle zone di confine, e di“intervenire nei confronti deglistranieri... entrati nel paeseillegalmente”. Furono così presi nelmirino i rohingya, non consideraticome cittadini; ne seguirono arrestied espulsioni su vasta scala e, già nelluglio dello stesso anno, molti di lorosi erano rifugiati in Bangladesh.

Le stime relative alle cifre effettivevariavano. Il governo del Bangladeshdichiarava che oltre 250mila rohingyaavevano cercato scampo nel paese,mentre, per le autorità birmane, ilnumero non superava i 150mila. Uncosì massiccio afflusso di rifugiatirappresentò un gravoso onere per ilBangladesh, un paese densamentepopolato e impoverito, rendendo tesele relazioni fra i due paesi. Questepressioni, come anche lepreoccupazioni di altri paesi musulmanicirca il trattamento riservato ai

rohingya, indussero il governo delBangladesh a chiedere l’assistenzadelle Nazioni Unite. Molti rifugiativivevano in condizioni pietose, e ilgoverno insisteva sul fatto che il paesenon poteva continuare a ospitarli atempo indeterminato. Di conseguenza,l’Onu varò un consistente programmadi aiuti, coordinato dall’Unhcr a partiredal maggio 1978, nell’ambito del qualefurono creati, in totale, 13 campiprofughi. Quando la crisi si andòattenuando, la Birmania e ilBangladesh cercarono una soluzioneduratura al problema dei rifugiati.Nessuno dei due paesi aveva aderito aquell’epoca (né lo ha fatto in seguito)alla Convenzione delle Nazioni Unitedel 1951.

Nel luglio 1978 fu concluso, senza lapartecipazione dell’Unhcr, un accordobilaterale fra i due paesi cheprevedeva il rimpatrio dei rohingya.Fra i rifugiati c’era una forteresistenza al rientro, e si registraronogravi scontri con funzionari delBangladesh, che fecero centinaia divittime. Il deterioramento dellecondizioni nei campi profughi,l’arresto di alcuni leader rohingya,nonché la riduzione delle razionialimentari convinsero, tuttavia, irifugiati al rimpatrio. Alla fine del1979, erano ritornati in Birmaniaoltre 180mila rohingya.

Per cercare di migliorare la situazionedei rimpatriati, l’Unhcr stanziò 7milioni di dollari per progetti mirantia facilitarne il reinserimento. Con solouna limitata presenza in loco, l’Unhcrnon poteva, però, sorvegliare davicino la situazione, né assicurarsi chei rohingya tornati in patria fosserotrattati equamente dalle autoritàlocali. La discriminazione nei loroconfronti continuò. Nel 1982, unanuova legge in materia di cittadinanzane creò tre categorie diverse, ma per irohingya rimase comunqueestremamente difficile ottenerla.

Nel 1991-92, i rohingya fuggirononuovamente dallo stato del Rakhinesettentrionale (nuova denominazionedell’Arakan). Circa 250mila personefurono registrate e accolte in 20 campiprofughi in Bangladesh. Il rimpatrio di

questi rifugiati nel Myanmar, nuovonome del loro paese d’origine a partiredal 1989, fu ancora una voltacontroverso. I rientri avvennero, nel1992-93, nell’ambito di un altroaccordo bilaterale fra il Bangladesh eil Myanmar, dal quale anche questavolta fu escluso l’Unhcr. Nel 1993, ilgoverno del Myanmar finalmenteaccettò di permettere una presenzadell’organizzazione nello stato delRakhine. Nell’aprile del 1994, unavolta stabilita tale presenza, l’Unhcrfacilitò il rimpatrio volontario deirifugiati dal Bangladesh. All’epoca,alcune organizzazioni paladine deidiritti umani criticarono severamentel’Alto Commissariato, chiedendosi se ilrimpatrio fosse davvero volontario esostenendo che la situazione non eramigliorata abbastanza da permettere ilrientro dei rohingya in condizioni disicurezza 1. Pur riconoscendo lavulnerabilità dei rohingya, da entrambii lati della frontiera, l’Unhcr ritenneche, in generale, la loro situazionesarebbe stata migliore a casa loro, nelMyanmar, piuttosto che nei campiprofughi del Bangladesh.

Migliaia di rohingya sono nuovamentefuggiti in Bangladesh nel 1996 e1997. All’inizio, le truppe di questopaese hanno rimpatriato con la forzacentinaia di esuli, ma tale azione èstata in larga misura bloccata aseguito dell’intervento dell’Unhcr.Dopo aver stabilito una presenza nelRakhine settentrionale,l’organizzazione ha attuato una seriedi progetti intesi a facilitare ilreinserimento dei rimpatriati e amigliorare le infrastrutture di base eha, inoltre, avviato un dialogo a tuttii livelli con il governo del Myanmar,insistendo per una soluzione delproblema della cittadinanza e per lafine della pratica dei lavori forzati. Diquanti erano fuggiti in Bangladeshall’inizio degli anni ’90, al dicembre1999 circa 200mila erano rimpatriati,lasciandone ancora in tale paese circa22mila. Sebbene molte delle causeche provocarono negli anniprecedenti la loro partenza in massasi siano forse attenuate, il drammadei rohingya del Myanmar costituiscetuttora per la comunità internazionalemotivo di preoccupazione.

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L’estensione del ruolo dell’Unhcr in Asia

L’operazione di soccorso umanitario per i rifugiati del Bangladesh mise l’Unhcr difronte a molti problemi che l’organizzazione avrebbe dovuto affrontare, con crescen-te regolarità, nei decenni successivi. Fra questi, la gestione di un improvviso massic-cio afflusso di milioni di rifugiati, l’utilizzazione di grandi campi profughi costruiti infretta e furia, come anche le difficoltà dell’approvvigionamento e della distribuzionedei viveri e degli altri soccorsi essenziali. Espose, inoltre, l’Unhcr al devastante impat-to del colera nei campi profughi sovraffollati.

Un elemento importante nella gestione della crisi di rifugiati del Bangladesh fu ilfatto che l’Unhcr assunse il ruolo di riferimento. Sebbene l’espressione non sia statapiù utilizzata in seguito, il concetto fu ritenuto utile in una situazione d’emergenza,quando le esigenze complessive trascendevano il mandato di un solo organismo delleNazioni Unite. Fu quella solo la prima delle numerose crisi di rifugiati in cui l’Unhcrfu chiamato dal Segretario generale a fungere da agenzia capofila, per il coordina-mento degli aiuti umanitari internazionali.

Forse, però, l’aspetto più rilevante di quella operazione umanitaria fu il clima alta-mente politicizzato in cui fu attuata. La crisi del Bangladesh accrebbe la consapevolez-za, in seno alle Nazioni Unite, del fatto che i massicci movimenti di rifugiati non sonosoltanto il risultato dei conflitti, ma possono di per sé stessi generare gravi minacceper la pace e la sicurezza di una regione. Inoltre, il ruolo svolto dal responsabiledell’Ufficio dell’Unhcr di Dacca, nelle ultime ore della guerra, per la conclusione diuna tregua fra l’esercito indiano e quello pakistano, testimonia lo stretto coinvolgi-mento dell’organizzazione sul terreno, durante l’evoluzione della crisi. Entrambi igoverni, peraltro, erano spesso sospettosi circa le motivazioni dell’Unhcr e, di conse-guenza, i reciproci rapporti furono spesso tesi. L’Alto Commissario Saddruddin AgaKhan mantenne, durante tutta la crisi, uno stretto collegamento col Segretario gene-rale dell’Onu.

Le soluzioni date agli sconvolgimenti del subcontinente indiano, nei primi anni ’70,avevano le loro radici in concetti anteriori alla seconda guerra mondiale. Gli accordidi rimpatrio conclusi dai governi del Bangladesh, dell’India e del Pakistan a partire dal1973 si basavano sulla convinzione dell’efficacia degli scambi di popolazione perrisolvere i problemi delle minoranze, in seno a stati indipendenti. Date le grandidistanze esistenti fra il Pakistan e il Bangladesh, quei rimpatri furono effettuati in largamisura per via aerea, ma di fatto erano simili a precedenti scambi di popolazioni,come quelli avvenuti in Europa negli anni ’20, fra la Grecia e la Turchia e fra la Greciae la Bulgaria.

L’attività dell’Unhcr nell’Asia meridionale continuò dopo la risoluzione della crisidi rifugiati del Bangladesh.Alla fine degli anni ’70, l’organizzazione era impegnata nelrimpatrio dei rifugiati musulmani di etnia rohingya dal Bangladesh alla Birmania.Fuori della regione, l’Unhcr partecipò anche, nei primi anni ’70, all’assistenza agliabitanti originari dell’Asia meridionale, espulsi dall’Uganda dal regime del presiden-te Idi Amin [cfr. riquadro 3.2]. Un’altra popolazione rifugiata dell’Asia meridionale,spesso trascurata in passato, e di cui l’Unhcr ha avuto scarse occasioni di occuparsi, è

I RIFUGIATI NEL MONDO

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quella dei tibetani, esuli in India dal 1959 [cfr. riquadro 3.1]. Sebbene, negli anni cheseguirono la crisi dei rifugiati del Bangladesh, l’Unhcr fornisse assistenza a vari nuovigruppi di rifugiati nell’Asia meridionale, dalla metà degli anni ’70 il fulcro della suaattività in Asia si spostò in Indocina.

La spaccatura dell’Asia meridionale

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