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N°89 Aprile 2015 1 Newsletter N° 89 Aprile 2015 Trifirò & Partners Avvocati Diritto del Lavoro Attualità 1 Le Nostre Sentenze 7 Cassazione 9 Diritto Civile, Commerciale, Assicurativo Le Nostre Sentenze 10 Assicurazioni 11 Il Punto su 14 R. Stampa 16 Eventi 17 Contatti 18 La nuova disciplina delle mansioni nel Jobs Act L’articolo 55 dello schema di decreto, approvato dal governo il 20 febbraio 2015, contiene il nuovo testo dell’art. 2103 cod. civ., destinato a sostituire l’attuale versione, dopo che il decreto sarà entrato in vigore. Il Governo ha trasmesso al parlamento lo schema di decreto solamente il 9 aprile, per cui l’iter di attuazione del jobs act ha subito un rallentamento. La nuova norma, una volta entrata in vigore, sarà applicabile a tutti i rapporti di lavoro, senza alcuna esclusione sotto il profilo della categoria professionale (quindi si applicherà anche ai dirigenti), e non sarà limitata alle nuove assunzioni, come avviene invece per la disciplina dei licenziamenti introdotta dal decreto sulle tutele crescenti. La prima novità contenuta nel nuovo art. 2103 cod. civ. è rappresentata dal fatto che il lavoratore potrà essere assegnato a “mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”. La “vecchia” versione della norma - quella ancora in vigore, ma destinata ad essere sostituita - prevede, invece, che il lavoratore ha diritto di svolgere mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte. La differenza sembra nominalistica, ma è di sostanza. In proposito, la giurisprudenza distingue tra equivalenza in senso statico e dinamico. Il concetto di equivalenza dinamica è più protettivo per il lavoratore, rispetto a quello di semplice conservazione del livello di inquadramento (equivalenza statica). Attualmente il lavoratore ha diritto, in caso di mutamento di mansioni, di essere assegnato ad un ruolo che garantisca una omogeneità contenutistica rispetto al precedente, con conservazione e sfruttamento del medesimo bagaglio di competenze professionali. Con la nuova disciplina delle mansioni, il datore di lavoro potrà assegnare liberamente al dipendente qualsiasi mansione, tra quelle previste dalla declaratoria del C.C.N.L. di categoria per il medesimo inquadramento. Ciò significa che, ove la contrattazione collettiva preveda il cosiddetto inquadramento unico, il lavoratore assegnato a mansioni impiegatizie potrebbe anche essere adibito ad attività operative, purché per queste ultime il C.C.N.L. preveda lo stesso inquadramento.

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Trifirò & Partners Avvocati

Diritto del Lavoro

Attualità 1

Le Nostre Sentenze 7

Cassazione 9

Diritto Civile, Commerciale, Assicurativo

Le Nostre Sentenze 10

Assicurazioni 11

Il Punto su 14

R. Stampa 16

Eventi 17

Contatti 18

La nuova disciplina delle mansioni nel Jobs Act L’articolo 55 dello schema di decreto, approvato dal governo il 20 febbraio 2015, contiene il nuovo testo dell’art. 2103 cod. civ., destinato a sostituire l’attuale versione, dopo che il decreto sarà entrato in vigore. Il Governo ha trasmesso al parlamento lo schema di decreto solamente il 9 aprile, per cui l’iter di attuazione del jobs act ha subito un rallentamento.

La nuova norma, una volta entrata in vigore, sarà applicabile a tutti i rapporti di lavoro, senza alcuna esclusione sotto il profilo della categoria professionale (quindi si applicherà anche ai dirigenti), e non sarà limitata alle nuove assunzioni, come avviene invece per la disciplina dei licenziamenti introdotta dal decreto sulle tutele crescenti.

La prima novità contenuta nel nuovo art. 2103 cod. civ. è rappresentata dal fatto che il lavoratore potrà essere assegnato a “mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”. La “vecchia” versione della norma - quella ancora in vigore, ma destinata ad essere sostituita - prevede, invece, che il lavoratore ha diritto di svolgere mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte.

La differenza sembra nominalistica, ma è di sostanza. In proposito, la giurisprudenza distingue tra equivalenza in senso statico e dinamico. Il concetto di equivalenza dinamica è più protettivo per il lavoratore, rispetto a quello di semplice conservazione del livello di inquadramento (equivalenza statica). Attualmente il lavoratore ha diritto, in caso di mutamento di mansioni, di essere assegnato ad un ruolo che garantisca una omogeneità contenutistica rispetto al precedente, con conservazione e sfruttamento del medesimo bagaglio di competenze professionali. Con la nuova disciplina delle mansioni, il datore di lavoro potrà assegnare liberamente al dipendente qualsiasi mansione, tra quelle previste dalla declaratoria del C.C.N.L. di categoria per il medesimo inquadramento. Ciò significa che, ove la contrattazione collettiva preveda il cosiddetto inquadramento unico, il lavoratore assegnato a mansioni impiegatizie potrebbe anche essere adibito ad attività operative, purché per queste ultime il C.C.N.L. preveda lo stesso inquadramento.

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Newsletter T&P Come contropartita, rispetto all’ampliamento di poteri attribuito al datore di lavoro, il “nuovo” art. 2103 cod. civ. prevede che, quando il mutamento di mansioni comporta una modifica sostanziale delle attività svolte, per cui il lavoratore non dispone delle necessarie competenze, il datore di lavoro è gravato di un obbligo formativo. Il mancato adempimento di tale obbligo, peraltro, non comporta la nullità del mutamento di mansioni, ma semmai rende solo non imputabile al dipendente la sua eventuale inadeguatezza al nuovo ruolo. Quindi, ad esempio, non sarà licenziabile per eventuali errori commessi.

La seconda novità - forse la più eclatante - prevede che “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore”. Una volta entrata in vigore, la nuova norma consentirà, quindi, al datore di lavoro non solo di mutare le mansioni del dipendente, assegnandogli differenti mansioni per cui il C.C.N.L. prevede la stessa categoria, ma addirittura di adibirlo ad una attività corrispondente ad un inquadramento inferiore. Tale facoltà viene riconosciuta al datore di lavoro in qualsiasi caso in cui il mutamento di mansioni sia imposto da esigenze organizzative che coinvolgono il dipendente interessato. Non è necessaria una crisi aziendale, e nemmeno è richiesto al datore di lavoro di considerare il mutamento di mansioni come una extrema ratio.

La nuova norma prevede che, in ipotesi di mutamento delle mansioni, il lavoratore ha diritto alla conservazione dell’inquadramento di provenienza ed alla relativa retribuzione, venendo unicamente meno eventuali elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento delle precedenti mansioni. Per intendersi, se un lavoratore percepiva l’indennità di turno notturno e le nuove mansioni prevedono un orario di lavoro solo diurno, il medesimo conserverà inquadramento e retribuzione, ma perderà l’indennità in questione. L’eventuale riduzione della retribuzione o dell’inquadramento sono possibili con il consenso del lavoratore, che deve essere formalizzato in una sede qualificata ex art. 2113 cod. civ..

La terza e ultima novità riguarda il caso in cui il lavoratore si trovi a svolgere mansioni corrispondenti a un inquadramento superiore rispetto al proprio. La norma prevede che il lavoratore possa rinunciare a vedersi attribuito l’inquadramento corrispondente alle ultime mansioni svolte. La portata della modifica, apparentemente modesta, è invece notevole. Si pensi a un quadro che, pur svolgendo di fatto mansioni dirigenziali, potrebbe esprimere la propria volontà di mantenere l’inquadramento originario, con ogni conseguenza anche in relazione al regime delle tutele previsto in caso di licenziamento. In secondo luogo, la norma prevede che, quando lo svolgimento di mansioni superiori non è motivato dalla sostituzione di un lavoratore assente, il diritto all’inquadramento superiore matura nel periodo fissato dai contratti collettivi, anche aziendali, ovvero, in mancanza di previsione pattizia, in sei mesi (l’attuale art. 2103 cod. civ. ritiene sufficienti 3 mesi).

Il regime del nuovo art. 2103 cod. civ. comporterà conseguenze anche in tema di licenziamento. Il datore di lavoro, disponendo di un ampio potere di modifica delle mansioni, avrà difficoltà, in ipotesi di licenziamento, a dimostrare l’assolvimento dell’obbligo di repechage. E ciò vale a maggior ragione alla luce della continua estensione dei confini di tale obbligo, ad opera della giurisprudenza più recente: si pensi alle sentenze che hanno esteso il repechage alle società del gruppo e, persino, alle consociate estere.

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Newsletter T&P D’altro canto, sia in base alla disciplina dell’art. 18 St. Lav. post legge Fornero, che in regime di tutele crescenti, la violazione dell’obbligo di repechage non dovrebbe comportare la reintegrazione, ma solo l’indennizzo economico, salva la prova - di cui è onerato il lavoratore - della natura discriminatoria del licenziamento.

Tommaso Targa

Comitato di Redazione: Francesco Autelitano, Stefano Beretta, Antonio Cazzella, Teresa Cofano, Luca D’Arco, Diego Meucci, Jacopo Moretti, Damiana Lesce, Luca Peron, Claudio Ponari, Vittorio Provera, Tommaso Targa, Marina Tona, Stefano Trifirò e Giovanna Vaglio Bianco

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Le novità del D.L. n. 132 del 2014 in tema di processo del lavoro A cura di Giorgio Molteni e Lorenzo Duina Il Decreto Legge n. 132 del 2014, convertito con Legge 10 novembre 2014 n. 162, recante “Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile”, ha introdotto alcune interessanti novità all’assetto del processo civile. Tra queste, due in particolare sembrano rilevanti dal punto di vista giuslavoristico: si tratta delle modifiche apportate dagli articoli 13 (Modifiche al regime della compensazione delle spese) e 17 (Misure per il contrasto del ritardo nei pagamenti) del Decreto, che si applicano ai procedimenti iniziati successivamente all’11 dicembre 2014.

L’intervento più significativo è quello operato dall’articolo 17 del Decreto, che ha modificato l’articolo 1284 del codice civile, introducendo due nuovi commi, che stabiliscono un regime speciale per gli interessi legali maturati successivamente alla proposizione della domanda giudiziale. Infatti, a norma del nuovo quarto comma dell’articolo 1284, “se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi nei pagamenti”. Il riferimento è rivolto agli interessi moratori per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, previsti dal D. Lgs. n. 231/2002. L’aumento degli interessi maturati successivamente all’instaurazione del giudizio è, dunque, notevole: basti pensare che, mentre il saggio degli interessi legali per l’anno 2015 è pari allo 0,5%, il saggio degli interessi moratori è pari a 8,05%. Lo scopo del legislatore è evidentemente quello di scoraggiare eventuali strategie dilatorie del debitore, che sarebbero al contrario favorite dal saggio estremamente ridotto degli interessi legali.

Naturalmente, questa innovazione ha dirette conseguenze sulle somme che il datore di lavoro dovrà corrispondere al lavoratore in caso di soccombenza, in virtù dell’espresso richiamo all’art. 1284, operato dall’articolo 429, terzo comma, c.p.c.

Si noti, inoltre, a questo proposito, che il legislatore non ha apportato alcuna modifica all’articolo 429 c.p.c., lasciando, in particolare, inalterata la parte in cui questo prevede che, in caso di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti da lavoro, sia dovuta (oltre agli interessi) anche la rivalutazione monetaria. Per questo motivo, i nuovi elevati interessi moratori dovranno essere calcolati sulla base della somma rivalutata. È agevole notare come tale circostanza produca una significativa amplificazione della somma, che in taluni casi rischia di crescere in modo incontrollato.

Per quanto riguarda il dies a quo del termine di decorrenza degli interessi moratori, considerato che la ratio della norma è - come anticipato - quella di scoraggiare il debitore da qualsivoglia condotta dilatoria, sembra ragionevole ritenere che gli interessi maggiorati debbano decorrere non già dal momento del deposito del ricorso, ma dal momento dell’effettiva notificazione del ricorso stesso al datore di lavoro. Una diversa interpretazione della norma risulterebbe incoerente, considerato che solamente la conoscenza dell’instaurarsi del procedimento (e quindi della decorrenza del più elevato saggio d’interesse) può sortire l’intento dissuasivo che sta alla base della norma.

L’articolo 13 del Decreto ha modificato il secondo comma dell’articolo 92 del codice di procedura civile, restringendo il novero dei casi in cui è possibile, per il giudice, disporre la compensazione delle spese legali. Infatti, prima di quest’ultimo intervento legislativo, era ammessa la compensazione delle spese ogniqualvolta fossero ravvisabili “gravi ed eccezionali ragioni” (ferma restando, naturalmente, l’ipotesi di soccombenza reciproca), laddove la nuova formulazione della norma elimina tale generico riferimento, sostituendolo con due

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specifiche ipotesi: la “assoluta novità della questione trattata” ed il “mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti”. La volontà del legislatore appare, dunque, volta a limitare la discrezionalità del giudice nel disporre la compensazione delle spese legali, evidentemente rilevandone un uso eccessivo e/o indiscriminato. Tale modifica assume un significato particolare proprio nel contesto del processo del lavoro dove, notoriamente, è estremamente diffusa la prassi giurisprudenziale di disporre la compensazione delle spese legali in caso di soccombenza del lavoratore, in virtù di un più generale favor nei confronti di quest’ultimo.

Si noti comunque che, nonostante la soppressione della clausola generale delle “gravi ed eccezionali ragioni”, il giudice potrà continuare a valorizzare, al fine della compensazione delle spese, alcuni elementi ulteriori, quali il contegno preprocessuale delle parti o le condizioni soggettive del lavoratore, grazie agli specifici richiami operati dall’art. 7, comma 8, della Legge n. 604 del 1966 e dall’art. 80, comma 3, del D. Lgs. n. 276 del 2003.

Per quanto riguarda il merito delle nuove ipotesi di compensazione, si rileva, innanzitutto, che la “novità della questione” (criterio già in precedenza individuato dalla giurisprudenza, quale condizione idonea a giustificare la compensazione delle spese) dovrà essere assoluta, evidentemente nel tentativo di arginare ulteriormente la discrezionalità del giudice. Tale condizione sarà, dunque, ravvisabile solamente in assenza totale, al momento della proposizione della domanda, di precedenti giurisprudenziali rispetto all’oggetto della causa, da intendersi ragionevolmente con esclusivo riferimento alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, unico organo della nomofilachia, stante il rifiuto da parte del nostro ordinamento del principio dello stare decisis. Allo stesso modo, sembra agevole ritenere che possano integrare ipotesi di “novità della questione” tutti i casi in cui lo jus superveniens o l’intervento della Corte Costituzionale, occorsi in costanza di giudizio, abbiano sostanzialmente inciso sui principi di diritto rilevanti; infine, in linea teorica, si potrebbe ipotizzare l’estensione della previsione anche al caso in cui - sebbene il principio di diritto sia già stato oggetto di pronunce da parte della Suprema Corte - la parte sottoponga all’attenzione del giudice argomenti assolutamente nuovi (rispetto a quelli prospettati in precedenza), astrattamente idonei a giustificarne una diversa interpretazione. Tuttavia, quest’ultima interpretazione sembra contrastare con l’intento del legislatore di limitare la discrezionalità dei giudici nel disporre la compensazione delle spese, posto che può prestarsi ad evidenti strumentalizzazioni.

Per quanto concerne la seconda nuova ipotesi, il “mutamento della giurisprudenza” deve essere senz’altro rilevato in caso di scostamento del giudice da un orientamento giurisprudenziale consolidato, nonché in caso di una sopravvenuta modifica nell’orientamento della Corte di Cassazione; ma, considerando la ratio della norma, non si può negare che tale condizione possa essere ravvisabile anche in caso di preesistente contrasto giurisprudenziale, che, non permettendo un’interpretazione univoca della norma oggetto di giudizio, legittimi l’affidamento delle parti sulla fondatezza della propria ricostruzione.

Si ricorda, infine, che il giudice non è affatto obbligato a disporre la compensazione delle spese, anche laddove ricorrano le ipotesi previste dall’articolo 92, in quanto la compensazione, secondo il tenore della norma, rimane una facoltà esercitabile dal giudice.

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Da gennaio 2016 … le nuove regole per andare in pensione A cura di Damiana Lesce Con la circolare n. 63 del 20 marzo 2015 l’INPS, in attuazione del decreto ministeriale del 16 dicembre 2014, fornisce le informazioni necessarie a identificare i requisiti di accesso ai trattamenti pensionistici a decorrere dal 1^ gennaio 2016.

Quanto alla pensione di vecchiaia (art. 24, commi 6 e 7, L. n. 214 del 2011) - requisito anagrafico

✦L’età pensionabile per le lavoratrici iscritte all’assicurazione generale obbligatoria dei lavoratori dipendenti ed alle forme sostitutive della medesima sarà pari a:

65 anni e 7 mesi per l’anno 2016 e 2017 66 anni e 7 mesi per l’anno 2018 e a decorrere dal 2019. ✦L’età pensionabile per le lavoratrici iscritte alle gestioni speciali dei lavoratori autonomi e alla gestione separata sarà

pari a: 66 anni e 1 mese per l’anno 2016 e 2017; 66 anni e 7 mesi per l’anno 2018 e a decorrere dal 2019 ✦L’età pensionabile per lavoratori iscritti all’assicurazione generale obbligatoria dei lavoratori dipendenti ed alle forme

sostitutive ed esclusive della medesima e le lavoratrici dipendenti iscritte alle forme esclusive dell’A.G.O. sarà pari a: 66 anni e 7 mesi dall’anno 2016. ✦L’età pensionabile per i lavoratori iscritti alle gestioni speciali dei lavoratori autonomi e alla gestione separata sarà pari

a: 66 anni e 7 mesi dall’anno 2016 Quanto alla pensione anticipata (art. 24, commi 10 e 11, L. n. 214 del 2011) – requisito contributivo

✦ Il requisito contributivo sarà: (i) dal 2016 al 2018: - 42 anni e 10 mesi per gli uomini - 41 anni e 10 mesi per le donne; (ii) dal 2019 al 2020: - 42 anni e 10 mesi per gli uomini - 41 anni e 10 mesi per le donne;

Quanto alla pensione di anzianità con il sistema delle “quote” Dal 1 gennaio 2016 al 31 dicembre 2018, i soggetti per i quali continuano a trovare applicazione le disposizioni in materia di requisiti per il diritto alla pensione con il sistema delle quote, possono mantenere tale diritto ove in possesso di un’anzianità contributiva: ✦di almeno 35 anni per i lavoratori dipendenti pubblici e privati con un’età anagrafica di 61 anni e 7 mesi; ✦un’età anagrafica minima di 62 anni e 7 mesi per i lavoratori autonomi iscritti all’Inps.

Quanto alla pensione di anzianità (art. 6 D.lgs. 165/1997) A decorrere dal 1 gennaio 2016 e fino al 31 dicembre 2018 l’accesso al pensionamento avverrà con i seguenti requisiti:

✦raggiungimento di un’anzianità contributiva di 40 anni e 7 mesi, indipendentemente dall’età; ✦raggiungimento della massima età contributiva a condizione che essa sia stata raggiunta entro il 31 dicembre 2011 ed

in presenza di una età anagrafica di almeno 53 anni e 7 mesi; ✦raggiungimento di un’anzianità contributiva non inferiore a 35 anni e con età anagrafica di almeno 57 anni e 7 mesi.

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LA SENTENZA DEL MESE È LEGITTIMO, NEL LICENZIAMENTO COLLETTIVO, SCEGLIERE CHI LICENZIARE USANDO PARAMETRI DIVERSI PER LAVORATORI CON PROFESSIONALITÀ DIFFERENTI (Tribunale di Milano, ordinanza 19 marzo 2015) Un lavoratore, licenziato a seguito di una procedura di riduzione del personale, conveniva in giudizio la sua ex datrice di lavoro, lamentando l’illegittimità del licenziamento e contestando, in particolare, i criteri utilizzati dalla Società per individuare i lavoratori da licenziare. Sosteneva, infatti, il ricorrente che l’utilizzo di parametri differenti in funzione di gruppi di lavoratori diversi (raggruppati per Business Unit e per mansioni svolte) fosse contrario a correttezza e buona fede, essendo, al contrario, imprescindibile l’applicazione di parametri di selezione uniformi per tutti i lavoratori impiegati nell’azienda. Nello specifico, riteneva il lavoratore che la Società non avrebbe potuto valorizzare taluni criteri (come il titolo di studio) solamente per alcuni dipendenti e non anche per gli altri. La Società resisteva negando ogni asserita arbitrarietà, irragionevolezza e/o discriminatorietà nella scelta dei lavoratori da licenziare, sottolineando, al contrario, la razionalità e l’obiettività nella scelta e nell’applicazione dei criteri di selezione, formulati tenendo conto delle diversità esistenti tra le varie figure professionali presenti nell’azienda. In particolare, la Società riteneva di non aver fatto altro che adottare il criterio generale della “competenza professionale”, declinandolo in modo differente in relazione alle diverse figure professionali. Ciò in base all’assunto dell’impossibilità di utilizzare parametri uniformi per valutare la competenza professionale di figure non comparabili tra loro quali, ad esempio, progettisti, impiegati amministrativi e venditori. Il Giudice, nel recepire integralmente le difese della Società, ha ritenuto che la possibilità di valorizzare indici di selezione differenti per lavoratori aventi professionalità differenti è giustificata dal fatto che, a seconda delle mansioni svolte dal singolo dipendente, variano le qualità da considerarsi rilevanti ai fini della scelta del personale da mantenere in servizio. Così, ad esempio, il titolo di studio potrà essere valorizzato nel caso di lavoratori addetti a mansioni richiedenti una determinata qualifica, mentre per coloro i quali svolgono la propria attività “sul campo” o a contatto col pubblico (come ad esempio i venditori), avranno un maggior peso criteri quali l’esperienza maturata nel settore e la capacità di customer interface; su tali premesse il Giudice ha, conseguentemente, rigettato il ricorso. È dunque legittimo, in caso di licenziamento collettivo, declinare il criterio delle esigenze tecnico-produttive e organizzative, di cui all’art. 5, L. n. 223/1991, adottando sotto-criteri di scelta differenti per gruppi di lavoratori svolgenti mansioni infungibili tra loro. Causa seguita da Giorgio Molteni e Claudio Ponari

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ALTRE SENTENZE

NON CONTRASTA CON L’ART. 7 STAT. LAV. LA CONFESSIONE RESA DAL LAVORATORE NEL CORSO DELL’INDAGINE INTERNA AZIENDALE (Ord. Tribunale di Asti, 24 marzo 2015)

In tema di sanzioni disciplinari, le indagini preliminari condotte dal datore di lavoro e finalizzate all’acquisizione delle prove necessarie per verificare la configurabilità di un illecito e individuarne il responsabile sono legittime, purché - all’esito delle stesse - il datore proceda alla rituale contestazione dell’addebito, con possibilità per il lavoratore di difendersi anche con l’assistenza di un rappresentante sindacale. Pertanto, qualora - in sede di indagini preliminari - il datore riceva la confessione da parte del lavoratore, non si verifica alcuna violazione dell’art. 7 Stat. Lav. in ordine alla preventiva contestazione dell’addebito, poiché tale atto presuppone la conoscenza dei fatti e l’individuazione del soggetto cui attribuirli e, quindi, non può precedere, ma solo, eventualmente, seguire il compimento e la valutazione degli accertamenti preliminari. Lo ha ribadito il Tribunale di Asti, rigettando il ricorso proposto da un dipendente che aveva contestato anche sotto il profilo formale la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogatogli. Nel caso di specie, detto licenziamento è stato, altresì, ritenuto legittimo nel merito, perché - nel corso dell’indagine interna disposta dalla Società - erano emerse prove documentali delle gravi irregolarità commesse dal lavoratore nell’esercizio delle proprie mansioni e idonee a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario. Al riguardo, il Tribunale di Asti ha rilevato che la causa poteva essere decisa allo stato degli atti, in quanto la responsabilità del lavoratore era emersa per tabulas, precisando peraltro che, in caso contrario, la stessa si sarebbe potuta (e dovuta) istruire, essendo la prima fase del c.d. rito Fornero un procedimento sommario soltanto nella forma (“omesse le formalità non essenziali al contradditorio”), ma - per il resto - a cognizione piena. Causa seguita da Tiziano Feriani

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OSSERVATORIO SULLA CASSAZIONE A cura di Stefano Beretta e Antonio Cazzella

LICENZIAMENTO DISCIPLINARE: FATTISPECIE VARIE Con sentenza n. 4237 del 3 marzo 2015 la Corte di Cassazione ha ritenuto sproporzionato il licenziamento del dipendente che, durante la malattia, era stato sorpreso a lavorare per la concorrenza, in quanto l’attività svolta non era tale da comprometterne la guarigione; pertanto, pur avendo rilevato la scarsa lealtà dimostrata dal lavoratore, che avrebbe potuto mettere a disposizione la sua prestazione in favore del datore di lavoro, se riteneva di essersi completamente rimesso prima della scadenza del certificato di malattia, la Suprema Corte ha riformato la sentenza di secondo grado, ritenendo che fosse sufficiente una sanzione conservativa. Con sentenza n. 6869 del 3 aprile 2015 la Corte di Cassazione ha ritenuto che l’accettazione, da parte di un lavoratore, di una fotocopia dello scontrino (in luogo dell’originale) ai fini della realizzazione dell’operazione di reso configura un comportamento che, in quanto posto in essere in violazione di precise disposizioni aziendali, concernenti specifiche modalità operative la cui finalità è quella di evitare azioni truffaldine nei confronti dell’azienda, integra per la sua gravità una giusta causa di licenziamento.

RISARCIMENTO DEL DANNO DA SUPERLAVORO Con sentenza n. 3989 del 27 febbraio 2015 la Corte di Cassazione ha affermato che il lavoratore, il quale lamenta di aver contratto una patologia (cardiaca) collegata alla quantità eccessiva di lavoro svolto ed alle tensioni sul luogo di lavoro, non ha diritto al risarcimento del danno se l’organico è stato concertato con i sindacati e se non è costretto a svolgere regolarmente lavoro straordinario. In particolare, la Suprema Corte ha precisato  che gli obblighi risarcitori del datore di lavoro, in materia di lavoro usurante, sono sussistenti anche nel caso in cui l’eccessivo impegno sia frutto di una libera scelta del lavoratore; nella fattispecie esaminata, tuttavia, il lavoratore non aveva neppure allegato l’esistenza di ritmi di lavoro di particolare intensità e, peraltro, le tensioni in aziende di grandi dimensioni rientrano nell’ordinario contesto lavorativo.

NULLITÀ DELLA CESSIONE DI RAMO D’AZIENDA ED EFFETTI DELL’ACCETTAZIONE DELLA MOBILITÀ CON IL CESSIONARIO Con sentenza n. 6755 del 2 aprile 2015 la Corte di Cassazione ha esaminato una fattispecie in cui i lavoratori avevano chiesto di accertare la nullità e/o l’inefficacia della cessione di un ramo d’azienda, chiedendo il ripristino del rapporto di lavoro con il cedente ed il risarcimento del danno, pur avendo iniziato a lavorare per l’impresa cessionaria. Nelle more del giudizio, che si concludeva con la declaratoria di nullità della cessione e condanna al ripristino del rapporto di lavoro, alcuni lavoratori avevano aderito alla procedura di mobilità attivata dal cessionario. Le richieste risarcitorie avanzate dai lavoratori nei confronti del cedente sono state disattese dalla Corte di Cassazione, che - riformando la sentenza di merito - ha affermato  il principio secondo cui la nullità della cessione di ramo d’azienda produce il diritto al risarcimento del danno in favore del lavoratore che, nonostante la dichiarazione giudiziale di nullità, non sia stato ammesso a riprendere il lavoro nell’impresa cedente; tale diritto, tuttavia, non sussiste qualora lo stesso lavoratore abbia accettato l’estinzione dell’unico rapporto di lavoro, di fatto proseguito con l’impresa cessionaria, sottoscrivendo con quest’ultima un verbale di messa in mobilità.

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Civile, Commerciale, Assicurativo

La mancata specifica censura della sentenza di primo grado rende l’appello inammissibile (Corte d’Appello di Milano, 6 marzo 2015)

L’appellante ha l’onere di censurare specificatamente i passaggi della sentenza sui quali il Tribunale ha fondato la decisione di primo grado; in carenza di tale specifica censura, l’appello non ha una ragionevole probabilità di essere accolto ed è, pertanto, inammissibile ai sensi dell’art. 348 bis cod. proc. civ.. Così ha statuito la Corte d’Appello di Milano, con l’ordinanza in epigrafe, all’esito del gravame promosso da un assicurato nei confronti della propria compagnia assicuratrice. Nel giudizio di primo grado, l’assicurato aveva convenuto l’assicuratore lamentando l’illecita appropriazione - da parte dell’agente - dei premi versati per la stipulazione di polizze che non risultavano ritualmente emesse, chiedendo, in via principale, il riconoscimento della validità delle polizze e, in subordine, il risarcimento del danno, ex art. 2049 cod. civ., commisurato ai premi versati per la stipulazione di dette polizze. Il giudice di prime cure, a seguito delle difese svolte dalla compagnia, aveva respinto la domanda attorea sia sotto il profilo contrattuale, in quanto non vi era prova del pagamento del premio, sia sotto quello extracontrattuale perché tra l’assicurato e l’agente era intercorso un parallelo rapporto privato, estraneo al rapporto assicurativo, idoneo a rompere il rapporto di occasionalità necessaria tra l’attività dell’agente ed il mandato assicurativo conferitogli dall’assicuratore (presupposto minimo per poter sostenere la responsabilità della compagnia per l’illecito dell’agente ai sensi dell’art. 2049 cod. civ.). L’assicurato aveva, quindi, impugnato la sentenza in appello lamentando, da una parte, il mancato accertamento della validità delle polizze e, in secondo ordine, la mancata applicazione dell’art. 2049 cod. civ. nella fattispecie. La Corte d’Appello di Milano, a seguito delle eccezioni formulate dalla compagnia convenuta, rilevava che l’appellante, nel proprio atto introduttivo: i) non aveva impugnato il capo della sentenza che statuiva il mancato perfezionamento delle polizze per assenza del pagamento del premio; ii) si era limitato a sostenere l’applicabilità astratta dell’art. 2049 cod. civ. al rapporto tra la compagnia assicurativa e l’agente, senza argomentare sull’assunto del Tribunale per cui gli scambi di denaro intercorsi tra l’assicurato e l’agente esulavano dal mandato assicurativo e, pertanto, non erano imputabili alla compagnia. Pertanto, secondo la Corte d’Appello di Milano, l’omessa specifica censura, da parte dell’appellante, delle argomentazioni poste alla base della decisione di primo grado, è sufficiente a rendere inammissibile il ricorso e, pertanto, a precludere la prosecuzione del giudizio. Causa seguita da Bonaventura Minutolo e Francesco Torniamenti

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A cura di Bonaventura Minutolo e Teresa Cofano

ACCORDO TRA

COMPAGNIE PER LA

LIQUIDAZIONE DEL

DANNO

L' accordo tra compagnie assicurative in virtù del quale ogni società aderente si impegna a liquidare e pagare il debito delle consorelle salva rivalsa, non è qualificabile come contratto a favore del terzo, non attribuendo al terzo danneggiato vantaggi diretti e giuridici, di conseguenza il danneggiato non ha azione diretta nei confronti del proprio assicuratore. (Cassazione, 17 marzo 2015, n. 5218)

RESPONSABILITÀ DELLA

A.S.L. PER L’ILLECITO

DEL MEDICO

CONVENZIONATO

L’A.S.L. è responsabile ex art. 1228 cod. civ. del fatto illecito commesso dal medico generico, con essa convenzionato, nell’esecuzione di prestazioni curative che siano comprese tra quelle assicurate e garantite dal S. S. N. in base ai livelli stabiliti dalla legge. (Cassazione, 27 marzo 2015, n. 6243)

LOCAZIONE

In tema di immobili adibiti ad uso diverso dall'abitazione, in virtù del principio della libera determinazione convenzionale del canone locativo vigente per gli immobili destinati ad uso commerciale, è consentito alle parti prevedere la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell'arco del rapporto, purché la stessa previsione non costituisca un espediente per aggirare la norma imperativa di cui all’art. 32 della legge n. 27 luglio 1978 n. 392 con la quale il legislatore si è riservato la facoltà di determinare le modalità e la misura dell'aggiornamento del canone in relazione alle variazioni del potere di acquisto della moneta, sottraendola alla disponibilità della parti. (Corte di Cassazione, 24 marzo 2015, n. 5849)

LOCAZIONE

In materia di locazione, l'inidoneità dell'immobile all'esercizio dell'attività commerciale o industriale per la quale è stato locato - che può consistere anche nella mancanza dei requisiti all'uopo prescritti dalla pubblica autorità - non comporta, per il locatore, l'obbligo di operare modificazioni o trasformazioni che non siano state poste a suo carico dal contratto, poiché al locatore incombe l'obbligo di conservare, non già di modificare, lo stato esistente al momento della stipula della locazione, che il conduttore ha riconosciuto idoneo all'uso pattuito. (Tribunale di Milano, 2 dicembre 2014, n. 14376)

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ASTREINTES

Non si può considerare in contrasto con un principio fondamentale, desumibile dalla Costituzione o da fonti equiparate, il provvedimento di condanna al pagamento di una somma che si accresce con il protrarsi dell'inadempimento, impartito da un giudice al fine di coazione all'adempimento di un obbligo infungibile. Le astreintes previste in altri ordinamenti, dirette ad attuare, con il pagamento di una somma crescente con il protrarsi dell’inadempimento, una coercizione per ottenere l’adempimento di obblighi non coercibili in forma specifica, non sono, quindi, incompatibili con l’ordine pubblico italiano. (Cassazione, 15 aprile 2015, n. 7613)

EFFETTI DELLA

RISOLUZIONE DEL

CONTRATTO PER

INADEMPIMENTO

La risoluzione del contratto per inadempimento a seguito di pronuncia costitutiva del giudice priva di causa giustificativa le reciproche obbligazioni dei contraenti. Ne consegue che l’obbligo restitutorio relativo all’originaria prestazione pecuniaria, anche in favore della parte non inadempiente, ha natura di debito di valuta, come tale non soggetto a rivoluzione monetaria, se non nei termini del maggior danno – da provarsi dal creditore – rispetto a quello soddisfatto dagli interessi legali, ai sensi dell’art. 1224 c.c. (Cassazione, 30 marzo 2015, n. 6401)

ONERE DELLA PROVA –

POLIZZA FIDEIUSSORIA

Il creditore che escute una polizza fideiussoria é tenuto a provare i presupposti per l'operatività della garanzia ancorché sia stato convenuto in un giudizio di accertamento negativo, poiché, ai sensi dell'art. 2697 cod. civ., l'onere di provare i fatti costitutivi di un diritto grava sempre su colui che se ne afferma titolare ed intenda farlo valere. (Cassazione, 12 dicembre 2014, n. 26158)

TRA LE NOSTRE

SENTENZE:

Tizio citava in giudizio la Compagnia Alfa, la società agente Beta e il signor X chiedendo accertarsi la responsabilità solidale dei convenuti per l’indebita appropriazione, da parte di X, della somma versata a fronte di una proposta di assicurazione sulla vita mai perfezionatasi, e la loro condanna al pagamento dei danni patrimoniali e morali subiti a causa dell’illecito. L’attore riferiva di aver intrattenuto un rapporto fiduciario con la Compagnia, tramite la sua agenzia, affidata alla società Beta. Nel 2003, il legale rappresentante di Beta, il citato signor X, gli avrebbe fatto sottoscrivere una proposta di polizza sulla vita, facendosi consegnare, contestualmente, l’importo in contanti di € 50.000,00, e rilasciandogli, in calce alla menzionata proposta, una “quietanza di pagamento”, garantendogli che la polizza vita emittenda avrebbe reso un tasso annuo del 4,5%. Successivamente, la società Beta gli avrebbe inviato un certificato integrativo di polizza, nel quale si precisava che il prodotto assicurativo in questione era un contratto di capitalizzazione a premio unico.

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Dopo circa un anno, in ambito locale, cominciavano a diffondersi notizie su alcune irregolarità poste in essere da X nei confronti della clientela. Tizio chiedeva, quindi, chiarimenti alla Compagnia, venendo, così, ad apprendere che la polizza vita, che riteneva di avere stipulato, in realtà non esisteva, in quanto non era mai stata emessa, e che la Compagnia non aveva incassato, su di essa, alcun premio. Si costituiva in giudizio la Compagnia contestando la fondatezza delle domande ed eccependo, in via subordinata, il concorso colposo dell’attore nella produzione del danno. In particolare, la Compagnia eccepiva l’inapplicabilità dell’art. 2049 c.c., invocato dall’attore, nella fattispecie: il signor X, infatti, non era agente della Compagnia, essendo il mandato agenziale stato conferito alla Società Beta; e che, in ogni caso, l’agente non aveva il potere di concludere, in nome e per conto della Compagnia, polizze di natura finanziaria quali quelle dedotte in giudizio, ma solo contratti assicurativi, come emergeva dalla procura conferita alla Società agente e depositata presso la Camera di Commercio. Il Tribunale di Grosseto ha respinto le domande nei confronti della Compagnia (accogliendole, invece, nei confronti di X e della Società Beta), ritenendo che il “contratto” stipulato dall’attore con X fosse estraneo al novero dei contratti che, in base alla procura versata in atti e depositata presso la Camera di Commercio, l’agente potesse stipulare, avendo chiara natura finanziaria e non assicurativa. L’attore, pertanto, non poteva invocare il principio dell’affidamento facendo valere una incolpevole aspettativa di fronte all’apparenza del diritto, essendo la procura assoggettata alla forma pubblicitaria della pubblicazione nel registro delle imprese e, quindi, agevolmente verificabili i limiti e il contenuto della stessa. (Tribunale di Grosseto, 24 marzo 2015) Causa seguita da Bonaventura Minutolo e Teresa Cofano

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IL PUNTO SU A cura di Vittorio Provera

POLITICHE E PRASSI REMUNERAZIONE DEI GRUPPI BANCARI, POSSIBILI CRITICITÀ INERENTI I PATTI DI NON CONCORRENZA

Come noto, a fronte dei gravi avvenimenti seguiti al crack della Lehman Brothers e connessi a non trasparenti gestioni finanziarie da parte anche di alcuni istituti di credito europei, vi è stato un progressivo interessamento del Parlamento e del Consiglio d’ Europa, al fine di dettare discipline inerenti le politiche e le prassi di remunerazione ed incentivazione, nell’ambito degli assetti organizzativi e di governo delle Banche. In tale contesto si inserisce la Direttiva 2013/36/UE (denominata anche “CRD IV”) contenente principi e criteri, a cui le Banche devono attenersi al fine di garantire la corretta elaborazione e attuazione dei sistemi di remunerazione. Quanto sopra, al fine di evitare conflitti di interesse ed assicurare che il sistema di remunerazione tenga opportunatamente conto dei rischi (attuali e prospettici), nonché del grado di patrimonializzazione e dei livelli di liquidità di ciascun istituto. Il tutto, con l’obiettivo anche di accrescere il grado di trasparenza verso il mercato e di rafforzare l’azione di controllo da parte dell’autorità di vigilanza.

Tale Direttiva è stata sostanzialmente recepita, nell’ambito nazionale, dalla Banca d’Italia la quale ha emanato, la Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 (con successivi aggiornamenti nel 2014, da ultimo il VII° aggiornamento del 18 novembre 2014, ove è inserito uno specifico capitolo riguardante la politica e prassi di remunerazione e incentivazione). Lo scopo espressamente perseguito è quello di pervenire ad un sistema di remunerazione “in linea con i valori, strategie e gli obiettivi aziendali di lungo periodo, collegati con i risultati aziendali, opportunatamente corretti per tener conto di tutti i rischi, coerenti con i livelli capitale e di liquidità necessari a fronteggiare le attività intraprese e, in ogni caso, tale da evitare incentivi distorti che possono indurre a violazioni normative o ad una eccessiva assunzione di rischi per la Banca…” . Tradotto in termini più semplici, si intendono scoraggiare politiche retributive - soprattutto per il personale più rilevante (amministratori, alti dirigenti) - correlate al raggiungimento di meri obiettivi di breve periodo.

A fronte di quanto precede, è stata introdotta una regolamentazione specifica con riferimento alla cd remunerazione variabile ed ai suoi rapporti con la componente fissa della retribuzione. In questo quadro sono stati previsti, con l’aggiornamento introdotto nel mese di novembre 2014, anche dei meccanismi di pagamento “dilazionato”, nonché di correzione ex post della parte variabile. Si tratta delle cosiddette clausole di malus e claw back che, nella sostanza, impongono la sospensione e/o la restituzione della retribuzione variabile corrisposta, in presenza di particolari situazioni connesse: (i) ad eventuali risultati negativi della Banca (anche se registrati negli esercizi successivi); (ii) alla scoperta di violazioni di obblighi da parte dei manager o di loro condotte caratterizzate da colpa grave dei medesimi. Nel concreto, ad esempio, per il personale più rilevante delle Banche di maggiori dimensioni è previsto che la componente variabile sia soggetta, per una quota almeno pari al 40%, ad un pagamento differito nell’arco di un periodo non inferiore a tre / cinque anni, in modo da poter valutare l’andamento, nel tempo, dei risultati di gestione e rischi assunti dalla Banca.

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Newsletter T&P Inoltre, per tutto il personale, detti Istituti devono adottare sistemi che prevedano una riduzione rilevante (sino all’azzeramento) della remunerazione variabile, a fronte di risultati dell’azienda significativamente inferiori agli obiettivi prestabiliti, o negativi. Parimenti, è prevista l’introduzione di una disciplina che imponga la restituzione della parte variabile ad opera dei soggetti che abbiano posto in essere comportamenti da cui sia derivata una perdita significativa per la Banca; o che si siano resi responsabili di violazioni di specifici obblighi normativi e/o in materia di remunerazione ed incentivazione; o, infine, che abbiano tenuto comportamenti fraudolenti ai danni della Banca.

Tali disposizioni paiono, in linea generale, condivisibili, proprio per le finalità di correttezza e trasparenza, nell’interesse dell’intero sistema bancario e, quindi, della collettività. In tale quadro, tuttavia, rientra anche la disciplina inerente i cosiddetti golden parachute, definiti come compensi pattuiti in vista o in occasione della conclusione anticipata del rapporto di lavoro o per la cessazione anticipata della carica. Anche per tali accordi valgono i criteri introdotti per la cosiddetta retribuzione variabile, compresa, dunque, la necessità di applicare i meccanismi di correzione ex post inerenti (i cd malus e claw back in relazione ai risultati della Banca e/o alla scoperta di violazioni degli obblighi da parte del manager e/o di condotte caratterizzate da dolo o colpa grave).

Le Disposizioni in esame stabiliscono inoltre, espressamente, che rientrano tra i golden parachute anche i compensi riconosciuti in base ad un eventuale patto di non concorrenza. In punto, tuttavia, è evidente che possono sorgere talune rilevanti problematiche di compatibilità e coordinamento tra le regole - così come introdotte dalla Circolare Banca d’Italia - e le norme primarie in vigore. Il raffronto più immediato è costituto dalle disposizioni dell’articolo 2125 c.c., secondo cui il compenso previsto per il patto di non concorrenza ha una funzione di corrispettivo, rispetto all’obbligazione di non fare assunta dal dipendente con riferimento al periodo successivo alla cessazione del rapporto. Tale corrispettivo è richiesto pena di nullità del patto stesso e, secondo la giurisprudenza, deve essere congruo, cioè non deve trattarsi di compensi manifestamenti esigui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al dipendente (giurisprudenza ormai consolidata, fra le tante Cassazione 14 maggio 1998 n. 4891, Tribunale di Milano 25 marzo 2011 in D. L. 2011, 3, 625, ecc.). E ancora, sempre la Suprema Corte, ha confermato che il corrispettivo del patto di non concorrenza - costituendo contro prestazione rispetto all’obbligazione di non fare - “non è finalizzata ad incentivare l’esodo del lavoratore, né costituisce un’erogazione che trae origine dalla predetta cessazione, avendo piena autonomia causale rispetto alla fine del rapporto che è mera occasione del patto” (Cassazione 15 luglio 2009 n. 16499).

Dunque, già in base ai principi e statuizioni riportate, emergono strutturali differenze tra, da una lato, il compenso per il patto di non concorrenza e, dall’altro, gli importi erogati al dipendente quale golden parachute. Pertanto, nel caso in cui al patto di non concorrenza siano direttamente applicati i medesimi criteri previsti dalle disposizioni della Banca d’Italia testé citate e relative alla retribuzione variabile, è probabile il sorgere di un contenzioso relativo all’incompatibilità di queste ultime, rispetto alla disciplina imperativa in essere per la validità della clausola di non concorrenza; il tutto con effetti pregiudizievoli per la Banca (sia dal punto di vista dell’operatività e dell’efficacia del patto, che da quello economico). È, dunque, è necessario che si individuino possibili strumenti e/o momenti di coordinamento tra dette discipline, ai fini dell’attuazione delle citate disposizioni, ma nel rispetto - tuttavia - delle norme primarie (ed in proposito è auspicabile anche un intervento attraverso lo strumento della contrattazione collettiva).

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Rassegna Stampa

GUIDA Corriere Economia - Corriere della Sera JOBS ACT. Così cambia il mercato del lavoro A cura di Trifirò & Partners Avvocati Dal 13 Marzo 2015 in edicola con il Corriere della Sera. Disponibile anche la versione E-Book.

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 29/04/2015 È legittimo, nel licenziamento collettivo, scegliere chi licenziare usando parametri diversi per lavoratori con professionalità differentidi Giorgio Molteni e Claudio Ponari

Diario di Gorizia: 23/04/2015 Jobs Act, avvocati a confronto

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 16/04/2015 Politiche e prassi remunerazione dei gruppi bancari, possibili criticità inerenti i patti di non concorrenzadi Vittorio Provera

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 13/04/2015 D.L. n. 132/2014 in tema di processo del lavoro: le novitàdi Giorgio Molteni e Lorenzo Duina

JOB24 - Il Sole 24 Ore: 13/04/2015 VIDEO: Jobs Act in progress – Tutele crescenti e art. 18: è possibile pattuire una deroga?Intervista a Valeria De Lucia

JOB24 - Il Sole 24 Ore: 08/04/2015 La nuova disciplina delle mansioni nel Jobs Act : sei domande e sei risposte (tutt’altro che scontate)di Tommaso Targa

JOB24 - Il Sole 24 Ore: 07/04/2015 VIDEO: Jobs Act in progress – La nuova disciplina delle mansioniIntervista a Tommaso Targa

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 07/04/2015 Non contrasta con l’art. 7 Stat. Lav. la confessione resa dal lavoratore nel corso dell’indagine interna aziendaledi Tiziano Feriani

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 31/03/2015 La legittimità del patto di prolungamento del preavviso in caso di dimissioni del lavoratoredi Antonio Cazzella

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Eventi

12 Uomini Arrabbiati, Teatro San Babila - Milano, 16 Aprile 2015 Trifirò & Partners Avvocati - AIDP Galleria Fotografica

✦Milano, 12 Maggio 2015, Carlton Hotel BaglioniConvegno Optime: I decreti attuativi del Jobs ActIl licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale Relatore: Avv. Giacinto Favalli

✦Milano, 26 Maggio 2015, Grand Hotel et de MilanConvegno Optime: La risoluzione consensuale e gli accordi transattivi nel rapporto di lavoroGli accordi transattivi nell’ambito dei licenziamenti collettivi Relatori: Avv. ti Giacinto Favalli, Damiana Lesce

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Stefano Trifirò, Massimiliano Gironi, Salvatore Trifirò, Andrea Orlandini, Guglielmo Gulotta (Teatro San Babila, 16 Aprile 2015)

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