Newsletter n. 18 del 9 - 16 maggio 2011 · 2011-05-17 · Newsletter n. 18 del 9 - 16 maggio 2011...

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1 Newsletter n. 18 del 9 - 16 maggio 2011 Sommario A CURA DI GUIDA AL DIRITTO IN QUESTO NUMERO RIFORME IN CANTIERE Il processo in tempi ragionevoli è un diritto che non può realizzarsi violando altre regole di Maurizio Tilla – Presidente dell’ unitario dell’Avvocatura italiana PRIMO PIANO FALLIMENTO Proposta di accordo, lo stop alle azioni esecutive non è paragonabile..>> di Niccolò Nisivoccia SENTENZE DEL GIORNO LEGITTIMAZIONE AD AGIRE Il condominio può sempre impugnare la causa fatta dall’amministratore OFFERTE COMMERCIALI La Cgue sdogana le pubblicità col solo prezzo di partenza Corte di giustizia – Sentenza 12 maggio 2011 RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE Avvocato responsabile verso il cliente se fa scadere i termini per l’appello confidando in una transazione Corte di cassazione – Sezione II civile – Sentenza 113 maggio 2011 MISURE CAUTELARI Decade automaticamente l’obbligo di dimora con la condanna definitiva al carcerei Corte di Cassazione, Sezione unite penale, 11 maggio 2001 A CURA DI LEX24 PROCEDURA PENALE La parte civile e il principio di immanenza di Claudio Coratella, Studio legale Coratella - A cura di Lex24 FAMIGLIA Spese extra per i figli con l'accordo pre-divorzio Paolo Russo, Il Sole 24 Ore del lunedì - Norme e Tributi, 16 maggio 2011 - Pagina 46 PROPRIETA' INDUSTRIALE Bloccati i brevetti del manager Giovanni Negri, Il Sole 24 Ore - Norme e Tributi, 10 maggio 2011 - Pagina 39 COMPENSI PROFESSIONALI Conta solo la tariffa giudiziale Il Sole 24 Ore - Norme e Tributi, 10 maggio 2011 - Pagina 39

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Newsletter n. 18 del 9 - 16 maggio 2011

Sommario

A CURA DI GUIDA AL DIRITTO IN QUESTO NUMERO RIFORME IN CANTIERE Il processo in tempi ragionevoli è un diritto che non può realizzarsi violando altre regole di Maurizio Tilla – Presidente dell’ unitario dell’Avvocatura italiana PRIMO PIANO FALLIMENTO Proposta di accordo, lo stop alle azioni esecutive non è paragonabile..>> di Niccolò Nisivoccia SENTENZE DEL GIORNO LEGITTIMAZIONE AD AGIRE Il condominio può sempre impugnare la causa fatta dall’amministratore OFFERTE COMMERCIALI La Cgue sdogana le pubblicità col solo prezzo di partenza Corte di giustizia – Sentenza 12 maggio 2011 RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE Avvocato responsabile verso il cliente se fa scadere i termini per l’appello confidando in una transazione Corte di cassazione – Sezione II civile – Sentenza 113 maggio 2011 MISURE CAUTELARI Decade automaticamente l’obbligo di dimora con la condanna definitiva al carcerei Corte di Cassazione, Sezione unite penale, 11 maggio 2001

A CURA DI LEX24 PROCEDURA PENALE La parte civile e il principio di immanenza di Claudio Coratella, Studio legale Coratella - A cura di Lex24 FAMIGLIA Spese extra per i figli con l'accordo pre-divorzio Paolo Russo, Il Sole 24 Ore del lunedì - Norme e Tributi, 16 maggio 2011 - Pagina 46 PROPRIETA' INDUSTRIALE Bloccati i brevetti del manager Giovanni Negri, Il Sole 24 Ore - Norme e Tributi, 10 maggio 2011 - Pagina 39 COMPENSI PROFESSIONALI Conta solo la tariffa giudiziale Il Sole 24 Ore - Norme e Tributi, 10 maggio 2011 - Pagina 39

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Approfondimenti di Lex24 DIRITTO DI FAMIGLIA Amministrazione di sostegno anche per il cittadino extracomunitario Laura Tavelli, avvocato aderente al network giuridico CENDON&Partners - a cura di Lex24, 16 maggio 2011 REATI CONTRO IL PATRIMONIO Furto di energia elettrica: reato permanente o a consumazione prolungata? Corte d'Appello di Palermo, Sez. 4, Sentenza 11 marzo 2011, n. 837 - Rassegna giurisprudenziale a cura di Lex24 SOCIETA' DI CAPITALI Compiti e responsabilità degli amministratori delle società di capitali Corte di Cassazione, Sezione I, Sentenza 27 aprile 2011, n. 9384 - Rassegna giurisprudenziale a cura di Lex24 ALBO PROFESSIONALE Negata l'equiparabilità tra magistrati onorari e magistrati dell'ordine giudiziario Corte di Cassazione Sezioni Unite civili – Sentenza 29 marzo 2011, n. 7099

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GUIDA AL DIRITTO IL SOLE-24 ORE 11 N˚ 21 21 MAGGIO 2011

C i risiamo: il ministro Angelino Alfano haripresentato l’ennesima “minestra riscal-data” per smaltire l’arretrato del carico

giudiziario civile. L’iniziativa legislativa mira asmaltire l’arretrato civile sia mediante l’adozionedi rimedi processuali tendenti a una razionalizza-zione delle risorse esistenti, sia attraverso un ap-porto temporaneo di energie intellettuali esterneal sistema, che si affiancano a quelle del giudicenella gestione e nella decisione della controver-sia, senza però sostituirlo, ma fornendogli impor-tanti strumenti per una più efficace organizzazio-ne del lavoro.Gli strumenti più impor-

tanti di razionalizzazionedel Ddl 2615 (15/3/11)consistono:n nei programmi per la ri-duzione del contenziosocivile pendente che cia-scun capo di ufficio giudi-ziario dovrà adottare concadenza annuale, al finedi gestire inmodo più ef-ficiente e trasparente lepriorità della trattazionedei procedimenti;

n nelle misure straordina-rie per la riduzione del contenzioso pendente di-nanzi alla Suprema corte di cassazione e alle Cor-ti d’appello, attraverso l’introduzione dell’oneredi proporre un’istanza di trattazione personal-mente sottoscritta dalle parti, al fine di eliminarei numerosi ricorsi non sorretti da un effettivo epersistente interesse della parte che ha dato im-pulso al procedimento;

n nell’introduzione dell’istituto della motivazionebreve che consentirà, nel pieno rispetto dei prin-cipi dettati dall’articolo 111 della Costituzione,l’adozione di moduli di provvedimento differen-ziati in relazione alle esigenze del caso concreto,ricorrendo alla motivazione estesa solamente infunzione dell’esigenza di impugnazione del prov-

vedimento da parte del soggetto processuale chenon si ritiene soddisfatto dalla decisione emessa;

n nell’estensione al procedimento dinanzi alla Cor-te d’appello di strumenti quali la sentenza conte-stuale ex articolo 281-sexies del codice di proce-dura civile e il nuovo istituto della motivazionebreve.L’apporto di nuove energie intellettuali esterne

al sistema avviene attraverso:n la possibilità per i capi degli uffici giudiziari distipulare apposite convenzioni, senza oneri a ca-rico della finanza pubblica, con le facoltà univer-

sitarie di giurispruden-za, con le scuole di spe-cializzazione per le pro-fessioni legali di cui al-l’articolo 16 del decretolegislativo 17 novembre1997 n. 398, e con i consi-gli degli ordini degli avvo-cati per consentire, su ri-chiesta dell’interessato,lo svolgimento presso imedesimi uffici giudizia-ri del primo anno del cor-so di dottorato di ricer-ca, del corso di specializ-zazione per le professio-

ni legali o della pratica forense per l’ammissioneall’esame di avvocato, con compiti di assistentedi studio di un magistrato ordinario;

n l’introduzione della figura dei magistrati ausilia-ri, che consente di recuperare le energie lavorati-ve deimagistrati e degli avvocati dello Stato collo-cati a riposo, il cui numero è aumentato in modorilevante negli ultimi mesi a causa della contin-genza economica, comemagistrati onorari affian-cati ai magistrati togati in servizio al solo scopo didefinire le cause già mature per la decisione, afronte di un compenso per ogni procedimentodefinito.Ma entriamo nel merito. La Commissione Oua

sulla giustizia civile (coordinata da Claudio Con-

Il tema della settimana

C ontinua a non convincere la proposta del ministro Angeli-no Alfano per ridurre l’arretrato civile. In generale, si può

dire che il Ddl 2615 non piace all’avvocatura italiana. Dopo ipareri negativi del Consiglio nazionale forense - che ha critica-to tutto l’impianto del disegno di legge approvato dal Consigliodei ministri poche settimane fa e adesso in discussione inParlamento - è il turno dell’Organismo unitario dell’avvocatura.Anche l’Oua crede poco nelle diverse strategie di interventoindividuate dal Guardasigilli e in questo editoriale del suopresidente Maurizio De Tilla, offre spunti di riflessione al dibat-tito, suggerendo alternative ritenute maggiormente risolutive.

Il processo in tempi ragionevoli è un dirittoche non può realizzarsi violando altre regole

DI MAURIZIO DE TILLA - Presidente dell’Organismo unitario dell’Avvocatura italiana

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GUIDA AL DIRITTO IL SOLE-24 ORE 12 N˚ 21 21 MAGGIO 2011

sales) ha manifestato contrarietà all’articolo 5 deldisegno di legge Alfano che prevede che il giudi-ce, entro trenta giorni dalla scadenza del termineper il deposito delle memorie di replica di cuiall’articolo 190, fissa con decreto, entro i successi-vi trenta giorni, l’udienza per la pronuncia dellasentenza con motivazione breve.All’udienza il giudice legge il dispositivo ed

elenca sommariamente a verbale i fatti rilevanti,le fonti di prova e i principi di diritto su cui ladecisione è fondata, anche con esclusivo riferi-mento a precedenti conformi, ovvero a contenutispecifici degli scritti difensivi o di altri atti di cau-sa. La sentenza si intende pubblicata con la sotto-scrizione da parte del giudice del verbale che lacontiene ed è immediatamente depositata in can-celleria.Le parti che vogliono proporre

impugnazione devono chiedere,con atto depositato in cancelle-ria entro il termine perentorio diquindici giorni dalla pronunciadella sentenza, la motivazioneestesa redatta ai sensi dell’artico-lo 132, comma 2, n. 4), che il giu-dice deposita nei successivi tren-ta giorni. Del deposito è data im-mediata comunicazione alle par-ti costituite. È evidente che lanorma, con la finalità di accelera-re i tempi della giustizia, sviliscela natura del provvedimento de-cisorio, creando in quanto a tem-pi, modalità e costo un sistemache solo apparentemente consente di porre finealla controversia. Il sistema determinerà un allun-gamento dei tempi per la sentenza. Dagli odierni60 giorni assegnati al giudice, si rischia di passarea complessivi 75 (30+15+30).La norma mira a degradare la sentenza, renden-

dola meno rilevante e importante di un qualsiasiatto amministrativo per il quale è previsto un termi-ne di giorni 60 per l’eventuale impugnazione.Il Governo in realtà vuole solo scoraggiare l’appel-

lo, concedendo quindici giorni per impugnare e, sot-toponendo tale possibilità, al pagamento anticipatodel contributo unificato. In tal modo si mortifica laconsolidata tradizione del sistema processuale ita-liano che si è sempre basato sui tre gradi del giudi-zio. È un autentico vulnus al sistema giustizia, non a

caso proposto contestualmente all’introduzione del-la media-conciliazione con l’evidente fine di priva-tizzare la giustizia delegandola ai poteri forti.Assistiamo, inoltre, a una possibile violazione

degli articoli 24 e 111 della Costituzione perchél’accesso alla giustizia sarebbe condizionato daun pagamento, che questa volta sarebbe doppio,perché si pagherebbe un doppio contributo unifi-cato per il giudizio di primo grado, essendo deltutto ipotetica la promozione del giudizio di ap-pello. Oltretutto il sesto comma dell’articolo 111impone che tutti i provvedimenti giurisdizionalidebbano essere motivati, mentre in questo casola completa motivazione è condizionata dal versa-mento di una somma di denaro.L’unico termine, inoltre, previsto a pena di de-

cadenza è quello di 15 giorni, con conseguentirischi di responsabilità per l’av-vocato, che dovrà:

a) leggere la motivazione suc-cinta;

b) contattare il proprio cliente,che per ipotesi, potrebbe esseredifficilmente reperibile (sarebbesufficiente un viaggio dello stes-so all’estero per motivi di lavoroo persino di svago per far saltarela possibilità di impugnare la sen-tenza in secondo grado);

c) valutare con lo stesso l’op-portunità di chiedere la motiva-zione integrale;

d) pagare il contributo unifica-to; e) depositare l’istanza.

È verosimile che un avvocato che non sia statoin grado di conferire con il proprio assistito, saràcostretto a versare di sua tasca il contributo unifi-cato, pur di non pregiudicare la possibilità delsuo assistito di impugnare la sentenza.La decadenza di cui sopra andrebbe anche a

collidere con i casi disciplinati dagli articoli 326 e327 del Cpc. Quest’ultimo articolo prevede che ledisposizioni di decadenza non si applicano quan-do la parte contumace dimostra di non aver avu-to conoscenza del processo per nullità di citazio-ne o della notificazione di essa, e per nullità dellanotificazione degli atti (all’articolo 292 del codicedi procedura civile).Il Giudice, invece, non avrebbe alcuna conse-

guenza, se non quella meramente ipotetica, di

Si potrebbe cominciareda subito nell’obiettivo

di accelerarel’iter processuale

codificando le buonepratiche di gestione

di udienze e contenziosoche diversi tribunali,a partire da Torino

e Bolzano,hanno messo in opera

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GUIDA AL DIRITTO IL SOLE-24 ORE 13 N˚ 21 21 MAGGIO 2011

ordine disciplinare, se, come già avviene moltospesso, depositasse la motivazione integrale fuo-ri dai termini indicati.Va, inoltre, criticato l’articolo 4 del Ddl Alfano.

Infatti qualsiasi intervento diretto a sfoltire l’arre-trato attraverso nuovi adempimenti da parte de-gli avvocati e delle parti, come la formulazione dinuove istanze per evitare la perenzione dei pro-cessi in appello e in Cassazione, non risponde acriteri di correttezza considerato che le parti so-no assolutamente incolpevoli delle lungagginidei giudizi. Conseguentemente non si compren-de perché le stesse debbano essere gravate di unonere mortificante e offensivo; considerato che ilprocesso, anche in Cassazione, offre già le normeche ne consentono l’uscita ove ciò si voglia.Peraltro non deve sfuggire che le parti ormai

pagano in modo considerevole l’accesso alla giu-stizia, attraverso il sempre più esoso contributounificato.Eppure di strade alternative e valide all’impian-

to di questo Ddl ne abbiamo avanzate tante, apartire dall’incremento dei giudici togati, passan-do dal riassetto normativo di quelli laici, fino al-l’informatizzazione e al processo telematico(ecc.). Non solo, si potrebbe cominciare da subi-to nell’obiettivo di accelerare l’iter processualecodificando le buone pratiche di gestione delleudienze e del contenzioso che diversi tribunali, apartire da quelli di Torino e Bolzano, hanno mes-

so in opera, ma anche unificando i riti con l’intro-duzione del solo rito del lavoro per tutte le con-troversie. Si potrebbero, inoltre, potenziare i si-stemi di conciliazione endoprocessuale, preve-dendo ulteriori incentivi di ordine fiscale e nonsoltanto in tema di tasse di registro a favore delleparti che conciliano.La contrarietà dell’Avvocatura è unitaria. E

prendiamo atto con piacere dalla dichiarazionedel Cnf, che, nell’emettere parere negativo allaproposta governativa, ha precisato che non vi èstato alcun interpello, neppure informale delCnf, come erroneamente riportato nell’analisidell’impatto della regolamentazione allegata aldisegno di legge in materia di efficienza del siste-ma giudiziario.In conclusione, ci sentiamo di condividere il

pensiero di Giuseppe Sileci, presidente dell’Aiga,che ha scritto che non convincono gli strumentidecisi dal ministro della Giustizia per aggredire lostock di cause arretrate. La ragionevole duratadel processo è un imprescindibile diritto di cia-scun individuo ma la sua attuazione non può rea-lizzarsi conculcando altre regole, parimenti rile-vanti, attraverso le quali si esprime lo Stato didiritto. n

Per saperne di più:

Procedimenti civiliin tutte le materie 2007 2008 2009 1˚ semestre 2010

iscritti 4.577.594 4.826.373 5.012.328 2.362.995

definiti 4.346.200 4.605.551 4.716.817 2.560.257

pendenti 5.381.427 5.549.891 5.826.440 5.602.616

Al 30 giugno 2010 si è registrato, rispetto al 31 dicembre 2009, un calo assoluto dell’arretrato pari al 3,8%

Fonte: Relazione del ministro della Giustizia Angelino Alfano sull’amministrazione della Giustizia anno 2010

www.oua.it

I numeri dell’arretrato

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A CURA DI GUIDA AL DIRITTO FALLIMENTO Proposta di accordo, lo stop alle azioni esecutive non è prorogabile Tribunale di Novara - Sezione civile fallimentare - Sentenza 2 maggio 2011 n. 26 Niccolò Nisivoccia a cura di Guida al Diritto 16 maggio 2011 Il provvedimento del Tribunale di Novara non solo è perfettamente coerente e speculare rispetto ad altri due recentissimi provvedimenti dello stesso Tribunale, ma ne rappresenta per così dire una specie d’ideale prosecuzione e completamento. Ci si riferisce ai due provvedimenti del Tribunale del Novara del 23 dicembre 2010 e del 31 gennaio 2011 (si legga il commento) , che a loro volta avevano costituito una delle prime applicazioni del nuovo sesto comma dell’articolo 182 bis legge fallimentare (introdotto dal Dl 78 del 31 maggio 2010), in virtù del quale il divieto di azioni esecutive o cautelari sul patrimonio del debitore può essere pronunciato, su istanza del debitore, “anche nel corso delle trattative e prima della formalizzazione dell’accordo … depositando presso il tribunale competente … la documentazione di cui all’articolo 161, primo e secondo comma, e una proposta di accordo corredata da una dichiarazione dell’imprenditore, avente valore di autocertificazione, attestante che sulla proposta sono in corso trattative con i creditori che rappresentano almeno il sessanta per cento dei crediti e da una dichiarazione del professionista avente i requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), circa la idoneità della proposta, se accettata, ad assicurare il regolare pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno comunque negato la propria disponibilità a trattare”. L’istanza di fallimento è già azione esecutiva In particolare, con quei due provvedimenti il Tribunale aveva affermato che anche l’istanza di fallimento deve essere considerata come un’azione esecutiva; e che, ai fini della concessione del divieto, all’autorità giudiziaria spetta l’unico compito di riscontrare la completezza della documentazione richiesta dalla legge e la sussistenza della relazione di un professionista qualificato, il quale attesti l’attuabilità degli accordi. Ma non solo: il Tribunale aveva espresso anche la propria valutazione personale, dando atto di giudicare favorevolmente la possibilità (introdotta come detto dal Dl 78/2010) che il divieto di azioni esecutive o cautelari venga emesso già nel corso delle trattative, e non solo ad accordo pubblicato. In primo luogo, l’anticipazione del divieto di azioni esecutive o cautelari rispetto alla pubblicazione dell’accordo era stata già auspicata dalla dottrina, sulla base di attente riflessioni. In secondo luogo, la medesima anticipazione è prevista anche nell’ordinamento statunitense dalle norme del chapter 11, che hanno rappresentato il modello di riferimento delle nostre riforme concordatarie di questi anni. In terzo luogo, l’esperienza insegna che proprio mentre tratta con i creditori il debitore è esposto ai rischi più alti (a maggior ragione tenuto conto del fatto che l’accordo è pubblicato nel registro delle imprese ed è dunque facilmente conoscibile da chiunque); il che significa che proprio questa è la fase, nella quale l’esigenza di protezione è più urgente. Infine, il Tribunale osservava che “l’anticipato effetto protettivo si consolida e si ‘salda’ con quello successivo della durata di sessanta giorni, decorrente automaticamente dalla data di pubblicazione dell’accordo di ristrutturazione sul registro delle imprese: ‘saldatura’ determinata dal successivo decreto di omologazione, che acquista valore di ratifica ex tunc dell’anticipato effetto preclusivo del divieto di azioni esecutive e cautelari”. Il termine dei 60 giorni per il deposito… Ora, il provvedimento qui pubblicato ripete quelle considerazioni e, respingendo l’istanza del debitore che chiedeva una proroga della misura anticipatoria già concessa (non essendo ancora riuscito a depositare l’accordo, ma essendo a suo dire in procinto di farlo), le completa. Il Tribunale infatti non si è limitato ad osservare che la possibilità di una proroga non è prevista dalle norme, con la conseguenza che il provvedimento che l’ammettesse sarebbe “da considerarsi letteralmente e-norme: nel senso di esente da norme”; ma si è spinto anche in questo un poco più in là, preoccupandosi di giustificare la propria decisione anche da un punto di vista sistematico.

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Quanto al dato letterale, il Tribunale ha sottolineato che l’articolo 182 bis, nel prevedere la possibilità che il divieto di azioni esecutive venga anticipato alla fase delle trattative finalizzate alla conclusione dell’accordo, precisa che con il decreto che concede il divieto debba essere assegnato un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito dell’accordo di ristrutturazione; e di tale termine non è prevista la prorogabilità. …e quello analogo per l’inizio della trattazione Quanto al profilo sistematico, il Tribunale ha osservato che il procedimento, o meglio il sub--procedimento, diretto alla concessione della misura anticipatoria del divieto di azioni esecutive nel corso delle trattative, ex articolo 182 bis legge fallimentare, può essere considerato alla stregua di un procedimento cautelare tipico; e, come nell’ambito dei procedimenti cautelari tipici è previsto che la causa di merito debba avere inizio entro un certo termine (anche in quel caso non superiore a sessanta giorni), decorso il quale il provvedimento cautelare perde la propria efficacia, così anche nell’ambito del procedimento ex articolo 182 bis il termine entro cui l’accordo deve essere depositato può essere considerato come un termine di efficacia della misura anticipatoria eventualmente concessa. I due tipi di procedimento – quello cautelare tipico previsto dalle norme del codice di procedure civile e quello ex articolo 182 bis legge fallimentare – sarebbero insomma organizzati secondo la medesima logica: in entrambi i casi, al mancato assolvimento dell’onere entro il termine previsto (l’inizio della causa di merito o il deposito dell’accordo) conseguirebbe tout court la perdita della misura concessa (senza ulteriori possibilità di salvezza), e tale soluzione pare condivisibile. © RIPRODUZIONE RISERVATA LEGITTIMAZIONE AD AGIRE Il condomino può sempre impugnare la causa fatta dall’amministratore Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 16 maggio 2011 n. 10717 I singoli condomini possono sempre intervenire “autonomamente” a tutela dei propri diritti ed anche impugnare direttamente le decisioni del tribunale quando a portare avanti la causa del condominio è l’amministratore. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 10717/2011 di oggi rigettando il ricorso di un mobilificio che aveva fatto causa ad un complesso residenziale per risarcimento del danno. Per la Srl, che è ricorsa in Cassazione, la Corte di Appello aveva sbagliato a non rilevare d’ufficio la “nullità dell’appello perché proposto da soggetti diversi dalle parti del giudizio di primo grado”. Secondo i giudici di Piazza Cavour “se è vero che la legittimazione ad appellare deve essere riconosciuta soltanto ai soggetti che siano stati parti del giudizio di primo grado”, e che siano soccombenti, “deve però tenersi presente in senso contrario, che, configurandosi il condominio come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini” la sola “esistenza dell’amministratore non priva i singoli condomini della facoltà di agire a difesa dei diritti esclusivi e comuni inerenti all’edificio condominiale”. Dunque, i condomini, devono essere considerati “non terzi, ma parti originarie” e possono “intervenire nel giudizio in cui la difesa dei diritti sulle parti comuni sia stata già assunta dall’amministratore”. © RIPRODUZIONE RISERVATA OFFERTE COMMERCIALI La Cgue sdogana le pubblicità col solo prezzo di partenza Corte di giustizia - Sentenza 12 maggio 2011 - Causa C-122/10 Le offerte commerciali che adottano la formula di prezzo “a partire da…” non integrano di per sé una comunicazione ingannevole. La pubblicità, per essere lecita, deve, tuttavia, contenere, direttamente o tramite rinvio (per esempio al sito internet), tutti gli elementi in grado di permettere il calcolo del prezzo finale in modo tale da far prendere al consumatore una decisione di acquisto “consapevole”. In caso contrario, a verificare se l’omissione delle modalità di calcolo del prezzo finale abbia indotto il consumatore ad un acquisto, che altrimenti non avrebbe fatto, deve essere il giudice nazionale. Lo ha stabilito la Corte di giustizia europea con la sentenza 12 maggio 2011, nella Causa n. 122/10. Il caso era

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quello di una agenzia di viaggi svedese, La Ving, che nel 2008 aveva pubblicato su di in un quotidiano nazionale una pubblicità in cui proponeva viaggi a New York nel periodo tra settembre e dicembre, utilizzando appunto la formula “a partire da…”. Cosa prevede la direttiva I giudici di Lussemburgo hanno iniziato col ricordare che la direttiva 2005/29/CE, definisce come «invito all’acquisto» «una comunicazione commerciale indicante le caratteristiche e il prezzo del prodotto in forme appropriate rispetto al mezzo impiegato per la comunicazione commerciale e pertanto tale da consentire al consumatore di effettuare un acquisto». L’invito all’acquisto Pertanto, perché sussista un invito all’acquisto non è necessario che “la pubblicità comporti anche un mezzo concreto di acquistare il prodotto oppure che avvenga in prossimità o in occasione di un tale mezzo” Il prezzo di partenza La Corte non esclude quindi “che un «prezzo di partenza» (ovvero il prezzo minimo al quale è possibile acquistare il prodotto) possa soddisfare il requisito relativo all'indicazione del prezzo, quando invece il bene è disponibile anche in altre varianti, o con un contenuto diverso, a prezzi non indicati”. Ciò nei casi in cui “sia difficile mostrare il prezzo del prodotto per ciascuna delle sue varianti”. Spetta al giudice del rinvio verificare “se la menzione di un prezzo di partenza consenta al consumatore di prendere una decisione “consapevole” di natura commerciale oppure “lo induca a prendere una decisione che non avrebbe altrimenti preso”. L’informazione deve essere completa Con riguardo alle indicazioni sul prodotto poi “può essere sufficiente che siano indicate solamente alcune delle caratteristiche principali, se l'offerente rinvia, per il resto, al proprio sito Internet”. Però spetta sempre al giudice del rinvio valutare se la sola indicazione di alcune caratteristiche principali del prodotto permetta al consumatore di prendere una decisione consapevole. © RIPRODUZIONE RISERVATA RESPONSABILITA' PROFESSIONALE Avvocato responsabile verso il cliente se fa scadere i termini per l'appello confidando in una transazione Corte di cassazione - Sezione II civile - Sentenza 13 maggio 2011 n. 10686 L'avvocato è tenuto a risarcire il cliente se fa scadere i termini per l'appello confidando nella conclusione della vertenza con una transazione di cui è stato incaricato un altro collega. Lo ha chiarito la Cassazione secondo la quale il legale, pur non avendo la certezza che tale accordo fosse perfezionato e confidando incautamente nella sua conclusione, con la sua inerzia ha pregiudicato definitivamente le possibilità di comporre la vertenza in maniera più favorevole al suo assistito. Secondo i giudici di legittimità, infatti, si legge nella sentenza 10686/2011, la mancata sottoscrizione della bozza di transazione non è stata determinata dall'intransigenza delle controparti ma esclusivamente dal fatto che queste ultime, in conseguenza della mancata proposizione dell'appello, si sono trovate in una insperata posizione di forza data dal passaggio in giudicato del provvedimento di primo grado, sicuramente più vantaggioso rispetto all'accordo transattivo. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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MISURE CAUTELARI Decade automaticamente l'obbligo di dimora con la condanna definitiva al carcere Corte di Cassazione, sezioni unite penale, sentenza 11 maggio 2011 n. 18353 Al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna la misura coercitiva non custodiale cessa di diritto. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, a sezioni unite, con la sentenza 11 maggio 2011 n. 18353. I magistrati hanno precisato che "il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna a pena detentiva suscettibile di esecuzione comporta la caducazione immediata della misura coercitiva non custodiale già applicata a condannato". Inoltre la sentenza ha fissato altri due principi di diritto. Nel primo si sottolinea che "la cessazione, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, della misura coercitiva non custodiale in atto, opera di diritto, e non è necessario alcun provvedimento che la dichiari". E infine viene chiarito che "ove insorgano questioni in ordine alla misura coercitiva non custodiale nel periodo intercorrente tra il passaggio in giudicato della sentenza e il concreto avvio delle fase di esecuzione della pena, la competenza a deciderla spetta al giudice dell'esecuzione". © RIPRODUZIONE RISERVATA

A CURA DI LEX24 PROCEDURA PENALE La parte civile e il principio di immanenza di Claudio Coratella, Studio legale Coratella - A cura di Lex24 La costituzione di parte civile, una volta validamente intervenuta in primo grado in virtù di procura speciale conferita ai sensi dell’articolo 100 C.P.P., per il c.d. principio di immanenza, produce effetti in ogni stato e grado del processo. Come è noto, la parte civile è il soggetto che esercita l’azione civile nel processo penale nei confronti dell’imputato e del responsabile civile per la restituzione o il risarcimento del danno prodotto dal reato. In particolare, secondo il disposto dell’articolo 74 C.P.P., l’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento, di cui all’articolo 185 C.P., può essere esercitata nel processo penale dal soggetto al quale il reato ha recato danno o dai suoi successori universali, nei confronti dell’imputato e del responsabile civile. Essa è esercitata a mezzo di procuratore speciale mediante la costituzione di parte civile e tale atto può essere depositato nella cancelleria del giudice procedente oppure può essere presentato direttamente in udienza. Per il principio di immanenza della costituzione di parte civile di cui all’articolo 76, comma 2, C.P., questa, una volta intervenuta, produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo: la parte privata, pertanto, una volta costituita fa parte del processo anche se non è presente di persona al momento dell’accertamento della costituzione delle parti nella udienza preliminare o in quella dibattimentale del primo grado o di quelli successivi. Da ciò consegue anche che alla parte civile costituitaspetta la citazione per i gradi ulteriori del giudizio, senza obbligo di rinnovare la costituzione (Cass. Pen., Sez. V, 27/01/2010, n. 3519). Tuttavia, tale principio non dispensa la parte civile dal rispetto delle forme imposte dal codice di rito che regolano la sua presenza nel processo ed, in particolare, dal rispetto della previsione di cui all’articolo 100 C.P.P. ai sensi della quale la parte civile sta in giudizio a mezzo di un difensore munito di procura speciale, con la conseguenza che la designazione di un nuovo difensore comporta il rilascio di altra procura speciale al legale successivamente designato, a pena di nullità della costituzione. Una volta ammessa in primo grado, inoltre, la costituzione di parte civile non è contestabile nei gradi successivi e non può, pertanto, essere oggetto di impugnazione. Ciò in quanto la questione concernente l’inosservanza delle disposizioni relative alla regolare costituzione della parte civile è preclusa se non proposta subito dopo che sia stato compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti. La parte civile, poi, per il principio di immanenza della sua costituzione nel corso del procedimento, una volta ammessa, ha diritto di partecipare alle fasi successive alla prima e può ricorrere contro la sentenza di appello anche quando da essa non sia stata impugnata la pronuncia di primo grado o non sia stata proposta impugnazione ammissibile. Ed, infatti, se l’azione civile rimane validamente inserita nel processo penale fino alla sentenza irrevocabile, nessuna limitazione difensiva può incontrare il costituito il quale contro le pronunce a lui sfavorevoli di primo o di secondo grado può attivarsi con proprie impugnazioni o affidarsi, sia

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in appello che in cassazione, o solo in appello o solo in cassazione, agli eventuali gravami del pubblico ministero, con diritto, comunque, anche nella seconda evenienza, di partecipare e interloquire. E’ pur vero, però, che se il giudizio di impugnazione si risolve in una conferma della sentenza impugnata, sfavorevole alle ragioni della parte civile, questa non avendo proposto appello, non può poi proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di appello, non essendosi doluta, mediante autonoma impugnazione, della sentenza di primo grado (Cass. Pen., Sez. Sez. VI, 18/01/2010, n. 2005, in Guida al Diritto, 2010, Dossier 2, pg. 79; Cass. Pen., Sez. VI, 23/12/2009, n. 49497, Guida al Diritto, 2010, 8, pg. 88). Preme, infine, evidenziare che l’immanenza viene meno soltanto nel caso di revoca espressa e che i casi di revoca implicita previsti dal comma 2 dell’articolo 82 C.P.P. nel caso di mancata presentazione delle conclusioni nel giudizio di primo grado o di promozione dell’azione davanti al giudice civile, non possono essere estesi al di fuori dei casi espressamente previsti dalla norma indicata. Per converso, il principio di immanenza non comporta, ovviamente, che l’azione possa essere iniziata o proseguita anche se viene meno l’interesse. In tal caso, infatti, il venir meno dei requisiti per la costituzione di parte civile potrà formare oggetto di richiesta di esclusione della parte civile (articolo 80 C.P.P.) o di esclusione di ufficio della stessa (articolo 81 C.P.P.) (Cass. Pen., Sez. IV, 16/06/2008, n. 24360, in Il Sole 24 Ore, Responsabilità e Risarcimento, 2008, 9, pg. 74, in Arch. Nuova Proc. Pen., 2009, 4, pg. 546, in Giur. Ital., 2009, 4, pg. 948, annotata da F. Pavesi, in Cass. Pen., 2009, 12, pg. 4799). Revoca del difensore Massima redazionale Corte di Cassazione Sezione 5 Penale Sentenza del 27 gennaio 2010, n. 3519 PARTE CIVILE - COSTITUZIONE - IN GENERE - Revoca del difensore - Omesso rilascio di nuova procura speciale al nuovo difensore - Rigetto della richiesta di esclusione della parte civile - Illegittimità - Sussistenza. È illegittima l'ordinanza con cui il giudice di merito rigetti la richiesta di esclusione della parte civile che abbia revocato il proprio difensore omettendo di rilasciare una nuova procura speciale al nuovo difensore, in quanto il principio di immanenza della parte civile non vale ad escludere il rispetto delle forme che regolano la sua presenza nel processo ed, in particolare, la previsione, ex art. 100 cod. proc. pen., per la quale la parte civile sta in giudizio a mezzo di un difensore munito di procura speciale, con la conseguenza che la designazione di un nuovo difensore comporta il rilascio di altra procura speciale al legale successivamente designato, a pena di nullità della costituzione. Repertorio24 PUBBLICAZIONE CED, Cassazione, 2010 Il Sole 24 Ore, Mass. Repertorio Lex24 La Tribuna, Archivio della nuova procedura penale, 2011, 2, pg. 245 Effetti nel giudizio di impugnazione Massima redazionale Corte di Cassazione Sezione 6 Penale Sentenza del 18 gennaio 2010, n. 2005 COSTITUZIONE DELLA PARTE CIVILE - PRINCIPIO DI IMMANENZA DELLA COSTITUZIONE - EFFETTI NEL GIUDIZIO DI IMPUGNAZIONE - LIMITI - RICORSO PER CASSAZIONE DELLA PARTE CIVILE NON IMPUGNANTE IN SEDE DI APPELLO - INAMMISSIBILITÀ - FATTISPECIE. La parte civile, in ragione del principio della immanenza della sua costituzione nel corso dell'intero procedimento (articolo 76, comma 2°, del Cpp), pur se non impugnante, può giovarsi dell'appello del pubblico ministero (cfr. sezioni Unite, 10 luglio 2002, Guadalupi). Peraltro, se il giudizio di impugnazione si risolve in una conferma della sentenza impugnata, sfavorevole alle ragioni della parte civile, questa, non avendo proposto appello, non può poi proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di appello, non essendosi doluta, mediante

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autonoma impugnazione, della sentenza di primo grado (da queste premesse, la Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso della parte civile avverso la sentenza di appello che aveva confermato quella di primo grado di assoluzione dell'imputato appellata esclusivamente dal pubblico ministero). Repertorio24 PUBBLICAZIONE Il Sole 24 Ore, Guida al Diritto, 2010, Dossier 2, pg. 79 Parte civile non appellante Massima redazionale Corte di Cassazione Sezione 6 Penale - Sentenza del 23 dicembre 2009, n. 49497 PARTE CIVILE - COSTITUZIONE - EFFETTI - IMMANENZA - parte civile non appellante - Ricorso per cassazione - Ammissibilità - Esclusione. È inammissibile il ricorso per cassazione proposto dalla parte civile avverso la sentenza d'appello, quando la stessa non abbia impugnato la decisione assolutoria di primo grado, confermata dalla Corte d'appello a seguito di impugnazione proposta dal solo P.M.. Repertorio24 PUBBLICAZIONE Il Sole 24 Ore, Mass. Repertorio Lex24 La Tribuna, Rivista Penale, 2010, 11, pg. 1168 Responsabilità degli enti e costituzione di parte civile: l’intervento della Cassazione n. 2251/2011 Alessandro D'Addea, Avvocato, Componente della 3° Commissione del Comitato scientifico della Camera Penale di Monza - a cura di Lex24 A quasi un decennio dalla introduzione del Decreto Legislativo 231/2001 con una pronuncia del gennaio 2011, la Sesta Sezione della Corte di Cassazione ha fornito indicazioni utili per dirimere il contrasto formatosi in dottrina e nella giurisprudenza di merito sull’annoso e complesso tema della costituzione di parte civile a carico dell’ente. Dopo una fase iniziale nella quale la giurisprudenza si era mostrata univoca nell’escludere la possibilità di costituirsi parte civile nel procedimento penale avverso l’ente, tesi comunque prevalente, di recente non poche pronunce, invece, hanno ritenuto valida la costituzione di parte civile nei confronti dell’ente “imputato” nel processo penale. Può essere interessante confrontare, ad esempio, il contrasto interno al Tribunale di Milano, in due procedimenti molto rilevanti quali i casi “Parmalat” e “Telecom”, ove vengono sposate le opposte teorie: nell’ambito del procedimento Parmalat, il GIP di Milano escluse la possibilità della costituzione di parte civile in quanto: “L’ente, non è né l’autore del reato né soggetto che può essere chiamato a rispondere civilmente per il fatto del colpevole……trattandosi di norme di rilevante importanza (nda quelle afferenti alla pretesa civilistica) il fatto che non siano ribadite nel Dlgs 231 non può essere considerata una mera dimenticanza del legislatore: si tratta invero di una precisa ed inequivocabile scelta legislativa nel senso di non prevedere nel procedimento in questione la parte civile.” (cfr. Gip Milano 25.01.2005). Diverso è il contenuto della pronuncia dello stesso Tribunale recante data 09.07.2009 allorquando, dopo una accurata analisi della natura della responsabilità degli enti, definita “parapenale”, si sottolinea che: “con la novella n.231/2001 l’esercizio dell’azione civile nel procedimento penale articolata nei confronti dell’ente come ritenuto responsabile dalla normativa debba essere ritenuta ammissibile in via diretta ex art.185 Codice Penale e 2043-2049 Codice Civile, in dipendenza della individuazione, con la indicata normativa, di un centro di responsabilità colpevole, appunto l’ente, al quale è da riportare di volta in volta la condotta, l’evento e la sanzione delineati nella novella”. Senza soffermarsi analiticamente sulle ragioni che militano a favore delle due tesi, sostenute da illustri commentatori, emerge una radicale distinzione creatasi tra gli interpreti sulla natura della responsabilità dell’ente: da un lato, pur con le dovute sfumature, i fautori della responsabilità “penale” ritengono

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ammissibile la costituzione di parte civile nel processo avverso l’ente medesimo, valorizzando il richiamo alle norme del procedimento penale allorquando non diversamente disposto, nonché la intima connessione fra reato e responsabilità dell’ente qualificata “da reato”. Di contro, i sostenitori del noto brocardo “societas delinquere non potest” ricordano, non senza importanti richiami al dato letterale, come nulla nel T.U. n. 231/2001 faccia riferimento alla costituzione di parte civile ed anzi svariate norme, ad esempio in materia di sequestro, non accennino a questa parte eventuale del processo. Come anticipato, la Corte di Cassazione, pur con una pronuncia a Sezioni Semplici (Sezione Sesta numero 2251 deposito del 20.01.2011), ha affrontato la questione con un approccio certamente molto pragmatico, di fatto non esaminando la natura della responsabilità ex art. TU 231/2001, giungendo al risultato di negare in radice la ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo a carico dell’ente, attribuendo primigenia importanza al dato letterale della normativa in esame. Non è questa la sede per un esame approfondito del contenuto della sentenza, che certamente crea un precedente rilevante; vanno, d’altra parte, sottolineati due passaggi assai radicali: innanzitutto la Corte rileva come “Il punto di partenza non può che essere che nel Dlgs 231/2001 manca ogni riferimento espresso alla parte civile. La sistematica rimozione nel Dlgs231/2001 di ogni richiamo o riferimento alla parte civile porta a ritenere che non si sia trattato di una lacuna normativa quanto piuttosto di una scelta consapevole del legislatore”. Successivamente la Corte amplia il concetto ribadendo come: “Se non è ipotizzabile l’esistenza di un danno che possa presentarsi come conseguenza immediata e diretta dell’illecito amministrativo allora l’ostinato silenzio del legislatore sulla parte civile e sulla possibilità di costituirsi in giudizio per fare valere le pretese risarcitorie assume un significato ancor più preciso, apparendo del tutto ragionevole l’esclusione della parte civile dalla cerchia dei protagonisti del processo a carico dell’ente” (cfr. Cassazione Sezione Sesta 2251/2011). La Corte, pertanto abbraccia pienamente il criterio di interpretazione letterale sulla scorta del brocardo latino “Ubi lex voluti, ibi dixit”. Due riflessioni finali vanno svolte sul punto: innanzitutto sarà doveroso verificare l’incidenza su analoghe fattispecie di questo primo intervento diretto e chiarificatore della Suprema Corte; come spesso accade, a seguito di una singola pronuncia, essa diverrà un opportuno riferimento, ma non si può certamente escludere che in futuro questo primo orientamento subisca dei mutamenti, stante anche la complessità del tema. Secondariamente è opportuno ribadire che, purtroppo nel corso degli anni il T.U. n. 231/2001 sia stato oggetto di interventi quasi esclusivamente volti ad ampliare le categorie di “reati presupposto” cui collegare una responsabilità dell’ente (anche in maniera bizzarra se si pensa al tema della riduzione in schiavitù e dei reati similari) senza mai affrontare il nodo cardine della tipologia di responsabilità a carico dell’ente, argomento su cui la Suprema Corte ha ritenuto di non pronunciarsi, lasciando aperto il dibattito, a parere di chi scrive non così accademico ed astratto come traspare dalla parole dei Giudici del Palazzaccio e sul quale nemmeno il progetto di riforma del T.U. n. 231/2001 al vaglio del Parlamento dedica alcuna attenzione. © RIPRODUZIONE RISERVATA FAMIGLIA Spese extra per i figli con l’accordo pre-divorzio Norme e Tributi 16 maggio 2011 Pagina 46 di Russo Paolo Il preventivo accordo tra genitori divorziati in merito alle spese straordinarie dei figli, contenuto in separata scrittura privata sottoscritta dalle parti prima della separazione personale dei coniugi, risulta vincolante anche se è richiamato solo nelle motivazioni, e non nel dispositivo, della sentenza che pronunzia la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Corretta, dunque, la decisione di revocare il decreto ingiuntivo emesso in favore della moglie, relativo alle spese ortodontiche del figlio a lei affidato, qualora esse non siano state preventivamente concordate con il marito.

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Lo ha chiarito la prima sezione della Cassazione (sentenza n. 9376/11) che, nel confermare la decisione della Corte territoriale campana, ha giudicato correttamente rispettato dai giudici di merito il principio di diritto secondo cui l'esatto contenuto di una sentenza deve essere individuato con un esame complessivo della pronunzia, ossia non del solo contenuto del dispositivo, bensì anche della motivazione, che rivela l'effettiva volontà del magistrato giudicante. Nella fattispecie, una signora napoletana, divorziata da anni e madre affidataria del figlio nato dall'unione con l'ex-coniuge, otteneva dal tribunale del capoluogo l'emissione in suo favore di un decreto ingiuntivo teso a richiedere all'uomo il pagamento della metà delle spese dalla stessa sostenute per le cure dentistiche del figlio. Il padre avanzava opposizione avverso detto provvedimento, deducendo in giudizio la circostanza secondo cui, contrariamente a quanto avvenuto, tutte le spese di maggiore interesse concernenti la prole, in virtù di un accordo intervenuto tra i genitori due anni prima della separazione personale dei coniugi, dovevano essere concordate dalle parti. Ciò nonostante, l'istanza dell'uomo veniva rigettata in primo grado, per essere al contrario successivamente accolta dalla Corte di Appello, che revocava il decreto emesso in favore della moglie. In particolare, i giudici partenopei avevano ritenuto pienamente «operante la disposizione secondo cui le spese straordinarie, come quella relativa alle cure ortodontiche de quibus, dovessero essere preventivamente concordate fra le parti». La donna, peraltro, aveva contestato che, nel dispositivo della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, non fossero presenti specifiche statuizioni ovvero richiami a detto accordo in materia di spese straordinarie. Di contrario avviso, invece, la Corte territoriale, secondo cui il riferimento, contenuto nella parte inerente le motivazioni della sentenza di divorzio, a "quanto concordato tra le parti", doveva indubbiamente ritenersi inerente proprio a quegli accordi intercorsi tra i coniugi prima della loro separazione e formalizzati in apposita scrittura privata. Nel confermare la sentenza della Corte di appello, e richiamati appositi propri precedenti giurisprudenziali (tra le altre, le sentenze della Cassazione n. 15585/07, n. 360/05 e n. 1323/04), la Cassazione ha ritenuto correttamente applicato, ad opera dei giudici di merito, il principio secondo cui «nell'ordinario giudizio di cognizione, l'esatto contenuto della pronuncia va individuato non alla stregua del solo dispositivo, bensì integrando questo con la motivazione nella parte in cui la medesima rivela l'effettiva volontà del giudice». © RIPRODUZIONE RISERVATA Home © Copyright Il Sole 24 Ore - Tutti i diritti sono riservati Il testo della sentenza Corte di Cassazione Sezione 1 Civile Sentenza del 27 aprile 2011, n. 9376 FAMIGLIA MATERNITA' ED INFANZIA - Separazione - Spese - Partecipazione - Mancato accordo tra coniugi

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi - Presidente

Dott. DOGLIOTTI Massimo - Consigliere

Dott. RAGONESI Vittorio - Consigliere

Dott. GIANCOLA Maria Cristina - Consigliere

Dott. CAMPANILE Pietro - rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

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SENTENZA sul ricorso n. 239 dell'anno 2007 proposto da: LA. GI. , elettivamente domiciliata in Napoli, Salita Pontecorvo, n, 86, nello studio dell'Avv. BELMONTE Guido, che la rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del ricorso; - ricorrente - contro L. L. , elettivamente domiciliato in Roma, Via dei Cestari, n. 34, nello studio dell'Avv. Giuseppe Valentino; rappresentato e difeso, giusta procura speciale a margine del controricorso, dagli Avv. MOLFINI Antonio e Maurizio; - controricorrenti - avverso la sentenza della Corte di Appello di Napoli, n. 3678, depositata in data 22 dicembre 2005; sentita la relazione all'udienza del 18 gennaio 2011 del Consigliere Dott. Pietro Campanile; Udite le richieste del Procuratore Generale, in persona del Sostituto Dott. Umberto Apice, il quale ha concluso per l'accoglimento del secondo motivo e per il rigetto del primo. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1 - Il Sig. L.L. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti il 2 novembre 2000 dal Tribunale di Napoli, ad istanza dell'ex coniuge sig.ra La. Gi. , in relazione alla meta' delle spese dalla stessa sostenute per il trattamento ortodontico del figlio Pa. , a lei affidato giusta sentenza di divorzio resa inter partes nell'anno (OMESSO). Veniva dedotto che le spese di maggior interesse dovevano essere concordate fra le parti, precisandosi - all'udienza di prima comparizione - che, in virtu' di un accordo intervenuto fra i genitori in data (OMESSO), richiamato nella sentenza che aveva pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio, anche le spese straordinarie avrebbero dovuto essere preventivamente concordate. 1.1. Il Tribunale adito respingeva l'opposizione, confermando il decreto ingiuntivo. 1.2 - La Corte di appello di Napoli, con la sentenza indicata in epigrafe, in riforma della decisione di primo grado e in accoglimento dell'appello proposto dal sig. L. , revocava il decreto ingiuntivo, rigettando la domanda proposta dalla ricorrente. Veniva, in particolare, rilevato che - dovendosi ogni decisione interpretare sulla base del contenuto del dispositivo e della motivazione - dal complessivo esame della sentenza che aveva pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio delle parti emergeva un esplicito richiamo agli accordi fra le stesse intervenuti - per altro espressamente richiamati nelle rispettive conclusioni - , ragion per cui doveva ritenersi operante la disposizione secondo cui le spese straordinarie, come quella relativa alle cure ortodontiche de quibus, dovessero essere preventivamente concordate fra le parti. Non poteva dubitarsi, del resto, che il riferimento contenuto nella sentenza di divorzio a quanto concordato fra le parti fosse inerente agli accordi intervenuti il (OMESSO), anche perche', a prescindere dal loro esplicito richiamo nelle richieste conclusive, non risultavano stipulate altre convenzioni. In difetto di tale concertazione la domanda di rimborso non poteva essere accolta. 1.3 - Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la signora La. , deducendo due motivi, illustrati da memoria. Resiste con controricorso il sig. L. . MOTIVI DELLA DECISIONE 2. - Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell'articolo 132 c.p.c. e della Legge 1 dicembre 1970, n. 898, articolo 6, modificata dalla Legge 6 marzo 1987, n. 74, nonche' omessa,

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insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione, rispettivamente, all'articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Deve premettersi che la ricorrente ha anche formulato i quesiti di diritto ai sensi dell'articolo 366 bis c.p.c., ancorche' la decisione impugnata sia stata depositata in epoca anteriore all'entrata in vigore della teste' richiamata (ed ormai abrogata) norma. Si deduce, con un primo profilo, che il principio secondo cui il dispositivo di una sentenza va interpretato anche alla stregua della sua motivazione sarebbe stato erroneamente applicato dalla corte territoriale, sia perche' la parte motiva della decisione che aveva pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio delle parti non conteneva che un generico riferimento agli accordi delle parti, sia perche' in detta sentenza non vi era alcun contrasto tra dispositivo e motivazione, ma, semmai, fra le conclusioni delle parti e il dispositivo. 2.1 - Il motivo e' infondato. Rimane sullo sfondo la questione, evidentemente ormai non piu' controversa, circa la necessita' del consenso preventivo dell'altro genitore anche in relazione alle spese straordinarie. La decisione impugnata ha correttamente applicato, al riguardo, il principio affermato da questa Corte, secondo cui, con riferimento al quadro normativo applicabile, ratione temporis, alla presente vicenda, pur non essendovi coincidenza fra le decisioni di maggiore interesse per i figli e le spese straordinarie, ragion per cui non e' configurabile a carico del coniuge affidatario alcun obbligo di previa concertazione con l'altro coniuge sulla determinazione delle spese straordinarie, nei limiti in cui esse non implichino decisioni di maggior interesse per i figli, tuttavia, tale principio non e' inderogabile, essendo sempre possibile che il giudice, ai sensi dell'articolo 155 c.c., commi 2 e 3, determini, oltre che la misura, anche i modi con i quali il coniuge non affidatario contribuisce al mantenimento dei figli, in modo difforme da quanto previsto in linea di principio dalla legge (Cass., 21 gennaio 2009, n. 2182; Cass. 5 maggio 1999, n. 4459). 2.2 - Dovendo, quindi, verificare se con la decisione che, pronunciando sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio, aveva dettato i provvedimenti inerenti all'affidamento e al mantenimento del figlio, fosse stata o meno disposta la previa concertazione anche in relazione alle spese straordinarie, la corte territoriale ha interpretato in maniera adeguata la sentenza che aveva regolato tali rapporti, fornendo al riguardo congrua motivazione. E' stato infatti rilevato che gia' con la decisione che aveva pronunciato la separazione personale dei coniugi, il Tribunale di Napoli aveva disposto che "le spese mediche di carattere straordinario dovevano essere preventivamente concordate tra le parti, ponendole a carico del L. in ragione del 50 per cento". Successivamente, nel corso del giudizio relativo alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, le parti avevano raggiunto degli accordi, ribadendo, fra l'altro, il contenuto di detta statuizione, formalizzati in una scrittura privata del (OMESSO), espressamente richiamata nelle conclusioni di entrambe le parti, cosi' come trascritte nell'epigrafe della decisione n. (OMESSO). Sulla base di tali dati si' e' ritenuto che, pur nell'assenza di specifiche statuizioni contenute nel dispositivo, il riferimento nella parte motiva di detta sentenza, in merito ai provvedimenti accessori, a "quanto concordato dalle parti", non poteva non intendersi effettuato, non essendosi ne' dedotta, ne' dimostrata l'esistenza di ulteriori accordi, se non a quelli richiamati nelle concordi conclusioni delle parti. Risulta, pertanto, correttamente applicato il principio secondo cui nell'ordinario giudizio di cognizione, l'esatto contenuto della pronuncia va individuato non alla stregua del solo dispositivo, bensi' integrando questo con la motivazione nella parte in cui la medesima rivela l'effettiva volonta' del giudice. Ne consegue che, in assenza di un vero e proprio contrasto tra dispositivo e motivazione, e' da ritenere prevalente la statuizione contenuta in una di tali parti del provvedimento che va, quindi, interpretato in base all'unica statuizione che, in realta', esso contiene (Cass., 11 luglio 2007, n. 15585; Cass., 11 gennaio 2005, n. 360; Cass., 26 gennaio 2004, n. 1323; Cass., 18 luglio 2002, n. 10409). 2.3 - Gli ulteriori profili di censura attengono a una serie di ragioni in base alle quali dovrebbe dedursi che la sentenza n. (OMESSO) non avrebbe inteso recepire interamente gli accordi raggiunti dalle parti con la scrittura del (OMESSO). Tali prospettazioni risultano complessivamente connotate di un difetto di autosufficienza, essendo del tutto pacifico che, pur essendo consentito a questa Corte di legittimita' l'interpretazione del giudicato esterno con cognizione piena, il ricorso con il quale si sostiene che non sia

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corretta la valutazione, da parte del giudice del merito, di una determinata decisione, deve riportare il testo completo del giudicato che si assume sia stato erroneamente interpretato, con richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo (Cass., 30 aprile 2010, N. 10537; Cass., 13 marzo 2009, n. 6184; Cass., 13 dicembre 2006, n. 26627). In ogni caso non appare condivisibile la tesi secondo cui il giudice della cessazione degli effetti civili del matrimonio non avrebbe recepito per intero gli accordi delle parti, sol perche', analogamente a quanto constatato in tema di spese straordinarie, non avrebbe riprodotto nel dispositivo la clausola inerente alla comunicazione preventiva del periodo di vacanza. Anche in tal caso, invero, deve ritenersi operante il richiamo a "quanto concordato dalle parti" contenuto in motivazione. L'argomento dedotto sub b), ed inteso a dimostrare l'assenza di un riferimento, nella sentenza citata, alla clausola per cui e' processo, consiste in una mera ripetizione dell'assunto secondo cui il richiamo non sarebbe esplicito e sarebbe contraddetto dal mancato inserimento nel dispositivo: valgano, in proposito, le considerazioni circa la validita' dell'operazione ermeneutica compiuta dalla corte territoriale, proprio sulla base della necessita' di individuare la portata della statuizione, anche ricorrendo al contenuto della parte motiva della decisione . Con l'ultimo profilo di censura si sostiene, poi, che l'interpretazione della piu' volte menzionata sentenza sarebbe errata perche', in materia di affidamento e di mantenimento di minori, il giudice deve valutare la conformita' degli accordi delle parti all'interesse dei figli, condizione non soddisfatta mediante un mero rinvio alle intese delle parti. In proposito e' dato di ritenere che, nel richiamare e fare propri (per le ragioni sopra indicate) gli accordi conclusi dai genitori, il tribunale abbia implicitamente valutato l'insussistenza di elementi di contrasto (per altro neppure adombrati nel ricorso) con l'interesse della prole. In effetti, il tema della preventiva concertazione, anche per quanto attiene alla materia delle spese straordinarie, appare ispirato a quella regola dell'accordo che caratterizza, come imprescindibile momento dialettico, l'individuazione da parte di entrambi i genitori, anche dopo il verificarsi della crisi coniugale, delle decisioni maggiormente corrispondenti alle esigenze del minore, nell'ambito di una funzionalizzazione, rispetto a queste ultime, dell'esercizio della potesta'. 2.4 - Con il secondo motivo si deduce omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver la Corte di appello "speso una sola parola" circa la deduzione testimoniale dedotta, in via subordinata, in merito all'autorizzazione data dall'ing. L. alle prestazioni sanitarie per cui e' causa". Il motivo e' infondato. Deve in primo luogo richiamarsi il principio secondo cui il ricorrente che, in sede di legittimita', denunci il difetto di motivazione su un'istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l'onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimita' il controllo della decisivita' dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell'autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non e' consentito sopperire con indagini integrative (Cfr, ex multis, Cass., 30 luglio 2010, n. 17915). Nel caso di specie, oltre a mancare la trascrizione integrale dei capitoli di prova, difettano specifiche indicazioni circa le modalita' della loro proposizione, attesa la genericita' dei riferimenti alla comparsa di risposta in appello, a un non meglio specificato "rinvio alle rispettive richieste" effettuato in sede di precisazione delle conclusioni e, addirittura, alla comparsa conclusionale. Dal tenore dello stesso ricorso emerge, per altro, che la prova in questione sarebbe stata proposta per la prima volta in appello, in violazione dell'articolo 345 c.p.c.. Pertanto il denunciato vizio motivazionale non sussiste, dovendo trovare applicazione il consolidato principio secondo cui, in tema di ammissibilita' di prove nuove in appello, il collegio e' tenuto a motivare esclusivamente l'indispensabilita' che ne giustifica l'ammissione, in deroga alla regola generale che invece ne prevede il divieto, ma non anche la mancata ammissione delle prove ritenute non indispensabili, che si conforma alla predetta regola generale (Cass., 21 luglio 2009, n. 16971; Cass., 25 giugno 2010, n. 15346).

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3. - Al rigetto dell'impugnazione consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese relative al presente giudizio di legittimita', liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controparte, delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimita', liquidate in euro 2.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge. Repertorio24 Riferimenti: Legge Giurisprudenza Riviste de Il Sole 24 Ore Home © Copyright Il Sole 24 Ore - Tutti i diritti sono riservati L'intesa non interferisce con la separazione Il Sole 24 Ore - Famiglia e Minori 1 maggio 2009, N. 5 Pagina 13 di Fiorini Marcella La circostanza che all'orizzonte si delinei un'imminente separazione consente ai coniugi di porre in essere intese volte alla sistemazione dei reciproci rapporti economici e patrimoniali - vincolanti alla stregua di normali contratti ed espressione della loro autonomia negoziale - ancorché tali accordi non siano poi formalizzati in un verbale di separazione consensuale, non operando automaticamente il collegamento negoziale tra dette intese e la successiva separazione. È questo in sintesi il principio affermato dai giudici di merito e avallato dalla Suprema corte nella pronuncia n. 2997 del 2009. Il fatto - Nel caso affrontato dalla Corte due coniugi, ormai separati di fatto, prima di rivolgersi al giudice con un ricorso per separazione consensuale, avevano sottoscritto una scrittura privata per regolare i rispettivi rapporti economici, anche con riguardo ai figli maggiorenni, prevedendo in particolare l'impegno da parte di uno di essi a trasferire all'altro un bene immobile e la metà della somma ricavata dalla vendita di un'imbarcazione di proprietà comune. All'udienza presidenziale la moglie non era però comparsa per confermare il proprio consenso alla separazione e il giudizio si era trasformato in contenzioso. Il marito aveva quindi instaurato un autonomo procedimento per la declaratoria di nullità del pregresso accordo, sostenendo che esso dovesse ritenersi privo di causa, essendo strettamente collegato alla separazione consensuale poi non concretizzatasi e operando nel caso di specie l'istituto della presupposizione. In caso contrario, poiché le attribuzioni patrimoniali effettuate a favore della moglie dovevano configurarsi quali donazioni, ugualmente la scrittura doveva ritenersi annullabile per mancanza dei requisiti di forma di cui all'articolo 782 del codice civile. La Corte di merito prima e la Cassazione dopo hanno dato torto al marito, ritenendo non operante l'istituto della presupposizione, da un lato perché dal contesto della scrittura non emergeva che la separazione consensuale fosse stato il presupposto comune, dall'altro perché occorre che la circostanza presupposta sia indipendente dalla volontà delle parti, mentre la separazione consensuale dipende esclusivamente da tale volontà. La natura degli accordi a latere alla separazione - Facendo applicazione di un consolidato - seppur non univoco - principio della Cassazione, i giudici di merito hanno ritenuto che l'accordo concluso dai coniugi fosse estraneo al perimetro della regolamentazione scaturente dalla separazione e andasse interpretato come un'intesa volta a «eliminare controversie su questioni non strettamente riguardanti la separazione stessa». Pur non risultando espressamente dalla pronuncia, sembra infatti che la riconosciuta validità dell'accordo preventivo in esame sia stata ricollegata al principio secondo cui «le pattuizioni intervenute tra i coniugi anteriormente o contemporaneamente al decreto di omologazione della separazione consensuale, e non trasfuse nell'accordo omologato, sono operanti soltanto se si collocano, rispetto a quest'ultimo, in posizione di non interferenza - perché riguardano un aspetto che non è disciplinato nell'accordo formale e che è sicuramente compatibile con esso, in quanto non modificativo della sua sostanza e dei suoi equilibri, ovvero perché hanno un carattere meramente specificativo - oppure in posizione di conclamata e incontestabile

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maggiore o uguale rispondenza all'interesse tutelato attraverso il controllo di cui all'art. 158 cod. civ.» (Cassazione 20 ottobre 2005 n. 20290, in «Famiglia e diritto», 2006, pag. 150 con nota di G. Oberto e Cassazione 30 agosto 2004 in «Rivista del notariato», not. 2005, 795; da ultimo, Cassazione 24 ottobre 2007 n. 22329, in «Giustizia civile. Massimario», 2007, 10). L'accordo con cui i coniugi avevano inteso nel caso di specie «eliminare controversie su questioni non strettamente riguardanti la separazione stessa» e soprattutto «definire i rapporti economici con i figli maggiorenni, che con la separazione non avevano nulla a che fare», non solo non interferiva con l'instaurando procedimento di separazione, ma sembrava orientato a dare all'assetto patrimoniale del (disciolto) nucleo familiare, un inquadramento totalmente avulso dagli aspetti rilevanti in fase di separazione dei coniugi, la cui disciplina in via di accordo è condizionata dall'omologazione. In altri termini sembra che i giudici abbiano rilevato nel caso di specie un interesse dei coniugi a trovare, in costanza di matrimonio ma con la crisi alle porte, una sistemazione definitiva dei propri interessi che valesse a risolvere le molteplici questioni economiche pendenti tra loro e con i figli, potendo gli sposi raggiungere accordi su questioni estranee alla separazione, compresa la definizione dei rapporti economici con i figli maggiorenni. A ben guardare, i patti che i coniugi possono stipulare a latere della separazione pur vertendo sugli stessi presupposti di quella non sembrano avere lo stesso oggetto. Accogliendo tale impostazione dovrebbero trarsi alcune conseguenze: innanzitutto, proprio perché tali accordi sono caratterizzati da una causa e da un oggetto diversi da quelli omologati dal giudice della separazione, rispetto a questi ultimi non si porrebbe il problema di verificarne la «conclamata e incontestabile maggior rispondenza rispetto all'interesse tutelato» (così, invece, il prevalente orientamento richiamato), e neanche di stabilirne la compatibilità sul piano temporale, e quindi la necessità di verificare se il successivo accordo raggiunto in sede di omologa abbia in tutto o in parte revocato il primo. In quest'ottica la validità ed efficacia di tali intese non è affatto condizionata all'omologazione del giudice, dalla quale prescinde totalmente non perché si tratta - secondo l'impostazione tradizionale - di sistemazioni patrimoniali che ricadono nel cosiddetto contenuto eventuale degli accordi di separazione, quanto invece perché si tratta di vicende negoziali che hanno un profilo causale del tutto autonomo. La giustificazione sul piano causale di tali accordi, e quindi la loro piena validità ed efficacia a prescindere dall'omologazione, è ammissibile ove si cambi totalmente prospettiva e si accetti l'idea che il momento causale arretri e si collochi al di fuori dall'area della crisi del matrimonio, inquadrandosi invece nell'ampia categoria degli accordi sull'indirizzo della vita familiare di cui all'articolo 144 del Cc. Essi sono posti in essere con finalità programmatorie di tale indirizzo, ancorché riferito al momento finale della vita in comune. Lungi dal creare un nuovo dovere primario di contribuzione o di modificare quello legalmente previsto, tali accordi avrebbero come unica finalità di precisare l'ambito e i modi di attuazione dello stesso allorché i presupposti della crisi si siano già maturati. Può così accadere che vengano a coesistere due diversi tipi di manifestazioni di volontà. La prima, ancorché non espressamente manifestata, sarebbe meramente ricognitiva degli obblighi legali di mantenimento, avrebbe cioè natura non negoziale. Rispetto agli obblighi previsti dall'articolo 143 del Cc, non si opererebbe cioè alcuna costituzione, modificazione o estinzione, essendo la disciplina legale eventualmente solo richiamata in blocco all'interno del regolamento contrattuale e sarebbe sempre la legge e non il negozio la fonte di tali obblighi. Ove i coniugi abbiano concordemente derogato ai criteri di legge, ciascuno di essi avrebbe la facoltà di provocare la messa in moto del meccanismo di integrazione legale, rifiutando di dare esecuzione all'accordo e stimolando in tal modo una pronuncia giudiziale volta all'accertamento della non conformità della disciplina concordata rispetto a quella legale. Su un diverso piano si porrebbe l'altra manifestazione di volontà, di tipo negoziale, diretta a specificare il contenuto degli obblighi primari nella fase terminale del vincolo matrimoniale. La volontà negoziale, in questo caso, andrebbe a operare sulla misura della reciproca contribuzione impegnando le sostanze e la capacità di lavoro dei coniugi oltre il minimo proporzionale indisponibile stabilito dagli articoli 143 e 148 del Cc, senza con ciò intaccare il regime primario. Seguendo tale ricostruzione sembra potersi ammettere la legittimità dell'accordo dichiaratamente indirizzato a organizzare il ménage familiare durante la crisi coniugale, a cui sarebbe naturalmente applicabile - in fase costitutiva ed esecutiva - l'ordinaria disciplina contrattuale (per la natura negoziale degli accordi ex articolo 144 del CC e per una peculiare ricostruzione dei rimedi esperibili in caso di loro inosservanza; A. R. Gaglioti, «Note in tema di coercibilità degli accordi di vita coniugale a favore dei figli», in «Diritto di famiglia», 2003, 409). Quanto detto appare conforme alla pronuncia in esame, con cui la Corte di cassazione ha escluso potesse ricorrere l'istituto della presupposizione proprio applicando al caso in esame le norme sull'interpretazione del contratto (articoli 1362 e seguenti del Cc). Aderendo a questa ricostruzione, inoltre, si comprenderebbe come i coniugi possano, a crisi conclamata e ritenendolo maggiormente congruo ai loro interessi, trasfondere tali accordi nel verbale di separazione, riqualificando l'intesa sull'indirizzo della vita familiare

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come vero e proprio accordo di separazione, soggetto al controllo di legittimità nei soli limiti dell'omologazione. Obbligazione di trasferire e tutela giudiziale - Sovente accade che i coniugi, nelle intese a latere della separazione o del divorzio, pattuiscano l'impegno di trasferire un determinato diritto reale su uno o più beni ovvero si obblighino a costituire un diritto reale di godimento, da compiersi attraverso la stipulazione di un successivo atto che abbia i requisiti di forma necessari. Quid iuris se però il coniuge obbligato si rifiuti di operare il trasferimento? La dottrina appare concorde nel ritenere che il creditore possa in tal caso esercitare l'azione di cui all'articolo 2932 del Cc, a norma del quale «se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l'obbligazione, l'altra parte, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso» (Chianale, «Obbligazioni di dare e atti traslativi solvendi causa», in «Rivista di diritto civile», 1989, II, 238; A. Ceccherini, «Crisi della famiglia e rapporti patrimoniali», Milano, 1991, 132; C. Rimini, «Il problema della sovrapposizione dei contratti e degli atti dispositivi», Milano, 1995, 291; Dogliotti, «Separazione e divorzio», Torino, 1995, 11). Questa sembra essere stata la tesi seguita anche dal giudice del merito nel caso in esame. Si legge infatti nella premessa in fatto della sentenza 2997/2009 che detto giudice, dichiarata valida ed efficace la scrittura privata impugnata, aveva accolto la domanda riconvenzionale proposta dalla moglie volta alla condanna del marito all'adempimento delle obbligazioni assunte in detta scrittura, «con il riconoscimento a suo favore della proprietà» dell'immobile oggetto di detta pattuizione. In un suo lontano precedente (Cassazione 2 dicembre 1991 n. 12897, in «Giustizia civile. Massimario», 1991, fascicolo 12) anche la Corte di cassazione ha ritenuto che la specifica obbligazione assunta dal marito di costituire l'usufrutto sull'immobile di sua proprietà in favore della moglie, pur trovando sede e occasione nella separazione consensuale, quale elemento del più ampio accordo raggiunto, integrava un atto di autonomia negoziale, che non rilevava ai fini dell'assegnazione della casa familiare in sede di divorzio, potendo bensì «fondare la diversa ed autonoma pretesa da parte del beneficiario di esecuzione in forma specifica». Riferimenti: Giurisprudenza Percorsi operativi Home © Copyright Il Sole 24 Ore - Tutti i diritti sono riservati PROPRIETA’ INDUSTRIALE Bloccati i brevetti del manager Norme e Tributi 10 maggio 2011 Pagina 39 di Negri Giovanni MILANO Sequestrabili all'azienda i brevetti di cui è titolare il manager indagato per bancarotta. Lo stabilisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 18028 della Prima sezione penale depositata il 9 maggio. La Corte, nel confermare l'ordinanza del tribunale di Vicenza che aveva disposto la misura preventiva nei confronti di alcuni brevetti per macchine industriali (ceduti a una società diversa) registrati a nome dell'amministratore unico di una società a responsabilità limitata poi fallita, ha innanzitutto svolto alcune considerazioni in merito alla titolarità del brevetto industriale stesso. I giudici hanno così precisato che è istituita una presunzione di invenzione d'azienda per ogni tipologia di invenzione in costanza o prossimità con il rapporto di impiego sia che riguardi lo svolgimento delle normali mansioni tecniche assegnate al dipendente «sia che venga realizzata da soggetto legato da rapporto di servizio nell'esecuzione di un incarico speciale o in via complementare o sostitutiva rispetto alle sue ordinarie mansioni». Fatta questa premessa e verificato che il manager, proprietario in pratica esclusivo delle quote della srl, ha realizzato le invenzioni durante la sua permanenza nella società e con le risorse di questa, allora si verifica comunque un caso di sottrazione di risorse anche se, in astratto, sono state seguite le ordinarie norme

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civilistiche. Determinante è lo squilibrio, realizzato attraverso un'attività negoziale illecita, tra attività e passività idoneo a compromettere le ragioni dei creditori. Insomma, o le invenzioni devono essere ricondotte al soggetto che ha agito in veste di amministratore e il ruolo di immedesimazione con la società comporta che già la registrazione a suo nome privato ha come effetto una forma di sottrazione di valori, oppure non rimane ai giudici che ricollegare l'invenzione all'esercizio di un'attività lavorativa parasubordinata contemporaneamente esercitata dallo stesso soggetto e non incompatibile in astratto con la carica di amministratore «e la sottrazione dei diritti di sfruttamento che spettavano all'azienda a mente delle norme richiamate rappresenta, in quanto realizzate avvalendosi del doppio ruolo, comunque una distrazione di attività». Avere venduto i brevetti a un'altra società come se questi appartenessero al patrimonio personale dell'amministratore ha avuto come conseguenza l'impoverimento della società e la lesione delle aspettative dei creditori: la srl si è vista privata di beni la cui disponibilità doveva rientrare tra gli elementi di valore. Ad aggravare la situazione c'era poi il fatto che l'attività di ricerca sui brevetti era stata effettuata con le sole risorse della Srl. www.ilsole24ore.com/norme LA SENTENZA Una volta che è stato plausibilmente assodato che l'amministratore unico, (...) ha realizzato le invenzioni durante la sua permanenza nella società e con le risorse di questa: o le invenzioni vanno ricondotte al soggetto che ha agito in veste appunto di amministratore, e il ruolo di immedesimazione organica con la società comporta che già la registrazione a suo nome privato da questo effettuata integra di per sè una forma di sottrazione di valori; oppure non resta che ricollegare l'invenzione all'esercizio di un'attività lavorativa parasubordinata (...) e la sottrazione dei diritti di sfruttamento che spettavano all'azienda a mente delle norme richiamate rappresenta in quanto realizzata avvalendosi del doppio ruolo, comunque una distrazione di attività. Cassazione penale, sentenza 18028/2011 PROPRIETA' INDUSTRIALE Novità in tema di invenzioni dei dipendenti Andrea Tuninetti Ferrari e Jacopo Liguori, Avvocati, Clifford Chance - a cura di Lex24 L'art. 64 del D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 (di seguito, il "Codice della Proprietà Industriale") disciplina il regime delle invenzioni realizzate dal dipendente, riprendendo la tradizionale tripartizione, già presente nella legge brevetti (R.D. n. 1127/1939), tra "invenzioni di servizio", "invenzioni d'azienda" e "invenzioni occasionali". Recentemente, detta previsione legislativa è stata oggetto di modifiche nell'ambito della più ampia revisione cui il D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 131 ha sottoposto il Codice della Proprietà Industriale. In particolare, le novità relative al tema di cui trattasi hanno riguardato le invenzioni d'azienda di cui al capoverso dell'art. 64 - ossia quelle realizzate "in esecuzione o in adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o di impiego", allorquando però tali negozi non prevedano tra le mansioni, né tantomeno compensino, alcuna attività inventiva. Come noto, il dettato normativo previgente subordinava il riconoscimento di un equo premio, a favore dell'inventore, all'ottenimento da parte del datore di lavoro del brevetto sull'invenzione. La recente revisione, al fine di tutelare maggiormente la posizione dell'inventore, ha invece esteso la portata della norma, prevedendo il riconoscimento dell'equo premio anche qualora il datore di lavoro (ovvero i suoi aventi causa) utilizzino l'invenzione in regime di c.d. "segretezza industriale", ossia sfruttino economicamente il risultato dell'attività inventiva in mancanza della tutela brevettuale. Sempre nell'ottica di cui sopra, è stata prevista la possibilità che l'organizzazione del datore di lavoro interessata richieda, in pendenza di domanda di rilascio del brevetto, un esame anticipato della documentazione, i cui esiti possano essere impiegati come base per un più fondato e rapido calcolo del premio. Quanto alle modalità di calcolo dell'equo premio, l'art. 64 continua a disporre che la quantificazione debba tenere conto delle mansioni svolte dal dipendente, della retribuzione da questo percepita, dell'apporto in

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termini di contributo al raggiungimento del risultato, nonché del valore dell'invenzione. Ed è con riferimento a tale ultimo parametro che la revisione è intervenuta, sostituendo la precedente espressione "importanza della protezione conferita all'invenzione dal brevetto" – il cui significato aveva dato adito ad ambiguità e perplessità – con un nuovo riferimento alla "importanza dell'invenzione", dovendosi intendere per tale le possibilità di sfruttamento economico del trovato, quantificabili nell'ordine di grandezza degli utili prevedibili. È rimasta invece invariata la disciplina delle invenzioni di servizio e delle invenzioni occasionali. Si ricorda che nel novero delle prime rientrano tutte le invenzioni realizzate dal lavoratore in adempimento di una specifica obbligazione "inventiva" contrattualmente dedotta, per la quale peraltro sia già specificamente remunerato. In simile ipotesi, si ricorda, l'art. 64 ripartisce il diritto economico di sfruttamento e quello morale di essere riconosciuto autore, attribuendo il primo al datore di lavoro (salvo diverso accordo) ed il secondo al dipendente. Quanto alle invenzioni occasionali, cioè realizzate al di fuori sia dell'orario lavorativo sia dell'ambito delle mansioni del lavoratore (seppur comunque rientranti nel perimetro del business aziendale), i diritti connessi all'invenzione restano in capo all'inventore, mentre al datore è riconosciuto un diritto di opzione per l'uso dell'invenzione o l'acquisto del brevetto entro tre mesi dalla domanda di rilascio dello stesso, verso la corresponsione del canone o del prezzo, da fissarsi con deduzione di una somma corrispondente agli aiuti che l'inventore abbia ricevuto dal datore di lavoro per pervenire all'invenzione. Analogamente, nemmeno la disciplina delle invenzioni dei ricercatori di università ed enti pubblici di cui all'art. 65 del Codice della Proprietà Industriale è stata oggetto di revisione, e ciò nonostante la presenza di un'espressa previsione nella legge delega al Governo (legge 23 luglio 2009, n. 99) di riconoscere alle università la titolarità delle invenzioni dei propri ricercatori, onde non frustrare gli investimenti e le esigenze economiche delle prime. In mancanza di attuazione della summenzionata delega, la brevettazione delle invenzioni universitarie continua ad essere di titolarità dei ricercatori seppur aventi ad oggetto scoperte effettuate grazie alla struttura ed ai fondi dell'ente. © RIPRODUZIONE RISERVATA BREVETTI: LA TUTELA NASCE DALLA NOVITÀ Descrizione chiara e completa dell’invenzione industriale Sentenza Cass., Sez. I civ., 20 ottobre 2010, n. 23592 – Art. 51 Cpi, D.Lgs. n. 30/2005 di Selene Pascasi, avvocato – a cura di Diritto e Pratica delle Società Brevetti per invenzioni industriali – Riconoscimento – Requisiti – Descrizione chiara e completa – Necessità. Assenza o insufficienza dell’elemento descrittivo – Integrazione nel corso del processo ad opera della parte o del consulente – Inammissibilità (Sentenza Corte di Cassazione, Sez. I civ., 20 ottobre 2010, n. 23592 – Art. 51 D.Lgs. n. 30/2005) La Corte di Cassazione, Sez. I civile, con sentenza 20 ottobre 2010 n. 23592, si è pronunciata ancora una volta in punto di novità del brevetto industriale, sottolineandone la valenza quale requisito imprescindibile per il riconoscimento dell’invenzione. La decisione in lettura si allinea al filone giurisprudenziale arrestatosi su un solido principio: il brevetto industriale va riconosciuto solo nei casi in cui il trovato abbia offerto la soluzione ad un problema tecnico non ancora risolto. Di conseguenza, non troveranno tutela giuridica – in quanto non qualificabili quali invenzioni – tutti quei progetti che si limitino a mettere in esecuzione idee già note. A far scattare il processo, l’azione proposta da una società che – vantando la titolarità di un brevetto per applicazione industriale – chiama in causa una ditta concorrente accusandola di contraffazione. La s.p.a. citata, però, nega le accuse: il brevetto in questione non è affatto nuovo e non merita la protezione che la legge riserva esclusivamente ai trovati originali. Il consulente tecnico concorda, negando la novità dell’invenzione, e il Tribunale boccia la domanda attrice: le caratteristiche riscontrate nel brevetto sono note da tempo. Di conseguenza, la ditta chiamata a processo non aveva commesso alcuna contraffazione nell’utilizzare il trovato.

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La sentenza non convince la società soccombente, che porta il caso dinanzi al Collegio di legittimità lamentando l’erronea applicazione dell’art. 51 D.Lgs. n. 30/2005 (noto come codice della proprietà industriale). La Cassazione, però, rigetta il ricorso. Nel farlo, i giudici precisano che l’invenzione, al fine di ottenere il placet del legislatore e la conseguente tutela, dovrà (prima che essere un’invenzione “sufficientemente descritta”) essere “un’invenzione”. Ma v’è di più: il requisito della sufficiente descrizione sarà necessario anche al fine di consentire l’attuazione dell’invenzione a “ogni persona esperta del ramo”. A confermarlo, d’altronde, è lo stesso testo della norma supposta in violazione, intitolata proprio “sufficiente descrizione”. Il disposto, come novellato, esige che alla domanda di concessione del brevetto per invenzione industriale debbano unirsi ulteriori specifici requisiti: la descrizione, le rivendicazioni e i disegni necessari alla sua intelligenza. Ivi si aggiunge, non con secondaria importanza, che «l'invenzione deve essere descritta in modo sufficientemente chiaro e completo perché ogni persona esperta del ramo possa attuarla e deve essere contraddistinta da un titolo corrispondente al suo oggetto». Ebbene, la Cassazione, sulla scia di un costante orientamento interpretativo, nonché dell’indicata normativa, sottolinea l’esigenza che il trovato esprima un’attività creativa dell’inventore, che non sia semplice esecuzione di idee già note e rientranti nella normale applicazione dei principi conosciuti. Questo è il senso della novità che rende l’idea nuova, brevettabile e degna di tutela. Sarà dunque necessario, ai fini del riconoscimento del brevetto per invenzione industriale, che l’invenzione risponda a due parametri di novità: estrinseca ed intrinseca. Sotto il primo profilo, si richiede che il ritrovato si basi sulla risoluzione di un problema che allo stato delle cognizioni tecniche non risulti ancora risolto, e che in ogni caso sia pensato e congegnato in maniera tale da poter essere concretamente realizzato in campo industriale; solo in questo modo, è evidente, esso sarà idoneo ad apportare un effettivo progresso rispetto alle conoscenze già note. Per ciò che concerne, invece, l’altro aspetto – quello della novità intrinseca – si esigerà che la scoperta sia tale da esprimere un'attività creativa dell'inventore, lungi dal voler qualificare tale una mera esecuzione di idee già divulgate, riconducibili all’usuale applicazione di regole preesistenti. È però evidente, che per accertare l’effettiva novità della soluzione industriale sarà necessario che chi ne richieda il riconoscimento alleghi una descrizione chiara e completa del ritrovato, tesa ad indicare il problema tecnico cui esso offre soluzione e la specifica utilità perseguita. Così la Cassazione scrive la parola fine alla disputa processuale, e cristallizza la nullità del brevetto per mancata dimostrazione della sua originalità. D’altro canto, l’insufficiente descrizione – si legge nella sentenza – aveva reso «non accertabile la novità intrinseca del trovato e di conseguenza non verificabile» l’eventuale contraffazione. © RIPRODUZIONE RISERVATA COMPENSI PROFESSIONALI Norme e Tributi 10 maggio 2011 Pagina 39 di Negri Giovanni Conta solo la tariffa giudiziale MILANO Il compenso per lo studio che assiste il curatore fallimentare va liquidato secondo le tariffe giudiziali e non professionali. Lo chiarisce la Cassazione che, con la sentenza della Seconda sezione civile depositata ieri, ha respinto il ricorso presentato da uno studio di consulenti del lavoro che aveva collaborato con un curatore fallimentare nell'attività di predisposizone dei prospetti paga del personale dipendente di una spa dichiarata fallita. Lo studio si era visto liquidare una somma valutata del tutto inadeguata rispetto all'attività effettivamente svolta e neppure vicina ai massimi di una tariffa già di per sè da ritenere datata. La Cassazione ha però considerato corretta la valutazione del giudice delegato che ha qualificato l'operato dello studio di consulenza oggetto della domanda di liquidazione come quella di coadiutore. E quest'ultima è una figura disciplinata dalla legge fallimentare all'articolo 32, comma 2 che integra l'attività del curatore e si configura come ausiliario del giudice, con la conseguenza che il suo compenso deve essere determinato in base alla tariffa giudiziale prevista per i periti e i consulenti tecnici e non invece sulla base della tariffa professionale che presuppone un rapporto di lavoro autonomo tra il fallimento stesso e il professionista. « Il coadiutore – osservano i giudici – svolge un'attività di collaborazione e assistenza nell'ambito e per gli scopi propri della procedura rientranti sotto il dominio delle competenze e delle attribuzioni del curatore, lì dove, invece, il professionista officiato di una prestazione di lavoro autonomo opera, per differenza, in ogni

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altro settore, allorché il fallimento, per la soluzione di problemi ulteriori ed eventuali, necessiti di un'attività di tipo specialistico che il curatore non è chiamato a espletare e di cui pertanto non risponde in via diretta». © RIPRODUZIONE RISERVATA www.ilsole24ore.com/norme Il testo della sentenza Riferimenti: Home © Copyright Il Sole 24 Ore - Tutti i diritti sono riservati Il testo della sentenza Corte di Cassazione Sezione 2 Civile Sentenza del 9 maggio 2011, n. 10143 Fallimento - Compenso prestazione professionale - Assistenza al curatore fallimentare - Attività di coadiutore (art. 32, comma 2, Legge Fallimentare) - Applicazione tariffa professionale - Esclusione - Compenso determinato in base alla tariffa giudiziale prevista per i periti e consulenti tecnici

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SECONDA SEZIONE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MASSIMO ODDO - Presidente -

Dott. UMBERTO GOLDONI - Consigliere -

Dott. CESARE ANTONIO PROTO - Consigliere -

Dott. FELICE MANNA - Rel. Consigliere -

Dott. ANTONINO SCALISI - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 18068-2005 proposto da: Studio Associato Consulenza del Lavoro An. An., St. An. & Ma. Ca., C.F. (...), in persona dell'associato e del legale rappresentante St. An., elettivamente domiciliato in Ro., Via An. (...), presso lo studio dell'avvocato Ca. Ri., che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato Fa. D. Ma.; - ricorrente - contro Fallimento He. S.p.a., C.F. (...), in persona del Curatore pro tempore, elettivamente domiciliato in Ro., Piazza Co. D. Ri., (...), presso lo Studio Avv. Lo. Na., rappresentato e difeso dall'avvocato Al. Co., giusta procura speciale notarile Rep. n. (...) dell'11/01/2006 per Dr. Ma. Br. notaio in Ba. Um.; - resistente - avverso l'ordinanza del TRIBUNALE di PERUGIA, depositata il 10/05/2005;

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udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/01/2011 dal Consigliere Dott. FELICE MANNA; udito l'Avvocato Fa. D. Ma. difensore del ricorrente che ha chiesto si riporta agli atti; udito l'Avvocato Al. Co. difensore della resistente che ha chiesto l'inammissibilità del ricorso, in subordine il rigetto; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. LIBERTINO ALBERTO RUSSO che ha concluso per l'inammissibilità in subordine per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con decreto in data 7.2.2005 il giudice delegato al fallimento della He. S.p.a., dichiarato dal Tribunale di Perugia, liquidava in favore dello Studio associato di consulenza del lavoro An. An., St. An. e Ma. Ca., il compenso di Euro 12.406,68, per la cura di pratiche riferite al personale della società fallita, a fronte di una richiesta formulata per la maggior somma di Euro 52.131.58. Reclamava, ai sensi dell'art. 26 legge fall., l'anzi detto Studio, deducendo che tale liquidazione, immotivata e illegittima, non era assolutamente corrispondente al volume dell'attività svolta, concretizzatasi nella predisposizione di numerosi prospetti paga e nello svolgimento di altre, rilevanti incombenze, così come descritte in un'apposita relazione, datata 28.6.2004; che il compenso richiesto non era stato neppure quantificato nella misura massima prevista dalla tariffa professionale, ancorché quest'ultima fosse risalente nel tempo e non più adeguata al valore effettivo delle prestazioni; e che, pertanto, il compenso per l'opera prestata doveva essere liquidato nella misura richiesta, ovvero, in subordine, in diversa misura comunque superiore a quanto liquidato dal giudice delegato. Con ordinanza del 10.5.2005 il Tribunale di Perugia premesso che il provvedimento reclamato aveva liquidato il compenso allo Studio associato quale "coadiutore", rigettava il reclamo, osservando che il giudice delegato aveva ritenuto di dover applicare i minimi tariffari motivando tale sua determinazione sia per l'episodicità e la natura delle prestazioni, sia tenendo conto della natura del soggetto richiedente, e che tale liquidazione doveva ritenersi corretta e condivisibile; che l'estrema genericità dell'unico motivo di censura posto a sostegno del reclamo non autorizzava a procedere ad una disamina dettagliata delle singole voci così come esposte nella relazione riepilogativa del 28.6.2004; e che, in ogni caso, avuto riguardo alle varie attività per come esposte nella ridetta relazione, l'importo liquidato appariva congruo e pienamente remunerativo. Per la cassazione di quest'ultimo provvedimento ricorre St. An., quale contitolare del prefato Studio professionale, con unico motivo, illustrato da memoria. La parte intimata ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. con separata procura speciale autenticata da notaio, ma non ha proposto controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. - In via pregiudiziale va rilevata l'inammissibilità della memoria depositata dalla curatela fallimentare intimata, in quanto non preceduta dalla notifica di controricorso (cfr., sull'inammissibilità del deposito di memoria ex art. 378 c.p.c. nella fattispecie, consimile, in cui questa segua ad un controricorso tardivamente notificato, Cass. nn. 9396/06 e 9897/07). Conseguentemente, non può tenersene conto ai fini della decisione. 2. - Con unico motivo di censura, articolato in due punti, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della tariffa professionale di cui al D.M. 15.7.1992 n. 430 Ministero della Giustizia, e degli artt. 2233 e 1375 c.c., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Premesso che non è stato mai contestato l'effettivo svolgimento delle prestazioni professionali oggetto della domanda di remunerazione, il ricorrente sostiene che non risponde al vero che la somma liquidata dal giudice delegato sia pari ai minimi tariffari, e che non è comprensibile come il Tribunale sia pervenuto a tale

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conclusione. Deduce, quindi, che i minimi tariffari, aventi carattere vincolante, ammontano per le prestazioni svolte a Euro 36.313,73, somma che non si discosta molto sia dall'importo liquidato dall'ordine professionale, sia dalla notula presentata dal ricorrente. Quanto al profilo dell'insufficienza motivazionale, il ricorrente sostiene che il Tribunale di Perugia non ha fornito la benché minima indicazione in ordine al criterio seguito nello stabilire che il compenso liquidato dal giudice delegato fosse appropriato all'attività svolta, nonostante il reclamante avesse descritto in maniera analitica e circostanziata ogni singola voce. Né è corretta l'affermazione, pure contenuta nell'ordinanza del Tribunale perugino, secondo cui l'unico motivo di reclamo sarebbe stato estremamente generico, atteso che altrettanto generico, e dunque non meglio censurabile, era il decreto emesso dal giudice delegato. 3. - Il motivo è infondato quanto alla prima e inammissibile relativamente alla seconda delle due articolazioni di cui consta. 3.1. - Premesso che è costante e indiscusso l'orientamento di questa Corte secondo cui il provvedimento con il quale il Tribunale fallimentare provvede in sede di reclamo ex art. 26 legge fall., sul decreto del giudice delegato di liquidazione dei compensi spettanti al curatore, agli altri ausiliari della procedura o ai professionisti esterni incaricati da essa, ha carattere decisorio (incidendo direttamente su diritti soggettivi) e definitivo (non essendo soggetto a ulteriore impugnazione), e come tale è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. (v. per tutte e da ultimo, Cass. n. 15941/07), si rileva che dalla motivazione del provvedimento impugnato si ricava che il giudice delegato, prima, e il Tribunale fallimentare, poi, hanno qualificato come attività di "coadiutore" quella svolta dallo Studio associato e oggetto della domanda di liquidazione. Premessa tale qualificazione, non censurata - né del resto censurabile, sotto il profilo dei parametri di sufficienza e di logicità della motivazione, per le ragioni di cui al paragrafo 3.2 - deve ulteriormente osservarsi che, come questa Corte ha già avuto modo di osservare, il coadiutore, la cui figura è prevista dall'art. 32, comma 2 della legge fall., integrando l'attività del curatore, partecipa della qualità di ausiliario (del giudice) che è propria di quest'ultimo, con la conseguenza che il suo compenso deve essere determinato in base alla tariffa giudiziale prevista per i periti e i consulenti tecnici, e non già a stregua della tariffa professionale, che presuppone un rapporto di lavoro autonomo tra il fallimento stesso e il professionista (cfr. Cass. n. 1568/05). Ciò in quanto il coadiutore svolge un'attività di collaborazione ed assistenza nell'ambito e per gli scopi propri della procedura, rientranti sotto il dominio delle competenze e delle attribuzioni del curatore, lì dove, invece, il professionista officiato di una prestazione di lavoro autonomo opera, per differenza, in ogni altro settore, allorché il fallimento, per la soluzione di problemi ulteriori ed eventuali, necessiti di un'attività di tipo specialistico che il curatore non è chiamato ad espletare e di cui, pertanto, non risponde in via diretta. 3.1.1. - La circostanza che, nella specie, la quantificazione del compenso allo Studio An. sia stata effettuata con applicazione - dunque erronea - della tariffa professionale dei consulenti del lavoro, di cui al D.M. 15.7.1992 n. 430, non rileva, tuttavia, ai fini del presente giudizio di legittimità, atteso che la relativa violazione avrebbe potuto incidere solo se ed in quanto dedotta con specifica allegazione di un'incidenza di tipo pregiudizievole, nel senso che la parte ricorrente avrebbe dovuto affermare, con idonee argomentazioni di sostegno, che nel caso particolare, applicando la tariffa giudiziale per la liquidazione del compenso agli ausiliari del giudice, l'esito della liquidazione sarebbe stato più favorevole. 3.2. - La censura relativa al vizio della motivazione svolta per giustificare la disposta applicazione del minimo tariffario, poi, non è ammissibile in ragione dei limiti interni del ricorso straordinario per cassazione, ex art. 111 Cost. in raccordo con l'art. 360 n. 5 c.p.c. nel testo ante D.Lgs. n. 40/06, applicabile ratione temporis al caso in esame. 4. - In conclusione il ricorso va respinto. 5. - Le spese del presente giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza della parte ricorrente. P.Q.M.

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La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 1.000,00, di cui 200,00 per spese vive, oltre accessori di legge. Massima redazionale Corte di Cassazione Sezioni Unite Civile Sentenza del 24 luglio 2007, n. 16300 FALLIMENTO ED ALTRE PROCEDURE CONCORSUALI - FALLIMENTO - APERTURA (DICHIARAZIONE) DI FALLIMENTO - SENTENZA DICHIARATIVA - OPPOSIZIONE - IN GENERE - Opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento - Diritti ed onorari avvocato - Determinazione - Criteri - Ammontare del passivo - Insussistenza - Valore indeterminabile - Applicabilità. Ai fini della liquidazione dei diritti e degli onorari spettanti al difensore in sede di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, il valore della causa, da determinarsi sulla base della domanda ex art. 10 cod. proc. civ., non va desunto dall'entità del passivo, non essendo applicabile in via analogica l'art. 17 cod. proc. civ. riguardante esclusivamente i giudizi di opposizione ad esecuzione forzata, ma deve considerarsi indeterminabile, atteso che la pronuncia richiesta è di revoca del fallimento e l'oggetto del giudizio, relativo all'accertamento dell'insolvenza, si fonda sulla comparazione tra i debiti dell'imprenditore e i mezzi finanziari a sua disposizione senza investire la delimitazione quantitativa del dissesto, riservata al subprocedimento di verificazione. La liquidazione degli onorari nella procedura fallimentare Il Sole 24 Ore - Ventiquattrore Avvocato 1 giugno 2009, N. 6 Pagina 64 di Canaccini Alessia Criteri di liquidazione degli onorari del difensore nella procedura fallimentare. Il compenso del curatore e dei suoi ausiliari. la QUESTIONE Posto che la liquidazione degli onorari giudiziali dipende dal valore della causa,come si determina il valore della causa di dichiarazione del fallimento? E il valore della causa di opposizione alla dichiarazione di fallimento? Dato che l'onorario del curatore si liquida come percentuale dell'attivo e del passivo, se il fallimento ha un passivo accertato rilevante e un attivo minimo, come si determina la remunerazione? L'onorario degli ausiliari si quantifica come l'onorario del curatore, oppure come l'onorario del consulente del giudice? l'INTRODUZIONE Chi presta la propria attività professionale nella procedura fallimentare ha diritto a una remunerazione, proporzionata allo specifico apporto e alle peculiarità della procedura, che incide sul patrimonio e sullo status dell'imprenditore commerciale. Tra i professionisti che offrono le proprie prestazioni vi è sicuramente l'avvocato, in qualità di difensore, oppure di curatore o di ausiliario. Se l'avvocato è difensore, l'art. 6, comma 1, della Tariffa forense, approvata dal D.M. n. 127 del 2004, prevede che «nella liquidazione degli onorari a carico del soccombente, il valore della causa è determinato a norma del codice di procedura civile». Sul punto, l'art. 10 c.p.c. stabilisce che il valore della causa è determinato in base alla domanda. Dal combinarsi dell'art. 6, comma 1, D.M. n. 127 del 2004, con l'art. 10 c.p.c, emerge che l'onorario del difensore è parametrato sul petitum mediato, ovverosia sul valore economico del bene o della prestazione in contestazione. Tale regola significa che l'onorario del difensore del fallito o del creditore, che presenti istanza di fallimento, o si opponga, o domandi l'ammissione allo stato passivo, o domandi la restituzione o la separazione di beni mobili e immobili, si calcola secondo gli indici fissati nella Tabella A II relativa agli onorari giudiziali, per le cause avanti al Tribunale, di cui al D.M. n. 127 del 2004.

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Sennonché va chiarito quale sia il petitum di una istanza di fallimento o di una opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento. Invece negli altri casi il valore della causa è legato a un valore economico determinato: il credito per cui si chiede l'ammissione allo stato passivo, il bene mobile o immobile che si rivendica, di cui si chiede la restituzione o la separazione. Se poi l'avvocato svolge la funzione di curatore, si deve chiarire come debba essere liquidato il compenso, in particolare nel caso di fallimento incapiente. Infine se l'avvocato è ausiliare del curatore si deve stabilire se il compenso sia legato alle tariffe professionali di riferimento, oppure ai criteri applicati agli ausiliari del giudice. le NORME

Codice di procedura civile

Artt. 10, 17

R.D. 16 marzo 1942, n. 267, come modificato da D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169

Artt. 5, 18, 32, 37 bis, 39

D.M. 28 luglio 1992, n. 570

Art. 1

D.M. 8 aprile 2004, n. 127

Art. 6

D.P.R. 30 giugno 2002, n. 115

Art.146

D.M. 30 maggio 2002

Art. 1

la FATTISPECIE Onorari in caso di sentenza dichiarativa di fallimento Per la liquidazione degli onorari il giudice, ai sensi dell'art. 6, comma 1, D.M. n. 127/2004 e dell'art. 10 c.p.c., dovrà valutare il petitum della domanda, considerando che oggetto della causa non è il singolo credito,ma piuttosto l'accertamento dello stato di insolvenza dell'imprenditore commerciale. Lo stato di insolvenza, come è noto, ex art. 5 legge fall. consiste nell'impossibilità di far fronte alle obbligazioni con regolarità, ed è ben distinto dal semplice inadempimento, anche se l'inadempimento può essere una manifestazione dell'insolvenza. Dunque l'accertamento dell'insolvenza richiede una valutazione, che ha per oggetto non il singolo credito, facilmente quantificabile, ma la situazione patrimoniale e finanziaria complessiva dell'imprenditore, che emerge in particolare comparando i debiti con i mezzi finanziari a disposizione. Questo significa che il giudice accerta l'insolvenza nell'an, mentre il quantum sarà individuato solo dopo la formazione dello stato passivo. Da questa considerazione ne discende che l'interesse del singolo creditore sul patrimonio dell'imprenditore è del tutto irrilevante per quantificare gli onorari del difensore, proprio perché tale interesse creditorio è estraneo all'oggetto della causa. Per provare tale affermazione, si ricorda anche che, se il credito dell'istante risulta inesistente, la dichiarazione di fallimento non viene meno. Allora nella fase c.d. prefallimentare il valore della causa non si ragguaglia all'ammontare del credito vantato dall'istante, proprio perché le vicende del singolo credito sono irrilevanti rispetto all'insolvenza, e dunque alla dichiarazione di fallimento.

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Onorari in caso di opposizione alla dichiarazione di fallimento Del resto, la questione si può approfondire anche considerando che il giudizio di dichiarazione di fallimento e quello di opposizione sono due fasi di unico procedimento, volto ad accertare lo stato di insolvenza. Infatti nella fase di opposizione alla dichiarazione di fallimento si ripropone il problema di determinare gli onorari, considerando non solo l'art. 6, comma 1, D.M. n. 127 del 2004, e l'art. 10 c.p.c,ma anche l'art. 17 c.p.c. Sul punto si registrano due possibili interpretazioni. La prima evidenzia che, in mancanza di una disciplina specifica del valore della causa di opposizione alla dichiarazione di fallimento, è possibile applicare per analogia l'art. 17 c.p.c, relativo all'opposizione all'esecuzione. L'art. 17 c.p.c. prescrive che il valore della causa dipende dal motivo per cui si procede. Per applicare in via analogica tale disposizione all'opposizione alla dichiarazione di fallimento, occorre individuare l'eadem ratio. L'identità di ratio si dimostra considerando che il fallimento appartiene al genus delle procedure esecutive, anche se è una procedura collettiva, e che nell'opposizione al fallimento, così come nell'opposizione all'esecuzione, si contesta il diritto di procedere all'espropriazione dei beni del creditore. Inoltre «il credito per cui si procede» corrisponde all'ammontare del passivo, equivalente al credito dell'istante o all'ammontare dei crediti ammessi. Dunque, non si può affermare che il valore della causa di opposizione alla dichiarazione di fallimento è indeterminabile. Piuttosto, tale valore risulta indeterminato, anche se in un secondo momento valutabile economicamente, perché la causa ha a oggetto diritti e beni che si intendono sottrarre all'esecuzione. Da queste considerazioni, ne consegue che il giudice per liquidare gli onorari deve applicare lo scaglione della Tariffa forense, approvata dal D.M. n. 127 del 2004, corrispondente all'entità complessiva del passivo. La seconda interpretazione considera la causa di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento di valore indeterminabile. Tale assunto si dimostra evidenziando che l'art. 17 c.p.c. non si può applicare per analogia, perché tra la disciplina dell'opposizione all'esecuzione e la disciplina dell'opposizione alla dichiarazione di fallimento non vi è identità di ratio. Infatti l'esecuzione individuale è un processo di parti, diretto a soddisfare l'interesse del creditore procedente,mentre l'esecuzione collettiva persegue l'interesse pubblico alla difesa contro l'insolvenza, che giustifica ampi poteri inquisitori da parte del giudice. In particolare l'opposizione alla dichiarazione di fallimento ha come oggetto la revoca della sentenza per carenza di uno dei presupposti,ovverosia lo stato di insolvenza e la qualità di imprenditore commerciale; invece l'opposizione all'esecuzione ha come oggetto la contestazione del diritto del creditore procedente ad agire in esecuzione. In ogni caso, se si assumesse il credito dell'istante come parametro del valore della causa, non sarebbe possibile liquidare gli onorari del difensore nel giudizio di opposizione alla sentenza di fallimento,pronunciata su istanza del P.M. Inoltre è evidente che,nella maggioranza dei casi, nella fase immediatamente successiva alla dichiarazione di fallimento non si è accertato alcun passivo complessivo. Infatti l'opposizione alla dichiarazione di fallimento è proposta prima della fine delle operazioni di verifica dei crediti e della dichiarazione di esecutività dello stato passivo. Sulla questione il Supremo Collegio, in una recente sentenza a Sezioni Unite, ha statuito che, ai fini della liquidazione dei diritti di procuratore e degli onorari del difensore, nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento, il valore della causa si deve ragguagliare non all'attivo inventariato, né al passivo accertato, ma si deve considerare indeterminabile, proprio perché l'accertamento dello stato di insolvenza non si ha con un giudizio quantitativo,ma con una comparazione dei debiti e dei mezzi finanziari ordinari (Cass., Sez. Un., 24 luglio 2007, n. 16300). Il compenso del curatore L'art. 39 legge fall. fissa il principio di remuneratività dell'attività del curatore e l'art. 1,D.M. n. 570/1992, attua tale principio, stabilendo che il compenso del curatore è proporzionato all'ammontare dell'attivo e del passivo. Precisamente l'art.1,D.M. n. 570/1992, prevede il calcolo del compenso come percentuale dell'attivo complessivamente liquidato e del passivo accertato nel corso della procedura. Tali percentuali non devono superare le misure indicate. Tuttavia, il criterio generale che deve guidare il Tribunale nella liquidazione è quello dell'efficienza, in relazione ai tempi e all'economicità della gestione, e dell'efficacia, in ordine ai risultati della liquidazione dei beni. In particolare il Tribunale deve considerare l'opera prestata, i risultati ottenuti, l'importanza del fallimento e la sollecitudine delle operazioni.

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Il compenso così determinato ha come oggetto somme prelevate dall'attivo fallimentare, con preferenza assoluta. Sennonché, in caso di mancanza o insufficienza dell'attivo, il compenso del curatore risulterebbe privo di copertura. Sul punto occorre ricordare che il D.P.R. n. 115/2002 non prevede che l'importo sia posto a carico dello Stato. Tuttavia la Corte Costituzionale, con sentenza 28 aprile 2006, n. 174, ha dichiarato che l'illegittimità costituzionale dell'art. 146, comma 3, D.P.R. n. 115/2002, nella parte in cui non prevede che le spese e gli onorari del curatore rientrino nelle spese anticipate dall'Erario. Pertanto, anche se il curatore non è ausiliare del giudice (come lo sono ad esempio gli stimatori, i consulenti fiscali e i notai), è ausiliare della giustizia, e deve essere retribuito per l'opera prestata, anche se l'incarico è volontario, anche se non si può qualificare come lavoratore autonomo e anche se il fallimento negativo si può considerare una crescita professionale per il curatore. Tuttavia, in caso di fallimenti totalmente o parzialmente negativi, i Tribunali tendono a liquidare il compenso nel minimo previsto dalla legge, secondo gli scaglioni previsti agli artt. 1 e 2, D.M. n. 570/1992. Ma anche questa soluzione non sempre è adeguata a contenere la spesa pubblica. Infatti nella procedura può essere accertata una passività molto elevata, a fronte di un attivo molto modesto, o inesistente, che pone totalmente o parzialmente a carico dello Stato un ingente compenso per il curatore. Una possibile soluzione del problema è quella di valutare il compenso secondo i criteri generali di efficienza ed efficacia, previsti dall'art. 1, D.M. n. 570/1992, considerando che gli scaglioni previsti come percentuali dell'attivo e del passivo, sono indicati come limite per le misure massime del compenso, mentre nulla è previsto per i minimi. È possibile allora che il Tribunale per il compenso del curatore elabori proprie tabelle, fissando scaglioni che non superino quelli previsti dall'art. 1, D.M. n. 570/1992. Tale soluzione è adottata ad esempio dalla Sezione fallimentare del Tribunale di Milano. Il compenso degli ausiliari L'art. 32 legge fall. riformata individua due figure distinte di “ausiliari” del curatore: il delegato e il coadiutore. Il delegato è un fiduciario, che sostituisce il curatore in caso di limitata e temporanea impossibilità di svolgere il proprio ufficio. Il trasferimento delle funzioni è circoscritto a specifici adempimenti. Data la natura surrogatoria dell'incarico, il compenso del delegato è detratto dal compenso dovuto al curatore. A questo proposito si rileva che la nuova normativa non chiarisce se la liquidazione del compenso del delegato spetti al Tribunale oppure al Giudice delegato Infatti l'art. 32 legge fall. riformata si riferisce genericamente al giudice. Orbene, se si considera che la nomina del delegato è subordinata all'autorizzazione del Giudice delegato, si potrebbe sostenere che anche il compenso è liquidato dallo stesso. Sennonché l'interpretazione prevalente prevede la liquidazione del compenso da parte del Tribunale, così come avviene per il compenso del curatore, da cui deve essere detratto il compenso del delegato. Inoltre il Tribunale determina il compenso, seguendo gli scaglioni previsti per il curatore, secondo i parametri di efficacia ed efficienza, stabiliti dall'art. 1, D.M. n. 570/1992. Infine, poiché il compenso del delegato è simile a quello del curatore, in caso di fallimento negativo, il compenso del delegato è a carico dell'Erario. Sul punto valgono le stesse considerazioni valide per il curatore, per l' esigenza di contenimento della spesa pubblica. La seconda figura di ausiliario è il coadiutore, che integra l'attività del curatore, svolgendo compiti complementari, strumentali e comunque diversi da quelli del curatore, in virtù di una propria specifica competenza. Invero il coadiutore potrebbe essere considerato ausiliario del curatore, oppure ausiliario del giudice. Nel primo caso, il Giudice delegato al momento della liquidazione del compenso sarebbe tenuto ad applicare le tariffe professionali. Nel secondo caso, il compenso sarebbe liquidato secondo i criteri validi per i consulenti del giudice. Tale opzione, preferita dalla giurisprudenza di merito, consente un contenimento delle spese della procedura. Inoltre, la seconda interpretazione sembra preferibile, anche perché il coadiutore non svolge attività di lavoro autonomo, come dimostrato dall'assenza di responsabilità per il proprio operato. Infatti la responsabilità è del curatore. In generale il compenso del curatore si liquiderà considerando l'attività svolta e l'incidenza sull'attività del curatore. In particolare, il giudice, ai fini della liquidazione del compenso del coadiutore, considererà i criteri di cui agli artt. 49 ss. D.P.R. n. 115/2002 e dall'art. 1 allegato al D.M. 30 maggio 2002, tra cui il valore del bene, il valore della controversia e il tempo impiegato. L'art. 50 D.P.R. n. 115/2002 distingue gli onorari in fissi, variabili e a tempo. Per gli onorari variabili sono previsti i criteri di difficoltà, completezza e pregio della prestazione fornita. In ogni caso il compenso è a carico della massa ed è liquidato dal Giudice delegato, a seguito di parere

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favorevole del curatore.Ancora una volta, in caso di incapienza della procedura, il compenso è a carico dell'Erario, tenuto ad anticiparlo. la GIURISPRUDENZA ONORARI IN CASO DI SENTENZA DICHIARATIVA DI FALLIMENTO Cassazione civ., Sez. III, 7 dicembre 2000, n. 15545 In tema di liquidazione dei diritti di procuratore e degli onorari spettanti al difensore in sede di procedimento per la dichiarazione di fallimento, va esclusa ogni possibilità di adottare, come criterio applicativo,quello dell'interesse del cliente in relazione all'entità del suo patrimonio, atteso che, in sede prefallimentare, l'accertamento attiene all'an della situazione di insolvenza (che risulta accertata nel quantum solo a seguito della formazione dello stato passivo), sicché la disponibilità o indisponibilità del patrimonio non è oggetto di domanda, né attiene alla causa petendi, essendo soltanto un effetto (e non l'unico) della dichiarazione di fallimento. (Mass. giur. it., 2000) ONORARI IN CASO DI OPPOSIZIONE ALLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO Cassazione civ., Sez.Un., 24 luglio 2007, n. 16300 Ai fini della liquidazione dei diritti e degli onorari spettanti al difensore in sede di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, il valore della causa, da determinarsi sulla base della domanda ex art. 10 c.p.c., non va desunto dall'entità del passivo, non essendo applicabile in via analogica l'art. 17 c.p.c. riguardante esclusivamente i giudizi di opposizione a esecuzione forzata, ma deve considerarsi indeterminabile, atteso che la pronuncia richiesta è di revoca del fallimento e l'oggetto del giudizio, relativo all'accertamento dell'insolvenza, si fonda sulla comparazione tra i debiti dell'imprenditore e i mezzi finanziari a sua disposizione senza investire la delimitazione quantitativa del dissesto, riservata al subprocedimento di verificazione. (Dir. prat. fall., 2007, 5, 40 nota di PRENNA) Cassazione civ., Sez. I, 2 aprile 2004, n. 6508 Ai fini della liquidazione dei diritti di procuratore e degli onorari spettanti al difensore per la rappresentanza e la difesa della parte nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento, il valore della causa - da determinarsi in base alla domanda (art. 10 c.p.c.) - non va ragguagliato (né all'attivo inventariato, né) all'entità del passivo accertato (non essendo al riguardo applicabile in via analogica l'art. 17, prima parte, c.p.c.), ma deve considerarsi indeterminabile, atteso che oggetto della pronuncia richiesta è la revoca del fallimento in relazione alla sussistenza dei suoi presupposti e che, in particolare, l'insolvenza non si ragguaglia alla massa passiva fallimentare, né comporta giudizi quantitativi, ma risulta, piuttosto, da una comparazione tra i debiti dell'imprenditore e i mezzi finanziari a sua disposizione, ai fini della valutazione della possibilità di fronteggiare le passività con mezzi ordinari, mentre non rilevano le dimensioni del dissesto. (www.judicium.it) Cassazione civ., Sez. I, 28 maggio 2003, n. 8546 In tema di liquidazione degli onorari di avvocato nel procedimento di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, trova applicazione, per analogia, la disposizione dell'art. 17, comma 1, c.p.c., per cui il valore della causa si determina in base all'ammontare del passivo quale risulta dalla somma dei crediti ammessi alla procedura. (Guida al Diritto, 2003, 45, 76) Cassazione civ., Sez. III, 18 luglio 2000, n. 9451 L'indeterminabilità del valore della causa va intesa in senso obiettivo, con esclusione dei casi in cui il giudice per ragioni contingenti non riesce a determinare il valore. Consegue che non si versa in ipotesi di causa indeterminabile quando l'oggetto della controversia, seppure di valutazione economica difficile, è comunque suscettibile di valutazione da parte del giudice in base ai criteri stabiliti dalla legge e alle risultanze degli atti. (Arch. civ., 2001, 5, 628) Cassazione civ., Sez. II, 4 novembre 1993, n. 10933 In tema di liquidazione degli onorari di avvocato, per il procedimento di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, trova applicazione, per analogia, la disposizione dell'art. 17, comma 1, c.p.c., per

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cui il valore della causa si determina in base all'ammontare del passivo, quale risulta dalla somma dei crediti ammessi alla procedura concorsuale, e non in base al valore del credito vantato nei confronti del fallito dal creditore opponente. (Fall., 1994) Cassazione civ., Sez. I, 10 luglio 1993, n. 7596 Ai fini della liquidazione dei diritti di procuratore e degli onorari spettanti al difensore per la rappresentanza e la difesa del fallito nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento, nel quale il fallito abbia contestato la sussistenza dello stato di insolvenza, il valore della causa - da determinarsi in base alla domanda (art. 10 c.p.c.) - non va ragguagliato né all'attivo inventariato, né all'entità del credito dell'istante, applicando analogicamente l'art. 17 c.p.c.ma deve considerarsi indeterminabile, atteso che l'oggetto della pronuncia richiesta è l'accertamento della capacità dell'imprenditore di soddisfare regolarmente le obbligazioni assunte (art. 5 legge fall.) e che l'insolvenza non ha un contenuto quantitativamente determinabile (Ced Cassazione) Cassazione civ., Sez. II, 13 luglio 1984, n. 4117 In osservanza della norma dell'art. 6 delle disposizioni generali della tariffa forense approvata con D.M. 26 settembre 1979, per cui il valore della causa, da assumere a base della liquidazione degli onorari a carico della parte soccombente, è determinato a norma del codice di procedura civile, per l'opposizione a sentenza dichiarativa di fallimento trova applicazione in via analogica la normativa dello art. 17 prima parte cod. proc. civ. (che determina il valore delle cause di opposizione all'esecuzione), sicché il valore della relativa causa si determina in base all'ammontare del passivo, quale risultante dalla somma dei crediti ammessi alla procedura concorsuale, senza alcuna possibilità di distinguere tra opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento proposta per motivi di forma e opposizione proposta per motivi di merito. (Il Fallimento, 1985, 50) Cassazione civ., Sez. I, 29 ottobre 1981, n. 5701 In applicazione della norma dell'art. 6 delle disposizioni generali della tariffa forense approvata con D.M. 26 settembre 1979, per cui il valore della causa - da assumere a base della liquidazione degli onorari a carico della parte soccombente - è determinato a norma del Codice di procedura civile, l'opposizione a sentenza dichiarativa di fallimento è riconducibile all'ipotesi dell'art. 17, prima parte, c.p.c., di guisa che il valore della relativa causa si determina in base all'ammontare del passivo. (Fall., 1982, 1172) COMPENSO DEL CURATORE Corte Costituzionale 28 aprile 2006, n. 174 È costituzionalmente illegittimo l'art. 146, comma 3,D.P.R. 30 maggio 2002 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia - Testo A), nella parte in cui non prevede che sono da anticiparsi all'Erario le spese e onorari al curatore anche in ipotesi di procedura incapiente. (Dir. fall. soc. comm., 2007, II, 199, nota di OLLA). Cassazione civ., Sez. I, 22 settembre 2004, n. 18996 In tema di liquidazione del compenso al curatore del fallimento, le percentuali previste, con riguardo all'entità dell'attivo, dall'art. 1,D.M. 28 luglio 1992 vanno applicate sull'attivo realizzato - inteso come liquidità rinvenute nel patrimonio del fallito, o derivate dalla vendita dei beni mobili e immobili, o riscosse dai debitori, o comunque acquisite alla massa attraverso azioni giudiziarie - e non sul valore di inventario dei beni. (Lex24 & Repertorio24) Cassazione civ., Sez. I, 6 novembre 1999, n. 12349 Nel caso di revoca della sentenza dichiarativa di fallimento e in assenza di condanna al pagamento delle spese nei confronti del creditore istante, il compenso del curatore va posto a carico dell'erario, in virtù dell'officiosità della procedura fallimentare e del munus publicum prestato dal curatore medesimo quale organo svincolato da rapporti di parte. (Foro it., 2000, 6, 1912, I) COMPENSO DEGLI AUSILIARI

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Cassazione civ., Sez. I, 26 gennaio 2005, n. 1568 Il coadiutore del curatore fallimentare (figura prevista dal comma 2 dell'art. 32 legge fall.), la cui opera è integrativa dell'attività del curatore, svolgendo funzioni di collaborazione e di assistenza nell'ambito e per gli scopi della procedura concorsuale, assume la veste di ausiliario del giudice; pertanto il suo compenso deve essere determinato in base alla tariffa giudiziale prevista per i periti e i consulenti tecnici, e non alla tariffa professionale, la quale va invece applicata allorché si sia instaurato un vero e proprio rapporto di lavoro autonomo (opera professionale), essendo stato il professionista officiato dal fallimento per svolgere la propria opera in determinate attività e operazioni. (Nella fattispecie la Cassazione ha pertanto respinto il ricorso di un professionista - il quale invocava l'applicazione della tariffa professionale dei consulenti del lavoro approvata con D.M. 15 luglio 1992, n. 430, espressamente applicabile «anche per le prestazioni rese nei confronti degli organi preposti alle procedure concorsuali» - sul rilievo che lo stesso era stato qualificato dal giudice di merito come coadiutore). (Lex24 & Repertorio24) Cassazione civ., Sez. 1, 26 giugno 1992, n. 8022 Il compenso dell'ausiliario della procedura fallimentare, che abbia esercitato anche funzioni di coadiutore, va determinato, in relazioni alle prime, sulla base dei criteri di liquidazione del compenso al curatore (mentre, per le funzioni di mera collaborazione, vanno utilizzati i criteri di liquidazione relativi ai consulenti). Peraltro, ai fini del quantum, non possono essere applicate sic et simpliciter le percentuali previste per il curatore, le quali si riferiscono al complesso dell'attività da questo prestata per l'intera procedura concorsuale, ma deve tenersi conto dell'attività effettivamente svolta dal delegato, dell'importanza della procedura e del tempo impiegato, restando consentito per i singoli atti liquidare compensi al di sotto del limite minimo previsto per il curatore. (Lex24 & Repertorio24) Cassazione civ., Sez. I, 15 settembre 1978, n. 4146 Mentre il compenso per il delegato del curatore, di cui al primo comma dell'art. 32 della legge fallimentare, deve essere liquidato con gli stessi criteri stabiliti per quello del curatore dal D.M. 16 luglio 1965, con relativa spesa a carico del curatore medesimo, il compenso per il coadiutore del curatore, nominato ai sensi del secondo comma della citata norma (nella specie, ingegnere incaricato di individuare e stimare immobili del fallito), è a carico della massa fallimentare e va liquidato non secondo tariffa professionale, ma alla stregua delle disposizioni della legge 1° dicembre 1956, n. 1426, sulle spettanze dei periti giudiziari (modificata dalla legge 13 luglio 1965, n. 836).Tale principio manifestamente non pone la citata legge n. 1426 del 1956 in contrasto con gli artt. 3 e 35 Cost., in relazione alla maggiore entità del compenso spettante al professionista secondo tariffa, atteso che il minor emolumento dovuto al coadiutore del curatore si ricollega all'esigenza di contenimento delle spese nel processo fallimentare, e trova obiettiva giustificazione nella non riconducibilità, nell'ambito delle prestazioni di lavoro autonomo in senso stretto, di un'attività svolta nella veste di ausiliario del giudice. (Dir. fall., 1978, I, 586) la DOTTRINA

Per approfondimenti dottrinali

- CECCHELLA, Il diritto fallimentare riformato, Il Sole 24 Ore, 2007;

- DE SANTIS, «Valore della causa di opposizione a dichiarazione di fallimento», in Foro it., 1994, 1872;

- FAUSTINI, «Il valore della causa di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento ai fini della determinazione della misura dei diritti e degli onorari del difensore», in www.judicium.it;

- FIALE, Diritto fallimentare, Simone, 2007;

- MAFFEI ALBERTI, Commentario breve alla legge fallimentare, Cedam, 2007;

- OLLA, «Revirement della Corte Costituzionale in materia di compenso al curatore», in Diritto fallimentare e

delle società commerciali, 2007, II, 199;

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- RUGGIERO, «Art. 32» in La legge fallimentare , Commentario teorico-pratico, (a cura di) Ferro, Cedam, 2007, 246 ss.

le CONCLUSIONI Dalle considerazioni svolte emerge che il valore della causa di dichiarazione di fallimento e della causa di opposizione è indeterminabile, perché l'oggetto della domanda non è la contestazione del singolo credito, come accade nell'esecuzione individuale, ma l'accertamento dello stato di insolvenza. Pertanto, il difensore ha diritto alla liquidazione degli onorari, secondo gli scaglioni previsti per cause di valore indeterminabile, nella Tabella A II relativa agli onorari giudiziali, per le cause avanti al Tribunale, di cui al D.M. n. 127/2004. Se il fallimento è negativo, l'Erario è tenuto a corrispondere gli onorari al curatore. Tuttavia, nel caso di passivo molto elevato e attivo modesto, è possibile garantire la remuneratività della funzione di curatore, contenendo la spesa pubblica. Tale obiettivo si raggiunge, considerando gli scaglioni di cui all'art. 1, D.M. n. 570/1992, come limiti massimi, e valutando l'attività effettivamente svolta dal curatore, secondo criteri di efficienza ed efficacia, quali i risultati ottenuti, l'importanza del fallimento e la sollecitudine delle operazioni. L'onorario del delegato si liquida secondo gli stessi criteri previsti per il curatore, anche perché il delegato sostituisce il curatore nelle medesime attività. Dunque l'onorario del delegato è detratto dal compenso dovuto al curatore. Invece l'onorario del coadiutore è determinato secondo i criteri applicabili agli ausiliari del giudice ex artt. 49 ss. D.P.R. n. 115/2002. Infatti il coadiutore non svolge attività di lavoro autonomo, ma presta la sua attività come collaboratore del giudice. la PRATICA Caso relativo al compenso del curatore posto a carico dell'Erario Di fronte a decine di migliaia di fallimenti incapienti, chiusi dalle Sezioni fallimentari italiane, si determina un rilevante onere globale a carico del bilancio annuale dello Stato, che deve “garantire” copertura al compenso del curatore. Tutto ciò è la conseguenza pratica della sentenza della Corte Costituzionale 28 aprile 2006, n. 174. In particolare si può porre il problema di liquidare il compenso del curatore in procedure fallimentari in cui sono state accertate passività di decine o centinaia di milioni di euro, mentre l'attivo è molto modesto o inesistente. Questa situazione si configura, ad es., quando creditori istituzionali insinuano al passivo crediti conseguenti a violazioni tributarie gravi, oppure oneri sostenuti per mettere in sicurezza o bonificare aree delle società fallite. In un caso specifico il curatore fallimentare ha accertato passività per un importo prossimo a 140 milioni di euro, riconducibili in prevalenza a oneri di bonifica. L'attivo realizzato è stato di soli 240.000 euro. Pertanto il compenso minimo spettante al curatore, senza considerare Iva e cassa previdenziale, si aggira intorno a 369.000 euro, di cui 346.000 imputabili al solo passivo accertato. A carico dell'Erario resterebbero circa 150.000 euro. È evidente allora che, se da una parte va rispettato il principio di remuneratività dell'attività di curatore, e dunque il curatore ha tutto il diritto di ricevere il proprio compenso da chi è obbligato, dall'altra non si può “gonfiare”troppo la spesa pubblica. Alcuni Tribunali, tra cui in prima linea la Sezione fallimentare di Milano, a partire dal 9 febbraio 2004, hanno cercato di prevenire qualsiasi rischio di responsabilità erariale, predisponendo una tabella dei compensi del curatore, che consenta la liquidazione dei compensi secondo una misura minima, media o massima, e secondo i principi di efficienza ed efficacia ex art. 1, D.M. n. 570/1992. In particolare, nel caso di fallimento incapiente il Tribunale di Milano determina il compenso del curatore secondo la misura minima della tabella, ponendo tale compenso in tutto o in parte a carico dell'Erario.

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Approfondimenti di Lex24 Diritto di famiglia Amministrazione di sostegno anche per il cittadino extracomunitario Legge 9 gennaio 2004, n. 6 Laura Tavelli, network giuridico CENDON&Partners - a cura di Lex24 Reati contro il patrimonio Furto di energia elettrica: reato permanente o a consumazione prolungata? Corte d'Appello di Palermo, Sezione 4, Sentenza 11 marzo 2011, n. 837 a cura di Lex24 Società di capitali Compiti e responsabilità degli amministratori delle società di capitali Corte di Cassazione, Sezione I, Sentenza 27 aprile 2011, n. 9384 a cura di Lex24 ALBO PROFESSIONALE Negata l'equiparabilità tra magistrati onorari e magistrati dell'ordine giudiziario Corte di Cassazione Sezioni Unite civili – Sentenza 29 marzo 2011, n. 7099 Chiara Teodorani, avvocato - a cura di Lex24 Amministrazione di sostegno anche per il cittadino extracomunitario Legge 9 gennaio 2004, n. 6 Laura Tavelli, network giuridico CENDON&Partners - a cura di Lex24 Problemi per l’applicabilità dell’istituto dell’amministratore di sostegno correlata alla competenza territoriale sorgono qualora il beneficiario del provvedimento risulti essere o un cittadino italiano residente all’estero o cittadini stranieri con residenza o domicilio in territorio italiano. Sicuramente il richiamo alla normativa italiana da applicare ai casi sopra indicati sarà differente. Per quanto concerne il cittadino italiano residente all’estero, come si potrà vedere di seguito, la legge da applicare sarà sempre quella italiana, mentre la competenza può spettare al Giudice Tutelare o al Capo dell’ufficio consolare di I categoria, ovvero il titolare, il capo di missione diplomatica nell'esercizio di funzioni consolari (Tribunale di Mantova, 17 marzo 2007). Il decreto emesso dal Giudice Tutelare comportando, nella maggior parte dei casi, una limitazione della capacità di agire del soggetto interessato, va ad intaccare lo stato e la capacità delle persone escludendo, pertanto, a priori l’ambito di applicazione del regolamento C.E. n.44/01 art.1 comma 2 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale e trovando, invece, applicazione l’art. 9 della legge n.218/95 (norme di diritto internazionale privato) dove in materia di volontaria giurisdizione, la giurisdizione italiana sussiste, oltre che nei casi specificamente contemplati dalla legge e in quelli in cui è prevista la competenza per territorio di un giudice italiano, quando il provvedimento richiesto concerne un cittadino italiano o una persona residente in Italia o quando esso riguarda situazioni o rapporti ai quali è applicabile la legge italiana. Ove, comunque, non si dovessero presentare nel decreto delle limitazioni della capacità della persona, e pertanto facendo rientrare la figura giuridica dell’amministratore di sostegno nell’ambito di applicazione della giurisdizione contenziosa, ai sensi del regolamento Ce n.44/01, non si deve assolutamente scordare che il convenuto (nel caso de quo beneficiario) possiede la cittadinanza italiana e quindi sussiste già un momento di collegamento idoneo a radicare la giurisdizione italiana. Altro problema, invece, è il luogo in cui deve essere incardinato il procedimento ai sensi dell’art. 404 c.c. ai fini dell’individuazione del Giudice competente per territorio. Attraverso un criterio di analogia tra la figura giuridica dell’amministratore di sostegno e dell’interdizione e dell’inabilitazione, si ritiene competente a pronunciarsi il Tribunale di ultima residenza in Italia del beneficiario e nel caso in cui non abbia mai avuto residenza in Italia risulterebbe essere competente il Tribunale di Roma, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. 200/67 in materia di interdizione e inabilitazione. Nel caso in cui non si riscontrasse tale analogia si ricorrerebbe al Capo dell'ufficio consolare di I categoria, il quale, ai sensi dell’art. 35 del D.P.R. 200/67, può emanare, quando particolari circostanze lo consiglino, nei confronti dei cittadini residenti nella circoscrizione, stabilita ai sensi dell’art. 43 e ss. c.c., i provvedimenti di volontaria

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giurisdizione, in materia di diritto di famiglia e di successioni, di competenza del giudice tutelare (Corte Cost. n. 51/2010). Per lo straniero extracomunitario l’applicazione delle norme riguardanti l’amministratore di sostegno può presentare delle difficoltà, in quanto la normativa internazionale di diritto privato prevede che i presupposti e gli effetti delle misure di protezione degli incapaci maggiori di età, nonché i rapporti fra l’incapace e chi ne ha la cura, sono regolati dalla legge nazionale dell’incapace. Nulla questio, comunque, per l’applicazione della legge italiana e in particolare dell’istituto dell’amministratore di sostegno anche allo straniero qualora la legge nazionale, per via delle previsioni di cui all’art. 13 l. 218/1995, rinvii indietro alla legge italiana o laddove l’istituto straniero di protezione del disabile sia compatibile con l’amministrazione di sostegno o qualora il giudice non riesca ad accertare la legge straniera indicata, neanche con l’aiuto delle parti, e non siano presenti altri criteri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa, ex art. 14 comma 2 l.218/95 (Tribunale di Verona del 11.3.2011). Per completezza, in aggiunta, necessita ricordare che sempre in materia di protezione internazionale degli adulti, l’Italia ha firmato la convenzione dell’Aja del 13.01.2000, nonostante a tutt’oggi non vi è stata alcuna ratifica. “La convenzione comporta comunque un utile ausilio nel caso in cui la legge straniera applicabile non contenga un rinvio indietro alla legge italiana né preveda un istituto analogo all’amministrazione di sostegno” (Tribunale di Verona 2008). Tuttavia non va ignorato che gli artt. 43 e 44 l. 218/1995 prevedono che “per proteggere in via provvisoria e urgente la persona o i beni dell’incapace il giudice italiano può adottare le misure previste dalla legge italiana”. © RIPRODUZIONE RISERVATA Furto di energia elettrica: reato permanente o a consumazione prolungata? Corte d'Appello di Palermo, Sezione 4, Sentenza 11 marzo 2011, n. 837 a cura di Lex24 SELEZIONE TRATTA DALLA BANCA DATI A CURA DI LEX24 Furto di energia elettrica - Delitto a consumazione prolungata - Effetti - Rilevanza unitaria delle plurime captazioni di energia - Sussistenza. Il furto di energia elettrica rientra tra i delitti a consumazione prolungata (o a condotta frazionata), perché l'evento continua a prodursi nel tempo sebbene con soluzione di continuità, sicché le plurime captazioni di energia che si susseguono nel tempo costituiscono singoli atti di un'unica azione furtiva. Corte d'Appello di Palermo, Sezione 4 Penale, sentenza 11 marzo 2011, n. 837 Impianto elettrico dell'agente - Collegamento alla presa Enel - Interruttore - Appropriazione dell'energia senza registrarne i consumi - Mancata corresponsione del prezzo - Configurabilità del delitto di furto aggravato. La presenza di un cavo direttamente collegato sulla presa Enel esezionabile mediante interruttore, finalizzata all'alimentazione dell'impianto dell'agente, costituisce circostanza idonea alla configurabilità del delitto di furto di energia elettrica, aggravato dall'uso del mezzo fraudolento, da identificarsi quest'ultimo proprio nella predisposizione del cavo nella presa Enel al fine di impedire, utilizzando il relativo interruttore, la rilevazione del consumo di energia da parte della società di erogazione. La descritta condotta, invero, nella parte in cui consente all'utente di ottenere la fornitura secondo il fabbisogno necessario senza la registrazione del consumo, configura l'impossessamento del bene illecitamente, giacché non solo non provvede alla controprestazione, ma altresì impedisce, con il rilevato espediente, la registrazione del consumo, integrando la sottrazione dell'ingiusto profitto. Accertate nella specie circostanze, per quanto innanzi, idonee alla integrazione del delitto di furto aggravato, alcun rilievo può attribuirsi all'assunto difensivo nella parte in cui sostiene che l'intervento illegale sarebbe stata posto in essere, di propria iniziativa, da persona intervenuta al solo fine di ovviare ad un guasto improvviso dell'impianto, senza rendere di ciò edotto colui a vantaggio del quale l'impianto stesso era realizzato. Tribunale Bari, Sezione 2 Penale, sentenza 4 marzo 2011, n. 468

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Furto di energia elettrica - Semplice allacciamento abusivo - Esclusione dell'aggravante dell'uso del mezzo fraudolento. In tema di furto di energia elettrica non è ravvisabile l'aggravante dell'uso del mezzo fraudolento di cui all'art. 625, n. 2 C.p. nel semplice allacciamento abusivo all'altrui contatore. L'uso del mezzo fraudolento di cui alla norma, infatti, presuppone che la condotta della sottrazione si sia accompagnata da uno stratagemma idoneo a nascondere l'accadimento al proprietario del bene, cosa che non può dirsi in relazione al semplice collegamento dei fili elettrici che integra, di per se, un elemento costitutivo del reato (in quanto rende possibile il furto di energia) non idoneo da solo, dove non espressamente camuffato, ad integrare l'aggravante in parola. Tribunale Ruvo di Puglia, Penale, sentenza 18 febbraio 2010, n. 46 Furto di energia elettrica - Allaccio abusivo al contatore di altro soggetto - Circostanze e presupposti per la configurabilità della fattispecie - Interesse esclusivo del prevenuto - Imputabilità. Incorre nell'imputazione per il reato di furto di cui all'art. 624 c.p., il prevenuto che, allacciandosi abusivamente al contatore ENEL della p.o., abbia usufruito del servizio a seguito della sospensione della fornitura per morosità nel pagamento delle bollette. In merito al delitto ascritto, non possono sussistere dubbi in ordine alla colpevolezza dell'imputato laddove il furto in questione non possa essere addebitato ad altro soggetto stante l'interesse esclusivo dell'imputato di beneficiare del servizio, ai danni della persona offesa ed a causa della sua morosità. Tribunale Perugia, Penale, sentenza 30 gennaio 2010, n. 1296 Furto - Oggetto di furto di energia elettrica - Natura del reato - Reato a "consumazione prolungata" - Conseguenze in tema di flagranza di reato. Il reato di furto di energia elettrica commesso mediante abusivo allacciamento alla rete di distribuzione va qualificato, nel caso in cui i vari prelievi di energia si susseguano nel tempo, come reato non permanente ma piuttosto definibile "a consumazione prolungata" o "a condotta frazionata", con conseguente configurabilità, comunque, quando la captazione sia in atto, dello stato di flagranza. Corte di Cassazione, Sezione 2 Civile, sentenza 22 gennaio 2010, n. 1201 Reati contro il patrimonio - Delitti - Furto - Circostanza aggravanti - In genere - Furto di energia elettrica - Natura giuridica - Momento consumativo - Flagranza di reato. Il furto di energia elettrica rientra tra i delitti a consumazione prolungata (o a condotta frazionata), perché l'evento continua a prodursi nel tempo, sebbene con soluzione di continuità, sicché le plurime captazioni di energia che si susseguono nel tempo costituiscono singoli atti di un'unica azione furtiva, e spostano in avanti la cessazione della consumazione fino all'ultimo prelievo. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto che il delitto è flagrante se all'atto dell'intervento della P.G. la captazione di energia elettrica è ancora in atto). Corte di Cassazione, Sezione 4 Penale, sentenza 14 gennaio 2010, n. 1537 Furto - Oggetto - Furto di energia elettrica - Natura del reato - Reato a "consumazione prolungata" - Conseguenze in tema di flagranza di reato Il reato di furto di energia elettrica commesso mediante abusivo allacciamento alla rete di distribuzione va qualificato, nel caso in cui i vari prelievi di energia si susseguano nel tempo, come reato non permanente ma piuttosto definibile "a consumazione prolungata" o "a condotta frazionata", con conseguente configurabilità, comunque, quando la captazione sia in atto, dello stato di flagranza. Corte di Cassazione, Sezione 4 Penale, sentenza 14 gennaio 2010, n. 1537 Furto - Alterazione di contatore elettrico - Asportazione dei sigilli - Aggravante di cui all'art. 625, n. 2. In tema di furto perpetrato mediante l'alterazione di un contatore elettrico al fine di far risultare una potenza impiegata ed una energia fornita inferiore alla realtà, integra l'aggravante di cui all'art. 625, n. 2 c.p. l'avere rimosso i sigilli posti sul coprimorsetto del contatore per porre in essere la condotta illecita. Tribunale Cassino, Penale, sentenza 23 giugno 2009, n. 403 Furto di energia elettrica - Idoneità del contratto d'affitto privo di data certa a far sorgere dubbi sull'attribuibilità del reato al proprietario dell'immobile - Sussistenza. (Cp, art. 624)

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L'incertezza in ordine alla effettiva attribuibilità all'imputato del reato di furto di energia elettrica può essere dal giudice motivata anche in relazione alla produzione di un contratto di affitto non registrato e, pertanto, privo di data certa, ciò, tuttavia, ove l'efficacia sostanziale dell'atto negoziale, ancorché invalido sotto il profilo civilistico, abbia ricevuto ampio riscontro attraverso l'acquisizione di fonti testimoniali. Tribunale di Cassino, sentenza 7 maggio 2009, n. 270 Indagini preliminari - Arresto in flagranza - Stato di flagranza - Delitti a condotta frazionata - Furto di energia elettrica - Consumazione - Conseguenze. Lo stato di flagranza nella commissione del delitto di furto di energia elettrica si protrae sino al momento in cui l'utenza, su cui sono operate le plurime captazioni, è attiva. (La Corte ha chiarito che il delitto è a condotta frazionata, o a consumazione prolungata, sicchè le captazioni successive alla prima non costituiscono "post factum" penalmente irrilevante, nè singole ed autonome azioni costituenti altrettanti furti, ma atti di un'unica azione furtiva). Corte di Cassazione, Sezione 4 Penale, sentenza 5 maggio 2009, n. 18485 Reato - Circostanze - Attenuanti comuni - Danno patrimoniale di speciale tenuità - Furto di energia elettrica realizzato con l'abusivo allacciamento - Compatibilità con l'attenuante di cui all'art. 62 n. 4 cod. pen. - Esclusione. In tema di furto di energia elettrica in utenza domestica, l'attenuante del danno di particolare lievità non può, di regola, essere concessa in quanto nelle abitazioni l'appropriazione illecita di energia avviene con flusso continuo e la consumazione del reato deve ritenersi protratta per tutto il periodo in cui la casa venga abitata. Corte di Cassazione, Sezione 4 Penale, sentenza 5 maggio 2009, n. 18485 Furto - Furto di energia elettrica - Circostanze attenuanti - Danno patrimoniale di speciale tenuità - Concedibilità - Esclusione. In tema di furto di energia elettrica in utenza domestica, l'attenuante di cui all'articolo 62, n. 4, del Cp non può, di regola, essere concessa, pur in ragione dei singoli esigui prelievi di energia di volta in volta captati, in quanto nelle abitazioni l'appropriazione illecita di energia avviene con flusso continuo e la consumazione del reato deve ritenersi protratta per tutto il periodo in cui la casa venga abitata. Corte di Cassazione, Sezione 4 Penale, sentenza 5 maggio 2009, n. 18485 Furto - Furto di energia elettrica - Circostanze attenuanti - Danno patrimoniale di speciale tenuità - Concedibilità - Esclusione. (Cp, articoli 62, n. 4, 624 e 625) In tema di furto di energia elettrica in utenza domestica, l'attenuante di cui all'articolo 62, n. 4, del Cp non può, di regola, essere concessa, pur in ragione dei singoli esigui prelievi di energia di volta in volta captati, in quanto nelle abitazioni l'appropriazione illecita di energia avviene con flusso continuo e la consumazione del reato deve ritenersi protratta per tutto il periodo in cui la casa venga abitata. Corte di Cassazione, Sezione 4 Penale, sentenza 5 maggio 2009, n. 18485 Reati contro il patrimonio - Delitti - Furto - In genere - Furto di energia elettrica - Natura - Reato permanente - Esclusione - Reato a consumazione prolungata - Conseguenze in termini di decorrenza della prescrizione. Il termine di prescrizione del delitto di furto di energia elettrica decorre dall'ultima delle plurime captazioni di energia, che costituiscono i singoli atti di un'unica azione furtiva a consumazione prolungata. Corte di Cassazione, Sezione 4 Penale, sentenza 22 aprile 2009, n. 17036 Casi simili Allaccio abusivo alla rete idrica pubblica - Configurabilità del furto aggravato ex artt. 624, 625, nn. 2 e 7, c.p. - Sussistenza - Motivi. Integra gli estremi del furto aggravato ex artt. 624, 625, nn. 2 e 7, c.p., la realizzazione non autorizzata di una diramazione che allacci l'unità abitativa alla rete idrica pubblica, infatti, da un lato, l'esecuzione di un allaccio sulla conduttura idrica integra l'aggravante della violenza sulle cose e, dall'altro, la destinazione pubblica della res furtiva implica la ricorrenza al caso di specie anche della diversa circostanza di cui al n. 7 dell'art. 625 c.p.

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Tribunale Cassino, Penale, sentenza 20 gennaio 2011, n. 25 Furto aggravato e continuato di acque reflue urbane - Furto aggravato di acque pubbliche - Depenalizzazione - Impossessamento abusivo di acque pibbliche - Sanzione amministrativa - Norma speciale. Il reato di furto aggravato di acque pubbliche deve ritenersi depenalizzato, posto che l'art. 23 del D.Lgs. n. 152 del 1999 sanziona in maniera specifica, solo in via amministrativa, proprio la condotta di impossessamento abusivo di acque pubbliche. Tale norma, in particolare, in applicazione del principio di specialità anche rispetto al concorso apparente di norme coesistenti di natura rispettivamente penale ed amministrativa, costituisce norma speciale rispetto a quella generale di cui all'art. 624 c.p.. Le due norme, invero, regolano entrambe l'impossessamento di un bene altrui (ai sensi dell'art. 23 citato è fatto divieto di derivare o utilizzare acqua pubblica senza un provvedimento autorizzativo o concessorio dell'autorità competente) al fine, evidente, di trarne vantaggio,ma la fattispecie amministrativa presenta due elementi specializzanti: l'oggetto della condotta illecita - l'acqua - ed il dolo specifico, la finalità industriale. Tribunale Ruvo Di Puglia, Penale, sentenza 28 luglio 2010, n. 270 © RIPRODUZIONE RISERVATA Compiti e responsabilità degli amministratori delle società di capitali Corte di Cassazione, Sezione I, Sentenza 27 aprile 2011, n. 9384 a cura di Lex24 Società di capitali - Amministratori - Responsabilità verso la società - Ruolo e funzioni - Fattispecie concernente esercizio di attività assicurativa in un ramo non autorizzato. (Cc, artt. 2392 e 2393) In tema di società di capitali, gli amministratori non costituiscono soltanto l'organo cui è demandata l'esecuzione delle delibere dell'assemblea, ma svolgono anche una funzione propulsiva dell'attività di quest'ultima, oltre ad avere la gestione dell'attività sociale ed a poter compiere, nello svolgimento della stessa, tutte le operazioni che rientrano nell'oggetto della società. In caso di esercizio di attività assicurativa in un ramo non autorizzato, proprio la centralità del ruolo spettante agli amministratori rende ragione della riconducibilità alla loro condotta dell'illecito commesso dalla società, non essendo immaginabile che una così vistosa deviazione dell'attività assicurativa dai limiti segnati dalla disciplina di settore abbia potuto verificarsi senza l'apporto o comunque al di fuori del controllo dell'organo cui compete la gestione dell'attività sociale (Alla luce del principio espresso, la Suprema Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata nella quale la corte di merito aveva fondato l'affermazione della responsabilità degli amministratori sulla considerazione che l'esercizio dell'attività assicurativa in un ramo non autorizzato, accertato nel giudizio di opposizione alla sanzione amministrativa, costituisse indubitabilmente un'evidente violazione di legge connessa agli obblighi gestori degli amministratori di una compagnia di assicurazioni). Corte di Cassazione, Sezione I, sentenza 27 aprile 2011, n. 9384 - Presidente Proto - Relatore Mercolino Società di capitali - Amministratori - Responsabilità verso la società - Azione sociale per i danni cagionati alla società - Natura contrattuale - Conseguenze in ordine all'onere della prova - Individuazione. (Cc, artt. 2392 e 2393) La natura contrattuale dell'azione prevista dall'art. 2392 c.c., comporta che, ai fini del suo accoglimento, la società ha l'onere di provare soltanto la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità fra le stesse ed il danno verificatosi, mentre incombe sugli amministratori l'onere di dimostrare la non imputabilità a sè del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell'osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi loro imposti. (1) Corte di Cassazione, Sezione I, sentenza 27 aprile 2011, n. 9384 - Presidente Proto - Relatore Mercolino (1) In senso conforme, vedi, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 11 novembre 2010, n. 22911, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 29 ottobre 2008, n. 25977.

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Società di capitali - Amministratori - Responsabilità verso la società - Responsabilità solidale - Deleghe gestorie - Esonero da responsabilità degli amministratori non esecutivi - Limiti. (Cc, artt. 2392 e 2393) Nell'ambito temporale di applicazione dell'art. 2392 c.c., nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, il dovere di vigilare sul generale andamento della società, che il comma 2, della predetta disposizione pone a carico degli amministratori, permane anche in caso di attribuzione di funzioni al comitato esecutivo o a singoli amministratori delegati, salva la prova che i rimanenti consiglieri, pur essendosi diligentemente attivati, non abbiano potuto in concreto esercitare la predetta vigilanza a causa del comportamento ostativo degli altri componenti del consiglio. (1) Corte di Cassazione, Sezione I, sentenza 27 aprile 2011, n. 9384 - Presidente Proto - Relatore Mercolino (1) In senso conforme, vedi, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 11 novembre 2010, n. 22911, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 13 maggio 2010, n. 11643, Cassazione civile, Sez. L, sentenza 24 giugno 2004, n. 11751. Società di capitali - Amministratori - Responsabilità - Azione individuale del socio e del terzo - Ambito di applicazione - Individuazione. (Cc, art. 2395) In tema di società di capitali, l'art. 2395, primo comma, c.c., disciplina l'azione individuale del socio o del terzo, stabilendo che questi hanno diritto al risarcimento del danno subito, qualora "siano stati direttamente danneggiati" da atti dolosi o colposi degli amministratori, richiedendo, quindi, fatti illeciti direttamente imputabili ad un comportamento doloso o colposo dei medesimi. L'avverbio "direttamente" delimita l'ambito di esperibilità dell'azione ex art. 2395 c.c. rispetto alle fattispecie disciplinate dagli artt. 2393 e 2394 c.c. rendendo palese che il discrimine tra le stesse non va individuato nei presupposti stabiliti dalla legge per il sorgere di tali forme di responsabilità (che consistono pur sempre nella violazione, dolosa o colposa, dei doveri ad essi imposti dalla legge o dall'atto costitutivo), bensì nelle conseguenze che il comportamento illegittimo degli amministratori ha determinato nel patrimonio del socio o del terzo. Se il danno allegato costituisce solo il riflesso di quello cagionato al patrimonio sociale, si è al di fuori dell'ambito di applicazione dell'art. 2395 c.c., in quanto tale norma richiede che il danno abbia investito direttamente il patrimonio del socio o del terzo. (1) Corte di Cassazione, Sezione III, sentenza 22 marzo 2011, n. 6558 - Presidente Preden - Relatore Segreto (1) In argomento, confronta, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 5 agosto 2008, n. 21130, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 25 luglio 2007, n. 16416, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 3 aprile 2007, n. 8359. Pertanto, secondo consolidato orientamento, precisa la Suprema Corte, neppure rileva che il danno sia stato arrecato dagli amministratori nell'esercizio del loro ufficio o al di fuori di tali incombenze, ovvero che tale danno sia (o meno) ricollegabile ad un inadempimento della società, né infine che l'atto lesivo sia stato eventualmente compiuto dagli amministratori nell'interesse della società e a suo vantaggio, dato che la formulazione dell'art. 2395 c.c. pone in evidenza che l'unico dato significativo ai fini della sua applicazione è costituito appunto dall'incidenza del danno (cfr., Cassazione civile, Sez. I, sentenza 28 febbraio 1998, n. 2251, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 28 marzo 1996, n. 2850, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 22 gennaio 1993, n. 781). © RIPRODUZIONE RISERVATA Negata l'equiparabilità tra magistrati onorari e magistrati dell'ordine giudiziario Corte di Cassazione Sezioni Unite civili – Sentenza 29 marzo 2011, n. 7099 Chiara Teodorani, avvocato - a cura di Lex24 Le Sezioni Unite confermano il principio di diritto per cui i magistrati onorari non sono equiparabili a quelli dell’ordine giudiziario. Conseguentemente ritengono che chi ha svolto funzioni di magistrato onorario non ha diritto all’iscrizione all’albo professionale degli avvocati. Corte di Cassazione Sezioni Unite civili – Sentenza 29 marzo 2011, n. 7099 Professioni – Albo avvocati - Iscrizione – Giudice onorario - Non ha diritto.

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Chi ha svolto la funzione di vice procuratore onorario non ha diritto, come i magistrati, all'iscrizione all'albo professionale degli avvocati, in quanto i magistrati onorari restano estranei che partecipano all'amministrazione della giustizia. In particolare, mentre i giudici di professione costituiscono l'ordine giudiziario cui l'art. 104 della Costituzione garantisce l'autonomia e l'indipendenza da ogni altro potere, i giudici onorari hanno riconosciuta dallo stesso ordinamento giudiziario solo un'appartenenza funzionale allo stesso ordine giudiziario, con la conseguenza che è escluso che abbiano il medesimo titolo dei togati all'iscrizione dell'albo degli avvocati. SINTESI NORMATIVA L’art. 4, R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 e successive modifiche, stabilisce che l’ordine giudiziario è costituito dagli uditori, dai giudici di ogni grado dei tribunali e delle corti e dai magistrati del pubblico Ministero, precisa poi, che appartengono a tale ordine come magistrati onorari i giudici di pace, i giudici onorari di tribunale, i vice procuratori, gli esperti del tribunale ordinario e della sezione di corte di appello per i minorenni ed, inoltre, giudici popolari della corte di assise e della corte di assise di appello. Il magistrato onorario è, quindi, un membro dell’ordine dell’Ordine giudiziario la cui funzione giurisdizionale è caratterizzata dalla temporaneità e dalla tendenziale gratuità, in quanto non riceve una retribuzione, ma solo un’indennità per l’attività svolta. In relazione alla funzione, alla durata o ai compensi, è necessario fare una distinzione fra: Giudice di Pace Giudice onorario di Tribunale Giudice onorario Aggregato Vice Procuratore Onorario Altri giudici In merito a quest’ultimi deve essere compiuta una ulteriore classificazione a seconda di chi interviene, a vario titolo, nel processo, come i giudici onorari del Tribunale per i minorenni, gli esperti della Sezione Specializzata Agraria o del Tribunale di Sorveglianza e i Giudici popolari e di chi si occupa di giurisdizioni diverse, come i giudici che svolgono funzioni di Consiglieri di Cassazione o i componenti delle Commissioni Tributarie. Le funzioni, i poteri e le regole che caratterizzano la magistratura, invece, emergono con chiarezza dalla Costituzione della Repubblica Italiana, al titolo IV, I sezione, ove in primis si evince all’art. 104 Cost. che la magistratura “costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Le successive norme, oltre a definire il ruolo proprio della magistratura, al tempo stesso evidenziano anche le relative differenze rispetto alla categoria dei magistrati onorari, infatti, all’art. 106 Cost. è stabilito che “le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso” e all’art. 108 Cost. si precisa che “le norme sull'ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge. La legge assicura l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all'amministrazione della giustizia”. Quest’ultima affermazione richiama l’attenzione sui magistrati onorari che vengono, pertanto, definiti da un lato come “estranei”, ma allo stesso tempo viene riconosciuta loro, l’indipendenza, svolgendo funzioni giurisdizionali. Costituzione della Repubblica Italiana: artt. 104 – 106- 108; R.D. 30 gennaio 1941, n. 12: art. 4; R.D. 27 novembre 1933, n. 1578 : art. 26 IL COMMENTO In fatto, il ricorrente avendo svolto funzioni di vice procuratore onorario per cinque anni consecutivi affermava di avere diritto all'iscrizione all'albo professionale degli avvocati ai sensi dell'art. 26, 1 comma, lett. b, R.D. del 27/11/1933, n. 1578. Il Consiglio Nazionale forense, con decisione del 28 novembre 2009,

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rigettava il ricorso ritenendo non equiparabile la posizione di magistrato onorario a quella di magistrato dell'ordine giudiziario. La decisione veniva impugnata dall'istante che, pur riconoscendo le differenze tra magistrati di ruolo e magistrati onorari, negava che tale mancata equiparazione potesse rilevare anche ai fini della iscrizione all'albo professionale degli avvocati e, conseguentemente, riteneva che il diniego dell'iscrizione ponesse dubbi sulla legittimità costituzionale, ex. art. 3 Cost., del differente trattamento tra categorie. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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A CURA DI GUIDA AL DIRITTO FALLIMENTO Proposta di accordo, lo stop alle azioni esecutive non è prorogabile Tribunale di Novara - Sezione civile fallimentare - Sentenza 2 maggio 2011 n. 26 Niccolò Nisivoccia a cura di Guida al Diritto 16 maggio 2011 Il provvedimento del Tribunale di Novara non solo è perfettamente coerente e speculare rispetto ad altri due recentissimi provvedimenti dello stesso Tribunale, ma ne rappresenta per così dire una specie d’ideale prosecuzione e completamento. Ci si riferisce ai due provvedimenti del Tribunale del Novara del 23 dicembre 2010 e del 31 gennaio 2011 (si legga il commento) , che a loro volta avevano costituito una delle prime applicazioni del nuovo sesto comma dell’articolo 182 bis legge fallimentare (introdotto dal Dl 78 del 31 maggio 2010), in virtù del quale il divieto di azioni esecutive o cautelari sul patrimonio del debitore può essere pronunciato, su istanza del debitore, “anche nel corso delle trattative e prima della formalizzazione dell’accordo … depositando presso il tribunale competente … la documentazione di cui all’articolo 161, primo e secondo comma, e una proposta di accordo corredata da una dichiarazione dell’imprenditore, avente valore di autocertificazione, attestante che sulla proposta sono in corso trattative con i creditori che rappresentano almeno il sessanta per cento dei crediti e da una dichiarazione del professionista avente i requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), circa la idoneità della proposta, se accettata, ad assicurare il regolare pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno comunque negato la propria disponibilità a trattare”. L’istanza di fallimento è già azione esecutiva In particolare, con quei due provvedimenti il Tribunale aveva affermato che anche l’istanza di fallimento deve essere considerata come un’azione esecutiva; e che, ai fini della concessione del divieto, all’autorità giudiziaria spetta l’unico compito di riscontrare la completezza della documentazione richiesta dalla legge e la sussistenza della relazione di un professionista qualificato, il quale attesti l’attuabilità degli accordi. Ma non solo: il Tribunale aveva espresso anche la propria valutazione personale, dando atto di giudicare favorevolmente la possibilità (introdotta come detto dal Dl 78/2010) che il divieto di azioni esecutive o cautelari venga emesso già nel corso delle trattative, e non solo ad accordo pubblicato. In primo luogo, l’anticipazione del divieto di azioni esecutive o cautelari rispetto alla pubblicazione dell’accordo era stata già auspicata dalla dottrina, sulla base di attente riflessioni. In secondo luogo, la medesima anticipazione è prevista anche nell’ordinamento statunitense dalle norme del chapter 11, che hanno rappresentato il modello di riferimento delle nostre riforme concordatarie di questi anni. In terzo luogo, l’esperienza insegna che proprio mentre tratta con i creditori il debitore è esposto ai rischi più alti (a maggior ragione tenuto conto del fatto che l’accordo è pubblicato nel registro delle imprese ed è dunque facilmente conoscibile da chiunque); il che significa che proprio questa è la fase, nella quale l’esigenza di protezione è più urgente. Infine, il Tribunale osservava che “l’anticipato effetto protettivo si consolida e si ‘salda’ con quello successivo della durata di sessanta giorni, decorrente automaticamente dalla data di pubblicazione dell’accordo di ristrutturazione sul registro delle imprese: ‘saldatura’ determinata dal successivo decreto di omologazione, che acquista valore di ratifica ex tunc dell’anticipato effetto preclusivo del divieto di azioni esecutive e cautelari”. Il termine dei 60 giorni per il deposito… Ora, il provvedimento qui pubblicato ripete quelle considerazioni e, respingendo l’istanza del debitore che chiedeva una proroga della misura anticipatoria già concessa (non essendo ancora riuscito a depositare l’accordo, ma essendo a suo dire in procinto di farlo), le completa. Il Tribunale infatti non si è limitato ad osservare che la possibilità di una proroga non è prevista dalle norme, con la conseguenza che il provvedimento che l’ammettesse sarebbe “da considerarsi letteralmente e-norme: nel senso di esente da norme”; ma si è spinto anche in questo un poco più in là, preoccupandosi di giustificare la propria decisione anche da un punto di vista sistematico.

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Quanto al dato letterale, il Tribunale ha sottolineato che l’articolo 182 bis, nel prevedere la possibilità che il divieto di azioni esecutive venga anticipato alla fase delle trattative finalizzate alla conclusione dell’accordo, precisa che con il decreto che concede il divieto debba essere assegnato un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito dell’accordo di ristrutturazione; e di tale termine non è prevista la prorogabilità. …e quello analogo per l’inizio della trattazione Quanto al profilo sistematico, il Tribunale ha osservato che il procedimento, o meglio il sub--procedimento, diretto alla concessione della misura anticipatoria del divieto di azioni esecutive nel corso delle trattative, ex articolo 182 bis legge fallimentare, può essere considerato alla stregua di un procedimento cautelare tipico; e, come nell’ambito dei procedimenti cautelari tipici è previsto che la causa di merito debba avere inizio entro un certo termine (anche in quel caso non superiore a sessanta giorni), decorso il quale il provvedimento cautelare perde la propria efficacia, così anche nell’ambito del procedimento ex articolo 182 bis il termine entro cui l’accordo deve essere depositato può essere considerato come un termine di efficacia della misura anticipatoria eventualmente concessa. I due tipi di procedimento – quello cautelare tipico previsto dalle norme del codice di procedure civile e quello ex articolo 182 bis legge fallimentare – sarebbero insomma organizzati secondo la medesima logica: in entrambi i casi, al mancato assolvimento dell’onere entro il termine previsto (l’inizio della causa di merito o il deposito dell’accordo) conseguirebbe tout court la perdita della misura concessa (senza ulteriori possibilità di salvezza), e tale soluzione pare condivisibile. © RIPRODUZIONE RISERVATA LEGITTIMAZIONE AD AGIRE Il condomino può sempre impugnare la causa fatta dall’amministratore Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 16 maggio 2011 n. 10717 I singoli condomini possono sempre intervenire “autonomamente” a tutela dei propri diritti ed anche impugnare direttamente le decisioni del tribunale quando a portare avanti la causa del condominio è l’amministratore. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 10717/2011 di oggi rigettando il ricorso di un mobilificio che aveva fatto causa ad un complesso residenziale per risarcimento del danno. Per la Srl, che è ricorsa in Cassazione, la Corte di Appello aveva sbagliato a non rilevare d’ufficio la “nullità dell’appello perché proposto da soggetti diversi dalle parti del giudizio di primo grado”. Secondo i giudici di Piazza Cavour “se è vero che la legittimazione ad appellare deve essere riconosciuta soltanto ai soggetti che siano stati parti del giudizio di primo grado”, e che siano soccombenti, “deve però tenersi presente in senso contrario, che, configurandosi il condominio come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini” la sola “esistenza dell’amministratore non priva i singoli condomini della facoltà di agire a difesa dei diritti esclusivi e comuni inerenti all’edificio condominiale”. Dunque, i condomini, devono essere considerati “non terzi, ma parti originarie” e possono “intervenire nel giudizio in cui la difesa dei diritti sulle parti comuni sia stata già assunta dall’amministratore”. © RIPRODUZIONE RISERVATA OFFERTE COMMERCIALI La Cgue sdogana le pubblicità col solo prezzo di partenza Corte di giustizia - Sentenza 12 maggio 2011 - Causa C-122/10 Le offerte commerciali che adottano la formula di prezzo “a partire da…” non integrano di per sé una comunicazione ingannevole. La pubblicità, per essere lecita, deve, tuttavia, contenere, direttamente o tramite rinvio (per esempio al sito internet), tutti gli elementi in grado di permettere il calcolo del prezzo finale in modo tale da far prendere al consumatore una decisione di acquisto “consapevole”. In caso contrario, a verificare se l’omissione delle modalità di calcolo del prezzo finale abbia indotto il consumatore ad un acquisto, che altrimenti non avrebbe fatto, deve essere il giudice nazionale. Lo ha stabilito la Corte di giustizia europea con la sentenza 12 maggio 2011, nella Causa n. 122/10. Il caso era

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quello di una agenzia di viaggi svedese, La Ving, che nel 2008 aveva pubblicato su di in un quotidiano nazionale una pubblicità in cui proponeva viaggi a New York nel periodo tra settembre e dicembre, utilizzando appunto la formula “a partire da…”. Cosa prevede la direttiva I giudici di Lussemburgo hanno iniziato col ricordare che la direttiva 2005/29/CE, definisce come «invito all’acquisto» «una comunicazione commerciale indicante le caratteristiche e il prezzo del prodotto in forme appropriate rispetto al mezzo impiegato per la comunicazione commerciale e pertanto tale da consentire al consumatore di effettuare un acquisto». L’invito all’acquisto Pertanto, perché sussista un invito all’acquisto non è necessario che “la pubblicità comporti anche un mezzo concreto di acquistare il prodotto oppure che avvenga in prossimità o in occasione di un tale mezzo” Il prezzo di partenza La Corte non esclude quindi “che un «prezzo di partenza» (ovvero il prezzo minimo al quale è possibile acquistare il prodotto) possa soddisfare il requisito relativo all'indicazione del prezzo, quando invece il bene è disponibile anche in altre varianti, o con un contenuto diverso, a prezzi non indicati”. Ciò nei casi in cui “sia difficile mostrare il prezzo del prodotto per ciascuna delle sue varianti”. Spetta al giudice del rinvio verificare “se la menzione di un prezzo di partenza consenta al consumatore di prendere una decisione “consapevole” di natura commerciale oppure “lo induca a prendere una decisione che non avrebbe altrimenti preso”. L’informazione deve essere completa Con riguardo alle indicazioni sul prodotto poi “può essere sufficiente che siano indicate solamente alcune delle caratteristiche principali, se l'offerente rinvia, per il resto, al proprio sito Internet”. Però spetta sempre al giudice del rinvio valutare se la sola indicazione di alcune caratteristiche principali del prodotto permetta al consumatore di prendere una decisione consapevole. © RIPRODUZIONE RISERVATA RESPONSABILITA' PROFESSIONALE Avvocato responsabile verso il cliente se fa scadere i termini per l'appello confidando in una transazione Corte di cassazione - Sezione II civile - Sentenza 13 maggio 2011 n. 10686 L'avvocato è tenuto a risarcire il cliente se fa scadere i termini per l'appello confidando nella conclusione della vertenza con una transazione di cui è stato incaricato un altro collega. Lo ha chiarito la Cassazione secondo la quale il legale, pur non avendo la certezza che tale accordo fosse perfezionato e confidando incautamente nella sua conclusione, con la sua inerzia ha pregiudicato definitivamente le possibilità di comporre la vertenza in maniera più favorevole al suo assistito. Secondo i giudici di legittimità, infatti, si legge nella sentenza 10686/2011, la mancata sottoscrizione della bozza di transazione non è stata determinata dall'intransigenza delle controparti ma esclusivamente dal fatto che queste ultime, in conseguenza della mancata proposizione dell'appello, si sono trovate in una insperata posizione di forza data dal passaggio in giudicato del provvedimento di primo grado, sicuramente più vantaggioso rispetto all'accordo transattivo. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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MISURE CAUTELARI Decade automaticamente l'obbligo di dimora con la condanna definitiva al carcere Corte di Cassazione, sezioni unite penale, sentenza 11 maggio 2011 n. 18353 Al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna la misura coercitiva non custodiale cessa di diritto. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, a sezioni unite, con la sentenza 11 maggio 2011 n. 18353. I magistrati hanno precisato che "il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna a pena detentiva suscettibile di esecuzione comporta la caducazione immediata della misura coercitiva non custodiale già applicata a condannato". Inoltre la sentenza ha fissato altri due principi di diritto. Nel primo si sottolinea che "la cessazione, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, della misura coercitiva non custodiale in atto, opera di diritto, e non è necessario alcun provvedimento che la dichiari". E infine viene chiarito che "ove insorgano questioni in ordine alla misura coercitiva non custodiale nel periodo intercorrente tra il passaggio in giudicato della sentenza e il concreto avvio delle fase di esecuzione della pena, la competenza a deciderla spetta al giudice dell'esecuzione". © RIPRODUZIONE RISERVATA

A CURA DI LEX24 PROCEDURA PENALE La parte civile e il principio di immanenza di Claudio Coratella, Studio legale Coratella - A cura di Lex24 La costituzione di parte civile, una volta validamente intervenuta in primo grado in virtù di procura speciale conferita ai sensi dell’articolo 100 C.P.P., per il c.d. principio di immanenza, produce effetti in ogni stato e grado del processo. Come è noto, la parte civile è il soggetto che esercita l’azione civile nel processo penale nei confronti dell’imputato e del responsabile civile per la restituzione o il risarcimento del danno prodotto dal reato. In particolare, secondo il disposto dell’articolo 74 C.P.P., l’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento, di cui all’articolo 185 C.P., può essere esercitata nel processo penale dal soggetto al quale il reato ha recato danno o dai suoi successori universali, nei confronti dell’imputato e del responsabile civile. Essa è esercitata a mezzo di procuratore speciale mediante la costituzione di parte civile e tale atto può essere depositato nella cancelleria del giudice procedente oppure può essere presentato direttamente in udienza. Per il principio di immanenza della costituzione di parte civile di cui all’articolo 76, comma 2, C.P., questa, una volta intervenuta, produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo: la parte privata, pertanto, una volta costituita fa parte del processo anche se non è presente di persona al momento dell’accertamento della costituzione delle parti nella udienza preliminare o in quella dibattimentale del primo grado o di quelli successivi. Da ciò consegue anche che alla parte civile costituitaspetta la citazione per i gradi ulteriori del giudizio, senza obbligo di rinnovare la costituzione (Cass. Pen., Sez. V, 27/01/2010, n. 3519). Tuttavia, tale principio non dispensa la parte civile dal rispetto delle forme imposte dal codice di rito che regolano la sua presenza nel processo ed, in particolare, dal rispetto della previsione di cui all’articolo 100 C.P.P. ai sensi della quale la parte civile sta in giudizio a mezzo di un difensore munito di procura speciale, con la conseguenza che la designazione di un nuovo difensore comporta il rilascio di altra procura speciale al legale successivamente designato, a pena di nullità della costituzione. Una volta ammessa in primo grado, inoltre, la costituzione di parte civile non è contestabile nei gradi successivi e non può, pertanto, essere oggetto di impugnazione. Ciò in quanto la questione concernente l’inosservanza delle disposizioni relative alla regolare costituzione della parte civile è preclusa se non proposta subito dopo che sia stato compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti. La parte civile, poi, per il principio di immanenza della sua costituzione nel corso del procedimento, una volta ammessa, ha diritto di partecipare alle fasi successive alla prima e può ricorrere contro la sentenza di appello anche quando da essa non sia stata impugnata la pronuncia di primo grado o non sia stata proposta impugnazione ammissibile. Ed, infatti, se l’azione civile rimane validamente inserita nel processo penale fino alla sentenza irrevocabile, nessuna limitazione difensiva può incontrare il costituito il quale contro le pronunce a lui sfavorevoli di primo o di secondo grado può attivarsi con proprie impugnazioni o affidarsi, sia

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in appello che in cassazione, o solo in appello o solo in cassazione, agli eventuali gravami del pubblico ministero, con diritto, comunque, anche nella seconda evenienza, di partecipare e interloquire. E’ pur vero, però, che se il giudizio di impugnazione si risolve in una conferma della sentenza impugnata, sfavorevole alle ragioni della parte civile, questa non avendo proposto appello, non può poi proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di appello, non essendosi doluta, mediante autonoma impugnazione, della sentenza di primo grado (Cass. Pen., Sez. Sez. VI, 18/01/2010, n. 2005, in Guida al Diritto, 2010, Dossier 2, pg. 79; Cass. Pen., Sez. VI, 23/12/2009, n. 49497, Guida al Diritto, 2010, 8, pg. 88). Preme, infine, evidenziare che l’immanenza viene meno soltanto nel caso di revoca espressa e che i casi di revoca implicita previsti dal comma 2 dell’articolo 82 C.P.P. nel caso di mancata presentazione delle conclusioni nel giudizio di primo grado o di promozione dell’azione davanti al giudice civile, non possono essere estesi al di fuori dei casi espressamente previsti dalla norma indicata. Per converso, il principio di immanenza non comporta, ovviamente, che l’azione possa essere iniziata o proseguita anche se viene meno l’interesse. In tal caso, infatti, il venir meno dei requisiti per la costituzione di parte civile potrà formare oggetto di richiesta di esclusione della parte civile (articolo 80 C.P.P.) o di esclusione di ufficio della stessa (articolo 81 C.P.P.) (Cass. Pen., Sez. IV, 16/06/2008, n. 24360, in Il Sole 24 Ore, Responsabilità e Risarcimento, 2008, 9, pg. 74, in Arch. Nuova Proc. Pen., 2009, 4, pg. 546, in Giur. Ital., 2009, 4, pg. 948, annotata da F. Pavesi, in Cass. Pen., 2009, 12, pg. 4799). Revoca del difensore Massima redazionale Corte di Cassazione Sezione 5 Penale Sentenza del 27 gennaio 2010, n. 3519 PARTE CIVILE - COSTITUZIONE - IN GENERE - Revoca del difensore - Omesso rilascio di nuova procura speciale al nuovo difensore - Rigetto della richiesta di esclusione della parte civile - Illegittimità - Sussistenza. È illegittima l'ordinanza con cui il giudice di merito rigetti la richiesta di esclusione della parte civile che abbia revocato il proprio difensore omettendo di rilasciare una nuova procura speciale al nuovo difensore, in quanto il principio di immanenza della parte civile non vale ad escludere il rispetto delle forme che regolano la sua presenza nel processo ed, in particolare, la previsione, ex art. 100 cod. proc. pen., per la quale la parte civile sta in giudizio a mezzo di un difensore munito di procura speciale, con la conseguenza che la designazione di un nuovo difensore comporta il rilascio di altra procura speciale al legale successivamente designato, a pena di nullità della costituzione. Repertorio24 PUBBLICAZIONE CED, Cassazione, 2010 Il Sole 24 Ore, Mass. Repertorio Lex24 La Tribuna, Archivio della nuova procedura penale, 2011, 2, pg. 245 Effetti nel giudizio di impugnazione Massima redazionale Corte di Cassazione Sezione 6 Penale Sentenza del 18 gennaio 2010, n. 2005 COSTITUZIONE DELLA PARTE CIVILE - PRINCIPIO DI IMMANENZA DELLA COSTITUZIONE - EFFETTI NEL GIUDIZIO DI IMPUGNAZIONE - LIMITI - RICORSO PER CASSAZIONE DELLA PARTE CIVILE NON IMPUGNANTE IN SEDE DI APPELLO - INAMMISSIBILITÀ - FATTISPECIE. La parte civile, in ragione del principio della immanenza della sua costituzione nel corso dell'intero procedimento (articolo 76, comma 2°, del Cpp), pur se non impugnante, può giovarsi dell'appello del pubblico ministero (cfr. sezioni Unite, 10 luglio 2002, Guadalupi). Peraltro, se il giudizio di impugnazione si risolve in una conferma della sentenza impugnata, sfavorevole alle ragioni della parte civile, questa, non avendo proposto appello, non può poi proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di appello, non essendosi doluta, mediante

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autonoma impugnazione, della sentenza di primo grado (da queste premesse, la Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso della parte civile avverso la sentenza di appello che aveva confermato quella di primo grado di assoluzione dell'imputato appellata esclusivamente dal pubblico ministero). Repertorio24 PUBBLICAZIONE Il Sole 24 Ore, Guida al Diritto, 2010, Dossier 2, pg. 79 Parte civile non appellante Massima redazionale Corte di Cassazione Sezione 6 Penale - Sentenza del 23 dicembre 2009, n. 49497 PARTE CIVILE - COSTITUZIONE - EFFETTI - IMMANENZA - parte civile non appellante - Ricorso per cassazione - Ammissibilità - Esclusione. È inammissibile il ricorso per cassazione proposto dalla parte civile avverso la sentenza d'appello, quando la stessa non abbia impugnato la decisione assolutoria di primo grado, confermata dalla Corte d'appello a seguito di impugnazione proposta dal solo P.M.. Repertorio24 PUBBLICAZIONE Il Sole 24 Ore, Mass. Repertorio Lex24 La Tribuna, Rivista Penale, 2010, 11, pg. 1168 Responsabilità degli enti e costituzione di parte civile: l’intervento della Cassazione n. 2251/2011 Alessandro D'Addea, Avvocato, Componente della 3° Commissione del Comitato scientifico della Camera Penale di Monza - a cura di Lex24 A quasi un decennio dalla introduzione del Decreto Legislativo 231/2001 con una pronuncia del gennaio 2011, la Sesta Sezione della Corte di Cassazione ha fornito indicazioni utili per dirimere il contrasto formatosi in dottrina e nella giurisprudenza di merito sull’annoso e complesso tema della costituzione di parte civile a carico dell’ente. Dopo una fase iniziale nella quale la giurisprudenza si era mostrata univoca nell’escludere la possibilità di costituirsi parte civile nel procedimento penale avverso l’ente, tesi comunque prevalente, di recente non poche pronunce, invece, hanno ritenuto valida la costituzione di parte civile nei confronti dell’ente “imputato” nel processo penale. Può essere interessante confrontare, ad esempio, il contrasto interno al Tribunale di Milano, in due procedimenti molto rilevanti quali i casi “Parmalat” e “Telecom”, ove vengono sposate le opposte teorie: nell’ambito del procedimento Parmalat, il GIP di Milano escluse la possibilità della costituzione di parte civile in quanto: “L’ente, non è né l’autore del reato né soggetto che può essere chiamato a rispondere civilmente per il fatto del colpevole……trattandosi di norme di rilevante importanza (nda quelle afferenti alla pretesa civilistica) il fatto che non siano ribadite nel Dlgs 231 non può essere considerata una mera dimenticanza del legislatore: si tratta invero di una precisa ed inequivocabile scelta legislativa nel senso di non prevedere nel procedimento in questione la parte civile.” (cfr. Gip Milano 25.01.2005). Diverso è il contenuto della pronuncia dello stesso Tribunale recante data 09.07.2009 allorquando, dopo una accurata analisi della natura della responsabilità degli enti, definita “parapenale”, si sottolinea che: “con la novella n.231/2001 l’esercizio dell’azione civile nel procedimento penale articolata nei confronti dell’ente come ritenuto responsabile dalla normativa debba essere ritenuta ammissibile in via diretta ex art.185 Codice Penale e 2043-2049 Codice Civile, in dipendenza della individuazione, con la indicata normativa, di un centro di responsabilità colpevole, appunto l’ente, al quale è da riportare di volta in volta la condotta, l’evento e la sanzione delineati nella novella”. Senza soffermarsi analiticamente sulle ragioni che militano a favore delle due tesi, sostenute da illustri commentatori, emerge una radicale distinzione creatasi tra gli interpreti sulla natura della responsabilità dell’ente: da un lato, pur con le dovute sfumature, i fautori della responsabilità “penale” ritengono

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ammissibile la costituzione di parte civile nel processo avverso l’ente medesimo, valorizzando il richiamo alle norme del procedimento penale allorquando non diversamente disposto, nonché la intima connessione fra reato e responsabilità dell’ente qualificata “da reato”. Di contro, i sostenitori del noto brocardo “societas delinquere non potest” ricordano, non senza importanti richiami al dato letterale, come nulla nel T.U. n. 231/2001 faccia riferimento alla costituzione di parte civile ed anzi svariate norme, ad esempio in materia di sequestro, non accennino a questa parte eventuale del processo. Come anticipato, la Corte di Cassazione, pur con una pronuncia a Sezioni Semplici (Sezione Sesta numero 2251 deposito del 20.01.2011), ha affrontato la questione con un approccio certamente molto pragmatico, di fatto non esaminando la natura della responsabilità ex art. TU 231/2001, giungendo al risultato di negare in radice la ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo a carico dell’ente, attribuendo primigenia importanza al dato letterale della normativa in esame. Non è questa la sede per un esame approfondito del contenuto della sentenza, che certamente crea un precedente rilevante; vanno, d’altra parte, sottolineati due passaggi assai radicali: innanzitutto la Corte rileva come “Il punto di partenza non può che essere che nel Dlgs 231/2001 manca ogni riferimento espresso alla parte civile. La sistematica rimozione nel Dlgs231/2001 di ogni richiamo o riferimento alla parte civile porta a ritenere che non si sia trattato di una lacuna normativa quanto piuttosto di una scelta consapevole del legislatore”. Successivamente la Corte amplia il concetto ribadendo come: “Se non è ipotizzabile l’esistenza di un danno che possa presentarsi come conseguenza immediata e diretta dell’illecito amministrativo allora l’ostinato silenzio del legislatore sulla parte civile e sulla possibilità di costituirsi in giudizio per fare valere le pretese risarcitorie assume un significato ancor più preciso, apparendo del tutto ragionevole l’esclusione della parte civile dalla cerchia dei protagonisti del processo a carico dell’ente” (cfr. Cassazione Sezione Sesta 2251/2011). La Corte, pertanto abbraccia pienamente il criterio di interpretazione letterale sulla scorta del brocardo latino “Ubi lex voluti, ibi dixit”. Due riflessioni finali vanno svolte sul punto: innanzitutto sarà doveroso verificare l’incidenza su analoghe fattispecie di questo primo intervento diretto e chiarificatore della Suprema Corte; come spesso accade, a seguito di una singola pronuncia, essa diverrà un opportuno riferimento, ma non si può certamente escludere che in futuro questo primo orientamento subisca dei mutamenti, stante anche la complessità del tema. Secondariamente è opportuno ribadire che, purtroppo nel corso degli anni il T.U. n. 231/2001 sia stato oggetto di interventi quasi esclusivamente volti ad ampliare le categorie di “reati presupposto” cui collegare una responsabilità dell’ente (anche in maniera bizzarra se si pensa al tema della riduzione in schiavitù e dei reati similari) senza mai affrontare il nodo cardine della tipologia di responsabilità a carico dell’ente, argomento su cui la Suprema Corte ha ritenuto di non pronunciarsi, lasciando aperto il dibattito, a parere di chi scrive non così accademico ed astratto come traspare dalla parole dei Giudici del Palazzaccio e sul quale nemmeno il progetto di riforma del T.U. n. 231/2001 al vaglio del Parlamento dedica alcuna attenzione. © RIPRODUZIONE RISERVATA FAMIGLIA Spese extra per i figli con l’accordo pre-divorzio Norme e Tributi 16 maggio 2011 Pagina 46 di Russo Paolo Il preventivo accordo tra genitori divorziati in merito alle spese straordinarie dei figli, contenuto in separata scrittura privata sottoscritta dalle parti prima della separazione personale dei coniugi, risulta vincolante anche se è richiamato solo nelle motivazioni, e non nel dispositivo, della sentenza che pronunzia la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Corretta, dunque, la decisione di revocare il decreto ingiuntivo emesso in favore della moglie, relativo alle spese ortodontiche del figlio a lei affidato, qualora esse non siano state preventivamente concordate con il marito.

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Lo ha chiarito la prima sezione della Cassazione (sentenza n. 9376/11) che, nel confermare la decisione della Corte territoriale campana, ha giudicato correttamente rispettato dai giudici di merito il principio di diritto secondo cui l'esatto contenuto di una sentenza deve essere individuato con un esame complessivo della pronunzia, ossia non del solo contenuto del dispositivo, bensì anche della motivazione, che rivela l'effettiva volontà del magistrato giudicante. Nella fattispecie, una signora napoletana, divorziata da anni e madre affidataria del figlio nato dall'unione con l'ex-coniuge, otteneva dal tribunale del capoluogo l'emissione in suo favore di un decreto ingiuntivo teso a richiedere all'uomo il pagamento della metà delle spese dalla stessa sostenute per le cure dentistiche del figlio. Il padre avanzava opposizione avverso detto provvedimento, deducendo in giudizio la circostanza secondo cui, contrariamente a quanto avvenuto, tutte le spese di maggiore interesse concernenti la prole, in virtù di un accordo intervenuto tra i genitori due anni prima della separazione personale dei coniugi, dovevano essere concordate dalle parti. Ciò nonostante, l'istanza dell'uomo veniva rigettata in primo grado, per essere al contrario successivamente accolta dalla Corte di Appello, che revocava il decreto emesso in favore della moglie. In particolare, i giudici partenopei avevano ritenuto pienamente «operante la disposizione secondo cui le spese straordinarie, come quella relativa alle cure ortodontiche de quibus, dovessero essere preventivamente concordate fra le parti». La donna, peraltro, aveva contestato che, nel dispositivo della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, non fossero presenti specifiche statuizioni ovvero richiami a detto accordo in materia di spese straordinarie. Di contrario avviso, invece, la Corte territoriale, secondo cui il riferimento, contenuto nella parte inerente le motivazioni della sentenza di divorzio, a "quanto concordato tra le parti", doveva indubbiamente ritenersi inerente proprio a quegli accordi intercorsi tra i coniugi prima della loro separazione e formalizzati in apposita scrittura privata. Nel confermare la sentenza della Corte di appello, e richiamati appositi propri precedenti giurisprudenziali (tra le altre, le sentenze della Cassazione n. 15585/07, n. 360/05 e n. 1323/04), la Cassazione ha ritenuto correttamente applicato, ad opera dei giudici di merito, il principio secondo cui «nell'ordinario giudizio di cognizione, l'esatto contenuto della pronuncia va individuato non alla stregua del solo dispositivo, bensì integrando questo con la motivazione nella parte in cui la medesima rivela l'effettiva volontà del giudice». © RIPRODUZIONE RISERVATA Home © Copyright Il Sole 24 Ore - Tutti i diritti sono riservati Il testo della sentenza Corte di Cassazione Sezione 1 Civile Sentenza del 27 aprile 2011, n. 9376 FAMIGLIA MATERNITA' ED INFANZIA - Separazione - Spese - Partecipazione - Mancato accordo tra coniugi

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi - Presidente

Dott. DOGLIOTTI Massimo - Consigliere

Dott. RAGONESI Vittorio - Consigliere

Dott. GIANCOLA Maria Cristina - Consigliere

Dott. CAMPANILE Pietro - rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

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SENTENZA sul ricorso n. 239 dell'anno 2007 proposto da: LA. GI. , elettivamente domiciliata in Napoli, Salita Pontecorvo, n, 86, nello studio dell'Avv. BELMONTE Guido, che la rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del ricorso; - ricorrente - contro L. L. , elettivamente domiciliato in Roma, Via dei Cestari, n. 34, nello studio dell'Avv. Giuseppe Valentino; rappresentato e difeso, giusta procura speciale a margine del controricorso, dagli Avv. MOLFINI Antonio e Maurizio; - controricorrenti - avverso la sentenza della Corte di Appello di Napoli, n. 3678, depositata in data 22 dicembre 2005; sentita la relazione all'udienza del 18 gennaio 2011 del Consigliere Dott. Pietro Campanile; Udite le richieste del Procuratore Generale, in persona del Sostituto Dott. Umberto Apice, il quale ha concluso per l'accoglimento del secondo motivo e per il rigetto del primo. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1 - Il Sig. L.L. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti il 2 novembre 2000 dal Tribunale di Napoli, ad istanza dell'ex coniuge sig.ra La. Gi. , in relazione alla meta' delle spese dalla stessa sostenute per il trattamento ortodontico del figlio Pa. , a lei affidato giusta sentenza di divorzio resa inter partes nell'anno (OMESSO). Veniva dedotto che le spese di maggior interesse dovevano essere concordate fra le parti, precisandosi - all'udienza di prima comparizione - che, in virtu' di un accordo intervenuto fra i genitori in data (OMESSO), richiamato nella sentenza che aveva pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio, anche le spese straordinarie avrebbero dovuto essere preventivamente concordate. 1.1. Il Tribunale adito respingeva l'opposizione, confermando il decreto ingiuntivo. 1.2 - La Corte di appello di Napoli, con la sentenza indicata in epigrafe, in riforma della decisione di primo grado e in accoglimento dell'appello proposto dal sig. L. , revocava il decreto ingiuntivo, rigettando la domanda proposta dalla ricorrente. Veniva, in particolare, rilevato che - dovendosi ogni decisione interpretare sulla base del contenuto del dispositivo e della motivazione - dal complessivo esame della sentenza che aveva pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio delle parti emergeva un esplicito richiamo agli accordi fra le stesse intervenuti - per altro espressamente richiamati nelle rispettive conclusioni - , ragion per cui doveva ritenersi operante la disposizione secondo cui le spese straordinarie, come quella relativa alle cure ortodontiche de quibus, dovessero essere preventivamente concordate fra le parti. Non poteva dubitarsi, del resto, che il riferimento contenuto nella sentenza di divorzio a quanto concordato fra le parti fosse inerente agli accordi intervenuti il (OMESSO), anche perche', a prescindere dal loro esplicito richiamo nelle richieste conclusive, non risultavano stipulate altre convenzioni. In difetto di tale concertazione la domanda di rimborso non poteva essere accolta. 1.3 - Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la signora La. , deducendo due motivi, illustrati da memoria. Resiste con controricorso il sig. L. . MOTIVI DELLA DECISIONE 2. - Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell'articolo 132 c.p.c. e della Legge 1 dicembre 1970, n. 898, articolo 6, modificata dalla Legge 6 marzo 1987, n. 74, nonche' omessa,

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insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione, rispettivamente, all'articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Deve premettersi che la ricorrente ha anche formulato i quesiti di diritto ai sensi dell'articolo 366 bis c.p.c., ancorche' la decisione impugnata sia stata depositata in epoca anteriore all'entrata in vigore della teste' richiamata (ed ormai abrogata) norma. Si deduce, con un primo profilo, che il principio secondo cui il dispositivo di una sentenza va interpretato anche alla stregua della sua motivazione sarebbe stato erroneamente applicato dalla corte territoriale, sia perche' la parte motiva della decisione che aveva pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio delle parti non conteneva che un generico riferimento agli accordi delle parti, sia perche' in detta sentenza non vi era alcun contrasto tra dispositivo e motivazione, ma, semmai, fra le conclusioni delle parti e il dispositivo. 2.1 - Il motivo e' infondato. Rimane sullo sfondo la questione, evidentemente ormai non piu' controversa, circa la necessita' del consenso preventivo dell'altro genitore anche in relazione alle spese straordinarie. La decisione impugnata ha correttamente applicato, al riguardo, il principio affermato da questa Corte, secondo cui, con riferimento al quadro normativo applicabile, ratione temporis, alla presente vicenda, pur non essendovi coincidenza fra le decisioni di maggiore interesse per i figli e le spese straordinarie, ragion per cui non e' configurabile a carico del coniuge affidatario alcun obbligo di previa concertazione con l'altro coniuge sulla determinazione delle spese straordinarie, nei limiti in cui esse non implichino decisioni di maggior interesse per i figli, tuttavia, tale principio non e' inderogabile, essendo sempre possibile che il giudice, ai sensi dell'articolo 155 c.c., commi 2 e 3, determini, oltre che la misura, anche i modi con i quali il coniuge non affidatario contribuisce al mantenimento dei figli, in modo difforme da quanto previsto in linea di principio dalla legge (Cass., 21 gennaio 2009, n. 2182; Cass. 5 maggio 1999, n. 4459). 2.2 - Dovendo, quindi, verificare se con la decisione che, pronunciando sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio, aveva dettato i provvedimenti inerenti all'affidamento e al mantenimento del figlio, fosse stata o meno disposta la previa concertazione anche in relazione alle spese straordinarie, la corte territoriale ha interpretato in maniera adeguata la sentenza che aveva regolato tali rapporti, fornendo al riguardo congrua motivazione. E' stato infatti rilevato che gia' con la decisione che aveva pronunciato la separazione personale dei coniugi, il Tribunale di Napoli aveva disposto che "le spese mediche di carattere straordinario dovevano essere preventivamente concordate tra le parti, ponendole a carico del L. in ragione del 50 per cento". Successivamente, nel corso del giudizio relativo alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, le parti avevano raggiunto degli accordi, ribadendo, fra l'altro, il contenuto di detta statuizione, formalizzati in una scrittura privata del (OMESSO), espressamente richiamata nelle conclusioni di entrambe le parti, cosi' come trascritte nell'epigrafe della decisione n. (OMESSO). Sulla base di tali dati si' e' ritenuto che, pur nell'assenza di specifiche statuizioni contenute nel dispositivo, il riferimento nella parte motiva di detta sentenza, in merito ai provvedimenti accessori, a "quanto concordato dalle parti", non poteva non intendersi effettuato, non essendosi ne' dedotta, ne' dimostrata l'esistenza di ulteriori accordi, se non a quelli richiamati nelle concordi conclusioni delle parti. Risulta, pertanto, correttamente applicato il principio secondo cui nell'ordinario giudizio di cognizione, l'esatto contenuto della pronuncia va individuato non alla stregua del solo dispositivo, bensi' integrando questo con la motivazione nella parte in cui la medesima rivela l'effettiva volonta' del giudice. Ne consegue che, in assenza di un vero e proprio contrasto tra dispositivo e motivazione, e' da ritenere prevalente la statuizione contenuta in una di tali parti del provvedimento che va, quindi, interpretato in base all'unica statuizione che, in realta', esso contiene (Cass., 11 luglio 2007, n. 15585; Cass., 11 gennaio 2005, n. 360; Cass., 26 gennaio 2004, n. 1323; Cass., 18 luglio 2002, n. 10409). 2.3 - Gli ulteriori profili di censura attengono a una serie di ragioni in base alle quali dovrebbe dedursi che la sentenza n. (OMESSO) non avrebbe inteso recepire interamente gli accordi raggiunti dalle parti con la scrittura del (OMESSO). Tali prospettazioni risultano complessivamente connotate di un difetto di autosufficienza, essendo del tutto pacifico che, pur essendo consentito a questa Corte di legittimita' l'interpretazione del giudicato esterno con cognizione piena, il ricorso con il quale si sostiene che non sia

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corretta la valutazione, da parte del giudice del merito, di una determinata decisione, deve riportare il testo completo del giudicato che si assume sia stato erroneamente interpretato, con richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo (Cass., 30 aprile 2010, N. 10537; Cass., 13 marzo 2009, n. 6184; Cass., 13 dicembre 2006, n. 26627). In ogni caso non appare condivisibile la tesi secondo cui il giudice della cessazione degli effetti civili del matrimonio non avrebbe recepito per intero gli accordi delle parti, sol perche', analogamente a quanto constatato in tema di spese straordinarie, non avrebbe riprodotto nel dispositivo la clausola inerente alla comunicazione preventiva del periodo di vacanza. Anche in tal caso, invero, deve ritenersi operante il richiamo a "quanto concordato dalle parti" contenuto in motivazione. L'argomento dedotto sub b), ed inteso a dimostrare l'assenza di un riferimento, nella sentenza citata, alla clausola per cui e' processo, consiste in una mera ripetizione dell'assunto secondo cui il richiamo non sarebbe esplicito e sarebbe contraddetto dal mancato inserimento nel dispositivo: valgano, in proposito, le considerazioni circa la validita' dell'operazione ermeneutica compiuta dalla corte territoriale, proprio sulla base della necessita' di individuare la portata della statuizione, anche ricorrendo al contenuto della parte motiva della decisione . Con l'ultimo profilo di censura si sostiene, poi, che l'interpretazione della piu' volte menzionata sentenza sarebbe errata perche', in materia di affidamento e di mantenimento di minori, il giudice deve valutare la conformita' degli accordi delle parti all'interesse dei figli, condizione non soddisfatta mediante un mero rinvio alle intese delle parti. In proposito e' dato di ritenere che, nel richiamare e fare propri (per le ragioni sopra indicate) gli accordi conclusi dai genitori, il tribunale abbia implicitamente valutato l'insussistenza di elementi di contrasto (per altro neppure adombrati nel ricorso) con l'interesse della prole. In effetti, il tema della preventiva concertazione, anche per quanto attiene alla materia delle spese straordinarie, appare ispirato a quella regola dell'accordo che caratterizza, come imprescindibile momento dialettico, l'individuazione da parte di entrambi i genitori, anche dopo il verificarsi della crisi coniugale, delle decisioni maggiormente corrispondenti alle esigenze del minore, nell'ambito di una funzionalizzazione, rispetto a queste ultime, dell'esercizio della potesta'. 2.4 - Con il secondo motivo si deduce omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver la Corte di appello "speso una sola parola" circa la deduzione testimoniale dedotta, in via subordinata, in merito all'autorizzazione data dall'ing. L. alle prestazioni sanitarie per cui e' causa". Il motivo e' infondato. Deve in primo luogo richiamarsi il principio secondo cui il ricorrente che, in sede di legittimita', denunci il difetto di motivazione su un'istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l'onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimita' il controllo della decisivita' dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell'autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non e' consentito sopperire con indagini integrative (Cfr, ex multis, Cass., 30 luglio 2010, n. 17915). Nel caso di specie, oltre a mancare la trascrizione integrale dei capitoli di prova, difettano specifiche indicazioni circa le modalita' della loro proposizione, attesa la genericita' dei riferimenti alla comparsa di risposta in appello, a un non meglio specificato "rinvio alle rispettive richieste" effettuato in sede di precisazione delle conclusioni e, addirittura, alla comparsa conclusionale. Dal tenore dello stesso ricorso emerge, per altro, che la prova in questione sarebbe stata proposta per la prima volta in appello, in violazione dell'articolo 345 c.p.c.. Pertanto il denunciato vizio motivazionale non sussiste, dovendo trovare applicazione il consolidato principio secondo cui, in tema di ammissibilita' di prove nuove in appello, il collegio e' tenuto a motivare esclusivamente l'indispensabilita' che ne giustifica l'ammissione, in deroga alla regola generale che invece ne prevede il divieto, ma non anche la mancata ammissione delle prove ritenute non indispensabili, che si conforma alla predetta regola generale (Cass., 21 luglio 2009, n. 16971; Cass., 25 giugno 2010, n. 15346).

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3. - Al rigetto dell'impugnazione consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese relative al presente giudizio di legittimita', liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controparte, delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimita', liquidate in euro 2.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge. Repertorio24 Riferimenti: Legge Giurisprudenza Riviste de Il Sole 24 Ore Home © Copyright Il Sole 24 Ore - Tutti i diritti sono riservati L'intesa non interferisce con la separazione Il Sole 24 Ore - Famiglia e Minori 1 maggio 2009, N. 5 Pagina 13 di Fiorini Marcella La circostanza che all'orizzonte si delinei un'imminente separazione consente ai coniugi di porre in essere intese volte alla sistemazione dei reciproci rapporti economici e patrimoniali - vincolanti alla stregua di normali contratti ed espressione della loro autonomia negoziale - ancorché tali accordi non siano poi formalizzati in un verbale di separazione consensuale, non operando automaticamente il collegamento negoziale tra dette intese e la successiva separazione. È questo in sintesi il principio affermato dai giudici di merito e avallato dalla Suprema corte nella pronuncia n. 2997 del 2009. Il fatto - Nel caso affrontato dalla Corte due coniugi, ormai separati di fatto, prima di rivolgersi al giudice con un ricorso per separazione consensuale, avevano sottoscritto una scrittura privata per regolare i rispettivi rapporti economici, anche con riguardo ai figli maggiorenni, prevedendo in particolare l'impegno da parte di uno di essi a trasferire all'altro un bene immobile e la metà della somma ricavata dalla vendita di un'imbarcazione di proprietà comune. All'udienza presidenziale la moglie non era però comparsa per confermare il proprio consenso alla separazione e il giudizio si era trasformato in contenzioso. Il marito aveva quindi instaurato un autonomo procedimento per la declaratoria di nullità del pregresso accordo, sostenendo che esso dovesse ritenersi privo di causa, essendo strettamente collegato alla separazione consensuale poi non concretizzatasi e operando nel caso di specie l'istituto della presupposizione. In caso contrario, poiché le attribuzioni patrimoniali effettuate a favore della moglie dovevano configurarsi quali donazioni, ugualmente la scrittura doveva ritenersi annullabile per mancanza dei requisiti di forma di cui all'articolo 782 del codice civile. La Corte di merito prima e la Cassazione dopo hanno dato torto al marito, ritenendo non operante l'istituto della presupposizione, da un lato perché dal contesto della scrittura non emergeva che la separazione consensuale fosse stato il presupposto comune, dall'altro perché occorre che la circostanza presupposta sia indipendente dalla volontà delle parti, mentre la separazione consensuale dipende esclusivamente da tale volontà. La natura degli accordi a latere alla separazione - Facendo applicazione di un consolidato - seppur non univoco - principio della Cassazione, i giudici di merito hanno ritenuto che l'accordo concluso dai coniugi fosse estraneo al perimetro della regolamentazione scaturente dalla separazione e andasse interpretato come un'intesa volta a «eliminare controversie su questioni non strettamente riguardanti la separazione stessa». Pur non risultando espressamente dalla pronuncia, sembra infatti che la riconosciuta validità dell'accordo preventivo in esame sia stata ricollegata al principio secondo cui «le pattuizioni intervenute tra i coniugi anteriormente o contemporaneamente al decreto di omologazione della separazione consensuale, e non trasfuse nell'accordo omologato, sono operanti soltanto se si collocano, rispetto a quest'ultimo, in posizione di non interferenza - perché riguardano un aspetto che non è disciplinato nell'accordo formale e che è sicuramente compatibile con esso, in quanto non modificativo della sua sostanza e dei suoi equilibri, ovvero perché hanno un carattere meramente specificativo - oppure in posizione di conclamata e incontestabile

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maggiore o uguale rispondenza all'interesse tutelato attraverso il controllo di cui all'art. 158 cod. civ.» (Cassazione 20 ottobre 2005 n. 20290, in «Famiglia e diritto», 2006, pag. 150 con nota di G. Oberto e Cassazione 30 agosto 2004 in «Rivista del notariato», not. 2005, 795; da ultimo, Cassazione 24 ottobre 2007 n. 22329, in «Giustizia civile. Massimario», 2007, 10). L'accordo con cui i coniugi avevano inteso nel caso di specie «eliminare controversie su questioni non strettamente riguardanti la separazione stessa» e soprattutto «definire i rapporti economici con i figli maggiorenni, che con la separazione non avevano nulla a che fare», non solo non interferiva con l'instaurando procedimento di separazione, ma sembrava orientato a dare all'assetto patrimoniale del (disciolto) nucleo familiare, un inquadramento totalmente avulso dagli aspetti rilevanti in fase di separazione dei coniugi, la cui disciplina in via di accordo è condizionata dall'omologazione. In altri termini sembra che i giudici abbiano rilevato nel caso di specie un interesse dei coniugi a trovare, in costanza di matrimonio ma con la crisi alle porte, una sistemazione definitiva dei propri interessi che valesse a risolvere le molteplici questioni economiche pendenti tra loro e con i figli, potendo gli sposi raggiungere accordi su questioni estranee alla separazione, compresa la definizione dei rapporti economici con i figli maggiorenni. A ben guardare, i patti che i coniugi possono stipulare a latere della separazione pur vertendo sugli stessi presupposti di quella non sembrano avere lo stesso oggetto. Accogliendo tale impostazione dovrebbero trarsi alcune conseguenze: innanzitutto, proprio perché tali accordi sono caratterizzati da una causa e da un oggetto diversi da quelli omologati dal giudice della separazione, rispetto a questi ultimi non si porrebbe il problema di verificarne la «conclamata e incontestabile maggior rispondenza rispetto all'interesse tutelato» (così, invece, il prevalente orientamento richiamato), e neanche di stabilirne la compatibilità sul piano temporale, e quindi la necessità di verificare se il successivo accordo raggiunto in sede di omologa abbia in tutto o in parte revocato il primo. In quest'ottica la validità ed efficacia di tali intese non è affatto condizionata all'omologazione del giudice, dalla quale prescinde totalmente non perché si tratta - secondo l'impostazione tradizionale - di sistemazioni patrimoniali che ricadono nel cosiddetto contenuto eventuale degli accordi di separazione, quanto invece perché si tratta di vicende negoziali che hanno un profilo causale del tutto autonomo. La giustificazione sul piano causale di tali accordi, e quindi la loro piena validità ed efficacia a prescindere dall'omologazione, è ammissibile ove si cambi totalmente prospettiva e si accetti l'idea che il momento causale arretri e si collochi al di fuori dall'area della crisi del matrimonio, inquadrandosi invece nell'ampia categoria degli accordi sull'indirizzo della vita familiare di cui all'articolo 144 del Cc. Essi sono posti in essere con finalità programmatorie di tale indirizzo, ancorché riferito al momento finale della vita in comune. Lungi dal creare un nuovo dovere primario di contribuzione o di modificare quello legalmente previsto, tali accordi avrebbero come unica finalità di precisare l'ambito e i modi di attuazione dello stesso allorché i presupposti della crisi si siano già maturati. Può così accadere che vengano a coesistere due diversi tipi di manifestazioni di volontà. La prima, ancorché non espressamente manifestata, sarebbe meramente ricognitiva degli obblighi legali di mantenimento, avrebbe cioè natura non negoziale. Rispetto agli obblighi previsti dall'articolo 143 del Cc, non si opererebbe cioè alcuna costituzione, modificazione o estinzione, essendo la disciplina legale eventualmente solo richiamata in blocco all'interno del regolamento contrattuale e sarebbe sempre la legge e non il negozio la fonte di tali obblighi. Ove i coniugi abbiano concordemente derogato ai criteri di legge, ciascuno di essi avrebbe la facoltà di provocare la messa in moto del meccanismo di integrazione legale, rifiutando di dare esecuzione all'accordo e stimolando in tal modo una pronuncia giudiziale volta all'accertamento della non conformità della disciplina concordata rispetto a quella legale. Su un diverso piano si porrebbe l'altra manifestazione di volontà, di tipo negoziale, diretta a specificare il contenuto degli obblighi primari nella fase terminale del vincolo matrimoniale. La volontà negoziale, in questo caso, andrebbe a operare sulla misura della reciproca contribuzione impegnando le sostanze e la capacità di lavoro dei coniugi oltre il minimo proporzionale indisponibile stabilito dagli articoli 143 e 148 del Cc, senza con ciò intaccare il regime primario. Seguendo tale ricostruzione sembra potersi ammettere la legittimità dell'accordo dichiaratamente indirizzato a organizzare il ménage familiare durante la crisi coniugale, a cui sarebbe naturalmente applicabile - in fase costitutiva ed esecutiva - l'ordinaria disciplina contrattuale (per la natura negoziale degli accordi ex articolo 144 del CC e per una peculiare ricostruzione dei rimedi esperibili in caso di loro inosservanza; A. R. Gaglioti, «Note in tema di coercibilità degli accordi di vita coniugale a favore dei figli», in «Diritto di famiglia», 2003, 409). Quanto detto appare conforme alla pronuncia in esame, con cui la Corte di cassazione ha escluso potesse ricorrere l'istituto della presupposizione proprio applicando al caso in esame le norme sull'interpretazione del contratto (articoli 1362 e seguenti del Cc). Aderendo a questa ricostruzione, inoltre, si comprenderebbe come i coniugi possano, a crisi conclamata e ritenendolo maggiormente congruo ai loro interessi, trasfondere tali accordi nel verbale di separazione, riqualificando l'intesa sull'indirizzo della vita familiare

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come vero e proprio accordo di separazione, soggetto al controllo di legittimità nei soli limiti dell'omologazione. Obbligazione di trasferire e tutela giudiziale - Sovente accade che i coniugi, nelle intese a latere della separazione o del divorzio, pattuiscano l'impegno di trasferire un determinato diritto reale su uno o più beni ovvero si obblighino a costituire un diritto reale di godimento, da compiersi attraverso la stipulazione di un successivo atto che abbia i requisiti di forma necessari. Quid iuris se però il coniuge obbligato si rifiuti di operare il trasferimento? La dottrina appare concorde nel ritenere che il creditore possa in tal caso esercitare l'azione di cui all'articolo 2932 del Cc, a norma del quale «se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l'obbligazione, l'altra parte, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso» (Chianale, «Obbligazioni di dare e atti traslativi solvendi causa», in «Rivista di diritto civile», 1989, II, 238; A. Ceccherini, «Crisi della famiglia e rapporti patrimoniali», Milano, 1991, 132; C. Rimini, «Il problema della sovrapposizione dei contratti e degli atti dispositivi», Milano, 1995, 291; Dogliotti, «Separazione e divorzio», Torino, 1995, 11). Questa sembra essere stata la tesi seguita anche dal giudice del merito nel caso in esame. Si legge infatti nella premessa in fatto della sentenza 2997/2009 che detto giudice, dichiarata valida ed efficace la scrittura privata impugnata, aveva accolto la domanda riconvenzionale proposta dalla moglie volta alla condanna del marito all'adempimento delle obbligazioni assunte in detta scrittura, «con il riconoscimento a suo favore della proprietà» dell'immobile oggetto di detta pattuizione. In un suo lontano precedente (Cassazione 2 dicembre 1991 n. 12897, in «Giustizia civile. Massimario», 1991, fascicolo 12) anche la Corte di cassazione ha ritenuto che la specifica obbligazione assunta dal marito di costituire l'usufrutto sull'immobile di sua proprietà in favore della moglie, pur trovando sede e occasione nella separazione consensuale, quale elemento del più ampio accordo raggiunto, integrava un atto di autonomia negoziale, che non rilevava ai fini dell'assegnazione della casa familiare in sede di divorzio, potendo bensì «fondare la diversa ed autonoma pretesa da parte del beneficiario di esecuzione in forma specifica». Riferimenti: Giurisprudenza Percorsi operativi Home © Copyright Il Sole 24 Ore - Tutti i diritti sono riservati PROPRIETA’ INDUSTRIALE Bloccati i brevetti del manager Norme e Tributi 10 maggio 2011 Pagina 39 di Negri Giovanni MILANO Sequestrabili all'azienda i brevetti di cui è titolare il manager indagato per bancarotta. Lo stabilisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 18028 della Prima sezione penale depositata il 9 maggio. La Corte, nel confermare l'ordinanza del tribunale di Vicenza che aveva disposto la misura preventiva nei confronti di alcuni brevetti per macchine industriali (ceduti a una società diversa) registrati a nome dell'amministratore unico di una società a responsabilità limitata poi fallita, ha innanzitutto svolto alcune considerazioni in merito alla titolarità del brevetto industriale stesso. I giudici hanno così precisato che è istituita una presunzione di invenzione d'azienda per ogni tipologia di invenzione in costanza o prossimità con il rapporto di impiego sia che riguardi lo svolgimento delle normali mansioni tecniche assegnate al dipendente «sia che venga realizzata da soggetto legato da rapporto di servizio nell'esecuzione di un incarico speciale o in via complementare o sostitutiva rispetto alle sue ordinarie mansioni». Fatta questa premessa e verificato che il manager, proprietario in pratica esclusivo delle quote della srl, ha realizzato le invenzioni durante la sua permanenza nella società e con le risorse di questa, allora si verifica comunque un caso di sottrazione di risorse anche se, in astratto, sono state seguite le ordinarie norme

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civilistiche. Determinante è lo squilibrio, realizzato attraverso un'attività negoziale illecita, tra attività e passività idoneo a compromettere le ragioni dei creditori. Insomma, o le invenzioni devono essere ricondotte al soggetto che ha agito in veste di amministratore e il ruolo di immedesimazione con la società comporta che già la registrazione a suo nome privato ha come effetto una forma di sottrazione di valori, oppure non rimane ai giudici che ricollegare l'invenzione all'esercizio di un'attività lavorativa parasubordinata contemporaneamente esercitata dallo stesso soggetto e non incompatibile in astratto con la carica di amministratore «e la sottrazione dei diritti di sfruttamento che spettavano all'azienda a mente delle norme richiamate rappresenta, in quanto realizzate avvalendosi del doppio ruolo, comunque una distrazione di attività». Avere venduto i brevetti a un'altra società come se questi appartenessero al patrimonio personale dell'amministratore ha avuto come conseguenza l'impoverimento della società e la lesione delle aspettative dei creditori: la srl si è vista privata di beni la cui disponibilità doveva rientrare tra gli elementi di valore. Ad aggravare la situazione c'era poi il fatto che l'attività di ricerca sui brevetti era stata effettuata con le sole risorse della Srl. www.ilsole24ore.com/norme LA SENTENZA Una volta che è stato plausibilmente assodato che l'amministratore unico, (...) ha realizzato le invenzioni durante la sua permanenza nella società e con le risorse di questa: o le invenzioni vanno ricondotte al soggetto che ha agito in veste appunto di amministratore, e il ruolo di immedesimazione organica con la società comporta che già la registrazione a suo nome privato da questo effettuata integra di per sè una forma di sottrazione di valori; oppure non resta che ricollegare l'invenzione all'esercizio di un'attività lavorativa parasubordinata (...) e la sottrazione dei diritti di sfruttamento che spettavano all'azienda a mente delle norme richiamate rappresenta in quanto realizzata avvalendosi del doppio ruolo, comunque una distrazione di attività. Cassazione penale, sentenza 18028/2011 PROPRIETA' INDUSTRIALE Novità in tema di invenzioni dei dipendenti Andrea Tuninetti Ferrari e Jacopo Liguori, Avvocati, Clifford Chance - a cura di Lex24 L'art. 64 del D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 (di seguito, il "Codice della Proprietà Industriale") disciplina il regime delle invenzioni realizzate dal dipendente, riprendendo la tradizionale tripartizione, già presente nella legge brevetti (R.D. n. 1127/1939), tra "invenzioni di servizio", "invenzioni d'azienda" e "invenzioni occasionali". Recentemente, detta previsione legislativa è stata oggetto di modifiche nell'ambito della più ampia revisione cui il D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 131 ha sottoposto il Codice della Proprietà Industriale. In particolare, le novità relative al tema di cui trattasi hanno riguardato le invenzioni d'azienda di cui al capoverso dell'art. 64 - ossia quelle realizzate "in esecuzione o in adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o di impiego", allorquando però tali negozi non prevedano tra le mansioni, né tantomeno compensino, alcuna attività inventiva. Come noto, il dettato normativo previgente subordinava il riconoscimento di un equo premio, a favore dell'inventore, all'ottenimento da parte del datore di lavoro del brevetto sull'invenzione. La recente revisione, al fine di tutelare maggiormente la posizione dell'inventore, ha invece esteso la portata della norma, prevedendo il riconoscimento dell'equo premio anche qualora il datore di lavoro (ovvero i suoi aventi causa) utilizzino l'invenzione in regime di c.d. "segretezza industriale", ossia sfruttino economicamente il risultato dell'attività inventiva in mancanza della tutela brevettuale. Sempre nell'ottica di cui sopra, è stata prevista la possibilità che l'organizzazione del datore di lavoro interessata richieda, in pendenza di domanda di rilascio del brevetto, un esame anticipato della documentazione, i cui esiti possano essere impiegati come base per un più fondato e rapido calcolo del premio. Quanto alle modalità di calcolo dell'equo premio, l'art. 64 continua a disporre che la quantificazione debba tenere conto delle mansioni svolte dal dipendente, della retribuzione da questo percepita, dell'apporto in

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termini di contributo al raggiungimento del risultato, nonché del valore dell'invenzione. Ed è con riferimento a tale ultimo parametro che la revisione è intervenuta, sostituendo la precedente espressione "importanza della protezione conferita all'invenzione dal brevetto" – il cui significato aveva dato adito ad ambiguità e perplessità – con un nuovo riferimento alla "importanza dell'invenzione", dovendosi intendere per tale le possibilità di sfruttamento economico del trovato, quantificabili nell'ordine di grandezza degli utili prevedibili. È rimasta invece invariata la disciplina delle invenzioni di servizio e delle invenzioni occasionali. Si ricorda che nel novero delle prime rientrano tutte le invenzioni realizzate dal lavoratore in adempimento di una specifica obbligazione "inventiva" contrattualmente dedotta, per la quale peraltro sia già specificamente remunerato. In simile ipotesi, si ricorda, l'art. 64 ripartisce il diritto economico di sfruttamento e quello morale di essere riconosciuto autore, attribuendo il primo al datore di lavoro (salvo diverso accordo) ed il secondo al dipendente. Quanto alle invenzioni occasionali, cioè realizzate al di fuori sia dell'orario lavorativo sia dell'ambito delle mansioni del lavoratore (seppur comunque rientranti nel perimetro del business aziendale), i diritti connessi all'invenzione restano in capo all'inventore, mentre al datore è riconosciuto un diritto di opzione per l'uso dell'invenzione o l'acquisto del brevetto entro tre mesi dalla domanda di rilascio dello stesso, verso la corresponsione del canone o del prezzo, da fissarsi con deduzione di una somma corrispondente agli aiuti che l'inventore abbia ricevuto dal datore di lavoro per pervenire all'invenzione. Analogamente, nemmeno la disciplina delle invenzioni dei ricercatori di università ed enti pubblici di cui all'art. 65 del Codice della Proprietà Industriale è stata oggetto di revisione, e ciò nonostante la presenza di un'espressa previsione nella legge delega al Governo (legge 23 luglio 2009, n. 99) di riconoscere alle università la titolarità delle invenzioni dei propri ricercatori, onde non frustrare gli investimenti e le esigenze economiche delle prime. In mancanza di attuazione della summenzionata delega, la brevettazione delle invenzioni universitarie continua ad essere di titolarità dei ricercatori seppur aventi ad oggetto scoperte effettuate grazie alla struttura ed ai fondi dell'ente. © RIPRODUZIONE RISERVATA BREVETTI: LA TUTELA NASCE DALLA NOVITÀ Descrizione chiara e completa dell’invenzione industriale Sentenza Cass., Sez. I civ., 20 ottobre 2010, n. 23592 – Art. 51 Cpi, D.Lgs. n. 30/2005 di Selene Pascasi, avvocato – a cura di Diritto e Pratica delle Società Brevetti per invenzioni industriali – Riconoscimento – Requisiti – Descrizione chiara e completa – Necessità. Assenza o insufficienza dell’elemento descrittivo – Integrazione nel corso del processo ad opera della parte o del consulente – Inammissibilità (Sentenza Corte di Cassazione, Sez. I civ., 20 ottobre 2010, n. 23592 – Art. 51 D.Lgs. n. 30/2005) La Corte di Cassazione, Sez. I civile, con sentenza 20 ottobre 2010 n. 23592, si è pronunciata ancora una volta in punto di novità del brevetto industriale, sottolineandone la valenza quale requisito imprescindibile per il riconoscimento dell’invenzione. La decisione in lettura si allinea al filone giurisprudenziale arrestatosi su un solido principio: il brevetto industriale va riconosciuto solo nei casi in cui il trovato abbia offerto la soluzione ad un problema tecnico non ancora risolto. Di conseguenza, non troveranno tutela giuridica – in quanto non qualificabili quali invenzioni – tutti quei progetti che si limitino a mettere in esecuzione idee già note. A far scattare il processo, l’azione proposta da una società che – vantando la titolarità di un brevetto per applicazione industriale – chiama in causa una ditta concorrente accusandola di contraffazione. La s.p.a. citata, però, nega le accuse: il brevetto in questione non è affatto nuovo e non merita la protezione che la legge riserva esclusivamente ai trovati originali. Il consulente tecnico concorda, negando la novità dell’invenzione, e il Tribunale boccia la domanda attrice: le caratteristiche riscontrate nel brevetto sono note da tempo. Di conseguenza, la ditta chiamata a processo non aveva commesso alcuna contraffazione nell’utilizzare il trovato.

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La sentenza non convince la società soccombente, che porta il caso dinanzi al Collegio di legittimità lamentando l’erronea applicazione dell’art. 51 D.Lgs. n. 30/2005 (noto come codice della proprietà industriale). La Cassazione, però, rigetta il ricorso. Nel farlo, i giudici precisano che l’invenzione, al fine di ottenere il placet del legislatore e la conseguente tutela, dovrà (prima che essere un’invenzione “sufficientemente descritta”) essere “un’invenzione”. Ma v’è di più: il requisito della sufficiente descrizione sarà necessario anche al fine di consentire l’attuazione dell’invenzione a “ogni persona esperta del ramo”. A confermarlo, d’altronde, è lo stesso testo della norma supposta in violazione, intitolata proprio “sufficiente descrizione”. Il disposto, come novellato, esige che alla domanda di concessione del brevetto per invenzione industriale debbano unirsi ulteriori specifici requisiti: la descrizione, le rivendicazioni e i disegni necessari alla sua intelligenza. Ivi si aggiunge, non con secondaria importanza, che «l'invenzione deve essere descritta in modo sufficientemente chiaro e completo perché ogni persona esperta del ramo possa attuarla e deve essere contraddistinta da un titolo corrispondente al suo oggetto». Ebbene, la Cassazione, sulla scia di un costante orientamento interpretativo, nonché dell’indicata normativa, sottolinea l’esigenza che il trovato esprima un’attività creativa dell’inventore, che non sia semplice esecuzione di idee già note e rientranti nella normale applicazione dei principi conosciuti. Questo è il senso della novità che rende l’idea nuova, brevettabile e degna di tutela. Sarà dunque necessario, ai fini del riconoscimento del brevetto per invenzione industriale, che l’invenzione risponda a due parametri di novità: estrinseca ed intrinseca. Sotto il primo profilo, si richiede che il ritrovato si basi sulla risoluzione di un problema che allo stato delle cognizioni tecniche non risulti ancora risolto, e che in ogni caso sia pensato e congegnato in maniera tale da poter essere concretamente realizzato in campo industriale; solo in questo modo, è evidente, esso sarà idoneo ad apportare un effettivo progresso rispetto alle conoscenze già note. Per ciò che concerne, invece, l’altro aspetto – quello della novità intrinseca – si esigerà che la scoperta sia tale da esprimere un'attività creativa dell'inventore, lungi dal voler qualificare tale una mera esecuzione di idee già divulgate, riconducibili all’usuale applicazione di regole preesistenti. È però evidente, che per accertare l’effettiva novità della soluzione industriale sarà necessario che chi ne richieda il riconoscimento alleghi una descrizione chiara e completa del ritrovato, tesa ad indicare il problema tecnico cui esso offre soluzione e la specifica utilità perseguita. Così la Cassazione scrive la parola fine alla disputa processuale, e cristallizza la nullità del brevetto per mancata dimostrazione della sua originalità. D’altro canto, l’insufficiente descrizione – si legge nella sentenza – aveva reso «non accertabile la novità intrinseca del trovato e di conseguenza non verificabile» l’eventuale contraffazione. © RIPRODUZIONE RISERVATA COMPENSI PROFESSIONALI Norme e Tributi 10 maggio 2011 Pagina 39 di Negri Giovanni Conta solo la tariffa giudiziale MILANO Il compenso per lo studio che assiste il curatore fallimentare va liquidato secondo le tariffe giudiziali e non professionali. Lo chiarisce la Cassazione che, con la sentenza della Seconda sezione civile depositata ieri, ha respinto il ricorso presentato da uno studio di consulenti del lavoro che aveva collaborato con un curatore fallimentare nell'attività di predisposizone dei prospetti paga del personale dipendente di una spa dichiarata fallita. Lo studio si era visto liquidare una somma valutata del tutto inadeguata rispetto all'attività effettivamente svolta e neppure vicina ai massimi di una tariffa già di per sè da ritenere datata. La Cassazione ha però considerato corretta la valutazione del giudice delegato che ha qualificato l'operato dello studio di consulenza oggetto della domanda di liquidazione come quella di coadiutore. E quest'ultima è una figura disciplinata dalla legge fallimentare all'articolo 32, comma 2 che integra l'attività del curatore e si configura come ausiliario del giudice, con la conseguenza che il suo compenso deve essere determinato in base alla tariffa giudiziale prevista per i periti e i consulenti tecnici e non invece sulla base della tariffa professionale che presuppone un rapporto di lavoro autonomo tra il fallimento stesso e il professionista. « Il coadiutore – osservano i giudici – svolge un'attività di collaborazione e assistenza nell'ambito e per gli scopi propri della procedura rientranti sotto il dominio delle competenze e delle attribuzioni del curatore, lì dove, invece, il professionista officiato di una prestazione di lavoro autonomo opera, per differenza, in ogni

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altro settore, allorché il fallimento, per la soluzione di problemi ulteriori ed eventuali, necessiti di un'attività di tipo specialistico che il curatore non è chiamato a espletare e di cui pertanto non risponde in via diretta». © RIPRODUZIONE RISERVATA www.ilsole24ore.com/norme Il testo della sentenza Riferimenti: Home © Copyright Il Sole 24 Ore - Tutti i diritti sono riservati Il testo della sentenza Corte di Cassazione Sezione 2 Civile Sentenza del 9 maggio 2011, n. 10143 Fallimento - Compenso prestazione professionale - Assistenza al curatore fallimentare - Attività di coadiutore (art. 32, comma 2, Legge Fallimentare) - Applicazione tariffa professionale - Esclusione - Compenso determinato in base alla tariffa giudiziale prevista per i periti e consulenti tecnici

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SECONDA SEZIONE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MASSIMO ODDO - Presidente -

Dott. UMBERTO GOLDONI - Consigliere -

Dott. CESARE ANTONIO PROTO - Consigliere -

Dott. FELICE MANNA - Rel. Consigliere -

Dott. ANTONINO SCALISI - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 18068-2005 proposto da: Studio Associato Consulenza del Lavoro An. An., St. An. & Ma. Ca., C.F. (...), in persona dell'associato e del legale rappresentante St. An., elettivamente domiciliato in Ro., Via An. (...), presso lo studio dell'avvocato Ca. Ri., che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato Fa. D. Ma.; - ricorrente - contro Fallimento He. S.p.a., C.F. (...), in persona del Curatore pro tempore, elettivamente domiciliato in Ro., Piazza Co. D. Ri., (...), presso lo Studio Avv. Lo. Na., rappresentato e difeso dall'avvocato Al. Co., giusta procura speciale notarile Rep. n. (...) dell'11/01/2006 per Dr. Ma. Br. notaio in Ba. Um.; - resistente - avverso l'ordinanza del TRIBUNALE di PERUGIA, depositata il 10/05/2005;

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udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/01/2011 dal Consigliere Dott. FELICE MANNA; udito l'Avvocato Fa. D. Ma. difensore del ricorrente che ha chiesto si riporta agli atti; udito l'Avvocato Al. Co. difensore della resistente che ha chiesto l'inammissibilità del ricorso, in subordine il rigetto; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. LIBERTINO ALBERTO RUSSO che ha concluso per l'inammissibilità in subordine per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con decreto in data 7.2.2005 il giudice delegato al fallimento della He. S.p.a., dichiarato dal Tribunale di Perugia, liquidava in favore dello Studio associato di consulenza del lavoro An. An., St. An. e Ma. Ca., il compenso di Euro 12.406,68, per la cura di pratiche riferite al personale della società fallita, a fronte di una richiesta formulata per la maggior somma di Euro 52.131.58. Reclamava, ai sensi dell'art. 26 legge fall., l'anzi detto Studio, deducendo che tale liquidazione, immotivata e illegittima, non era assolutamente corrispondente al volume dell'attività svolta, concretizzatasi nella predisposizione di numerosi prospetti paga e nello svolgimento di altre, rilevanti incombenze, così come descritte in un'apposita relazione, datata 28.6.2004; che il compenso richiesto non era stato neppure quantificato nella misura massima prevista dalla tariffa professionale, ancorché quest'ultima fosse risalente nel tempo e non più adeguata al valore effettivo delle prestazioni; e che, pertanto, il compenso per l'opera prestata doveva essere liquidato nella misura richiesta, ovvero, in subordine, in diversa misura comunque superiore a quanto liquidato dal giudice delegato. Con ordinanza del 10.5.2005 il Tribunale di Perugia premesso che il provvedimento reclamato aveva liquidato il compenso allo Studio associato quale "coadiutore", rigettava il reclamo, osservando che il giudice delegato aveva ritenuto di dover applicare i minimi tariffari motivando tale sua determinazione sia per l'episodicità e la natura delle prestazioni, sia tenendo conto della natura del soggetto richiedente, e che tale liquidazione doveva ritenersi corretta e condivisibile; che l'estrema genericità dell'unico motivo di censura posto a sostegno del reclamo non autorizzava a procedere ad una disamina dettagliata delle singole voci così come esposte nella relazione riepilogativa del 28.6.2004; e che, in ogni caso, avuto riguardo alle varie attività per come esposte nella ridetta relazione, l'importo liquidato appariva congruo e pienamente remunerativo. Per la cassazione di quest'ultimo provvedimento ricorre St. An., quale contitolare del prefato Studio professionale, con unico motivo, illustrato da memoria. La parte intimata ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. con separata procura speciale autenticata da notaio, ma non ha proposto controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. - In via pregiudiziale va rilevata l'inammissibilità della memoria depositata dalla curatela fallimentare intimata, in quanto non preceduta dalla notifica di controricorso (cfr., sull'inammissibilità del deposito di memoria ex art. 378 c.p.c. nella fattispecie, consimile, in cui questa segua ad un controricorso tardivamente notificato, Cass. nn. 9396/06 e 9897/07). Conseguentemente, non può tenersene conto ai fini della decisione. 2. - Con unico motivo di censura, articolato in due punti, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della tariffa professionale di cui al D.M. 15.7.1992 n. 430 Ministero della Giustizia, e degli artt. 2233 e 1375 c.c., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Premesso che non è stato mai contestato l'effettivo svolgimento delle prestazioni professionali oggetto della domanda di remunerazione, il ricorrente sostiene che non risponde al vero che la somma liquidata dal giudice delegato sia pari ai minimi tariffari, e che non è comprensibile come il Tribunale sia pervenuto a tale

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conclusione. Deduce, quindi, che i minimi tariffari, aventi carattere vincolante, ammontano per le prestazioni svolte a Euro 36.313,73, somma che non si discosta molto sia dall'importo liquidato dall'ordine professionale, sia dalla notula presentata dal ricorrente. Quanto al profilo dell'insufficienza motivazionale, il ricorrente sostiene che il Tribunale di Perugia non ha fornito la benché minima indicazione in ordine al criterio seguito nello stabilire che il compenso liquidato dal giudice delegato fosse appropriato all'attività svolta, nonostante il reclamante avesse descritto in maniera analitica e circostanziata ogni singola voce. Né è corretta l'affermazione, pure contenuta nell'ordinanza del Tribunale perugino, secondo cui l'unico motivo di reclamo sarebbe stato estremamente generico, atteso che altrettanto generico, e dunque non meglio censurabile, era il decreto emesso dal giudice delegato. 3. - Il motivo è infondato quanto alla prima e inammissibile relativamente alla seconda delle due articolazioni di cui consta. 3.1. - Premesso che è costante e indiscusso l'orientamento di questa Corte secondo cui il provvedimento con il quale il Tribunale fallimentare provvede in sede di reclamo ex art. 26 legge fall., sul decreto del giudice delegato di liquidazione dei compensi spettanti al curatore, agli altri ausiliari della procedura o ai professionisti esterni incaricati da essa, ha carattere decisorio (incidendo direttamente su diritti soggettivi) e definitivo (non essendo soggetto a ulteriore impugnazione), e come tale è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. (v. per tutte e da ultimo, Cass. n. 15941/07), si rileva che dalla motivazione del provvedimento impugnato si ricava che il giudice delegato, prima, e il Tribunale fallimentare, poi, hanno qualificato come attività di "coadiutore" quella svolta dallo Studio associato e oggetto della domanda di liquidazione. Premessa tale qualificazione, non censurata - né del resto censurabile, sotto il profilo dei parametri di sufficienza e di logicità della motivazione, per le ragioni di cui al paragrafo 3.2 - deve ulteriormente osservarsi che, come questa Corte ha già avuto modo di osservare, il coadiutore, la cui figura è prevista dall'art. 32, comma 2 della legge fall., integrando l'attività del curatore, partecipa della qualità di ausiliario (del giudice) che è propria di quest'ultimo, con la conseguenza che il suo compenso deve essere determinato in base alla tariffa giudiziale prevista per i periti e i consulenti tecnici, e non già a stregua della tariffa professionale, che presuppone un rapporto di lavoro autonomo tra il fallimento stesso e il professionista (cfr. Cass. n. 1568/05). Ciò in quanto il coadiutore svolge un'attività di collaborazione ed assistenza nell'ambito e per gli scopi propri della procedura, rientranti sotto il dominio delle competenze e delle attribuzioni del curatore, lì dove, invece, il professionista officiato di una prestazione di lavoro autonomo opera, per differenza, in ogni altro settore, allorché il fallimento, per la soluzione di problemi ulteriori ed eventuali, necessiti di un'attività di tipo specialistico che il curatore non è chiamato ad espletare e di cui, pertanto, non risponde in via diretta. 3.1.1. - La circostanza che, nella specie, la quantificazione del compenso allo Studio An. sia stata effettuata con applicazione - dunque erronea - della tariffa professionale dei consulenti del lavoro, di cui al D.M. 15.7.1992 n. 430, non rileva, tuttavia, ai fini del presente giudizio di legittimità, atteso che la relativa violazione avrebbe potuto incidere solo se ed in quanto dedotta con specifica allegazione di un'incidenza di tipo pregiudizievole, nel senso che la parte ricorrente avrebbe dovuto affermare, con idonee argomentazioni di sostegno, che nel caso particolare, applicando la tariffa giudiziale per la liquidazione del compenso agli ausiliari del giudice, l'esito della liquidazione sarebbe stato più favorevole. 3.2. - La censura relativa al vizio della motivazione svolta per giustificare la disposta applicazione del minimo tariffario, poi, non è ammissibile in ragione dei limiti interni del ricorso straordinario per cassazione, ex art. 111 Cost. in raccordo con l'art. 360 n. 5 c.p.c. nel testo ante D.Lgs. n. 40/06, applicabile ratione temporis al caso in esame. 4. - In conclusione il ricorso va respinto. 5. - Le spese del presente giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza della parte ricorrente. P.Q.M.

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La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 1.000,00, di cui 200,00 per spese vive, oltre accessori di legge. Massima redazionale Corte di Cassazione Sezioni Unite Civile Sentenza del 24 luglio 2007, n. 16300 FALLIMENTO ED ALTRE PROCEDURE CONCORSUALI - FALLIMENTO - APERTURA (DICHIARAZIONE) DI FALLIMENTO - SENTENZA DICHIARATIVA - OPPOSIZIONE - IN GENERE - Opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento - Diritti ed onorari avvocato - Determinazione - Criteri - Ammontare del passivo - Insussistenza - Valore indeterminabile - Applicabilità. Ai fini della liquidazione dei diritti e degli onorari spettanti al difensore in sede di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, il valore della causa, da determinarsi sulla base della domanda ex art. 10 cod. proc. civ., non va desunto dall'entità del passivo, non essendo applicabile in via analogica l'art. 17 cod. proc. civ. riguardante esclusivamente i giudizi di opposizione ad esecuzione forzata, ma deve considerarsi indeterminabile, atteso che la pronuncia richiesta è di revoca del fallimento e l'oggetto del giudizio, relativo all'accertamento dell'insolvenza, si fonda sulla comparazione tra i debiti dell'imprenditore e i mezzi finanziari a sua disposizione senza investire la delimitazione quantitativa del dissesto, riservata al subprocedimento di verificazione. La liquidazione degli onorari nella procedura fallimentare Il Sole 24 Ore - Ventiquattrore Avvocato 1 giugno 2009, N. 6 Pagina 64 di Canaccini Alessia Criteri di liquidazione degli onorari del difensore nella procedura fallimentare. Il compenso del curatore e dei suoi ausiliari. la QUESTIONE Posto che la liquidazione degli onorari giudiziali dipende dal valore della causa,come si determina il valore della causa di dichiarazione del fallimento? E il valore della causa di opposizione alla dichiarazione di fallimento? Dato che l'onorario del curatore si liquida come percentuale dell'attivo e del passivo, se il fallimento ha un passivo accertato rilevante e un attivo minimo, come si determina la remunerazione? L'onorario degli ausiliari si quantifica come l'onorario del curatore, oppure come l'onorario del consulente del giudice? l'INTRODUZIONE Chi presta la propria attività professionale nella procedura fallimentare ha diritto a una remunerazione, proporzionata allo specifico apporto e alle peculiarità della procedura, che incide sul patrimonio e sullo status dell'imprenditore commerciale. Tra i professionisti che offrono le proprie prestazioni vi è sicuramente l'avvocato, in qualità di difensore, oppure di curatore o di ausiliario. Se l'avvocato è difensore, l'art. 6, comma 1, della Tariffa forense, approvata dal D.M. n. 127 del 2004, prevede che «nella liquidazione degli onorari a carico del soccombente, il valore della causa è determinato a norma del codice di procedura civile». Sul punto, l'art. 10 c.p.c. stabilisce che il valore della causa è determinato in base alla domanda. Dal combinarsi dell'art. 6, comma 1, D.M. n. 127 del 2004, con l'art. 10 c.p.c, emerge che l'onorario del difensore è parametrato sul petitum mediato, ovverosia sul valore economico del bene o della prestazione in contestazione. Tale regola significa che l'onorario del difensore del fallito o del creditore, che presenti istanza di fallimento, o si opponga, o domandi l'ammissione allo stato passivo, o domandi la restituzione o la separazione di beni mobili e immobili, si calcola secondo gli indici fissati nella Tabella A II relativa agli onorari giudiziali, per le cause avanti al Tribunale, di cui al D.M. n. 127 del 2004.

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Sennonché va chiarito quale sia il petitum di una istanza di fallimento o di una opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento. Invece negli altri casi il valore della causa è legato a un valore economico determinato: il credito per cui si chiede l'ammissione allo stato passivo, il bene mobile o immobile che si rivendica, di cui si chiede la restituzione o la separazione. Se poi l'avvocato svolge la funzione di curatore, si deve chiarire come debba essere liquidato il compenso, in particolare nel caso di fallimento incapiente. Infine se l'avvocato è ausiliare del curatore si deve stabilire se il compenso sia legato alle tariffe professionali di riferimento, oppure ai criteri applicati agli ausiliari del giudice. le NORME

Codice di procedura civile

Artt. 10, 17

R.D. 16 marzo 1942, n. 267, come modificato da D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169

Artt. 5, 18, 32, 37 bis, 39

D.M. 28 luglio 1992, n. 570

Art. 1

D.M. 8 aprile 2004, n. 127

Art. 6

D.P.R. 30 giugno 2002, n. 115

Art.146

D.M. 30 maggio 2002

Art. 1

la FATTISPECIE Onorari in caso di sentenza dichiarativa di fallimento Per la liquidazione degli onorari il giudice, ai sensi dell'art. 6, comma 1, D.M. n. 127/2004 e dell'art. 10 c.p.c., dovrà valutare il petitum della domanda, considerando che oggetto della causa non è il singolo credito,ma piuttosto l'accertamento dello stato di insolvenza dell'imprenditore commerciale. Lo stato di insolvenza, come è noto, ex art. 5 legge fall. consiste nell'impossibilità di far fronte alle obbligazioni con regolarità, ed è ben distinto dal semplice inadempimento, anche se l'inadempimento può essere una manifestazione dell'insolvenza. Dunque l'accertamento dell'insolvenza richiede una valutazione, che ha per oggetto non il singolo credito, facilmente quantificabile, ma la situazione patrimoniale e finanziaria complessiva dell'imprenditore, che emerge in particolare comparando i debiti con i mezzi finanziari a disposizione. Questo significa che il giudice accerta l'insolvenza nell'an, mentre il quantum sarà individuato solo dopo la formazione dello stato passivo. Da questa considerazione ne discende che l'interesse del singolo creditore sul patrimonio dell'imprenditore è del tutto irrilevante per quantificare gli onorari del difensore, proprio perché tale interesse creditorio è estraneo all'oggetto della causa. Per provare tale affermazione, si ricorda anche che, se il credito dell'istante risulta inesistente, la dichiarazione di fallimento non viene meno. Allora nella fase c.d. prefallimentare il valore della causa non si ragguaglia all'ammontare del credito vantato dall'istante, proprio perché le vicende del singolo credito sono irrilevanti rispetto all'insolvenza, e dunque alla dichiarazione di fallimento.

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Onorari in caso di opposizione alla dichiarazione di fallimento Del resto, la questione si può approfondire anche considerando che il giudizio di dichiarazione di fallimento e quello di opposizione sono due fasi di unico procedimento, volto ad accertare lo stato di insolvenza. Infatti nella fase di opposizione alla dichiarazione di fallimento si ripropone il problema di determinare gli onorari, considerando non solo l'art. 6, comma 1, D.M. n. 127 del 2004, e l'art. 10 c.p.c,ma anche l'art. 17 c.p.c. Sul punto si registrano due possibili interpretazioni. La prima evidenzia che, in mancanza di una disciplina specifica del valore della causa di opposizione alla dichiarazione di fallimento, è possibile applicare per analogia l'art. 17 c.p.c, relativo all'opposizione all'esecuzione. L'art. 17 c.p.c. prescrive che il valore della causa dipende dal motivo per cui si procede. Per applicare in via analogica tale disposizione all'opposizione alla dichiarazione di fallimento, occorre individuare l'eadem ratio. L'identità di ratio si dimostra considerando che il fallimento appartiene al genus delle procedure esecutive, anche se è una procedura collettiva, e che nell'opposizione al fallimento, così come nell'opposizione all'esecuzione, si contesta il diritto di procedere all'espropriazione dei beni del creditore. Inoltre «il credito per cui si procede» corrisponde all'ammontare del passivo, equivalente al credito dell'istante o all'ammontare dei crediti ammessi. Dunque, non si può affermare che il valore della causa di opposizione alla dichiarazione di fallimento è indeterminabile. Piuttosto, tale valore risulta indeterminato, anche se in un secondo momento valutabile economicamente, perché la causa ha a oggetto diritti e beni che si intendono sottrarre all'esecuzione. Da queste considerazioni, ne consegue che il giudice per liquidare gli onorari deve applicare lo scaglione della Tariffa forense, approvata dal D.M. n. 127 del 2004, corrispondente all'entità complessiva del passivo. La seconda interpretazione considera la causa di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento di valore indeterminabile. Tale assunto si dimostra evidenziando che l'art. 17 c.p.c. non si può applicare per analogia, perché tra la disciplina dell'opposizione all'esecuzione e la disciplina dell'opposizione alla dichiarazione di fallimento non vi è identità di ratio. Infatti l'esecuzione individuale è un processo di parti, diretto a soddisfare l'interesse del creditore procedente,mentre l'esecuzione collettiva persegue l'interesse pubblico alla difesa contro l'insolvenza, che giustifica ampi poteri inquisitori da parte del giudice. In particolare l'opposizione alla dichiarazione di fallimento ha come oggetto la revoca della sentenza per carenza di uno dei presupposti,ovverosia lo stato di insolvenza e la qualità di imprenditore commerciale; invece l'opposizione all'esecuzione ha come oggetto la contestazione del diritto del creditore procedente ad agire in esecuzione. In ogni caso, se si assumesse il credito dell'istante come parametro del valore della causa, non sarebbe possibile liquidare gli onorari del difensore nel giudizio di opposizione alla sentenza di fallimento,pronunciata su istanza del P.M. Inoltre è evidente che,nella maggioranza dei casi, nella fase immediatamente successiva alla dichiarazione di fallimento non si è accertato alcun passivo complessivo. Infatti l'opposizione alla dichiarazione di fallimento è proposta prima della fine delle operazioni di verifica dei crediti e della dichiarazione di esecutività dello stato passivo. Sulla questione il Supremo Collegio, in una recente sentenza a Sezioni Unite, ha statuito che, ai fini della liquidazione dei diritti di procuratore e degli onorari del difensore, nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento, il valore della causa si deve ragguagliare non all'attivo inventariato, né al passivo accertato, ma si deve considerare indeterminabile, proprio perché l'accertamento dello stato di insolvenza non si ha con un giudizio quantitativo,ma con una comparazione dei debiti e dei mezzi finanziari ordinari (Cass., Sez. Un., 24 luglio 2007, n. 16300). Il compenso del curatore L'art. 39 legge fall. fissa il principio di remuneratività dell'attività del curatore e l'art. 1,D.M. n. 570/1992, attua tale principio, stabilendo che il compenso del curatore è proporzionato all'ammontare dell'attivo e del passivo. Precisamente l'art.1,D.M. n. 570/1992, prevede il calcolo del compenso come percentuale dell'attivo complessivamente liquidato e del passivo accertato nel corso della procedura. Tali percentuali non devono superare le misure indicate. Tuttavia, il criterio generale che deve guidare il Tribunale nella liquidazione è quello dell'efficienza, in relazione ai tempi e all'economicità della gestione, e dell'efficacia, in ordine ai risultati della liquidazione dei beni. In particolare il Tribunale deve considerare l'opera prestata, i risultati ottenuti, l'importanza del fallimento e la sollecitudine delle operazioni.

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Il compenso così determinato ha come oggetto somme prelevate dall'attivo fallimentare, con preferenza assoluta. Sennonché, in caso di mancanza o insufficienza dell'attivo, il compenso del curatore risulterebbe privo di copertura. Sul punto occorre ricordare che il D.P.R. n. 115/2002 non prevede che l'importo sia posto a carico dello Stato. Tuttavia la Corte Costituzionale, con sentenza 28 aprile 2006, n. 174, ha dichiarato che l'illegittimità costituzionale dell'art. 146, comma 3, D.P.R. n. 115/2002, nella parte in cui non prevede che le spese e gli onorari del curatore rientrino nelle spese anticipate dall'Erario. Pertanto, anche se il curatore non è ausiliare del giudice (come lo sono ad esempio gli stimatori, i consulenti fiscali e i notai), è ausiliare della giustizia, e deve essere retribuito per l'opera prestata, anche se l'incarico è volontario, anche se non si può qualificare come lavoratore autonomo e anche se il fallimento negativo si può considerare una crescita professionale per il curatore. Tuttavia, in caso di fallimenti totalmente o parzialmente negativi, i Tribunali tendono a liquidare il compenso nel minimo previsto dalla legge, secondo gli scaglioni previsti agli artt. 1 e 2, D.M. n. 570/1992. Ma anche questa soluzione non sempre è adeguata a contenere la spesa pubblica. Infatti nella procedura può essere accertata una passività molto elevata, a fronte di un attivo molto modesto, o inesistente, che pone totalmente o parzialmente a carico dello Stato un ingente compenso per il curatore. Una possibile soluzione del problema è quella di valutare il compenso secondo i criteri generali di efficienza ed efficacia, previsti dall'art. 1, D.M. n. 570/1992, considerando che gli scaglioni previsti come percentuali dell'attivo e del passivo, sono indicati come limite per le misure massime del compenso, mentre nulla è previsto per i minimi. È possibile allora che il Tribunale per il compenso del curatore elabori proprie tabelle, fissando scaglioni che non superino quelli previsti dall'art. 1, D.M. n. 570/1992. Tale soluzione è adottata ad esempio dalla Sezione fallimentare del Tribunale di Milano. Il compenso degli ausiliari L'art. 32 legge fall. riformata individua due figure distinte di “ausiliari” del curatore: il delegato e il coadiutore. Il delegato è un fiduciario, che sostituisce il curatore in caso di limitata e temporanea impossibilità di svolgere il proprio ufficio. Il trasferimento delle funzioni è circoscritto a specifici adempimenti. Data la natura surrogatoria dell'incarico, il compenso del delegato è detratto dal compenso dovuto al curatore. A questo proposito si rileva che la nuova normativa non chiarisce se la liquidazione del compenso del delegato spetti al Tribunale oppure al Giudice delegato Infatti l'art. 32 legge fall. riformata si riferisce genericamente al giudice. Orbene, se si considera che la nomina del delegato è subordinata all'autorizzazione del Giudice delegato, si potrebbe sostenere che anche il compenso è liquidato dallo stesso. Sennonché l'interpretazione prevalente prevede la liquidazione del compenso da parte del Tribunale, così come avviene per il compenso del curatore, da cui deve essere detratto il compenso del delegato. Inoltre il Tribunale determina il compenso, seguendo gli scaglioni previsti per il curatore, secondo i parametri di efficacia ed efficienza, stabiliti dall'art. 1, D.M. n. 570/1992. Infine, poiché il compenso del delegato è simile a quello del curatore, in caso di fallimento negativo, il compenso del delegato è a carico dell'Erario. Sul punto valgono le stesse considerazioni valide per il curatore, per l' esigenza di contenimento della spesa pubblica. La seconda figura di ausiliario è il coadiutore, che integra l'attività del curatore, svolgendo compiti complementari, strumentali e comunque diversi da quelli del curatore, in virtù di una propria specifica competenza. Invero il coadiutore potrebbe essere considerato ausiliario del curatore, oppure ausiliario del giudice. Nel primo caso, il Giudice delegato al momento della liquidazione del compenso sarebbe tenuto ad applicare le tariffe professionali. Nel secondo caso, il compenso sarebbe liquidato secondo i criteri validi per i consulenti del giudice. Tale opzione, preferita dalla giurisprudenza di merito, consente un contenimento delle spese della procedura. Inoltre, la seconda interpretazione sembra preferibile, anche perché il coadiutore non svolge attività di lavoro autonomo, come dimostrato dall'assenza di responsabilità per il proprio operato. Infatti la responsabilità è del curatore. In generale il compenso del curatore si liquiderà considerando l'attività svolta e l'incidenza sull'attività del curatore. In particolare, il giudice, ai fini della liquidazione del compenso del coadiutore, considererà i criteri di cui agli artt. 49 ss. D.P.R. n. 115/2002 e dall'art. 1 allegato al D.M. 30 maggio 2002, tra cui il valore del bene, il valore della controversia e il tempo impiegato. L'art. 50 D.P.R. n. 115/2002 distingue gli onorari in fissi, variabili e a tempo. Per gli onorari variabili sono previsti i criteri di difficoltà, completezza e pregio della prestazione fornita. In ogni caso il compenso è a carico della massa ed è liquidato dal Giudice delegato, a seguito di parere

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favorevole del curatore.Ancora una volta, in caso di incapienza della procedura, il compenso è a carico dell'Erario, tenuto ad anticiparlo. la GIURISPRUDENZA ONORARI IN CASO DI SENTENZA DICHIARATIVA DI FALLIMENTO Cassazione civ., Sez. III, 7 dicembre 2000, n. 15545 In tema di liquidazione dei diritti di procuratore e degli onorari spettanti al difensore in sede di procedimento per la dichiarazione di fallimento, va esclusa ogni possibilità di adottare, come criterio applicativo,quello dell'interesse del cliente in relazione all'entità del suo patrimonio, atteso che, in sede prefallimentare, l'accertamento attiene all'an della situazione di insolvenza (che risulta accertata nel quantum solo a seguito della formazione dello stato passivo), sicché la disponibilità o indisponibilità del patrimonio non è oggetto di domanda, né attiene alla causa petendi, essendo soltanto un effetto (e non l'unico) della dichiarazione di fallimento. (Mass. giur. it., 2000) ONORARI IN CASO DI OPPOSIZIONE ALLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO Cassazione civ., Sez.Un., 24 luglio 2007, n. 16300 Ai fini della liquidazione dei diritti e degli onorari spettanti al difensore in sede di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, il valore della causa, da determinarsi sulla base della domanda ex art. 10 c.p.c., non va desunto dall'entità del passivo, non essendo applicabile in via analogica l'art. 17 c.p.c. riguardante esclusivamente i giudizi di opposizione a esecuzione forzata, ma deve considerarsi indeterminabile, atteso che la pronuncia richiesta è di revoca del fallimento e l'oggetto del giudizio, relativo all'accertamento dell'insolvenza, si fonda sulla comparazione tra i debiti dell'imprenditore e i mezzi finanziari a sua disposizione senza investire la delimitazione quantitativa del dissesto, riservata al subprocedimento di verificazione. (Dir. prat. fall., 2007, 5, 40 nota di PRENNA) Cassazione civ., Sez. I, 2 aprile 2004, n. 6508 Ai fini della liquidazione dei diritti di procuratore e degli onorari spettanti al difensore per la rappresentanza e la difesa della parte nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento, il valore della causa - da determinarsi in base alla domanda (art. 10 c.p.c.) - non va ragguagliato (né all'attivo inventariato, né) all'entità del passivo accertato (non essendo al riguardo applicabile in via analogica l'art. 17, prima parte, c.p.c.), ma deve considerarsi indeterminabile, atteso che oggetto della pronuncia richiesta è la revoca del fallimento in relazione alla sussistenza dei suoi presupposti e che, in particolare, l'insolvenza non si ragguaglia alla massa passiva fallimentare, né comporta giudizi quantitativi, ma risulta, piuttosto, da una comparazione tra i debiti dell'imprenditore e i mezzi finanziari a sua disposizione, ai fini della valutazione della possibilità di fronteggiare le passività con mezzi ordinari, mentre non rilevano le dimensioni del dissesto. (www.judicium.it) Cassazione civ., Sez. I, 28 maggio 2003, n. 8546 In tema di liquidazione degli onorari di avvocato nel procedimento di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, trova applicazione, per analogia, la disposizione dell'art. 17, comma 1, c.p.c., per cui il valore della causa si determina in base all'ammontare del passivo quale risulta dalla somma dei crediti ammessi alla procedura. (Guida al Diritto, 2003, 45, 76) Cassazione civ., Sez. III, 18 luglio 2000, n. 9451 L'indeterminabilità del valore della causa va intesa in senso obiettivo, con esclusione dei casi in cui il giudice per ragioni contingenti non riesce a determinare il valore. Consegue che non si versa in ipotesi di causa indeterminabile quando l'oggetto della controversia, seppure di valutazione economica difficile, è comunque suscettibile di valutazione da parte del giudice in base ai criteri stabiliti dalla legge e alle risultanze degli atti. (Arch. civ., 2001, 5, 628) Cassazione civ., Sez. II, 4 novembre 1993, n. 10933 In tema di liquidazione degli onorari di avvocato, per il procedimento di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, trova applicazione, per analogia, la disposizione dell'art. 17, comma 1, c.p.c., per

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cui il valore della causa si determina in base all'ammontare del passivo, quale risulta dalla somma dei crediti ammessi alla procedura concorsuale, e non in base al valore del credito vantato nei confronti del fallito dal creditore opponente. (Fall., 1994) Cassazione civ., Sez. I, 10 luglio 1993, n. 7596 Ai fini della liquidazione dei diritti di procuratore e degli onorari spettanti al difensore per la rappresentanza e la difesa del fallito nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento, nel quale il fallito abbia contestato la sussistenza dello stato di insolvenza, il valore della causa - da determinarsi in base alla domanda (art. 10 c.p.c.) - non va ragguagliato né all'attivo inventariato, né all'entità del credito dell'istante, applicando analogicamente l'art. 17 c.p.c.ma deve considerarsi indeterminabile, atteso che l'oggetto della pronuncia richiesta è l'accertamento della capacità dell'imprenditore di soddisfare regolarmente le obbligazioni assunte (art. 5 legge fall.) e che l'insolvenza non ha un contenuto quantitativamente determinabile (Ced Cassazione) Cassazione civ., Sez. II, 13 luglio 1984, n. 4117 In osservanza della norma dell'art. 6 delle disposizioni generali della tariffa forense approvata con D.M. 26 settembre 1979, per cui il valore della causa, da assumere a base della liquidazione degli onorari a carico della parte soccombente, è determinato a norma del codice di procedura civile, per l'opposizione a sentenza dichiarativa di fallimento trova applicazione in via analogica la normativa dello art. 17 prima parte cod. proc. civ. (che determina il valore delle cause di opposizione all'esecuzione), sicché il valore della relativa causa si determina in base all'ammontare del passivo, quale risultante dalla somma dei crediti ammessi alla procedura concorsuale, senza alcuna possibilità di distinguere tra opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento proposta per motivi di forma e opposizione proposta per motivi di merito. (Il Fallimento, 1985, 50) Cassazione civ., Sez. I, 29 ottobre 1981, n. 5701 In applicazione della norma dell'art. 6 delle disposizioni generali della tariffa forense approvata con D.M. 26 settembre 1979, per cui il valore della causa - da assumere a base della liquidazione degli onorari a carico della parte soccombente - è determinato a norma del Codice di procedura civile, l'opposizione a sentenza dichiarativa di fallimento è riconducibile all'ipotesi dell'art. 17, prima parte, c.p.c., di guisa che il valore della relativa causa si determina in base all'ammontare del passivo. (Fall., 1982, 1172) COMPENSO DEL CURATORE Corte Costituzionale 28 aprile 2006, n. 174 È costituzionalmente illegittimo l'art. 146, comma 3,D.P.R. 30 maggio 2002 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia - Testo A), nella parte in cui non prevede che sono da anticiparsi all'Erario le spese e onorari al curatore anche in ipotesi di procedura incapiente. (Dir. fall. soc. comm., 2007, II, 199, nota di OLLA). Cassazione civ., Sez. I, 22 settembre 2004, n. 18996 In tema di liquidazione del compenso al curatore del fallimento, le percentuali previste, con riguardo all'entità dell'attivo, dall'art. 1,D.M. 28 luglio 1992 vanno applicate sull'attivo realizzato - inteso come liquidità rinvenute nel patrimonio del fallito, o derivate dalla vendita dei beni mobili e immobili, o riscosse dai debitori, o comunque acquisite alla massa attraverso azioni giudiziarie - e non sul valore di inventario dei beni. (Lex24 & Repertorio24) Cassazione civ., Sez. I, 6 novembre 1999, n. 12349 Nel caso di revoca della sentenza dichiarativa di fallimento e in assenza di condanna al pagamento delle spese nei confronti del creditore istante, il compenso del curatore va posto a carico dell'erario, in virtù dell'officiosità della procedura fallimentare e del munus publicum prestato dal curatore medesimo quale organo svincolato da rapporti di parte. (Foro it., 2000, 6, 1912, I) COMPENSO DEGLI AUSILIARI

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Cassazione civ., Sez. I, 26 gennaio 2005, n. 1568 Il coadiutore del curatore fallimentare (figura prevista dal comma 2 dell'art. 32 legge fall.), la cui opera è integrativa dell'attività del curatore, svolgendo funzioni di collaborazione e di assistenza nell'ambito e per gli scopi della procedura concorsuale, assume la veste di ausiliario del giudice; pertanto il suo compenso deve essere determinato in base alla tariffa giudiziale prevista per i periti e i consulenti tecnici, e non alla tariffa professionale, la quale va invece applicata allorché si sia instaurato un vero e proprio rapporto di lavoro autonomo (opera professionale), essendo stato il professionista officiato dal fallimento per svolgere la propria opera in determinate attività e operazioni. (Nella fattispecie la Cassazione ha pertanto respinto il ricorso di un professionista - il quale invocava l'applicazione della tariffa professionale dei consulenti del lavoro approvata con D.M. 15 luglio 1992, n. 430, espressamente applicabile «anche per le prestazioni rese nei confronti degli organi preposti alle procedure concorsuali» - sul rilievo che lo stesso era stato qualificato dal giudice di merito come coadiutore). (Lex24 & Repertorio24) Cassazione civ., Sez. 1, 26 giugno 1992, n. 8022 Il compenso dell'ausiliario della procedura fallimentare, che abbia esercitato anche funzioni di coadiutore, va determinato, in relazioni alle prime, sulla base dei criteri di liquidazione del compenso al curatore (mentre, per le funzioni di mera collaborazione, vanno utilizzati i criteri di liquidazione relativi ai consulenti). Peraltro, ai fini del quantum, non possono essere applicate sic et simpliciter le percentuali previste per il curatore, le quali si riferiscono al complesso dell'attività da questo prestata per l'intera procedura concorsuale, ma deve tenersi conto dell'attività effettivamente svolta dal delegato, dell'importanza della procedura e del tempo impiegato, restando consentito per i singoli atti liquidare compensi al di sotto del limite minimo previsto per il curatore. (Lex24 & Repertorio24) Cassazione civ., Sez. I, 15 settembre 1978, n. 4146 Mentre il compenso per il delegato del curatore, di cui al primo comma dell'art. 32 della legge fallimentare, deve essere liquidato con gli stessi criteri stabiliti per quello del curatore dal D.M. 16 luglio 1965, con relativa spesa a carico del curatore medesimo, il compenso per il coadiutore del curatore, nominato ai sensi del secondo comma della citata norma (nella specie, ingegnere incaricato di individuare e stimare immobili del fallito), è a carico della massa fallimentare e va liquidato non secondo tariffa professionale, ma alla stregua delle disposizioni della legge 1° dicembre 1956, n. 1426, sulle spettanze dei periti giudiziari (modificata dalla legge 13 luglio 1965, n. 836).Tale principio manifestamente non pone la citata legge n. 1426 del 1956 in contrasto con gli artt. 3 e 35 Cost., in relazione alla maggiore entità del compenso spettante al professionista secondo tariffa, atteso che il minor emolumento dovuto al coadiutore del curatore si ricollega all'esigenza di contenimento delle spese nel processo fallimentare, e trova obiettiva giustificazione nella non riconducibilità, nell'ambito delle prestazioni di lavoro autonomo in senso stretto, di un'attività svolta nella veste di ausiliario del giudice. (Dir. fall., 1978, I, 586) la DOTTRINA

Per approfondimenti dottrinali

- CECCHELLA, Il diritto fallimentare riformato, Il Sole 24 Ore, 2007;

- DE SANTIS, «Valore della causa di opposizione a dichiarazione di fallimento», in Foro it., 1994, 1872;

- FAUSTINI, «Il valore della causa di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento ai fini della determinazione della misura dei diritti e degli onorari del difensore», in www.judicium.it;

- FIALE, Diritto fallimentare, Simone, 2007;

- MAFFEI ALBERTI, Commentario breve alla legge fallimentare, Cedam, 2007;

- OLLA, «Revirement della Corte Costituzionale in materia di compenso al curatore», in Diritto fallimentare e

delle società commerciali, 2007, II, 199;

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- RUGGIERO, «Art. 32» in La legge fallimentare , Commentario teorico-pratico, (a cura di) Ferro, Cedam, 2007, 246 ss.

le CONCLUSIONI Dalle considerazioni svolte emerge che il valore della causa di dichiarazione di fallimento e della causa di opposizione è indeterminabile, perché l'oggetto della domanda non è la contestazione del singolo credito, come accade nell'esecuzione individuale, ma l'accertamento dello stato di insolvenza. Pertanto, il difensore ha diritto alla liquidazione degli onorari, secondo gli scaglioni previsti per cause di valore indeterminabile, nella Tabella A II relativa agli onorari giudiziali, per le cause avanti al Tribunale, di cui al D.M. n. 127/2004. Se il fallimento è negativo, l'Erario è tenuto a corrispondere gli onorari al curatore. Tuttavia, nel caso di passivo molto elevato e attivo modesto, è possibile garantire la remuneratività della funzione di curatore, contenendo la spesa pubblica. Tale obiettivo si raggiunge, considerando gli scaglioni di cui all'art. 1, D.M. n. 570/1992, come limiti massimi, e valutando l'attività effettivamente svolta dal curatore, secondo criteri di efficienza ed efficacia, quali i risultati ottenuti, l'importanza del fallimento e la sollecitudine delle operazioni. L'onorario del delegato si liquida secondo gli stessi criteri previsti per il curatore, anche perché il delegato sostituisce il curatore nelle medesime attività. Dunque l'onorario del delegato è detratto dal compenso dovuto al curatore. Invece l'onorario del coadiutore è determinato secondo i criteri applicabili agli ausiliari del giudice ex artt. 49 ss. D.P.R. n. 115/2002. Infatti il coadiutore non svolge attività di lavoro autonomo, ma presta la sua attività come collaboratore del giudice. la PRATICA Caso relativo al compenso del curatore posto a carico dell'Erario Di fronte a decine di migliaia di fallimenti incapienti, chiusi dalle Sezioni fallimentari italiane, si determina un rilevante onere globale a carico del bilancio annuale dello Stato, che deve “garantire” copertura al compenso del curatore. Tutto ciò è la conseguenza pratica della sentenza della Corte Costituzionale 28 aprile 2006, n. 174. In particolare si può porre il problema di liquidare il compenso del curatore in procedure fallimentari in cui sono state accertate passività di decine o centinaia di milioni di euro, mentre l'attivo è molto modesto o inesistente. Questa situazione si configura, ad es., quando creditori istituzionali insinuano al passivo crediti conseguenti a violazioni tributarie gravi, oppure oneri sostenuti per mettere in sicurezza o bonificare aree delle società fallite. In un caso specifico il curatore fallimentare ha accertato passività per un importo prossimo a 140 milioni di euro, riconducibili in prevalenza a oneri di bonifica. L'attivo realizzato è stato di soli 240.000 euro. Pertanto il compenso minimo spettante al curatore, senza considerare Iva e cassa previdenziale, si aggira intorno a 369.000 euro, di cui 346.000 imputabili al solo passivo accertato. A carico dell'Erario resterebbero circa 150.000 euro. È evidente allora che, se da una parte va rispettato il principio di remuneratività dell'attività di curatore, e dunque il curatore ha tutto il diritto di ricevere il proprio compenso da chi è obbligato, dall'altra non si può “gonfiare”troppo la spesa pubblica. Alcuni Tribunali, tra cui in prima linea la Sezione fallimentare di Milano, a partire dal 9 febbraio 2004, hanno cercato di prevenire qualsiasi rischio di responsabilità erariale, predisponendo una tabella dei compensi del curatore, che consenta la liquidazione dei compensi secondo una misura minima, media o massima, e secondo i principi di efficienza ed efficacia ex art. 1, D.M. n. 570/1992. In particolare, nel caso di fallimento incapiente il Tribunale di Milano determina il compenso del curatore secondo la misura minima della tabella, ponendo tale compenso in tutto o in parte a carico dell'Erario.

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Approfondimenti di Lex24 Diritto di famiglia Amministrazione di sostegno anche per il cittadino extracomunitario Legge 9 gennaio 2004, n. 6 Laura Tavelli, network giuridico CENDON&Partners - a cura di Lex24 Reati contro il patrimonio Furto di energia elettrica: reato permanente o a consumazione prolungata? Corte d'Appello di Palermo, Sezione 4, Sentenza 11 marzo 2011, n. 837 a cura di Lex24 Società di capitali Compiti e responsabilità degli amministratori delle società di capitali Corte di Cassazione, Sezione I, Sentenza 27 aprile 2011, n. 9384 a cura di Lex24 ALBO PROFESSIONALE Negata l'equiparabilità tra magistrati onorari e magistrati dell'ordine giudiziario Corte di Cassazione Sezioni Unite civili – Sentenza 29 marzo 2011, n. 7099 Chiara Teodorani, avvocato - a cura di Lex24 Amministrazione di sostegno anche per il cittadino extracomunitario Legge 9 gennaio 2004, n. 6 Laura Tavelli, network giuridico CENDON&Partners - a cura di Lex24 Problemi per l’applicabilità dell’istituto dell’amministratore di sostegno correlata alla competenza territoriale sorgono qualora il beneficiario del provvedimento risulti essere o un cittadino italiano residente all’estero o cittadini stranieri con residenza o domicilio in territorio italiano. Sicuramente il richiamo alla normativa italiana da applicare ai casi sopra indicati sarà differente. Per quanto concerne il cittadino italiano residente all’estero, come si potrà vedere di seguito, la legge da applicare sarà sempre quella italiana, mentre la competenza può spettare al Giudice Tutelare o al Capo dell’ufficio consolare di I categoria, ovvero il titolare, il capo di missione diplomatica nell'esercizio di funzioni consolari (Tribunale di Mantova, 17 marzo 2007). Il decreto emesso dal Giudice Tutelare comportando, nella maggior parte dei casi, una limitazione della capacità di agire del soggetto interessato, va ad intaccare lo stato e la capacità delle persone escludendo, pertanto, a priori l’ambito di applicazione del regolamento C.E. n.44/01 art.1 comma 2 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale e trovando, invece, applicazione l’art. 9 della legge n.218/95 (norme di diritto internazionale privato) dove in materia di volontaria giurisdizione, la giurisdizione italiana sussiste, oltre che nei casi specificamente contemplati dalla legge e in quelli in cui è prevista la competenza per territorio di un giudice italiano, quando il provvedimento richiesto concerne un cittadino italiano o una persona residente in Italia o quando esso riguarda situazioni o rapporti ai quali è applicabile la legge italiana. Ove, comunque, non si dovessero presentare nel decreto delle limitazioni della capacità della persona, e pertanto facendo rientrare la figura giuridica dell’amministratore di sostegno nell’ambito di applicazione della giurisdizione contenziosa, ai sensi del regolamento Ce n.44/01, non si deve assolutamente scordare che il convenuto (nel caso de quo beneficiario) possiede la cittadinanza italiana e quindi sussiste già un momento di collegamento idoneo a radicare la giurisdizione italiana. Altro problema, invece, è il luogo in cui deve essere incardinato il procedimento ai sensi dell’art. 404 c.c. ai fini dell’individuazione del Giudice competente per territorio. Attraverso un criterio di analogia tra la figura giuridica dell’amministratore di sostegno e dell’interdizione e dell’inabilitazione, si ritiene competente a pronunciarsi il Tribunale di ultima residenza in Italia del beneficiario e nel caso in cui non abbia mai avuto residenza in Italia risulterebbe essere competente il Tribunale di Roma, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. 200/67 in materia di interdizione e inabilitazione. Nel caso in cui non si riscontrasse tale analogia si ricorrerebbe al Capo dell'ufficio consolare di I categoria, il quale, ai sensi dell’art. 35 del D.P.R. 200/67, può emanare, quando particolari circostanze lo consiglino, nei confronti dei cittadini residenti nella circoscrizione, stabilita ai sensi dell’art. 43 e ss. c.c., i provvedimenti di volontaria

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giurisdizione, in materia di diritto di famiglia e di successioni, di competenza del giudice tutelare (Corte Cost. n. 51/2010). Per lo straniero extracomunitario l’applicazione delle norme riguardanti l’amministratore di sostegno può presentare delle difficoltà, in quanto la normativa internazionale di diritto privato prevede che i presupposti e gli effetti delle misure di protezione degli incapaci maggiori di età, nonché i rapporti fra l’incapace e chi ne ha la cura, sono regolati dalla legge nazionale dell’incapace. Nulla questio, comunque, per l’applicazione della legge italiana e in particolare dell’istituto dell’amministratore di sostegno anche allo straniero qualora la legge nazionale, per via delle previsioni di cui all’art. 13 l. 218/1995, rinvii indietro alla legge italiana o laddove l’istituto straniero di protezione del disabile sia compatibile con l’amministrazione di sostegno o qualora il giudice non riesca ad accertare la legge straniera indicata, neanche con l’aiuto delle parti, e non siano presenti altri criteri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa, ex art. 14 comma 2 l.218/95 (Tribunale di Verona del 11.3.2011). Per completezza, in aggiunta, necessita ricordare che sempre in materia di protezione internazionale degli adulti, l’Italia ha firmato la convenzione dell’Aja del 13.01.2000, nonostante a tutt’oggi non vi è stata alcuna ratifica. “La convenzione comporta comunque un utile ausilio nel caso in cui la legge straniera applicabile non contenga un rinvio indietro alla legge italiana né preveda un istituto analogo all’amministrazione di sostegno” (Tribunale di Verona 2008). Tuttavia non va ignorato che gli artt. 43 e 44 l. 218/1995 prevedono che “per proteggere in via provvisoria e urgente la persona o i beni dell’incapace il giudice italiano può adottare le misure previste dalla legge italiana”. © RIPRODUZIONE RISERVATA Furto di energia elettrica: reato permanente o a consumazione prolungata? Corte d'Appello di Palermo, Sezione 4, Sentenza 11 marzo 2011, n. 837 a cura di Lex24 SELEZIONE TRATTA DALLA BANCA DATI A CURA DI LEX24 Furto di energia elettrica - Delitto a consumazione prolungata - Effetti - Rilevanza unitaria delle plurime captazioni di energia - Sussistenza. Il furto di energia elettrica rientra tra i delitti a consumazione prolungata (o a condotta frazionata), perché l'evento continua a prodursi nel tempo sebbene con soluzione di continuità, sicché le plurime captazioni di energia che si susseguono nel tempo costituiscono singoli atti di un'unica azione furtiva. Corte d'Appello di Palermo, Sezione 4 Penale, sentenza 11 marzo 2011, n. 837 Impianto elettrico dell'agente - Collegamento alla presa Enel - Interruttore - Appropriazione dell'energia senza registrarne i consumi - Mancata corresponsione del prezzo - Configurabilità del delitto di furto aggravato. La presenza di un cavo direttamente collegato sulla presa Enel esezionabile mediante interruttore, finalizzata all'alimentazione dell'impianto dell'agente, costituisce circostanza idonea alla configurabilità del delitto di furto di energia elettrica, aggravato dall'uso del mezzo fraudolento, da identificarsi quest'ultimo proprio nella predisposizione del cavo nella presa Enel al fine di impedire, utilizzando il relativo interruttore, la rilevazione del consumo di energia da parte della società di erogazione. La descritta condotta, invero, nella parte in cui consente all'utente di ottenere la fornitura secondo il fabbisogno necessario senza la registrazione del consumo, configura l'impossessamento del bene illecitamente, giacché non solo non provvede alla controprestazione, ma altresì impedisce, con il rilevato espediente, la registrazione del consumo, integrando la sottrazione dell'ingiusto profitto. Accertate nella specie circostanze, per quanto innanzi, idonee alla integrazione del delitto di furto aggravato, alcun rilievo può attribuirsi all'assunto difensivo nella parte in cui sostiene che l'intervento illegale sarebbe stata posto in essere, di propria iniziativa, da persona intervenuta al solo fine di ovviare ad un guasto improvviso dell'impianto, senza rendere di ciò edotto colui a vantaggio del quale l'impianto stesso era realizzato. Tribunale Bari, Sezione 2 Penale, sentenza 4 marzo 2011, n. 468

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Furto di energia elettrica - Semplice allacciamento abusivo - Esclusione dell'aggravante dell'uso del mezzo fraudolento. In tema di furto di energia elettrica non è ravvisabile l'aggravante dell'uso del mezzo fraudolento di cui all'art. 625, n. 2 C.p. nel semplice allacciamento abusivo all'altrui contatore. L'uso del mezzo fraudolento di cui alla norma, infatti, presuppone che la condotta della sottrazione si sia accompagnata da uno stratagemma idoneo a nascondere l'accadimento al proprietario del bene, cosa che non può dirsi in relazione al semplice collegamento dei fili elettrici che integra, di per se, un elemento costitutivo del reato (in quanto rende possibile il furto di energia) non idoneo da solo, dove non espressamente camuffato, ad integrare l'aggravante in parola. Tribunale Ruvo di Puglia, Penale, sentenza 18 febbraio 2010, n. 46 Furto di energia elettrica - Allaccio abusivo al contatore di altro soggetto - Circostanze e presupposti per la configurabilità della fattispecie - Interesse esclusivo del prevenuto - Imputabilità. Incorre nell'imputazione per il reato di furto di cui all'art. 624 c.p., il prevenuto che, allacciandosi abusivamente al contatore ENEL della p.o., abbia usufruito del servizio a seguito della sospensione della fornitura per morosità nel pagamento delle bollette. In merito al delitto ascritto, non possono sussistere dubbi in ordine alla colpevolezza dell'imputato laddove il furto in questione non possa essere addebitato ad altro soggetto stante l'interesse esclusivo dell'imputato di beneficiare del servizio, ai danni della persona offesa ed a causa della sua morosità. Tribunale Perugia, Penale, sentenza 30 gennaio 2010, n. 1296 Furto - Oggetto di furto di energia elettrica - Natura del reato - Reato a "consumazione prolungata" - Conseguenze in tema di flagranza di reato. Il reato di furto di energia elettrica commesso mediante abusivo allacciamento alla rete di distribuzione va qualificato, nel caso in cui i vari prelievi di energia si susseguano nel tempo, come reato non permanente ma piuttosto definibile "a consumazione prolungata" o "a condotta frazionata", con conseguente configurabilità, comunque, quando la captazione sia in atto, dello stato di flagranza. Corte di Cassazione, Sezione 2 Civile, sentenza 22 gennaio 2010, n. 1201 Reati contro il patrimonio - Delitti - Furto - Circostanza aggravanti - In genere - Furto di energia elettrica - Natura giuridica - Momento consumativo - Flagranza di reato. Il furto di energia elettrica rientra tra i delitti a consumazione prolungata (o a condotta frazionata), perché l'evento continua a prodursi nel tempo, sebbene con soluzione di continuità, sicché le plurime captazioni di energia che si susseguono nel tempo costituiscono singoli atti di un'unica azione furtiva, e spostano in avanti la cessazione della consumazione fino all'ultimo prelievo. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto che il delitto è flagrante se all'atto dell'intervento della P.G. la captazione di energia elettrica è ancora in atto). Corte di Cassazione, Sezione 4 Penale, sentenza 14 gennaio 2010, n. 1537 Furto - Oggetto - Furto di energia elettrica - Natura del reato - Reato a "consumazione prolungata" - Conseguenze in tema di flagranza di reato Il reato di furto di energia elettrica commesso mediante abusivo allacciamento alla rete di distribuzione va qualificato, nel caso in cui i vari prelievi di energia si susseguano nel tempo, come reato non permanente ma piuttosto definibile "a consumazione prolungata" o "a condotta frazionata", con conseguente configurabilità, comunque, quando la captazione sia in atto, dello stato di flagranza. Corte di Cassazione, Sezione 4 Penale, sentenza 14 gennaio 2010, n. 1537 Furto - Alterazione di contatore elettrico - Asportazione dei sigilli - Aggravante di cui all'art. 625, n. 2. In tema di furto perpetrato mediante l'alterazione di un contatore elettrico al fine di far risultare una potenza impiegata ed una energia fornita inferiore alla realtà, integra l'aggravante di cui all'art. 625, n. 2 c.p. l'avere rimosso i sigilli posti sul coprimorsetto del contatore per porre in essere la condotta illecita. Tribunale Cassino, Penale, sentenza 23 giugno 2009, n. 403 Furto di energia elettrica - Idoneità del contratto d'affitto privo di data certa a far sorgere dubbi sull'attribuibilità del reato al proprietario dell'immobile - Sussistenza. (Cp, art. 624)

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L'incertezza in ordine alla effettiva attribuibilità all'imputato del reato di furto di energia elettrica può essere dal giudice motivata anche in relazione alla produzione di un contratto di affitto non registrato e, pertanto, privo di data certa, ciò, tuttavia, ove l'efficacia sostanziale dell'atto negoziale, ancorché invalido sotto il profilo civilistico, abbia ricevuto ampio riscontro attraverso l'acquisizione di fonti testimoniali. Tribunale di Cassino, sentenza 7 maggio 2009, n. 270 Indagini preliminari - Arresto in flagranza - Stato di flagranza - Delitti a condotta frazionata - Furto di energia elettrica - Consumazione - Conseguenze. Lo stato di flagranza nella commissione del delitto di furto di energia elettrica si protrae sino al momento in cui l'utenza, su cui sono operate le plurime captazioni, è attiva. (La Corte ha chiarito che il delitto è a condotta frazionata, o a consumazione prolungata, sicchè le captazioni successive alla prima non costituiscono "post factum" penalmente irrilevante, nè singole ed autonome azioni costituenti altrettanti furti, ma atti di un'unica azione furtiva). Corte di Cassazione, Sezione 4 Penale, sentenza 5 maggio 2009, n. 18485 Reato - Circostanze - Attenuanti comuni - Danno patrimoniale di speciale tenuità - Furto di energia elettrica realizzato con l'abusivo allacciamento - Compatibilità con l'attenuante di cui all'art. 62 n. 4 cod. pen. - Esclusione. In tema di furto di energia elettrica in utenza domestica, l'attenuante del danno di particolare lievità non può, di regola, essere concessa in quanto nelle abitazioni l'appropriazione illecita di energia avviene con flusso continuo e la consumazione del reato deve ritenersi protratta per tutto il periodo in cui la casa venga abitata. Corte di Cassazione, Sezione 4 Penale, sentenza 5 maggio 2009, n. 18485 Furto - Furto di energia elettrica - Circostanze attenuanti - Danno patrimoniale di speciale tenuità - Concedibilità - Esclusione. In tema di furto di energia elettrica in utenza domestica, l'attenuante di cui all'articolo 62, n. 4, del Cp non può, di regola, essere concessa, pur in ragione dei singoli esigui prelievi di energia di volta in volta captati, in quanto nelle abitazioni l'appropriazione illecita di energia avviene con flusso continuo e la consumazione del reato deve ritenersi protratta per tutto il periodo in cui la casa venga abitata. Corte di Cassazione, Sezione 4 Penale, sentenza 5 maggio 2009, n. 18485 Furto - Furto di energia elettrica - Circostanze attenuanti - Danno patrimoniale di speciale tenuità - Concedibilità - Esclusione. (Cp, articoli 62, n. 4, 624 e 625) In tema di furto di energia elettrica in utenza domestica, l'attenuante di cui all'articolo 62, n. 4, del Cp non può, di regola, essere concessa, pur in ragione dei singoli esigui prelievi di energia di volta in volta captati, in quanto nelle abitazioni l'appropriazione illecita di energia avviene con flusso continuo e la consumazione del reato deve ritenersi protratta per tutto il periodo in cui la casa venga abitata. Corte di Cassazione, Sezione 4 Penale, sentenza 5 maggio 2009, n. 18485 Reati contro il patrimonio - Delitti - Furto - In genere - Furto di energia elettrica - Natura - Reato permanente - Esclusione - Reato a consumazione prolungata - Conseguenze in termini di decorrenza della prescrizione. Il termine di prescrizione del delitto di furto di energia elettrica decorre dall'ultima delle plurime captazioni di energia, che costituiscono i singoli atti di un'unica azione furtiva a consumazione prolungata. Corte di Cassazione, Sezione 4 Penale, sentenza 22 aprile 2009, n. 17036 Casi simili Allaccio abusivo alla rete idrica pubblica - Configurabilità del furto aggravato ex artt. 624, 625, nn. 2 e 7, c.p. - Sussistenza - Motivi. Integra gli estremi del furto aggravato ex artt. 624, 625, nn. 2 e 7, c.p., la realizzazione non autorizzata di una diramazione che allacci l'unità abitativa alla rete idrica pubblica, infatti, da un lato, l'esecuzione di un allaccio sulla conduttura idrica integra l'aggravante della violenza sulle cose e, dall'altro, la destinazione pubblica della res furtiva implica la ricorrenza al caso di specie anche della diversa circostanza di cui al n. 7 dell'art. 625 c.p.

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Tribunale Cassino, Penale, sentenza 20 gennaio 2011, n. 25 Furto aggravato e continuato di acque reflue urbane - Furto aggravato di acque pubbliche - Depenalizzazione - Impossessamento abusivo di acque pibbliche - Sanzione amministrativa - Norma speciale. Il reato di furto aggravato di acque pubbliche deve ritenersi depenalizzato, posto che l'art. 23 del D.Lgs. n. 152 del 1999 sanziona in maniera specifica, solo in via amministrativa, proprio la condotta di impossessamento abusivo di acque pubbliche. Tale norma, in particolare, in applicazione del principio di specialità anche rispetto al concorso apparente di norme coesistenti di natura rispettivamente penale ed amministrativa, costituisce norma speciale rispetto a quella generale di cui all'art. 624 c.p.. Le due norme, invero, regolano entrambe l'impossessamento di un bene altrui (ai sensi dell'art. 23 citato è fatto divieto di derivare o utilizzare acqua pubblica senza un provvedimento autorizzativo o concessorio dell'autorità competente) al fine, evidente, di trarne vantaggio,ma la fattispecie amministrativa presenta due elementi specializzanti: l'oggetto della condotta illecita - l'acqua - ed il dolo specifico, la finalità industriale. Tribunale Ruvo Di Puglia, Penale, sentenza 28 luglio 2010, n. 270 © RIPRODUZIONE RISERVATA Compiti e responsabilità degli amministratori delle società di capitali Corte di Cassazione, Sezione I, Sentenza 27 aprile 2011, n. 9384 a cura di Lex24 Società di capitali - Amministratori - Responsabilità verso la società - Ruolo e funzioni - Fattispecie concernente esercizio di attività assicurativa in un ramo non autorizzato. (Cc, artt. 2392 e 2393) In tema di società di capitali, gli amministratori non costituiscono soltanto l'organo cui è demandata l'esecuzione delle delibere dell'assemblea, ma svolgono anche una funzione propulsiva dell'attività di quest'ultima, oltre ad avere la gestione dell'attività sociale ed a poter compiere, nello svolgimento della stessa, tutte le operazioni che rientrano nell'oggetto della società. In caso di esercizio di attività assicurativa in un ramo non autorizzato, proprio la centralità del ruolo spettante agli amministratori rende ragione della riconducibilità alla loro condotta dell'illecito commesso dalla società, non essendo immaginabile che una così vistosa deviazione dell'attività assicurativa dai limiti segnati dalla disciplina di settore abbia potuto verificarsi senza l'apporto o comunque al di fuori del controllo dell'organo cui compete la gestione dell'attività sociale (Alla luce del principio espresso, la Suprema Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata nella quale la corte di merito aveva fondato l'affermazione della responsabilità degli amministratori sulla considerazione che l'esercizio dell'attività assicurativa in un ramo non autorizzato, accertato nel giudizio di opposizione alla sanzione amministrativa, costituisse indubitabilmente un'evidente violazione di legge connessa agli obblighi gestori degli amministratori di una compagnia di assicurazioni). Corte di Cassazione, Sezione I, sentenza 27 aprile 2011, n. 9384 - Presidente Proto - Relatore Mercolino Società di capitali - Amministratori - Responsabilità verso la società - Azione sociale per i danni cagionati alla società - Natura contrattuale - Conseguenze in ordine all'onere della prova - Individuazione. (Cc, artt. 2392 e 2393) La natura contrattuale dell'azione prevista dall'art. 2392 c.c., comporta che, ai fini del suo accoglimento, la società ha l'onere di provare soltanto la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità fra le stesse ed il danno verificatosi, mentre incombe sugli amministratori l'onere di dimostrare la non imputabilità a sè del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell'osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi loro imposti. (1) Corte di Cassazione, Sezione I, sentenza 27 aprile 2011, n. 9384 - Presidente Proto - Relatore Mercolino (1) In senso conforme, vedi, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 11 novembre 2010, n. 22911, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 29 ottobre 2008, n. 25977.

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Società di capitali - Amministratori - Responsabilità verso la società - Responsabilità solidale - Deleghe gestorie - Esonero da responsabilità degli amministratori non esecutivi - Limiti. (Cc, artt. 2392 e 2393) Nell'ambito temporale di applicazione dell'art. 2392 c.c., nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, il dovere di vigilare sul generale andamento della società, che il comma 2, della predetta disposizione pone a carico degli amministratori, permane anche in caso di attribuzione di funzioni al comitato esecutivo o a singoli amministratori delegati, salva la prova che i rimanenti consiglieri, pur essendosi diligentemente attivati, non abbiano potuto in concreto esercitare la predetta vigilanza a causa del comportamento ostativo degli altri componenti del consiglio. (1) Corte di Cassazione, Sezione I, sentenza 27 aprile 2011, n. 9384 - Presidente Proto - Relatore Mercolino (1) In senso conforme, vedi, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 11 novembre 2010, n. 22911, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 13 maggio 2010, n. 11643, Cassazione civile, Sez. L, sentenza 24 giugno 2004, n. 11751. Società di capitali - Amministratori - Responsabilità - Azione individuale del socio e del terzo - Ambito di applicazione - Individuazione. (Cc, art. 2395) In tema di società di capitali, l'art. 2395, primo comma, c.c., disciplina l'azione individuale del socio o del terzo, stabilendo che questi hanno diritto al risarcimento del danno subito, qualora "siano stati direttamente danneggiati" da atti dolosi o colposi degli amministratori, richiedendo, quindi, fatti illeciti direttamente imputabili ad un comportamento doloso o colposo dei medesimi. L'avverbio "direttamente" delimita l'ambito di esperibilità dell'azione ex art. 2395 c.c. rispetto alle fattispecie disciplinate dagli artt. 2393 e 2394 c.c. rendendo palese che il discrimine tra le stesse non va individuato nei presupposti stabiliti dalla legge per il sorgere di tali forme di responsabilità (che consistono pur sempre nella violazione, dolosa o colposa, dei doveri ad essi imposti dalla legge o dall'atto costitutivo), bensì nelle conseguenze che il comportamento illegittimo degli amministratori ha determinato nel patrimonio del socio o del terzo. Se il danno allegato costituisce solo il riflesso di quello cagionato al patrimonio sociale, si è al di fuori dell'ambito di applicazione dell'art. 2395 c.c., in quanto tale norma richiede che il danno abbia investito direttamente il patrimonio del socio o del terzo. (1) Corte di Cassazione, Sezione III, sentenza 22 marzo 2011, n. 6558 - Presidente Preden - Relatore Segreto (1) In argomento, confronta, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 5 agosto 2008, n. 21130, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 25 luglio 2007, n. 16416, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 3 aprile 2007, n. 8359. Pertanto, secondo consolidato orientamento, precisa la Suprema Corte, neppure rileva che il danno sia stato arrecato dagli amministratori nell'esercizio del loro ufficio o al di fuori di tali incombenze, ovvero che tale danno sia (o meno) ricollegabile ad un inadempimento della società, né infine che l'atto lesivo sia stato eventualmente compiuto dagli amministratori nell'interesse della società e a suo vantaggio, dato che la formulazione dell'art. 2395 c.c. pone in evidenza che l'unico dato significativo ai fini della sua applicazione è costituito appunto dall'incidenza del danno (cfr., Cassazione civile, Sez. I, sentenza 28 febbraio 1998, n. 2251, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 28 marzo 1996, n. 2850, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 22 gennaio 1993, n. 781). © RIPRODUZIONE RISERVATA Negata l'equiparabilità tra magistrati onorari e magistrati dell'ordine giudiziario Corte di Cassazione Sezioni Unite civili – Sentenza 29 marzo 2011, n. 7099 Chiara Teodorani, avvocato - a cura di Lex24 Le Sezioni Unite confermano il principio di diritto per cui i magistrati onorari non sono equiparabili a quelli dell’ordine giudiziario. Conseguentemente ritengono che chi ha svolto funzioni di magistrato onorario non ha diritto all’iscrizione all’albo professionale degli avvocati. Corte di Cassazione Sezioni Unite civili – Sentenza 29 marzo 2011, n. 7099 Professioni – Albo avvocati - Iscrizione – Giudice onorario - Non ha diritto.

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Chi ha svolto la funzione di vice procuratore onorario non ha diritto, come i magistrati, all'iscrizione all'albo professionale degli avvocati, in quanto i magistrati onorari restano estranei che partecipano all'amministrazione della giustizia. In particolare, mentre i giudici di professione costituiscono l'ordine giudiziario cui l'art. 104 della Costituzione garantisce l'autonomia e l'indipendenza da ogni altro potere, i giudici onorari hanno riconosciuta dallo stesso ordinamento giudiziario solo un'appartenenza funzionale allo stesso ordine giudiziario, con la conseguenza che è escluso che abbiano il medesimo titolo dei togati all'iscrizione dell'albo degli avvocati. SINTESI NORMATIVA L’art. 4, R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 e successive modifiche, stabilisce che l’ordine giudiziario è costituito dagli uditori, dai giudici di ogni grado dei tribunali e delle corti e dai magistrati del pubblico Ministero, precisa poi, che appartengono a tale ordine come magistrati onorari i giudici di pace, i giudici onorari di tribunale, i vice procuratori, gli esperti del tribunale ordinario e della sezione di corte di appello per i minorenni ed, inoltre, giudici popolari della corte di assise e della corte di assise di appello. Il magistrato onorario è, quindi, un membro dell’ordine dell’Ordine giudiziario la cui funzione giurisdizionale è caratterizzata dalla temporaneità e dalla tendenziale gratuità, in quanto non riceve una retribuzione, ma solo un’indennità per l’attività svolta. In relazione alla funzione, alla durata o ai compensi, è necessario fare una distinzione fra: Giudice di Pace Giudice onorario di Tribunale Giudice onorario Aggregato Vice Procuratore Onorario Altri giudici In merito a quest’ultimi deve essere compiuta una ulteriore classificazione a seconda di chi interviene, a vario titolo, nel processo, come i giudici onorari del Tribunale per i minorenni, gli esperti della Sezione Specializzata Agraria o del Tribunale di Sorveglianza e i Giudici popolari e di chi si occupa di giurisdizioni diverse, come i giudici che svolgono funzioni di Consiglieri di Cassazione o i componenti delle Commissioni Tributarie. Le funzioni, i poteri e le regole che caratterizzano la magistratura, invece, emergono con chiarezza dalla Costituzione della Repubblica Italiana, al titolo IV, I sezione, ove in primis si evince all’art. 104 Cost. che la magistratura “costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Le successive norme, oltre a definire il ruolo proprio della magistratura, al tempo stesso evidenziano anche le relative differenze rispetto alla categoria dei magistrati onorari, infatti, all’art. 106 Cost. è stabilito che “le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso” e all’art. 108 Cost. si precisa che “le norme sull'ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge. La legge assicura l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all'amministrazione della giustizia”. Quest’ultima affermazione richiama l’attenzione sui magistrati onorari che vengono, pertanto, definiti da un lato come “estranei”, ma allo stesso tempo viene riconosciuta loro, l’indipendenza, svolgendo funzioni giurisdizionali. Costituzione della Repubblica Italiana: artt. 104 – 106- 108; R.D. 30 gennaio 1941, n. 12: art. 4; R.D. 27 novembre 1933, n. 1578 : art. 26 IL COMMENTO In fatto, il ricorrente avendo svolto funzioni di vice procuratore onorario per cinque anni consecutivi affermava di avere diritto all'iscrizione all'albo professionale degli avvocati ai sensi dell'art. 26, 1 comma, lett. b, R.D. del 27/11/1933, n. 1578. Il Consiglio Nazionale forense, con decisione del 28 novembre 2009,

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rigettava il ricorso ritenendo non equiparabile la posizione di magistrato onorario a quella di magistrato dell'ordine giudiziario. La decisione veniva impugnata dall'istante che, pur riconoscendo le differenze tra magistrati di ruolo e magistrati onorari, negava che tale mancata equiparazione potesse rilevare anche ai fini della iscrizione all'albo professionale degli avvocati e, conseguentemente, riteneva che il diniego dell'iscrizione ponesse dubbi sulla legittimità costituzionale, ex. art. 3 Cost., del differente trattamento tra categorie. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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