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Nazareth 2 - 2013 | I NAZARETH AD JESUM PER MARIAM - PICCOLE SUORE SACRA FAMIGLIA - Castelletto sul Garda - VR Periodico di educazione cristiana n. 2 aprile-maggio-giugno 2013 - Anno CVII - Poste Italiane spa - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB VERONA

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Nazareth 2 - 2013 | I

NAZARETHAD JESUM PER MARIAM - PICCOLE SUORE SACRA FAMIGLIA - Castelletto sul Garda - VR

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II | Nazareth 2 - 2013

Sommario n. 2/2013

A cura delle «Piccole Suore della Sacra Famiglia»aprile-maggio-giugnon. 2 - 2013 Anno CVII - Trimestrale

Direttore responsabile:Sr. Maria Angelica Cavallon

Direzione e Amministrazione:Istituto Piccole Suoredella Sacra Famiglia37010 Castelletto di Brenzone (VR)

Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB VERONAAutorizzazione Tribunaledi Verona n. 29, 8 febbraio 1960

COMITATO DI REDAzIONE:37138 VeronaVia G. Nascimbeni, 10www.pssf.it - e-mail: [email protected]. Maria Angelica Cavallon, Sr. Maria Romana Bombo,Sr. Umberta Maria BettegaCOLLABORATORI DI qUESTO NUMERO: Andrea Cornale, Anna Pia Viola, Italo Forieri,Katia Scabello Garbin, Maria Laura Rossi,Giulio Biondi, Emma Provoli, Rosanna Facchin,Suor Erica Benetton

Iva assolta dall’Editoreex art. 74 D.P.R. 633/72

La pubblicazione è curata da Editoriale Della ScalaPovegliano Veronese

Stampa: Grafiche Piave s.r.l.Via Spagna, 16 37069 Villafranca (VR)Tel. 045/6301555Fax 045/6301789

NAZARETH

Ricordiamo ai gentili Lettori il rinnovo dell’abbonamento per il 2013: € 15,00 per l’Italia, € 20,00 per l’estero, sul c/c postale n. 14875371.

Foto di copertina:in prima Lago Gabiet - Valle d’Aostain quarta percorso sul lato svizzero del Lago di Costanzadi Filippo Rossetto - PD

Mi metterò di sentinella,in piedi sulla fortezza,a spiare, per vedere che cosa mi dirà,che cosa risponderà ai miei lamenti.

Ab 2,1

la Redazione

La propria identità ............................... 1

lettera della Madre

La relazione con se stessi ..................... 2

formazione

La scoperta della propria identità ......... 3Essere se stessi .................................... 5

magistero

La “ Porta della fede” .......................... 6

evento storico

Papa Francesco ................................... 8 carisma

S. Giuseppe custode della vita ............. 9Più fatti che parole ............................ 11

esperienza ............................................Una scuola compagna di strada ......... 12

letteratura

Gli scrittori in relazione con se stessi:dalla vita alle opere ........................... 13

iconografia e spiritualità

Icona dell’Amicizia ............................ 15Parrocchia S. Croce - VR ..................... 16

voce giovani

Relazione con se stessi ...................... 18

fascicolo centrale Ascolta, Signore, la mia voce Sal 27,7 ............................................ 19Vivrò come una bambina abbandonata nelle mani di Dio Beata Maria Domenica Mantovani ........ 20Eccomi come cera al fuoco.Imprimete Voi quell’immagineche meglio vi piace. Fatemi come volete.Beato G. Nascimbeni ......................... 21

...con i nostri fratelli minori ................ 22

voce giovani

La ritrattistica cinquecentesca ............ 23

biblioteca in famiglia

Il libro e se stessi: la libertà di un dialogo ...................... 25

dalle nostre comunità

Testimonianza ................................... 27Monte Romano (VT) in festa .............. 28Serravalle (FE) in festa ....................... 29Cento anni di presenza ...................... 30Felice anniversario ............................. 30

flash

Dalla scuola materna di Bornato (BS) .................................. 31Sono entrate nella pienezza della vita .................... 31

CEI: Orientamenti pastorali

Educare: cammino di relazionee di fiducia ........................................ 32

voci diverse

Per vivere meglio il nostro tempo .......... 34 Riflessioni sui diritti dei bambini ............ 35

orizzonti missionari ...........................Solidarietà e non solo... ..................... 37Dialogo aperto .................................. 38

esperienza- testimonianza

Maria Anna e il figlio che non si sposa................................ 39

convegno

Laici e consacrati insieme .................. 40

Decimo anniversario della

beatificazione di madre Maria

Mantovani pssf ............................ 41

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Nazareth 2 - 2013 | 1

La Redazione

La propria identitàUn dono da custodire, sviluppare e manifestare

Diverse scuole di psicologia e di psicanalisi negli ultimi due secoli hanno cercato

di aiutare le persone, più o meno in crisi, a ritrovare o raggiungere la propria identità, per vivere la neces-saria esperienza di sana relazione con sè, fondamentale per ogni altra relazione. Un percorso spesso lungo, tortuoso, con risultati alterni e tal-volta mai definitivi. Difficilmente si è pensato e scelto, anche da parte di chi è cristiano, un cammino diverso, indicato nella Bibbia. Infatti il cuo-re della rivelazione divina, per sua natura storico, è per la vita piena di ogni uomo, donna e di tutti i popo-li. In quella “biblioteca” di Libri, per la costante unione tra Parola divina e parole umane, tra Verbo e carne, tra eternità e tempo, tra infinito e spazio umano, tra Dio e uomo, tro-viamo tutte le risposte per la sete di autenticità. Due sono le luci che il-luminano il percorso interpretativo della lettura credente, rispetto la re-lazione, esemplificate già nel primo libro della Genesi: la relazione con Dio e con il fratello. Due le doman-de che possono scuotere l’uomo e la donna di ogni epoca e ricondur-la/lo alla sua identità originaria: Adam, uomo, “Dove sei?” (Gen 3,9) e,“Dov’è Abele, tuo fratello?” (Gen 4,9). Alla prima domanda ciascuno di noi è chiamato anche oggi a ri-spondere. Certo, forse risulta diffi-cile, a motivo della debole relazione verso se stessi e il Creatore. Spesso, come il primo uomo e donna, ci na-scondiamo, perchè proviamo ver-gogna di noi stessi per orgoglio o paura di Dio. L’esperienza della nu-dità, del limite o l’aver incappato in errori e illusioni ci spinge a ritirarci

nel “quieto” vivere egoistico, bloc-cando ogni dinamismo personale, comunitario e sociale. Sì, tentiamo di nasconderci e di rimuovere la do-manda “Dove sei?” e di conseguenza ogni altra domanda. Risultano più facili e compensatorie le continue lamentazioni, le risposte accusatri-ci, solo come povero tentativo di spostare su altro o altri la respon-sabilità della nostra inquietudine e insoddisfazione. La seconda risposta è conseguente: non ci occupiamo del fratello, della sorella, abbiamo rotto drasticamente con lui, con lei o rimaniamo tenacemente attaccati all’indifferenza, autoconvincendo-ci di non avere fratelli e sorelle. In fondo siamo “orfani” o “figli” di un Padre sconosciuto. In questo modo viene a mancare il fondamento alla nostra identità e relazione con noi stessi, con gli altri e la nostra vita non trova riposo, pienezza. La ri-cerca di senso e di felicità si fa esa-sperata, folle, frenetica, sensa sosta, mentre, ancora in Genesi, c’è la ri-sposta alla nostra sete.Dopo che Dio ha fatto bene ogni cosa e ha generato con la sua Parola anche ciò che è molto buono, l’uo-mo e la donna, creature che parte-cipano direttamente della Sua vita, Dio ha creato il settimo giorno, la menuchà, il “riposo”, qualcosa di intrinsecamente positivo, senza cui l’universo non sarebbe stato com-pleto. Ha creato “ la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo”. Tutto ciò, nello spirito biblico, è sinonimo di “felicità” (cfr Dt 12,9; 1 Re 8,96; Sal 23,2; 95, 11), di silenzio, di pace e armonia, che indicano apertura oltre questa vita, benedizione e san-tità. Questa possibilità originaria ce

l’ha ri-donata Cristo, con l’offerta li-bera, per amore, della sua vita e con il comandamento nuovo (cfr Gv 13, 34 e Gv 21, 15-19).In che cosa è grande dunque l’uomo? L’uomo è grande “se riconosce che Gesù è il Signore; se comprende di essere stato giustificato, ricreato nella sola fede in Cristo; se conosce Lui e la potenza della sua risurrezione; se ab-bandona ogni alterigia e ogni super-bia e pone la sua speranza e amore in Lui. È Dio ‘che suscita in noi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli di-segni’ (Fil 2, 13). È ancora Dio che, per mezzo del suo Spirito, rivela la sua sa-pienza destinata alla nostra gloria. Dio ci dà la forza e il vigore nelle fatiche. ‘Ho faticato più di tutti loro’ dice Pa-olo: ‘non io però, ma la grazia di Dio che è con me’ (1 Cor 15, 10). ‘Dalla morte Dio ci ha liberati e ci libererà, e per la speranza che abbiamo in lui ancora ci libererà’ (2 Cor 1, 10; cfr S. Basilio Magno, Omelie, pp 530-531)”.La nostra identità è “umano-divina”, destinata a durare. Questa è la nostra vera ricchezza: “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (2 Cor 5, 17). E la forza di questa novità sta nel sentirsi perdo-nati per aver accordato il perdono (Lc 23, 34) nella certezza che, assu-mendo responsabilmente il prezzo della nostra redenzione, ciascuno di noi, secondo le sue possibilità, darà testimonianza ai fratelli e alle sorel-le del mistero della sua nuova vita, della nuova e gioiosa relazione con se stesso (cfr Commento al libro di Giobbe, di S. Gregorio Magno). Così possiamo cantare insieme il “Canto nuovo”(Sal 149).

Sr. Maria Angelica Cavallon

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2 | Nazareth 2 - 2013

Lettera della Madre

La relazione con se stessiConoscersi per realizzare la vita

È convinzione diffusa, e tutti ne facciamo esperienza, che l’essere umano per crescere

ha bisogno di entrare in relazione con gli altri. Ma è altrettanto vero e importante che ciascuno di noi costruisca un sano rapporto con se stesso. Per la fede cristiana l’uo-mo è stato creato a immagine so-miglianza di Dio (cfr. Gen 1,27) e per questo raggiunge la vita in pie-nezza quando diventa il più possi-bile simile al suo Creatore. In altre parole: siamo chiamati a diventare ciò che già siamo per il battesimo, figli e figlie di Dio. Quali sono le difficoltà che incontriamo in que-sto percorso verso la piena identità personale? Innanzitutto l’umile riconosci-mento della fragilità umana: no-nostante i nostri desideri e i buoni propositi siamo talvolta condi-zionati nei comportamenti da un forte bisogno di affetto e di stima, da una aggressività che vorrebbe dominare l’altro, dal desiderio di possedere sempre di più, dal biso-gno di ottenere successo e ricono-scimento per ciò che facciamo… C’è un mondo di paure, bisogni, emozioni, attese… che ci abita e ci condiziona senza che noi a volte ce ne accorgiamo, oppure senza che riusciamo a contrastare gli impulsi che spontaneamente avvertiamo. Questo significa che noi siamo anche “altro”, diversi da ciò che vorremmo essere e da ciò che gli altri (genitori, coniuge, insegnanti, amici, datori di lavoro…) si aspet-tano da noi. È importante ricono-scere questo e imparare dalle no-stre reazioni e dai nostri pensieri

a capire come siamo fatti, non per colpevolizzarci, ma per accoglier-ci nella verità davanti a Dio, che ci vuole bene e sempre agisce per la nostra crescita.Una seconda difficoltà che ci im-pedisce di diventare ciò che siamo è la volontà di costruirci da soli, di realizzarci secondo l’immagine ideale che ci siamo fatti di noi. Ma in questo modo ci illudiamo per-ché costruiamo sui nostri sogni, su ciò che non siamo. È come l’uomo del vangelo che costruisce la casa sulla sabbia anziché sulla roccia, così che le avversità la abbattono (cfr. Mt 7,26-27). Nessuno di noi si è dato la vita da sé, non solo perché l’ha ricevuta dai genitori ma ancor più profondamente perché l’unica origine della vita è Dio. È da Lui che dobbiamo accogliere il signifi-cato di ciò che siamo e la meta a cui dobbiamo tendere. La conoscenza di sé è il punto di partenza sia per uno sviluppo umano che per un cammino di fede. I nostri limiti, conosciuti e accolti, non sono più un ostacolo all’azione della grazia di Dio, ma diventano occasione per scopri-re che proprio nella debolezza si manifesta la potenza di Dio (cfr. 2 Cor 12,9). Quando meno ce lo aspettiamo Dio si lascia incontra-re. Pensiamo a Pietro: segue Gesù fin dall’inizio e si proclama suo di-fensore contro chi lo vuole mettere a tacere, eppure nel momento della prova ha paura e lo rinnega. Nella sua debolezza però non si chiude in se stesso, ma ha il coraggio di lasciarsi raggiungere dallo sguardo di Gesù, uno sguardo di amore che

gli ridona speranza. Il Signore si fida così tanto di Pietro, che pure lo ha tradito, da affidargli la guida della Chiesa. Questo significa che nella fede anche le paure possono essere superate e messe nelle mani di Dio. Pian piano Pietro ripren-de fiducia e accogliendo lo Spirito Santo a Pentecoste diventa uno dei più coraggiosi e intrepidi apostoli del vangelo. Pietro dunque ritrova se stesso, l’identità di discepolo del Signore, e porta a compimento la sua vocazione, fino al martirio.Per crescere, ciascuno di noi ha bisogno di costruire una solida identità, basata sulla fiducia e sul desiderio di mettere a disposizione i talenti ricevuti per il bene di tutti. Quando la relazione con se stessi è armonica ed equilibrata, anche il rapporto con gli altri e con tutto il creato diventa più sereno e libero. Don Nascimbeni lo aveva capito, per questo ha speso ogni energia a vantaggio dei giovani. Voleva to-glierli dalla cattiva strada, dai pe-ricoli di una vita senza scopo. Le numerose attività formative e ri-creative a cui ha dato vita intende-vano garantire ai giovani gli stru-menti necessari per crescere sani, nel corpo e nello spirito. Istruzione scolastica, catechesi, momenti di preghiera e di svago, gruppi asso-

Don Nascimbeni ha speso ogni

energia a vantaggio dei giovani

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Nazareth 2 - 2013 | 3

Formazione

ciativi e caritativi… tutto veniva fatto per sviluppare nei giovani la capacità di rapportarsi con gli altri, l’intraprendenza, la generosa cari-tà, la rettitudine, l’onestà, l’amore per il bene… Il metodo pedago-gico del Fondatore alternava be-nevolenza e fermezza, incoraggia-mento e rimprovero, perché voleva che ciascuno prendesse consape-volezza sia dei doni ricevuti sia dei limiti che era chiamato a superare. Solo conoscendo se stesso in modo autentico, ciascuno poteva scopri-re la propria vocazione e realizzare la propria vita per la gloria di Dio e il progresso della società. Oggi i tempi sono cambiati e così pure le forme educative, ma il prin-cipio di fondo resta il medesimo. Conoscere noi stessi alla luce dello sguardo d’amore di Dio ci permet-te di diventare ciò che siamo: figli e figlie del Padre celeste, chiamati a donare la vita con amore e per amo-re in famiglia, sul lavoro, tra amici, nel tempo libero, nell’impegno in parrocchia e in qualunque ambito ci porti il nostro progetto di vita.

Sr. Angela Merici PattaroSuperiora generale

La scoperta della propria identitàNoi siamo quelli che guardando gli altri

impariamo a migliorare noi stessi,

e questo succede a tal punto da non riuscire

più a dire “io” senza dire anche “tu”

L’insistenza quasi ossessiva sulla relazione e sul rap-porto con gli altri, rivela,

a mio parere, due cose. La prima: che vi è una mancanza significati-va di relazione e dunque un biso-gno profondo di capire se stessi e gli altri per un rapporto autentico. La seconda: che vi è un’incapacità di guardare a se stessi, di prendersi cura di sé, a tal punto da credere che l’altro debba essere la soluzio-ne o la causa dei nostri problemi. Vorrei fermare la nostra attenzio-ne su questo secondo aspetto, su ciò che determina la nostra identi-tà e sulla necessità di essere custo-di di noi stessi. L’esperienza di quanti hanno tante relazioni, anche profonde e signi-ficative, è sempre più spesso quella di doversi fermare a considerare le diverse sollecitazioni che proven-gono dagli altri. La domanda che sorge potrebbe essere: “Dove sono io in tutto questo?” oppure “Chi sono io veramente?”. A prima vi-sta potrebbero sembrare domande troppo impegnative, eppure, for-mulate in maniera diversa, rivela-no l’antico e autentico bisogno di rispondere a sé e di se stessi. Non si tratta di uno smarrimento di senso, tutt’altro, siamo dinanzi ad un mo-mento di rivelazione della propria interiorità. Entrando nell’esperien-

za concreta: capita che nella scelta consapevole dell’impegno affettivo, in famiglia, nella coppia o nella vita consacrata, si abbia la percezione che non coincidiamo con ciò che abbiamo scelto. L’amore che diamo agli altri, e quello che da loro rice-viamo, certamente ci appagano, ma non possono esaurire un desiderio profondo che ci rivela la nostra uni-cità. Non si tratta di una semplice insoddisfazione, quanto piuttosto del farsi strada della consapevolezza che siamo fatti per cose grandi e che nessun uomo / donna può appagare la nostalgia di ritrovarci in noi stes-si non più soli. Vuoi vedere che la persona che più ci manca alla fine siamo proprio noi, in noi stessi? Vuoi vedere che il nostro rivolgerci agli altri in fondo non rivela altro

L’amore che diamo agli altri, e quello che da loro

riceviamo, non possono esaurire un desiderio profondo

che ci rivela la nostra unicità

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4 | Nazareth 2 - 2013

Formazione

che il bisogno di stare in pace con noi stessi, di imparare ad amarci e a volerci bene? Ed ecco che viene il momento di fermarsi e comincia-re a prendersi cura di sé partendo proprio dal fatto che ciascuno di noi è così unico che nessuno può mai somigliarci in sensibilità, de-sideri, capacità di donarsi. Quante delusioni e amarezze nello scoprire che l’altro non è come ce lo aspet-tavamo. Quante ferite ci portiamo

dentro per questa mancanza d’a-more. Eppure si comincia proprio da qui a relazionarsi veramente con noi stessi e non con l’immagine che avevamo di noi. Bisogna comincia-re con il riconoscere che noi siamo una realtà unica, inedita, il cui va-lore non è dato dagli altri, ma lo abbiamo in noi stessi. Noi siamo creature che possono definire se stesse, costruirsi, cambiare progetti, riflettere sulla propria storia. Abbia-mo la caratteristica di provenire da un passato che, pur avendoci con-dizionato, non ci tiene in trappola e da cui dobbiamo partire per costru-ire un presente diverso. Noi siamo quelli che guardando gli altri impa-riamo a migliorare noi stessi, e que-sto succede a tal punto da non riu-scire più a dire “io” senza dire anche “tu”. Questo sguardo parte da noi e ci porta a vedere le cose per quelle che sono e impariamo a guardare e ad apprezzare noi stessi come parte

di un mondo degno di essere amato e rispettato. Avere cura di sé, essere custodi di se stessi, significa in questo caso crescere nella consapevolezza che l’altro (l’amico, il compagno, il pa-dre, … ) è qualcuno che deve rela-zionarsi a noi e imparare anche lui a riconoscere di trovarsi dinanzi ad una persona diversa. Scopriamo di essere noi stessi in un cammino che ci vede protagonisti di cambiamenti nella mentalità, nella formulazione di giudizi, nei desideri del cuore. Per prima noi dobbiamo ricono-scere che non siamo più quelli di una volta: desideriamo cose diverse

o le stesse cose che amiamo ora le vediamo sotto una luce differente. Abbiamo commesso degli errori e abbiamo anche delle colpe, ma noi non coincidiamo con quello che abbiamo fatto. La capacità di vede-re se stessi in questo cambiamento dell’essere della nostra persona, ci rende adulti consapevoli che il li-mite umano è la possibilità che ab-biamo di diventare ancora di più uomini. A qualcuno potrebbe far comodo pensare che la propria vita sia solo lo sviluppo di un disegno già tracciato, una sorta di DNA che dice chi siamo. Ma a ben guardare, e rimanendo sull’esempio biologico, la nostra struttura ci dice solo come siamo inseriti in questo ambiente, ci dà le potenzialità per vivere, ma le scelte di vita dobbiamo farle noi. Le scelte che facciamo rivelano a noi stessi ciò che amiamo e ciò per cui vale la pena soffrire e morire, in una parola: la nostra identità, unica ed irrepetibile.

Anna Pia Viola

Le scelte di vita dobbiamo farle noi

Noi siamo una realtà unica, inedita, il cui

valore non è dato dagli altri, ma lo abbiamo in noi

stessi

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Nazareth 2 - 2013 | 5

Formazione

Essere se stessiLa professione medica è quella che conosco più da vicino. Chi

la esercita è ben consapevole che si tratta di una professione

delicatissima, totalmente al servizio della vita, dell’uomo e della

sua dignità incommensurabile

Esercitare una professione (qualsiasi essa sia) significa rendersi disponibili al Si-

gnore per collaborare con Lui nella realizzazione di un mondo più bel-lo e più giusto. Ogni professione è importante agli occhi di Dio e non vi è lavoro che “valga” più di un al-tro per Lui. Ciò che conta è invece il modo con cui lo realizziamo e ‘per chi’ o ‘per che cosa’ lo esercitia-mo! Si dice che nella Chiesa ci sono molti carismi, molti ministeri, mol-ti modi di servire Dio…dunque anche l’esercizio di una professione può essere considerato come una Risposta ad una precisa Chiamata. Mai come in questi tempi sentia-mo la necessità di ‘bravi e santi’ lavoratori profondamente inna-morati di Dio e appassionati delle Sue creature, disposti a donarsi ai fratelli senza temere sacrifici o dif-ficoltà! ‘Bravi e santi’ ovvero com-petenti e preparati nel loro ambito professionale ma anche capaci di servire l’uomo con grande dedi-zione. Il mondo di oggi ha quanto mai bisogno di uomini e donne che si impegnino a vivere la San-tità nell’esercizio umile e costan-te del proprio dovere quotidiano; di uomini e donne che vivano in modo ‘straordinario’ ogni piccola-semplice esperienza quotidiana e che, restando immersi nelle realtà terrene, sappiano far emergere ciò che di divino si nasconde in esse; di uomini e donne che realizzino tut-to “per Amore” trasformando così

la propria vita ordinaria in una te-stimonianza di Fede, di Speranza e di Carità, testimonianza autentica, semplice e nascosta, non orientata alla ricerca della “gloria umana” o dei “beni materiali” ma orientata semplicemente a ‘piacere a Dio’.La professione medica è quella che conosco più da vicino. Chi la eser-cita è ben consapevole che si tratta di una professione delicatissima, totalmente al servizio della vita, dell’uomo e della sua dignità in-commensurabile. La sua vera mis-sione è certamente quella di “cu-rare” (con scrupolo-impegno) e di “guarire” (laddove è possibile) ma anche quella di ascoltare, di capire le necessità e i bisogni della perso-na nella sua globalità, di chinarsi sul malato, di prendersene cura, di offrire consolazione, conforto e speranza. A volte il contatto quo-tidiano e costante con situazioni dolorose porta con sé il rischio di un progressivo inaridimento del cuore e di un progressivo distacco dal malato, specie quando ci si tro-va davanti a situazioni che non la-sciano speranze di guarigione. Ma un vero medico (soprattutto un cristiano che è anche medico) do-vrebbe avere sempre il cuore aperto e disponibile alle richieste di aiuto che provengono da chi vive nella sofferenza, dovrebbe “lasciarsi tur-bare dai bisogni dell’altro” e non essere mai “in pace” (ovvero mai insensibile o indifferente al dolore degli altri ) come è accaduto al Sa-

maritano della Parabola e come è accaduto (e accade ancor oggi) per tanti medici! “Io impazzisco per i brandelli di umanità ferita… più sono feriti, più maltrattati, più di nessun conto agli occhi del mondo, più io li amo…” scriveva Annalena Tonelli. Avere cura, farsene cari-co, servire con grande generosità - umanità e delicatezza, consolare e offrire speranza sono dunque le caratteristiche essenziali che qua-lificano un servizio medico come cristiano e ci rendono quindi veri discepoli di Gesù. Ma vi è un’altra virtù, ancora più grande, che siamo chiamati a vive-re in modo tutto particolare: quella della Carità. Se nell’esercizio della nostra professione manca la Cari-tà ogni cura, anche quella più ag-giornata e sicura, sarà efficace solo

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Magistero

La “Porta della fede”Continua la pubblicazione della lettera

apostolica di Benedetto XVI

per l’Anno della fede. Invitiamo i lettori

all’approfondimento personale dei contenuti

10. Vorrei, a questo punto, delineare un percorso che aiuti a

comprendere in modo più profon-do non solo i contenuti della fede, ma insieme a questi anche l’atto con cui decidiamo di affidarci total-mente a Dio, in piena libertà. Esiste, infatti, un’unità profonda tra l’atto con cui si crede e i contenuti a cui diamo il nostro assenso. L’apostolo Paolo permette di entrare all’inter-no di questa realtà quando scrive: «Con il cuore … si crede … e con la bocca si fa la professione di fede» (Rm 10,10). Il cuore indica che il primo atto con cui si viene alla fede è dono di Dio e azione della grazia che agisce e trasforma la persona fin nel suo intimo.L’esempio di Lidia è quanto mai eloquente in proposito. Racconta san Luca che Paolo, mentre si tro-vava a Filippi, andò di sabato per annunciare il Vangelo ad alcune donne; tra esse vi era Lidia e il «Si-gnore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo» (At 16,14). Il senso racchiuso nell’espressione è importante. San Luca insegna che la conoscenza dei contenuti da credere non è sufficiente se poi il cuore, autentico sacrario della per-sona, non è aperto dalla grazia che consente di avere occhi per guar-dare in profondità e comprendere che quanto è stato annunciato è la Parola di Dio.Professare con la bocca, a sua vol-

ta, indica che la fede implica una testimonianza ed un impegno pubblici. Il cristiano non può mai pensare che credere sia un fatto privato. La fede è decidere di stare con il Signore per vivere con Lui. E questo “stare con Lui” introdu-ce alla comprensione delle ragioni per cui si crede. La fede, proprio perché è atto della libertà, esige an-che la responsabilità sociale di ciò che si crede. La Chiesa nel giorno di Pentecoste mostra con tutta evi-denza questa dimensione pubblica del credere e dell’annunciare senza timore la propria fede ad ogni per-sona. È il dono dello Spirito Santo che abilita alla missione e fortifica la nostra testimonianza, renden-dola franca e coraggiosa.La stessa professione della fede è un atto personale ed insieme co-munitario. È la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede. Nel-la fede della Comunità cristiana ognuno riceve il Battesimo, segno efficace dell’ingresso nel popolo dei credenti per ottenere la sal-vezza. Come attesta il Catechismo della Chiesa Cattolica: « “Io credo”; è la fede della Chiesa professata personalmente da ogni credente, soprattutto al momento del Bat-tesimo. “Noi crediamo” è la fede della Chiesa confessata dai Vescovi riuniti in Concilio, o più general-mente, dall’assemblea liturgica dei fedeli. “Io credo”: è anche la Chiesa nostra Madre, che risponde a Dio

in parte! La Carità non è generica ‘benevolenza’! È piuttosto la ca-pacità di servire e amare l’uomo con il Cuore di Cristo! È pazienza, gioia, gratuità, bontà, disponibili-tà, servizio generoso, dedizione at-tenta e premurosa; è fare tutto, an-che le cose più piccole, più umili, più apparentemente insignificanti con grande Amore. Mi tornano alla mente molti esempi di “santi e bravi medici” che hanno vissuto la Carità in modo eroico: dai più lontani come Cosimo e Damiano (medici e fratelli) a quelli più vicini come Giuseppe Moscati (medico e laico cristiano), Riccardo Pampuri (medico condotto e consacrato), Giuseppe Ambrosoli (medico e missionario-consacrato), Gianna Beretta Molla (medico e madre)…e molti altri medici morti nel ser-vizio in guerra o in missione. Sono fratelli e sorelle che hanno fatto della loro vita un dono gratuito per il prossimo e hanno sperimentato la gioia di servire con grande amo-re un Dio che si nasconde nei pic-coli, nei semplici, nei più indifesi, nei poveri. Guardando a loro an-che noi possiamo essere certi che il segreto della Santità è racchiuso solo in queste parole: «Tutto quel-lo che avete fatto all’ultimo dei miei fratelli, lo avete fatto a Me!». Basta provare per credere!

Emma Provoli

La Carità è la capacità

di servire e amarel’uomo con il Cuore

di Cristo

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Magistero

con la sua fede e che ci insegna a dire “Io credo”, “Noi crediamo”».Come si può osservare, la cono-scenza dei contenuti di fede è es-senziale per dare il proprio assenso, cioè per aderire pienamente con l’intelligenza e la volontà a quan-to viene proposto dalla Chiesa. La conoscenza della fede introduce alla totalità del mistero salvifico ri-velato da Dio. L’assenso che viene prestato implica quindi che, quan-do si crede, si accetta liberamente tutto il mistero della fede, perché garante della sua verità è Dio stes-so che si rivela e permette di cono-scere il suo mistero di amore.D’altra parte, non possiamo di-menticare che nel nostro contesto culturale tante persone, pur non riconoscendo in sé il dono della fede, sono comunque in una since-ra ricerca del senso ultimo e della verità definitiva sulla loro esisten-za e sul mondo. Questa ricerca è un autentico “preambolo” alla fede, perché muove le persone sul-la strada che conduce al mistero di Dio. La stessa ragione dell’uomo, infatti, porta insita l’esigenza di «ciò che vale e permane sempre». Tale esigenza costituisce un invito permanente, inscritto indelebil-mente nel cuore umano, a mettersi in cammino per trovare Colui che non cercheremmo se non ci fos-se già venuto incontro. Proprio a questo incontro la fede ci invita e ci apre in pienezza.11. Per accedere a una conoscen-za sistematica dei contenuti della fede, tutti possono trovare nel Ca-techismo della Chiesa Cattolica un sussidio prezioso ed indispensabi-le. Esso costituisce uno dei frutti più importanti del Concilio Vati-cano II. Nella Costituzione Apo-stolica Fidei depositum, non a caso firmata nella ricorrenza del trente-simo anniversario dell’apertura del

Concilio Vaticano II, il Beato Gio-vanni Paolo II scriveva: «Questo Catechismo apporterà un contri-buto molto importante a quell’ope-ra di rinnovamento dell’intera vita ecclesiale… Io lo riconosco come uno strumento valido e legittimo al servizio della comunione eccle-siale e come una norma sicura per l’insegnamento della fede».È proprio in questo orizzonte che l’Anno della fede dovrà esprimere un corale impegno per la riscoper-ta e lo studio dei contenuti fonda-mentali della fede che trovano nel Catechismo della Chiesa Cattolica la loro sintesi sistematica e organi-ca. Qui, infatti, emerge la ricchez-za di insegnamento che la Chiesa ha accolto, custodito ed offerto nei suoi duemila anni di storia. Dalla Sacra Scrittura ai Padri della Chie-sa, dai Maestri di teologia ai San-ti che hanno attraversato i secoli, il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesa ha meditato sulla fede e prodotto progresso nella dottrina per dare certezza ai credenti nella loro vita di fede.Nella sua stessa struttura, il Cate-chismo della Chiesa Cattolica pre-senta lo sviluppo della fede fino a toccare i grandi temi della vita quotidiana. Pagina dopo pagina si scopre che quanto viene presenta-to non è una teoria, ma l’incontro con una Persona che vive nella Chiesa. Alla professione di fede, infatti, segue la spiegazione della vita sacramentale, nella quale Cri-sto è presente, operante e continua a costruire la sua Chiesa. Senza la liturgia e i Sacramenti, la profes-sione di fede non avrebbe efficacia, perché mancherebbe della grazia che sostiene la testimonianza dei cristiani. Alla stessa stregua, l’in-segnamento del Catechismo sulla vita morale acquista tutto il suo si-

gnificato se posto in relazione con la fede, la liturgia e la preghiera.12. In questo Anno, pertanto, il Catechismo della Chiesa Cattolica potrà essere un vero strumento a sostegno della fede, soprattutto per quanti hanno a cuore la for-mazione dei cristiani, così deter-minante nel nostro contesto cul-turale. A tale scopo, ho invitato la Congregazione per la Dottrina della Fede, in accordo con i com-petenti Dicasteri della Santa Sede, a redigere una Nota, con cui offrire alla Chiesa ed ai credenti alcune indicazioni per vivere quest’Anno della fede nei modi più efficaci ed appropriati, al servizio del credere e dell’evangelizzare.La fede, infatti, si trova ad essere sottoposta più che nel passato a una serie di interrogativi che pro-vengono da una mutata mentalità che, particolarmente oggi, riduce l’ambito delle certezze razionali a quello delle conquiste scientifiche e tecnologiche. La Chiesa tuttavia non ha mai avuto timore di mo-strare come tra fede e autentica scienza non vi possa essere alcun conflitto perché ambedue, anche se per vie diverse, tendono alla verità.

Benedetto XVI

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Evento Storico

Papa FrancescoLe sue prime parole, Roma 13. 03. 2013

Fratelli e sorelle, buonasera.Voi sapete che il dovere del conclave era di dare un ve-

scovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali sono andati quasi a prenderlo alla finde del mondo, ma siamo qui.Vi ringrazio dell’accoglienza. La comunità diocesana di Roma ha il suo vescovo: grazie! E prima di tutto vorrei fare una preghiera per il nostro vescovo emerito Benedet-to XVI. Preghiamo tutti insieme per lui, perché il Signore lo bene-dica e la Madonna lo custodisca…E adesso incominciamo questo cammino, vescovo e popolo, vesco-

vo e popolo. Questo cammino del-la chiesa di Roma che è quella che presiede nella carità tutte le chie-se. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghia-mo sempre per noi: l’uno per l’al-tro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa che oggi cominciamo, e nel quale mi aiuterà il cardinale vica-rio qui presente, sia fruttuoso per l’evangelizzazione di questa città tanto bella. Adesso vorrei dare la benedizione, ma prima - prima vi chiedo un favore. Prima che il Ve-scovo benedica il popolo, vi chiedo

che voi preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popo-lo, chiedendo la benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera… voi su di me… Adesso darò una benedizione a voi e a tutto il mondo, a tutti gli uomi-ni e le donne di buona volontà…Fratelli e sorelle, vi lascio, grazie tanto per l’accoglienza. Pregate per me e, a presto! Ci vediamo presto: domani voglio andare a pregare la Madonna, perché custodisca tutta Roma. Buona notte e buon riposo!

Tre parole: gioia, croce e giovaniDomenica della Palme, 24 03 2013

... Voi giovani avete una parte importante nella festa della fede! Voi ci portate la gioia della fede e ci dite che dobbiamo vivere la fede con un cuore giovane, sempre: un cuore giovane, anche a settanta, ottant’anni! Cuore giovane! Con Cristo il cuore non invecchia mai! Però tutti noi lo sappiamo e voi lo sapete bene che il Re che seguiamo e che ci accompagna è molto speciale: è un Re che ama fino alla croce e che ci insegna a servire, ad amare. E voi non avete vergogna della sua Croce! Anzi, la abbracciate, perché avete capito che è nel dono di sé, nel dono di sé, nell’uscire da se stessi, che si ha la vera gioia e che con l’amore di Dio Lui ha vinto il male. Voi portate la Croce pellegrina attraverso tutti i continenti, per le strade del mondo! La portate rispondendo all’invito di Gesù ‘Andate e fate discepoli tutti i popoli’ (cfr Mt 28,19), che è il tema della Giornata della Gioventù di quest’anno. La portate per dire a tutti che sulla croce Gesù ha abbattuto il muro dell’inimicizia, che separa gli uomini e i popoli, e ha portato la riconciliazione e la pace.Cari amici, anch’io mi metto in cammino con voi, da oggi, sulle orme del beato Giovanni Paolo II e di Be-nedetto XVI. Ormai siamo vicini alla prossima tappa di questo grande pellegrinaggio della Croce. Guardo con gioia al prossimo luglio, a Rio de Janeiro! Vi do appuntamento in quella grande città del Brasile! Pre-paratevi bene, soprattutto spiritualmente nelle vostre comunità, perché quell’Incontro sia un segno di fede per il mondo intero. I giovani devono dire al mondo: è buono seguire Gesù; è buono andare con Gesù; è buono il messaggio di Gesù; è buono uscire da se stessi, alle periferie del mondo e dell’esistenza per portare Gesù! Tre parole: gioia, croce, giovani. Chiediamo l’intercessione della Vergine Maria. Lei ci insegna la gioia dell’incontro con Cristo, l’amore con cui lo dobbiamo guardare sotto la croce, l’entusiasmo del cuore giovane con cui lo dobbiamo seguire in questa Settimana Santa e in tutta la nostra vita. Così sia”.

Francesco

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Carisma

S. Giuseppe custode della vita19 .03. 2013. Una “lezione” sorpresa per noi Piccole Suore

della S. Famiglia, che cerchiamo di riscoprire e vivere

quotidianamente secondo le relazioni, a Nazareth,

tra Gesù Maria e Giuseppe

Ringrazio il Signore di poter celebrare questa Santa Mes-sa di inizio del ministero

petrino nella solennità di San Giu-seppe, sposo della Vergine Maria e patrono della Chiesa universale: è una coincidenza molto ricca di si-gnificato, ed è anche l’onomastico del mio venerato Predecessore: gli siamo vicini con la preghiera, pie-na di affetto e di riconoscenza... Abbiamo ascoltato nel Vangelo che “Giuseppe fece come gli ave-va ordinato l’Angelo del Signo-re e prese con sé la sua sposa”. In queste parole è già racchiusa la missione che Dio affida a Giu-seppe, quella di essere custos, cu-stode. Custode di chi? Di Maria e di Gesù; ma è una custodia che si estende alla Chiesa, come ha sot-tolineato il beato Giovanni Paolo II: “San Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all’edu-cazione di Gesù Cristo, così custodisce e proteg-ge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine Santa è figura e modello”.Come esercita Giuseppe questa custodia? Con di-screzione, con umiltà, nel silenzio, ma con una pre-senza costante e una fe-deltà totale, anche quando non comprende. Dal ma-trimonio con Maria fino all’episodio di Gesù dodi-

cenne al tempio di Gerusalemme, accompagna con premura e amore ogni momento. È accanto a Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita, nel viag-gio a Betlemme per il censimento e nelle ore trepidanti e gioiose del parto; nel momento drammatico della fuga in Egitto e nella ricerca affannosa del figlio nel Tempio; e poi nella quotidianità della casa di Nazaret, nel laboratorio dove ha insegnato il mestiere a Gesù.Come vive Giuseppe la sua vo-cazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa? Nella costan-te attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio; ed è quello che Dio chiede a Davide […]: Dio non desidera una casa costruita dall’uomo, ma desidera la fedeltà

alla sua Parola, al suo disegno; ed è Dio stesso che costruisce la casa, ma di pietre vive segnate dal suo spirito.Giuseppe è “custode” perché sa

ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è an-cora più sensibile alle per-sone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui, cari amici, vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con pron-tezza, ma vediamo anche qual è il centro della vo-cazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire

Giuseppeè accanto a Maria

sua sposanei momenti serenie in quelli difficili

della vita...nella quotidianità

della casa di Nazareth

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10 | Nazareth 2 - 2013

Carisma

gli altri, per custodire il creato!La vocazione del custodire, però, non riguarda solo noi cristiani: ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero crea-to, la bellezza del creato, come ci viene detto nel libro della Genesi e come ci ha mostrato San France-sco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’am-biente in cui viviamo.È custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vec-chi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. È l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genito-ri. È il vivere con sincerità le ami-cizie, che sono un reciproco custo-dirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affi-dato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni di Dio!E quando l’uomo viene meno a questa responsabilità, quando non ci prendiamo cura del creato e dei fratelli, allora trova spazio la distruzione e il cuore si inari-disce. In ogni epoca della storia, purtroppo, ci sono degli “Erode” che tramano disegni di morte, distruggono e deturpano il volto dell’uomo e della donna. Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsa-bilità in ambito economico, poli-tico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione, del di-segno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di morte e distruzione accompagnino il cam-

mino di questo nostro mondo!Ma per custodire dobbiamo anche avere cura di noi stessi! Ricordia-mo che l’odio, l’invidia, la superbia sporcano la vita! Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sen-timenti, sul nostro cuore, perché è da lì che escono le intenzioni buo-ni e cattive: quelle che costruisco-no e quelle che distruggono! Non dobbiamo avere paura della bontà; anzi, neanche della tenerezza!E qui aggiungo, allora, un’ulterio-re annotazione: il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, San Giuseppe appa-re come un uomo forte, coraggio-so, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi: al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di com-passione, di vera apertura all’altro, di amore. Non dobbiamo avere ti-more della bontà, della tenerezza!Oggi, insieme alla festa di San Giuseppe, celebriamo l’inizio del ministero del nuovo Vescovo di Roma, successore di Pietro, che comporta anche un potere. Cer-

to, Gesù Cristo ha dato un po-tere a Pietro, ma di quale potere si tratta? Alla triplice domanda di Gesù a Pietro sull’amore, se-gue il triplice invito: pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che an-che il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice lumi-noso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di San Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tut-to il popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umani-tà, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli che Matteo de-scrive nei giudizio finale sulla ca-rità: chi ha fame, sete, è straniero, nudo, malato, in carcere. Solo chi serve con amore sa custodire!Nella seconda lettura, San Paolo parla di Abramo, il quale “credette, saldo nella speranza, contro ogni speranza”. Anche oggi, davanti a tanti tratti di cielo grigio, abbiamo bisogno di vedere la luce della spe-ranza e di dare noi stessi speranza. Custodire il creato, ogni uomo e ogni donna, con uno sguardo di te-nerezza e amore, è capire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è por-tare il calore della speranza! E per il credente, per noi cristiani, come Abramo, come San Giuseppe, la speranza che portiamo ha l’orizzon-te di Dio che ci è aperto in Cristo, è fondata sulla roccia che è Dio.

Papa Francescovescovo di Roma

Custodireè l’aver cura

l’uno dell’ altronella famiglia:

i coniugi si custodiscono

reciprocamentee col tempoanche i figli

diventano custodi dei genitori

Siate custodidei doni di Dio!Di tutti i doni

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Carisma

“Più fatti che parole”, “rin-novarsi ad ogni battere di polso” sono le coordinate

dell’opera educativa del beato Giu-seppe Nascimbeni, cui possiamo aggiungere l’espressione cara a Ma-dre Maria, la discepola fedele: “un giorno meglio dell’altro”. Sacerdote, maestro, parroco, fondatore, il Na-scimbeni è stato per tutta la sua vita un educatore esigente, stimolante, efficace con i ragazzi e i giovani della scuola e dell’oratorio, con i parroc-chiani, le persone accolte nelle varie opere, in modo particolare con le suore. Il suo era il tempo dell’impe-gno, dello sforzo costante per cresce-re nella virtù, diventare forti nell’af-frontare la vita con i suoi pesi e le sue fatiche, capaci di sacrificio fino al dono di sé e obbedienti e sottomessi a chi era davanti sia genitore sia au-torità di qualsiasi titolo, gli unici in grado di dire la parola ultima sulla vita e sulle cose da fare, parola da ac-cettarsi come verità indiscussa.Il valore della persona, la sua re-sponsabilità e autonomia personale erano lontane dall’essere conside-rate, mentre la dipendenza e l’ap-prendimento degli insegnamenti degli adulti erano i fattori primi dell’educazione.Il Nascimbeni, pienamente dentro la cultura del suo tempo e ben de-terminato circa il suo compito di educatore, segue i metodi pedago-gici impositivi ed esigenti che egli stesso aveva appreso, ma pone alla base della sua azione educativa e della sua stessa vita che, perciò, di-venta essa stessa proposta formati-

va, dei principi saldi, insegnamenti concreti ed essenziali, una passione per la crescita della persona e per sostenerla nel cammino, che rende efficace ogni suo gesto e ogni suo intervento.Parte sempre dal mettere davan-ti una finalità ben definita e chiara, un orizzonte di senso che attrae ed appaga, perché risponde alle esigen-ze profonde della persona. “Salvare anime” è per le suore l’obiettivo da tenere presente, è la motivazione che coinvolge tutta la persona, la porta ad esprimere tutte le sue potenzialità nel dono di sé e nella prossimità, ma anche nella creatività, nell’inventiva, nella ricerca di possibilità sempre nuove per arrivare alle persone, in tempi di grande povertà di risorse e di mezzi. L’ideale alto rincuora, sprona ed incoraggia a superare se stesse, perché il Padre dimostra sti-ma, crede nelle sue figlie, le accom-pagna nell’affrontare situazioni im-prevedibili, a volte strane e difficili. Le suore si fidano, si sperimentano, trovano gioia nel provare le proprie capacità, nell’aiutarsi a vicenda, nel comprendere quanto possa un cuore aperto e ardente e quale bene gran-de possa essere seguire un percorso tracciato con un costante punto di riferimento per conservare l’entusia-smo e la fedeltà alla propria crescita e al dono ricevuto e ridonato.Prima di mandarle il Padre le pre-para con tocchi rapidi ed essenzia-li, poche le parole ma tanti i gesti significativi, accompagnati dall’e-sempio: con lui rimangono lunghe ore a pregare, perché il rapporto

con il Signore diventi il motivo del vivere; con lui vanno a porta-re “la rosadina” agli ammalati sul monte, e vegliano nella notte, per apprendere la dedizione gratuita e generosa; da lui imparano gli at-teggiamenti di bontà, umiltà, lealtà, laboriosità e apertura all’altro che caratterizzano la Piccola Suora. E perché l’impegno formativo fosse costante e la disponibilità ad ac-cogliere insegnamenti ed orienta-menti fosse seria, mandava a getta-re sassi nel lago colei che sembrava resistere alle proposte o recalcitra-va nel cammino o semplicemente doveva essere messa alla prova per saggiarne la virtù.La concretezza educativa che par-te dalla vita ed entra nella vita ed è espressione dell’Incarnazione del Verbo, fu la sua costante nell’agire e nell’educare, insieme alla tensio-ne verso un progresso nella cono-scenza e nel dominio di sé, nella capacità di stabilire rapporti e di porsi al servizio, invitando a “rin-novarsi ad ogni battito di polso”.L’affetto che le suore e tutte le perso-ne a lui vicine hanno provato per il Padre è chiaro segno di un impegno educativo che è partito dal cuore, è divenuto forza di attrazione verso il bene, passione per aiutare ciascuno nel suo cammino di realizzazione di se stesso, che significa incontrarsi con l’Amore, trovare nella vita quel-lo spazio e creare quei rapporti che dicono liberazione dal male, capaci-tà di cercare, gustare, operare il bene sempre.

G.T.

Più fatti che paroleGiuseppe Nascimbeni nella relazione con ogni persona parte sempre

dal mettere davanti un orizzonte di senso, che attrae e appaga,

perchè risponde alle esigenze profonde della vita

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12 | Nazareth 2 - 2013

Esperienza

“Quando annunciamo Gesù e lo testimonia-mo con la nostra vita

e con le nostre parole, la Chiesa diventa una madre che genera fi-gli. Ma quando non lo facciamo, la Chiesa diventa non la madre ma una baby sitter che cura il bambi-no per farlo addormentare.” Que-ste le parole di papa Francesco nell’Omelia a Casa Santa Marta il 18 aprile scorso. Si tratta – come sempre accade nelle esortazioni del Santo Padre – di un forte invito alla responsabilità sia individuale che collettiva dei cristiani. E sono parole quanto mai interessanti e ricche di spunti per chi svolge il proprio servizio come educatore in una scuola.Sempre più, in effetti, si ha l’im-pressione che anche la scuola stes-sa abbia assunto le funzioni di una baby sitter che accoglie i bambini già da piccolissimi e per quindici o vent’anni tende a ospitare i gio-vani anziché crescerli, a “tenerli a bada” anziché “curarli”, per usa-re la stessa espressione di Bergo-glio. Il rischio che questo diventi un sistema è noto e si fonde con le difficoltà stesse delle famiglie, della società, del mondo culturale e lavorativo, dei valori, insomma con quella che Benedetto XVI ave-va puntualmente segnalato come “emergenza educativa”.Sarebbero senz’altro molti gli aspetti da approfondire intorno a questo problema, tuttavia uno sembra tutto sommato centrale: la necessità – all’interno della scuo-la di ogni ordine e grado – di dare

un senso profondo, chiaro e condiviso a ciò che si sta facen-do. Un senso che sia le famiglie che i bambini/ragazzi, sia gli insegnanti/educatori che le istituzioni do-vrebbero porre alla base del pro-prio quotidiano vivere, e che nella nostra “società liquida” (la celebre definizione è del filosofo Zygmunt Bauman) invece si perde in mille rivoli di interpretazione fino spes-so a scomparire dall’orizzonte. Abbiamo già avuto modo di par-lare, negli scorsi numeri di Naza-reth, di quanto sia importante per un educatore testimoniare davan-ti ai propri ragazzi la convinzione profonda e sicura della propria missione, così come la passione nei confronti della propria “ma-teria” e della propria professione. Lo ribadiamo ancora con forza, innestandoci alla saggia esorta-zione di Francesco: un educato-re non deve ridursi ad essere un baby sitter, una sorta di parcheg-giatore generazionale di giovani che non hanno altro luogo dove passare le proprie giornate. Un educatore, a tutti i livelli, deve in-vece essere una persona che con la sua umanità mette in contatto i ragazzi, di qualsiasi età essi sia-no, con la cultura ed i valori civili e spirituali; deve essere in grado di mostrare come ogni uomo ed ogni donna debbano, per diven-tare tali, imparare ad entrare in contatto critico con la società ma anche con la propria interiorità.

“Essere cristiano non è fare una car-riera in uno studio per diventare un avvocato o un me-dico cristiano” ha affermato Bergoglio

nella stessa omelia. Lo stesso si potrebbe dire di qualsiasi scuola, non solo di una scuola di ispira-zione cristiana: educare e inse-gnare non significa formare avvo-cati, o medici, o periti agrari, o ra-gionieri. Non significa certificare le ore di presenza dietro un banco e finalizzare tutto al timbro su un diploma. Significa camminare insieme, imparare insieme per-ché insieme condividiamo il sen-so stesso della scuola. Forse una scuola interamente basata sulle reali esigenze di ognuno, dove a tutte le domande c’è una risposta, dove “in classe una parola da nul-la può diventare un mondo” (l’e-spressione di formidabile poesia è del giovane don Lorenzo Milani), è un’utopia, un sogno irrealizza-bile, cui ci si può soltanto avvici-nare con la buona volontà di tanti educatori, la collaborazione delle famiglie e la vivacità degli alun-ni che non si accontentano e vo-gliono davvero crescere insieme. Tuttavia è questa l’unica scuola che ci sentiamo di proporre oggi: una scuola che non sia la quoti-diana e sonnacchiosa sorvegliante di una, due o cinque ore, ma una compagna di strada che, una vol-ta lasciata, non si dimentica mai veramente.

Andrea Cornale

Una scuola compagna di stradaLuogo dove a tutte le domande c’è una risposta

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Nazareth 2 - 2013 | 13

Letteratura

Non solo nelle autobiogra-fie “dichiarate” si possono trovare le vicende, gli epi-

sodi, gli eventi che hanno contrad-distinto l’esistenza di uno scrittore: direttamente o indirettamente tut-te le opere letterarie scaturiscono dalla vita dei loro autori. Gli esem-pi sono talmente numerosi che do-vremo circoscrivere drasticamente il campo della nostra indagine, tralasciando quindi tutto ciò che precede la nascita della letteratura italiana, ed anche così facendo l’e-stensione del nostro orizzonte sarà comunque enorme. Non possiamo non citare Dante, la cui Comme-dia è fonte inesauribile di rimandi alla storia del poeta, e lo stesso si può dire per Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso e, in tempi a noi più vicini, per Leopardi, Carduc-ci, Pascoli… Ma se vogliamo an-

dare più in profondità e conferire più chiarezza al nostro discorso, è opportuno che ci soffermiamo su pochi esempi. Esamineremo quin-di le relazioni che intercorrono tra la vita e le opere di Umberto Saba, del suo contemporaneo Giuseppe Ungaretti e di due prosatori dallo stesso cognome ma dalle esperien-ze decisamente diverse: Carlo e Primo Levi.Umberto Saba (Trieste 1883-Go-rizia 1957) già nello pseudonimo scelto come “nome d’arte” ci rive-la qualcosa di importante di sè o meglio della sua infanzia. Il vero cognome del poeta era Poli: Peppa Sabaz si chiamava la balia cui il pic-colo Umberto era stato affidato ed a cui era legato da un affetto colmo di gratitudine, in considerazione del fatto che i momenti passati con lei erano stati tra i più felici della sua esistenza, data la difficile situa-zione familiare nella quale si era venuto a trovare. La madre, ebrea, era stata abbandonata dal marito, cattolico, prima della nascita del figlio e questo fatto ne aveva con-dizionato negativamente tutta la vita, rendendola una donna acida e scostante. Saba, che avrebbe co-nosciuto il padre solo da adulto, ci racconta tutto questo in una breve poesia intitolata Mio padre è stato per me “l’assassino”. Mio padre è stato per me “l’assas-sino”, / fino ai vent’anni che l’ho conosciuto. / Allora ho visto ch’e-gli era un bambino, / e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto. / Aveva

in volto il mio sguardo azzurrino, / un sorriso, in miseria, dolce e astuto. / Andò sempre pel mondo pellegrino; / più d’una donna l’ha amato e pasciuto. / Egli era gaio e leggero; mia madre / tutti sentiva della vita i pesi. / Di mano ei gli sfuggì come un pallone. / “Non somigliare – ammoniva – a tuo pa-dre”. / Ed io più tardi in me stesso lo intesi: / Eran due razze in antica tenzone.Straordinaria ed ammirevole la ca-pacità di sintesi del poeta che, in pochi versi, ci parla non solo della frattura tra i suoi genitori, ma an-che del rancore che la madre cova-va nei confronti del marito (“l’as-sassino”), dell’atmosfera pesante che gravava sulla sua famiglia, del carattere leggero (in tutti i sen-si) del padre, grande seduttore di donne (dalle quali si faceva man-tenere…), e infine del dono che il padre, generandolo, gli aveva fatto: quello della poesia. Diverse esperienze troviamo nel-le poesie di Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto 1888-Milano 1970). Interessanti sono le compo-sizioni che si riferiscono alla sua giovinezza in Egitto, dove il padre, lucchese, era emigrato per lavorare alla costruzione del canale di Suez, e toccanti quelle dedicate al figlio morto tragicamente nel 1939. Ma le poesie di cui vorrei parlare - e che sono decisamente più famose - si trovano nelle raccolte Il porto sepolto e Allegria di naufragi e si riferiscono agli anni 1916-18, in

Gli scrittori in relazione con se stessi: dalla vita alle opere

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14 | Nazareth 2 - 2013

Letteratura

appena nata. / Nell’aria spasimante / involontaria rivolta / dell’uomo pre-sente alla sua / fragilità. / Fratelli.SoldatiSi sta come / d’autunno / sugli al-beri / le foglie.Evito di proposito ogni parola di commento: risulterebbe inutile e inadeguata.Primo Levi (Torino 1919-ivi 1987), chimico di professione, partigiano durante la Resistenza, di religione ebraica, ebbe la vita segnata in ma-niera indelebile dall’internamen-to nel campo di sterminio di Au-schwitz. Anche gli anni che seguiro-no la sua liberazione, il suo rientro in Italia, la pubblicazione dei libri relativi alla sua drammatica espe-rienza, il loro grande successo e la notorietà che gli derivò da esso non riuscirono a cancellare ricordi tanto insopportabili da indurre lo scritto-re al suicidio. Se questo è un uomo e La tregua (narrazione delle vicende pertinenti alla detenzione il primo ed al lunghissimo ed estenuante viaggio di ritorno il secondo) non

meritano di essere riassunti, ma di essere letti, o più probabilmente ri-letti, “per non dimenticare”.

Carlo Levi (Torino 1902-Roma 1975) è invece l’autore del notis-simo Cristo si è fermato ad Eboli, cronaca degli anni passati al con-fino come antifascista ad Aliano, borgo sperduto nell’entroterra della Basilicata (ben oltre Eboli), dove appunto Cristo, secondo Levi, non era mai arrivato. La lettura del libro è estremamente interessante anche al giorno d’oggi, in quanto è una preziosa testimonianza delle miser-rime condizioni di vita dei conta-dini e dei pastori meridionali negli anni Trenta, visti dagli occhi “mo-derni” di un settentrionale, medico per giunta. In un primo momento Levi stenta a capire un mondo che gli era del tutto estraneo e che in qualche maniera inconsciamente disprezzava, sentendosi superiore ad esso. A poco a poco, però, egli ne coglierà gli aspetti ancestrali, più umani e profondi, comincerà a nutrire sentimenti di sincera soli-darietà per quella gente povera ma dalla grande dignità e dovrà talo-ra mettere in discussione anche le proprie convinzioni più radicate.Gli esempi proposti sono senza dubbio molto limitati. D’altro can-to, per trattare un argomento così vasto come quello della relazione tra la vita e le opere degli scritto-ri non sarebbe sufficiente neppu-re uno spazio molto più ampio di quello che ci è concesso. Da parte mia, non posso fare altro se non invitare sempre e in ogni caso alla lettura, lasciando che la curiosità di saperne di più ci conduca per mano e ci faccia entrare nel mon-do degli autori, permettendoci di scoprirne i risvolti più segreti con piacere e soddisfazione.

Maria Laura Rosi

Levi stenta a capire un mondo che gli era

del tutto estraneo.A poco a poco, però, comincerà a nutrire

sentimentidi sincera solidarietà

per quella gente poverama dalla grande

dignità, mettendo in discussione

anche le proprie convinzioni

cui Ungaretti combatté in prima li-nea, nella Grande Guerra, sul fron-te del Carso. San Martino del CarsoDi queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro. / Di tanti / che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto. / Ma nel mio cuore / nessuna croce manca. / È il mio cuore il paese più straziato.FratelliDi che reggimento siete, / fratelli? / Parola tremante / nella notte. / Foglia

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Iconografia e spiritualità

L’icona proposta, detta dell’Amicizia, è una “tradu-zione in chiave moderna”

dell’icona venerata dalla Comu-nità di Taizé intitolata: Il Cristo e l’abate Mena.L’originale (vedi foto piccola) si trova al Museo del Louvre a Pari-gi, appartiene alla tradizione della Chiesa copta (dell’Egitto) e risale al VII secolo d.C. . Proviene da un Monastero e rappresenta Gesù che accompagna San Mena, Abate del Monastero di Alessandria e protet-tore della città. L’arte copta si espri-me in uno stile molto originale la cui caratteristica più evidente è la disorganizzazione della figura. Le figure, visibilmente sproporziona-te, sono in genere rese tutte fron-talmente e il personaggio prin-cipale è di dimensioni maggiori poiché l’artista non segue una pro-porzione realistica ma gerarchica. L’interesse dell’iconografo è volto alla rappresentazione degli occhi di cui esagera la grandezza così che il volto presenta uno sguardo pensoso ed assume un carattere ascetico ed astratto . L’iconografo desidera mettere in risalto la spi-ritualità della figura più che la sua realtà fisica.Nel riprodurre l’icona si è cerca-to di rimanere aderenti al canone copto dandone tuttavia una inter-pretazione personale dal punto di vista estetico. Non possiamo mai dire che l’icona è bella ma sicu-ramente possiamo affermare che bella è la verità che ci presenta. Nel linguaggio divulgativo l’icona è denominata, come già detto, Icona dell’amicizia. Secondo questa lettu-

ra, Cristo cammina a fianco di un anonimo, un amico sconosciuto: chi contempla può identificare se stesso. Gesù appoggia la mano de-stra sulla spalla dell’amico: è segno di coinvolgimento nella sua uma-nità, di condivisione della soffe-renza, di fraternità, di guida ferma e sicura. La spalla è il luogo delle nostre fatiche, lì i pellegrini appog-giano la sacca, i carichi più pesanti, è la parte del corpo che rimane in-debolita e porta le ferite. La mano di Cristo è la mano del medico che sana, guarisce, consola, conforta. Il tocco di Cristo imprime energia al braccio destro dell’amico e lo ren-de capace di benedire, di portare al mondo la sua benedizione: Cristo è capace di trasformare in bene-dizione le nostre fatiche, le nostre difficoltà e anche i nostri peccati.Gli occhi di Gesù aperti e molto grandi esprimono la presenza viva e attenta di Cristo. Egli veglia e ac-compagna con cura la vita di ogni uomo. Anche l’amico ha gli occhi grandi: la fede dona occhi per ve-dere con uno sguardo nuovo e pro-fondo la realtà e la vita.

L’amico ha due orecchie molto grandi e sporgenti: esprimono l’importanza dell’ascolto, via di accesso della parola. Qui si tratta dell’ascolto della parola di Gesù. La bocca è invece molto piccola: da un lato indica l’esigenza di silenzio, per far tacere le voci che si agita-no dentro e fuori di noi e diveni-re prudenti nel parlare, dall’altro la bocca è luogo di soddisfazione dei bisogni essenziali (il cibo, l’ac-qua) e il fatto che sia piccola sta a significare la via dell’ascesi, della sobrietà nel soddisfare gli istinti per trovare nella Parola il vero nu-trimento.Gesù, il maestro, sostiene infine un grosso libro, decorato, prezio-so, sigillato. È il libro delle sacre Scritture, la Parola di Dio, la Verità tutta intera che Gesù ha incarna-to, egli è colui che può prendere il libro e aprirne i sigilli. L’amico tiene in mano un piccolo rotolo di pergamena sul quale annotare le parole di vita eterna che escono dalla bocca di Gesù e imparare ad assimilarle per farle sempre più proprie.Gesù amico è il nostro bisogno saziato è la nostra mensa e dimo-ra quando “affamati” ci rifugiamo in lui e lo cerchiamo per la nostra pace.Questa icona che celebra l’amicizia tra l’uomo e Dio e che permette di contemplare il sogno del Pa-dre sulla vita di ciascuno dei suoi figli, apre uno squarcio su quello che dovrebbe essere il fondamen-to anche delle relazioni di tutto il mondo.

Italo Forieri

L’icona dell’AmiciziaDall’originale ad una nuova rappresentazione

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Iconografia e spiritualità

Un’immagine per dire di noi.Un’antica icona copta (VII sec.) proveniente dal monastero di Alessandria d’Egitto:

il Cristo e l’abate Mena.Un’icona per raccontare l’amore di Gesù che sempre è con noi, Lui l’amico.Linee, colori, gesti, oggetti, paesaggio Memoria di un’amica presenza che sempre ci accompagnanel ricorrente andare e venire dell’esistenza.Il paesaggio invita alla sosta ristoratrice di chi condivide la fatica del cammino.Sosta per un colloquio che infonde pace, forza, entusiasmo per il lungo viaggio.Gesù, infaticabile viandante sulle strade degli uomini,poggia sulla strada delimitata dall’erba che introduce ad una sequenza di verdi colline. In alto il cielo ormai rivestito di caldo calore.Atmosfera per un colloquio che rinfranca il cammino.Gesù pone la mano destra sulla spalla dell’amico:condivisione di sogni, fatiche, progetti, attese…Amico vero che incoraggia, è guida ferma e sicura. Mano sulla spalla per sostenere, consolare, confortare. Tocco di Gesù che imprime energia al braccio destro dell’amico e lo rende capace di benedire, trasformare in grazia fatiche, difficoltà ed anche gli errori.Sguardo amico che infonde pace e confidenza.Occhi del Signore grandi e aperti: presenza viva e attenta di amico, che sempre veglia e accompagna amorevolmente. Occhi grandi anche dell’amico: la fede apre ad uno sguardo nuovo e profondoper decifrare la vita.

Parrocchia S. Croce - VRPresentazione dell’icona nel contesto della celebrazione del

sacramento della Confermazione. “Nessuno ha un amore più grande

di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici,

se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il

servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici…

Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché

andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto

quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi

comando: che vi amiate gli uni gli altri.” (Gv 15, 13-17)

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Iconografia e spiritualità

L’amico ha due orecchie grandi e sporgenti: è tutto proteso all’ascolto di una parola che dona conforto.La bocca è socchiusa: in lui silenzio, per far tacere le voci che agitano il cuore e divenire prudenti nel parlare.Un grosso libro, decorato, prezioso, sigillato nelle mani del Signore. È Lui il maestro, la Parola di salvezza, Verità tutta intera che Gesù ha incarnato.Solo Lui può prendere il libro e aprirne i sigilli.Un piccolo rotolo di pergamena nelle mani dell’amico.Mistero della vita che nel Signore trovaorientamento per i giorni del dubbio.Parola viva e calda che esce dalla bocca di Gesù da ascoltare ed accogliere perché divenga luce e orientamento di vita. La grande aureola di Gesù si riflette nell’aureola dell’amico, riflesso della luce di Cristo, salvatore del mondo. L’uomo è ciò che contempla e ama: l’amico riflesso diviene di Cristo stesso.Le vesti, dai colori caldi, manifestano l’identità del Signore e del discepolo. Tunica oscura di Gesù, rivestito della fatica nel suo eterno pellegrinare accanto all’uomo.Umanità che tutto assume di noi: gioia, pianto, preoccupazioni, progetti e speranze deluse.Amico vero che condivide la fatica del cammino delle tappe della vita.Veste splendente dell’amico che trova conforto e lucein Chi, fedele, condivide il cammino,è mano che sostiene, sguardo che capisce, parola di speranza.Vicinanza affettuosa che ama e capisce.L’icona dell’amicizia: Gesù e noi.Insieme, per le strade della vita.Compagnia tenera e forte per i giorni della gioia, dubbio, della notte.Perché la vita sia un canto di gioia.Grazie, Gesù.Tu, Amico vero!

Prendimi per mano.Cammineremo.Cammineremo soltanto.Sarà piacevole camminare insieme.Senza pensare di arrivare da qualche parte.Cammina in pace. Cammina nella gioia.Il nostro è un cammino di pace.Poi impariamoche non c’è un cammino di pace;camminare è la pace;non c’è un cammino di gioia;camminare è la gioia.Noi camminiamo per noi stessi.Noi camminiamo per ognunosempre mano nella mano.Cammina e tocca la pace di ogni istante.Cammina e tocca la gioia di ogni istante.Ogni passo è una fresca brezza.Ogni passo fa sbocciare un fiore sotto i nostri piedi.Bacia la terra con i tuoi piedi.Imprimi sulla terra il tuo amore e la tua gioia.La terra sarà al sicurose c’è sicurezza in noi.

Thich Nhat Hanh

Icona dell’amicizia dipinta e offerta dall’iconografo Italo Forieri per l’oratorio salesiano della Parrocchia santa Croce di Verona. Per la chiesa santa Croce ha già dipinto la Via Crucis, l’Anastasis, la Natività ed il Crocifisso.Questa icona si ispira all’icona il Cristo e l’abate Mena, icona del VII sec. Conservata a Parigi, Museo del Louvre. Appartiene alla tra-dizione della Chiesa copta e proviene dalla zona di Bawit, in Egitto. Rappresenta Cristo che abbraccia san Mena, abate del monastero di Alessandria e protettore della città. La Comunità di Taizé l’ha valorizzata per il suo alto valore simbolico.

d. Guido Novella

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Voce giovani

Da tutti i versi di queste ragazze è evidente come la “relazione con se stessi”

sia il motore stesso della poesia: un motivo di riflessione, di introspezione da cui scaturiscono sogni e paure, dubbi e slanci vitali, ricerca di solitudine e apertura all’altro, silenzi e rumore, domande e risposte.

a cura di Andrea Carnale

Relazione con se stessi

Un giorno qualunque,un giorno di pioggia,di fredda malinconiae piacevole solitudine.La pioggia instancabileTicchetta sul davanzaleMentre la monotonia del traffico quotidianoProsegue lentamente.Il silenzio quasi fastidiosoInvade la stanza e fa addormentareIl cuore nel più remoto passato,ricco di tanti momenti felici.Ma la vita prosegueE immersa in una tenera nostalgiaMi domando ansiosa e insicura: “quale il mio futuro?”

Erika OttoliniUn’adolescente sta in ascolto e stabilisce una relazio-ne fra il fuori e il dentro, tra la natura e la sua anima. Niente di speciale. Forse capita spesso. Non sa anco-ra tenere il giusto distacco. Un giorno qualunque, di pioggia, le fa provare un senso di malinconia, fredda, perchè non abitata da relazioni umane, ma provocata da quell’insieme di grigiore e di umido di un giorno qualunque, un giorno di pioggia. L’adolescente è co-stretta alla solitudine, piacevole perchè consente un contatto più vero con la sua anima. Il ticchettio della pioggia sul davanzale e la monotonia del traffico che prosegue lentamente non turbano il silenzio piutto-sto fastidioso. Mancano le voci degli amici! In questa pausa, il cuore può ritornare nel più remoto passato ricco di tanti momenti felici. Attraverso questa tene-ra nostalgia riemerge una domanda ansiosa e insicu-ra: quale il mio futuro? Il tempo è durata.

Non vedo, non sento, non sono.Ho bisogno di far saperechi sono.Più sanno le persone amarepiù ti viene facile camminare.

Sei fermo, chiudi gli occhi e voli.Se ti senti insicuro, apritie gettati nei fiori.Quei fiori nati dal tuopensierolibero, puro e sincero.Ti stupisci, il mondo èin movimento.Non ha sensosentire un lamento.

Sara MarastoniForse uno stato di isolamento: “non vedo, non sen-to, non sono; ho bisogno di far sapere chi sono”. La comunicazione è possibile e diventa facile se c’è amore tra le persone. Se non riesci ad uscire dalla tua situazione di fissità, “sei fermo”; puoi tuttavia andare al di là del tuo piccolo spazio, volare maga-ri verso il cielo, verso Dio.Se gli altri non ci sono, se Dio fa silenzio, ci sono i fiori del tuo Pensiero; apriti e gettati in queste “creature”, frutto della tua libertà, purezza e sin-cerità.Non lamentarti se il mondo, nel suo movimento vorticoso, non si accorge della tua impotenza e ap-parente improduttività.Rimani aperto alla speranza, al pensiero libero, puro e sincero.

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