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Qualeducazione 1/ 2 - 2016 85 34 21 marzo 2016 - Scalea – Giornata della memoria, 1.500 giovani

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Sped. in A.P. 45% - Art. 2 comma 20/b Legge 662/96 - DCO/DC-CS/133/2003 Valida dal 17-03-2003

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21 marzo 2016 - Scalea – Giornata della memoria, 1.500 giovani

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In Calabria, dalla scuola, … per contrastare i disonestiPerché non partire dalla scuola per prevenire l’illegalità? I giovani non lo sanno quali sono le cause che contrastano il loro sogno di vivere lavorando onestamente. Il fenomeno della tra-sgressione della legge è diffuso nei luoghi del degrado morale, in quelli del disagio economico e dell’emarginazione dove non si rispettano le regole della convivenza civile.

La scuola può offrire un contributo formativo promovendo le opportunità che consentano ai giovani di poter scegliere i modi e i momenti necessari per concrescere come persone oneste. Il Piano delle Offerte Formative (P o f) deve proporre i percorsi didattici che promuovono la formazione dell’uomo e del cittadino, secondo lo spirito della nostra Costituzione.È possibile far vivere la legalità nella vita ordinaria della scuola se i docenti aiutano gli alunni a star bene con se stessi nella scuola se è un luogo dove si sta meglio quando si seguono gli itinerari didattici che fanno apprendere la legalità e orientano gli studenti a scegliere l’etica dell’agire onestamente. Tali itinerari, li devono esercitare a capire concretamente la differenza che c’è tra illegale – contro la legge – e legale – conforme alla legge – e secondo la coscienza di ciascuno.La scuola, per esempio, in collaborazione con la Polizia locale, può guidare gli studenti ad esercitarsi sulle infrazioni del ragazzo che va in moto senza casco o che non si ferma al se-maforo con il segnale rosso o non rispetta i limiti di velocità ignorando le regole del Codice stradale.In questi casi, gli alunni non comminano multe ai trasgressori, ma dialogano con essi per spiegare loro che violare il Codice della strada è reato e chi assume sostanze stupefacenti tradisce la vita, il grande valore da custodire.In questo modo, non solo non li emarginano, ma chiariscono a “chi dice che la vita è sua e se la gestisce come vuole”, non sa che, se si rompe la testa o se va in crisi di astinenza, l’ospe-dale, il metadone e l’assistenza medica sono spese che pagano i cittadini onesti.È preferibile essere amici anche dei trasgressori e dialogare con essi in modo costruttivo; il dialogo è la terapia ideale per recuperare i soggetti a rischio. Famiglia e scuola non possono chiudersi a riccio nell’illusione di difendersi dalla trasgressione; tale difesa è sterile, somiglia al muro, non al ponte da cui si accede all’amicizia.Per contrastare l’illegalità bisogna rendere concreta la comunicazione interpersonale, speri-mentare la psico-dinamica del rapporto amicale che trasforma gradatamente il trasgressore in apprendista della vita. Famiglia e scuola devono costruire ponti di comunicazione fervida; svolgere attività che abbattano i muri che separano le persone proponendo la cultura dell’a-micizia fondata sul rispetto reciproco e sulla pari dignità di ognuno. La devianza si previene anche mediante la terapia dell’ascolto attivo, presupposto necessario per l’ingresso nella scuola, luogo di comunione, non di comunanza. La comunione fra giovani e adulti implica la fecondità connettiva dell’amicizia, nel rispetto reciproco, che è l’energia che dà forza alla coscienza. Chi non dialoga è povero di amicizia, non è trasparente, in comunione con i suoi compagni di scuola. I ragazzi non parlano se sanno di non essere ascoltati; se manca la terapia dell’a-scolto il giovane si sente estraneo alla comunità in cui si trova a vivere esponendosi al rischio della solitudine emotiva da cui, poi, si accede alla devianza. Essere in famiglia, nella scuola, nella società significa parlare, agire in modo corretto. A scuo-la, però, parlare è un evento impersonale; in famiglia, non sempre è confidenziale: in quella gli alunni parlano solo quando sono interrogati, secondo ritmi mensili o trimestrali; in questa, non sempre parlano in forma confidenziale … Insomma, lì o qui, il loro parlare non è un momento creativo per partecipare attivamente alla vita della scuola e della famiglia e, poi, alla vita so-ciale … perché mancano i ponti o lo impediscono i muri in quanto è assente la gioia di vivere per essere scuola, famiglia, società con lingue e linguaggi adeguati alle opportunità offerte dall’amicizia tra le persone pur se diverse, originali, irripetibili nello spazio globale e locale, nel rispetto delle regole condivise, appunto, dialogando … (g. s.)

Per un dialogo libero in Europa - Trimestrale internazionale di Pedagogia

Libri (per recensione) e riviste (per cambio) debbono essere inviati al direttore della rivista: Giuseppe Serio, Viale della Libertà, 33 - 87028 PRAIA A MARE (Cosenza)

Periodicità trimestrale - Anno XXXIV - N. 1-2 (gennaio-giugno 2016) - Fascicolo N. 85 - Abbonamento - annuale E 26,00 con il suppl. “Vivere la nonviolenza”; estero il doppio; un numero E 6,00 - Iscrizione R.O.C. n. 316 del 29/08/2001 (* Gli abbonamenti s’inten-dono rinnovati automaticamente se non disdetti 30 gg. prima della scadenza). Auto-rizzazione del tribunale di Cosenza - Iscr. Registro Nazionale della Stampa n. 00969 del 29-8-1983 - c.c.p. n. 11747870 intestato a Luigi Pellegrini Editore - Via Camposano, 41 - 87100 CosenzaFotocomposizione: Pellegrini Editore

Direzione scientifica: Franco Blezza - Giuseppe Serio - Concetta SirnaDirettore responsabile: Walter PellegriniSegretaria di redazione: Filomena Serio

Comitato scientifico: Karin Bagnato (università di Messina), Dietrich Benner (università di Berlino), Franco Blezza (università di Chieti), Michele Borrelli (università della Calabria), Luciano Corradini (uni-versità di Roma3), S. Serenella Macchietti (università di Siena), Gaetano Mollo (università di Perugia), An-tonio Pieretti (pro-rettore università di Perugia), Jörg Ruhloff (university of Wuppertal, Germany), Concet-ta Sirna (università di Messina), Giuseppe Spadafora (università della Calabria), Giuseppe Zanniello (uni-versità di Palermo).

Comitato dei Referees: Sergio Angori (università di Siena), Massimo Baldacci (università di Urbi-no), Carlo Borgomeo (presidente Fondazione per il Sud), Michael Byram (univ. Durham, England), Carlo Nanni (rettore dell’università salesiana), Jörg Ruhloff (university of Wuppertal, Germany), Stefa-nia Paluzzi (università di Chieti), Antonia Rosetto Aiello (LUMSA Caltanissetta), Daniela Grieco (pe-dagogista in Vicenza), Monica Di Clemente, Sandra Ferri, Grazia Angeloni (università di Chieti, DS).

REDAZIONE: Karin Bagnato (Univ. di Messina), Franco Blezza (Univ. G. D’Annunzio, Chieti), Emilia Ciccia (ricercatrice), Vincenzo Pucci, Giovanni Villarossa (Presidente emerito dell’UCIIM), Pasquale Moliterni (Univ. Foro Italico, Roma), Filomena Serio.

REDAZIONE EUROPEA: Michele Borrelli (Univ. della Calabria).

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GRUPPO PERIODICI PELLEGRINITel. 0984 795065 - Telefax 0984 792672

E-mail: [email protected] è una rivista del Gruppo Periodici Pellegrini:

Nuova Rassegna di Studi Meridionali, Letteratura & Società, Giornale di Storia Contemporanea,

Incontri Mediterranei, La Questione Meridionale, Labirinti del Fantastico, Voci,

Crocevia, Fata Morgana.

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Giuseppe Acone, Aldo Agazzi (†), Leone Agnel-lo (†), Silvana Aguggini (†), Ilenia Amati, Laura Amendola, Samuele Amendola, Grazia Ange-loni, Fabrizia Antinori (†), Karl-Otto Apel, Roc-co Artifori, Ilaria Attisani, Theodor Ballauff, Im-ma Barbalinardo, Giuseppe Barbarino, Dietrich Benner, Armin Bernhard, Carolina Bicego, Fran-co Blezza, Lamberto Borghi (†), Michele Borrel-li, Regina Brandolini, Wolfgang Brezinka, Anna Brigandì, Maria Anna Burgnich, Wilhelm Büt-temeyer, Dieter Buttyes, Michael Byram, Mim-mo Calbi, Pasquale Cammarota (†), Francesca Caputo, Giandiego Carastro, Tommaso Caria-ti, Alessia Casoni, Bernat Castany Magraner, Pier Giuseppe Castoldi, Francesco Castronuo-vo (†), Giuseppe Catalfamo (†), Gianfrancco Cattai, Vittoria Cavallai, Manuela Cecotti, Lu-cia Cibin, Sergio Cicatelli, Emilia Ciccia, Fede-rica Goffi, Giuseppina Colaiuda, Ignazio Dario Collari, Enza Colicchi, Eva Corradini, Luciano Corradini, Piero Crispiani, Augusto Cury, Emi-lio D’Agostino, Guido D’Agostino, Fabrizio D’A-niello, Antonio D’Aquino, Elio Damiano, Ange-la Del Casale, Paolo De Leo, Luisa Della Rat-ta, Paolo De Stefani, Lorenzo Di Bartolo, Sal-vatore Di Gregorio, Walter Di Gregorio, Adele Diodato, Vincenzo D’Onofrio, Armando Ervas, Michele Famiglietti (†), Marisa Fallico, Marcel-la Farina, Antonio Fazio, Cristina Fedrigo, Gio-vanni Ferrari, Gianfranco Ferraro, Otto Filtzin-ger, Giuseppe Fioroni, Franco Frabboni, Barba-ra Gaiardoni, Lauro Galzigna, Michela Galzigna, Hans-Jochen Gamm, Antonino Gasparro, Ro-berto Gatti, Andrea Giambetti, Fatbardha Gji-ni, Franco Severini Giordano, Guido Giugni (†), Maria Angela Grassi, Anna Maria Graziano, Gio-vannella Greco, Daniela Grieco, Vincenzo Guli, Giuseppe Guzzo (†), Hartmut Von Hentig, Eu-genio Imbriani, Nunzio Ingiusto, Massimo Intro-vigine, Isabel Jiménez, Fatane Hassani Jafari, Amik Kasaruho, Maria E. Koutilouka, Edmondo

I collaboratori di QualeducazioneLabrozzi, Mauro Laeng (†), Stefania Laganaro, Marino Lagorio, Nico Lamedica, Giuseppe Lan-za (†), Raffaele Laporta (†), Valeria Lenzi, Isa-bella Loiodice, Sira Serenella Macchietti, Fran-cesco Maceri, Alessandro Manganaro, Angela Maria Manni, Giuseppe Manzato, Ugo Marchet-ta, Maddalena Marconi, Pasquale Marro, Lucia Mason, Louis Massarenti, Giuseppe Mastroe-ni, Giovanni Mazzillo, Nomberto Mazzoli, Mario Mencarelli (†), Pasquale Moliterni, Gaetano Mol-lo, Maria Monteleone, Daria Morara, Paola Ber-nardini Mosconi, Marina Mundula, Carlo Nanni, Walter Napoli, Giandomenico Nicodemo, Fabio Olivieri, Stefano Orofino, Nicola Paglietti, Ste-fania Paluzzi, Roberto A. Paolone, Cecilia Pari-si, Anna Maria Passaseo, Anna Paschero, Lui-gi Pellegrini, Angela Perucca, Enzo Petrini (†), Rosaria Picozzi, Antonio Pieretti, Gustavo Pie-tropolli Charmet, Lucrezia Piraino, Gianni Pittel-la, Andrea Porcarelli, Livio Poldini, Clide Prestifi-lippo, Alessandro Prisciandaro, Vincenzo Pucci, Marco Pasqua, Maria Moro Quaresima, France-sco Raimondo, Paola Ranieri, Giusy Rao, Ele-na Ravazzolo, Paolo Raviolo, Andrea Rega, Mi-cheline Rey, Rosa Grazia Romano, Antonia Ro-setto Ajello, Elisabetta Rossini, Angelo Rovetta, Franca Ruggeri, Maria Antonietta Ruggeri, Mo-rena Ruggeri, G. Carlo Sacchi, Elisabetta Sal-vini, Alessandra Samarca, Bruno Schettini (†), Angelo Serio, Pantaleone Sergi, Filomena Da-niela Serio, Alessandra Signorini, Andrei Simic, Concetta Sirna, Massimo Siviero, J.J. Smoliez, Angela Sorge, Giuseppe Spadafora, Gianfran-co Spiazzi, Francesco Susi, Anna Pia Taormi-na, Ermanno Tarracchini, Tiziana Tarsia, I. Testa Bappenheim, Alessandra Tigano, Rosanna Ti-relli, Mario Truscello, Elena Urso, Pierre Vayer, Angelo Vecchio Ruggeri, Alessandro Versace, Giovanni Villarossa, Claudio Volpi (†), Giusep-pe Zago, I. Zamberlan, Alex Zanotelli, Rosan-na Zecchin, Antonino Zichichi, Corrado Ziglio.

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SOMMARIO - Fascicolo 85/2016

EDITORIALEL’attuaLità sociaLe deLLa professione di pedagogistadi Franco Blezza ...................................................................................................... 3

STUDIpoLitica, etica, economia di comunionedi Giuseppe Serio .................................................................................................... 10

RICERCA ED INNOVAZIONE EDUCATIVA E DIDATTICAcosa resta dei beni comuni? su di una ragionevoLe utopia urbanadi Gianfranco Ferraro ............................................................................................. 16

La cura condivisa dei beni comuni: una nuova opportunità per L’educazione democraticadi Antonia Rosetto Ajello ........................................................................................ 28

AUTONOMIA, DIRIGENZA, PROGETTUALITÀcontinuità neLLa differenziazione per un orientamento permanentedi Giovanni Villarossa ............................................................................................ 41

LO SPAZIO DEL FAREdaLL’idea divergente aLLa progettuaLità seguendo L’esempio di mario Lodidi Lucia Schifone .................................................................................................... 55

Le ragioni deL si, Le ragioni deL no… i nodi aL pettine deLLe professioni pedagogiche, davanti aLLa proposta di Legge “discipLina deLLe professioni di educatore professionaLe, educatore professionaLe sanitario e pedagogista.” deLL’on. Le vanna ioridi Alessandro Prisciandaro .................................................................................... 59

RUBRICA APERTAdiaLogo e coLLaborazione nei processi educativi deL sistema scoLasticodi Angelo Vecchio Ruggeri ...................................................................................... 65

RUBRICA A. R. De. P.per una educazione poLitica, economica e finanziariadi Rocco Artifoni ...................................................................................................... 72

EDUCAZIONE SENZA FRONTIEREiL mediatore intercuLturaLe: una figura ponte tra noi e gLi altridi Paola Ranieri ...................................................................................................... 78

RECENSIONI ............................................................................................................... 87Luciano corradini, Sentieri rivisitati. Ricordando discepoli e maestriGiovanni Mazzillo - Serafino Parisi, Chiesa e lotta alla ’ndranghetaFrancesco De Notaris - Nicola Caporale, Messaggi per la pacenicola bruni, Ad cathedramEgidio Lorito, La comunicazione mediatica tra egemonia culturale ed egemonia

subculturale

NOTIZIARIO ................................................................................................................ 91

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Editoriale

L’attualità sociale della professione di Pedagogista

di franco bLezza

Abstract. The story of the Teaching of Pedagogy in the Italian University in the twentieth century shows many things, particularly the delay in the af-firmation of the Pedagogist profession, even more serious than the affirmation of the professions of Sociologist and Psy-chologist, as well as Psychoanalyst.

The reasons are in the political and social project of Fascism and other non-democratic theories, through the neo-idealist philosophy.

Today’s time offers the possibility to remedy similar huge delays, and the-se opportunities should not be missed.

Key Words: Pedagogy, Pedagogist, Social Professions, Sozialpädagogik, Professional Pedagogogy

Riassunto: La storia dell’insegna-mento della Pedagogia nell’Università italiana nel XX secolo dimostra molte cose, in particolare il ritardo nell’affer-mazione della professione di Pedagogi-sta, ancora più grave di quello dell’af-fermazione delle professioni di Sociologo e di Psicologo, nonché di Psicoanalista.

Le ragioni stanno nel progetto politi-co e sociale del Fascismo e di altre teorie non democratiche, attraverso la filoso-fia neoidealista.

Il momento odierno offre delle possi-bilità di rimediare a simili immensi ri-tardi, e queste possibilità non debbono essere perdute.

parole chiave: Pedagogia, Pedago-gista, Professioni sociali, Sozialpäda-gogik, Pedagogia professionale

Abbiamo visto più volte in queste pagine, in particolare nell’editoriale del quaderno numero 82 (“L’attualità del-la Pedagogia”. Anno XXXII, n. 3-4, pag. 3-24, luglio-dicembre 2014) come la pe-dagogia sia da considerarsi una Scienza Sociale dal dominio assolutamente ge-nerale, e quanto sia riduttiva la sua vi-sione come scienza della scuola, o di al-cune parti limitate della scuola, la quale pure ha delle cause storiche facilmente individuabili nell’ultimo secolo dell’uni-versità italiana.

Qualche riflessione nel merito, con particolare riferimento alle opportu-nità degli anni ’90, opportunità larga-mente perdute, ci aiuterà a gettare una luce più chiara e vivida sulla situazio-ne attuale.

La considerazione della professione di vertice della cultura pedagogica, cioè della professione di Pedagogista, può co-

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stituire la chiave di lettura più efficace ed, insieme, il momento del controllo so-ciale a quanto da noi proposto.

Da Gentile a De Vecchi

La riforma organica della scuola del 1923 che porta il nome del ministro Gio-vanni Gentile (1875-1944) vantava tra le sue creazioni l’Istituto Magistrale, sette anni complessivi dopo la Scuola Elementare, per la formazione dei Mae-stri elementari. Esso prendeva il posto dei due-tre anni delle “Scuole Norma-li” e, pur avendo l’indubbio privilegio di una formazione organica e continua-tiva, cancellava ogni eventualità dello “insegnare ad insegnare”, da escluder-si categoricamente per un Neoidealista.

Potremmo certo discutere circa la validità ed i limiti di una scuola di me-todo (“normale” nel senso di norme di metodo) per formare gli insegnanti; ma dovremmo anche discutere su una for-mazione dichiaratamente non profes-sionale, che si incentrasse su una visio-ne della cultura e di ciò che è umanisti-co del tutto unilaterale. Latino, Lette-ratura Italiana, Storia, Storia della Fi-losofia; la presenza degli insegnamenti scientifici era poco più che simbolica, e non vi era neppure alcun insegnamento tecnico, come nessuno di scienze uma-ne e sociali.

Sarebbero considerazioni analoghe a quelle che andrebbero fatte per coloro che lodano la riforma Gentile per aver istituito il Liceo “Scientifico”, un liceo nel quale le materie più importanti era-no la Letteratura Italiana ed il Latino, nel quale il primo anno si saltava qua-lunque insegnamento delle Scienze Na-turali, e l’insegnamento della fisica oc-

cupava solamente gli ultimi 3 anni per poche ore; e nuovamente non esisteva insegnamento tecnico e nemmeno inse-gnamento di Scienze Umane e Sociali.

Una delle caratteristiche della ri-forma Gentile, che oggi ci appare come un difetto evidente ma che era perfet-tamente coerente con il retroterra filo-sofico, e con il progetto politico e socia-le che di quella concezione filosofica si faceva strumento, stava nella determi-nazione precoce, a 10-11 anni cioè al termine della scuola elementare, del destino di studio e quindi di lavoro dei fanciulli. Chi decideva d’intraprendere i sette anni dell’Istituto Magistrale do-veva fare il Maestro Elementare; nes-suno sosteneva che per fare il maestro bastasse una cultura di un anno inferio-re a quella della quasi totalità dei diplo-mati, ma quell’anno in meno impediva materialmente ai futuri maestri qua-lunque prospettiva di proseguimento degli studi all’Università.

Non ci volle molto tempo perché ci si rendesse conto che sul piano politico e sociale questa scelta era da riformar-si: c’era bisogno di quadri intermedi, di insegnanti di Scuola Secondaria delle materie più gettonate cioè delle mate-rie letterarie, linguistiche, storiche, ge-ografiche ecc. di Direttori Didattici ed Ispettori; ma ancora, anche ragioni di consenso con il regime suggerivano di non penalizzare le possibili aspettative dei padri di famiglia, i quali non rinun-ciavano certamente alla possibilità di un miglioramento ulteriore di un figlio che avesse compiuto in maniera accet-tabile quei sette anni, per quanto mar-catamente contrassegnati fin dal prin-cipio da un unico futuro professionale.

Fu in seguito a dibattiti su argomen-ti come questi che il Ministro Cesare

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Maria de Vecchi di Val Cismon (1884-1959) promosse la trasformazione dei preesistenti istituti superiori in Facoltà di Magistero, nel 1935: facoltà frequen-tabili da chi avesse appunto quell’anno in meno d’istruzione secondaria. Que-ste facoltà sarebbero rimaste in vigore per sessant’anni, ben oltre cioè l’avvio della scolarizzazione di massa, l’abbat-timento delle rigidità nel passaggio da un grado di scuola ad un altro, e soprat-tutto l’avvenuta quinquennalizzazione degli Istituti Magistrali, o ex tali, tra-sformati in Licei delle Scienze Socia-li o Socio-psico-pedagogici o in qualche cosa di simile.

Perché la Pedagogia non come scienza ma come disciplina di ma-trice letteraria

Si noti che, se da un lato si era opera-ta la correzione della rigidità negli svi-luppi universitari degli studi per i Ma-estri da parte di Gentile, dall’altro lato rimanevano invece inalterate le carat-teristiche della cultura che veniva svi-luppata nei Magisteri rispetto agli Isti-tuti Magistrali: anzi sparivano decisa-mente anche quelle presenze simboli-che della Matematica e delle Scienze Naturali, e continuavano a non esserci né materie tecniche né scienze sociali. Tutti gli studi erano letterari, filosofi-ci, storici e comunque in linea con la vi-sione riduttiva e ridottissima di ciò che fosse “umanistico” secondo il Neoidea-lismo italiano. Ci potevano ovviamen-te essere alcune integrazioni di ordine evidentemente strumentale, e comun-que marginali: in particolare un corso di Igiene e un corso di Istituzioni di di-ritto pubblico e legislazione scolastica.

Non è argomentabile che lo studio del Latino sia più importante per la forma-zione di un Maestro elementare dello studio della Fisica o della Medicina o dell’Architettura o della Psicologia; si può invece sostenere che il Maestro in realtà non si forma professionalmente ma culturalmente, e a questo punto si riduce il dominio della cultura umana a quello che si vuole, nella fattispecie alle materie letterarie e filosofiche, an-che ad una Storia e ad una Storia della Letteratura dichiaratamente non con-siderata una scienza sociale, umana e della cultura.

Comprendiamo quindi come mai lo studio di una Scienza Sociale di fonda-mentale importanza per la scuola come la Pedagogia con le sue branche finisse per diventare anch’essa uno studio let-terario, filosofico o nella migliore delle ipotesi storico. In quel contesto sociale e politico, prima che filosofico, tutto si tie-ne e torna di una coerenza adamantina.

Ci vuole qualche passaggio ulteriore, invece, per comprendere come mai tale si sia conservato l’insegnamento acca-demico della Pedagogia e di molte sue branche se non di tutte nel secondo do-poguerra, quando ormai più nessuno si proclamava neoidealista coerente con il Fascismo o con la visione antidemocra-tica di Croce: è difficile. Ed è ancora più difficile spiegare come mai ciò si sia ri-petuto anche nei decenni più recenti, e che spesso si ripeta ancora oggi.

Scienze e professioni a lungo negate

Va ancora notato che, sempre secon-do quella stessa filosofia neoidealista, e si potrebbe discutere se anche secondo

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il progetto politico e sociale che attra-verso quella filosofia si esprimeva, era tassativamente escluso che si potesse-ro sviluppare delle Scienze Sociali, della cultura, dell’uomo analoghe per meto-dologia alle Scienze della Natura. Due grandi scienze dell’uomo ottocentesche come la Sociologia e la Psicologia (per non parlare della Psicanalisi …) rima-sero così in Italia per decenni e decenni senza il riconoscimento di una profes-sione e senza la relativa formazione ac-cademica; al massimo, qualche nostal-gico ama far presente che i dominatori della cultura di quel tempo hanno sal-vato alcuni singoli personaggi che stu-diavano queste scienze; ma il negazioni-smo rispetto a queste e ad altre scienze è stato evidente, dagli effetti inequivo-cabili e, peraltro, dichiarato.

Come sappiamo, la Pedagogia è una scienza antica, ma anch’essa aveva avu-to il passaggio essenziale verso l’isti-tuzione di una professione grazie alla creazione della Sozialpädagogik. Il che era avvenuto nello stesso periodo, l’Ot-tocento, e all’incirca nello stesso ambito culturale cioè la Mitteleuropa.

Per avere i primi corsi di laurea in Sociologia in Italia abbiamo dovuto at-tendere fino alla fine degli anni ’60; per quelli di Psicologia gli anni ’70, con una lunghissima durata del vigore di una normativa speciale che consentisse di iscriversi all’ordine professionale degli Psicologi anche a chi a quella professio-ne era pervenuto nel frattempo parten-do da altre lauree, compresa tra queste anche la laurea in Pedagogia rilasciata dal quel Magistero secondo quella do-minante letteraria.

Il problema del professionista per la Pedagogia come scienza sociale, che si chiama “Pedagogista”, cioè del profes-

sionista apicale di una scienza con 2 500 anni di storia, che ha avuto nell’Otto-cento il tramite di una branca profes-sionalizzante, si è posto solo negli anni ’90. A sentire commentatori del tempo, e a leggere diversi autori, sembra che la spinta verso la chiusura dei Magi-steri stesse prevalentemente nell’ormai compiuta quinquennalizzazione degli ex Istituti Magistrali, e nella evidente sovrapposizione che taluni corsi di lau-rea del Magistero creavano conseguen-temente rispetto a corsi di laurea analo-ghi della Facoltà di Lettere e Filosofia.

In effetti, ben prima della trasfor-mazione del Magistero in Scienze del-la formazione (D.MURST 2/8/95 e pri-ma 13/4-21/7/94), che non tutte le sedi accettarono, fu operata una laboriosa trasformazione proprio del corso di lau-rea in Pedagogia, quadriennale secondo il vecchio ordinamento, trasformazione che comportava anche il cambiamento della denominazione in “Scienze dell’E-ducazione”. Il corso seguitava a conte-nere insegnamenti filosofici, storici, geo-grafici, letterari e comunque risponden-ti alla visione gentiliana della cultura. Solo qualche integrazione di Sociolo-gia e di Psicologia correggeva un po’ il tiro. Rimaneva da discutere che tipo di Pedagogia insegnare in questo corso di laurea che non era più scolastico e non aveva più l’Istituto Magistrale a riferi-mento culturale, a quali figure profes-sionali puntare.

Una delle occasioni perdute

La Pedagogia sociale aveva una ricca storia e letteratura internazionale, ma quasi nulla in Italia; il divario era anco-ra più stridente per quel che riguardava

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la professione di Pedagogista nello spe-cifico. Il negazionismo rispetto alle pro-fessioni sociali, mantenuto pervicace-mente nei decenni di pesante egemonia culturale neoidealista, che nel venten-nio fascista si era ulteriormente aggra-vato proprio con riferimento alla Peda-gogia. Si lessero delle affermazioni cu-riose, sul tipo “in luogo di una sola Pe-dagogia, un complesso di Scienze dell’e-ducazione”, invece dell’ovvia constata-zione che talune Scienze Sociali diven-tavano Scienze dell’educazione proprio perché la pedagogia le riconosceva come tali e le integrava finalizzandole all’edu-cazione proprio con riguardo all’eserci-zio professionale, fra l’altro un esercizio professionale che poteva anche essere scolastico. Oppure che “mentre il cor-so di laurea in Pedagogia formava Pe-dagogisti, il corso di laurea in Scienze dell’Educazione (ancora quadriennale) avrebbe formato Educatori”, come cioè se un cambiamento di nome comportas-se addirittura un cambiamento di qua-lifica dei professionisti che vi trovano la loro formazione iniziale. Evidentemen-te nessuno si è mai sognato di chiama-re il corso di laurea secolare in Giuri-sprudenza “corso di avvocatura, di ma-gistratura e di notariato”; e comunque vi è una differenza sostanziale tra il “laureato in” (ad esempio in Giurispru-denza o in Pedagogia) e il professioni-sta Avvocato o Pedagogista..

Nessuno ha mai dimostrato di rim-piangere quel corso di laurea in Scienze dell’Educazione quadriennale, né sus-sistono motivi per rimpiangerlo. Anzi, esso ha costituito uno dei pochi casi nei quali la legge 509/98, che ne comporta-va la messa ad esaurimento, è sembra-ta giungere opportuna. È durato pochi anni, ma nessuno ne ha fatto oggetto

di una riflessione critica, a distanza di una ventina d’anni.

Eppure, le lacune delle quali soffria-mo oggi per quel che riguarda la forma-zione professionale di cultura pedagogi-ca hanno avuto in quell’episodio pesan-ti evidenze che hanno lasciato problemi irrisolti e lacune altamente insidiose.

Una indicazione era offerta dai tre “indirizzi” nei quali era articolato quel non rimpianto corso di laurea: inse-gnanti di scuola secondaria (di Storia, Storia della Filosofia e Scienze Umane, non di più); esperti in processi di forma-zione, con qualche indulgenza a pensare ad un modo un po’ diverso di fare scuo-la; e un secondo indirizzo denominato “educatori professionali” all’origine con l’apposizione dell’aggettivo “extrascola-stici” il cui impiego da solo denunciava l’arretratezza e in fondo la visione ri-duttiva alla scuola del pensiero peda-gogico dei propositori.

In realtà, già nel 1998 (D.M. 520) la qualifica di “Educatore Professionale” è stata riservata ai triennalisti dell’area sanitaria con esame di stato abilitante: comunque la qualifica dell’apicale rima-neva “Pedagogista” mentre l’operatore di livello intermedio, che poteva essere un triennalista al tempo frequentante un “diploma universitario” e non una laurea in senso pieno (e questo sareb-be poi stata dichiarata equipollente ad una laurea specialistica o magistrale cioè un quinquennio), veniva chiamato proprio “educatore” con qualche speci-ficazione ulteriore (di comunità, socia-le, dell’infanzia,… non comunque “pro-fessionale”). In Italia accusiamo questo limite linguistico pesante, che non è l’u-nico, in quanto “educatore” è chiunque educhi, ma almeno questa distinzione avrebbe dovuto essere puntualmente

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ripresa quando proprio la 509 avrebbe introdotto anche per i corsi di cultura pedagogici l’articolazione del cosiddet-to “3 + 2”.

Occasioni perdute successivamen-te, esempi non seguiti

Non rimaneva che tirare le somme e le reti: istituire corsi di laurea trien-nale per Educatori, con eventuali spe-cificazioni di indirizzo ma comunque con una salda base che doveva essere già professionalizzante di per sé: Edu-catori sociali, Educatori della terza età,. Educatori del Nido d’infanzia, …; e poi costruire corsi di laurea specialistici e magistrali negli indirizzi che si preferi-vano, ma per formare Pedagogisti, an-che in questo caso con alta vocazione professionalizzante, e tenendo presente il buon esempio di una professione che da sempre ha molti indirizzi anche ai livelli più elevati, cioè quella degli In-gegneri. Il paragone è più impegnati-vo e richiede una mediazione adegua-ta con professioni anch’esse con gran-di articolazioni al loro interno, come quella del Medico Chirurgo, dell’Avvo-cato, del Farmacista, del Medico Vete-rinario, e di tutte le altre professioni cui corrispondono dei corsi di laurea a ciclo unico; anch’esse hanno i corsi per i professionisti intermedi, ed anzi pro-prio i corsi per le professioni sanitarie costituiscono forse l’amplissimo venta-glio di corsi meglio riuscito sia sul pia-no culturale che su quello professiona-le della triennalizzazione delle lauree; ma non per questo si trascura l’impor-tanza di corsi che fanno riferimento ad altre lauree magistrali a ciclo unico, per esempio quelli per Informatori scientifi-

ci del farmaco, o per Erboristi, o per al-tri preparatori, in corrispondenza alle lauree dell’area farmaceutica. Questi professionisti con laurea triennale non esisterebbero se non esistessero, e da secoli, i rispettivi apicali.

Analogamente, non esisterebbero gli Ingegneri junior, i Commercialisti ju-nior né i Chimici junior se non esistes-sero gli apicali rispettivi. Sarebbe in-sensato pensare di compiere il percor-so reciproco, cioè di arrivare all’apicale passando attraverso i ruoli intermedi. Eppure, qualcuno proponeva proprio qualche cosa del genere oltre vent’an-ni fa: “prima formeremo educatori, poi educatori diplomati, poi educatori lau-reati, e poi…”. La frase, spesso, rima-neva sospesa.

L’unica spiegazione che talun acca-demico dava della sua posizione di ri-fiuto pregiudiziale per tutto quanto ri-guardava la formazione dei Pedagogisti era, più o meno: “pedagogista è solo chi è come me”, accademico con velleità ul-teriori; eppure, nessuno trova alcunché di strano che un grande luminare del-la medicina, premio Nobel, si consideri a tutti gli effetti e pienamente collega dell’ultimo dei Medici generici di paese o di periferia; anzi, è difficile non legge-re proprio in atteggiamenti come questo la forza della professione medico-chirur-gica, che non è inscritta nella rispettiva scienza, la quale ha 2 500 anni di sto-ria, esattamente come le Scienze Giu-ridiche ed esattamente come le Scien-ze pedagogiche.

Le occasioni d’oggi

Al momento di andare in macchina, la Camera ha approvato il DdL 2565 a

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prima firma Vanna Iori, avendo come relatrice Milena Santerini.

L’occasione precedente nella quale vi era stata la seria possibilità di un ri-conoscimento legale della professione di Pedagogista è stata circa vent’anni fa (XI Legislatura 1994/96, allora ad-dirittura con l’istituzione di un Ordine Professionale, grazie a un senatore emi-nente nella comunità dei Pedagoigisti accademici, e l’impegno di un dirigente dell’associazionismo pedagogico accade-mico che non è più tra noi.

Anche i corsi di laurea si possono modificare ed anzi lo si deve fare di continuo per l’elevato pensionamento dei docenti, cui non corrisponde che un turn over simbolico.

Dobbiamo richiamare il Max Planck

(1858-1947), ideatore della Teoria dei Quanti, nella sua Autobiografia scien-tifica, citato da Thomas S. Kuhn (1922-1996), vale a dire che “Una nuova veri-tà scientifica non trionfa convincendo i suoi oppositori e facendo loro vedere la luce, ma piuttosto perché i suoi opposi-tori alla fine muoiono, e cresce una nuo-va generazione che è abituata ad essa”? [The Structure of Scientific Revolutions, edizione italiana con il Poscritto 1969 del 1978, per i tipi di Giulio Einaudi di Torino., pag. 182].

Lo facciamo, se occorre. Ma nessu-no si illude che occasioni come queste di dare anche alla Pedagogia il suo status sociale e professionale come tanti altri saperi rispetto ai quali essa non ha nul-la da cedere, ci saranno date all’infinito.

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Studirubrica diretta da GIUSEPPE SERIO

Politica, Etica, Economia di comunionedi

giuseppe serio

Riassunto: Economia e politica non hanno tuttora nessun rapporto concreto con l’etica; per cui il volto degli impove-riti ci dice come il mondo non deve esse-re e che la politica economica non può misurarsi su gli interessi dei potenti, in quanto la misura è il bene comune e la vera ricchezza è il capitale umano. In-fatti, madre Teresa di Calcutta ci sug-gerisce che amare senza misura signifi-ca che sulla vetta dei valori deve esser-ci la dignità umana spodestata dai beni materiali superflui ai quali hanno ac-cesso solo i potenti della Terra. Insom-ma si tratta di scegliere la cultura del dare e della solidarietà, assai diversa dalla cultura dell’avere che causa con-flitti e dolore.

Abstract: Economics and politics don’t have any concrete relation with ethics yet, therefore, the face of the impoverished tells us how the world shouldn’t be and that political econo-my cannot be measured on the inter-ests of powerful, as measure is the com-mon good and true richness is the hu-man capital. Indeed Mother Teresa of Calcutta reminds us “ a measureless love”; which means that at the top of values must be human dignity ousted from material and superfluous goods to which only the mighty of earth have ac-cess. In conclusion it’s a matter of choos-

ing the culture of giving and solidarity, very different from the culture of having that causes conflicts and pains.

Un dialogo difficile, non impossi-bile

Le scelte d’amore danno un senso profondo alla vita; chi le sceglie impa-ra a conoscere il dramma dell’esclusio-ne sociale di quanti – oggi – sono senza reddito. Il volto degli impoveriti dice ai potenti come il mondo non dev’essere. Quel volto non riguarda solo missiona-ri e volontariato: è la prova che certa economia e certa politica creano soffe-renza …

Economia e politica devono ascolta-re il lamento silenzioso dei poveri; de-vono riformarsi, cambiare orientamen-to, partire dalle loro situazioni esisten-ziali. Nel mondo globalizzato, molti non avvertono il sussulto di coloro che met-tono insieme tante considerazioni det-tate dall’amore per chi è vittima delle ingiustizie1.

L’amore per gli esclusi traspare dal-le statistiche che mettono in evidenza il volto dei poveri che, pur se deturpato

1 Gianni Novello, già presidente di Pax Cristi, in una sua lettera a me

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e vilipeso, splende di dignità agli occhi di Dio; splende negli occhi di chi crede nel valore della dignità umana e nei di-ritti degli esclusi; c’è il volto che accom-pagna le analisi della sociologia con-temporanea che mette in primo piano la condizione degli esclusi oltre che la vigliaccheria di chi, usando parole sa-cre – come democrazia, libertà, frater-nità – impone pesanti condizioni sulla povera gente.

Inoltre oggi è il tempo della poca in-dignazione; non c’è più il bivio di scel-te radicali tra bene e male; molti non sanno che l’amore sollecita le scelte po-litiche ed economiche; Paolo VI diceva che non si possono amare i poveri se non si combattono le cause della povertà e non si pensa alla costruzione del bene comune. L’enciclica Deus charitas est di Benedetto XVI ci aiuta a scoprire il percorso della giustizia partendo dalle scelte di vita che sono il primo labora-torio in cui si deve sperimentare e an-ticipare una società veramente nuova, fondata sulla Giustizia.

Gli abitanti nel nord del mondo pos-seggono circa l’84% delle risorse della Terra pur rappresentando appena il 17%; nel sud del mondo abita l’85% de-gli esseri viventi che consumano soltan-to il 15% delle risorse! È un’ingiustizia! L’ONU tutela i confini tra popoli ricchi e poveri, ma non impedisce ai primi di sfruttare i poveri che sono la prova che economia e politica fanno soffrire le per-sone violando i principi umani.

L’economia, invece, dovrebbe avvici-narsi ai più deboli, scegliere leggi giu-ste, riflettere sulle analisi e le statisti-che e mettere in primo piano il volto dell’uomo e ciò che rappresenta. Le di-suguaglianze mettono a rischio la demo-crazia inclusiva che presuppone un’eco-

nomia solidale ed equa e riconosce il di-ritto al lavoro, elemento chiave per lo sviluppo e la giusta distribuzione dei beni. Perciò, papa Francesco vuole che si faccia l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle varie periferie esi-stenziali dove il loro grido è affievolito a causa dell’indifferenza dei popoli ric-chi. Egli desidera che la Chiesa curi le ferite, le lenisca con la consolazione, le fasci con la misericordia, le curi con la solidarietà dovuta. L’indifferenza umi-lia quelli che sono soli e impedisce ai no-stri occhi di guardare la miseria. È ne-cessario, allora, promuovere la cultura dell’amicizia con cui si può abbattere il muro dell’indifferenza

Per questa ragione propongo, in al-ternativa all’economia globale, fonda-ta sulla cultura dell’avere, quella di co-munione che gestisce l’utile seguendo la proposta della cultura del dare che aiuta i bisognosi a condividere i profitti dell’azienda con i dipendenti. La cultu-ra dell’avere è la causa del conflitto tra popoli e stati che sta riducendo il nostro pianeta – la Casa comune – in un deser-to nel quale diventa difficile la scoper-ta dell’amore. La politica economica nel mondo globale, purtroppo, non si fon-da sulla comunione dei beni che rende possibile sia il riequilibrio distributivo che l’equità o premessa dell’economia di comunione e della crescita produttiva.

I poveri, oggi, non possono sceglier-si un lavoro congeniale, costretti come sono ad accettarne uno qualunque – an-che se nocivo alla loro salute – per avere un reddito: i pendolari che vivono in una qualsiasi periferia urbana, ogni giorno, viaggiano con un mezzo pubblico per raggiungere il luogo di lavoro; il mezzo è la metro che non passa ogni dieci mi-nuti, come nel centro urbano, ma ogni

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cinquanta. Questa – e tant’altre ingiu-stizie sociali – contrastano la cultura in-clusiva per cui i poveri – come gli schia-vi nell’antichità – continuano ad essere considerati persone senza dignità.

Il tema della povertà non può esse-re discusso solo sulla base dei dati sta-tistici, pur se necessari; la soluzione è proporzionale alla sicurezza del lavoro e al diritto alla pensione (calcolata se-condo criteri di giustizia sociale e non astrattamente, in quanto non è giusto che due lavoratori – aventi la stessa qualifica – percepiscano lo stesso sti-pendio a prescindere se uno dei due vive in casa in affitto.

La politica deve mettere in sintonia giovani e mercato del lavoro per ciò che concerne l’offerta e la domanda; emana-re leggi che valorizzino il capitale uma-no e incentivino l’imprenditore ad as-sumere giovani non perché gli costano di meno, ma per dare più sicurezza al futuro. Perciò propongo una riflessio-ne sulla società solidale che considero possibile ricorrendo all’arte del dialo-go, all’abbandono delle ideologie e ad una scelta di rapporto misericordioso con gli esclusi dal mondo! Le leggi dello stato sono scritte con la penna del poli-tico che esclude l’amore, parola polise-mica che assume significati diversi e a seconda del soggetto a cui si riferisce: qui vuol dire rispetto del valore della dignità umana.

Com’è percepito, oggi, il povero?Si finge di non vederlo – nelle stazio-

ni ferroviarie – con la mano tesa, men-tre cerca amore; si finge di non sentirlo se ci chiede una monetina o si fa finta di non avere spiccioli ecc. Ed è allora che si sente abbandonato e va a sfamarsi alla mensa parrocchiale o al S. Egidio conti-nuando a dormire nella stazione ferro-

viaria, mentre chi gli passa frettolosa-mente davanti non s’accorge che nel suo volto è riflesso quello di Dio crocifisso.

Il povero non ha scelto di essere tale; è povero perché vive nella società pove-ra d’amore e di Giustizia, la virtù car-dinale dello stare insieme come persone che sono tra loro diverse in tutto, tran-ne che nella dignità. Moltmann pensa però che la pietà equivalga alla miseri-cordia divina che non trova corrispon-denza nell’azione politica dello Stato in quanto l’economia non sempre si ispira all’Etica per produrre benefici alle per-sone bisognose o realizzare la recipro-cità sociale e una rete di relazioni uma-ne fondate sul rispetto reciproco della dignità di tutti e di ciascuno.

La globalizzazione dell’economia – se è affrontata in prospettiva pedagogi-ca – ci fa anche riflettere sulla vita del pianeta che, per molte ragioni, è un pic-colo villaggio globale in cui tutti si co-noscono in quanto i popoli, ormai, non vivono più lontani, ma sono vicini e in-teragenti per scambiarsi facilmente le loro idee basilari. Nonostante ciò, la po-litica non riesce a fare da contrappeso ad una forma impazzita di capitalismo che ha uno strapotere enorme per cui gli ingenui, assieme ai deboli, si stanno convertendo all’idea che sulla vetta dei valori ci sia il denaro, non l’uomo, non la sua l’intelligenza, l’energia inesauribile della più grande miniera dell’universo.

È possibile impedire all’Economia di ridurre la persona umana in schia-vitù? Il problema della fame, lo sotto-lineo in modo semplice, non si risolve con l’offerta di una ciotola di riso – che è pur sempre un gesto di solidarietà – ma con le riforme economiche e del mercato del lavoro che sono scelte poli-tiche. Giustamente, Alex Zanotelli, dice

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di non avercela contro la globalizzazio-ne, ma con chi “permette a pochi di vi-vere come nababbi a spese dei morti di fame”2. Egli ce l’ha con il sistema eco-nomico che “schiaccia e uccide i debo-li” e chiude gli occhi sugli straricchi di beni di cui non dichiarano nemmeno la provenienza.

Ci sono state epoche storiche in cui la schiavitù era regolata dal diritto che stabiliva chi nascesse libero e chi, inve-ce, schiavo; stabiliva, cioè, le condizio-ni in cui la persona potesse addirittura perdere la libertà3; fatto assurdo soprat-tutto perché lo stesso diritto concedeva ad alcune persone di considerare che al-tre potessero essere di loro proprietà! Papa Francesco ci ricorda che il valo-re della dignità è superiore al denaro e ai beni materiali superflui e che ognu-no, con l’amore, può continuare il suo viaggio terreno andando oltre il tempo e lo spazio…

Comunque, non bisogna nemmeno dimenticare che un’altra gravissima causa della schiavitù sono le guerre, le tante forme di criminalità e le mafie che generano violenza trasformando il viaggio terreno dell’uomo in un’avven-tura pericolosa …

Bene. Dopo queste considerazioni, mi sembra giusto riflettere sull’idea che non è più possibile continuare a concen-trare la ricchezza nelle mani di pochi; la cultura dell’avere è la causa dei con-flitti che stanno riducendo il pianeta in un deserto. Dio ha affidato la Terra a tutti per custodirla, non certo per di-struggerla. Siamo giunti ad bivio cru-

2 Alex Zanotelli, I volti della globalizzazione Roma, Segno nel mondo n. 11/2001 p. 5.

3 Cfr. Papa Francesco, Non più schiavi, ma fratelli, Roma, Docete n. 4/2015 pp. 167-168.

ciale della storia in cui bisogna sceglie-re di far convivere – accanto alle pre-rogative degli stati – le legittime attese dei popoli che, ora, dopo un lungo silen-zio, ritornano alla ribalta della storia.

L’errore del colonialismo è stato di tipo razziale così come è anche oggi quello di chi urla o invoca la ruspa per respingere i profughi invece di ac-coglierli integrandoli come una risor-sa per tutti. Gli urlatori non hanno capito che la condizione dell’uomo, a prescindere dalla razza, è pur sempre precaria. Infatti – povero o ricco, bian-co o nero che sia – l’uomo è un perico-lo quando minaccia, uccide, ruba, cor-rompe o quando costruisce montagne di rifiuti non biodegradabili o inquina le sorgenti dei fiumi, il mare e l’aria: mai come ora, l’uomo ha paura dell’uo-mo quando è lontano da Dio e vicino al denaro, al potere … in cui sembra essere uno che non cerca il Cielo, ma la Terra trasformata in deserto.

La politica, dunque, deve assoluta-mente impegnarsi a fare da contrappe-so all’ economia; deve riprendersi il suo ruolo mettendosi al servizio delle perso-ne in difficoltà; deve realizzare l’equità che è la premessa per la ripresa econo-mica e della produttività del pianeta.

Naturalmente, il tema della povertà non può essere discusso solo sulla base del reddito pro capite e dei dati statisti-ci pur se necessari: la soluzione è pro-porzionale alla sicurezza del lavoro e al diritto alla pensione (calcolata secondo criteri di giustizia, non astrattamen-te); non è giusto, per esempio, che due lavoratori – aventi la stessa qualifica – percepiscono lo stesso stipendio pre-scindendo se uno dei due vive in città o in periferia. Non è nemmeno necessa-rio lavorare molto per produrre molto

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e consumare molto per far guadagna-re moltissimo a pochi imprenditori. La giornata lavorativa deve riequilibrar-si sulla giusta misura che, come dice-va Madre Teresa, è rispettare l’uomo amandolo senza misura …

I giovani che entrano nel mercato del lavoro per la prima volta hanno poca esperienza nel cercare un posto giu-sto dove lavorare in modo giusto; spes-so, sono giovani (adulti) che lavorano in nero continuando a vivere in fami-glia e coprendo le spese personali. Essi,

perciò, sono l’anello debole del circuito occupazionale in quanto non sono più né studenti alla ricerca di una qualifi-ca che possa inserirli opportunamente nel mercato del lavoro né specializzati in un’attività tra le tante del variegato mondo del lavoro.

È urgente, dunque, che l’economia si coniughi con l’etica affinché la ric-chezza prodotta sia equamente distri-buita fra gli abitanti del pianeta secon-do criteri di comunione (cfr. Etica Po-litica Economia di comunione Editore armando 2016).

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Ricerca ed innovazioneeducativa e didattica rubrica diretta da FRANCO BLEZZA

con la collaborazione di Antonia Rosetto Ajello

La pedagogia è costantemente sfidata sul campo: i territori diventano luoghi in cui convi-vono disperazione e speranza, morte e nuove nascite, esclusione e coraggiose accoglienze, abbandoni di luoghi di vita tradizionali ed esperienze di riappropriazione, cura e rigene-razione. Anche gli spazi e i servizi urbani diventano possibilità di costruzione di nuove re-lazioni, di nuove politiche, di nuove condivisioni. Molte sono le professionalità che si cimentano in questa trasformazione catastrofica, nel-la quale una nuova forma prova ad emergere dalla vecchia. Ma queste hanno bisogno di strumenti pedagogici. Non si tratta, semplicemente, di rivendicare per gli educatori ciò che è il loro specifico ambito di azione: questo è giusto ed è il minimo, se si vogliono limitare i danni di una visione distorta o monca dell’educare. Si tratta piuttosto di promuovere il sapere pedagogico nella formazione (in itinere e in ser-vizio) delle altre professioni del sociale, per fornire loro gli strumenti per un agire inten-zionalmente trasformativo, orientato alla crescita autentica dell’uomo e delle comunità.Si tratta anche di aumentare l’attenzione nei confronti dei contesti di educazione nonforma-le ed informale, nei quali oggi si costruisce buona parte dell’educazione alla cittadinanza.Ecco perché è importante che la Pedagogia si curi di ciò che avviene oggi sui territori, nelle comunità, nei contesti locali e nel loro interagire con la dimensione globale.La dimensione planetaria della vita attuale è un’opportunità senza precedenti, pur com-portando rischi altrettanto eccezionali. Siamo abituati a pensare soprattutto a questi ul-timi, occorre però anche mettere a frutto il fatto che il pensare e l’agire di altrove costitui-scono per noi straordinarie opportunità di conoscenza, di crescita, di pensiero e di azione. Molte delle prassi che incontriamo nelle nostre società, delle nuove esperienze di economia e relazionalità sono figlie dell’incontro con pensieri ed esperienze fatte altrove.Ancora una volta proveremo ad analizzarne qualcuna, per offrire nuovi strumenti e nuovi spunti di riflessione alle professioni educative.

* * *

Gianfranco Ferraro si occupa di filosofia politica, in particolar modo di questioni legate alla democrazia, alla storia della sovranità e all’ontologia della soggettività. Svolge attività di ricerca post-dottorale presso l’Instituto di Filosofia dell’Universidade Nova di Lisbona, dove coordina il seminario permanente del Laboratório de Estudos Políticos. È visiting re-searcher presso l’Universidade Federal di San Paolo (Brasile) e presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. È stato tra i redattori, nel 2013, del Manifesto per la rete delle città in comune. Ha collaborato con il Laboratorio Messina per i beni comuni e le istituzioni parte-cipate fin dalla sua fondazione. Sui beni comuni ha scritto diversi saggi. Nel suo articolo Cosa resta dei beni comuni? Su di una ragionevole utopia urbana, ci racconta la riflessio-ne e le esperienze in atto nel campo della cura e rigenerazione dei beni comuni urbani. Con questi movimenti, le città diventano di nuovo luoghi di elaborazione culturale e politica, mostrando evidente il nesso tra la dimensione locale e quella planetaria. antonia rosetto ajello, pedagogista e ricercatrice, co-curatrice di questa rubrica, titolare a Messina dello Studio di Consulenza pedagogica e formazione “Metamorfosi”, da trent’an-ni si occupa di Pedagogia sociale, con particolare riguardo a pratiche riflessive, comunica-

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zione, supporto ai processi di cambiamento personale e organizzativo. In questa Rubrica presenta un contributo dal titolo La cura condivisa dei beni comuni: una nuova opportuni-tà per l’educazione democratica, in cui esplora la cura e gestione condivisa dei Beni comu-ni come pratica di educazione alla cittadinanza attiva e democratica e racconta di un’espe-rienza concreta, traendone indicazioni e spunti di riflessione.

Cosa resta dei beni comuni? Su di una ragionevole utopia urbana

di gianfranco ferraro

Sommario Posta al centro di uno dei pochi movimenti sociali davvero glo-bali degli ultimi anni, la nozione di beni comuni si è imposta come l’orizzonte at-traverso cui far passare bisogni e forze, spesso eterogenei, ma tutti accomunati dalla necessità di trovare una via inter-media tra logiche del profitto privato e logiche di gestione e di uso pubblico dei beni. Questo articolo intende pertanto focalizzare l’attenzione del lettore sul legame interno che la nozione di bene comune ha creato, o ricreato, nello sce-nario di un “diritto alla città” tutto da riconquistare, tra una gestione demo-cratica della politica, e la difesa di una costituzione collettiva della proprietà.

Abstract Placed in the heart of the recent social global movements, the no-tion of “common goods” was forced as the way through which new social needs and forces, although often heterogenous, could pass: new needs and forces joined by the possibility to find an intermediate way between private benefits’ logics and different logics of goods’ management and public use. By recalling some ex-periences and some ideas of the italian recent debate about common goods, this

article will focus our attention on the in-ner connection, created or created again, by the concept of “common good”, in the scenario of a new “right to the city” en-tirely to conquest, between a democra-tic management of politics and the ex-treme safeguard of a collective establi-shment of property.

Il 15 giugno del 2011 appare già per molti versi una data lontana. È il gior-no in cui un gruppo consistente di atto-ri, di artisti e di liberi cittadini occupa lo storico “Teatro Valle” di Roma, il più antico della capitale, da lungo tempo ab-bandonato. Al cuore delle rivendicazio-ni degli occupanti, il colpevole abbando-no istituzionale in cui versano spazi ed edifici storici delle città, a fronte della cronica mancanza di spazi di socializza-zione e di sempre più avanzati e totaliz-zanti processi di gentrificazione, i costi proibitivi dell’accesso alla cultura per i ceti più disagiati della società, e infine la progressiva emarginazione dal mer-cato dei lavoratori dello spettacolo e in generale delle professioni intellettuali1.

1 Ormai imponente è la bibliografia sul tema

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In quel momento, i cicli di “occupa-zioni” militanti degli anni ‘90, e anco-ra più degli anni ‘70 e ‘80, le occupazio-ni dei “centri sociali” del Centro Nord, sono il ricordo di altre generazioni poli-tiche. Un ricordo appare del resto anche l’ondata di occupazioni sociali dei primi anni 2000: ci trovavamo, a quell’altezza, nell’orizzonte delle contestazioni che nel luglio del 2001 avevano raccolto a Ge-nova diversi movimenti civici e sociali, provenienti da ogni parte del mondo, e con culture politiche diversissime, tut-ti accomunati però da un’aperta conte-stazione delle politiche neoliberiste im-poste a livello globale da istituzioni fi-nanziarie sempre più svincolate dal con-trollo degli Stati nazionali, e pertanto sempre più irrelate rispetto l’effettiva capacità di intervento democratico del-

dei beni comuni. Oltre al saggio “fondativo” di E. Olstrom, Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia, 2006, cfr. per una prospettiva italiana: G. Arena, C. Iaione (a cura di), L’ Italia dei beni comuni, Carocci, 2012; S. Chignola, (a cura di) Il diritto del comune, Ombre corte, Verona 2013; P. Cacciari, N. Carestiato, D. Passeri, Viaggio nell’ Italia dei beni comuni, Marotta & Cafiero, 2012; A. Ciervo, I beni comuni, Ediesse 2013; A. Lucarelli, Beni Comuni. Dalla teoria all’azione po-litica, Dissensi, 2012; A. Lucarelli, La democrazia dei beni comuni, Laterza, 2012; M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un di-ritto dei beni comuni, Ombre corte, Verona 2013; U.Mattei-E.Reviglio-S.Rodotà, Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, il Mulino, 2007; U.Mattei-E. Reviglio-S.Rodotà, Dal governo democratico dell’economia alla riforma edi beni pubblici, accademia nazionale Lincei, Scienze e Lettere, 2010; U. Mattei, Il saccheggio, Bruno Mondadori 2010; U.Mattei, Beni comuni. Un Manifesto, Laterza, 2011; U.Mattei, Contro riforme, Einaudi, 2013; G. Ricoveri, Beni comuni v. merci, Jaca Books, 2011; S.Rodotà, Il terribile diritto, Il Mulino, 3 ed. 2013; S.Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, 2013; S.Settis, Italia SPA, Einaudi, 2007; S.Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, einaudi, 2013.

le popolazioni.In occasione della riunione del G8 del

luglio 2001, questi movimenti, che già avevano avuto modo di incrociare le pro-prie prospettive durante la prima edi-zione del World Social Forum, tenuto-si nella città brasiliana di Porto Alegre nel gennaio del 2001, videro la possibi-lità di costruire la prima tappa di una politica comune, globale, a partire dai diversi percorsi e dalle diverse dissemi-nazioni di idee e di linguaggi praticati nei rispettivi Paesi d’origine, così come nei diversi contesti in cui si trovavano ad agire. Dal movimento dei contadini “Sem terra” brasiliani, ai tentativi di costruzione municipalista del Chiapas messicano, dalle critiche alla progressi-va riduzione dei diritti del mondo del la-voro e delle garanzie dello Stato sociale, da parte di vari movimenti, sindacati e partiti politici europei e americani, sino alla costruzione di una critica radicale, da parte di diversi movimenti cattolici di base, dei processi di sfruttamento delle risorse “comuni”, quali l’acqua e la terra, dalla contestazione delle grandi multi-nazionali agricole e farmaceutiche, che sempre di più spingono per una priva-tizzazione dei brevetti e del genoma di diversi cereali, da produrre industrial-mente per il mercato del futuro: movi-menti e rivendicazioni diverse che incro-ciano questioni comuni come il diritto all’abitare, alla costruzione di spazi di socializzazione estranei alle logiche del mercato, alla difesa delle risorse comuni minacciate dall’inquinamento ambien-tale o dalla privatizzazione coatta, o co-munque dalla sottrazione all’uso collet-tivo. La breve stagione dei “forum socia-li” aperta in Italia nel sangue nell’estate del 2001, si concluse nel breve volgere di qualche anno: il problema della con-

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trapposizione tra la difesa delle risorse comuni, da una parte, e della loro priva-tizzazione, dall’altra, divenne per diver-so tempo, soprattutto in Italia, affaire di movimenti locali (No-Ponte, No-Tav) e di un associazionismo che non riusciva a perforare l’orizzonte dell’agenda set-ting politica, orientata verso una pro-gressiva soggezione, anche psicologica, alle parole d’ordine della liberalizzazio-ne di mercato.

Il raggiungimento del quorum e la vittoria del “Sì” ai referendum italiani per l’acqua pubblica, tenutisi il 12 e il 13 giugno del 2011, riportò prepoten-temente al centro della scena pubblica la questione della difesa delle risorse comuni. Con tale vittoria trovò quindi un’amplificazione pubblica l’indefesso, sotterraneo lavoro che era stato svolto dal giugno 2007 sino al febbraio 2008 dalla cosiddetta “Commissione Rodo-tà”, una Commissione governativa no-minata dal Ministro della Giustizia Ma-stella e presieduta dal giurista e storico del diritto Stefano Rodotà, incaricata di redigere una bozza per la ridefinizione dei principi e dei criteri direttivi vol-ti al recupero della funzione ordinan-te del diritto della proprietà e dei beni. La bozza intendeva precisamente met-tere mano all’attuazione dell’articolato costituzionale (artt. 41, 42, 43) che re-gola il diritto di proprietà. E lo faceva, nello specifico, con una proposta origi-nale. Se infatti le categorie della pro-prietà garantite costituzionalmente sono di due tipi, quella pubblica e quel-la privata2 e gli enti possessori vengono identificati da un lato nello Stato e ne-

2 Così recita il primo comma dell’art. 42: “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”.

gli enti pubblici, e dall’altro negli enti e nei soggetti di diritto privato, la boz-za della Commissione proponeva al Mi-nistro la definizione di una nuova cate-goria di beni: i beni comuni3. nel ddL che costituisce l’esito del lavoro della Commissione possiamo quindi leggere una concretizzazione giuridica di que-sto concetto, la prima nel contesto ita-liano. Per “beni comuni” vengono inte-se nel testo quelle “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”4. Tutelati anche “a bene-ficio delle generazioni future”, i beni co-muni costituiscono dei beni la cui tito-larità è pur sempre di “persone giuridi-che pubbliche o privati”. È importante sottolineare in questo senso il legame che viene sancito tra questa nuova ca-tegoria dei beni e l’esercizio dei dirit-ti fondamentali, perché proprio questo legame costituisce il fil rouge non solo della campagna referendaria, ma anche del successivo movimento dei “beni co-muni”. Ciò che inoltre dovrebbe carat-terizzare questi beni è la loro “fruizio-ne collettiva” e la loro gestione rigoro-samente “fuori commercio”. Una carat-terizzazione ulteriore di tali beni si ha nel prosieguo del testo, quando, come

3 Di Stefano Rodotà sono da ricordare senz’al-tro in proposito: Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, Il Mulino, Bologna 1990; Id. Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2012. Ultima in ordine di tempo, la difesa dello stru-mento referendario in occasione del referendum sulle “trivelle” del 17 aprile 2016. Cfr: http://temi.repubblica.it/micromega-online/referendum-che-fastidio-i-cittadini-intervista-a-stefano-rodota/

4 Il testo è visionabile al seguente indirizzo: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp? facetNode_1=4_7&facetNode_3=0_10_21&facetNode_2=0_10&previsiousPage=mg_1_12&contentId=SPS47624

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beni comuni, sono caratterizzati quei beni e quelle risorse che possiamo sen-za dubbio fare rientrare dentro il qua-dro ambientale e culturale. Attraverso la definizione della categoria giuridica dei beni comuni verrebbero pertanto strutturate delle nuove forme di tutela del patrimonio ambientale e culturale. Leggiamo il testo:

Sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come defi-niti dalla legge, le foreste e le zone bo-schive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i trat-ti di costa dichiarati riserva ambienta-le; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambienta-li e le altre zone paesaggistiche tutelate.

Questa definizione dei beni comuni in diretto rapporto con i beni ambien-tali, il loro uso collettivo e la difesa dei “diritti fondamentali”, da parte della Commissione Rodotà, trova del resto negli stessi anni una sponda cruciale nel lavoro della Corte costituzionale, le cui sentenze, in un arco compreso tra il 2007 e il 2011, pongono progressiva-mente l’accento sulla tutela del diritto alla fruizione collettiva dell’ambiente e sulla condanna del danno ambienta-le5. Un forte impulso in questa direzio-ne viene data dallo storico del diritto e membro della Corte Costituzionale, suo vice-presidente tra l’aprile e il giu-

5 Cfr. Cort. Cost. Sentt. nn. 367/2007, 378/2007; 62/2008, 104/2008, 105/2008, 180/2008, 214/2008, 437/2008, 10/2009, 12/2009, 30/2009, 61/2009, 164/2009, 225/2009, 272/2009, 307/2009, 1/2010, 193/2010, 247/2010, 278/2010, 112/2011, 151/2011.

gno del 2011, paolo maddalena. Le lon-tane premesse della giurisprudenza di Maddalena possiamo leggerle già nella conclusione di un suo volume del 1990, dove la categoria del danno ambientale viene orientata verso quella del danno all’intera collettività: il bene ambien-te viene cioè letto, in questa prospetti-va, come bene il cui diritto di fruizione è direttamente imputato non ad un ad un “soggetto proprietario”, ma alla col-lettività in quanto tale6.

Un’altra cruciale testimonianza di questo dialogo a distanza tra riflessio-ne della Commissione Rodotà e giuri-sprudenza della Corte Costituzionale la ritroviamo del resto in un’altro bre-ve passo della bozza Rodotà: “La disci-plina dei beni comuni deve essere co-ordinata con quella degli usi civici”. Il legame tra categoria dei beni comuni e regolamentazione degli “usi civici”, una delle più arcaiche, pre-moderne, forme di fruizione collettiva di una risorsa (si pensi all’uso dei boschi) non è del resto scontato, e costituisce in questo senso un preciso orientamento di una parte del mondo giuridico italiano, raccolto in-torno alla tutela dei beni comuni. In un breve saggio, che ben riassume questa prospettiva, lo stesso Paolo Maddale-na, attingendo alla propria formazione di storico del diritto romano, chiarisce i termini della questione, mettendo in evidenza una primazia giuridica, garan-

6 “Il danno all’ambiente, si vuol dire, è visto in ogni caso come ‘compromissione’ del bene am-biente, è sempre considerato nella sua consistenza oggettiva, e non implica valutazioni soggettive in ordine alla lesione dei variegati interessi indivi-duali. È in questo senso che il danno ambientale è danno all’intera collettività”: P. Maddalena, Danno pubblico ambientale, maggioli, rimini, 1990, p. 254-255.

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tita anche dalla Costituzione italiana, della proprietà collettiva sulla proprie-tà privata. I “beni comuni” tradurreb-bero in questo senso l’espressione “res communes” del giureconsulto romano Marciano: l’influenza del diritto romano sulla Costituzione appare a Maddalena evidente, anche laddove tale influenza deve confrontarsi con quella, poderosa, del positivismo, incarnatosi in manie-ra evidente nel Codice Civile. In que-sta prospettiva, è la proprietà privata a costituire un limite della proprietà collettiva, rappresentata dallo Stato: esattamente al contrario di quanto af-ferma la vulgata liberista. Pertanto, il riequilibrio, costituzionalmente orien-tato, di questa doppia influenza, si im-pone come passaggio giuridico e al tem-po stesso politico. Scrive Maddalena:

Occorre invece far capire che la tute-la del paesaggio, dei beni culturali, ec-cetera, non costituisce assolutamente un “limite” alla proprietà privata, ma è espressione di una “tutela diretta” da parte dell’ordinamento giuridico di beni che “appartengono” al popolo a titolo di sovranità, mentre è invece la “proprie-tà privata” che costituisce un limite al diritto di proprietà collettiva del popo-lo sul territorio […]. Insomma, non è la collettività che toglie qualcosa ai singo-li, ma è la proprietà privata che sottrae alla proprietà e all’uso comune di tutti rilevantissime parti del territorio7.

Non può sfuggire in questo senso la prossimità di vedute tra un autorevole membro della Corte Costituzionale, per

7 p. maddalena, Per una teoria dei beni co-muni, «Micromega», 9/2013, pp. 91-118: p. 108.

anni impegnato proprio sul fronte della tutela ambientale, e il percorso politi-co che dalla nomina della Commissio-ne Rodotà porta sino ai referendum del 2011. Del resto, lo stesso Rodotà scrive-rà un anno dopo, richiamando il rappor-to tra beni comuni e forme di vita non proprietaria studiato da Franco Cas-sano con l’ossimoro di una “ragionevo-le follia dei beni comuni”8:

in quell’ossimoro, che associava ragione a follia, vi era una chiara indicazione di metodo. I beni comuni esigono una di-versa forma di razionalità, capace di in-carnare i cambiamenti profondi che stia-mo vivendo e che investono la dimensio-ne sociale, economica, culturale, politi-ca. Siamo così obbligati ad andare oltre la logica binaria, che ha dominato negli ultimi due secoli la riflessione occidenta-le – proprietà pubblica o privata. E tutto questo viene proiettato nella dimensione della cittadinanza, per il rapporto che si istituisce tra le persone, i loro bisogni, i beni che possono soddisfarli, così modifi-cando la configurazione stessa dei diritti definiti appunto di cittadinanza, e delle modalità del loro esercizio. […] Emerge un retroterra non proprietario, si mani-festa concretamente l’esigenza di garan-tire situazioni legate al soddisfacimen-to delle esigenze e dei bisogni della per-sona. La via verso la riscoperta dei beni comuni è così aperta9.

Quando pertanto, nel giugno del 2011, la difesa delle risorse pubbliche collettive viene sancita dalla consulta-

8 Cfr. F. Cassano, Homo civicus. La ragione-vole follia dei beni comuni, dedalo, bari, 2004.

9 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., p. 107.

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zione referendaria, il lavoro di ridefi-nizione giuridica avviato dalla Com-missione Rodotà può riprendere nuo-vo slancio. Riflettendo attentamen-te, non può sfuggire che appena due giorni separano la vittoria del referen-dum dall’occupazione del Teatro Val-le, a roma.

Non è un caso, del resto, che uno dei problemi principali che si trova a discu-tere l’assemblea di gestione dei lavora-tori del Teatro Valle è quello della “for-ma giuridica” da dare all’occupazione. È una questione che, a qualunque at-tivista di precedenti movimenti di oc-cupazione, avrebbe quantomeno strap-pato un sorriso. E che invece appare a questi attivisti come qualcosa di “nor-male”. Perché? “L’impegno di un gruppo di giuristi, fra cui Stefano Rodotà e Ugo Mattei” scrive Luca Baiada, uno degli attivista del Valle, “tenta sin dal 2011 di dare veste formale all’occupazione, e di fare da apripista per nuove esperien-ze, di dare insomma alla carne un’ossa-tura legale che la regga”. Addirittura: “Trovata ottima, tentativo di unire alla tecnica di rete l’alito caldo dell’assem-blea: quindi, rinuncia a certi squallidi spontaneismi che furono la palla al pie-de dei movimenti del 1968…”10.

Non si può comprendere quanto pro-fondo sia il legame tra il movimento dei beni comuni che ha attraversato il Pae-se negli ultimi anni e la riflessione giu-ridica che l’ha sostenuto, incoraggiato e difeso, senza tenere nel debito conto il conflitto aperto nel dibattito giuridi-co e filosofico contemporaneo dall’avan-

10 L. baiada, Teatro Valle: era triste la prudenza, in Beni Comuni (a cura di M. Pez-zella), numero monografico, «Il Ponte», Firenze, febbraio-marzo 2013, p. 96.

zata delle politiche neoliberiste e dalla progressiva cessione di sovranità del-lo Stato nei confronti di entità esterne. Un conflitto che colpisce al cuore, con tutta evidenza, le prassi e l’orizzonte di riferimento del diritto costituziona-le, ancor più di quello del diritto priva-to. Tale conflitto, nel quale si inserisco-no alcuni giuristi, presto raccolti nella cosiddetta “Costituente dei beni comu-ni”, finisce in breve tempo col cataliz-zare probabilmente le poche risorse di analisi di movimenti e di partiti politici della sinistra storica, impegnati a rico-struire le poche tessere a disposizione in anni in cui ripetute catastrofi elettorali sembrano aver messo definitivamente a soqquadro qualunque prospettiva di rappresentanza parlamentare.

Accanto a Rodotà e a Maddalena, troviamo quindi la voce di Ugo Mattei, giurista e docente universitario presso l’Università di Torino, la cui prospetti-va relativa alla definizione dei beni co-muni si allontana alquanto da quella di Maddalena e, per quanto in misura minore, anche da quella di Rodotà. Se infatti questi ultimi riconducono tale categoria dentro l’orizzonte dei “beni collettivi”, Mattei spinge maggiormen-te verso la creazione di una categoria ad hoc, percorrendo fino in fondo un sentiero che d’altra parte era stata già aperto dal testo della Commissione Ro-dotà11. Non dunque un cavallo di tro-ia giuridico dentro l’orizzonte dei beni collettivi, costituzionalmente garantiti, quanto piuttosto la declinazione giuri-dica di presupposti politici che affonda-

11 Cfr. U. Mattei, Beni comuni. Un mani-festo, cit. Cfr. anche: http://www.euronomade.info/?p=162, dove Mattei ricostruisce tutto il suo percorso degli ultimi anni.

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no direttamente dentro la creazione di un ordinamento ulteriore, che preluda ad un superamento della stessa distin-zione tra pubblico e privato. Un supe-ramento tanto più necessario, secondo Mattei, nel momento in cui i proces-si di privatizzazione che caratterizza-no la fine del Welfare State, hanno con tutta evidenza tolto alla proprietà pub-blica la funzione e la capacità di difesa della “proprietà pubblica”. “Ugo Mattei ha avuto perfettamente ragione” hanno scritto di recente Pierre Dardot e Chri-stian Laval, “a insistere sul senso del-le ‘privatizzazioni’ che hanno fatto pas-sare dalle mani dello Stato a quelle di oligarchie private ciò che poteva essere considerato come il frutto del lavoro co-mune o che, comunque, atteneva all’u-so comune”. La proprietà pubblica ap-pare in questo senso “come una forma collettiva di proprietà privata riserva-ta alla classe dominante, che poteva di-sporne a piacimento e privarne la po-polazione a seconda dei propri desideri e dei propri interessi”12. La prospettiva di Mattei nasce e si costruisce attraver-so il dialogo con due esperienze: da una parte quella della trasformazione dell’a-zienda pubblica dell’acqua del Comu-ne di Napoli Arin da Società per Azio-ni in Azienda speciale ABC, nel 2013, dall’altro proprio nel confronto con l’e-sperienza del Teatro Valle, capofila di tutta una serie di esperienze che vedono al centro proprio la liberazione di spa-zi culturali e di socialità. L’applicazio-ne pratica della prospettiva di Mattei si concretizza appunto nella costruzio-ne di un soggetto giuridico nuovo nella

12 P. Dardot, Ch. Laval, Del Comune, o della Rivoluzione del XXI secolo, DeriveApprodi, Roma, 2015, p. 16.

città di Napoli, governata dal sindaco Luigi De Magistris che proprio ai “beni comuni” riserverà, primo caso in Italia, una delega assessoriale, e nella costitu-zione del soggetto associativo “Fonda-zione Teatro Valle”13, la cui struttura, a parte una roboante premessa14, rientra però a un’attenta lettura interamente nei cardini del diritto privato e di una “normale” associazione. Ovviamente, un compromesso necessario per speri-mentare le vie di un “diritto rivoluzio-nario”. Non però il solo compromesso possibile. A Napoli, infatti, dal 2 mar-zo 2012, risulta attiva anche l’occupa-zione dell’ex-Asilo Filangeri, che però, a differenza degli abitanti del Teatro Valle, pretende di porre l’accento non tanto sulla forma giuridica dei sogget-ti occupanti (“Noi…”) quanto sulle ca-ratteristiche della gestione d’uso dello spazio. Proprio intorno ad un “regola-mento d’uso condiviso” si concentra in-fatti l’attenzione di questa nuova espe-rienza. La differenza non è banale: in questo secondo caso, lo spazio, o il bene, appare in effetti costituivamente aper-to alla cittadinanza nelle sue moltepli-

13 http://www.teatrovalleoccupato.it/wp-con-tent/uploads/2013/10/STATUTO-FONDAZIONE-TEATRO-VALLE-BENE-COMUNE.pdf

14 “noi che in comune, dal 14 giugno del 2011, occupiamo, ci riappropriamo e restituiamo apertamente e pubblicamente il Teatro Valle di Roma alla comunità, intendiamo con il presente atto intraprendere un percorso costituente per il pieno riconoscimento giuridico del Teatro Valle di roma come bene comune. noi abbiamo rico-nosciuto e fatto vivere il Teatro Valle non solo per difenderlo nell’interesse di tutti, ma anche per intraprendere un processo costituente della cultura come bene comune capace di diffondersi e contaminare ogni spazio pubblico, innescando una trasformazione profonda del modo di agire e di pensare.”

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ci forme, a partire dalla condivisione di alcune regole fondamentali. La di-stanza rispetto alcune formule appro-priative delle occupazioni non può es-sere maggiore. Non a caso, si apre un dialogo con il Comune, in quanto istitu-zione di rappresentanza più prossima, proprio per incardinare dentro le rego-le fondamentali della municipalità an-che un regolamento sugli usi condivi-si che possa fare da apripista ad altre e diverse esperienze di “apertura” alla collettività di beni pubblici o privati in stato d’abbandono. Non può ovviamen-te sfuggire quale sia la premessa giu-ridica fondamentale della formula del regolamento d’uso condiviso, verso cui vengono orientati gli sforzi dell’assem-blea di gestione:

L’Asilo, ex sede del Forum delle Cultu-re, dal 2 marzo 2012 è uno spazio aper-to dove si va consolidando una pratica di gestione condivisa e partecipata di uno spazio pubblico dedicato alla cultu-ra, in analogia con gli usi civici: una di-versa fruizione di un bene pubblico, non più basata sull’assegnazione ad un de-terminato soggetto privato, ma aperto a tutti quei soggetti che lavorano nel cam-po dell’arte, della cultura e dello spetta-colo che, in maniera partecipata e tra-sparente, attraverso un’assemblea pub-blica, condividono i progetti e coabitano gli spazi15.

Il punto di riferimento appare dun-que qui l’uso civico, e in analogia con la regolamentazione già in vigore degli usi civici si tratta dunque di pensare la for-ma d’uso dello spazio liberato. Da no-

15 http://www.exasilofilangieri.it/chi-siamo/

tare anche come la rifunzionalizzazione del bene attraverso un uso condiviso sia legata alla definizione di una forma as-sembleare aperta (“tutti quei soggetti”) come organo decisionale vero e proprio. Torniamo a leggere in proposito Pao-lo Maddalena, in un testo più ampio e comprensivo, nel quale si ricostruisce, tra le altre cose, proprio la storia della nozione della res in publico usu:

E si deve aggiungere che la distinzione gaiana tra cose nel patrimonio di singoli e cose nel patrimonio di tutti fu ben pre-sto trasformata nella distinzione tra res in commercio e res extra commercium, nel senso che le cose dei privati sono ri-tenute commerciabili e le cose di tutti, proprio per appartenere a tutti, sono con-siderate fuori commercio.

Un’applicazione pratica di questa importantissima distinzione riguar-dò le cose in publico usu, le cose in uso pubblico, la cui tutela giuridica consi-steva proprio nel fatto di averle collo-cate fuori comercio, in quanto apparte-nenti a tutti.

È questa una lezione da tener molto pre-sente oggi, visto che si tende a rendere commerciabili anche i demani, e cioè le cose di tutti, come purtroppo prevede il decreto legislativo n. 85 del 2010, attual-mente in esecuzione16.

Sulla stessa lunghezza d’onda tro-viamo Rodotà, laddove si interroga sulla categoria di “funzione sociale”:

16 p. maddalena, Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà pri-vata e interesse pubblico, Donzelli, roma 2014, pp. 47-48.

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Questa, nata come insieme di limiti e vincoli all’esercizio del potere proprieta-rio, è stata poi intesa anche come stru-mento per definire lo stesso contenuto del diritto, per circoscrivere fin dall’ori-gine le facoltà esercitabili dal proprieta-rio. Ma essa è stata poi configurata an-che come potere di una molteplicità di soggetti di partecipare alle decisioni ri-guardanti deteminate categorie di beni. Infatti, nel momento in cui taluni beni sono al centro di una “costellazione” di interessi, questa loro particolarità im-plica che, in forme ovviamente differen-ziate, si dia voce a chi li rappresenta. Emerge così un modello partecipativo. […] Ma non nasce solo una nuova cate-goria di beni. L’astrazione proprietaria si scioglie nella concretezza dei bisogni, ai quali viene data evidenza collegando i diritti fondamentali ai beni indispen-sabili per la loro soddisfazione17.

Tutta una nuova trama di legami viene pertanto a istituirsi intorno alla ri-funzionalizzazione collettiva di un bene. In questo senso, la prospettiva dell’Ex-asilo Filangeri risulta, senza dubbio, come la più innovativa tra quel-le discusse nel corso dei dibattiti orga-nizzati nel quadro della cosiddetta “Co-stituente dei beni comuni” un organo rappresentativo della varie esperienze e in dialogo con i giuristi del movimen-to, che, riunitosi per la prima volta a Roma il 13 aprile del 2013, e in seguito a Pisa e a Napoli, prova a continuare il lavoro interrotto della Commissione Ro-dotà intorno alla costruzione di un di-ritto dei beni comuni.

17 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., p. 109.

Sulla linea della prospettiva napo-letana troviamo inoltre anche l’espe-rienza del Teatro Rossi di Pisa, anche questa derivante dall’occupazione di un vecchio teatro in disuso, o, sempre a Pisa, dell’ex-Colorificio, una vecchia fabbrica occupata dal collettivo “Rebel-dia”. Anche qui ritroviamo una rifunzio-nalizzazione del luogo, a dispetto del-la definizione di una comunità di occu-panti. Un difficile tentativo di compro-messo tra le due diverse ipotesi fu fatto dal collettivo “Pinelli” di Messina, che il 15 dicembre 2012 si trovò ad occupa-re anch’esso un vecchio e abbandona-to teatro della città. Una esperienza, quest’ultima, che funzionò certamente come evento catalizzatore per la suc-cessiva campagna elettorale delle am-ministrative, che videro prevalere nella città dello Stretto, contro ogni previsio-ne, la lista costruita intorno alla figura di uno storico attivista del movimento No-Ponte, Renato Accorinti. Diventato sindaco, Accorinti istituì, secondo dopo De Magistris, una delega assessoriale ai beni comuni e un “Laboratorio Mes-sina per i beni comuni e le istituzioni partecipate”, diretta emanazione della Giunta comunale, il cui scopo sarebbe stato quello di ridefinire, a partire dal-la costruzione partecipata di regola-menti d’uso e di istituzioni di democra-zia diretta, lo stesso statuto comunale della città. All’inaugurazione del Labo-ratorio, cui prese parte lo stesso Mattei nell’aprile del 2014, si ritrovarono gran parte delle esperienze che formavano la Costituente dei beni comuni: esper-to del sindaco di Messina fu nominato nella stessa occasione Paolo Maddale-na. Il laboratorio messinese, per le suc-cessive difficoltà amministrative della Giunta, e probabilmente a causa della

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sua scarsa valorizzazione, attraversa, come esperienze simili di intreccio tra forme rappresentative e forme dirette di democrazia, dopo un anno di inten-so lavoro e la produzione di alcuni re-golamenti, una fase non promettente18.

Dal giugno del 2011 sono passati in fondo appena cinque anni, e tutto il mo-vimento dei beni comuni, che abbiamo rapidamente sorvolato nelle sue tappe fondamentali, appare in crisi. Nondi-meno, esso ha lasciato in Italia, dentro un orizzonte alquanto immobile, e nel quadro di una crisi altrettanto profonda delle istituzioni rappresentative e non, una produzione di riflessioni e di “prati-che possibili” su cui forse adesso è pos-sibile cominciare a ragionare in manie-ra nuova. Pochi, certamente, appaiono i risultati direttamente spendibili den-tro un orizzonte istituzionale: pochi, e però importanti. Nel calendario ideale che abbiamo sviluppato due date sono certamente da ricordare: quella dell’11 agosto del 2014, quando gli occupan-ti lasciano il Teatro Valle in vista del passaggio di proprietà dello stabile dal-lo Stato al Comune di Roma, passaggio che si concretizzerà però soltanto nel febbraio del 201619, e quella del 29 di-cembre 2015, quando il Comune di Na-poli recepisce ufficialmente la “Dichia-razione d’uso civico e collettivo urba-no dell’Ex Asilo Filangieri”. La delibe-ra, scrivono gli “abitanti” dell’Ex-Asilo,

garantisce non solo poteri di accesso, ma soprattutto di autogoverno ed autorga-

18 Tutti i materiali e le informazioni sul La-boratorio messinese sono reperibili all’indirizzo www.benicomuni.me

19 Cfr. www.comune.roma.it/pcr/it/newsview.page?contentId=NEW1068494

nizzazione secondo il sistema di norme stabilite in una “dichiarazione” scritta direttamente da chi, in questi tre anni, ha dato vita alle attività quotidiane dell’asilo, coinvolgendo lo sforzo e l’ibri-dazione intellettuale di giuristi, filosofi, studiosi e altre esperienze collettive e li-bertarie che ci hanno sostenuto.Si tratta, a nostro avviso, di una nuova forma di riarticolazione della sovranità popolare, che rende al pubblico una sua propria funzione essenziale, come sog-getto meramente funzionale e non so-vradeterminante i bisogni e i desideri di una comunità, come dispone l’art. 1 del-la Costituzione. Un documento questo in cui, tra le altre cose, si riconosce come “interesse generale” della collettività il diritto diffuso alla cultura, garantendo l’inclusione, la trasparenza e la gestione diretta ad opera di “lavoratori ed uten-ti” di uno spazio deputato alla produzio-ne culturale partecipata ed orizzontale, dando così nuova sostanza alla previsio-ne costituzionale dell’art. 4320.

La diversa conclusione delle due vi-cende sembra in effetti rispecchiare, per molti versi, la differente attitudine, e le due diverse prospettive che esse han-no effettivamente incarnato nell’oriz-zonte del movimento italiano dei beni comuni, più interna a un dispositivo di diritto privato, quella del Teatro Valle, più prossima a una risemantizzazione del diritto di proprietà collettiva, quel-la dell’Ex-Asilo Filangeri.

Se l’orizzonte italiano dei beni comu-ni sembra ormai da storicizzare, vedia-mo come si vadano sviluppando nuove esperienze, nate al confine tra occupa-

20 http://www.exasilofilangieri.it/si-puo-fare/

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zione abitativa, proporzionalmente pre-valente, e non sempre politicizzata, e occupazione a scopo culturale: su tutte, il “Museo dell’Altro e dell’Altrove Me-tropoliz” di Roma, nato dall’iniziativa di un architetto, Giorgio de Finis, che ha messo d’accordo, in nome di una di-fesa reciproca del diritto d’uso condivi-so di una vecchia fabbrica abbandona-ta, gruppi di artisti contemporanei che hanno prestato la loro opera gratuita-mente, e gli occupanti, per lo più stra-nieri, che avevano fatto della stessa fab-brica la loro casa.

Tutto questo però dice ancora poco rispetto il contenuto che queste espe-rienze hanno consegnato. Se infatti la-sciamo un momento l’Italia e ci spostia-mo in contesti come quello spagnolo, attraversato negli stessi anni dal mo-vimento 15M o anche detto degli Indi-gnados, oppure nel Sudamerica, in Bo-livia, e in Ecuador, dove nuove costitu-zioni sono state promulgate in segui-to alla vittoria elettorale di movimenti populistici che puntano alla difesa dei beni collettivi, ci accorgiamo come le idee che sono circolate in Italia nel bre-ve arco di qualche anno costituiscono effettivamente la punta di un iceberg globale. Alcuni tra i testi che abbiamo esaminato fanno emergere la necessi-tà di produrre una nuova trama del di-ritto e un nuovo rapporto tra uso in co-mune e comunità di persone che rise-mantizzano e rifunzionalizzano la pro-pria azione dentro categorie come quel-la di “azione popolare”21. Non è un caso in questo senso che l’evidenza dei cam-biamenti climatici in corso abbia spinto

21 Cfr. S. Settis, Azione popolare, einaudi, torino, 2012.

gli Stati a tentare dei nuovi accordi, per lo meno di facciata, in difesa dei “beni comuni”, dopo il disastroso fallimento dei protocolli di Kyoto. Sulla stessa li-nea si muove, anche qui probabilmente non a caso, e spinta dal pontefice suda-mericano Bergoglio, la Chiesa cattolica.

Eppure, accanto alla tutela delle ri-sorse collettive fondamentali, come l’ac-qua, l’aria, la salute, le esperienze ita-liane, ma anche spagnole, che si sono ri-trovate intorno alla parola d’ordine dei beni comuni, hanno certamente avuto al centro la città. La rifunzionalizzazione di spazi abbandonati, su cui si è concen-trata ad esempio, e in diverse occasio-ni, l’appassionata difesa dei giuristi e il dibattito tra amministratori22, è andata di pari passo con la riflessione intorno alle forme di democrazia, e alle istitu-zioni di nuovo conio, adatte a supplire allo svuotamento progressivo e sempre più radicale delle istituzioni rappresen-tative, comprese quelle di prossimità.

Mancano spazi, ma mancano anche voci. nel breve volgere di un anno a mezzo, le insorgenze urbane che si sono manifestate intorno alla parola d’ordi-ne dei beni comuni hanno prodotto delle nuove forme istituzionali: oltre al rego-lamento di Napoli, non bisogna dimen-ticare il Regolamento per la sussidiarie-tà e l’amministrazione condivisa, propo-sto dal Laboratorio per la Sussidiarietà (LABSUS), con sede a Bologna, e ormai

22 Cfr. http://iltirreno.gelocal.it/pisa/cro-naca/2013/02/01/news/giuristi-e-docenti-uni-versitari-contro-lo-sgombero-dell-ex-fabbrica-occupata-1.6454228; Cfr: http://daddi-livorno.blogautore.repubblica.it/2013/10/16/ex-colorificio-il-sindaco-di-messina-si-schiera-con-gli-attivisti-e-scrive-a-filippeschi/

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approvato in numerosissimi comuni23, o i sempre più diffusi regolamenti d’uso per gli orti urbani. Eppure spazi e voci continuano a mancare e non è detto che queste difficili mediazioni tra richieste di rappresentanza, o di rappresenta-zione democratica, nuovi usi dei luo-ghi, e forme consolidate di democrazia, riescano a coprire per intero l’orizzon-te dei nuovi bisogni che emergono dal-le nostre città.

Perché di città, di nuove forme di attraversamento della città, ci parlano le esigenze che per un momento, con il nome di “beni comuni”, si sono concre-tizzate. E un nuovo diritto alla città, contro gli stupri delle cementificazioni selvagge e dell’inquinamento, ma anche del turismo di massa e della gentrifica-zione, che espropria le stesse città dei loro abitanti per collocarli al di fuori di quello spazio urbano che si vuole ridot-to a coreografico scenario di selfie e bou-tiques, è forse il contenuto più profon-do delle lotte e delle riflessioni relative ai “beni comuni”. “il diritto alla città” scriveva Henri Lefebvre, “non può es-sere pensato come un semplice diritto a visitare o ritornare alle città tradi-zionali. Può essere formulato solo come diritto alla vita urbana, trasformata e rinnovata”24. Una nuova utopia, allo-ra, intesa non come città o società idea-le da raggiungere, ma come “pre-visio-ne” regolativa delle nostre stesse con-dotte di vita, visione utopica che agi-sce nel presente e trasforma, creando nuovi legami, nuove connessioni, pre-tendendo nuovo diritto, una utopia che

23 Cfr. http://www.labsus.org/category/beni-comuni/

24 h. Levebre, Il diritto alla città, ombre Corte, Verona, 2014, p. 113.

agisce dentro la città, opponendosi alla distopia che la vuole estraneata, avul-sa da se stessa, mercanteggiata, stu-prata, abbandonata, senza memoria e senza cimiteri in cui ricordare, questa nuova utopia, utopia tutta urbana, che pretende e fa appello a un nuovo dirit-to alla città nel bel mezzo di una oscu-rità di bombe e angeli sterminatori che proprio la città travolge e devasta, una nuova utopia, una utopia urbana, che si disegni nuovi spazi e nuove funzioni, è l’esigenza che si è manifestata, quasi balbettando, in questi pochi anni. E ri-pensare la città come risorsa collettiva fondamentale, accanto alle altre risorse, la città come mondo umano prossimo, mondo che possiamo misurare e da cui siamo misurati, mondo in cui possiamo vedere concretizzata la nostra azione di cittadini, nel presente, questa sembra essere, per vie anche traverse e inaspet-tata, la voce utopica che in questi anni si è contrapposta alla distopia di una cit-tà securitaria, preda di telecamere na-scoste, e di pericolosi stranieri. È sulla città, sul suo corpo, una volta ancora, che si va preparando, prepotentemen-te la battaglia sulla società del futuro.

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per crescere nella cultura del dialogo

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La cura condivisa dei Beni Comuni: una nuova opportunità per l’educazione

democraticadi

antonia rosetto ajeLLo

riassunto Educazione informale e non formale sono oggi le due aree più interessanti di sviluppo dell’educazione alla cittadinanza degli adulti. Condivi-dendo la cura dei beni comuni, le perso-ne possono partecipare e contribuire al processo di costruzione delle scelte delle politiche locali (Amministrazione condi-visa), ma anche ad uno sviluppo econo-mico locale sostenibile. Il saggio esplora in che modo la Pedagogia può suppor-tare questa nuova frontiera dell’educa-zione democratica.

abstract Informal and non-formal education are nowadays the two most interesting areas of development of adult education for citizenship. Sharing the care of urban commons, people can learn how to participate and contribute to the decision-making process of local government (Shared Administration) but also to a local sustainable econom-ic development. The essay explores how Pedagogy can support this new demo-cratic education frontier.

L’insostenibile miopia guerresca

È interesse di chi ama la libertà darle un futuro, renderla più lar-ga e condivisa, operazione esatta-mente contraria alla sua esporta-zione aviotrasportata

F. Cassano

Nel suo cammino verso una vita più piena e più giusta, l’umanità fatica, ma non è arresa. Nelle pieghe dell’attua-le tumulto, delle miopi tragedie in cor-so, si sperimentano nuove modalità di azione e di convivenza, originali connu-bi tra rielaborazione di vecchie pratiche e nuovi strumenti.

La cultura della guerra e il senso d’impotenza diffusi, si accompagna-no ad una apologia della separazione, dell’individualismo, della diffidenza che distorcono la percezione della realtà e aumentano l’insicurezza di ciascuno. Gli strumenti utilizzati per creare un clima di quiescenza nei confronti dell’e-splosione di un conflitto violento, sono quelli che tanto dolore e morte hanno già portato in passato: la semplificazio-ne e la contrapposizione delle differen-ze (come nelle dicotomie noi-loro, buoni-cattivi, «sani»-«malati» …); la negazione dei diritti di individui o gruppi umani, con conseguente negazione di ogni re-sponsabilità nei loro confronti; la diffu-sione di un senso di impotenza in cam-po civico e politico, legato al reiterarsi di situazioni in cui l’azione civica non ha sortito gli effetti attesi1 e/o la scelta

1 Nella storia recente, basti pensare alle ma-nifestazioni oceaniche contro l’intervento militare in Irak – esempio di come i popoli siano più lun-gimiranti dei governi – o la tendenza ad ignorare l’esito dei referendum popolari: ricordiamo i Re-

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elettorale viene inficiata da comporta-menti incoerenti (quando non smacca-tamente immorali) da parte degli eletti; la confusione tra verità e menzogna e il sistematico deterioramento degli stru-menti concettuali utili a distinguerli2; il diffondersi di una sensazione di pre-carietà e di ineluttabilità.

L’educazione gioca un ruolo essen-ziale nel contrastare questa deriva. O almeno, un’educazione che, quando si pone al servizio della costruzione di una società inclusiva, sostenibile, fondata sul dialogo e sul confronto, sul ricono-scimento della diversità come presuppo-sto della forza e della resilienza, sulla ricerca continua e sull’apprendimento dall’errore come strumenti per tenta-re di arginare la tragedia3 in atto. Una tragedia ecologica (evidente nei cam-biamenti climatici in corso) che è anche una tragedia politica e umana (visibile nell’escalation dei conflitti armati e del commercio delle armi, in questo enne-simo, folle gioco a Risiko).

L’educazione formale, il cui ruolo è essenziale, porta i segni della crisi in atto. La scuola continua ad essere ina-deguata rispetto alla formazione dei cit-tadini e anche l’Università si concentra troppo spesso su un sapere separato da

ferendum del giugno 2011, su cui torneremo, noti come Referendum sui beni comuni, i più famosi dei quali furono quelli contro la privatizzazione dell’acqua, i cui risultati sono stati ignorati e ribaltati da provvedimenti successivi.

2 Cfr. H. Arendt, Verità e politica, a cura di v. Sorrentino, Boringhieri, Torino 1995.

3 La tragedia è caratterizzata dal fatto che il protagonista è costretto ad agire senza compren-dere realmente le condizioni e i vincoli della sua azione, e a scoprirli solo quando è troppo tardi: m. zambrano, Persona e democrazia. La storia sacrificale, mondadori, milano 2000.

ogni riferimento all’agire4.Parallelamente, però, una moltepli-

cità di micromondi tenta di ricostruire legami, progettualità, futuri e model-li relazionali nuovi, sviluppando, con i luoghi tradizionali della formazione e della produzione, rapporti strumentali e temporanei.

Molte sono le possibili spinte in tal senso: il bisogno di trovare strategie di uscita dalla crisi economica e sociale; un’insoddisfazione rispetto alla quo-tidianità; alta professionalità rispet-to alle offerte di un mercato del lavo-ro asfittico; «voglia di comunità»5; sen-sibilità civica rispetto ai beni comuni; la nuova opportunità di attingere a ri-sorse elaborate altrove, tramite il web. Più spesso si tratta di una combinazio-ne tra tutti questi elementi.

E, sempre più di frequente, le isti-tuzioni sollecitano queste forme di at-tivismo civico, a loro volta spinte da normative, dal bisogno di massimizza-re l’efficacia delle risorse, per moda, o per provare a dare risposte alle istan-ze dei cittadini. Occorre però intender-si sui termini: le forme di attivismo ci-vico possono collocarsi a livelli diversi di reale partecipazione democratica, ed occorre distinguere i modelli e le azio-ni realmente promozionali dalle mere strategie di aggiustamento o di occulta-

4 e. morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, cor-tina, Milano, 2000. Id., I sette saperi necessari dell’educazione al futuro, Cortina, Milano 2001; id., Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’e-ducazione, M. Ceruti (a cura di), Cortina, Milano 2005. Ma anche M.C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, il mulino, bologna, 2011.

5 z. bauman, Voglia di comunità, Laterza, bari-roma 2003.

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mento di una tradizionale gestione dei rapporti di potere. Scrive in proposito Carlo Donolo: “La sussidiarietà respon-sabilizza, ma per farlo deve contare su punti di appoggio già responsabilizzati in qualche misura incipiente. La contro-prova è che nei contesti molto degradati in cui il senso di reponsabilità colletti-va è assente (anche nell’agire istituzio-nale) e prevale un accanito opportuni-smo sia sociale che istituzionale non vi è presa per il principio di responsabili-tà e la sussidiarietà facilmente degra-da a strumento di potere”6.

I beni comuni come «attrattori» di pratiche partecipative

Con «di successo», intendo istitu-zioni che mettono l’individuo in condizione di ottenere risultati produttivi in situazioni in cui le tentazioni di correre da soli o sot-trarsi sono sempre presenti”

Elinor Ostrom

La gestione condivisa dei beni comu-ni può contribuire a rendere concreta la partecipazione dei cittadini alla co-struzione di una società più inclusiva. Il tema è diventato socialmente rilevan-te negli ultimi anni, sviluppandosi, da una parte, come evoluzione della cultu-ra ecologico-ambientale e, dall’altra, sul bisogno di riappropriazione e riqualifi-cazione degli spazi urbani degradati o abbandonati.

Per esemplificare il primo aspetto, possiamo ricordare i Referendum del giugno 2011 contro la privatizzazione

6 c. donolo, I beni comuni presi sul serio, in g. arena, c. iaione, L’Italia dei beni comuni, Carocci, Roma 2012, p. 36.

della gestione dell’acqua, che hanno vi-sto lo sviluppo di un vasto movimento di opinione e numerose iniziative di di-scussione pubblica.

Gli esempi di riqualificazione di spa-zi ed edifici urbani abbandonati si sono moltiplicati negli ultimi anni, ma ancor più è esploso il desiderio di espandere questo tipo di impegno civico7.

Oggi si ritiene che attraverso la dife-sa e la cura dei beni comuni passi quel processo di ricostruzione sociale fonda-mentale per il benessere delle genera-zioni attuali e, ancor più, per le gene-razioni future. Il fenomeno ha avuto una diffusione così rapida da indurre a parlare di “inarrestabile propagazione di questa fenomenale energia civica”8.

Ma cosa dobbiamo intendere per beni comuni? Se per la pedagogia il ter-ritorio è importante quando è inteso come tessuto di relazioni9, i beni comu-ni sono pedagogicamente rilevanti per la loro capacità di promuovere la cre-scita personale e sociale.

Possiamo dunque partire dalla defi-nizione che troviamo nella Carta della sussidiarietà di Labsus10: «i cittadini at-traverso la cura dei beni comuni creano le condizioni per il pieno sviluppo di cia-scun essere umano e in primo luogo di se stessi, attuando insieme con le istitu-

7 P. Cacciari, D. Passeri, N. Carestiato (a cura di), Viaggio nell’Italia dei beni comuni. Rassegna di gestioni condivise, Marotta e Cafiero, Napoli 2012.

8 g. arena, c. iaione, Introduzione, in g. Arena, C. Iaione (a cura di), cit., p.10.

9 “spazio interumano, descritto da rapporti e relazioni, origine e destinazione di processi edu-cativi e formativi: la comunità […]”: R. Franchini, Costruire la comunità che cura, francoangeli, Milano 2001, p. 22.

10 www.labsus.org/la-carta-della-sussidiarieta

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zioni il principio costituzionale di ugua-glianza delle opportunità per tutti».

Vi sono, infatti, forme di cura dei beni comuni che sono pura espressione di attivismo civico11, anch’esse pedago-gicamente significative. Ma qui si vo-gliono esaminare quelle legate ad una trasformazione del rapporto tra cittadi-no e amministrazione, che dunque pas-sano attraverso la costruzione di un si-stema di regole (dunque di comporta-menti e di relazioni) che innovano quel rapporto in direzione di una più signifi-cativa democraticità sostanziale.

Quale è il nesso tra sussidiarietà e beni comuni? La sussidiarietà ha biso-gno di oggetti e situazioni concrete su cui esercitarsi, mentre, a loro volta, “le stesse esperienze diffuse di sussidiarie-tà generano o alimentano il patrimo-nio di beni comuni”12. Questo rappor-to si traduce in uno sviluppo di compe-tenze e di possibilità di scelta di azione (quelle che Sen chiama capacitazioni13) che possono passare anche attraverso un rapporto dialogico tra figure di pro-fessionisti responsabili e cittadini inte-ressati a determinati apprendimenti, in funzione di un’azione specifica di dife-sa di un bene comune o di una catego-ria di beni. Se collochiamo tra i beni co-muni la conoscenza e i beni immateria-li (tra cui le istituzioni), vediamo come l’impegno civico relativo ad essi possa tradursi in un loro arricchimento qua-

11 “un repertorio di pratiche di cittadinanza attiva”, le definiscono gli autori di Viaggio nell’I-talia dei beni comuni, cit., p. 10.

12 c. donolo, I beni comuni presi sul serio, cit. p.14.

13 a. sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, mondadori, milano 2001.

li-quantitativo.

Gestione condivisa dei beni comu-ni: una scelta ragionevole

I beni comuni fanno paura – agli incoscienti – perché risocializzano

C. Donolo

Elinor Ostrom, prima donna a vin-cere il premio Nobel per l’economia, nel 2009, proprio per i suoi studi su questo argomento, ha mostrato come da nu-merose ricerche è emerso che, contra-riamente a quanto si crede, la gestione condivisa di un bene all’interno di una comunità, può garantirne un utilizzo più sostenibile nel tempo. Chi utilizza quo-tidianamente il bene, o da esso dipende per il proprio sostentamento, infatti, ha una teoria di base e informazioni chiave sulla sua utilità, sulle migliori modalità d’uso e sulle condizioni affinché tale uso non comporti la distruzione dello stes-so14. Questo sapere era consolidato all’in-terno delle culture comunitarie fino non molti decenni or sono, ed è entrato in cri-si per ragioni culturali. Lo racconta bene, alla metà degli anni Ottanta, Vincenzo Consolo, che richiama, quale causa prin-cipale, la “febbre del profitto, dimentica del passato e del futuro, che ha esalta-to solo il presente, divorando le proprie viscere crescendo su se stesso, violen-tando e cambiando irreversibilmente la natura”15. Possiamo aggiungere, a que-

14 E. Ostrom, Governing the Commons. The Evolution and Institution of Collective Action, Cambridge University Press, 1990. Sul tema si veda anche vandana shiva, Il bene comune della Terra, Feltrinelli, Milano 2015.

15 V. Consolo, Pesca del tonno in Sicilia, sel-lerio, palermo 1986.

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sta, quell’organizzazione fordista del la-voro che gradualmente ha introdotto la frammentazione anche in quegli ambi-ti in cui l’organicità era preferibile, in quanto più lungimirante. E, ancora, il declino della percezione di una interdi-pendenza tra la comunità umana e l’e-cosistema (naturale o urbano che sia).

La crisi dei beni comuni è cultural-mente legata anche alla crisi del concet-to di limite: il limite della propria azione (che può trovarsi nelle nostre capacità, nelle caratteristiche dell’oggetto e negli effetti dell’azione stessa sul contesto e sul complesso), il limite della propria li-bertà (dunque la sua coniugazione con i concetti di responsabilità e di capacità di scelta), i limiti di sopportazione del sistema (umano e artificiale) o dell’eco-sistema entro cui agiamo.

L’educazione al senso del limite, ri-mane dunque una delle matrici di un approccio pedagogico all’uso condiviso dei beni comuni (naturali e artificiali). Questa oggi trova una declinazione nel richiamo ai nuovi stili di vita, che con-cernono l’utilizzo di beni comuni come l’acqua, l’aria, il territorio (si veda le questioni spinose del ciclo di gestio-ne dei rifiuti, fino alla strategia rifiuti zero, e al consumo di territorio, legato quest’ultimo al tema altrettanto serio del dissesto idrogeologico dell’Italia).

Ma l’educazione al senso del limite è trasversale anche rispetto alle espe-rienze di condivisione di spazi e beni in ambito urbano: si veda il moltiplicarsi di esperienze di orti urbani e sociali, di cura di spazi e aree verde, di recupero di edifici abbandonati e di rigenerazio-ne urbana, di co-housing e coworking).

Queste esperienze possono avere an-che caratteristiche molto diverse: ad esempio, molte possono nascere, più che

in un’ottica di uso condiviso del bene o dello spazio o della risorsa, per esigen-ze di espressione personale, o per la ri-cerca di uno spazio in cui dar corpo alle proprie istanze creative, o ad un servi-zio che si ritiene indispensabile, o ad un modello di vita che si vuole propor-re, e così via.

Nel prosieguo della riflessione, si farà riferimento a quelle forme di uso condiviso dei beni comuni urbani che possono dar vita ad una trasformazione del governo stesso della città. La scelta è determinata, da una parte, dal fatto che è in questo contesto che si svilup-pa l’esperienza che racconterò; dall’al-tra, dalla convinzione che solo pratiche in grado di incidere significativamente sui meccanismi di redistribuzione del potere tra cittadini e istituzioni, posso-no creare le condizioni per l’inclusione sociale dei gruppi più svantaggiati e ad uno sviluppo ecologicamente, umana-mente ed economicamente sostenibile dei nostri territori16.

La gestione condivisa riapre, nella nostra società, spazi di democrazia so-stanziale: attraverso il dialogo, la nego-ziazione, la regolamentazione, la condi-visione, la valutazione partecipativa dei processi e dei risultati. Queste pratiche contribuiscono a sviluppare il rapporto tra potere e responsabilità, insieme ad una più complessa percezione di sé-nel-mondo-con-gli-altri. Il singolo cittadino apprende a percepirsi come soggetto at-tivo, a sentire l’interconnessione con gli altri e la generatività del fare insieme,

16 U. Margiotta, Competenze, Capacitazioni e Formazione: dopo il welfare, in G. Alessandrini (a cura), La «pedagogia» di Martha Nussbaum. Approccio alle capacità e sfide educative, franco-angeli, milano 2014.

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a vivere il conflitto e le sue soluzioni non violente.

Ostacoli culturali: ovvero, le sfide educative

[…] come suona corriva la vanità moralistica del continuare a chie-dersi se l’educazione sia possibi-le o impossibile, inutile o super-flua, buona o cattiva! […] Essa è comunque un tramite non riduci-bile ad altro, vale a dire che è nel contempo un dato di realtà e un compito necessario.

Riccardo Massa

In una società in cui è andato smar-rito il senso di un destino comune tra gli uomini, è difficile trovare qualcosa che possa costituire un collante, un fat-tore aggregante: i beni comuni, suggeri-sce Donolo, possono essere “l’elemento unificante che si stava cercando”17, ol-tre ad essere spesso il fondamento stes-so della vita sociale.

Ma dal momento che non è in discus-sione l’utilità della gestione condivisa di tali beni, perché risulta così difficile realizzarla? La Ostrom, che nel suo li-bro intende dare un contributo allo svi-luppo di un’adeguata teoria dell’azione collettiva autorganizzata, tra i fattori che possono inficiare la capacità di un gruppo di accordarsi efficacemente per la gestione di un bene condiviso, indica: 1) una cattiva comunicazione interna; 2) una difficoltà a costruire la fiducia; 3) la mancata percezione della condivi-sione di un futuro comune; 4) un ecces-

17 c. donolo, I beni comuni presi sul serio, cit. p. 16.

sivo squilibrio di potere (che consente a chi guadagna molto dalla situazione esistente di escludere gli altri); 5) l’e-sistenza di un sistema di incentivi che scoraggia la collaborazione.

Come si vede, si tratta di criticità che suggeriscono chiari obiettivi educativi.

Punto di partenza della possibilità di un’autorganizzazione efficace sono, per la stessa autrice, due assunti: 1) gli individui tentano, di per sé, di risolve-re i problemi nella maniera più effica-ce possibile; 2) le capacità di ragiona-re e quella di immaginare la struttu-ra di ambienti complessi (diremmo di pensiero sistemico), lungi dall’essere appannaggio di pochi individui o solo degli esperti, sono presenti in tutti gli uomini. Ciò non significa che tutti sa-ranno propensi alla collaborazione. In-nanzitutto, perché la Ostrom sottoli-nea come in tutti siano presenti «capa-cità limitate» di ragionamento e prefi-gurazione, poi perché i comportamenti e le scelte sono sempre immerse entro una molteplicità di fattori, interni e/o esterni alle possibilità di decisione in-dividuale. Nel prefigurare la soluzione a questo problema, la Ostrom (da eco-nomista) adotta un approccio raziona-lista, che vede la decisione individuale fondarsi sulla percezione e su una qual-che analisi dei costi e dei benefici dell’a-zione. Un approccio educativo non può non tenere conto degli aspetti cultura-li ed emozionali che possono interferi-re con tale razionalità18.

18 Chi scrive, predilige la razionalità comples-sa elaborata nei testi di Edgar Morin e richia-mata, in chiave pedagogica, in A. Rosetto Ajello, Il rigore e la scommessa. Riflessioni sociopeda-gogiche sul pensiero di Edgar Morin, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 2003.

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Nel dibattito attuale, ad esempio, la stessa fiducia viene vista come un bene comune: uno di quei beni essen-ziali su cui si basa la stessa vita so-ciale “perché quando non ce n’è abba-stanza gli scambi diventano difficili e impossibili”19. Tuttavia, la fiducia è a sua volta “la risultante di tante inte-razioni in cui qualcuno si è fidato. La fragilità della fiducia dipende appun-to dal fatto che dipende da molti effetti non programmati dell’agire umano ed è anche facilmente erodibile da parte dei defezionisti”20, mentre essa è legata an-che alla nostra fiducia nelle istituzioni che sono, per molti versi, beni comuni 21. Ancora una volta, dunque, emerge il ruolo delle istituzioni nel dar forma a relazioni di cittadinanza22.

Un’esperienza: il Laboratorio per i Beni Comuni e le Istituzioni Parte-cipate di Messina

Chiamare le persone a discutere, a proporre, a ragionare è un ge-sto importante in sé. Non è tanto importante se poi i politici faran-no quello che qui si dice, ma è im-portante che la cittadinanza pren-da coscienza di essere un valore e di potersi fare sentire. Quando la cittadinanza prende coscienza è possibile che avvengano i veri cambiamenti

Irene (volontaria)

19 c. donolo, cit., p. 21.20 Ibidem.21 Ivi, p. 22.22 Scrive Donolo: “Come principi organizzativi

le istituzioni strutturano contesti per l’azione, de-finiscono i giochi possibili nei vari ambiti, arene, mercati, aspetti e così via”: C.Donolo, cit., p. 39.

L’esperienza che qui racconto è quel-la realizzata nell’ambito del Labora-torio per i Beni Comuni e le Istituzio-ni Partecipate del Comune di Messi-na23, tra il maggio 2014 e giugno 2015. In questo periodo, sono stata membro volontario del Nucleo di Coordinamen-to, e mi sono occupata di organizzare e gestire gli incontri partecipativi con la cittadinanza.

Istituito con delibera di Giunta n. 47/2014, per aiutare quest’ultima a “far propria una modalità di organizzazio-ne della P.A. ispirata ai principi di de-mocrazia e di diretta partecipazione all’amministrazione locale”, valorizzan-do l’apporto della cittadinanza, organiz-zata e non, alla “definizione delle poli-tiche locali”, esso si colloca all’interno delle coordinate dell’Amministrazione condivisa di cui parla Gregorio Arena: anche se il processo si è sviluppato in modo del tutto autonomo. Il tema della regolamentazione dell’uso dei beni co-muni urbani era presente in due obiet-tivi24, rispetto ai quali, si è prodotta una bozza di Regolamento sull’uso condiviso dei Beni Comuni. Da questa è scaturita

23 Per un approfondimento si veda il sito www.benicomuni.me, contenente tutti i materiali elaborati.

24 “la proposta di una ridefinizione della regolamentazione degli «usi civici» del Comune di Messina, con particolare riguardo all’imple-mentazione di parti del patrimonio comunale in disuso, con il fine di restituire alla città parti del proprio patrimonio abbandonate o attualmente in cattivo stato di conservazione” e “la definizione di una proposta di Giunta riguardante la progettua-lità del Comune di Messina relativa a parti del patrimonio immobiliare di Enti e Privati, con la possibilità di sperimentazione d’uso attraverso progetti di riuso e riprogettazione a titolo non oneroso e a tempo determinato”.

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una Delibera di Giunta25 per dar vita a sperimentazioni in grado di validare o suggerire modifiche al percorso del Re-golamento. I momenti partecipativi rea-lizzati sono stati: 1) un’OST (Open Spa-ce Technology) per l’individuazione del-le piste di lavoro; 2) numerosi workshop (chiamati Tavoli tematici) per appro-fondire e discutere i contenuti; 3) l’ap-provazione della bozza finale da parte del forum26; 4) l’avvio di un Dibattito Pubblico (sul modello del Debat publi-que francese, sebbene privo dell’opzio-ne zero), sulla gestione dei servizi es-senziali (rifiuti, acqua, trasporti, servizi sociali)27. Complessivamente sono state coinvolte alcune centinaia di persone.

L’organizzazione degli incontri era finalizzata alla costruzione partecipa-tiva delle proposte; il Nucleo di coordi-namento forniva i materiali di riflessio-ne, raccoglieva le istanze, le componeva in una veste organica – assicurandone la correttezza normativa e collocando-le all’interno di una visione complessi-va – e, infine, sottoponeva il risultato al voto dell’assemblea (Forum), che pote-va proporre emendamenti o approvare.

Nel giugno 2015, poco dopo l’avvio del Dibattito pubblico, è risultata evi-dente l’impossibilità di incidere sulla trasformazione della gestione ammi-nistrativa. Il Nucleo di coordinamento

25 D.G. 24 marzo 2015 – Criteri per l’utilizzo condiviso e la concessione d’uso di spazi e immobi-li di proprietà comunale al fine di avviare progetti finalizzati all’attivazione e sviluppo di attività sociali, culturali ed economiche.

26 L’assemblea di tutti gli iscritti al Labo-ratorio.

27 Christian Iaione attribuisce il ruolo di “collante delle società locali” a “spazi e servizi ur-bani”: c.iaione, Città e beni comuni, in g.arena, C.Iaione (a cura di), cit., p.111.

ha, all’unanimità, chiesto alla Giunta una verifica puntuale sulle condizioni di agibilità del percorso. La mancanza, l’insufficienza o la contraddittorietà del-le risposte, hanno indotto i componenti tutti a rimettere il mandato nelle mani dell’assessore al ramo.

La decisione si è fondata su valu-tazioni di merito: la promozione della partecipazione dei cittadini è una scel-ta forte, in una società in cui la demo-crazia è debole. Le istituzioni modella-no, con il loro agire, ruoli e possibilità di relazione: degradare la partecipazione a finzione influisce sulla percezione di sé del cittadino e sul suo senso di potere. Con innegabili effetti anche sulla quali-tà della crescita personale: “Predispor-re le condizioni affinchè i cittadini […] possano liberamente e individualmente scegliere di assumersi la responsabilità di curare, proteggere e conservare – per tutta la comunità e per le generazioni future – i beni comuni di una città può contribuire a realizzare quella «fioritu-ra della persona» che per Sen costitui-sce il vero fulcro della «felicità», l’unico valore da misurare per saggiare il rea-le benessere di una comunità”28. illude-re o non misurare le possibilità reali, può agire in direzione diametralmente opposta. Va in tutti i modi evitato ogni ulteriore senso di fallimento e di sfidu-cia. Le persone, infatti, potrebbero esse-re portate ad attribuire il fallimento ad un’impossibilità generale del meccani-smo partecipativo, piuttosto che a con-crete incapacità o incongruenze.

Questo vale ancor più quando si trat-ta di lavorare sulla gestione dei beni comuni.

28 c. iaione, Città e beni comuni, cit., p. 121.

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L’uomo tende per propria natura a cercare un senso in ciò che fa. Il fal-limento dei suoi sforzi potrebbe far-gli mettere in dubbio lo statuto stesso di certi beni. In tal senso si condivide quanto scrive ancora Donolo: “Essere bene comune, e per così dire meritar-si questo statuto, implica essere o di-ventare fattore cruciale di mutamento istituzionale e quindi poi anche norma sociale condivisa e diffusa […] Occor-re perciò discriminare accuratamente tra le pratiche in relazione ai principi cui si ispirano, e valutare le istituzioni in rapporto alla loro capacità di contri-buire alla riproduzione di beni comuni e alla loro cura”29.

Costruire un Regolamento è una pratica di cittadinanza?

un bene affidato gratuitamente deve anche essere redditivo per la collettività

Lucia (abitante)

Un Regolamento sembra un ogget-to sterile e poco affascinante, e questo spiega le difficoltà nel coinvolgimento delle persone, ma l’esperienza dei Ta-voli tematici ha mostrato tutt’altro. I partecipanti hanno mostrato un cre-scente interessamento rispetto ai temi della regolamentazione e una crescen-te consapevolezza dell’importanza e dei meccanismi della stessa. La disponibili-tà e la voglia di condividere l’utilizzo di un bene urbano con altri, si è modulata con l’impegno a definire regole di funzio-namento di tale condivisione (i sogget-ti, le modalità, i limiti ecc.) con un at-

29 c. donolo, cit., p. 41.

teggiamento sempre meno impaziente e sempre più curioso nei confronti del-le questioni tecniche e terminologiche. Di più, nel susseguirsi degli incontri, il recupero e la riflessione precedente, rielaborata e riproposta dal Nucleo di coordinamento, ha portato a un’acqui-sizione di nuovi elementi di conoscen-za nei partecipanti e ad una riorganiz-zazione delle conoscenze precedenti. È emersa anche la consapevolezza del-le connessioni esistenti tra l’uso (più o meno condiviso) dei beni comuni urba-ni abbandonati, lo sviluppo economico-sociale del territorio e il possibile ruo-lo della pubblica amministrazione. An-che in questo caso vi è sintonia con l’e-laborazione teorica in atto: Carlo Do-nolo pone il capitale sociale tra i beni comuni e tra i potenziali di sviluppo di un territorio: la cura condivisa dei beni comuni costituisce una forma di azione in grado di produrre un incremento po-sitivo di entrambi30.

La costruzione condivisa del Regola-mento può essere intesa come pratica educativa perché attraverso di essa si riabilita il rapporto tra i cittadini e le regole: rapporto entrato in crisi con l’af-fermarsi del modello neoliberista. Essa, inoltre, consente di statuire regole che abbiano un elevato grado di concretez-za e applicabilità, vicine alla cultura e alla sensibilità di coloro che desiderano curare o rigenerare i beni. Proprio que-ste sensibilità, infatti, possono costitu-ire un elemento di generazione di una cultura civica che può poi diffondersi gradualmente in tutta la popolazione. Infine, essa aiuta i cittadini a compren-dere meglio le regole di funzionamen-

30 c. donolo, cit., p. 33.

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to delle istituzioni, nel momento in cui avviene tramite una realtà organizza-tiva emanazione dell’amministrazione.

Tra le principali criticità riscontrate nel corso degli incontri segnaliamo: 1) la difficoltà a mettere a fuoco le proprie istanze e ad inserirle in un progetto di città; 2) la difficoltà nella formulazione operativa dei problemi che si vorrebbe-ro vedere risolti, ad esempio attraverso apposite regole; 3) la difficoltà di gestio-ne di spazi e tempi della comunicazio-ne all’interno di una sessione di lavoro.

Queste criticità sono gli spazi dell’a-gire educativo: dovrebbero esserlo all’in-terno delle scuole, lo sono senza dubbio nell’ambito delle pratiche partecipati-ve, dove questo ruolo viene svolto dal facilitatore. Nel caso specifico, si sono constatati miglioramenti in tutte e tre le aree. Negli ultimi incontri, infatti, i partecipanti hanno svolto un ruolo più attivo ed efficace nell’apportare sugge-rimenti tecnico-linguistici opportuni e pertinenti. Con riferimento ai contenu-ti, inoltre, è stato possibile approfondi-re, tra gli altri, temi quali gli usi civi-ci, le possibili modalità di utilizzazione degli spazi, la conoscenza/rappresen-tazione del territorio, la gestione am-ministrativa del territorio urbano e le sue carenze, le risorse comuni del web. Un dibattito interessante ha riguarda-to i soggetti cui è riconosciuto il diritto di gestire i beni. Dopo un confronto ani-mato, si è scelto di utilizzare il termi-ne abitanti a posto di cittadini, per in-cludere gli stranieri che sono portatori di bisogni ma anche di proposte e pun-ti di vista importanti per la collettività: dunque anch’essi portatori di una pro-gettualità implicita rispetto al tessuto

urbano31. Un più aspro dibattito ha ri-guardato la possibilità di riconoscere lo stesso diritto alle imprese for profit. il for profit può contribuire ad una gestio-ne dei beni comuni nell’interesse gene-rale? Il conflitto tra le posizioni è sta-to sanato inserendo dei vincoli relativi all’utilizzo dei beni, individuati nell’uso mai esclusivo, ma sempre inclusivo del bene stesso. Se i tempi a disposizione fossero stati più lunghi, sarebbe stato possibile affrontare il tema dell’art. 42 della Costituzione Italiana, che parla della funzione sociale della proprietà, e che possiamo annoverare tra i più mi-sconosciuti nel nostro Paese32. Questo, infatti, è un tema di grande interesse per via dell’attuale sviluppo dell’econo-mia sociale (che comunque rientra nel non profit) e per la parallela evoluzione delle pratiche di innovazione sociale. in entrambe, gli aspetti economici sono ri-levanti e la produzione di reddito è vi-sta anche come strumento di inclusio-ne sociale e di affermazione professio-nale degli attori, ma all’interno di una razionalità economica più complessa e

31 Christian Iaione scrive in proposito: “Questa capacità progettuale si esprime con grande chiarezza in rapporto alla costruzione, alle modalità di utilizzazione e di gestione degli spazi pubblici, ma anche delle modalità di viverli, elaborando visioni progettuali per la configura-zione spaziale dei luoghi, ma pure «le modalità per gestirli, centrate sull’autorganizzazione, sulla convivenza, sull’elasticità degli usi, sulla piena utilizzazione, sulla libera accessibilità, sulla cura»”: op. cit., p. 116.

32 D’altra parte, il tema della titolarità della proprietà dei beni comuni è stato oggetto di ampio dibattito in campo giuridico e di pronunce della Suprema Corte di Cassazione, che ha dichiarato che, anche nel caso in cui il bene sia di proprietà privata, se si tratta di beni che risultano «funzio-nali al perseguimento e al soddisfacimento della collettività», vanno ritenuti beni comuni.

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articolata, che comporta la necessità di ragionare sulle interdipendenze e sul-le conseguenti trasformazioni delle mo-dalità relazionali tra soggetti (privati e pubblici, individuali e collettivi).

Un altro importante passaggio è sta-to rappresentato dall’avvio di un Dibat-tito pubblico sul rinnovo del modello ge-stionale delle società partecipate che gestiscono acqua, rifiuti e trasporti33. Dopo un primo incontro con il Diretto-re Generale, che ha esposto i progetti dell’Amministrazione in merito, sono stati organizzati dei tavoli di approfon-dimento, il primo dei quali (e purtoppo l’unico realizzato) aveva come oggetto le normative italiane sulla trasparenza e il tema dell’accountability.

Anche in questo caso, si è coniugato il momento dell’informazione (funzio-nale ad un ampliamento delle catego-rie e delle conoscenze dei partecipanti rispetto alle possibilità di azione) con il momento della partecipazione, ovve-ro dell’individuazione dei meccanismi e delle procedure da inserire nella rior-ganizzazione dei servizi per assicurare un maggiore controllo e una maggiore partecipazione dei cittadini. Questo ha dato modo ai partecipanti di informar-si, ma anche di confrontarsi e di elabo-rare proposte, Purtroppo, come dicevo, questa esperienza non è stata portata a compimento: il processo oggetto del-la consultazione, infatti, è stato fram-mentato e abbandonato.

33 Anche i servizi urbani sono fatti rientrare nella categoria dei beni comuni.

Educazione e facilitazione dei pro-cessi partecipativi

La perizia tecnica è «narrazione», è continua riflessione circolare […] è anche «messa in discussio-ne» dei dogmi

G. Alessandrini

Accennavamo al ruolo fondamentale ricoperto da un facilitatore che, in real-tà, ha anche un ruolo formativo. Questo si esplica al confine tra la promozione dell’espressione dei punti di vista e la predisposizione degli strumenti di ap-profondimento dei contenuti. È un ruolo delicato, perché si deve essere in grado di fornire un orientamento alla rifles-sione, senza impedire che questa assu-ma forme inattese. Il coinvolgimento dei cittadini è finalizzato, infatti, proprio a far emergere elementi innovativi, liberi, originali, in grado di promuovere la cre-scita sostenibile del territorio e il senso di comunità dei suoi abitanti.

In questo senso è legittimo intende-re il gruppo dei partecipanti (cittadini e abitanti) sotto la cifra della comunità educante: “Il luogo dell’apprendimen-to e dello sviluppo culturale rispettoso dell’individualità, nell’armonico scam-bio delle interrelazioni, che accoglie l’in-sieme delle forze, delle risonanze indi-viduali, delle «dualità» che transitano tra le persone; il luogo dove i canali di rapporti interpersonali devono essere mantenuti «aperti», per mantenere al materiale «comunitario» di passare e di costruire ciò che è da tutti riconosciu-to e usato”34. Quel luogo, dunque, dove

34 m. buccolo, La comunità educante: quale

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è possibile quel riconoscimento recipro-co che poi è al fondamento della fidu-cia e della stessa cittadinanza e dove è possibile “sviluppare la partecipazio-ne quale strumento per leggere critica-mente la realtà propria e sociale e per rendere manifesti i propri bisogni so-cio-culturali”35.

La promozione di questa dimensio-ne sociale dell’apprendimento, come ci ricorda anche Giuditta Alessandrini, fa bene anche alla politica36 ed è stret-tamente connessa con la “«capacità di mobilitare progettualità» in azioni con-crete, rilevabili ed osservabili, cioè «sa-peri in azione»”37.

Si tratta di promuovere riflessione per promuovere anche agentività, ov-vero la capacità di produrre un muta-mento della situazione, in base ad un set di valori o obiettivi38.

È importante saper gestire i tempi, nel giusto equilibrio tra «il tempo che ci vuole» e «evitare che il tempo vada spre-cato». E, ancora una volta, come sempre in ogni azione maieutica, è la domanda che svolge un ruolo fondamentale. Que-sto chiama in causa l’educazione al por-si e al porre la domanda migliore, la più

educazione per quale futuro?, in E. Napolitano (a cura), Educazione, comunità e politiche del territorio, FrancoAngeli, Milano 2015, p. 10.

35 E. Napolitano, cit., p. 22.36 “Una buona elaborazione politica necessita

di una maggiore focalizzazione sull’accrescimento delle capacità sociali, non soltanto quelle indi-viduali. Gli individui funzionano all’interno di istituzioni sociali che possono limitare o esaltare il loro potenziale di sviluppo (Rapporto ISU, 2013)”: G. Alessandrini, Generare capacità: educazione e giustizia sociale, in Id. (a cura), La «pedagogia» di Martha Nussbaum, cit.

37 ivi.38 ivi.

corretta, la più pertinente, più genera-tiva. Domande vere, non retoriche, non domande contenenti in sé le risposte.

L’agire educativo, specialmente in contesti come quello meridionale, è chiamato a educare “al senso della real-tà e al valore dell’azione”39 per diversi motivi. Lo sguardo sulla realtà oggi, so-prattutto per influenza dei diversi filtri massmediali, tende ad essere parziale e nichilista. È forte la sfiducia nel pro-prio potere, inteso come la capacità di agire40 in modo costruttivo sulla real-tà: è, invece, proprio dell’approccio pe-dagogico, finalizzare la conoscenza e la comprensione dei fenomeni all’azione e alla trasformazione, in una circolari-tà a spirale tra riflessione (teorizzazio-ne) e azione nella quale la prima fon-da la seconda che, a sua volta, verifica la prima e dà impulso ad un ulteriore avanzamento41. una spirale che concer-nendo la vita di un soggetto umano, in-troduce come terzo elemento il vissuto personale, che diventa chiave essenzia-le di lettura della realtà e della possibi-lità di azione. Nessun uomo libero, in-fatti, si muoverà all’azione a meno che questo non abbia per lui un senso per-sonale, non parli al suo vissuto, non si

39 ibidem.40 La Alessandrini ci ricorda, al contrario,

come “L’enfasi sulla «capacità di fare» è una categoria immanente nella storia del pensiero pedagogico” e che “la valorizzazione della prassi come agire dotato di senso verso un’intenziona-lità produttiva è essa stessa parte di quello che è stato chiamato il «congegno pedagogico»: G. Alessandrini, Generare capacità: educazione e giustizia sociale, in Id. (a cura), La «pedagogia» di Martha Nussbaum. Approccio alle capacità e sfide educative, francoangeli, milano 2014.

41 J. Dewey, Le fonti di una scienza dell’edu-cazione, trad. it. La Nuova Italia, Firenze, 1971.

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colleghi (per contrastarla, per ampliar-la, per condividerla o per confermarla) alla sua esperienza.

Ma ogni processo trasformativo av-viene più agevolmente e più efficace-mente nella relazione e nel confronto. un’analisi partecipativa della realtà42, adeguatamente condotta da un facilita-tore con competenze pedagogiche, potrà metterne in luce la complessità e la ric-chezza, gli aspetti positivi e quelli criti-ci, le risorse e i problemi; e in tal modo potrà gettare le basi per un atteggia-mento costruttivo/ricostruttivo in gra-do di sostenere l’azione.

L’agire pedagogico del facilitatore si muove, inoltre, sulla frontiera tra presente e futuro. promuovendo un ra-gionamento sul presente e sulla consi-stenza del reale, cerca e tesse i fili per una prefigurazione della trasformazio-ne di quel reale in un futuro prossimo. In questo senso, una delle sue compe-tenze basilari consiste nella capacità di concepire “il futuro ed il cambiamento in quanto tali, cioè nella loro precipua «diversità» (ulteriorità, specificità, dif-ferenza) rispetto al presente”43. È, in-fatti, questo futuro che deve accogliere.

Riassumiamo, in conclusione: il ruo-lo del facilitatore, dunque, è quello di creare le condizioni affinché si appren-dano le pratiche della cittadinanza at-tiva, di una democrazia partecipativa. Il suo obiettivo è liberare le competen-

42 Cfr. P. Orefice, La ricerca azione parteci-pativa. La creazione di saperi nell’educazione di comunità per lo sviluppo locale, vol. i, Liguori, Napoli, 2006.

43 Cesare Scurati, Per una pedagogia dell’in-terculturalità: elementi e prospettive, in s.s. Macchietti (a cura di), Verso un’educazione inter-culturale. Temi, problemi, prospettive, bulzoni, 1993, p. 52.

ze potenziali, per un contributo effica-ce e valido alla gestione dei beni comu-ni. Competenze che coinvolgono le tre aree: 1) della selezione e comprensio-ne delle informazioni; 2) delle relazio-ni (della fiducia); 3) della gestione del conflitto e delle pratiche dialogiche (co-municazione).

Presupposto essenziale è la convin-zione che non vi sia nessuno che non ha un contributo valido in proposito. Cit-tadinanza, livello di istruzione, condi-zioni di salute fisica o mentale non sono discriminanti: influiscono sulle moda-lità della partecipazione, ma apporta-no elementi che possono essere arric-chenti e pertinenti, spesso determinan-ti per l’efficacia delle azioni. All’inter-no di una pratica partecipativa, infatti, chi è esterno o marginale rispetto alla cultura dominante, può fornire spes-so le indicazioni più interessanti per una risposta realmente innovativa ed efficace al problema esaminato. È uno dei motivi per cui una competenza fon-damentale dell’educatore è l’apertura mentale, insieme alla consapevolezza del proprio ruolo nel far emergere, re-cuperare e rilanciare tutta la ricchezza che emerge nella discussione, proprio a partire dalle cose meno scontate. La pra-tica partecipativa, dunque, è una pra-tica maieutica: genera apprendimenti, nuove idee, nuove soluzioni, nuove re-lazioni e qualità.

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Autonomia, dirigenza,progettualità

rubrica diretta da GIOVANNI VILLAROSSA

Le Linee guida per l’orientamento permanente del 2014 richiamano di fatto le problematiche connesse con la continuità nella differenziazione che hanno dato vita agli istituti comprensivi.

Continuità nella differenziazione per un orientamento permanente

di giovanni viLLarossa

Riassunto: Il processo educativo, da quando sono stati istituiti gli isti-tuti comprensivi, tenta di attraversare con successo i vari gradi di scuola con caratteri specifici legati all’età evoluti-va degli alunni. Nell’assolvere compiu-tamente i propri compiti ogni grado di scuola concorre di fatto a determina-re condizioni favorevoli alla continuità nella differenziazione. La discontinuità dello sviluppo umano, caratterizzato da accelerazioni, soste, regressioni e salti, va confortata da una continuità educa-tiva rispettosa della gradualità e delle variabilità naturali. Una delle più im-portanti finalità della scuola di oggi è valorizzare la persona nel suo contesto socio-culturale. Per questo il tema della continuità, ossia di un armonico raccor-do tra i diversi gradi di scuola che favo-risca la formazione integrale dell’indi-viduo, è oggetto di specifica attenzione in campo pedagogico, politico-istituzio-nale e scolastico.

Le fasce scolastiche, ed in particola-re la scuola secondaria di II grado, dif-ferenziate al loro interno in percorsi au-

tonomi, si caratterizzano per motivi di ordine psicologico e culturale. La ten-denza all’autoaffermazione è un poten-te motore di progresso che si manifesta, oltre che nei bisogni affettivi e di socia-lizzazione, nel desiderio di affermarsi, di essere se stesso, di realizzarsi, di riu-scire nella vita. Valide risposte proven-gono da docenti che hanno raggiunto un grado di maturità, di autocontrollo, di pazienza, di disponibilità, di apertura, di sicurezza, di forza d’animo, tale da fornire un modello all’allievo.

La società del cambiamento e il mon-do digitalizzato caratterizzati da conti-nue e repentine trasformazioni sociali e strutturali, presentano ai giovani serie difficoltà di orientamento scolastico e lavorativo. Dare una risposta all’inter-rogativo generazionale ricorrente “qua-le futuro?” risulta sempre più arduo e complesso. Un progetto di continuità per l’orientamento va realizzato attra-verso una precoce assicurazione di espe-rienze educative che inducano l’allievo ad acquisire conoscenze e capacità uti-li ad affrontare situazioni di scelte e di

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transizione. La difficoltà di concepire oggi l’orientamento e di segnalarne le dimensioni deriva dalla diffusione del-la consapevolezza del fatto che il mer-cato del lavoro attuale implica strategie attive da parte dell’offerta in una real-tà complessa. Nelle impostazioni teo-riche dell’orientamento, in vigore fino agli anni ’80, prevalevano il carattere diagnostico delle attività scolastiche e la diffusione dell’informazioni.

Ancora oggi il concetto d’orientamen-to non è univoco in quanto si colloca sempre, per suo intrinseco significato, in un contesto economico-culturale-so-ciale. Attualmente si ritiene opportuno che l’orientamento sia rivolto allo svi-luppo delle capacità decisionali e che sia impostato nell’ambito del progetto edu-cativo della scuola autonoma. Le linee guida per un orientamento permanen-te del 2014 si pongono in continuità con un apprendimento permanente al fine di creare condizioni per operare in ambiti complessi e in continuo cambiamento.

Continuità

Si ritiene costantemente necessario consolidare il coordinamento tra le fa-sce scolastiche poiché il processo edu-cativo è suscettibile di condizionamen-ti in positivo o in negativo a seconda della realizzazione di rapporti corretti e produttivi. Tale processo, da quando sono stati istituiti gli istituti compren-sivi, tenta di attraversare con successo i vari gradi di scuola con caratteri speci-fici legati all’età evolutiva degli alunni. La scuola si realizza, nelle sue artico-lazioni, attraverso finalità educative ed obiettivi culturali differenziati. Nell’as-solvere compiutamente i propri compiti

ogni grado di scuola concorre di fatto a determinare condizioni favorevoli alla continuità nella differenziazione. si co-stituisce, in tal modo, il presupposto in-dispensabile per ogni ulteriore impegno di studio, in particolare attraverso i ca-ratteri programmatici dei singoli livelli di scuola, che si manifestano esplicita-mente propedeutici ai successivi stadi.

Trova attuazione, quindi, il crite-rio della gradualità che si traduce nel coordinare tutte le occasioni culturali, educative, organizzative e metodolo-gico-didattiche per rendere naturale e non traumatico il passaggio tra i gradi di scuola. È chiaro che il passaggio na-turale è compreso della frequenza delle mutazioni, delle innovazioni, del cam-biamento, delle risultanze della creati-vità, dell’incidenza delle personali sco-perte e degli individuali ritmi di appren-dimento e di maturazione. La disconti-nuità dello sviluppo umano, caratteriz-zato da accelerazioni, soste, regressioni e salti, va confortata da una continuità educativa rispettosa della gradualità e delle variabilità naturali. Una delle più importanti finalità della scuola di oggi è valorizzare la persona nel suo contesto socio-culturale. Per questo il tema della continuità, ossia di un armonico raccor-do tra i diversi gradi di scuola che favo-risca la formazione integrale dell’indi-viduo, è oggetto di specifica attenzione in campo pedagogico, politico-istituzio-nale e scolastico.

Molto interessante risulta la consi-derazione che per porre correttamen-te in atto la continuità curricolare edu-cativa non basta soltanto la continuità istituzionale, ovvero la formale realiz-zazione degli istituti comprensivi, per-ché la continuità si configura come un problema complesso con risvolti di or-

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dine culturale, psico-pedagogico, meto-dologico e didattico. Essa perciò va in-tesa come un habitus mentale avente per base una professionalità dirigente e docente, fondata oltre che sulla cono-scenza della propria disciplina, della psicologia dell’età evolutiva, delle In-dicazioni nazionali e delle finalità del-la propria scuola nonché di quelli del grado scolastico che precede e che se-gue, anche sull’acquisizione di una par-ticolare sensibilità e sulla disponibilità a rivedere i propri atteggiamenti. L’at-tuazione della continuità si manifesta quando la scuola realizza pienamente i traguardi che le sono assegnati, rimo-vendo gli ostacoli, effettuando forme di intervento differenziate ed adeguate, costruendo un ambiente che favorisca l’apprendimento.

Di conseguenza diventa necessa-rio ed opportuno realizzare, attraverso un’azione di promozione e di coordina-mento, modalità di aggiornamento co-muni ai docenti di gradi di scuola con-tigui, che permettano di individuare al-cuni punti nodali che rendano meno ar-duo il passaggio dell’alunno da un grado di scuola all’altro. Va sottolineato come la continuità, pur essendo un campo di teoria e di azione in costante verifica, sia un tema di singolare importanza e di molto rilievo per il futuro della scuola e per la maturazione degli alunni, che devono gradualmente assumere la loro parte di bambini, di ragazzi, di adole-scenti, di giovani e di adulti. Gli inse-gnanti devono contribuire a far diminui-re le difficoltà dei ragazzi nei passaggi da un grado all’altro. Ciò avviene se i docenti svolgono il proprio compito nel modo più rigoroso possibile, realizzando le finalità e le Indicazioni del grado di scuola in cui insegnano e sorvegliando

il momento del passaggio con sensibili-tà pedagogica e psicologica e con impe-gno di promozione culturale. Il termi-ne continuità, è oggetto di specifica at-tenzione sia in campo pedagogico che in quello politico-istituzionale.

Prima dell’avvento degli istituti comprensivi era già ovvio che ciascun grado di scuola dovesse tendere alla realizzazione della propria finalità edu-cativa e dei propri obiettivi culturali senza sentirsi prioritariamente vinco-lata ad una fase preparatoria verso il grado successivo; è vero che ciò era mol-to più evidente nella Scuola media, i cui programmi del ’79 dicevano che “non è finalizzata all’ accesso alla Scuola se-condaria di secondo grado”. Ma è an-che vero che tale “non finalizzazione” era stata molto marcata, ignorando il resto della espressione, che così conclu-deva: “… pur costituendo il presupposto indispensabile per ogni ulteriore impe-gno scolastico”.

Veniva ad evidenziarsi, così, un pri-mo ed importantissimo aspetto osta-tivo alla realizzazione di un completo progetto educativo. Non si può ritene-re esaustiva una fase formativa, esclu-dendo implicitamente la naturale e ne-cessaria evoluzione culturale lungo di-rettrici non soltanto strumentali di ap-prendimento. Un altro ostacolo macro-scopico al coordinamento tra le scuole derivava dalla natura e dalle finalità diverse della scuola superiore e dalle sue ramificazioni. Le fasce scolastiche, ed in particolare la scuola secondaria di II grado, differenziate al loro interno in percorsi autonomi, si caratterizzano per motivi di ordine psicologico e culturale.

a) Motivi di ordine psicologico.Per Piaget il bambino verso la fine

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della scuola primaria arriva definiti-vamente a saper coordinare fra loro di-verse azioni e rappresentazioni menta-li. Per S. Hessen il preadolescente vive una fase di apprendimento analitico in preparazione di quella sistematica; l’a-dolescente invece elabora il suo sistema avviandosi verso la scienza.

J. Cruchon propone una lettura mol-to approfondita della fascia pre-adole-scenziale ed adolescenziale, utilissima per comprendere sul piano psico-socio-logico i “tempi di transizione”. Di soli-to si definiscono tre fasi adolescenziali.

La prima, preadolescenza, rappre-senta il passaggio non violento verso un altro modo di essere e di vivere. Il fan-ciullo cambia e diventa ragazzo e si stu-pisce del fatto che diventi un altro; an-che se l’aspetto non è ancora cambiato si sente estraneo, malsicuro nel tenta-tivo di interpretare il suo nuovo essere. Siamo nella pienezza della pubescenza (11-14 anni).

Nella seconda fase intervengono mo-menti tumultuosi e la nuova forma si con-cretizza, anche per la crisi determi-nata dalla sessualità acquisita, attra-verso la riflessione, l’approfondimento della vita interiore, le amicizie. Siamo nella media adolescenza (14-16 anni).

Nella terza fase i bollori scemano, la ricerca di sé comincia ad avere risultati, il pensiero matura, le passioni comin-ciano ad essere meglio dominate, è una fase di lenta maturazione, da 17 anni in poi, in cui si collocano le decisioni, le scelte, i valori.

Nella scuola le tre fasi si evidenzia-no sul piano intellettuale: a) passaggio al pensiero astratto; b) fioritura di nuo-ve doti e capacità (artistiche, letterarie, scientifiche, speculative); c) avvio len-to verso la maturità. Le fasi dello svi-

luppo psico-sociologico possono esse-re più o meno precoci o prolungarsi a seconda del singolo soggetto, dell’am-biente in cui è inserito, della cultura che lo permea.

L’educatore deve porsi nelle condi-zioni di seguire e comprendere ciò che avviene quando un adolescente è en-trato in crisi o non vi è ancora o quan-do la termina.

Bisogna comunque tener presente che la differenza tra la prima e la se-conda fase non è così netta come tra la seconda e la terza. Infatti la prima e la seconda differiscono piuttosto sul piano dei comportamenti influenzati dal re-pentino accrescimento fisico e dalla ses-sualità, mentre la terza fase si defini-sce su livelli etico-spirituali. Comunque, tutte le spinte di crescita, dalla prima fase, detta ingrata alla crisi di aggres-sività e di opposizione, alla alternanza di umore e di condotta, al conflitto ge-nerazionale, alla crisi di originalità gio-vanile, si possono convogliare verso la tendenza all’ autoaffermazione.

Questa si pone come linea di svi-luppo non intesa solo in senso ipote-tico, anzi si costituisce come linea di forza, come esigenza interiore, spes-so misconosciuta in campo educativo. La tendenza all’autoaffermazione è un potente motore di progresso che si ma-nifesta, oltre che nei bisogni affettivi e di socializzazione, nel desiderio di af-fermarsi, di essere se stesso, di realiz-zarsi, di riuscire nella vita. Gli ostaco-li che si frappongono a questa linea di forza (errori educativi, prevaricazioni e forme di dominio degli adulti, organiz-zazione sociale adultista, news-media, mondo digitale) provocano disturbi di crescita e nevrosi: complessi di inferio-rità, timidezza, fughe, rivolte, pigrizia,

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vendetta, compensazione immaginaria.Il bisogno di affermazione, ricono-

sciuto da psicologi ed educatori, è stato un campo di studio di grande interesse per gli studiosi più affermati della psi-coterapia: Adler lo ha rilevato a propo-sito del sentimento di inferiorità, Jung nella sua teoria della realizzazione ar-moniosa del sé, Rogers e Maslow nel-la self-actualisation, Jaspers nella sua teoria esistenziale.

Tutti ritengono che questa linea di forza sia il sostegno per la lotta per la vita, che grazie ad una educazione ade-guata può trasformarsi in una compe-tizione leale e pacifica, caratterizzante un’esistenza felice ed in progresso. Le fasi evolutive sono costellate da natura-li difficoltà che vengono definite crisi e sono, per la psicologia e la sociologia, il prezzo della libertà e del progresso op-pure il frutto della mancanza di liber-tà e della intolleranza:

– crisi impulsiva ed affettiva dell’e-tà “ingrata”: si manifesta come bisogno di rottura nei confronti del passato e di estraneità; il nuovo stato incerto di pre-adolescente è caratterizzato da umori spesso incontrollati, da disagio nei con-fronti degli adulti; l’incertezza e la gof-faggine producono timidezza o violenza e stati di contraddizione;

– crisi di pubertà: presenta riper-cussioni affettive e riflessi morali e può comportare narcisismo e forme di devianza;

– crisi di affermazione e di indipen-denza dell’io: lunga ed importantissima fase caratterizzata dal bisogno di eman-cipazione, influenza la stabilità affetti-va ed ha riflessi nelle relazioni familia-ri, nel successo scolastico, nell’applica-zione lavorativa, determina condizioni di fiducia in sé o di timidezza;

– crisi delle idee: coinvolge tutti i giovani che vanno formandosi una con-cezione personale dell’esistenza, inte-ressa la componente intellettiva e quin-di il campo morale, sociale e politico;

– crisi religiosa: nasce dal confronto tra la propria educazione religiosa e l’e-sperienza quotidiana, l’evoluzione delle proprie idee e di quelle altrui.

Le crisi sono fasi onerose di transi-zione tra la fanciullezza, dipendente e senza responsabilità, e la vita dell’adul-to, autonoma, integrata e responsabile. A fronte dell’età “ingrata”, priva di vera profondità affettiva (anche se appari-scente ed eruttiva), non sono consiglia-bili agli educatori forme di indulgenza rinunciataria o ricerche di confidenze e melliflue tenerezze. Parimenti, di fronte ai caratteristici scatti di malumore non certamente premeditati, sono da evita-re atteggiamenti di durezza, di severità.

Qualsiasi eccesso non si addice ad una sensibilità fragile, suscettibile, non ancora arrivata a capire se stes-sa. È necessario comprendere i bisogni emergenti, per orientarli verso sforzi costruttivi. L’educatore deve guidare più che reprimere, punire, comandare, deve saper donare parte del proprio af-fetto e del proprio tempo, anziché cer-care confidenza ed affetto.

Nei confronti dei giovani delle fasi adolescenziali successive si fa spesso ricorso a mezzi come l’irrigidimento, la distanza, il riserbo, l’altezzosità. È una maniera che rifiuta il dialogo, che osta-cola la comunicazione schietta, aperta, accogliente, che evita il confronto sulle opinioni espresse.

Gli studenti chiedono disciplina sen-za eccessivo rigore, comprensione, spie-gazione ed aiuto nei difficili problemi che si pongono. Bisogna rispondere con

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piena disponibilità professionale: non ci si può limitare a chiedere sforzi in cam-bio di voti, quali forme di ricompense e punizioni.

Valide risposte provengono da do-centi che hanno raggiunto un grado di maturità, di autocontrollo, di pazienza, di disponibilità, di apertura, di sicurez-za, di forza d’animo, tale da fornire un modello all’adolescente. Tendenzial-mente il giovane nell’ultima fase ado-lescenziale procede verso una maturi-tà psicologica i cui elementi, utili a va-lutarne la misura, sono generalmente i seguenti:

– equilibrio tra l’introversione e l’e-stroversione, ovvero tra la vita attiva esteriore e la vita interiore;

– controllo della propria affettività (istinti, sentimenti, passioni);

– disposizione a tener conto degli al-tri: è il contrario dell’ egoismo e dell’as-soggettazione;

– obiettività di giudizio; – assunzione di responsabilità; – adattamento alle situazioni. Un corretto dialogo educativo favo-

risce la prosecuzione sulla pista della formazione della persona.

Un corretto dialogo educativo consi-ste nel tentativo di cercare e trovare in-tese tra docente e discente.

Solo ciò che ravvicina favorisce il progresso morale e culturale degli in-terlocutori.

b) Motivi di ordine culturale. Le fasce scolastiche, ed in partico-

lare ogni ramificazione della seconda-ria di II grado, devono essere “percorse” su livelli di dominio culturale adeguati. Assi culturali distinti richiedono tempi adeguati di svolgimento, modelli didat-tici diversi, criteri di programmazione

(selezione di argomenti, ritmi di lavoro), criteri di verifica e di valutazione diver-si e specifici). Specificamente ogni tipo di secondaria di II grado deve rendersi interprete delle istanze socio-culturali presenti nelle realtà “esterne”, deve co-gliere in permanenza il rapporto uomo-territorio e la simbiosi formativa che ne può derivare; deve dare significato ad ogni azione apprenditiva purché venga spesa a favore dello sviluppo generale e non per scopi strumentali. Né può resta-re ignorata la complessa realtà giova-nile che manifesta atteggiamenti cultu-rali esterni ed interni alla scuola. Una lettura pedagogica delle manifestazio-ni e dei messaggi dei giovani induce al-meno a due considerazioni:

1) che si confronti quanto è espres-so dai giovani nei loro messaggi e nel-la loro condotta con i modi di vita degli adulti ed i valori in essa prevalenti. Il fulcro dei valori (o disvalori) vincenti nella cultura egemone è costituito da ef-ficienza, competitività, successo, voglia di prevalere, correlativamente da pau-ra, aggressività, individualismo, corpo-rativismo. Se questo è vero, com’è vero, qualsiasi intervento educativo rivolto ai nostri giovani deve passare per un va-glio critico dei valori condivisi social-mente e possibilmente per una conse-guente conversione etica. La questione morale non attraversa solo la prassi po-litica, ma si impone per qualsiasi pras-si sociale in genere e per quella educa-tiva in particolare.

2) che la scuola scandisca il tempo ed i rapporti di gran parte della vita dei giovani nel convincimento della validi-tà del policentrismo educativo e quindi senza nulla togliere all’incidenza di al-tre agenzie formative e di altre prassi sociali (dallo sport al divertimento, alla

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musica, ai gruppi, alle associazioni). Co-munque l’esperienza scolastica rimane il luogo privilegiato ed il crocevia dell’e-sperienza sociale ii giovani. Ovvero la scuola deve porsi come osservatorio da cui i giovani cercano di vedere e di pen-sare al loro futuro e come luogo in cui, nella percezione degli allievi, si vengo-no a riassumere le tensioni e le attese di cambio sociale.

Evidentemente qui con il termine scuola va inteso non solo l’insieme del-le strutture e neppure solo la prassi di-dattica, ma anche le iniziative e le espe-rienze che a partire dalla scuola vengo-no ad intessere la vita dei giovani. Ma se la scuola è il luogo in cui in negativo o in positivo viene praticamente a con-densarsi gran parte della socializzazio-ne e della formazione culturale giovani-le, allora credo che vada adeguatamen-te rivalutato (è un’operazione in atto?) l’impegno di chi, pur tra le proverbia-li mille difficoltà, gioca la sua vita nel-la scuola.

La disponibilità alla comprensione e lo sforzo interpretativo non sono certo mancati. Tuttavia una lettura in posi-tivo dei comportamenti dei giovani non deve far dimenticare le ambiguità, i li-miti o le astrattezze della domanda di formazione da essi espressa. In questo senso va considerata come una doman-da da educare, cioè da aiutare a chiari-re nella sua idealità e nella sua fattibi-lità, da stimolare perché venga portata alla sua forma piena, organica, globale.

c) Sono inoltre intervenuti ulteriori mo-tivi di ordine sociale a caratterizza-re il periodo-ponte tra le due scuole secondarie.La secondaria di II grado è scuola di

massa, con una conseguenza pericolo-

sa, quella di un appiattimento dei suoi criteri didattici sulla scuola che la pre-cede. Mentre adeguati criteri metodo-logici devono indurre a passaggi deci-si, talvolta a “balzi” netti. I primi tempi del periodo-ponte non sono facili, si im-pone il dovere, quindi, di creare condi-zioni favorevoli e motivanti particolar-mente verso gli alunni di provenienza socio-culturale più modesta, ma è al-trettanto doveroso da parte della scuo-la secondaria di I grado, per il tratto del periodo-ponte che gli compete, incenti-vare la produttività, per ridurre lo scar-to tra i due ordini di scuola, quello scar-to che provoca la dispersione, il tasso di abbandono così rilevante all’inizio del-la secondaria di II grado e che, si è no-tato, è più rilevante nei professionali e nei tecnici, in relazione al livello socio-culturale di provenienza degli alunni.

La società del cambiamento e il mon-do digitalizzato caratterizzati da conti-nue e repentine trasformazioni sociali e strutturali, presentano ai giovani se-rie difficoltà di orientamento scolastico e lavorativo. Dare una risposta all’in-terrogativo generazionale ricorrente “quale futuro?” risulta sempre più ar-duo e complesso. Un progetto di conti-nuità per l’orientamento va realizzato attraverso una precoce assicurazione di esperienze educative che inducano l’allievo ad acquisire conoscenze e ca-pacità utili ad affrontare situazioni di scelte e di transizione. L’impegno pro-gettuale non coinvolge solo la famiglia e la scuola, ma anche le istituzioni pub-bliche e le organizzazioni private che hanno responsabilità socio-educative nei confronti dei giovani.

La complessa realtà sociale ha pre-cisi doveri educativi che devono sincro-nizzarsi con il diritto alla formazione

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di ogni soggetto: si configura oggi più di ieri un credito formativo che deve es-sere assicurato per tempi lunghi a chi frequenta la scuola ed anche a chi ne è fuori. Le scansioni temporali non vanno solo quantificate, ma qualificate, con in-terventi ricorrenti nella permanenza di un progetto culturale di ampio respiro. La scuola è un aspetto essenziale e fon-dante della complessa comunità depu-tata alla formazione, che si determina in agenzie educative extrascolastiche, in servizi sociali territoriali, in impre-se produttive e nei news-media.

Per realizzare una risposta soddi-sfacente all’istanza formativa, la socie-tà deve coordinare un sistema perma-nente di attività educativa che superi la frammentarietà degli interventi. La pista va tracciata da una scuola capace di proposta, di indicazione e di guida, che sappia consolidare giusti rappor-ti in una realtà composita e cangiante, dove si evidenziano fondamentali sezio-ni esistenziali come lo studio, il lavoro, il tempo libero, i contatti interpersonali.

Metodi ed obiettivi vanno però conti-nuamente rivisitati ed innovati in rap-porto al processo di trasformazione sia del valore che si attribuisce all’occupa-zione per la vita, sia all’organizzazione del lavoro, che dei relativi profili profes-sionali. Appare attualmente improponi-bile un orientamento basato su tipolo-gie unicamente psicoattitudinali ed in-formative. Le scelte di studio e di lavo-ro effettuate una volta per sempre sono tipiche di una società statica, non più riscontrabile oggi. È prevedibile quin-di che momenti decisionali, implican-ti cambiamenti di lavoro, di studio, di carriera si verifichino più volte duran-te tutta l’esistenza di una persona. Di pari le professioni vanno ridefinite in

maniera duttile ed adeguata alle solle-citazioni dei processi innovativi esterni e rese idonee a produrre ulteriori tra-sformazioni.

Anche se l’attuale fase di evoluzione sociale non offre ancora opportunità tali da soddisfare le attese dei giovani e le previsioni occupazionali sono inaffida-bili, si impone, oggi per domani, la ne-cessità di determinare e coordinare gli interventi per soddisfare, per quanto è possibile, quello che abbiamo definito credito formativo. Una attività orienta-tivo-formativa adeguata deve essere im-postata in termini di globalità e di plu-ralismo in modo da valorizzare la perso-na nel contesto socio-culturale proprio.

Un sistema di coordinamento tra i gradi di scuola finalizzato all’orienta-mento può realizzarsi attraverso l’im-postazione didattica che li caratterizza: come la didattica della scuola prima-ria dovrà stabilire basi solide e sicure per consentire possibili e agevoli avan-zamenti culturali, così la scuola secon-daria di I grado, con la sua multiforme articolazione didattica, dovrà tendere a mete ulteriori, sempre e comunque nel rispetto delle esigenze dell’età evoluti-va del preadolescente; di conseguenza la scuola secondaria di II grado deve por-si impegni operativi che tendano ad ap-profondimenti corretti e calibrati, a se-conda del tipo di Istituto, in ogni cam-po da quello storico-letterario a quello tecnico-scientifico.

uno stato di avanzamento perma-nente in ogni grado di scuola garanti-sce di per sé condizioni di continuità nel rispetto della differenziazione. Ne consegue la necessità di stabilire, sen-za per questo snaturare l’identità di ciascuna scuola, tutti gli snodi possibili per rendere più agevoli le zone di con-

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tatto. L’individuazione di alcuni punti salienti della questione, realizzata at-traverso incontri tra dirigenti e docenti dei due gradi di scuola secondaria, po-trà confortare il momento del raccordo con il supporto di adeguate metodologie e comunque nel rispetto della tipicità e delle caratterizzazioni delle due Scuole.

La personalità dell’adolescente e poi del giovane si arricchisce grazie al grado di consapevolezza che l’individuo assume passo dopo passo, ma anche di salto in salto, di conquista in conquista. La conquista è fatta anche di successive iniziazioni. e ogni iniziazione, ogni no-viziato, costa impegno e sacrificio; ma bisogna pure che i nostri studenti assu-mano finalmente la loro parte di adole-scenti e poi di giovani. Questo bisogna esigere con fermezza dalla scuola.

Ipotesi di definizione del principio di continuità

Abbiamo detto che la continuità deve essere intesa come un habitus menta-le. Come tale, essa consiste nell’acqui-sizione di una particolare sensibilità, nella disponibilità a cambiare i propri atteggiamenti, nel far proprio un certo modo di essere e di pensare che porta a costruire giorno per giorno un’adeguata professionalità.

Il fondamento scientifico del concetto di continuità nella differenziazione può essere individuato nelle teorie cosiddet-te epigenetiche. Tali teorie, verso cui si orienta sempre di più la ricerca scien-tifica sullo sviluppo degli organismi, sono state estese per analogia al campo dello sviluppo psico-sociale dell’indivi-duo ed al complesso campo delle ricer-che sull’età evolutiva, per corrisponde-

re alle esigenze di progressione senza blocchi e senza forzature. Inoltre, va te-nuto presente che dobbiamo fare riferi-mento a due tipi di “continuità”. Ricor-diamo, infatti, che esiste una continui-tà orizzontale (sull’asse sincronico), tra-sversale con l’ambiente, tra le diverse agenzie educative, tra i docenti, tra le discipline di insegnamento e di appren-dimento (anche il docente a livello pri-mario deve tener conto della continui-tà tra le discipline che egli stesso inse-gna) e che esiste una continuità verti-cale (sull’asse diacronico), tra i diversi gradi di scuola, che si articola attraver-so transizioni e snodi.

La processualità dell’educazione po-stula la necessità del raccordo tra scuo-la e famiglia, tra scuola e società, tra scuola dell’infanzia, primo e secondo ciclo. Oggi, spesso, si enfatizza il pro-blema della continuità verticale, di-menticando che non vi può essere con-tinuità tra vari gradi di scuole se non basata sulla continuità orizzontale che è propedeutica ad essa e che entram-be si raggiungono attraverso il coor-dinamento e l’integrazione delle azio-ni formative rivolte ad ottenere la cre-scita integrale della persona. A tal fine è indispensabile che i docenti abbiano come base, su cui articolare la propria professionalità:

a) la conoscenza epistemologica del-le discipline di insegnamento;

b) la conoscenza della psicologia dell’età evolutiva e delle peculiari mo-dalità di apprendimento a cui adeguare i diversi stili di insegnamento;

c) la conoscenza approfondita delle Indicazioni nazionali vigenti nella scuo-la che precede e nella scuola che segue;

d) la conoscenza delle finalità delle diverse scuole;

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e) l’attitudine alla riflessione sull’ambiente socio-antropologico che circonda la scuola (per attuare quella che ho chiamato continuità trasversa-le con l’ambiente).

Tutti gli insegnanti devono essere realmente preparati in ordine ai sud-detti punti che sono la base su cui pog-giare la costruzione di una continuità educativa e didattica che non sia pura-mente formale ed esteriore.

Orientamento

L’azione formativa deve tendere a “qualificare la partecipazione attiva degli alunni”, diceva il “Documento di lavoro sull’orientamento nelle scuole e nell’Università” elaborato dalla Com-missioneMURST-MPI e inviato alle istituzioni scolastiche all’inizio dell’a.s. 97/98 (cfr D.M. 06.08.97 e relativa di-rettiva n. 487). Era sottolineata anche “la necessità di ridurre gli abbandonied il prolungamento eccessivo degli studi” per mettere scuole e uni versità “in gra-do di realizzare efficaci attività di infor-mazione e di orientamento, anche alla luce delle trasformazioni della società e del mercato del lavoro”.La difficoltà di concepire oggi l’orientamento e disegna-larne le dimensioni deriva alla diffusio-ne della consapevolezza delfattoche il mercato del lavoro attualeimplica stra-tegie attive da parte dell’offerta in una realtà complessa.Nelle impostazioni te-orichedell’orientamento, in vigore fino agli anni ’80, prevalevano il carattere diagno stico delle attività scolastiche e la diffusione delle informa zioni.Infatti, il processo formativo, collegato ai diver-si momenti storico-sociali che hanno ca-ratterizzato la nostra età dal dopoguer-

ra in poi, ha prodotto varie interpreta-zioni dell’orientamento.

Inizialmente l’azione orientante ve-niva connessa in maniera determini-sti-caallasituazione familiare, intesa come vincolo economico e riproduzione condi-zionata di ruoli; oppure veniva interpre-tata empiricamente in termini di inte-ressi e di aspirazioni non sempre chia-ramente definiti e collocati entro una prospettiva socialmente stereotipata.

Di poi, le influenze delle correnti psicologiche sollecitarono l’attenzione sull’opportunità di diagnosticare le at-titudini per realizzare interventi mirati a specifici ed esclu sivi settori di attività, limitanti però, di fatto, le potenzialità dei soggetti in evoluzione. Contempora-neamente l’impostazione personologica centrava l’orientamento sulla dimensio-ne valoriale, sugli aspetti socio-relazio-nali, emozionali ed affettivi. Si diffon-deva anche una concezione dell’orienta-mento legato alla naturale maturazione del soggetto e quindi imperniato sullo sviluppo di abilità generali non verifi-cabili. Pertanto, i paradigmi orientati-vi prevalenti nell’evolversi delle conce-zioni e delle interpretazionisono stati prevalentemente tre:

1) privilegiare il soggetto nei con-fronti del sistema sociale di riferimento;

2) privilegiare il sistema sociale nei confronti del soggetto;

3) individuare soluzioni interattive.Insomma, la determinazione del con-

cetto di sé da partedel soggetto dovreb-be indurre al progetto di sé in rapporto al“sistema”,come disegno autoconsape-vole di vita, di collocazione, di impegno.

“Nell’attuale momento storico – re-cita testualmente il Documento di la-voro citato -, le trasformazioni recenti della società e del mercato del lavoro ri-

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chiedono qualcosa di più della creazio-ne e del potenziamento di capacità per orientarsi. Nelle nuove situazioni che vengono prefigurate dal mutamen to delle norme e realizzate in molte real-tà innovative, i processi educativi e di qualificazione professionale hanno una valenza nuovae quindi devono avere ca-ratteristiche che possono essere garan-tite soltanto da un’ulteriore e rinnovata concezione dell’orientamento. Secondo questa concezione, l’orientamento con-siste in un insieme di attività che mi-rano a formare o a potenziare nei gio-vani capacità che permettano loro non solo di scegliere in modo effi cace il loro futuro, ma anche di partecipare atti-vamente negli ambienti di studio e di lavoro scelti. Tali capacità riguardano, infatti, la conoscenza di se stessi e del-la realtà sociale ed economica, la pro-gettualità, l’organizzazione del lavoro, il coordinamento delle attività, la ge-stione di situazioni complesse, la pro-duzione e la gestione di innovazione, le diverse forme di comunicazione e di re-lazione interpersonale, l’auto-aggiorna-mento, ecc. Unadefinizione più precisa di tali capacitàdi competenza delle sin-gole strutture educative, in riferimento all’ambiente in cui esse sono presenti.”

Ma ancora oggi il concetto d’orienta-mento non è univoco in quanto si collo-ca sempre, per suo intrinseco significa-to, in un contesto economico-culturale-sociale. In linee generali l’orientamento può esser visto come un’azione congiun-ta di educatori, genitori ed esperti che ha come fine quello di porre l’individuo in grado di prendere coscienza di sé e di progredire per l’adeguamento della sua professione e/o dei suoi studi alle mu-tevoli e dinamiche esigenze della vita, con il duplice obiettivo di contribuire al

progresso della società (e quindi inse-rire l’individuo nel contesto sociale) e di raggiungere il pieno sviluppo della sua persona.

In questo senso, oggi, si può parla-re, per i teorici dell’orientamento, di ap-proccio globalistico-interdisciplinare, quindi di un approccio che tiene conto della globalità della persona (interessi, bisogni, attitudini, fattori sociali ecc.) e che cerca di integrare una pluralità d’interventi e di compe-tenze in modo da acquisire una visione più organica e completa. In altre parole, quest’ap-proccio, ha come obiettivo di aiutare il giovane a:– assumersi la responsabilità dei pro-

pri problemi (più in generale verso sé e verso gli altri);

– accettare l’incertezza e risolverla at-traverso l’assunzione del rischio;

– maturare le proprie potenzialità; – essere disponibile al cambiamento; – promuovere un processo di matura-

zione e di crescita personale e pro-fessionale in modo che sappia auto-gestirsi nelle proprie scelte;

– prendere coscienza dei propri interes-si, bisogni, capacità, attitudini, desi-deri e fattori sociali e quindi aiutarlo a conoscersi meglio e ad avere un’im-magine realistica di sé affinché sia in grado di progettare il proprio futuro professionale;

– Imparare a conoscersi per imparare a scegliere e per divenire capace di au-togestirsi nelle proprie scelte.

Attualmente si ritiene opportuno che l’orientamento sia rivolto allo svi-luppo delle capacità decisionali e che sia impostato nell’ambito del progetto edu-cativo della scuola autonoma. Partendo da quest’ultima impostazione possiamo

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recuperare i seguenti principi fonda-mentali dell’ orientamento:– l’orientamento èun lungo processo

prevalentemente formativo;– l’orientamento è una componente

strutturale dei processi educa tivi;– la diffusione di corrette informazioni

sui percorsi di studio, sulle caratte-ristiche dell’università, sul mercato del lavoro e sulle figure professionali è un’attività essenziale in una situa-zione generale in forte mutamento nella quale i giovani hanno bisogno di maggiori opportunità;

– è necessaria una forte integrazio-ne fra le istituzioni educati ve e gli enti locali o altri soggetti collettivi pubblici, che hanno tra le loro com-petenze l’acquisizione e la diffusio-ne di conoscenze sulla società e sul-le attività economiche. Deve essere costituitauna rete di relazioni e de-vono essere realizzate iniziative co-muni sulla base del principio della corresponsabili tà di tutti rispetto ai problemi.

Le cangianti caratteristiche delle ge-nerazioni giovanili devono essere sem-pre ben conosciute perché diventino elementi per decidere gli obiettivi edu-cativi e le modalità per raggiungerli in un PTOF di una scuola autonoma. Le variabili motivazioni personali devono diventare note agli stessi studenti ed ai docenti per diventare funzionali all’ap-prendimento(stili cognitivi), all’indivi-duazione di progetti personali di studio e allo sviluppo di interessi. Varieocca-sioni e diversimomentididattici posso-no essere individuati per chiarire e con-fermare le motivazioni e collegarle ad azioni necessarie per tradurle in proget-ti personali ed a realizzarli. L’orienta-

mento formativo va assicuratodagli in-segnanti grazie alle lorocompetenzeeal continuo rapporto con gli alunni. L’azio-ne coordinatrice del dirigente scolasti-co è strategica per garantire la presen-zadiefficaci attivitàdi orientamento for-mativo, specialmente inregime di auto-nomia e nella promozione di una politi-ca dell’educazione rap portata al territo-rio, secondo la concezione organizzativa della rete di relazioni.

In tale contesto bisogna far conosce-retuttele opportunità e i percorsi distudio:unacorretta informazione di-venta un aiuto a scegliere. In un mer-cato dellavoroin continuo mutamento e in situazione di crisi occupazionale non sono più efficaci tradizionali mo-dalità di ricerca del lavoro. La scuola deve contribuire a individuare i sape-ri e le competenze che vengono mag-giormente richiesti e/o sono ritenuti ri-levanti per produrre innovazioni e per formare soggetti disponibili alla mobi-lità professionale.

Diventa, dunque, necessarioche-vengano creati servizi di supporto per la raccolta e la diffusione delle infor-mazioni, per l’organizzazione dei rap-porti con altre istituzioni e per sostene-re le iniziative autonome degli studenti. Tali servizi potrebbero anche avvaler-si di personale specializzato in funzioni tecniche e nelle attività di counseling.

In sintesi, l’orientamento è inteso come un processo di carattere forma-tivo e informativo. Quello formativo si esplicita nel contesto educativo degli studi. Quello informativo è legato alla interrelazione tra scuola ed altre agen-zie pubbliche attivata per facilitare la conoscenza delle offerte formative e di lavoro presenti sul territorio.

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Le ultime Linee guida del 2014 “rammentano come l’orientamento co-stituisca un diritto permanente di ogni persona per garantire:

• accesso all’apprendimento per-manente;

• maggiore mobilità per i giovani;• maggiore qualità dei corsi e acqui-

sizione di competenze necessarie per la-vori specifici;

• maggiore inclusione;• mentalità creativa, innovativa e

imprenditoriale”.Definizione di orientamento dalla

Risoluzione del Consiglio d’Europa del 2008: “insieme di attività che mette in grado i cittadini di ogni età, in qualsia-si momento della loro vita di identifica-re le proprie capacità, competenze, inte-ressi; prendere decisioni consapevoli in materia di istruzione, formazione, occu-pazione; gestire i propri percorsi perso-nali di vita nelle situazioni di appren-dimento, di lavoro e in qualunque con-testo in cui tali capacità e competenze vengono acquisite e/o sviluppate”.

Le Linee guida per l’orientamento permanente consentono di gestire la transizione tra scuola, formazione e la-voro, transizione che “assume un valo-re permanente nella vita di ogni perso-na, garantendone lo sviluppo ed il so-stegno nei processi di scelta e di deci-sione, con l’obiettivo di promuovere l’oc-cupazione attiva, la crescita economica e l’inclusione sociale”; infatti si tratta di un orientamento permanente che si pone in continuità con un apprendimen-to permanente al fine di creare condi-zioni per operare in ambiti complessi e in continuo cambiamento.

Le Linee guida ribadiscono l’esi-genza – di realizzare attività di coordinamen-

to e di raccordo tra i diversi livelli di responsabilità,

– di rinforzare le reti, – di integrare il sistema di istruzione e

formazione con le realtà economiche e sociali, sia pubbliche che private;

– di potenziare le offerte delle Tecnolo-gie dell’informazione e della comuni-cazione (TIC). Le Linee guida pongono maggiore

attenzione alla centralità del sistema scolastico nella sua interezza e al suo essenziale ruolo nel far acquisire com-petenze di base e trasversali, l’appren-dimento delle lingue straniere, l’innal-zamento dei livelli di apprendimento in ambito lavorativo, l’uso delle tecnolo-gie digitali. Si vuole, insomma, la rea-lizzazione di un orientamento forma-tivo ovvero di una didattica orientati-va/orientante, da realizzare nell’inse-gnamento/apprendimento disciplinare per tutti, volta al conseguimento del-le competenze per la vita (life skills) e delle competenze di cittadinanza; uni-tamente ad attività di accompagna-mento e di consulenza orientativa, da realizzare in esperienze non curricola-ri/disciplinari, in relazione a specifici bisogni dei singoli o dei gruppi, ovve-ro in sostegno alla progettualità indi-viduale per potenziare competenze di monitoraggio e sviluppo in esperienze non curricolari.

La funzione del docente nelle attivi-tà di accompagnamento è di mediazio-ne - facilitazione del percorso. Le Linee guida introducono, pertanto, la figura del tutor dell’orientamento con il com-pito di organizzare e coordinare le atti-vità di orientamento.

Le Linee guida sollecitano sostan-zialmente un deciso intervento di for-mazione iniziale ed in servizio, con mo-

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duli di formazione obbligatoria, per tut-ti i docenti.

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della continuità tra tra gradi di scuola, roma edizioni uciim 1989

Giovanni Villarossa, Una proposta di pro-grammazione dei “periodi-ponte”, in ricerche Didattiche pp. 338-339, 1990

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magellano, Rivista per l’orientamento, bi-mestrale edito da ITER- Institute for Training Education and Research, Firenze 2003

Flavia Marostica (a cura di C. Labanti e C. nanni, bologna, 2011.

Normativa– D.M. 06.08.97 con relativa direttiva n. 487.– D.M. Università 21.07.97 n. 245.– Atto d’indirizzo sull’ordinamento universi-

tario 06.08.97 prot. N. 123.

– Legge 21.01.99 n. 9 (obbligo scolastico), superata dalla legge 53/03 (Riforma Moratti).

– Art. 68 della legge 144/99 (obbligo forma-tivo), superato dalla legge 53/03.

– Il Decreto Legislativo n. 76 del 15 aprile 2005 stabilisce il diritto/dovere all’istruzione e alla formazione per la durata di 12 anni.

– Accordo Stato-Regioni del 02.03.2000. – Legge Costituzionale n. 3 del 18.10.2001.– Decreto Legislativo 15 aprile 2005, n. 77

(in GU 5 maggio 2005, n. 103) Definizione delle norme generali relative all’alternanza scuola-lavoro, ai sensi dell’articolo 4 della legge 28 marzo 2003, n.53.

– Linee guida in materia di orientamento lungo tutto l’arco della vita C.M. n.43 del 15 04.2009.

– Linee guida per l’orientamento permanente del 19.02.2014.

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orientamento.pdf http://online.scuola.zanichelli.it/per-

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http://www.psicocitta.it/crescita-personale/orientamento-scolastico-professionale.php.

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Lo Spazio del Farerubrica a cura di ALESSANDRO PRISCIANDARO

La Rubrica presenta due contributi essenziali; il primo affronta la questione dell’idea di-vergente alla progettualità – in collaborazione la pedagogista Lucia Schifone – con riferi-mento all’esperienza innovativa introdotta da Mario Lodi; il secondo contributo è del cu-ratore della Rubrica che affronta le ragioni del si in merito alla proposta di legge n. 2656 Disciplina delle professioni di educatore professionale, educatore professionale sanitario e pedagogista.

Dall’idea divergente alla progettualità seguendo l’esempio di Mario Lodi

di Lucia schifone

Abstract Breaking free from the trap of usual thought patterns, avoiding that static knowledge whose usefulness to students is not very clear, not limit-ing oneself to giving the right or wrong answer, but going beyond, seeing crea-tivity as a way of thinking that implies fluidity, originality because it brings in something new. From all this comes the “Remembering Mario Lodi” project that I wanted to realize in class 1A of Health and Social Services at the “G. Falcone” Secondary School in Sava (Taranto) where I work.

Riassunto: L’esperienza formativa che ho ideato e diretto con la preziosa collaborazione del collega Antonio Cara-mia, docente di disegno e storia dell’ar-te, mi ha permesso di rendere concreta quell’idea di fare scuola a cui cerco di ispirarmi come pedagogista-insegnante e che molto ha in comune con il pensiero

pedagogico di Mario Lodi, maestro del dopoguerra, artefice della nuova scuo-la democratica, secondo cui l’aula rap-presenta la società, la scuola è il terreno dove si sperimenta la base del vivere ci-vile perché compito principale dell’inse-gnante è quello di formare un cittadino responsabile attraverso la trasmissione del valore della democrazia. L’analisi del pensiero di Mario Lodi è stata in-trodotta nella classe I ASS nell’ambito dello studio della Pedagogia, come di-sciplina appartenente alle Scienze Uma-ne e Sociali.

L’idea divergente-progettuale

Parlando di organizzazione e carat-teristiche dei gruppi, come definito dal-la programmazione disciplinare, ho pre-ferito focalizzare l’attenzione sulle ca-ratteristiche pedagogiche del gruppo-

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classe, creando occasioni di confronto e collaborazione tra i ragazzi, facendo sperimentare in modo concreto il con-cetto di democrazia, attraverso il rispet-to delle decisioni prese assieme, duran-te le diverse attività di dinamiche di gruppo. Questo lavoro ha permesso ai ragazzi di comprendere la differenza tra una visione lineare e una visione siste-mica legata alla rete delle relazioni nel contesto classe; di prestare attenzione alla dimensione emotivo-affettiva come elemento indispensabile per qualsiasi processo di insegnamento e apprendi-mento; di capire la necessità di ricono-scere e condividere il rispetto delle re-gole, per garantire in classe un clima di serenità, di armonia positiva per l’ap-prendimento.

Si è cercato di far vivere l’esperien-za delle qualità pedagogiche del grup-po-classe attivando le risorse del grup-po stesso. Il lavoro svolto è stato rap-presentato graficamente su un cartel-lone che i ragazzi hanno voluto espor-re a scuola.

L’apprendimento, per il pedagogista cremonese scomparso nel 2014 all’età di 92 anni, partiva dall’esperienza che è capace di stimolare domande, far cre-scere il desiderio della scoperta e la vo-glia di ricerca. Al centro del suo pensie-ro c’era la volontà di dare dignità ai suoi alunni, ascoltare le loro voci, promuo-vere la loro creatività, unire la cultura all’esperienza, la funzione educativa del gioco all’apprendimento.

La conoscenza di Lodi è cresciu-ta gradualmente, attraverso le letture tratte dai suoi libri e la visione di una serie di video che registrano il maestro nella sua attività didattica in classe, ciò ha permesso loro di comprendere la dif-ferenza tra istruire ed educare. In parti-

colare, un video che i ragazzi hanno ap-prezzato e di cui hanno scritto in alcu-ne delle loro produzioni, è quello di una lezione di matematica: Lodi trasforma la classe in un’azienda dove i bambini devono gestire il bilancio, registrare en-trate e uscite; attraverso giochi di ruolo riescono a calcolare percentuali, ad ese-guire operazioni sicuramente con mag-giore motivazione, maggiore coinvolgi-mento, entusiasmo e interesse rispetto a quella che poteva essere una semplice lezione frontale di matematica.

Dai video e dalle letture, i ragazzi hanno estratto le frasi che hanno ri-tenuto più significative e che ci hanno permesso di dare vita all’idea proget-tuale: portare anche fuori dalla scuola il pensiero del pedagogista Lodi e crea-re quell’opportunità, affine alla sua concezione della scuola, per dare libe-ra espressione alla creatività che è alla base del pensiero divergente. Le frasi sono state scritte su una lavagna che i ragazzi hanno portato in altre istituzio-ni del comune di sava e nei luoghi che frequentano abitualmente in cui sono stati realizzati degli scatti fotografici.

Oltre le mura scolastiche

La partecipazione attiva e l’entu-siasmo di ogni ragazzo nelle diverse fasi del progetto, sono stati gli elemen-ti fondamentali che ci hanno permesso di coinvolgere realtà esterne alla scuo-la, documentare le attività e realizza-re, come prodotto finale, un libro figu-rato che illustra e descrive il progetto, la cui grafica è stata curata dal profes-sore Antonio Caramia.

Il coinvolgimento degli alunni della classe 2D della scuola primaria «Gio-

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vanni Paolo II» di Grottaglie (Taran-to), ci ha permesso di creare un dialo-go con i bambini, attraverso lo scambio e la condivisione di alcuni libri di Ma-rio Lodi, grazie ai quali i bambini sono stati stimolati a realizzare dei disegni che abbiamo, poi, esposto, con i lavori artistici dei ragazzi, nella mostra alle-stita nella nostra scuola.

Sulla lavagna, portata fuori dalla scuola, accanto ad ogni frase compare uno smile: piccolo gesto che rappresenta la volontà di sostenere la positività, l’a-desione alla pedagogia del sorriso che, a piccoli passi, sta entrando nel mondo della scuola, riconoscendo l’importanza di una maggiore attenzione all’aspet-to affettivo-emotivo nell’insegnamen-to e nell’apprendimento. I ragazzi han-no sempre bisogno di adulti disposti ad ascoltarli, a credere nelle loro capacità, a dargli fiducia, questo può essere pos-sibile solo in un clima di positività: la costruzione della fiducia può iniziare da un gesto semplice qual è il sorriso.

Educazione al pensiero divergente

Mario Lodi, formulando un ideale d’istruzione che abbandona la struttura trasmissiva, selettiva, passivizzante, a favore di una didattica basata sulla col-laborazione e il pensiero critico, è stato promotore di quel pensiero divergente di cui oggi necessita la scuola. Essere creativi non deve essere visto come non avere punti di riferimento per costrui-re delle risposte, ma usare conoscenze precostituite per poi andare oltre. L’ap-prendimento efficace è sempre quello che avviene per problematizzazione; gli esercizi di pensiero divergente, come i Grasps o prestazioni autentiche, le pro-

ve di competenza, sono lo spunto per af-finare lo spirito critico. Come sostiene il pedagogista britannico Ken Robinson, il sistema educativo non può non essere al passo con i tempi; sostenere il “pen-siero laterale”, descritto dallo psicologo Edward De Bono, significa promuove-re la capacità di risolvere i problemi in modo creativo e da diverse prospettive.

I bambini e i ragazzi sono più porta-ti a vedere le cose lateralmente, a fare più domande e a trovare più soluzio-ni di quanto lo siano gli adulti. Questa capacità viene gradualmente limita-ta non perché la crescita porti per for-za di cose a una chiusura mentale, ma perché i luoghi in cui i ragazzi crescono invece di sviluppare e articolare il loro pensiero, lo standardizzano. «Il proble-ma cruciale», sostiene Robinson, «risie-de nella cultura delle nostre istituzioni, nel clima che vi si respira e nelle abitu-dini che hanno consolidato».

L’intero progetto ha avuto come fina-lità l’educazione al pensiero divergente come occasione per rispondere al biso-gno di ogni ragazzo di autorealizzazio-ne personale e per promuovere, in ge-nerale, condizioni di progresso. Mario Lodi, costruttore esemplare di pensie-ro divergente, affermava che una socie-tà è civile quando cerca di adattare se stessa, le proprie istituzioni, compresa la scuola, alla crescita umana e sociale dell’uomo e definiva tale considerazio-ne come «il cuore del problema», un pro-blema che è presente ieri quanto oggi e che per una risoluzione positiva ha bi-sogno dell’impegno costante di tutti co-loro che svolgono il ruolo di educatori, perché attraverso la ricerca continua trovino spunti di idee nuove capaci di proiettarsi nel futuro, rispettando l’au-torealizzazione dei ragazzi.

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Se l’obiettivo principale della scuo-la è insegnare a pensare, per render-lo concreto è opportuno suscitare in-terrogativi più che sollecitare risposte. L’apprendimento fondato sulla creativi-tà, in un clima autorevole, è più utile, duraturo e resistente di un apprendi-mento acquisito per mera trasmissio-ne in un clima autoritario e predili-ge la cooperazione tra i ragazzi, la di-dattica per progetti. La scuola che in-

coraggia un ragionamento più aperto a diversi punti di vista, è una scuola che promuove la creatività dei ragaz-zi, che permette la libera espressione delle loro differenti energie e potenzia-lità, per avere personalità libere, auto-nome, critiche, consapevolmente versa-te sui processi di autorealizzazione da un lato, capaci di assicurare un con-tributo alle esigenze di sviluppo della collettività, dall’altro.

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Le ragioni del si, le ragioni del no… i nodi al pettine delle professioni

pedagogiche, davanti alla proposta di legge “Disciplina delle professioni di educatore professionale, educatore professionale sanitario e pedagogista.”

dell’On. le Vanna Ioridi

aLessandro prisciandaro

tari è vissuto come una dilatazione del-le nostre competenze a dismisura, sen-za peraltro mettere mano agli obiettivi specifici della nostra formazione. Po-tranno occuparsi di bambini dall’an-no 0 fino agli anziani fragili, quelli per intenderci ospitati nelle RSA o affetti da patologie degenerative, senza limiti di nessun tipo e genere”!!! Tuona la Bi-netti deputato e Medico! Ma ma non è quello che facciamo tutti i santi giorni e per pochi euro??? Qui i conti non tor-nano, troppe resistenze e toni da stadio per una legge che disciplina una profes-sione antica. Oppure a qualcuno piace tenerci alle catene come schiavi mal pa-gati e bistrattati da tutti? Per la prima volta nella storia della pedagogisa ac-cademica e professionale si è creata una grande unità su un unico obiettivo, a cui le ragione del NO dovranno piega-si davanti alla realtà della pedagogia professionale.

La piena occupazione del settore so-cio-educativo ha solleticato molti appe-titi nelle professioni di “aiuto”, spingen-do professionisti di vario percorso acca-

Abstract: Since many years, there is the need to regularize, with a nation-al rule, the pedagogical professions but, until now, we have only talked. Thou-sands of pages and treated have been written without changing nothing in the regulatory landscape of the education-al professions. It was necessary all the imagination and political intelligence of a small group of colleagues, grouped in the APEI, in order to start the big-gest campaign professionalizing that the pedagogical world has never seen.

Riassunto: Si respira una rinno-vata alleanza tra mondo accademico e mondo professionale. Siamo stati come dei separati in casa, abbiamo condivi-so lo stesso profondo declino e dobbia-mo ringraziare tutti i colleghi ( da quel-li più rissosi a quelli più raffinati ) che per anni, con le loro lotte e con le loro denunce, hanno costruito le condizioni politiche culturali che oggi vedono sullo stesso tavolo associazioni di categoria e università. Non sarà facile contrastare le ragioni del NO, in quanto il ddl letto dalla parte degli educatori socio-sani-

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demico verso la professione di educato-re. Sono anni che si pone l’esigenza del bisogno di regolarizzare, con una nor-mativa nazionale, le professioni peda-gogiche ma non si è fatto altro che di-scutere. Migliaia di pagine e trattati sono stati spesi senza nulla modifica-re nel panorama normativo della “Ce-nerentola” delle professioni educative. C’è voluta tutta la caparbietà e l’intel-ligenza politica di un piccolo gruppo di colleghi, riunitisi in APEI, per far par-tire la più grande campagna professio-nalizzante che mai abbia vissuto il mon-do pedagogico.

Oggi, la grande sfida si gioca ancora sulla figura del “doppio educatore”, ter-mine da noi coniato 5 anni fa e su cui il gruppo Apei ha lottato senza sosta in molte battaglie anche legali, perché ne comprendevamo già, in precedenza e fino in fondo, l’importanza strategica, sia da un punto di vista economico-po-litico che professionale. Capivamo, in-fatti, che non sarebbe esistita “PEDA-GOGIA” se non ci fossero stati sul ter-ritorio Educatori e Pedagogisti, formati accademicamente, a praticarla. Oggi la questione è al centro del dibattito parla-mentare, al centro del dibattito nel Pae-se: si educa con la Pedagogia o si cura con la Medicina? E ancora, esistono bi-sogni e diritti educativi a cui cercare di dare risposta o disturbi e diagnosi psi-chiatriche da curare con scariche elet-triche? Nelle grandi rivoluzioni cultura-li vince chi vede lontano … e noi APEI abbiamo lo sguardo molto lungo …. Cre-diamo, infatti, che si possa educare solo con la pedagogia.

Chi abbiamo a favore? Pochissimi. Paradossalmente non ci sono neanche gli interessati, circa 150.000 educatori italiani laureatesi in questo ultimo ven-

tennio. Questi ultimi, in particolare, do-vrebbero essere gli alleati in prima fila di una battaglia che vuole un vero rico-noscimento professionale, ma il territo-rio si è cosi inflazionato di educatori di ogni tipo, che sono sorte dimensioni la-vorative diverse e variegate, con figu-re regionali che utilizzano titoli diver-si, che stentiamo a riconoscere come educative.

Il mondo degli educatori si è così de-classato e professionalmente inflaziona-to di teorie psicologiche che è stato, fino a ieri, ritenuto sufficiente l’amore per i bambini per autorizzare le “mamme di giorno” (legge 10/03) a sostituirsi bella-mente ai servizi per la prima infanzia, al cui accesso lo Stato prevede la lau-rea, ma esclude gli Educatori.

Neanche i prof universitari, troppo abituati a verticistiche visioni del mon-do, di cui si auto-proclamano “focus”, hanno intravisto la forza politica e i mi-lioni di euro nascosti sotto i sacrifici di questa grande categoria professionale, continuando a sostenere per decenni che, se non si fosse risolto in “primis” il problema degli “APICALI” non si sareb-be mai potuto risolvere il problema de-gli educatori. Un grazie caloroso va all’ On. Vanna Iori per aver posto con forza e autorevolezza il bisogno di un profon-do cambiamento sociale delle professio-ni educative.

Mai visione politico-professionale è stata tanto smentita dai fatti come que-sta! Purtroppo questa errata valuta-zione ha avuto effetti nefasti che anco-ra paghiamo, inabissando la categoria dei laureati al punto che, nei contrat-ti collettivi nazionali di lavoro, si è do-vuto prevedere anche la figura di edu-catori “senza titoli”, ormai divenuti la maggioranza, per poterli retribuire con

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il necessario inquadramento sindacale. La stessa schizofrenica attribuzione di denominazioni diverse dei nostri corsi di laurea (educatori professionali, socia-li, domiciliari, extra-scolastici, di comu-nità …) ha ingigantito la confusione e indebolito fortemente la categoria, che ormai si vendeva a 4 euro l’ora e veni-va raccolta a “pacchi” e caricata sui ca-mion, come gli extra-comunitari delle campagne del casertano durante la rac-colta dei pomodori.

Più facile dire chi abbiamo contro e sono veramente tanti. In “primis” noi stessi, così poco avvezzi al lavoro sul territorio in cui ci muoviamo come alie-ni, in spazi lavorativi senza né busso-la, né alcuno strumento teorico di rife-rimento utile ad organizzare il lavoro. Rea una università troppo teorica, sen-za laboratori, senza ricerca sul campo e pochissime ore di tirocinio, che da po-chissimo sta “realizzando” che il titolo, che essa stessa rilascia, serve per lavo-rare e non per decorare le pareti: siamo tanti, infatti, sempre più pronti ad ac-cettare qualsiasi condizione di schiavi-tù intellettuale, pur di utilizzare il pro-prio “pezzo di carta”.

Seguono un esercito di psicologi, frutto di errate politiche universitarie (oppure è stato tutto voluto?) che ha spalmato sul territorio migliaia di pro-fessionisti che, non trovando possibili-tà occupazionali nel proprio settore, si “sono accontentati” e si “accontentano” di fare gli educatori a 4 euro nelle co-operative, svilendo l’attività educativa e inflazionando il mercato a danno dei veri professionisti dell’educazione. Oggi questi manifestano per ottenere sana-torie e norme transitorie alla legge Iori (pdl. n. 2656) per restare in servizio. Trovando politici compiacenti e pronti

a sanare situazioni di illegalità. La vera battaglia è economica: una flotta di sen-za titoli (con corsi regionali, provincia-li, comunali oppure formati dalle stesse coop) rappresentano spesso il “punto di differenza” che fa vincere un appalto e garantisce la sopravvivenza dei servizi educativi, che altrimenti avrebbero seri problemi di funzionamento.

Ma il vero grande oppositore è il mondo sanitario, che, con l’ Accordo Sta-to-Regioni di pochi anni fa, ha escluso tutte le nostre lauree dai loro servizi, con l’obiettivo di creare il proprio “edu-catore professionale” iniziando una vera e propria invasione su tutto il settore so-ciale. E forti sono le critiche al pdl IORI da importanti esponenti del mondo ac-cademico, ovviamente della Facoltà di Medicina, preoccupati di veder fallire miseramente il loro grande piano di me-dicalizzazione di tutto il sociale, scuo-la compresa.

Portavoce autorevole è l’On. Binetti che scrive nella sua pagina FB: “Il ddl sugli educatori, siano essi quelli socio-pedagogici che quelli socio-sanitari sta diventando uno di quei banchi di prova in cui si misurano il rispetto per la real-tà dei fatti e la capacità di mediazione della politica”” in pratica un semplice problema di riconoscimento professio-nale di una delle tante categorie presen-ti in Italia, diventa un problema politi-co! Un banco di prova della stabilità di Governo!!!!! E ancora … ”il Dl letto dal-la parte degli educatori socio-pedagogici dilata le loro competenze a dismisura, senza peraltro mettere mano agli obiet-tivi specifici della loro formazione. Po-tranno occuparsi di bambini dall’anno 0 fino agli anziani fragili, quelli per in-tenderci ospitati nelle RSA o affetti da patologie degenerative, senza limiti di

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pedagogista. Tuona la Binetti! Ma, mi chiedo … ma non è quello che faccia-mo tutti i santi giorni e per pochi euro?

Qui i conti non tornano, troppe re-sistenze e toni da stadio per una legge che disciplina una professione antica. Oppure piace tenerci alle catene come schiavi mal pagati e bistrattati da tutti?

La posta in gioco è alta e importan-te, non solo per i 150.000 professionisti di area pedagogica e per il futuro della Pedagogia come scienza autonoma, ma per tutta una generazione di giovani, non più accompagnati nella loro cresci-ta da sensibilità umana e professionale, ma da una fredda diagnosi psichiatrica che li segnerà per sempre.

Webgrafiah t t p : / / w w w . a n e p . i t / n e w s n o i e p .

php?pageid=2380http://it.blastingnews.com/lavoro/2016/03/

ddl-educatori-e-pedagogisti-ecco-cosa-succedera-per-chi-svolge-servizio-senza-laurea-00835837.html

http : / /www.orizzontescuola . i t /news/educatori-e-pedagogisti-cambia-tutto-arrivo-nuova-legge-ma-non-vero-preoccupazioni-e-attese-dei

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https://www.facebook.com/paola.binetti.1/posts/840830462712327

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fare-buona-legge-su-educatori-sanitari/http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/

Pronta-la-legge-per-gli-educatori-.aspx

QUALEDUCAZIONERivista internazionale di PedagogiaFondata da Giuseppe Serio nel 1982

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Rubrica apertarubrica diretta da VINCENZO PUCCI

– Spazio dedicato al consenso, al dissenso, alla critica costruttiva –

Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno (i ragazzi difficili).Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola.

È un ospedale che cura i sani e respinge i malati.da Lettera ad una professoressa

Riassunto: Anche nell’attuale fase storica il sistema scolastico italiano va conoscendo un’al-tra stagione di cambiamenti. Cambiamenti che riguardano la condizione di stabilizzazio-ne del personale docente e una migliore salvaguardia degli edifici scolastici ove si svolge l’avventura della crescita formativa dei giovani studenti. In tale quadro, è utile ricordare quali debbano essere anche le linee di conduzione di un sistema didattico, organizzativo e gestionale, che deve continuare a reggersi sul rapporto interdipendente tra docente e allie-vo, sulle modalità d’uso di una didattica coinvolgente. Se è così, è necessario che si riaffer-mi l’esigenza del rafforzamento di categorie pedagogiche quali: “dialogo”, “cooperazione”, “collaborazione”, archetipi di un insegnamento/apprendimento che tuteli la formazione di ogni allievo ed esalti la funzione educativa di ogni docente.

Abstract: Also in the present historical period the Italian school system has been knowing another set of changes, which deal with the process of stabilizing teachers and with better conditions of schools where the formative growth of pupils takes place. In this situation, it is worth reminding what the leading lines of a didactic ,organizing and managerial sys-tem should be :this has to hold on to the interdependent teacher-pupil relationship and to the procedures of an involving teaching method. If so, it is necessary to reaffirm the rein-forcement of such pedagocical categories as “dialogue” “cooperation” “collaboration” ,arche-types of a teaching-learning system suitable to protect the formation of every pupil and to enhance the educational function of every teacher.

PresentazioneReputo utile richiamare l’etimologia dei termini del titolo perché offrono spunti di riflessio-ne: immediatamente ci pongono nella giusta direzione della finalità e funzionalità educa-tiva del dialogo: a) collaborazione, “partecipazione attiva, variamente determinata e valu-tabile al compimento di un lavoro o allo svolgimento di una attività” (1); b) cooperazione, per cooperazione s’intende “l’operare con altri per il conseguimento del massimo risultato …. organizzazione di un lavoro in comune” (2), ciò può accadere e accade in economia, nei servizi sociali, ma anche nell’insegnamento/apprendimento: si pensi al “cooperative lear-ning” o alla peer education, importanti metodologie che consentono di coinvolgere con effi-cacia, talora risolutiva, gli allievi in difficoltà; c) dialogo, si tratta dello scambio di pensie-ri tra due persone finalizzato a trovare un accordo. Si pensi ai dialoghi di Platone ma, so-prattutto, all’archetipo dialogico dell’educazione che noi troviamo in Socrate. Ho introdotto la riflessione su questo rilevante aspetto della vita e delle vicende scolastiche, per illustra-re la dimensione educativa che è strettamente connessa con il tema del dialogo, strumento principe per sviluppare qualsiasi azione socio-relazionale, specie se riferita alla formazio-ne dei giovani, e quindi alla istituzione scolastica. Questa aspetto introduttivo, prelimina-

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re per tentare un approfondimento di tipo didattico e auxologico, serve per farci ben inten-dere quale incidenza e rilevanza abbia il dialogo, la modalità e i tempi d’uso del dialogo e le derivanti conseguenze sull’efficacia dell’azione didattica. Si sta vivendo una stagione storica fortemente contrassegnata da mutamenti e da continue micro rivoluzioni tecnolo-giche che, inevitabilmente, producono riflessi nel sistema scuola, nel modo di organizzare il lavoro del docente, nelle ricercate nuove condizioni del fare scuola che, qualora risultino approssimative e formali, fanno affiorare la voglia di riprendere e riproporre con i dovu-ti allineamenti, l’insegnamento di don Milani: “…né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava”. (3) Lorenzo milani, Lettera a una professoressa … E il modo di organizzare e di proporre l’attuazione dell’insegnamento /apprendimento definisce e qualifica il rapporto tra docenti ed allievi, ne condiziona tut-te le fasi in cui tale rapporto si sviluppa, producendo conseguenze che incidono profonda-mente nel processo di formazione del singolo studente e nella stessa rappresentazione che l’istituzione scolastica fa di sé. Un po’ di storia: rammentiamo tutti che, come dice lo Zeller in “La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico”, con i Sofisti, e quindi con Socrate inizia il periodo umanistico dell’età classica, dato che la riflessione filosofica si sposta dalla ri-cerca dell’arché, il principio di tutte le cose, alla riflessione sull’uomo che, con Protagora, viene proclamato “mensura omnium”. La immediata, diretta conseguenza fu l’avvento di un nuovo metodo che dal “deduttivo” divenne “empirico-induttivo”. (4) Da questo contesto emerge con forma l’istanza pedagogica-educativa e, nel contempo, il modificarsi di un si-stema di valori sociali che fin lì era stato rappresentato dalla appartenenza alla classe dei nobili. Viceversa si instaura una nuova areté : la virtù politica si acquisisce mediante l’e-ducazione e la pratica della ragione, e si afferma mediante l’arte dei discorsi, del dialogo. Sappiamo che l’aspetto degenerativo di questa metodologia si verificò allorché si entrò nel tunnel della dialettica e, come dice il citato Zeller, nella artificiosa tecnica del contende-re e del contendersi il primato delle idee mediante l’abile uso delle parole, trascurando il valore del contenuto. Questa condizione altera la funzione del dialogo che diviene, come ognuno sa, confronto e funzionalità sociale allorché ci si pone nello stato di migliorare le ragioni dello stare insieme.

CRITICA COSTRUTTIVA: UN IMPEGNO CHE MANCA, UNA SCOPERTA POSSIBILE

DELLA POLITICA ITALIANA ...

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Dialogo e collaborazione nei processi educativi del sistema scolastico

di angeLo vecchio ruggeri*

bio, utile per proseguire sul terreno del-la ricerca. E cosa si è affermato, o si ten-ta di affermare, sul piano didattico, nel corso degli ultimi anni? La c.d. “ricerca-azione”, impianto metodologico con cui indurre l’allievo ad assumere il compito dello studio in modo diretto (azione), e successivamente pervenire alla assun-zione di alcuni principi guida (ricerca), principi di valore cognitivo, axiologico e sociale in cui ancorare la progressione dello sviluppo e della formazione della propria persona.

Socrate si poneva come-colui-che-non-sa, come colui che nei confronti dell’in-terlocutore deve imparare e non insegnare. Ecco: il rilevante riposizio-namento del rapporto docente-allievo consentirebbe di instaurare una condi-zione di parità, sia pure nelle differen-ziata posizione dei ruoli. Qualcuno ha parlato di “inquietudine intellettuale”, di “desiderio di consapevolezza critica e della capacità di mettersi in discus-sione che animano la coscienza in cer-ca di se stessa”. (6) Questo dovrebbe essere l’atteggiamento dell’insegnante di fronte al complesso e difficile compi-to che ha davanti a sé, il dover guida-re e sostenere lo sviluppo progressivo, variamente articolato, di giovani oggi, più che mai, attratti o distratti da una miriadi di elementi fuorvianti; più che mai necessitanti di supporti esistenzia-li valoriali.

Si tratta di elementi che compongo-

Valore educativo

Avendo stabilito che il dialogo deve avere una funzione sociale, una funzio-ne progressiva delle ragioni del vivere in comune, cerchiamo di indagare in che modo si può avere un impianto strut-turale del “dialogo” da essere costante-mente impiegato nella formazione, da risultare strutturale ed essenziale al modo di fare scuola.

Ancora una volta occorre fare espli-cito riferimento all’insegnamento di So-crate. Il grande maestro laico riteneva che il suo compito consistesse nell’inse-gnare agli uomini l’arte dei conoscersi per potersi, reciprocamente, aiutare. Per tale ragione, come è noto, nel Pro-tagora, Platone lo considera come “il medico dell’anima”.

Il nucleo strutturale del metodo so-cratico è costituito dal dialogo, ovvero come osserva G. Reale, un discorso bre-ve che “procedendo per domande e rispo-ste, fattivamente coinvolge maestro e di-scepolo in una esperienza spirituale uni-ca di ricerca in comune della verità”. (5)

Evidenziamo ancora: com’è struttu-rato il dialogo? È un discorso aperto, incalzante, continuo, senza pause, che piuttosto che affermare e definire fa ac-quisire l’importante elemento del dub-

* Presidente dell’Associazione Pedagogica Italia, sezione di Reggio Calabria; già Dirigente scolastico negli istituti superiori.

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no, come sappiamo, i momenti essenzia-li della formazione educativa dei giova-ni, che danno orizzonte di senso alla vita e la pongono sotto l’egida di valori indi-viduali e sociali da cui non si può pre-scindere, salvo lo sgretolamento del vi-vere in società. Tutti conosciamo il me-todo socratico; tuttavia reputo necessa-rio concludere questa parte di riflessio-ne rammentandone i diversi momenti.

a) L’ironia con cui si smantella il presunto sapere dell’interlocutore;

b) la maieutica con cui si fa genera-re la verità latente nell’animo;

c) il dialogo importante strumento educativo che dimostra, appunto, che non si tratta semplicemente di affer-mare la verità che si ha dentro ma di una verità frutto di una assidua ricerca.

Questo metodo socratico, struttura-le e non occasionale, dimostra che l’im-pianto dialogico è importante non solo nella forma ma anche nelle finalità ge-nerali: esso punta alla co-educazione, alla evoluzione positiva di entrambi i soggetti, l’interrogante e l’interrogato, alla ricerca della verità che può e deve valere per entrambi. Ma come si com-porta il docente/educatore? Come adat-ta e rimodella le proprie caratteristiche di guida?

La formazione del docente, come sappiamo, è un percorso che dura tut-ta la vita, nel senso che vi sono diverse “stagioni” della vita professionale di un docente. Qui ci soccorre una interessan-te e ben ragionata, a mio avviso, pagi-na di Luciano Corradini, che mi piace riprendere integralmente.

“Ciascuna stagione della vita pro-fessionale di un insegnante porta con sé bisogni formativi specifici, di cui le Istituzioni talora si sono fatte carico ta-laltra no, lo stesso si può dire della let-

teratura in materia di formazione che è piuttosto ricca per quanto riguarda la formazione in servizio ( la stagione “centrale” della vita professionale di un insegnante) ma risulta più povera per altre stagioni della vita professio-nale. Un aspetto ancora poco esplora-to della letteratura pedagogica italia-na è quello della “iniziazione o indu-zione professionale” degli insegnanti, intendendo con tale espressione, una formazione iniziale in servizio (succes-siva all’ingresso stabile nella professio-ne), diversa dalla formazione iniziale “pre-servizio” (che in genere si svolge a livello accademico). (…) L’induzio-ne può intendersi come la parte di un tutto che è rappresentato dal processo continuo di sviluppo professionale… Si tratta di un momento strategico in cui la formazione è orientata ad offri-re supporti specifici a quella stagione importantissima ed irripetibile della vita professionale di un insegnante che è quella in cui si struttura la maggior parte dei suoi atteggiamenti professio-nali. (….)

Una seconda stagione è quella che la letteratura che si occupa delle com-petenze professionali individua nel pro-fessionista esperto, che si rivela grazie ad alcune caratteristiche che i mem-bri della stessa comunità professio-nale possono identificare con chiarez-za: complessità delle abilità, control-lo strategico sullo sviluppo del proces-so, quantità e qualità delle conoscen-ze/competenze che vanno a comporsi in un insieme strutturato, capacità di rappresentarsi i problemi astraendo dai fattori congiunturali e accidentali che li hanno sollevati… Più specificamen-te si potrebbe ragionare su un concet-to, quello della “expertise”, su cui altre

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categorie professionali hanno elaborato riflessioni interessanti…che potrebbero essere trasferite anche al mondo delle professioni educative” (7),

Che idea di scuola

Quale idea di scuola si ha in que-sti primi lustri del nuovo millennio? In questo momento storico che sta per in-tercettare una importante ricorrenza: il cinquantenario della morte di don Lorenzo Milani. Ricorrenza che ripor-ta alla ribalta alcuni assiomi della sua opera educativa: Né cattedra, né lava-gna, né banchi. Solo grandi tavoli in-torno a cui si faceva scuola e si mangia-va… Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno (i ragazzi difficili). Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge gli ammalati.

…La scuola ha un problema. I ra-gazzi che perde.

Problemi di una certa attualità che, attraverso l’analisi che abbiamo svilup-pato fin qui, ci fa capire quanto sia fon-damentale nel rapporto interpersonale alunno-docente il sistema di comunica-zione, la qualità del dialogo. In parti-colare, il rapporto alunno-insegnante e i suoi riflessi sui processi di appren-dimento rappresentano un problema obbligato nel dibattito pedagogico con-temporaneo. Perché rispetto al passa-to, ritengo che oggi tutti si possa esse-re d’accordo su questo concetto: non si può parlare della dimensione educativa del dialogo senza porre in correlazione il rapporto docente-allievi, e le modali-tà con cui si instaura questo rapporto nella scuola.

C’è bisogno di riaffermare un’idea

di “schola” aristotelica, come luogo di formazione delle menti e di costruzio-ne della coscienza, in cui si dia spa-zio all’idea che ogni formazione pas-sa attraverso il dialogo e in virtù del dialogo e della ricerca approda al sa-pere, bene immateriale di cui ogni so-cietà ha bisogno.

Senza cultura e senza sapere diffu-so, come bene sappiamo, la società è più povera; cultura e sapere si coniu-gano con l’idea di identità, di conoscen-za di sé, di bisogno del riconoscimento dell’altro, in tutte le modalità con cui l’altro può rappresentarsi.

L’evento nuovo nella metodologia didattica attuale è costituito dal tran-sitare dal dialogo monodirezionale al dialogo bidirezionale e da questo al dialogo di tipo stellare che, se fatto tra pari, produce le condizioni della dimensione cooperativistica. Vi potreb-be mai essere modalità di cooperative learning disgiunto dal dialogo, dal co-stante confronto, da una modalità in cui costruzionismo e ricerca, tra allievi che si relazionano tra loro, sia la pra-tica quotidiana? Certo che no. La col-laborazione deve instaurarsi, innanzi-tutto, stabilmente tra docente e allie-vi perché vi possa essere la condizio-ne per un cooperatismo tra studenti.

È la ripresa, in maniera tecnica-mente e metodologicamente aggiorna-ta, del metodo di don Milani: dialogo, comunanza di intenti, coinvolgimento diretto e attivo degli studenti diretta-mente coinvolti nella costruzione di sé.

Consideriamo quanto accade, nor-malmente, in una classe. Il docente fa lezione e può capitare che uno stu-dente ponga delle domande inerenti la questione che il docente sta trattan-do. Accade in modo plastico, che en-

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trambi, concettualmente, sono impe-gnati sui contenuti, sulle determina-zioni che la riflessone impone e, per-tanto, si pongono in una condizione di reciproco rapporto complementare. È questa la cooperazione, che senza far venir meno la due differenti posizioni <docente – discenti> è espressione del modo di operare per il conseguimento dello scopo che è, in definitiva, analogo per entrambi. E contemporaneamen-te, è necessario che tutti gli altri stu-denti, concorrano alla determinazione e chiarificazione progressiva e defini-zione del contenuto esaminato.

Non si può ignorare che l’ambiente scolastico, in qualità di istituzione for-male preposta alla formazione dei gio-vani, è il luogo principe ove si devono fondere due importanti principi:

a) l’attivazione di strategie opera-tive poggianti sulla “comunicazione” e sulla sinergia delle poche risorse di-sponibili dopo anni di prosciugamento economico;

b) l’utilizzo e la diffusione di nuove modalità di relazione tra docente e al-lievi, fondate sul dialogo e sulla piena valorizzazione delle capacità e delle abi-lità individuali.

Accade, difatti, che sia sempre molto problematico indurre i docenti a tran-sitare dalla didattica disciplinare alla didattica modulare, alla didattica par-tecipata, condizione tecnico pedagogi-ca che consente di favorire il lavoro di gruppo dei docenti e l’utilizzo di “que-stioni” pluridisciplinari che aiutano considerevolmente lo studio e l’impe-gno degli studenti.

Questa impostazione metodologica consentirà di porre lo studente nella condizione di costruire il proprio per-corso e divenire protagonista del pro-

cesso di formazione della propria per-sona. In tal modo riproponendo il meto-do socratico, sapientemente riproposto da don Milani, da Danilo Dolci, da tut-ta la scuola attiva. Si rafforzerà, in tal modo, l’interesse ad apprendere e “l’ap-petenza conoscitiva” in quanto l’appa-rato emozionale e motivazionale viene favorito dall’accoglienza, dalla positiva interazione con l’altro, in particolare col docente, dalla condivisione e dalla col-laborazione.

L’apprendimento cooperativo nel sistema scolastico

Si rende necessario, a questo punto, focalizzare le condizioni operative, alta-mente funzionali per la formazione at-tiva degli studenti, ed individuare l’am-bito ove si può realizzare il massimo di cooperazione degli studenti. Questo am-bito è il cooperative learning.

Cerchiamo di definirlo, innanzi tut-to, utilizzando le categorie che, da mol-ti anni, Mario Comoglio pone all’atten-zione del mondo della scuola(8). Il coo-perative learning è un metodo e, ana-logamente, sono metodi efficacemente utilizzabili il braing storm”, il life skill, la lezione frontale o circolare, il master learning. Con l’attività messa in atto con il cooperative learning si coinvolgo-no gli studenti in una particolare mo-dalità di lavoro di gruppo che consen-te di raggiungere obiettivi comuni e di valorizzare le caratteristiche e gli inte-ressi individuali.

L’indicazione che si dà sul valore del cooperative learning consente di capire quanto sia di rilievo il ricorso ad una metodologia che si regge costantemen-te sul dialogo e sul confronto. E la posi-

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tiva interdipendenza tra i membri del gruppo, la progressiva autovalutazio-ne delle attività messe in campo fa evi-denziare oltre ogni ragionevole dubbio il valore del dialogo, del confronto e del-la collaborazione.

Avviandomi alla conclusione vor-rei, brevemente, far considerare l’im-portanza del dialogo e del confronto ai fini della acquisizione del principio di cittadinanza attiva che, in definitiva, è lo scopo ultimo delle istituzioni edu-cative nel contesto sociale. E quanto vi sia bisogno della piena acquisizione di tale compito, essere cittadini attivamen-te partecipanti, come prescrive l’art. 3 della Costituzione repubblicana, ognu-no può evidenziarlo da sé.

Dicevo prima della incidenza del “dialogo ragionato”. Si sa: il ragiona-mento, come sostiene il prof. Domenico Massaro, è il motore dell’apprendimen-to, essendo l’uomo ciò che è in quanto essere fornito di ragione e sentimento, ma ove la ragione disciplina e pilota la condotta dell’individuo (Platone docet con il mito della “biga alata”).

Non vi è conoscenza vera senza com-prensione e non vi è comprensione sen-za adeguata riflessione che sottende un ragionamento.

La scuola, se deve essere luogo ove far sviluppare le capacità critiche dell’allievo e non luogo ove si trasmette cultura codificata e saperi freddi, deve porsi l’obiettivo di insegnare l’uso, con metodo e funzionalità, dell’indagine, del buon ragionare: “insegnare a come pen-sare mediante una impostazione dialo-gica costante”… Se si ritiene, inoltre, che la scuola debba essere scuola di demo-crazia, (nel senso evidenziato prima), in cui si impara ad apprezzare il dialo-go intersoggettivo, dell’opinione non im-

posta ma argomentata, in cui si impara il valore della convivenza, e quindi del rispetto dell’altro, allora la scuola deve favorire, con modalità costante e strut-turale, il dialogo e il confronto.

Pensare, e in particolare pensare bene, riveste un’importanza soprattut-to oggi che viviamo in un mondo sem-pre più composito e difficile, che richie-de l’impegno e la responsabilità di una visione panoramica e sistemica, non solo nella risoluzione dei problemi te-orici, ma anche nelle scelte pratiche e nelle decisioni.

Pensare in modo corretto, secondo le regole della logica formale, e argomen-tato, secondo le ragioni del dialogo tra persone, costituisce dunque un obietti-vo primario dei sistemi formativi. Infat-ti, per quanto il pensiero rappresenti il fattore essenziale e distintivo dell’uomo, tuttavia il suo corretto esercizio non è un dato spontaneo e naturale, ma è un’arte che si apprende e che, quindi, richiede una didattica adeguata. (9)

Conclusione

È fin troppo chiaro, a questo punto, itenere che il dialogo sia una necessità a cui l’individuo non può sottrarsi: fa parte della sua struttura naturale, è il suo naturale impianto psico-fisiologico.

Altrettanto evidente risulta che la collaborazione è una esigenza che indu-ce il singolo uomo ad entrare nel rap-porto con l’altro. Questo vale normal-mente, nel tessuto sociale. E ancor più vale nella dimensione educativa e nel rapporto docente-allievo.

Infine, nell’attuale società multipla e complessa la cooperazione è una mo-dalità operativa che, se posta in essere,

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produce vantaggi per il singolo e per la comunità sociale.

bibLiografiaDevoto-Oli, Dizionario della lingua italiana

ed. Le monnier , fi 2000IbidemLorenzo milani, Lettera a una professoressa,

Libreria Editrice Fiorentina, FI 1967 E. Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei greci nel

suo sviluppo storico, a cura di Margherita Isnardi Parente, Ed. La Nuova Italia, FI 1974

g. reale, Storia della filosofia antica, vol. 1° G.M. Bertin, Lezioni di pedagogia generale,

ed. a. armando, roma 1968L. corradini, Insegnare perché? ed. a. ar-

mando, Roma 2004, pagg. 80-82m. comoglio, Il cooperative learning. Strategie

di sperimentazione, Quaderni di animazione e formazione, Ed. Gruppo Abele, TO 1999

D. Massaro (a cura di) Metodologia e didattica del testo filosofico, paravia, to 1998

Le donne nella storia. Don-ne geniali, donne vittime, donne ribelli che hanno caratterizzato la vita del mondo: Ipazia di Alessan-dria, Olympe de Gouges, Giovanna d’Arco, Beatrice Cenci, Isabella Morra, Arte-

misia Gentileschi, Francesca La Gamba, Oriana Fallaci, Angelica Balabanoff, Margherita Sarfatti, Anna Kuliscioff, Ada Negri, Oriana Fallaci, Franca Rame, Isabella Aleramo. E, poi, donne assassi-nate da uomini brutali: Roberta Lanzino, Maria Rosaria Sessa, Fabiana Luzzi. Madri uccise dai figli: Patrizia Schettini e Patrizia Crivellaro. Infine donne capaci di ribellarsi alla ’ndrangheta come Giuseppa Mercuri e Maria Concet-ta Cacciola. Eppoi le sconosciute, le donne straniere rese schiave, costrette a prostituirsi per le strade della Calabria. Questo libro è un lungo viaggio nell’universo femmi-nile compiuto tra la letteratura e la cronaca per aiutare a comprendere le devianze criminali e sub-culturali che hanno determinato i femminici-

di nel corso dei secoli. Un viaggio appassionante e istruttivo accompagnato da testi teatrali e letterari che consentono di riscoprire come, accanto al mostruoso che si cela dietro ogni delitto, esista anche il bello capace di riscattare il lato oscuro dell’umanità. Un bello che ha un’accezione largamente femminile.

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Rubrica A. R. De. Pa cura di PASQUALE MOLITERNI (università di Roma, Foro Italico)

(Associazione per la Riduzione del Debito Pubblico)

Nella sua relazione alla Commissione Bilancio, il ministro Padoan, il 19 aprile scorso, ha ribadito che la “riduzione dello stock di debito delle amministrazioni pubbliche resta l’o-biettivo prioritario del governo e fondamentale per la fiducia dei mercati”, sottolineando che per la prima volta nel 2016 il debito calerà e che “il processo di riduzione del rapporto rispetto al Pil si accentuerà prossimi anni, grazie anche alle privatizzazioni per lo 0,5% del Pil di cui le stime sul debito non tengono conto”. Da ciò pare evidente che il debito pubblico viene correlato soprattutto, se non esclusivamente, alla spesa pubblica. Se ciò è vero, è vero altresì che alle casse dello Stato vengono sempre più a mancare risorse ingenti, a causa dei rilevanti mancati introiti per evasione e elusione. L’evasione annua delle imposte è stima-ta tra i 120 e i 180 miliardi di euro. Su quelli accertati Equitalia riesce a recuperarne sol-tanto modestissime percentuali!È sempre più chiaro, dunque, che la riduzione del debito non può essere affrontata solo con azioni tecniche e di sola riduzione della spesa pubblica, ma che sia necessaria una più am-pia e complessiva azione politica, come sostenuto da molti anni dall’ARDeP ed evidenzia-to dal nostro vicepresidente nell’articolo ospitato in questo fascicolo. È necessaria, infatti, non solo la riduzione o, meglio, l’ottimizzazione della spesa, ma soprattutto che si intensi-fichi la capacità di recupero delle ingenti somme di denaro sottratte al cesto comune del fi-sco per evasione e/o per elusione da parte dei soliti noti, anche attraverso il trasferimento di capitali in Paesi compiacenti e a scarsa o nulla tassazione. Sono necessarie azioni più incisive, considerato che le sottrazioni fiscali incrementano l’iniquità, “costringendo” i Go-verni a tassare in modo sempre più rilevante le fasce reddituali medio-basse e, soprattut-to, i redditi da lavoro dipendente, attraverso gli ineludibili prelievi alla fonte, da cui sono svincolati i lavoratori autonomi e le società. Scorrendo i nomi finora pubblicati dalla stam-pa, scopriamo che coloro che hanno trasferito i propri capitali a Panama sono imprendi-tori, immobiliaristi, commercialisti, procuratori e broker finanziari, finanzieri, gioiellie-ri, manager, amministratori, stilisti, chef, architetti, avvocati, dentisti, albergatori, attori, sportivi di alto livello, editori, costruttori, ingegneri e informatici. Tra essi non vi è alcun dipendente! Son tutti liberi professionisti che verosimilmente fanno parte di quel 13% del-la popolazione che detiene oltre il 60% della ricchezza nazionale e che evita di contribuire a quel cesto comune che dovrebbe consentire di abbassare il debito pubblico e in tal modo far abbassare i livelli di tassazione, consentendo di recuperare risorse per investimenti in ammodernamento delle strutture e miglioramento dei servizi. Gli evasori nascondono pa-trimoni immobiliari e mobiliari attraverso prestanome e/o con l’esportazione illegale di ca-pitali. Altresì il sistema italiano di fatto consente ai furbi di fallire sulle spalle degli altri e in ultima istanza della collettività. E così il debito pubblico inevitabilmente continua ad aumentare, nonostante i vari interventi di tagli alla spesa pubblica operati in particolare nell’ultimo quinquennio. È sempre più necessario, dunque, costruire un efficace ed equo si-stema fiscale, attraverso la progressività del prelievo tributario sulla effettiva capacità con-tributiva di ogni cittadino, come previsto dall’art. 53 della nostra Costituzione, intensifi-cando e coordinando le azioni di controllo a livello nazionale e sovranazionale, ma altresì incrementando, attraverso informazione e formazione, i processi di coscientizzazione civi-le delle popolazioni, per un’adeguata, coraggiosa e diffusa azione sociale di controllo, oltre che per la messa in campo di comportamenti virtuosi da parte di ciascuno.

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Per una educazione politica, economica e finanziaria

di rocco artifoni*

* Vicepresidente ARDeP.

Abstract: The actual data of public debt belie the optimism of some members of the Government. The document of the Association for the Reduction of Public Debt (ARDeP) presents some propos-als “around the three axes: education, tax reforms and structural consolida-tion”. To try to solve (or at least reduce) the problem of the public debt, we must first improve the political quality of ed-ucation, economic and financial of the Italian citizens. A serious training is the prerequisite for understanding re-ality and change it for the better. In It-aly the annual tax evasion is estimat-ed at between 120 and 180 billion euro. The State can only recover 5%. The tax system is malfunctioning and the com-mon fund is unfortunately full of holes. They need more tools and more appro-priate regulations. For repairing it may make a concrete proposal: mandating the ISEE for all citizens. This would set the actual ability to: mobsters, corrupt and evaders would make a lot more ef-fort to hide or camouflage.

Riassunto: I dati del debito pub-blico smentiscono l’ottimismo di alcu-ni membri del Governo. Il documento dell’A.R. De. P. presenta alcune propo-ste intorno ai “tre assi: formazione, ri-forme fiscali e strutturali, risanamen-to”. Per cercare di risolvere (o ridurre) il problema del debito pubblico occorre,

anzitutto, migliorare la qualità dell’a-zione politica, economica e finanzia-ria dei cittadini italiani. Una seria for-mazione è la premessa indispensabile per comprendere la realtà e cambiarla in meglio. In Italia l’evasione minima delle imposte è stimata tra i 120 e i 180 miliardi di euro. Lo Stato riesce a recu-perare soltanto il 5%. Il sistema fiscale funziona male e la ‘cassa comune’, pur-troppo, è piena di buchi. Servono stru-menti e normative più adeguate. Per il risanamento si può avanzare una pro-posta: rendere obbligatorio l’ISEE per tutti i cittadini; in questo modo verreb-be stabilita la capacità contributiva ef-fettiva: mafiosi, corrotti, ed evasori fa-rebbero molta più fatica a nascondersi o mimetizzarsi.

Nel 2014 il Prodotto Interno Lordo (PIL) dell’Italia è stato calcolato in 1.542 miliardi di euro. Nello stesso anno il de-bito pubblico italiano è arrivato a 2.136 miliardi di euro. togliendo i 60 miliardi di prestiti al fondo “salva Stati” e i 46 miliardi di liquidità del Tesoro, il debi-to netto nel 2014 era di 2.030 miliardi di euro. Di conseguenza il rapporto de-bito/PIL nel 2014 ha superato il 132%. Nel 2015 il PIL italiano, secondo le sti-me ISTAT, è aumentato dello 0,7%, il che significa che dovrebbe aver rag-giunto la cifra di 1.553 miliardi di euro, con un incremento di 11 miliardi. Nel-lo stesso anno il debito lordo è salito a

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quota 2.170 miliardi di euro. Tolti i 58 miliardi di prestiti agli altri Stati e i 36 miliardi di liquidità della Tesoreria di Stato, il debito netto dell’Italia nel 2015 è salito a 2.076 miliardi di euro, con un incremento di 46 miliardi. Di con-seguenza, nel 2015 il rapporto debito/PIL dovrebbe aver raggiunto il 134%.

A fronte di questi dati (forniti da ISTAT e da Bankitalia), sapendo che la legge di stabilità per il 2016 è finanzia-ta per 15 miliardi in deficit e che - per evitare che nel 2017 scattino le clausole di salvaguardia con l’aumento dell’IVA - bisognerà recuperare altri 15 miliardi, pare alquanto difficile evitare che an-che nel 2016 il debito pubblico aumenti. Nonostante ciò il Consiglio dei Ministri l’8 aprile 2016 ha varato il Documen-to di Economia e Finanza che prevede un calo del debito pubblico nel 2016. A sentire i proclami di molti esponenti po-litici di rilievo, pare che l’Italia si stia avviando verso luminosi orizzonti, ma i dati economici effettivi smentiscono l’ottimismo interessato di alcuni espo-nenti del Governo. In questo contesto è interessante rileggere il documento approvato nell’assemblea dell’Associa-zione per la Riduzione del Debito Pub-blico (ARDeP) nel settembre 2015, che presenta alcune proposte “intorno ai tre assi: formazione, riforme fiscali e strut-turali, risanamento”. Di seguito verran-no esplicitati ed analizzati alcuni aspet-ti di questi tre assi.

Formazione

Spread, bail-in, quantitative easing, fiscal compact, default: sono soltanto al-cuni esempi dei termini tecnici che tutti abbiamo sentito declamare soprattutto

negli ultimi anni in relazione al debito pubblico. Nonostante ciò pare evidente che la maggior parte degli italiani non disponga di particolari competenze in materia di finanza ed economia. Per esempio, quando viene spiegato che - nonostante gli sprechi, l’evasione fisca-le, la corruzione e le mafie - il bilancio dello Stato italiano, tralasciando gli in-teressi sul debito pregresso, chiude da oltre 20 anni con un avanzo positivo si-gnificativo (simile a quello della Germa-nia), è facile cogliere l’incredulità di chi ascolta questi dati certi.

Ancora: quando si dice che la modi-fica dell’art. 81 della Costituzione nel 2012 ha introdotto l’equilibrio (e non il pareggio) del bilancio, compresa la ne-cessaria flessibilità tenendo conto del ci-clo economico, sembra che nessuno ab-bia davvero letto il testo della Costitu-zione. Il problema è sicuramente dovu-to alla scarsa conoscenza dei temi eco-nomici e costituzionali (e qui la scuola non pare sia stata all’altezza del proprio compito educativo), ma ancora più de-terminanti sono i pregiudizi che spes-so si diffondono in un’opinione pubbli-ca poco e male informata (e qui il ruo-lo dei media è palesemente deficitario e distorsivo). Ovviamente c’è anche chi ha tutto l’interesse a mantenere l’igno-ranza e ad accrescere la confusione.

Di conseguenza, per cercare di risol-vere (o almeno ridurre) il problema del debito pubblico, occorre anzitutto mi-gliorare la qualità dell’educazione po-litica, economica e finanziaria dei cit-tadini italiani. Come in tanti altri set-tori, anche in questo caso una seria for-mazione è la premessa indispensabile per comprendere la realtà e cambiarla in meglio.

Il documento approvato nell’Assem-

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blea dell’ARDeP nel settembre 2015 ini-zia così: “Il DEBITO PUBBLICO italia-no, per le cause molteplici, le dimensio-ni abnormi e gli effetti devastanti che produce nella vita sociale e sullo stato di diritto, richiede un complesso d’in-terventi incisivi e integrati sul piano scientifico, informativo, educativo, eco-nomico, finanziario e politico, a tutti i livelli, in vista della sua riduzione, an-che attraverso una revisione della spe-sa e la costruzione di un sistema fiscale equo. L’ARDeP è impegnata, dal 1993, a promuovere e favorire, a questo sco-po, iniziative di testimonianza, di stu-dio e di sensibilizzazione, a partire dalla scuola, ai valori del lavoro, dell’equità e della solidarietà intergenerazionale, in termini di responsabilità civica, eco-logica, economica e politica, dal livello nazionale ai livelli europeo e mondiale.”

Riforme fiscali

Prendendo in esame il secondo asse, quello delle riforme fiscali, è interes-sante evidenziare quali siano le man-cate entrate, poiché il debito di solito si crea per uno sbilanciamento tra entrate evidentemente insufficienti e spese pro-babilmente eccessive. Per i costituen-ti il sistema tributario (art. 53) avreb-be dovuto essere la cassa della solida-rietà (art. 2). Analizzando la relazione presentata da Ernesto Maria Ruffini, amministratore delegato di Equitalia, ascoltato in commissione Finanze del Senato all’inizio di febbraio 2016, emer-ge come il fisco italiano in realtà asso-migli molto ad un colabrodo.

Il dato che più colpisce è l’enorme cumulo di crediti non riscossi a partire dall’anno 2000: ammonta a 1.058 mi-

liardi di euro, circa la metà del debito pubblico italiano. A conferma che chi sostiene da tempo la stretta connes-sione tra evasione fiscale e debito pub-blico non è fuori strada. Da un’analisi più dettagliata di quei crediti emergo-no molte indicazioni divergenti e inte-ressanti. Anzitutto si ammette che 217 miliardi sono stati annullati dagli stes-si enti creditori, in quanto si tratta di richieste indebite. Questo dato ci se-gnala che tra le cartelle non riscosse per oltre il 20% si tratta di errori del fisco. Una percentuale non da poco. Le somme effettivamente dovute e non ancora pagate al fisco scendono quin-di a 841 miliardi. Di questi ben 307 miliardi sono crediti difficilmente re-cuperabili, poiché sono debiti a carico di soggetti falliti o nullatenenti. Qui emerge un altro aspetto piuttosto com-plesso: da un lato la fragilità delle im-prese e l’indigenza di troppe famiglie, dall’altro i professionisti dei fallimen-ti e la diffusa pratica dell’elusione fi-scale. Purtroppo il sistema italiano di fatto consente ai furbi di fallire sulle spalle degli altri e in ultima istanza della collettività. Mentre gli evasori nascondono patrimoni immobiliari at-traverso prestanome e mobiliari con il pagamento in nero e con l’esportazio-ne illegale di capitali.

Restano 534 miliardi di cui quasi il 60% corrisponde a posizioni per cui si sono tentate invano azioni esecuti-ve. E qui si vede che il fisco non è poi così “famelico” come spesso si dice: ci sono circa 315 miliardi che il “gigan-te cattivo” non è riuscito a portare a casa. Per altri 28 miliardi la riscossio-ne è sospesa per forme di autotutela o sentenze intervenute. Inoltre ci sono 34 miliardi che non possono più essere ri-

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scossi per l’approvazione di nuove nor-me a favore dei contribuenti debitori. Tenendo conto degli 81 miliardi già ri-scossi nei contenziosi e dei 25 miliardi dei pagamenti rateizzati, secondo Equi-talia la somma su cui realisticamente si può lavorare per un’efficace riscos-sione è ridotta a 51 miliardi di euro. Cioè il 5% del dato iniziale: incredibi-le, ma vero. Resta sempre una gran-de cifra, maggiore dell’ultima mano-vra economica, ma che non può copri-re nemmeno gli interessi annuali sul debito pubblico. L’amministratore di Equitalia ha definito il problema del-le cosiddette quote inesigibili una “pa-tologia estrema”. Possiamo intendere la frase in due sensi: la crescente po-vertà acclarata dalle statistiche e la storica propensione italiana ad evade-re le imposte. In altre parole, non pa-gano le tasse gli indigenti ma anche i criminali. In un certo senso sono due facce della stessa medaglia, poiché i soldi evasi da mafiosi ed evasori sono risorse sottratte alle politiche per ri-durre la povertà. Anche il fisco - come abbiamo visto - ha le sue colpe, ma i dati mostrano una crescente efficacia. Nel periodo dal 2000 al 2005 le con-cessionarie private hanno recuperato in media ogni anno 2,9 miliardi. dal 2006 con la competenza passata ad Equitalia: nonostante l’avvento della crisi economica, la media annua è sa-lita a 7,7 miliardi. L’interesse pubbli-co almeno in questo caso è stato tute-lato meglio dal concessionario pubbli-co. Resta il fatto che l’evasione annua delle imposte è stimata tra i 120 e i 180 miliardi di euro. Equitalia riesce a recuperarne soltanto il 5%. È eviden-te che servono più strumenti e risorse per gli esattori, ma anche le normative

devono essere radicalmente riviste. Il sistema fiscale funziona male e il cesto (fiscus) della cassa comune purtroppo è pieno di buchi.

Risanamento

Scaricare: è questo il mantra di mol-ti imprenditori e commercialisti. Scari-care ogni spesa totalmente. Ma nessuno avrebbe potuto immaginare che si po-tesse arrivare a scaricare anche ciò che non è stato speso. Non sappiamo a chi sia venuta in mente una proposta così stupefacente, ma risulta con certezza che il Governo l’ha inserita nella Leg-ge di stabilità per il 2016 e il Parlamen-to l’ha approvata. Stiamo parlando del cosiddetto “super-ammortamento”, cioè una norma che consente alle imprese e ai lavoratori autonomi di “scaricare” il 140% del costo dei beni strumentali ac-quistati. Quel 40% in eccesso, oltre a co-stituire un’incongruenza logica, rappre-senta sicuramente un regalo alle ditte, che su questa percentuale non paghe-ranno le imposte, poiché l’utile azienda-le diminuirà di pari importo. Si tratta di una palese violazione del principio co-stituzionale di uguaglianza sostanzia-le e di ragionevolezza della legislazio-ne. Per non parlare della prescrizione dell’art. 53 della Costituzione, laddove stabilisce che “tutti sono tenuti a con-correre alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Tra i “tutti” ci sono anche le società, la cui capacità contributiva viene alterata da una norma che farebbe inorridire qual-siasi matematico.

Qui c’è un’evidente ingiustizia, poi-ché vengono favorite oltre misura im-prese e lavoratori autonomi, mentre i

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lavoratori dipendenti non possono nem-meno detrarre il costo dei libri o del tra-sporto scolastico per i figli. Il sistema fi-scale italiano è squilibrato a favore delle società, che hanno la possibilità di pa-gare le imposte soltanto sugli utili, cioè sulla differenza tra ricavi e spese. Non è così per i lavoratori dipendenti, che pagano le tasse sui ricavi (cioè i reddi-ti) con qualche limitata possibilità di deduzione o detrazione fiscale. Questo squilibrio spesso induce chi può, cioè chi ha un’impresa, a scaricare anche i co-sti personali o familiari (che altrimenti sarebbero indetraibili) nel bilancio del-la società. Non solo: chi non ha questa possibilità di scaricare l’imponibile e l’I-VA pagata facendo intestare la fattura alla ditta, è tentato di pagare in nero, cioè senza fattura, per evitare almeno di pagare l’IVA. Si tratta evidentemen-te di un problema enorme, di imposte non versate sia dalle imprese, che de-ducono spese sostenute da altri, sia dai cittadini contribuenti, che non potendo detrarre nulla, talvolta scelgono di non farsi dare la ricevuta o lo scontrino da chi fornisce un servizio o un prodotto, causando un mancato introito all’erario.

Anche quando una spesa è detraibi-le, spesso il vantaggio fiscale viene ri-dotto da incomprensibili tetti dell’im-porto ammissibile. Un esempio è costi-tuito dalle spese funerarie: con la legge di stabilità del 2016 finalmente è stato abolito il vincolo di parentela per poter usufruire della detrazione. Infatti fino alla scorso anno era prevista la detra-zione del costo sostenuto per le spe-se funerarie soltanto per i parenti più prossimi del defunto. Il problema è che si può detrarre dal reddito il 19% del-la spesa fino a 1.550 euro. Dato che in realtà non esistono funerali che costa-

no “soltanto” 1.550 euro, si può facil-mente intuire quali trattative si posso-no instaurare per il saldo del costo ul-teriore, visto che chi sostiene la spesa non ha alcun interesse a documentarla e chi fornisce il servizio potrebbe limi-tarsi ad emettere una fattura di 1.550 euro, che dimostra una regolare forni-tura del servizio funebre con un prez-zo popolare per non approfittare dello stato di prostrazione di chi ha subito un lutto in famiglia.

Sono comportamenti che sono diven-tati quasi una norma e sono ben noti a tutti, ma finora si è fatto ben poco per contrastarli. Anzi, in diverse occasio-ni il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha dichiarato di voler tagliare alcune voci tra quelle attualmente de-traibili per i contribuenti. Insomma, le intenzioni pare siano quelle di andare nella direzione opposta ad un effettivo contrasto di interessi per cercare di ri-durre l’evasione fiscale, che purtroppo è un comportamento ampiamente dif-fuso nel Paese.

Ci sono altre azioni utili che si po-trebbero mettere in atto per contrasta-re l’evasione fiscale e cercare di risa-nare la finanza pubblica. Per esempio la riduzione dell’iva renderebbe meno conveniente il pagamento in nero, com-pensando il minor gettito con maggio-ri entrate delle imposte sui redditi. L’I-VA è stata introdotta in Italia nel 1972 con l’aliquota del 12%. In questi anni è stata aumentata fino ad arrivare al 22% attuale, con la minaccia di ulte-riori aumenti fino al 25,5% attraverso le clausole di salvaguardia inserite nei documenti di programmazione econo-mico-finanziaria approvati negli ultimi anni. È il caso di sottolineare che l’IVA è un’imposta proporzionale, che colpi-

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sce soprattutto i cittadini meno abbien-ti (per questo si dice che è regressiva), andando in direzione opposta a quanto indicato dal criterio della progressività costituzionale (art. 53).

Salvatore Scoca, relatore all’Assem-blea Costituente proprio per l’art. 53, spiegò così la differenza tra imposte sui consumi (indirette) e quelle sui contri-buenti (dirette): “i tributi indiretti at-tuano una progressione a rovescio, in quanto, essendo stabiliti prevalente-mente sui consumi gra-vano maggiormente sul-le classi meno abbienti; si vede come in effetti la distribuzione del carico tributario avvenga non già in senso progressivo e neppure proporziona-le, ma in senso regressivo che per una Costituzione come la nostra che vuole essere di equità sociale, fi-scale e di solidarietà rap-presenta una grave ingiu-stizia a danno delle classi più povere; questa ingiu-stizia deve essere elimi-nata in sede di accerta-mento del reddito globa-le personale, ciò signifi-ca che l’onere tributario complessivo gravante su ciascuno risulti informato al criterio della progressi-vità”. Per il risanamento si può avanzare una pro-posta concreta. In alcuni casi gli organi preposti ve-rificano, per i contribuen-ti sospetti, la congruenza tra patrimonio posseduto e reddito dichiarato. Visto

che l’Italia è ai vertici delle statistiche europee per la corruzione e per l’evasio-ne delle imposte, sarebbe il caso di ren-dere obbligatorio l’ISEE per tutti i cit-tadini e farlo diventare il principale cri-terio per l’applicazione delle imposte. In questo modo verrebbe stabilita con mag-gior attendibilità la capacità contribu-tiva effettiva. Con la conseguenza che mafiosi, corrotti, evasori e prestanome farebbero molta più fatica a nasconder-si o mimetizzarsi.

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Educazionesenza frontiere

rubrica diretta da HASANI JAFARI FATANE

Il mediatore interculturale: una figura ponte tra noi e gli altri

di paoLa ranieri*

Abstract: This article aims at rais-ing several reflections about the role of the intercultural mediator. Even today it is difficult to determine what “inter-cultural mediation” is and what it is not, which skills and abilities are nec-essary for the mediator professional training. Paradoxically, the spread of that term and the great debate about the practices of mediation did not pro-duce a clear and shared opinion nei-ther between operators nor between the researchers and scholars in this field. Moreover, the origin of these practices and the theoretical assumptions of this “discipline” have been little debated. Because of the recent migration flows, this subject seems to become socially rel-evant. The objective of this paper is to raise some questions and try to hypoth-esize answers not to define once and for-ever the intercultural mediation field, but to help gradually build a theoreti-cal orientation.

Riassunto: L’articolo intende solle-vare diverse riflessioni in merito alla fi-

gura del mediatore interculturale. An-cora oggi infatti è difficile stabilire cosa sia e cosa non sia la “mediazione inter-culturale” e quali siano le competen-ze e le abilità che devono far parte del-la formazione professionale del media-tore. Paradossalmente la diffusione di tale termine e il grande dibattito intor-no alle pratiche di mediazione non han-no prodotto un’opinione chiara e condi-visa né tra gli operatori del settore né tra i ricercatori e gli studiosi di questo ambito. Inoltre poco ci si è interroga-ti sull’origine di tali pratiche e sui pre-supposti teorici di questa “disciplina” che a causa dei recenti flussi migratori sembra assumere una posizione di rile-vanza sociale. L’obiettivo di questo la-voro è di sollevare alcuni interrogativi e di provare a ipotizzare risposte non per definire una volta e per sempre il cam-po della mediazione interculturale ma per contribuire a costruire un orienta-mento teorico in divenire.

La mediazione interculturale ver-so una definizione

Gli attuali scenari storico-sociali hanno favorito la nascita di una nuova

* Professoressa di Filosofia, Psicologia e Scien-ze dell’Educazione. Mediatrice Interculturale.

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figura lavorativa: “il mediatore intercul-turale”. Tale figura si attesta come la doverosa risposta ad un bisogno che l’in-calzare dei fenomeni migratori ha im-posto sulla scena pubblica delle odier-ne società avanzate. Nonostante la ri-chiesta nei servizi pubblici e presso le istituzioni di tale figura professionale, manca sia tra gli addetti ai lavori sia nell’opinione pubblica una visione uni-voca circa il profilo, il ruolo e le funzio-ni di tali esperti. Questa imprecisione deriva in prima istanza dall’ambigui-tà della nozione stessa di mediazione e dall’ “abuso” che di tale termine si fa nei vari contesti. Difatti si parla indi-stintamente di mediazione culturale, mediazione interculturale, mediazione linguistico-culturale, mediazione ed in-terpretariato sociale.

Una molteplicità riconducibile ad una pluralità di fattori, quali la specifi-ca tradizione culturale degli immigrati, il canale attraverso il quale questi ter-mini sono stati introdotti nella lingua italiana, l’eccessiva moltiplicazione del-le tipologie d’intervento sia di tipo nor-mativo che formativo promossi da re-gioni, enti locali, università e associa-zioni e, infine, a causa di “scelte politi-che rispetto a prospettive diverse sulle migrazioni e sulla società multietnica o interetnica” (Luatti, 2006). Tutto ciò evidenzia la complessità di una prati-ca e di una professione in pieno dive-nire. Per far chiarezza sull’argomento è necessario porsi alcuni interrogativi, primo fra tutti cosa intendiamo quan-do diciamo “mediazione intercultura-le”. Si può partire scegliendo una bre-ve spiegazione etimologica dei termini che compongono suddetta espressione.

Il sostantivo mediazione deriva dal latino mediàre che ha origine da medius

(medio, intermedio, di mezzo) e significa porre un termine in relazione con un al-tro, al fine di creare ponti, legami e in-terconnessioni. Nel suo risvolto pratico la mediazione si riferisce a quel “proces-so attraverso il quale due o più parti si rivolgono liberamente a un terzo neu-trale, il mediatore, per ridurre gli effet-ti indesiderabili di un grave conflitto” (Castelli, 1995). In tali termini la me-diazione è una pratica ternaria, discor-siva, conciliatoria, assertiva che trasfor-ma la consueta logica del “io vinco, tu perdi”, sottesa ad ogni conflitto, in quel-la del “io vinco, tu vinci” dove ognuno con dignità porta avanti le proprie tesi nel rispetto dell’altro. Tale prassi è un atto intenzionale che ha come fine il re-cupero di relazioni interrotte o sospese fra soggetti che apparentemente si si-tuano su posizioni distanti. Nelle socie-tà contemporanee, dove le relazioni so-ciali e interpersonali si moltiplicano e si complicano, le pratiche di mediazio-ne diventano necessarie e indispensa-bili e la mediazione stessa diventa un approccio metodologico proprio di tutte le professioni sociali. Quando allora pos-siamo parlare di mediazione intercultu-rale intesa come specifico ruolo profes-sionale? L’esperienza ci insegna che la richiesta di mediatori e mediatrici cul-turali è diventata decisiva nell’ambito delle odierne dinamiche migratorie, in presenza di diversità e complessità che, se non affrontate, capite, ricomposte, ri-schiano di dar luogo a conflitti, incom-prensioni, rigidità. Ed è proprio in tale ambito che accanto alla parola media-zione compare l’aggettivo culturale: la parola che deriva dal latino colere, col-tivare, intesa nella sua accezione antro-pologica come quel complesso insieme, quella totalità che comprende la cono-

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scenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra ca-pacità e abitudine, acquisita dall’uomo in quanto membro di una società. Pos-siamo così già dare una primaria defi-nizione di mediazione culturale come quel processo che facilita la relazione tra persone di culture diverse. La me-diazione, in tal caso, servirebbe a dis-solvere i malintesi tra l’immigrato e gli altri attori del sociale, malintesi dovu-ti a un diverso sistema di codici e valo-ri culturali.

Il prefisso inter, sommato all’agget-tivo culturale, arricchisce la definizio-ne, chiarendo la posizione del mediatore che si costituisce come quel terzo mem-bro neutrale che ha il compito di favo-rire gli scambi comunicativi, creando così un ponte simbolico tra due cultu-re, due terre, due identità diverse che incontrandosi possono arricchirsi vicen-devolmente. Il mediatore interculturale ha il compito di facilitare questo incon-tro, non ha un ruolo di rappresentanza e non deve sostituirsi né allo straniero né all’autoctono, svolge l’azione d’inter-mediario, in special modo, dove sussi-stono difficoltà comunicative. In effet-ti, lo scarto linguistico è il primo osta-colo che si interpone nella comunica-zione tra soggetti migranti e residenti, ragione per la quale il requisito lingui-stico è una delle competenze primarie per lo svolgimento del lavoro di media-zione. In tal senso occorre tenere pre-sente un’ulteriore espressione ovvero quella di mediazione linguistico-cultu-rale, dove l’aggettivo culturale è da in-tendersi come sinonimo di intercultura-lità, specificando in tal caso che la me-diazione tra culture avviene con l’inter-vento di una terza persona che a parti-re e per mezzo del linguaggio, propone

e promuove una trasformazione socia-le. Quindi la figura del mediatore inter-culturale non deve essere scambiata o sostituita con le figure dell’interprete o del traduttore, poiché il processo di me-diazione non può non tener conto del rapporto articolato che si crea tra me-diatore e assistito e della relativa com-petenza che il primo deve avere a pro-posito dei sistemi culturali con i quali è chiamato ad interagire. Se così non fos-se si rischierebbe di dare alla comuni-tà residente l’errata convinzione che il problema dell’integrazione tra culture sia solo di alfabetizzazione linguistica dei migranti, mentre ciò che va inne-scato è un complesso insieme di strate-gie di dialogo, di conoscenza reciproca, di ibridazione, di confronto, in una pa-rola, di incontro.

Filosofia e mediazione

Dopo aver definito e chiarito il cam-po d’indagine si pone un nuovo interro-gativo: quali sono i presupposti teorici della mediazione interculturale?

Di fatto, se da un lato le esperienze sul campo sono molteplici, la riflessione teorica risulta insufficiente. A tal pro-posito appare opportuno un approfondi-mento non per definire una volta e per tutte il campo della mediazione inter-culturale ma per contribuire a costru-ire un orientamento che è in divenire. Forniremo al lettore alcuni spunti, fi-losofici, pedagogici-psicologici e socio-logici-antropologici per individuare le basi teoriche di quella che si configura come una nuova disciplina del sapere delle scienze umane.

Il crescente aumento della presen-za nelle società europee dell’emigran-

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te, dello straniero, dell’“altro”, per lin-gua, cultura, religione, ha imposto una maggiore attenzione al fenomeno del “multiculturalismo” sia dal punto di vi-sta politico-sociale sia dal punto di vi-sta etico-religioso. L’incontro-scontro con la diversità viene definito dall’an-tropologo italiano Ernesto de Martino uno “scandalo etnografico”, che scompa-gina i consueti sistemi categoriali costi-tuiti su tipologie e schemi mentali che si dimostrano inefficaci perché assoluti, autoreferenziali ed etnocentrici. Infatti il tradizionale modo di pensare la cul-tura, ossia come qualcosa di circoscritto geograficamente e appartenente a spe-cifici gruppi che occupano territori ben definiti, appare un concetto obsoleto e ormai superato. Il fenomeno della glo-balizzazione impone infatti di pensare alle culture non come compartimenti stagni ma come fenomeni interconnes-si e sottoposti a reciproche influenze. All’interno della cultura occidentale, in una prospettiva di autocritica nel-la riconsiderazione dei propri valori in rapporto alle differenze di cui gli altri si fanno portatori, scaturiscono una serie di riflessioni filosofiche su come una so-cietà moderna e democratica dovrebbe gestire in maniera positiva la presenza degli immigrati ed evitare l’escalation dei conflitti. Possiamo quindi ipotizza-re che all’origine della mediazione ci sia esattamente il bisogno antropologico di affrontare e risolvere i contrasti che possono nascere da posizioni differenti che ci appaiono come inconciliabili. In realtà in ogni relazione umana il con-flitto è normale e alle volte inevitabile, è necessario allora trovare soluzioni che trasformino lo scontro in un momento di crescita e di arricchimento perché pro-prio nella trasformazione e nel suo su-

peramento il conflitto evidenzia e obbli-ga al riconoscimento dell’altro. L’auten-tica conoscenza dell’altro avviene attra-verso il dialogo e a tal proposito non si può non citare Socrate che nella tradi-zione filosofica occidentale è stato l’ini-ziatore della filosofia dialogica. Dialogo inteso non come “un semplice e superfi-ciale confronto di opinioni, ma un incon-tro “radicale”, dove proprio le opinioni – e l’intera gamma di preconcetti, di pre-sunzioni e di presupposti di cui esse si alimentano – vengono implacabilmente messe in discussione e, spesso, demoli-te” (Pasqualotto, 2008). Una relazione impostata su simili presupposti impli-ca che gli interlocutori siano in grado di mettersi in gioco completamente, rinun-ciando alla pretesa di verità delle pro-prie opinioni. Il superamento del conflit-to attraverso suddetta pratica genera una crescita e un arricchimento in en-trambi i soggetti coinvolti. In questo pa-norama non si può fare a meno di citare l’etica del riconoscimento che promuove un diverso modello di cittadinanza ba-sato non solo sul riconoscimento delle diversità culturali ma sulla partecipa-zione attiva dello straniero alla vita ci-vile. In merito a ciò un grande intellet-tuale, Paul Ri coeur, nel suo libro Per-corsi del riconoscimento si è interrogato su quale valore attribuire ai migranti portatori di culture e valori diversi dai nostri. Ne consegue che la questione del multiculturalismo si è spostata progres-sivamente da un puro piano teorico ad uno etico-politico, filosofico trasforman-dosi nella questione del riconoscimento dei diritti delle minoranze e delle iden-tità culturali ed etniche.

Con maggiore chiarezza il filosofo te-desco Jürgen Habermas asserisce che i singoli soggetti di una società posso-

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no realizzare il loro essere e la libertà morale solo in un contesto di “ricono-scimento”, infatti, secondo l’esponente della Scuola di Francoforte essere rico-nosciuti o meno dalla propria colletti-vità di appartenenza implica il poter-si realizzare come persona. Suddette concezioni acquistano grande rilevanza nell’attuale contesto culturale perché se l’Altro, il diverso, lo straniero, inizial-mente può fare paura, creare disagio, in un secondo momento, proprio attra-verso il dialogo, è possibile riconoscere l’altro non più come un nemico ma come fonte di ricchezza e di crescita.

Entrano in scena in questo panora-ma il personalismo comunitario e il pen-siero dialogico che ripristinano la cen-tralità dell’essere umano, che è tale solo in rapporto con gli altri. Infatti i singo-li esistono in funzione dei Tu che nella relazione li riconoscono e si riconoscono in una dimensione dialogica che preve-de un atteggiamento non pregiudizie-vole ma di accoglienza dell’altro. Citia-mo in tal senso il filosofo ebreo vienne-se Martin Buber, il quale afferma che il dialogo non deve dare vita né ad una dipendenza né ad un’indipendenza, ma deve creare, fra l’Io e il Tu, un’interdi-pendenza, uno scambio reciproco che arricchisce entrambi gli interlocutori, e il filosofo tedesco Franz Rosenzweig, se-condo il quale ogni parola, sia orale che scritta, crea un rapporto d’intersogget-tività con l’altro. Il contributo di questi autori ci induce a pensare che ben pri-ma dell’epoca attuale, contraddistinta da forti cambiamenti sociali, il pensiero filosofico si interrogava sulla possibilità di una piena integrazione fra le popola-zioni e sulla possibilità di una gestione razionale dei conflitti.

Pedagogia e mediazione

Nell’educazione la mediazione è con-siderata un potente strumento capace di contribuire ad un innalzamento e ad un’evoluzione della nostra società. Oc-cuparsi di differenze sociali, di migra-zioni e dei relativi “conflitti” che van-no generandosi e manifestandosi nelle varie tipologie, individuare strategie di conciliazione, riparazione, mediazione, avvalendosi di metodologie non diretti-ve ma incisive, significa riflettere e far riflettere sugli atti che si compiono e sulle cause che li muovono. Lavorando sugli aspetti personali e transazionali delle parti in causa, la mediazione può generare veri e propri atti educativi, fo-calizzando percorsi di “crescita ed evolu-zione” individuale, relazionale e sociale.

Molto interessante appare, ad esem-pio, il punto di vista di Deutsch secondo il quale è possibile trasformare un con-flitto in un’importante opportunità di riflessione e cambiamento. Tale ipotesi prevede che non sia necessario “sanare” il conflitto, ma prendersene cura, aven-done anzitutto consapevolezza, senza negare o sottovalutare le contraddizioni all’interno delle quali si declina l’espe-rienza educativa e convertendolo, infi-ne, in una fonte di confronto e di possi-bile diversificazione degli interventi e delle prassi operative.

Altri autori, come Rumiati e Pietro-ni, si soffermano sulla capacità “trasfor-mativa” del conflitto e sull’importanza di promuovere, nel lungo periodo, tran-sizioni delle parti mediante lo sviluppo di prospettive e “percezioni di abbon-danza”, anziché di “scarsità”, lavorando sul passaggio dal piano emotivo a quel-lo cognitivo, per giungere a poco a poco a nuove soluzioni di mediazione. Viene

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rivalutata, per così dire, la valenza pe-dagogica del conflitto, luogo/evento di possibile crescita se ben orientato in senso trasformativo grazie al dialogo, alla comunicazione e al colloquio.

Fra i numerosi approcci teorici e pra-tici mutuati dal campo educativo in cui la mediazione si è andata sviluppando, è possibile evidenziare la cosiddetta “mediazione umanistica”, ben rappre-sentata dalla giurista Jacqueline Mori-neau e dalla sua scuola. Essa si fonda sul dialogo guidato tra le parti ascoltate prima separatamente e congiuntamen-te e poi sulla preparazione del processo di mediazione ove il mediatore assume un atteggiamento non-giudicante ma positivo, intervenendo il meno possibile.

secondo la morineau, la mediazio-ne è un contesto altamente “dramma-tico”, come quello della tragedia gre-ca, che “obbliga le parti a confrontarsi con le proprie emozioni”. La mediazio-ne umanista, a tale scopo, valorizza il silenzio così come il dialogo, poiché la violenza che spesso caratterizza il con-flitto “nasce dalla sofferenza e dalla so-litudine di persone che non riescono più a comunicare” ed “onorare il silenzio” si-gnifica lasciar emergere emozioni utili a favorire la comunicazione.

Ulteriori contributi ad una fondazio-ne della Educazione Interculturale sono emersi nelle correnti di pensiero dialo-gico-personalista: la persona come va-lore primo e primario, come adesione ai principi di dignità, libertà, uguaglianza, come fondamento del dialogo intercul-turale che ha un suo valido esponente in e. mounier. A dire il vero la parola “personalismo” si ritrovava già in filoso-fi come J. Maritain e M. Blondel che la utilizzano per designare un aspetto co-mune ad alcuni movimenti di pensiero

che negli anni trenta del Novecento cer-cano una strada originale per sfuggire all’opposizione tra liberalismo capitali-sta e socialismo marxista. Per Mounier ogni persona è costitutivamente aperta al mondo ed agli altri, tanto che, al limi-te, essere significa amare e la comunità è propriamente “persona di persone”.

Ad arricchire il panorama dell’Edu-cazione Interculturale ci sono inoltre i contributi legati alle teorie sistemi-co relazionali che individuano nell’at-tuale diversità sociale, uno spazio per l’educazione interculturale pensata in un’ottica aperta e sistemica. In questa prospettiva è possibile costruire nelle nuove generazioni la mentalità aperta capace di cogliere la complessità inter-culturale tipica dei nostri anni.

All’interno di questo scenario Edgar Morin attribuisce all’insegnamento e al sistema educativo e formativo in senso lato, l’imperativo di sviluppare l’attitu-dine sia a contestualizzare sia a globa-lizzare saperi e competenze. Nella ca-pacità di effettuare collegamenti fra co-noscenze, abilità, competenze ed espe-rienze all’apparenza distanti, risiede la possibilità di formare il pensiero “ecolo-gizzante”, ossia una struttura cogniti-va idonea ad innescare processi rifles-sivi e di apprendimento consapevoli e di spingere il cittadino di oggi e quello di domani fuori dalla sua orbita parti-colaristica, nella prospettiva di una cit-tadinanza terrestre.

Sociologia e mediazione

L’attuale panorama sociale delinea una nuova fase della modernità da al-cuni sociologi definita tramite i concetti di “tarda-modernità”, “postmodernità”,

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o “modernità radicale”; tale processo nella sua complessità ha spinto la teo-ria sociale a ricercare nuovi paradigmi interpretativi. Ad esempio secondo il sociologo Ulrich Beck la globalizzazio-ne non è solo il prodotto di un proget-to politico ma il frutto “di un intreccio di volontà e di conseguenze non inten-zionali dell’azione”. Di conseguenza la società globale è una società a rischio perché il suo mutamento non è dettato da scelte politiche democratiche ma da scelte decise in altri ambiti, in partico-lare nell’economia. In questo panorama le esigenze e i bisogni delle singole etnie il più delle volte rimangono inascolta-te. Infatti non bisogna dimenticare che il processo di globalizzazione coinvolge “una dimensione soggettiva e cogniti-va, ovvero la crescente consapevolezza, da parte degli individui, dell’apertura dei confini e dell’impossibilità di circo-scrivere la propria esperienza di vita nei tradizionali spazi sociali ristretti” (Lattes,Raffini 2011). Inoltre nella so-cietà globale l’individuo si trova a dover convivere in un determinato spazio fisi-co o relazionale con gruppi etnici porta-tori di diversi patrimoni culturali. Gli attuali studi sociologici affermano che la globalizzazione non è un processo li-neare; tale fenomeno non porta in modo diretto ad un’effettiva integrazione cul-turale, politica ed economica della so-cietà globale. Difatti la crescente omo-logazione di stili di vita, forme lingui-stiche e culturali, ideologie economiche, modelli di produzione e di consumi, non implica di per sé un’automatica integra-zione. Al contrario una forte omologa-zione dei valori può generare resisten-za, disordine e violenza; in alcuni casi essa sembra generare comportamen-ti di rigetto, isolamento e divisione da

parte di Stati, gruppi etnici, minoran-ze linguistiche e religiose, che difendo-no e rivendicano la propria identità e il proprio spazio contro l’invadente “con-tagio” degli “altri”. Secondo la riflessio-ne sociologica-culturale dell’antropolo-go Clifford Geertz la società contempo-ranea vive il paradosso secondo cui, ac-canto ad una crescente globalizzazione dell’economia e della comunicazione, si insinua il moltiplicarsi delle differenze e delle divisioni culturali, fenomeni che si manifestano in maniera drammatica ed esasperata attraverso conflitti etnici e religiosi. Sono numerosi gli esempi di Paesi, destinazione finale di movimen-ti migratori, dove si verificano sempre più combinazioni e processi d’ibridazio-ne culturale. Lo studioso francese Je-an-Loup Amselle afferma che “se da un certo punto di vista la mondializzazione genera la mescolanza delle culture […] dall’altro non provoca l’uniformazione o l’affievolimento delle diverse tradizioni. Al contrario, l’epoca attuale, sotto la di-rezione degli Stati o delle organizzazio-ni internazionali, sembra essere segna-ta da un irrigidimento delle identità, in quanto questo doppio fenomeno ridà vi-gore alle nozioni di origine, razza o inne-sto interrazziale (Amselle,1999). La di-versità sovente destabilizza l’equilibrio statuale e nazionale mentre il plurali-smo culturale porta con sé un elevato tasso di conflittualità sociale di difficile soluzione. Tuttavia la conflittualità se gestita con responsabilità ed impegno può rappresentare un processo poten-zialmente costruttivo per ciascuna co-munità. In tale quadro teorico e prag-matico la questione della mediazione e l’applicabilità delle sue pratiche si pon-gono come improrogabili, necessarie sia nell’analisi antropologica e sociologica

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delle differenti dimensioni culturali, sia nella risoluzione di conflitti e tensioni fra individui e gruppi.

Conclusione

Gli spunti evidenziati dimostrano come oggi è certamente necessario ap-profondire ed elaborare una riflessione adeguata sul tema della mediazione in-terculturale le cui radici filosofiche e te-oriche, come si è visto, possono garantir-ci un’ampiezza di orizzonti e di visioni utili ad affrontare la realtà di un mondo nuovo e complesso. Una problematicità questa che ci impegna da subito perché ha investito l’intera gamma delle rela-zioni umane su scala sociale e indenti-taria. Si tratta della medesima neces-sità di avviare un profondo aggiorna-mento delle politiche sociali nei paesi più sviluppati, economicamente e poli-ticamente, che rappresentano il centro di arrivo dei flussi migratori. Le politi-che di mediazione dovranno far parte di progetti o programmi a media e lun-ga scadenza attraverso cui gli Stati po-tranno mettere alla prova la tenuta so-ciale nell’ottica, non secondaria, di rin-saldare la propria sovranità.

Non è più possibile, né pensabile, ri-spondere all’urgenza dei flussi migrato-ri chiudendosi in sterili, demagogici e dannosi “oasi di indifferenza”, rinvian-do ad altri, soggetti o istituzioni che sia-no, il compito di gestire al meglio quella che appare come una specificità ineli-minabile delle società del futuro. Occor-re capire che la mediazione culturale è un aspetto disciplinare di quella politi-ca dei valori e della responsabilità che molto ha sofferto nel passaggio dalla fine delle ideologie all’era della globa-

lizzazione. È un impegno che coinvolge e chiama a rispondere le istituzioni sta-tali, i centri periferici, le amministra-zioni locali, le comunità, i corpi sociali intermedi, le associazioni fino ai singoli cittadini. Di mediazione interculturale non si potrà né si dovrà fare a meno se vorremo educare le future generazio-ni alla democrazia, alla partecipazio-ne, alla solidarietà come valori argine all’indifferenza etica e al cinismo di un mondo svuotato di valori.

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Recensionia cura di Antonella Palladino

Luciano corradini, Sentieri ri-visitati Ricordando discepoli e maestri, armando, roma 2016

Nel suo ultimo libro, intito-lato Sentieri rivisitati Ricor-dando discepoli e maestri, Lu-ciano Corradini non si limita a mettere ordine fra i suoi ricor-di di scuola e di università, of-frendo al lettore una galleria di ritratti di persone “viste da vicino”, ma fornisce una pista per identificare e per valorizza-re ciò che può nascere e vivere nei sotterranei dell’esperienza degli studenti e dei docenti, du-rante e dopo i tempi dello stu-dio e dell’insegnamento istitu-zionale. Queste pagine delinea-no implicitamente una sorta di autobiografia di Corradini pe-dagogista, impegnato a parlare di se stesso quel tanto che basti a tracciare, con sobrietà, verità e gratitudine, profili di allievi e maestri, incontrati nel suo lun-go percorso di vita nella scuola, nell’università, nell’associazio-nismo e nell’Amministrazione: tutto ciò nella convinzione che si debbano cercare e valorizzare, anche negli attuali cambiamen-ti culturali e sociali, quei teso-ri di umanità e di sapienza, che lui ha scoperto e ora “rivisita-to”, per continuare i dialoghi di anni passati, avviarne dei nuo-vi e aiutare studenti e docenti a valorizzare in se stessi le possi-bili dimensioni affettive e spiri-tuali che da millenni caratteriz-zano le relazioni fra discepoli e maestri. Se nella seconda parte del libro presenta e commenta brani di lettere di studenti di ieri e di oggi, che lo hanno ri-conosciuto maestro, nella terza parte Corradini propone una

carrellata di suoi maestri, non solo pedagogisti, che hanno fat-to “cordata” con lui, per rende-re le nostre scuole più a misu-ra di studente e di Costituzione italiana. Ha riscoperto e riletto qualche brano dei suoi diari e dalle numerose lettere che ha ri-cevuto dai suoi allievi, a partire da quelli della scuola media di Cantù e del Liceo Scientifico di Tradate, nel triennio 1959-1962, per continuare con quelli di Car-pi, di Reggio Emilia e delle uni-versità di Milano e di Roma Tre. Queste lettere non appartengo-no solo agli anni in cui Corra-dini insegnava nella scuola se-condaria o nell’Università, ma anche agli anni più vicini a noi, testimoniando l’esistenza di una relazione educativa che, attin-gendo a radici profonde, non si è interrotta nel tempo. Vale la pena indicarne i nomi dei mae-stri e autorevoli amici citati da Luciano, pur dispiaciuto di aver dovuto trascurarne altri: Ge-sualdo Nosengo, Aldo Agazzi, evandro agazzi, giovanni rea-le, mario mencarelli, carlo pe-rucci, Cesare Scurati, Riccardo Massa, Mauro Laeng, Raffaele Laporta, Riccardo Misasi, Oscar Luigi Scalfaro, Sergio Mattarel-la, Carlo Maria Martini, Angio-lina garavaldi corradini, ser-gio aguzzoli.

Dagli episodi narrati con ma-estria cronachistica si potrebbe trarre una serie televisiva di qualità; gli ingredienti ci sono tutti. In fondo si ricostruisco-no non solo vicende personali, ma compare sotto traccia una sorta di storia sociale e istitu-zionale, letta da un docente e da uno studente di formazione cattolica, che ha cercato di testi-

moniare il vangelo nel mondo delle scuole e delle università. C’è la riconoscenza imperitura verso chi ha saputo orientare la vocazione del giovane corradi-ni (in particolare Enrico Gastal-di, Spartaco Marziani, France-sco Olgiati, Sofia Vanni Rovghi e Gesualdo Nosengo) verso un impegno di ricerca e di aiuto alla formazione dei colleghi do-centi, attraverso l’esperienza dell’associazionismo; ci sono i giorni dell’ amicizia operosa e collaborativa trascorsi all’Au-gustinianum dell’Università Cattolica negli anni 50, insie-me agli amici giovanni reale e Evandro Agazzi; c’è la riflessio-ne sulla perenne attualità dell’ intenso e dialettico legame di un padre con suo figlio (in par-ticolare fra Aldo ed Evandro); c’è il ricordo di un uomo prima all’apice del potere nella Demo-crazia Cristiana e due volte mi-nistro a Viale Trastevere, poi provato dalla malattia e da tra-versie giudiziarie, concluse con l’archiviazione degli atti, e infi-ne seguite da un’ultima fase di ricerche storico-politiche e let-terarie (Riccardo Misasi); c’è la nostalgia per i dialoghi inter-rotti con amici e colleghi de-funti, della cui vicinanza Cor-radini non si sente comunque del tutto privato, in virtù della “comunione dei santi” (Perucci, Scurati, Mencarelli, Massa, La-eng, Laporta, Reale). I dialoghi con il presidente Scalfaro e con l’allora ministro Sergio Matta-rella partono da un’iniziale sin-tonia, frutto di esperienze gio-vanili vissute nell’Azione Cat-tolica, e si svolgono in un clima di comune sensibilità educati-va e istituzionale, in termini di

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sana e serena laicità. Termini che trovano una sorta di sigil-lo nel capitolo dedicato a Carlo Maria Martini, conosciuto alla Statale, e definito “padre della Chiesa e della società civile”. Il libro di Corradini è un ragiona-to e colto antidoto alla possibi-le deriva - lucida e pessimisti-ca - degli anziani nei confronti degli adolescenti e dei giovani di oggi. A questo sentimento dà voce l’amico di una vita, Ser-gio Aguzzoli, nelle ultime righe della sua lettera, che chiude la carrellata dei “maestri” e l’in-tero libro. “Tutto ciò che abbia-mo provato e scritto appartiene a un mondo tenero, attento, de-licato e generoso, che si giocava tutto sulla fedeltà, sulla fiducia, sul rispetto degli altri, sul valo-re e sulla consistenza dei sen-timenti, sulla messa in gioco di tutta la persona. Questo mondo è scomparso, non c’è più e nes-suno può farlo tornare; e risulta persino sorprendente ricordar-lo. Questa rassegnazione non è una sconfitta, ma una presa d’atto che a noi è stato dato im-meritatamente di vivere grandi cose, significative, vere e giuste, che i giovani d’oggi non sono più capaci di apprezzare, perché, anche per colpa nostra, si sono atrofizzati i loro recettori cere-brali dedicati alle emozioni e ai sentimenti, che forse riprende-ranno a funzionare quando di-venteranno nonni e un nipotino li prenderà per mano e chiede-rà loro di giocare e camminare insieme (..)”. Luciano, con il suo libro, forse ha voluto risponde-re a Sergio che no, non tutto an-drà perduto. Sentieri rivisitati è anche una densa riflessione sulla valenza civile e pedagogi-ca della relazione tra studenti e docenti, che anche oggi può su-perare il puro livello della cor-rettezza giuridica, professiona-le, deontologica, per alimenta-re vissuti di reciproca stima e

fiducia tra discepoli e maestri. In tal senso, l’opera di Corradini è un’opportuna e meritoria riva-lutazione culturale del docente inteso come maestro e dello stu-dente inteso come potenziale di-scepolo, che coltiva, anche oltre il tempo scolastico, le relazioni e i valori vissuti sui banchi di scuola. Ne fanno fede le lettere che ha pubblicato. Al riguardo, mi si permetta un ricordo perso-nale, risalente al periodo in cui, insieme con Chiara Sancin e poi con Laura Monti, con Domeni-co Amato e con don Lucio Gre-co, ho fatto parte della Segre-teria nazionale del Movimen-to Studenti di Azione Cattolica (1995-2002), quando sovente mi incrociavo con corradini alle ri-unioni promosse dal Ministero della pubblica istruzione, op-pure alle sedute della Consul-ta nazionale per l’educazione la scuola e l’università, coordinata da mons. Vincenzo Zani. Era il 17 dicembre 1995, quando, con il loro IX Documento congres-suale, gli studenti del MSAC si impegnavano a dare un nuovo senso allo studio, convinti che con questa attività si potesse in-dagare la realtà con occhi mera-vigliati e stupiti. Per far questo, gli msacchini chiedevano aiuto ai propri professori, esortando-li ad essere meno oracoli e più nocchieri: a diventare, da per-sone che si ascoltano soltanto, persone con le quali si cammi-na e si cresce accompagnando-si. (“In Movimento per la Scuo-la”, ave, roma 1996).

Potrei ricordare ancora il contributo che demmo come delegazione msac all’elabo-razione dello Statuto delle stu-dentesse e degli studenti (DPR 24 giugno 1998, n. 249), le cui premesse erano state poste dal CNPI e dalla Conferenza nazio-nale studenti tenutasi alla Do-mus Pacis nel 1993; e altrettan-to quanto facemmo per dare un

riconoscimento ai docenti bravi, invece che chiedere la punizione per i meno bravi, come chiede-vano altri studenti. In questo ci trovammo a fianco dei genitori dell’ AGe e dei docenti cattoli-ci, in particolare dell’UCIIM, di cui Luciano divenne presidente nazionale nel 1997. corradini svolse un ruolo di co-protagoni-sta dell’innovazione scolastica, in un ciclo storico che va dagli anni ‘60 al 2006: lungo periodo articolato, che vide un partico-lare impegno dei cristiani per il bene comune, avendo nella mente e nel cuore sia il Van-gelo sia la Costituzione italia-na. Non è un caso che Corradi-ni sottolinei di essere stato no-minato professore ordinario di università da una Commissio-ne a maggioranza laica, dove i cattolici erano la minoranza. I maestri in laicità di Luciano sono stati, tra quelli citati nel li-bro, Gesualdo Nosengo, Raffae-le Laporta e Oscar Luigi Scal-faro. Luciano incontrò Nosengo per la prima volta nel 1954, alla Domus Pacis di Roma, durante il XII Congresso nazionale del Movimento studenti di azione cattolica. Tra i relatori c’era-no anche Piersanti Mattarella, Scalfaro, il Ministro Ermini e proprio Nosengo, allora Presi-dente nazionale UCIIM, da lui fondata nel 1944. Scrive Lucia-no che Nosengo e gli altri rela-tori invitavano gli studenti cat-tolici non a “convertire” i propri compagni per portarli in chie-sa, ma a mettere a disposizio-ne fede, impegno personale e di gruppo, per l’approfondimen-to della verità, sicché la scuola diventasse “madre di autenti-ca civiltà, di umanità e di vero progresso”, come scrisse l’allora delegato centrale del Movimen-to, Alvise Cherubini, nell’edito-riale del quindicinale Gioventù studentesca. corradini ricorda la finalità che l’azione educa-

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tiva avrebbe dovuto avere per Nosengo: far conoscere per far amare, far amare per far opera-re, e cioè per far servire; servire con amore per entrare nell’in-timità con Dio, fine della vita. Corradini chiosa che espres-sioni di questa densità etico-spirituale e di questo impegno esistenziale sono scomparse dall’attuale discorso pedagogi-co, che si svolge in un contesto prevalentemente cognitivistico, mediatico, tecnologico, economi-cistico ed erotizzante…

Sentieri rivisitati ci porta in conclusione a riflettere sul senso della scuola per i prossi-mi 20-30 anni. Quale deve es-sere il ruolo della scuola italia-na? corradini con una coeren-za pluridecennale non cessa di battersi in varie sedi perché la Costituzione italiana trovi nel-la scuola il posto che le spetta, secondo l’esplicito e unanime voto dei padri costituenti nel 1947. Ma forse, in questa fase storica che, come direbbe Papa Francesco, non è solo un’epoca di cambiamento, ma un cambia-mento d’epoca, anche sulla scia della serena e accurata visione pedagogica di Corradini, pos-siamo andare più a fondo per intravvedere un possibile, per quanto non appariscente ruolo formativo delle scuole e dei luo-ghi di trasmissione del sapere. In tal senso, forse, potremmo ri-tornare a riflettere su come gli uomini e le donne di cultura tra-smisero il sapere negli anni pas-sati. Anche oggi esistono nuo-vi “vivai” in cui le persone (ra-gazzi, giovani, adulti, anziani) possono provare a ripartire, per sviluppare, anche con formule distinte e convergenti, tutto il proprio potenziale umano. Su questi sentieri, potremo ritro-varci e continuare a cammina-re in cordata, come documenta e insegna Luciano Corradini. (Giandiego Carastro).

Giovanni Mazzillo - Serafi-no Parisi, Chiesa e lotta alla ’ndrangheta, san giovanni in Fiore (Cs), Edizioni Pubblisfe-ra 2015.

Libro di Aa. Vv. presentato da Stefano Parisi che fa riferi-mento alla Nota pai storale sul-la ’ndrangheta, Testimoniare la verità del Vangelo, della Confe-renza Episcopale Calabra del 25.12.2014; Parisi scrive che il libro, scritto a più mani, affron-ta “il fenomeno mafioso con la forza dell’annuncio dell’ annun-cio e con l’impegno di contribui-re alla costruzione di un conte-sto umano e sociale cultural-mente e moralmente elevato” (p 5) per cui la Chiesa cattolica è chiamata oggi a leggere do che si tratta comportamento diver-so nei loro confronti. La Chie-sa svolge un compito missiona-rio, è la madre che aiuta i figli a non ripetere gli errori. Anche la scomunica è un invito al pen-timento e a non continuare sba-gliare. Parisi propone un bra-no biblico che serve a fertiliz-zare “un terreno fertile dentro il quale inserire e far crescere il seme buono rinnovato, mon-dato definitivamente dalla leb-bra uSegue il contributo del te-ologo della pace, don Giovanni Mazzillo, che dà il titolo al libro e introduce gli altri contributi precisando che si tratta della raccolta di lezioni, svola Lame-zia 2014/15 e che la iniziativa è stata patrocinata dalla CEC. In breve, il testo, destinato agli studenti del S. Pio X di Catan-zaro, cioè ai futuri sacerdoti, è l’opportuna offerta formativa per quanti sono in vario modo sono chiamati ad evangelizza-re la gente del nostro tempo. Il contributo di don Giovanni è una rassegna dei documenti della Chiesa cattolica -dello a partire dal secondo dopo-guer-ra e con costante riferimento ad

un altro testo, con lo stesso ti-tolo, edito nel 1992 dall’editrice La Meridiana e con il contribu-to dello stesso Mazzillo oltre a quello di A. Bello e P. Fantozzi. La centralità della domanda – è possibile una liberazione dalla ’ndrangheta? – riguarda la con-versione di malavitosi a Cristo (p. 27) e che “la liberazione mo-rale è anche liberazione strut-turale, tanto che non si può se-parare l’annuncio del Vangelo dal rifiuto, fino alla lotta, pur sempre non violenta, alla delin-quenza organizzata” (ibidem).

Seguono i contributi di A. Bartucci (Chiesa e ’ndranghe-ta); Enzo Ciconte (Storia della ’ndrangheta); Salvatore Dolce (Legislazione antimafia); Re-nato Gaglianone (Il fenomeno mafioso: aspetto socio-logico); Giuseppe Savagnone (La ma-fia: l’anti - Vangelo). I contri-buti (ciascuno per il particola-re settore) affrontano con com-petenza le questioni e le proble-matiche connesse alla temati-ca generale del testo destinato alla formazione dei sacerdoti calabresi.

Francesco de Notaris - Nico-la Capone (a cura di), Messag-gi per la pace Pitagora Editrice 2008, 1992 al 2008

Il testo rappresenta una si-gnificativa raccolta di messaggi per la pace che ricordano l’im-pegno di alcune personalità del-la cultura globale che sono so-stanzialmente un invito alla ri-flessione sulla violenza e sulla continua barbarie di chi sceglie le armi o la tortura per far pre-valere uno stile di vita non de-mocratico e non rispettoso del valore della persona umana e della sua dignità.

La collana editoriale è stata ideata dal senatore De Nota-ris in un clima di dialogo inter-

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culturale e realizzata dalle As-sise della città di Napoli, luogo d’incontro e di proposta per la costruzione di una società non-violenta.

il Lamento per la pace (Era-smo da Rotterdamn), l’Appello ai savi della terra (G. Filangie-ri), La non-violenza (Mahatma gandhi), Nessuno sarà inno-cente (P. Calamadrei), Le don-na costruttrici di pace (Rita Levi Montalcini) ecc. sono alcuni in-terventi dai curatori per una ri-

flessione del pensiero contem-poraneo in merito alla proposta di costruire un mondo a misura di uomo dialogante in contrasto con l’homo lupus lupi.

nicola bruni, Ad cathedram, Catania, La Tecnica della scuo-la editrice 2004.

Il libro raccoglie alcuni signi-ficativi racconti scolastici, come li definisce l’Autore, che non

solo fanno divertire gli alunni quanto fanno anche riflettere sul ruolo dei docenti che si tro-vano ad operare nella scuola di questa difficile società contem-poranea.

Forse anche per questo, Ni-cola Bruni, anima sensibile e attenta alla lettura globale del mondo contemporaneo, diso-rientato e squalificato nei va-lori, ha pensato di pubblicare dei racconti brevi, ma densi di senso etico-educativo: la lezione del docente, per esempio, è an-che la centralità e la direzione con cui gli studenti guardano il loro prof. nella quotidianità del-la vita scolastica.

Egidio Lorito, La comunicazio-ne merdiatica ytra egemonia culturale ed egemonia sotto-culturale, Ri-Stampa Srl. 2015.

L’Autore presenta il suo li-bro dicendo che si tratta del-la sua tesi di laurea consegui-ta nel Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’univer-sità della Calabria, relatore il prof. Paolo Jediowski. (Lorito è avvocato e giornalista-pubbli-cista). La centralità della tesi può essere riassunta nella sua domanda: perché riflettere su società, cultura e informazio-ne? L’A, risponde citando C. M. Marini che ammonisce il televi-sore di ascoltare rimanendo zit-to per consentire il dialogo in-ter-personale. Stefano Zecchi, nella presentazione che fa del saggio di Lorito, definisce este-tico il modello di comunicazio-ne della società contemporanea che vi ingabbiata e da cui fatica ad uscire pere trovare altre for-me di dialogo attivo.

Al volume appartengono an-che i contributi Stefano Zec-chi, Massimiliano Panarari, marcello veneziani, mario ca-ligiuri.

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Notiziario - Convegnirubrica diretta da FILOMENA SERIO

1. CONVEGNO DELL’UNIVERSITÀ ROMA TRE, dedicato alla presentazio-ne del libro di Luciano corradini, Sentie-ri rivisitati Ricordando Discepoli e Mae-stri, armando, roma 2016.

Il mio contributo a questa giornata che gli amici del Dipartimento di scienze della formazione di Roma Tre hanno voluto de-dicare a Luciano, in occasione dell’uscita di questo suo nuovo libro, vuole essere una te-stimonianza del ruolo che la sua presenza costante ha avuto nella mia vita e in quella dell’ONG E.I.P Italia. Anch’io ho ripercor-so, da bolognese, sulla scia da lui tracciata in questo prezioso libro, un Amarcord fel-liniano alla ricerca del tempo perduto, ma anche ritrovato, e nella speranza di dare un senso all’impegno nel presente e per il fu-turo. Luciano Corradini delinea, nella sua complessità, la relazione biunivoca che in-tercorre tra maestro e discepolo, comincian-do dalla dedica alla sua compagna di vita … Bona, discepola e maestra, con gratitudine crescente. Molti sono i maestri, ricchi di cul-tura, umanità, disponibilità al dialogo, che hanno segnato il suo sentiero, di studente nell’età della formazione e di docente nell’e-tà adulta. Luciano ne ricorda la personalità e il pensiero, utilizzando, dove possibile, te-stimonianze epistolari private assai illumi-nanti per il lettore. Il titolo Sentieri rivisi-tati allude ad un viaggio della memoria, tra teoria e prassi educativa. Il suo è un tenta-tivo, egregiamente riuscito, di chiarire a se stesso e a noi che nuotiamo nelle stesse ac-que, oltre la dimensione sociologico-giuridi-ca dei ruoli di docente e di studente, anche la dimensione etico-pedagogica, spesso de-clamata, ma poco esplorata e documentata, per mettere in luce una sorta di fiume car-sico, in cui possono alimentarsi più profon-de relazioni tra maestri e discepoli. Questa

tematizzazione mi sembra particolarmen-te significativa, per ricuperare nuovi valo-ri in un periodo storico in cui si tende a ri-durre la formazione dei docenti, iniziale e in servizio, all’acquisizione di competenze caratterizzate per lo più in termini tecnici-stico-quantitativi. Cito le sue parole per chi non ha ancora letto il libro: “Studenti e do-centi si è in virtù di condizioni di caratte-re anagrafico, sociologico, giuridico. Disce-poli e maestri si è in virtù di condizioni di carattere personale, culturale, scientifico, morale, affettivo. Non si tratta di due cate-gorie di persone e di ruoli separati, ma di un possibile anche se non facile continuum tra relazioni di tipo professionale e relazio-ni di tipo intellettuale, comportamentale e spirituale”. Quindi la stima nasce se si rie-sce a vivere i ruoli in maniera intelligente e creativa, in una relazione che alimenti la reciproca fiducia nella preparazione, nella motivazione pro sociale e nella lealtà dello studente e del docente. Sempre più spesso ci si lamenta della scarsità di veri maestri, non solo nella scuola o nell’università, ma in genere nella società. L’argomento è stato ripreso in questi giorni dalla stampa e dai media in seguito alla scomparsa di Umber-to Eco e al centenario della nascita di Gior-gio Bassani, grande intellettuale e grande maestro, come lo considera il suo discepolo Elio Vittorini in un volume appena uscito, “Bassani“, nella collana “Maestri” diretta da Antonio Debenedetti per Elliot.

Bassani fu docente a Ferrara, quando, all’indomani della promulgazione delle leg-gi razziali, insegnò italiano e storia agli stu-denti ebrei espulsi dalla scuole pubbliche. Maestro lo divenne per gli scrittori della sua generazione per la forza morale e l’impegno civile con cui difese la letteratura, la poesia e l’ambiente come presidente di Italia No-stra. Il mio incontro con il “maestro” Lucia-

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no Corradini avvenne attraverso la media-zione del Fondatore dell’Ecole Instrument de Paix, Jacques Mulhethaler, premiato dal-la fondazione serio a praia a mare, grazie anche al suo voto, alla fine degli anni ’80. Lui gli parlò della Sezione Italiana e di me. Contemporaneamente Jacques mi parlò con entusiasmo di questo Professore che a suo avviso incarnava nella pedagogia preventi-va, sottesa al Progetto Giovani, che muove-va i primi passi tra gli anni ’80 e ’90, il pri-mo principio universale di Educazione civi-ca che lui stesso e Jean Piaget avevano for-mulato per l’educazione alla pace e ai dirit-ti umani: “La scuola è al servizio dell’uma-nità”. Da quel momento comincia tra noi un percorso di collaborazione e di scambio di idee e progetti ispirati alla considerazio-ne di Luciano, che affermava, in assonanza con Nosengo, che “la dimensione della per-sona“ non la si consegue solo in virtù di un’e-redità genetica, ma anche di un progetto di vita, costruito insieme da studenti e docen-ti, valorizzando i saperi disciplinari, le atti-vità della scuola e le risorse dell’extra scuo-la, per aiutare scolari e studenti a diventa-re ragazzi e giovani.

In quegli stessi anni assistiamo all’impe-gno diffuso ad attuare concretamente nella scuola quell’idea di “comunità educativa”, ricuperata da Dewey e rilanciata dai decre-ti delegati del 1975, e successivamente dal Progetto Giovani ’93, e poi dal Progetto Ra-gazzi 2000 e dal Progetto Genitori, con cui si riuscì ad attivare virtuose sinergie fra Ministero della PI, dirigenti e docenti “in-novatori” e studenti disponibili a non gio-care tutte le loro carte nelle “occupazioni” e nella contestazione giovanile. Questi pro-getti trovarono un notevole aggancio giuri-dico, finanziario e pedagogico nella Legge 309/90, nata per la prevenzione delle tossi-codipendenze e più ampiamente per l’edu-cazione alla salute nelle scuole. Contempo-raneamente, per l’attuazione di questi pro-getti, fu varato un piano nazionale di for-mazione dei docenti referenti per la salute nelle scuole e nei Provveditorati agli studi, che ha costituito la spina dorsale dell’auto-

nomia progettuale nella scuola italiana. Nel corso degli anni ’90 Corradini ha promosso, alimentato e monitorato in vario modo, nel Ministero come Vicepresidente pro ministro del CNPI, poi come sottosegretario alla PI col ministro Lombardi, queste tematiche e i relativi progetti, che metteva a punto an-che come professore di Roma TRE e come Presidente dell’UCIIM. Ricordo volentieri la sua partecipazione all’attività della rete del-le scuole del litorale romano per il Progetto Tirreno, alle iniziative dell’E.I.P sul campo a Gradara, per il Festival del gioco nella di-dattica, Gradara ludens, insieme a Umber-to Eco, Benigni, Perez, Bartezzaghi, Brusa per la diffusione della didattica ludica nel-le discipline, a Fregene e a Maccarese, gio-cando insieme agli studenti all’Oca verde, gioco di ruolo per la salvaguardia dell’am-biente, e collaborando alla Prima indagine sulla composizione sociale del Comune di Fiumicino, fatta da una rete di scuole. Par-tecipò, invitato da Mulhethaler, al CIPHE-DOP, Centro di formazione a Ginevra per gli insegnanti dei 40 paesi nel mondo in cui l’E.I.P è presente, e il suo intervento susci-tò grandi consensi e meraviglia per il fatto che in Italia ci fosse un Sottosegretario all’I-struzione che fosse così esperto della mate-ria pedagogica.

La tematica della partecipazione dei gio-vani alla cittadinanza attiva era in quegli anni una priorità per il Consiglio d’Europa che a tal proposito lanciò il Progetto pilota sull’educazione alla cittadinanza democra-tica e alla coesione sociale. L’allora Diretto-re Generale degli Scambi Culturali dr. An-tonio Augenti nominò come esperti il pro-fessor Corradini e me, per portare l’espe-rienza italiana sul tema, ispirata dalla Di-rettiva Ministeriale n.58/dell’8 febbraio ’96 Educazione civica e cultura costituzionale, testo voluto e firmato dal ministro Lombar-di, elaborato dalla commissione ministeriale in cui avevamo lavorato insieme a Luciano, e che fu acquisito nei documenti fondamen-tali dal COE. Negli anni ’90 si svolge il lun-go viaggio di Luciano Corradini attraverso la burocrazia ministeriale, per riuscire a in-

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trodurre nei programmi della scuola italia-na l’educazione civica e la cultura costitu-zionale. Finalmente con la Legge 169/2008, firmata dal ministro Gelmini, si raggiunge una sorta di “compromesso storico” tra la di-mensione disciplinare e quella trasversale, ricorrendo al monte ore annuale. Anche se il Ministero non ha ancora trovato un “ade-guato spazio curricolare” per quella che la legge chiama “Cittadianza e Costituzione”, almeno sulla legge e nella citata direttiva 58, “scripta manent” e nella prassi scolasti-ca e amministrativa queste norme restano comunque punti di riferimento. Vorrei ricor-dare, a tal proposito, la presenza di Corradi-ni nella rete regionale di scuole E.I.P della Campania, che dal 2000 al 2010 ha portato avanti un progetto di educazione alla citta-dinanza europea nel bacino euro mediter-raneo, la Rete “MELA VERDE”, che aveva come sottotitolo “Mediterraneo il futuro di una storia”. Luciano ha seguito tutto il suo percorso partecipando ogni anno alla forma-zione consortile dei docenti delle 24 scuole, elemento che ha costituito il vero collante pedagogico del progetto. I ragazzi, i docenti e dirigenti della rete hanno dedicato a Lu-ciano un pensiero grato, con questa dedica: “I giovani dell’E.I.P. hanno voluto assegna-re Il Premio Internazionale Jacques Mulhe-thaler. per l’impegno per l’educazione alla pace e ai diritti umani 2010 al Prof Lucia-no Corradini, padre della educazione costi-tuzionale, con la seguente motivazione ispi-rata all’acrostico dedicato da Comenius alla schoLa: Sapienter Cogitare, Honeste Ope-rari, Loqui Argute”.

Queste sono le doti riconosciute al mae-stro Luciano Corradini dagli studenti e dai docenti delle scuole italiane, a cui ha indica-to, negli anni, sentieri che meritano sempre di essere percorsi e rivisitati in nome della Verità e della Coerenza, principi da cui non ha mai derogato. Per concludere voglio far mie le parole autorevoli e preziose che Raf-faele Laporta gli ha rivolto in una lettera particolarmente significativa, in cui Lucia-no definiva se stesso piantagrane per la te-nacia con cui difendeva le proprie idee: “Io

per te e i tuoi amici userei il termine volon-tari o Illusi necessari. È questa la gente che resta nella storia, piccola o grande, dell’uo-mo, per un sacrificio di una vita o consuma-to in un giorno solo”. (Anna Paola Tantucci, presidente dell’E. I. P. Italia).

2. PREMIO Giovani cittaDini at-tivi - 1° edizione, 24.05.2016

Motivazione del premio. L’Associazio-ne Gianfrancesco Serio -operante dal 1977 nell’ambito della promozione della cultu-ra della cittadinanza attiva, della legalità, della solidarietà- ha bandito il premio che può essere sempre di stimolo ai giovani per ideare e proporre azioni possibili e compor-tamenti virtuosi da attuare nella comunità territoriale a cui essi appartengono; ciò ser-ve a prendere coscienza della possibilità di essere, in quanto giovani, protagonisti del cambiamento sociale nella propria comunità potenziando la coscienza etica e incentivan-do modelli di comportamento virtuosi e po-sitivi. L’Associazione offre così l’opportunità di sperimentare concretamente un percorso volto a realizzare delle iniziative valide per la responsabilità sociale, con particolare at-tenzione alla promozione del volontariato, che mettano i ragazzi al centro della real-tà facendo loro sperimentare concretamen-te gli effetti positivi di un approccio solidale ai problemi della vita comunitaria.

Il premio, pertanto, riguarda progetti e iniziative per la realizzazione di attività o eventi con il sostegno dell’Associazione Serio nell’ambito delle seguenti tipologie: valoriz-zazione di aree o strutture destinate ai gio-vani (centri giovanili, scuole eccetera); rea-lizzazione di eventi sportivi finalizzati alla diffusione dei valori solidali (non competiti-vi); promozione della lettura e del confron-to di idee, attraverso eventi/forum/presen-tazione di libri, eccetera; organizzazione di mostre/seminari/percorsi artistici per la va-lorizzazione di giovani talenti. organizzazio-ne di cineforum/spettacoli/ rappresentazio-ni teatrali/concerti eccetera. Hanno parteci-

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pato, individualmente o in gruppo, ragazze e ragazzi tra i quindici e i venticinque anni di età, residenti nei comuni dell’Alto Tirre-no cosentino.

Le domande di partecipazione -accompa-gnate dalla relativa documentazione- sono state valutate da una commissione nomina-ta dal Consiglio Direttivo dell’Associazione. La valutazione dei progetti si è basata sui seguenti criteri e requisiti: originalità/inno-vatività (max 30 punti); impatto sociale ed ambientale (max 20 punti); numero di be-neficiari (diretti e indiretti) e attori sociali coinvolti nell’ attività (max 20 punti); tra-sferibilità e/o ripetibilità dell’iniziativa (20 punti); esperienza precedente di volontaria-to (max 10 punti).

Il Premio è stato assegnato a Saverio Di Giorno, studente del liceo scientifico stata-le di Scalea; hanno ottenuto un riconosci-mento anche le studentesse Erica Cassa-no e Emma Giada Colacino (entrambe del liceo classico A. Moro di Praia a Mare) nel corso di un’iniziativa pubblica che si è svol-ta il 24 maggio 2016 nel salone Don Bosco (concesso dal parroco don Franco Liporsa-ce, grande amico dei giovani). il premio consiste nel finanziamento della spesa to-tale (soggetta a rendicontazione da par-te dell’Associazione) per la realizzazione dell’idea progettuale da concretizzare en-tro i sei mesi successivi. A tutti i parteci-panti è stato rilasciato un attestato ed of-ferto un libro di cultura.

Da sinistra: prof. Filomena Serio (presidente dell’Associazione culturale Gianfrancesco Serio), dott. Angelo Serio Coordinatore Pun-to luce di Scalea; commissione giudicatrice: dott. Maria Carla Coscarelli (direttore CSV di Cosenza), prof. Maria Giuditta Garreffa, prof. Giuseppe Serio.

Alcuni partecipanti all’incontro

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Gruppo Periodici Pellegrini

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