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Rassegna bibliografica 105 Movimento cattolico E m ilio F ranzina , M ario I snenghi , S il - vio L anaro , M aurizio R ebersch ak , L i - vio V an zetto , Movimento cattolico e sviluppo capitalistico. Atti del Convegno su « Movimento cattolico e sviluppo ca- pitalistico nel Veneto », Venezia-Padova, Marsilio, 1974, pp. 192, lire 3.800. Le motivazioni che stanno alla base del convegno di cui ora l’editore Marsilio pubblica gli Atti sono tutte nella pre- messa al volume, non senza una certa « enfatizzazione » che, se può essere com- prensibile per la novità del settore di ri- cerca e dei risultati conseguiti, rischia peraltro di dimenticare i limiti di « qua- lità » dello sviluppo veneto e i ritardi che esso sconta nei confronti del modello ca- pitalistico « puro ». Un modello il quale, per quanto sia oggettivamente astratto, non cessa peraltro di essere il punto di tendenza di un rapporto sociale — il capi- tale — volto per sua legge intrinseca alla massimizzazione della sua riprodu- zione. È per questa ragione che mentre si può essere d’accordo nel considerare il Vene- to « come l’osservatorio privilegiato per l’analisi delle modalità e degli effetti del- l’incontro storico tra moderatismo laico e cattolicesimo politico lungo l ’arco del- l ’otto-novecento », nell’individuarvi « un blocco d’ordine capace di gestire lo svi- luppo senza rinunciare ai pregi e alle ga- ranzie del sottosviluppo », nell’affermare che « il Veneto cattolico, proponendo una immagine estremizzata del ruolo monda- no della chiesa, consente forse lo studio in ingrandimento e in scala più lampante di taluni aspetti nodali dell’Italia catto- lica », pare discutibile — e quantomeno non ancora dimostrato — definire la re- gione veneta il « luogo di gestazione e sperimentazione di un modello di svilup- po, economico e politico, che sopravvanza largamente i confini regionali » che « co- nosce da quasi un secolo ormai, per isole, i punti alti dello sviluppo: aree d’impat- to tra industria e campagna, capitale e rendita, operaio e contadino ». Infatti questo schema interpretativo non dà ra- gione né dell’obsolescenza dei settori pro- duttivi, dei bassi tassi di accumulazione del capitale e dell’arretratezza delle for- me di organizzazione del lavoro di queste stesse « isole » (il lanificio Rossi di Schio è dal 1896 che ha cessato di essere la più grande industria italiana) né della manca- ta massiva urbanizzazione, chiave di vol- ta dell’adozione di modelli culturali e di consumo indotti — e a loro volta indu- centi lo sviluppo capitalistico. Per non parlare del polo industriale di Porto Mar- ghera che rimane totalmente estraneo e incomprensibile a questo schema — se non fosse, com’è, l ’impatto neocoloniale di una fase più avanzata dello sviluppo nei confronti di un modello — quello ve- neto — che ricupera la specificità della propria arretratezza in termini di funzio- nalità all’obiettivo di controllo della con- flittualità sociale. Che è ciò che si voleva dimostrare. Fatta salva questa necessaria precisazio- ne, volta a correggere il tiro degli studi che sul « modello di sviluppo veneto » e sul suo blocco di potere capitalistico-cle- ricale sono in gestazione, i risultati pur diseguali di queste ricerche sono da sa- lutare con soddisfazione. Il saggio di Silvio Lanaro (nel frattempo pubblicato anche da « Studi storici », XV, 1974, n. 1) recupera attraverso l’esame della storiografia sul movimento cattoli- co, applicandola al caso veneto, la con- vinzione ormai irrinunciabile della inac- cettabilità del giudizio che l ’« opposizio- ne cattolica » sia stata un’opposizione effettivamente anticapitalistica e antibor- ghese — ciò che supporrebbe la « persua- sione che il capitalismo italiano, nella fase dell’accumulazione originaria e del decollo industriale, non si ponga mai pro- blemi concreti di integrazione delle clas- si subordinate, e [dal]l’idea che la prassi politico-istituzionale dello stato unitario si rifaccia al codice ideologico di una bor- ghesia fondamentalmente imbevuta di cultura laica, liberale e risorgimentale ». Infatti l ’analisi del movimento cattolico veneto nelle sue due componenti, in real- tà assai più dialettiche e complementari

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Rassegna bibliografica 105

Movimento cattolico

E m i l i o F r a n z i n a , M a r i o I s n e n g h i , S i l ­

v i o L a n a r o , M a u r i z i o R e b e r s c h a k , L i ­

v i o V a n z e t t o , Movimento cattolico e sviluppo capitalistico. Atti del Convegno su « Movimento cattolico e sviluppo ca­pitalistico nel Veneto », Venezia-Padova, Marsilio, 1974, pp. 192, lire 3.800.Le motivazioni che stanno alla base del convegno di cui ora l’editore Marsilio pubblica gli Atti sono tutte nella pre­messa al volume, non senza una certa « enfatizzazione » che, se può essere com­prensibile per la novità del settore di ri­cerca e dei risultati conseguiti, rischia peraltro di dimenticare i limiti di « qua­lità » dello sviluppo veneto e i ritardi che esso sconta nei confronti del modello ca­pitalistico « puro ». Un modello il quale, per quanto sia oggettivamente astratto, non cessa peraltro di essere il punto di tendenza di un rapporto sociale — il capi­tale — volto per sua legge intrinseca alla massimizzazione della sua riprodu­zione.È per questa ragione che mentre si può essere d’accordo nel considerare il Vene­to « come l’osservatorio privilegiato per l ’analisi delle modalità e degli effetti del­l ’incontro storico tra moderatismo laico e cattolicesimo politico lungo l ’arco del- l ’otto-novecento », nell’individuarvi « un blocco d’ordine capace di gestire lo svi­luppo senza rinunciare ai pregi e alle ga­ranzie del sottosviluppo », nell’affermare che « il Veneto cattolico, proponendo una immagine estremizzata del ruolo monda­no della chiesa, consente forse lo studio in ingrandimento e in scala più lampante di taluni aspetti nodali dell’Italia catto­lica », pare discutibile — e quantomeno non ancora dimostrato — definire la re­gione veneta il « luogo di gestazione e sperimentazione di un modello di svilup­po, economico e politico, che sopravvanza largamente i confini regionali » che « co­nosce da quasi un secolo ormai, per isole, i punti alti dello sviluppo: aree d’impat­to tra industria e campagna, capitale e rendita, operaio e contadino ». Infatti

questo schema interpretativo non dà ra­gione né dell’obsolescenza dei settori pro­duttivi, dei bassi tassi di accumulazione del capitale e dell’arretratezza delle for­me di organizzazione del lavoro di queste stesse « isole » (il lanificio Rossi di Schio è dal 1896 che ha cessato di essere la più grande industria italiana) né della manca­ta massiva urbanizzazione, chiave di vol­ta dell’adozione di modelli culturali e di consumo indotti — e a loro volta indu­centi lo sviluppo capitalistico. Per non parlare del polo industriale di Porto Mar- ghera che rimane totalmente estraneo e incomprensibile a questo schema — se non fosse, com’è, l ’impatto neocoloniale di una fase più avanzata dello sviluppo nei confronti di un modello — quello ve­neto — che ricupera la specificità della propria arretratezza in termini di funzio­nalità all’obiettivo di controllo della con­flittualità sociale. Che è ciò che si voleva dimostrare.Fatta salva questa necessaria precisazio­ne, volta a correggere il tiro degli studi che sul « modello di sviluppo veneto » e sul suo blocco di potere capitalistico-cle- ricale sono in gestazione, i risultati pur diseguali di queste ricerche sono da sa­lutare con soddisfazione.Il saggio di Silvio Lanaro (nel frattempo pubblicato anche da « Studi storici », XV, 1974, n. 1) recupera attraverso l’esame della storiografia sul movimento cattoli­co, applicandola al caso veneto, la con­vinzione ormai irrinunciabile della inac­cettabilità del giudizio che l ’« opposizio­ne cattolica » sia stata un’opposizione effettivamente anticapitalistica e antibor­ghese — ciò che supporrebbe la « persua­sione che il capitalismo italiano, nella fase dell’accumulazione originaria e del decollo industriale, non si ponga mai pro­blemi concreti di integrazione delle clas­si subordinate, e [dal]l’idea che la prassi politico-istituzionale dello stato unitario si rifaccia al codice ideologico di una bor­ghesia fondamentalmente imbevuta di cultura laica, liberale e risorgimentale ». Infatti l ’analisi del movimento cattolico veneto nelle sue due componenti, in real­tà assai più dialettiche e complementari

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di quanto non si creda, dei moderati e degli intransigenti attesta una oggettiva convergenza anche di questi ultimi con i ceti dirigenti « laici » dello stato italia­no, nei campi del « comune » e della « po­litica estera » — come scriveva un ano­nimo ex-diplomatico sulla « Rassegna na­zionale » ancora nel 1884. Non solo: ma la scelta specifica del movimento cattolico nel Veneto fu quella di farsi « sostegno di un tipo di sviluppo industriale gestito dai grandi capitani della manifattura ve­neta ». Lanaro è pienamente consapevole di quanto detto agli inizi di questa nota, egli stesso riconoscendo che « il Veneto non conosce industrializzazione né svilup­po prima del sorgere del polo di Marghe- ra »; infatti individua con sicurezza la specificità del processo economico e poli­tico di crescita del Veneto laddove os­serva che « Schio [e cioè Alessandro Ros­si, n.d.r.\ è l ’espressione di uno sviluppo reale delle forze produttive, che però con­diziona i propri piani e i propri ritmi al mantenimento in tutto il Veneto dei vec­chi rapporti sociali legati alla terra », rap­porti che permettono un « regime di com­pressione dei consumi che è indispensa­bile a provocare il concorso della rendita fondiaria nell’accumulazione ». Ma se que­sto è l’elemento che assicura nei suoi ter­mini strutturali l ’alleanza fra movimento cattolico e nascente capitalismo industria­le, è anche l’elemento che assicura al Ve­neto un ritardo storico dello sviluppo che si è poi progressivamente trasformato in un ritardo nello sviluppo. E infatti -—■ continua ancora Lanaro — « il modello del Rossi non è in grado — né d’altra parte pretende — di provocare uno scat­to verticale dell’occupazione e di attuare un rovesciamento nella struttura del mer­cato del lavoro »: questo è il limite sto­rico della realtà veneta e di questo non si tiene sufficientemente conto. Due ulti­me osservazioni di Lanaro meritano di es­sere ricordate: da un lato che un esame della sua storia rivela che la « sinistra cattolica non postula né un’inversione né una variante dettagliata del modello com­plessivo di sviluppo », dall’altro che an­che per l ’ala estrema degli intransigenti

veneti, i fratelli Scotton, l’« opificio » cessa di essere « capitalismo » se si inne­sta « sul rispetto della tradizione e dei rapporti sociali (naturali) »: ciò permette a essi, monsignori e pastori di anime, di continuare a guidare il loro gregge alla salvezza eterna — e quindi di mantenere l ’autonomia (per quanto sempre più re­lativa) della sovrastruttura ideologico-reli- giosa — anche attraverso le vie tortuose dello sviluppo industriale che pure era destinato a esserne il maggiore benefi­ciario.Sulla linea di Lanaro si muove il saggio di Emilio Franzina il quale esamina il rapporto fra intransigenti e clerico-mode- rati in particolare nella provincia di Vi­cenza. Un rapporto — si è detto — dia­lettico perché indirizzato per vie diverse (sono gli intransigenti che controllano le parrocchie e le masse popolari cattoliche, mentre spetta ai moderati battere nuove vie di accordo politico e ideologico con lo sviluppo capitalistico) a un medesimo fine di « stabilizzazione sociale ». Quindi se è vero che sul piano dell’ideologia, in­tesa propriamente come « falsa coscien­za », quella degl’intransigenti rimane una ideologia di tipo reazionario e precapita­listico — come ebbe a notare Mario Sab­batini più di dieci anni or sono — è al­trettanto vero che sul piano pratico ciò non solo non impedì ma anzi mediò nei confronti delle masse rurali cattoliche la necessità dell’accumulazione capitalistica ottenuta attraverso il sottoconsumo, l’e­migrazione e il paternalismo delle relazio­ni industriali. Lo stanno a mostrare « gli spunti di nazionalismo e di malcelato im­perialismo puntualmente emergenti nello stesso campo cattolico in concomitanza con la presa in esame dei problemi di ca­rattere migratorio » come pure la già in­tuita e ora da Franzina evidenziata « net­ta prevalenza che sulla stampa intransi­gente fanno registrare, negli articoli d’in­teresse economico-sociale, le polemiche antisocialistiche a confronto di quelle di­rette a colpire gli orientamenti della pur odiata compagine « liberalesca » alla qua­le, alla fin fine, veniva rimproverata solo la sua scarsa incisività a livello di massa

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(che veniva dunque a richiedere l’inter­vento intransigente).Un breve saggio di Livio Vanzetto, che esamina il settimanale clericale della dio­cesi di Treviso « Vita del popolo » dal 1890 al 1902, verifica in questo settore specifico i risultati raggiunti dai due sag­gi precedenti: in particolare la « doppiez­za » della posizione intransigente, il suo antisocialismo di fondo e il suo antilibe­ralismo contingente che giunge ad accor­di elettorali coi liberali, l ’emarginazione degli intransigenti dal giornale ad opera dei clerico-moderati come scelta dettata necessariamente dallo stesso sviluppo ca­pitalistico la cui acutizzazione dei conflit­ti di classe cominciava a vedere pericolo­so lo stesso ideologico « antiborghesi­smo » di cui si ammantava il giornale in­transigente.

Dopo un saggio di Mario Isnenghi che riprende sostanzialmente il libro recen­sito in queste stesse pagine, chiude la rac­colta un saggio di Maurizio Reberschak sui cattolici veneti tra fascismo e antifa­scismo che intende ricostruire « il colle­gamento fra gli aspetti sfumati di una presenza contraddittoria e in cerca di de­finizione durante il regime fascista [...] e l ’inequivocabile e saldo blocco di po­tere che esplode nel secondo dopoguer­ra ». La ricognizione sulle conoscenze at­tuali non lascia ombra di dubbio che per il clero non può assolutamente parlarsi di « antifascismo »: in esso prevalse « un’i­dea religiosa e politica di lealismo e di autoritarismo, che si traduceva concreta­mente in un supporto al nazionalismo e al colonialismo ». Il nemico, come era trent’anni prima il socialismo, ora era di­ventato il comuniSmo. E dentro questa li­nea di condotta rientrano pienamente an­che il distacco del clero veneto dalla Re­pubblica sociale e il suo affiancamento al movimento di liberazione per il fatto che « da una parte i cattolici si erano riorga­nizzati politicamente e si affacciavano al­la ribalta come nuovo gruppo dirigente, che offriva la garanzia di una continuità con la tradizione dello stato liberale e che poteva accattivarsi la fiducia delle al­

te sfere del capitalismo; dall’altra i preti non avrebbero rinunciato alla loro quali­fica di ’guida spirituale’ delle masse ru­rali, che la resistenza riuscì a mobilita­re ». Il laicato cattolico veneto, come cor­roborò soprattutto l ’ala destra del parti­to popolare, così nel ventennio fascista andò preparandosi a ricevere l ’eredità del­la direzione dello stato conformemente alle indicazioni vaticane filtrate dalla FU CI e dal Movimento laureati cattolici. A partire dal 1943 si incominciano a strin­gere le fila del nuovo partito dei cattoli­ci con una composizione che si rivela es­sere tale da far saltare il vecchio schema tradizionale (vecchi popolari + intellettua­li fucini + laici del movimento guelfo) — e questo sì modello probabilmente espor­tabile al di fuori della regione veneta e proponibile come chiave interpretativa della formazione della democrazia cristia­na! Nel Veneto dunque a un primitivo strato di antichi popolari e di provenienti dall’Azione cattolica si sovrappose prima la « nuova » generazione di giovani pro­fessionisti, antifascisti della « seconda ora » e infine e definitivamente il gruppo « dei veri esperti e dei provati tecnici, non solo, e non tanto, nella conduzione del partito, quanto nella prefigurazione di una nuova classe dirigente in grado di raccogliere la guida dello stato, che sa­rebbe uscito dall’eredità fascista ». Fra costoro la figura forse meno nota, ma cer­to la più importante per comprendere fin nelle intime sfumature lo stretto connu­bio fra movimento cattolico e ceto capi­talistico veneto, è quel Piero Mentasti su cui Reberschak va conducendo una ricer­ca che porterà chiarezza su questo « no­do » fondamentale di natura teorico-pra­tica.

Maurizio Maddalena

G i a n n i B a g e t - B o z z o , I l partito cristiano al potere. La De di De Gasperi e di Dos- setti 1945-1954, Firenze, Vallecchi, 1974, 2 voli., pp. 572, lire 8.000.Due concezioni del « partito cristiano » si fronteggiarono nel primo decennio de­

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mocristiano. Da una parte quella dega- speriana, empirica e mediatrice, aperta al confluire dei voti laici, che vedeva nella Democrazia cristiana il « partito dei cat­tolici », la cui credibilità ed autorità sul piano interno ed internazionale di­pendevano dalla garanzia per essa of­ferta dalla Chiesa cattolica; dall’altra quel­la di Dossetti, che fin dal dicembre 1946 s’era presentata come « la presa di co­scienza della propria autonomia da par­te della nuova generazione democristia­na », di quanti cioè avevano maturato il loro « antifascismo cristiano » all’ombra del fascio littorio e di Pio XI. « Dossetti, come Gemelli nel 1919, — scrive Baget- Bozzo — si rifaceva all’originalità di cui la realtà cattolica era portatrice, opponen­dola a una linea politica [quella di De Gasperi] considerata più come una for­mula tattica che come un atto di creati­vità » (pp. 142-143).Attorno a questo contrasto centrale Ba- get-Bozzo ricostruisce una fitta e pedante cronaca delle vicende interne della De­mocrazia cristiana dal 1945 al 1954. Le ambizioni dell’autore erano in realtà ri­volte ben oltre: il proposito — enunciato nella Premessa — era quello di analizza­re i modi attraverso cui la DC, quale « partito cristiano », « ottiene la premi­nenza nel governo e giunge a conseguire per una legislatura la maggioranza asso­luta in parlamento» (p. 1). «Esperienza storica significativa », la chiama giusta­mente Baget-Bozzo, che si impegna an­che ad inquadrarla in una concezione teo­rica dei rapporti tra partito e società ci­vile, in cui al primo spetta una funzione attiva e condizionante rispetto alle scelte che la seconda compie: « un partito non è un semplice riflesso dei rapporti socia­li [...] ma nasce da un’interpretazione del­la realtà sociale » (pp. 2-3). Sulla base di queste considerazioni, il momento centra­le per interpretare correttamente la storia della DC è quello della « sua cultura » e delle « forme in cui questa si articola ». Chi cercasse di classificare la DC « sulla base degli interessi sociali espressi » — afferma Baget-Bozzo con un’argomentazio­ne « a contrario » di dubbia solidità —

troverebbe l’impresa assai difficile: la DC ha infatti espresso il « bisogno profondo della società post-fascista [...] di una con­vivenza fondata sulla mediazione delle parti politiche e sociali »; e il risultato da essa ottenuto (indubbiamente un po’ panglossiano: « una società in cui la poli­tica è demitizzata quasi senza limiti, i va­lori statuali, esaltati dal Risorgimento e dal fascismo, privati di ogni significato, ma dove le forze politiche e sociali posso­no dispiegarsi compiutamente », (p. 6) è la prova di quanto, tra il 1945 e il 1948, « la cultura fondante del partito cristiano e i bisogni politici del paese » fossero in reciproca corrispondenza. Mediazione, dunque, a tutti i livelli: tra Chiesa cattolica e società politica, tra le diverse esigenze della società civile, e in­fine all’interno stesso del partito cristia­no, attraverso l’esistenza delle correnti, le quali altro non sono se non « varie possibilità d’interpretazione del partito cristiano » (pp. 4-5).Tale criterio della « mediazione » come caratteristica primaria della DC è fin trop­po evidente e fin troppo dilatabile al tem­po stesso, tanto da non costituire in real­tà una categoria sufficiente a misurare con un minimo di credibilità il significato ed i fini di un partito o di una forza po­litica. Tuttavia, rispetto all’uso che altri ne hanno fatto, l ’operazione di Baget- Bozzo si rivela singolarmente seria ed onesta, nella misura almeno in cui egli si impegna a dare alla « mediazione » alme­no un retroterra ideologico e culturale. Una dissertazione iniziale sulla colloca­zione dei problemi della politica e della storia all’interno della visione cristiana della realtà permette infatti a Baget-Boz­zo di mettere in luce le radici ideologi­che profonde del « partito cristiano », muovendo dal Nuovo Testamento per giungere al Concilio vaticano secondo. Anche in questo caso non si tratta di un’analisi politicamente asettica: il conti­nuo richiamo ai tre schemi fondamentali di teologia della politica (eusebiano, gela­siano ed agostiniano) non solo sottolinea, pur schematicamente, elementi di conti­

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nuità dottrinale evidente, ma soprattutto si prefìgge di mettere in luce come l ’atteg­giamento maturato nella Chiesa postcon­ciliare porti alla rottura con ogni schema precedente, spinga a fare della politicità della Chiesa, in una prospettiva « stori­co-escatologica », « una dimensione essen­ziale della Chiesa stessa » e a porla « in alternativa e contrasto con la politicità dello stato in quanto tale », mentre viene negata « l ’esistenza di un sistema social­cristiano che possa diventare programma politico » (p. 43). In questa prospettiva l ’ipotesi del « partito cristiano », che me­dia tra la Chiesa e la società politica, è dissolta; ma proprio grazie alla sua origi­ne la Democrazia cristiana — conclude Baget-Bozzo cinquecento pagine più avan­ti — può proporsi già nel 1954 « come il partito della mediazione pura », « sen­za alcun riferimento teologico »: « la po­litica della mediazione avrebbe costituito il volto pubblico del partito, il suo uni­co nucleo teorico riconosciuto » (p. 547). Potrebbe sembrare, a chi è disposto a se­guire con candore l’analisi delle varie ispi­razioni delle correnti democristiane, un giudizio negativo sull’esito di un decen­nio di politica democristiana. È invece, a ben guardare, una patente di legitti­mazione concessa al partito del potere contro quei cristiani che della loro fe­de sono disposti a fare un’arma di lotta contro la democrazia cristiana.Ma nell’opera di Baget-Bozzo l ’argomenta­zione conclusiva è giustapposta ad una narrazione scarsamente compatta, interes­sata più allo scontro marginale, di gruppo o di corrente, che al fondarsi del potere reale del partito democristiano in Italia. Dati esterni e sovrapposti risultano per­tanto il recupero della tradizione cattoli­ca e il richiamo alle elaborazioni ideolo­giche della dottrina sociale cristiana. D’al­tra parte, se il partito cattolico è media­zione tra Chiesa e società politica, do­vrebbe pur esserci materia per individua­re il carattere della Chiesa pacelliana, per comprendere più a fondo di quanto non sia possibile attraverso gli schematici richiami agli atti politici di Pio XII la realtà di un mondo cattolico che non era

forse tanto lineare e grezzo quanto può apparire se si studia il pensiero di Lui­gi Gedda.A questa povertà di approfondimento in merito agli orientamenti del primo dei ter­mini di mediazione, fa preciso riscontro una sommaria e sbrigativa considerazione del secondo. La società politica è infatti ritratta alla luce violenta dello spirito del 18 aprile: comunisti e socialisti sono solo i servi di Mosca, monarchici e destre gli alleati necessari, se pur poco graditi. Né si può tacere che la volgarità di simili ri­ferimenti giunge alla pura e semplice denigrazione; si vedano, a mo’ d’esempio, le pagine dedicate alle vicende della « leg­ge truffa », nelle quali si possono legge­re affermazioni di cui ci sembra doveroso fornire al lettore almeno un saggio: « Che il PCI accettasse la collusione con i par­titi di destra apparve dalla proposta a- vanzata da Togliatti di un referendum sul disegno di legge elettorale, che avrebbe condotto sinistre e destre a combattere per lo stesso obiettivo e a saldarle in una lotta comune. L’antifascismo, infatti, eb­be una parte assai poco rilevante nella po­litica comunista dei primi anni cinquan­ta » (pp. 442-443).Entro i limiti assai angusti di un discorso storico-politico così caratterizzato, Baget- Bozzo svolge un’analisi delle figure con­trapposte di De Gasperi e Dossetti. È certo il tema più interessante dell’intero lavoro, il solo in cui le componenti del­l ’analisi si saldino in modo efficace e l’interpretazione appaia in qualche modo convincente. I « due miti », « sia quello di De Gasperi ‘laico’ e ‘liberale’ e quel­lo di Dossetti ‘integralista’» sono forte­mente «inesatti». «Ciò che aveva [...] opposto De Gasperi e Dossetti era una diversa cultura, una diversa teologia del­la politica » (p. 398): il giudizio di Ba­get-Bozzo sembra su questo punto aprire le possibilità di un discorso diverso, per quanto riguarda sia i rapporti interni al partito sia la dialettica con le altre forze politiche, rispetto a quanto sostiene la cor­rente storiografia, sorda o indifferente alle componenti di una tradizione cultu-

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rale che Baget-Bozzo sa esplorare con estrema puntualità. Contestare l ’ispirazio­ne laica e liberale di De Gasperi può in effetti significare mettere in discussione il mito dell’« uomo solo » e ricondurlo a proporzioni forse più modeste, ma certo più feconde per la comprensione dello sviluppo della DC e dei suoi rapporti con le varie componenti dell’intero mondo cat­tolico; mentre, per quanto riguarda Dos- setti, la forte sottolineatura delle richieste tendenti alla « creazione di uno Stato fon­dato sulla partecipazione popolare, in cui l ’iniziativa cristiana [...] fosse il cuore stesso della partecipazione e potesse so­stituire l ’impegno della sinistra » sociali­sta e comunista (p. 159), propone inter­rogativi che investono, oltre la Democra­zia cristiana, tutte le illusioni sulla soli­darietà tra i partiti di massa, su cui s’era- no fondate le speranze della democrazia progressiva.Se nell’opera di Baget-Bozzo questi pro­blemi restano allo stadio di proposizioni, ciò non sembra dovuto solo ad una scelta metodologica — una storia politica nel senso più restrittivo — che ci sembra profondamente arretrata e infeconda; ma dipende soprattutto dalla volontà di crea­re parametri di giudizio politico mistifi­canti e in ogni caso sordi a quanto di po­sitivo vive, malgrado la DC, nel cattolice­simo italiano postconciliare.

Luigi Ganapini

M a r i o I s n e n g h i , Stampa di parrocchia nel Veneto, Padova, Marsilio, 1973, pp. 168, lire 1.800.In questi ultimi tempi un rinnovato in­teresse si è rivolto alla realtà socio-eco­nomica del Veneto e al blocco di potere che ne ha gestito lo sviluppo. Libri, arti­coli, corsi universitari stanno affrontando ognuno dal suo angolo disciplinare il pro­blema di questo singolare « modello di sviluppo » che viene a coincidere nella sua essenza con la « questione cattolica » e con la « questione democristiana ». Si può dire che è stata un’urgenza pratica

— intesa nel senso migliore del termine— a richiedere una risposta non più elu­siva alla tematica che caratterizza a ogni livello l ’assetto regionale.In questa prospettiva si pone il presente contributo di Mario Isnenghi che esplo­ra il mondo assai poco noto della stampa clericale e cerca di individuare la funzio­ne specifica da essa svolta nel campo so- vrastrutturale al fine di creare un consen­so ideologico di massa alle scelte operate dallo sviluppo capitalistico. È un sorta di « blocco storico » — di segno opposto— che è riuscito fino ai tempi più recen­ti a legare le classi subalterne del Veneto a scelte di politica economica le quali an­davano in direzione radicalmente contra­ria ai loro interessi. Capire come e per­ché ciò sia avvenuto è compito essenzia­le di chi voglia recuperare una « organi­cità » del proprio lavoro intellettuale.Per dare un’idea delle dimensioni del fe­nomeno dei settimanali diocesani basta ricordare che nelle Tre Venezie si stampa­no ben 16 giornali per un totale di 300 mila copie complessive su un totale na­zionale di 700.000 copie. Ma a chi sono diretti? chi li legge? e che dicono? Il rap­porto che questi giornali stringono con la realtà sociale circostante ha un elemen­to di continuità con la situazione del resto d’Italia e un elemento di differenziazione: sono essi stessi un fenomeno al tramonto, via via più sfasato rispetto al sistema di valori, laico e consumistico, imposto dalla società capitalistica, però combattono una efficace battaglia difensiva, d’arresto che rallenta la presa di coscienza da parte del­le masse contadine e contadino-operaie dell’opposizione d’interessi rispetto all’at­tuale modello di sviluppo, in attesa di una nuova, superiore capacità di aggregazione sociale. Quanto il problema della stampa diocesana sia, nonostante tutto, ancora sottovalutato lo attesta un sondaggio effet­tuato dall’A. fra i corrispondenti provin­ciali dei quotidiani ufficiali del PCI e del PSI sull’incidenza dei rispettivi settima­nali diocesani: la risposta è stata il silen­zio o l ’assoluta ignoranza del fenomeno. Intuitivamente parrebbe ovvio ipotizza-

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re una correlazione diretta fra diffusione dei giornali diocesani e sottosviluppo so­cio-economico: quanto diminuisce que­st’ultimo, aprendo la via a un modello di vita urbano-industriale, tanto diminui­scono tiratura e diffusione di quelli. In realtà anche nel nostro caso il semplici­smo di questa correlazione, che sottinten­de un approccio economicistico, non vie­ne convalidato dai dati empirici i quali riconfermano l’autonomia relativa della sovrastruttura Infatti se è vero che le campagne leggono ancora il giornale dio­cesano mentre le città non lo leggono quasi più, è altrettanto vero che nel Ve­neto urbanesimo e industrializzazione non coincidono. Le città venete sono terziarie — e ancor più lo divengono nel loro at­tuale accrescimento; l’industrializzazione veneta è diffusiva — o frammentata — nel territorio, si sviluppa nella dimensio­ne della piccola e media industria (70 per cento del totale degli addetti all’in­dustria), vede la presenza del doppio la­voro nella figura dell’operaio-contadino — questi alcuni elemento fenomenici del « modello di sviluppo veneto ». Que­sta realtà l’A. individua attraverso l ’e­same dei giornali di curia. La stessa strut­tura produttiva e l ’organizzazione del la­voro del foglio diocesano lo attestano: l ’elaborazione dei contenuti, che pure av­viene al vertice, realizza contemporanea­mente una forma di interscambio imper­fetto con la base territoriale e sociale nel­la figura, in primo luogo, del direttore, sacerdote, di origine agricola, di famiglia di modesta condizione; dei corrispondenti locali, il più spesso parroci o maestri ele­mentari — tipiche figure d’intellettuale organico contadino; dei difensori che ap­partengono allo stesso strato sociale dei lettori. Tutto induce a fare del giornale diocesano « un’emanazione in qualche mo­do riconosciuta e partecipata dal basso », anche se la scelta e la rielaborazione dei materiali fatta al centro, nella città — per questa ragione l ’interscambio è im­perfetto — dà luogo all’« egemonia di uno strato selezionato di intellettuali di curia sul mondo rurale ».Certamente non si tratta più dell’egemo­

nia esercitata nei decenni passati. L’omo­geneità sociale del tessuto rurale è rotta — e definitivamente; il giornale di curia ha ormai rinunciato a rivolgersi a tutto il popolo, « vede via via assottigliarsi le possibilità di ricoprire il suo antico ruo­lo di intellettuale collettivo di un gruppo organico, di una società integrata in un blocco intercorporativo di condizioni e di interessi, unificato dai comportamenti e da un codice ». Ma il loro guardare al passato, il riproporre modelli di vita in­dividuale e associata ormai « ideologici » permette ai giornali cattolici di incunear­si come componente tendenzialmente marginale, ma ancora non priva d’ascol­to, nella crisi di identità prodotta dal pas­saggio da un modello di vita rurale, sta­tico e di sussistenza al nuovo modello di vita industriale, dinamico e di consumo (crisi permettendo — e comunque come nuova concrezione ideologica) in assenza di una tradizione e di una pratica di or­ganizzazione di classe operaia. Si tratta quindi di un elemento della mediazione sociale che nel Veneto ha lunga vita (si può risalire ad Alessandro Rossi) e che cerca di mantenere una continuità in fun­zione del controllo sociale — o in subor­dine di mitigarne gli elementi dirompen­ti. Tale va quindi considerato il « giorna­le di parrocchia », per quanto il blocco di potere si sia spostato verso concezioni più « scoperte », più laiche, più raziona­lizzate, più tipicamente capitalistiche. Il fatto che l’ideologia del settimanale dio­cesano non sia ancora considerata inutile attesta però la debolezza del capitalismo veneto e del suo modello di sviluppo. Ogni settimanale diocesano ha il suo par­ticolare modello tematico-espressivo: TA. determina una tipologia la quale va dal­l ’uso del « liturgico » come fuga da una concretezza che viene appaltata al locale quotidiano « laico » ma sicuro (« Il Gaz­zettino », « Il Messaggero veneto »), al­l ’individuazione dello specifico provincia­le come strumento di collegamento orga­nico con un territorio e una popolazione che il quotidiano laico non raggiunge se non a stento o malamente (ed è proprio delle province maggiormente agricole),

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al rifugio in un integrismo reazionario e nazionalistico — è il caso di « Vita Nuo­va » di Trieste — prodotto dalla man­canza di un interlocutore subalterno e di una tradizione consolidata.Questa prima parte più critica e proble­matica viene poi dall’A. verificata ana­liticamente con l ’esame storico del setti­manale diocesano di Padova « La difesa del popolo » dalla fondazione ai giorni nostri e con Pesame comparato del lin­guaggio e di una serie di temi d’attualità nei settimanali diocesani delle Tre Vene­zie. Ne risulta un altro elemento di estre­mo interesse perché convalidante, anche in questo settore specifico, un’ipotesi ge­nerale già avanzata nel corso delle ricer­che sul movimento cattolico veneto: il populismo antiborghese, espressione ver­so le classi subalterne dell’intransigenti- smo clericale del secolo scorso, si conti­nua tuttora — ma in funzione squisita­mente conservatrice, e perciò realmente antioperaia.

Maurizio Maddalena

Movimento operaio

AA. W ., I comunisti a Torino 1919-1972. Lezioni e testimonianze, prefazione di G. C. P a j e t t a , Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 338, lire 3.000.Il volume raccoglie i risultati di una ini­ziativa dell’Unione Culturale torinese che nella primavera del 1973 organizzò una serie di lezioni, sette in tutto, sulla sto­ria del PCI a Torino dalla fondazione del partito agli ultimi anni. L’iniziativa, e il volume che ne è derivato, si inseriscono nel ricco panorama di studi e di raccolta di testimonianze a cui ha dato origine il 50° anniversario della fondazione del par­tito (per un primo esame critico di que­sti contributi si veda la rassegna curata da A. Scalpelli nel numero di luglio-settem­bre 1974 di « Italia Contemporanea »). Il carattere originale del lavoro è costitui­to dal fatto che esso rappresenta, se non

andiamo errati, il primo tentativo di ve­dere l ’intera storia del partito ripensata attraverso l ’angolatura di una organiz­zazione locale, sia pure importante sotto il profilo organizzativo e politico come l ’organizzazione torinese è stata nel pas­sato ed è nel presente della vita del PCI. Accanto a questo primo elemento, ci pa­re di dover subito sottolineare lo sforzo compiuto per superare certe date cano­niche della storiografia del movimento operaio, aprendo le porte ad un sempre più necessario lavoro di riflessione da parte delle organizzazioni operaie sulle loro più recenti esperienze.Questi caratteri ci sembrano di per sé sufficienti a suffragare un giudizio com­plessivamente positivo del volume, an­che se non vanno taciuti alcuni limiti in parte riconducibili all’impostazione ge­nerale delle lezioni, in parte al taglio che ciascun autore ha ritenuto opportuno da­re alla sua esposizione.Concepite secondo uno schema quasi esclusivamente cronologico, le relazioni presentano sfasature e salti metodologici per cui alcune si limitano a fare il pun­to sulla base di dati ormai acquisiti, al­tre tendono a risultati originali; alcune restano eccessivamente chiuse nella di­mensione locale, altre la superano forse con eccessiva disinvoltura; né le testimo­nianze che accompagnano le lezioni risul­tano sempre con esse congruenti. Ma su questi limiti, inevitabili quando un con­tributo collettivo non può essere a lungo preparato e coordinato per evidenti ragio­ni pratiche, non è il caso di insistere.Più interessante ci sembra tentare la ve­rifica di come vengano affrontati quei te­mi, che per il loro rilievo nell’elaborazio­ne complessiva del partito, possono costi­tuire un punto di riferimento comune a tutto il lavoro: tra questi, centrale per l ’esperienza torinese risulta senz’altro il rapporto tra lotte sociali e lotta politica, tra lotta di classe in fabbrica e definizio­ne della linea politica dei comunisti.La fabbrica, momento qualificante e cen­trale della nascita del partito con l ’espe­rienza esemplare dell’Órdine Nuovo (a

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cui è dedicata la prima lezione di R. De Felice), è sicuramente centro qualifican­te della presenza del partito a Torino nei lunghi anni della clandestinità, come il­lustra con cura di particolari la relazio­ne di C. Pillon, ma appare già come cen­tro importante ma non più privilegiato di iniziativa politica nella Resistenza; giusta­mente A. Agosti sottolinea le difficoltà e le contraddizioni che si aprono nel par­tito e nelle fabbriche a Torino nel pas­saggio dal vecchio modello di partito, al « partito nuovo » di Togliatti, strumento per realizzare una linea nuova che vede i partiti, le istituzioni, lo stato democratico come terreno primario di applicazione. Purtroppo la relazione di L . Gruppi, troppo «ufficiale » nell’impostazione ge­nerale, troppo scarna di elementi locali, non affronta esplicitamente, per gli anni della ricostruzione, il tema della realiz­zazione della nuova linea, a cui dedica invece un notevole approfondimento cri­tico S. Garavini per gli anni ’50. Analiz­zando le cause internazionali e nazionali della forte ripresa dell’iniziativa capitali­stica e delle conseguenti difficoltà del movimento operaio, Garavini colloca tra di esse 1’allentarsi del rapporto tra par­tito e fabbrica: la fabbrica negli anni ’50 resta come estrema roccaforte spesso « e- roica » di difesa del partito, ma non ga­rantisce più al partito la forza e la creatività necessarie per rispondere al­l ’avversario di classe. Ai tentativi di re­cupero di un rapporto più pieno danno ampio spazio la relazione di G. Amyot per il decennio 1955-65 e soprattutto quella di A. Minucci per gli ultimi anni. Sull’onda della ripresa delle lotte ope­raie degli anni ’60, i comunisti ricer­cano con numerose iniziative, raccon­tate in modo esemplare da Minucci, un nuovo rapporto con le grandi fabbriche torinesi; ma si tratta di un processo non facile sia per le imponenti tra­sformazioni che la fabbrica ha subito, sia perché di queste trasformazioni si è fatto più tempestivo interprete il « nuo­vo » soggetto politico di questi anni, il sindacato.

Claudio Dellavalle

R e n a t o J a c u m i n , Lotte contadine nel Friuli Orientale. 1891-1923, a cura del­l ’Istituto Friulano per la storia del Mo­vimento di Liberazione, Udine, Doretti Editore, 1974, pp. 522, lire 3.000.

L’attività di promozione e rinnovamento degli studi di storia locale svolta dal­l ’Istituto Friulano per la storia del Mo­vimento di Liberazione sta dando i suoi frutti, anche al di fuori dell’ambito stret­tamente resistenziale. Ne è esempio que­st’opera che colma una grossa lacuna nel­la disponibilità di studi sulla storia re­cente friulana, affrontando il problema della lotta di classe nelle campagne nel primo dopoguerra.Il libro dello Jacumin ricostruise l ’ope­rato delle organizzazioni contadine cat­toliche e socialiste nel Friuli ex-austria­co, prendento le mosse dal primo asso­ciazionismo cattolico inserito nella strut­tura paternalistica e garantista dell’im­pero austroungarico, durante il periodo precedente la guerra mondiale. Dedica comunque la parte di gran lunga pre­ponderante all’affermarsi nel dopoguerra del movimento socialista e alla contem­poranea riorganizzazione e ripresa delle organizzazioni cattoliche. Per questo pe­riodo il lavoro si incentra sulla figura di Giovanni Minut, tecnico agrario friu­lano, di origine contadina, dirigente so­cialista e poi comunista della Federterra, di cui fu segretario provinciale dal 1919 al 1921, e sulla sua attività di organiz­zatore di masse sempre più vaste di contadini, soprattutto coloni, e di pro­motore di ampie e combattute lotte per la conquista del patto colonico colletti­vo e la soppressione delle disdette. È un crescere organizzativo strettamento lega­to all’allargarsi delle lotte, testimoniato dal capillare intervento del Minut in ogni centro agricolo, che lo Jacumin puntualmente riporta, nettamente con­trapposto nei modi e nei fini all’inter­vento del movimento cattolico; questo soprattutto per la preminenza data dal Minut all’azione sindacale come momen­to di erosione del predominio di classe

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114 Rassegna bibliografica

degli agrari e creazione di sempre nuovi equilibri nelle campagne, tendenti all’o­biettivo finale della socializzazione della terra nella forma dell’affittanza collettiva. Elemento questo di contrasto con la di­rezione riformista del movimento socia­lista, che porterà ad un’accesa polemica al momento del passaggio del Minut al PCd’I, che coincide con il suo allonta­namento dalla segreteria. Polemica cui l ’A. dedica molto spazio, forse troppo ri­spetto all’economia generale della trat­tazione, con lunghi riferimenti testuali agli articoli che segnano lo svolgersi del contrasto.Il tipo appunto di fonti usate, stampa locale di partito, e l ’abbondante, in cer­ti casi eccessivo, uso della citazione diret­ta degli articoli, oltre che rendere fatico­sa la lettura, porta a un quadro spesso parziale e frammentario della situazione reale, nelle sue articolazioni politiche e sociali. Si sente l’assenza di una inter­pretazione globale che unifichi i diversi momenti di dibattito e di scontro in un quadro generale. Forse è frutto di un’ot­tica eccessivamente localistica, ma appa­re immediatamente evidente un insuffi­ciente collegamento alla situazione poli­tica, all’articolazione delle lotte di mas­sa, alle posizioni dei partiti a livello nazionale, che spesso appare semplice giustapposizione senza trasformarsi in or­ganico inserimento della problematica lo­cale, pur con la sua specificità, in quella complessiva delle lotte politiche e sociali del dopoguerra in Italia.Da qui perciò il privilegiare momenti esteriori, personalistici, come la polemi­ca tra Minut e i socialisti e le sue a- sprezze, di fronte a una analisi appro­fondita ed articolata delle posizioni re­ciproche del PSI e del PCd’I su quei problemi e in quel momento.La stessa carenza di fondo si riscontra riguardo al movimento cattolico, al suo contrapporsi a quello socialista nelle cam­pagne, ai problemi dell’atteggiamento di questi di fronte all’insorgere preponde­rante del fascismo.Su questo punto l ’interpretazione dello

Jacumin, per cui gli accesi contrasti tra comunisti e socialisti avrebbero indebo­lito le capacità combattive delle masse contro il fascismo, di contro alle maggiori garanzie offerte dall’associazionismo cat­tolico per la sua compattezza interna e la maggior rispondenza alle esigenze conta­dine appare limitata e settoriale, non considerando i reali rapporti di forza nelle campagne, le modificazioni che vi apportava il fascismo agrario e, ancora, l’analisi complessiva delle posizioni dei partiti, cui fanno capo le organizzazioni contadine. Soprattutto non considera i motivi di debolezza dello stesso movi­mento cattolico di fronte all’avanzata del fascismo: ad esempio le divergenze di valutazione del fenomeno fascista tra gli stessi esponenti cattolici, l ’atteggia­mento a questo riguardo delle gerarchie e del Vaticano, l ’importanza nell’ambito delle organizzazioni cooperative degli isti­tuti di credito e l ’integrazione di questi nella organizzazione del capitale. Indipendentemente da questi limiti l ’o­pera dello Jacumin ha il merito di una estrema puntualià e completezza d’infor­mazione, portando un contributo note­vole e approfondito su un problema fi­nora molto limitatamente studiato, con un quadro complessivo vastissimo delle condizioni di vita e della situazione po­litica e sociale della zona in esame: zona estremamente interessante rispetto al re­sto del Friuli, anche rispetto alle espe­rienze successive durante il fascismo, la Resistenza e il dopoguerra. Di notevole valore e stimolo è infine la minuziosa ricostruzione della crescita delle orga­nizzazioni, delle lotte portate avanti e dei dibattiti che determinarono, con un vastissimo apporto diretto di fonti di stampa e testi di accordi tra organizza­zioni contadine e agrarie.In ultima analisi un libro utilissimo per il grande apporto di fonti e materiale inedito, per la novità dei temi che af­fronta e per i problemi che in questa maniera apre.

Gian Carlo Bertuzzi

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V i c t o r S e r g e , Vita e morte di Trotskij, Bari, Laterza, 1973, pp. 360, lire 4.500.

Vladimir Kibalcic, figlio dell’autore, av­verte in una premessa al libro, che l ’ope­ra venne concepita inizialmente come raccolta di memorie di Natalja Ivanovna Sedova, la moglie di Trotskij. Victor Serge non avrebbe dovuto che essere l ’estensore di tali memorie, ma a firma­re l ’opera avrebbe dovuto essere la Se­dova, la quale alla fine rivide e corresse tutta l’opera pur insistendo perché com­parisse soltanto Victor Serge come au­tore.È importante questa premessa perché es­sa fornisce anche la chiave di lettura del libro. Per di più va sottolineato che il libro fu terminato nel 1946, quasi trent’anni fa e ciò ce lo fa oggi appari­re insufficiente e parziale rispetto, per far un esempio, a quello di Isaac Deut- scher, ben più disincantato e ricco sia sul piano della pura biografia personale che sul piano delle vicende politiche di cui Trotskij fu protagonista di primo piano.In questo lavoro di Serge si avverte la presenza di un suggeritore chiaramente indicato nell’atteggiamento affettivo sia della moglie che dell’autore che pure su­bì, per i suoi rapporti con Trotskij, la persecuzione staliniana. Di qui il taglio dell’opera che ha il sapore del ricordo commosso, di una rievocazione in chiave di sentimento, ma ignora o sfugge alle motivazioni politiche degli atteggiamenti di Trotskij nelle varie fasi della sua vita. Serge si rivela attento ai dati biografici della personalità potente di Trotskij, ma non altrettanto avvertito di fronte ai complessi problemi della vita politica tumultuosa del rivoluzionario comunista. Un libro quindi forse valido nel 1946, quando venne concluso, ma che nel mo­mento della pubblicazione in Italia, circa trent’anni dopo, rivela la fragilità del­l ’impostazione, insieme persino a una li­mitazione di informazioni biografiche. Trotskij fu personalità poliedrica di gran­de influenza negli anni della rivoluzione

del ’17 e per tutto il periodo in cui il PCUS e il giovane stato rivoluzionario vennero diretti da Lenin, ebbe grandi re­sponsabilità non solo nel soffocamento della controrivoluzione, ma anche nella creazione dell’esercito e nell’impostazione della politica estera, perché si possa li­mitare la sua biografia ai ricordi della vedova e al tratto generoso, ma limitato degli affetti degli amici. Siamo quindi convinti che già nel 1946 questo libro fosse da considerarsi superato nella sua impostazione generale e nel suo stesso risultato, anche se era difficile allora par­lare di Trotskij con serenità.

a. se.

V i t t o r i o V i d a l i , Diario del XX Con­gresso, Milano, Vangelista editore, 1974, pp. 192, lire 2000.« Quando parlano i rappresentanti di que­sti popoli con la loro voce forte, fresca, si ha la sensazione di una marcia in avanti. Sono delegati giovani di popoli giovani [...] È la rivoluzione ai suoi inizi; poi si burocratizza »: è da uno dei brani come questo (p. 53), fra i molti che si potreb­bero estrapolare tra quelli contenuti in questo Diario del XX Congresso di Vit­torio Vidali, che abbiamo ricevuto l ’im­pulso immediato di riaffrontare il di­scorso sullo stalinismo. Ed a ciò l’autore ci riporta, attraverso ricordi e meditazio­ni, con il sentimento più ancor che con la ragione.Non è questa la sede per opporre at­teggiamenti razionali a momenti di preva­lenza sentimentale, anche se si compren­de lo stato d’animo comune ad una gran parte della generazione di militanti co­munisti vissuti o formatisi negli anni a ridosso della rivoluzione d’ottobre e del­lo stalinismo. Per cui non citeremo, per esempio, i testi del Gorz sul socialismo difficile o di Moshe Lewin sull’ultima battaglia di Lenin; né ci porremo il quesito di Alee Nove se Stalin fosse real­mente necessario; cosi come lasceremo,

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ancora da parte il Medvedev o l ’ulti­ma pregevole opera del Procacci. Ci sem­bra che soprattutto in questo caso si trat­ti di recepire il lavoro, quasi una «con­fessione » del Vidali, per quello che è: un diario, affrontandone la lettura ed operan­do una attenta analisi delle cose più rile­vanti, sulle quali riteniamo sia d’obbligo soffermarci, soprattutto sul travaglio per­sonale, ma così comune a tanti militanti, per quelle sconvolgenti « rivelazioni » del XX Congresso: le interminabili camminate e le profonde riflessioni nelle gelide sere moscovite e lo sguardo serio « se non dif­fidente dei poliziotti di guardia » (p. 37); certi discorsi cauti ma fortemente cri­tici di non pochi giovani compagni so­vietici intellettuali e non; il narrare len­to e le medesime frasi di vecchi bolsce- vichi « riabilitati » (« il vostro Dante non avrebbe potuto immaginare un inferno piu terribile di quello descritto; noi sì, noi l ’abbiamo vissuto... », p. 146); lo stu­pore nell’apprendere che solamente dopo il 1952 si è potuto leggere, più o meno pubblicamente, le opere di Gramsci! È il costo di un dato che, ancora, continua; di una esigenza, certo errata, espressa dai diversi grupi dirigenti dell’Urss: l’ob­bligo alla totalità del consenso. Per con­tro si hanno, certo, le grandiose realizza­zioni sul piano sociale ed economico, le entusiasmanti conquiste scientifiche.Tra i non pochi pregi di questo diario di militante vi è poi, quello assai raro di avere affidato con estrema spregiudica­tezza alla profanazione della stampa, stati d’animo intimi anche sui fatti più per­sonali e di carattere familiare; il non in­differente coraggio di avere respinto, nel tratteggiare militanti e dirigenti, la sug­gestione di coniare facili medaglioni oleo­grafici. Per cui quando Vidali, per esem­pio, parla di Miinzemberg o di Misiano, della Stassova o di Vera, lo fa ricordan­doceli e presentandoceli non come se u- scissero dalle pagine di vecchi libri di sto­ria, ma da quel colloquio-scontro con la storia in cui sono presenti con tutta la loro personalità e carica umana. Il ri­tratto stesso che traccia di Togliatti alla conferenza dei partiti comunisti europei

del novembre 1957, dopo l’attacco subi­to da parte di Suslov, non lo troviamo troppo spesso sulle pagine dei diversi suoi « biografi » ufficiali: « Si canta l’Interna­zionale. Sono vicino a Togliatti; ha le spalle curve come fosse sofferente; muo­ve le labbra ma non canta; il suo viso è contratto nello sforzo di controllarsi [...] e quando mando al diavolo un compa­gno è Togliatti stesso ad invitarmi alla prudenza » (p. 163).Ma fatti questi rilievi, dette queste cose, il discorso non può ancora essere consi­derato concluso. Il Diario contiene altri dati, molte sollecitazioni, elementi con­tradditori, interrogativi ai quali Vidali non ha risposto. Attacca ferocemente Sta­lin (« perché ora sono convinto che il vecchio non permetteva neppure che ve­nissero fucilati; era innamorato della for­ca » p. 56) ed i suoi numerosi lacche; ma poi in almeno altre tre occasioni lo di­fende con decisione; ha una manifesta (non sospetta) simpatia per Mao e i ci­nesi; poi riporta in appendice, decisa­mente un neoplasto, l ’intervento di To­gliatti alla conferenza di Mosca del ’57 e la lettera di Dubcek alla vedova di Smr- kovsky. Significa che le condivide? Stan­no lì conclusione e risposte? Francamen­te ci sembra che soprattutto nelle pagine conclusive Vidali, contraddicendo in par­te lo spirito « ribelle » di cui sono impre­gnate queste riflessioni, assuma posizioni difensive o d’attesa, rientri nell’alveo di una impostazione togliattiana, di forma più che di sostanza, da « documento sto­rico di Yalta» (p. 167): questo è proba­bilmente un limite intrinseco al carattere diaristico dello scritto. Tuttavia così co­me abbiamo avuto difficoltà a staccarci dalla lettura di molte mirabili pagine, ab­biamo anche difficoltà a recepirne, al di là di quanto sollecitato a livello di sub­conscio, un messaggio. È del resto rile­vante il fatto che affermi: « Questo ven­tesimo congresso mi ha fatto soffrire, ma mi ha fatto comprendere che siamo alle soglie di una nuova fase della nostra vita di comunisti, nella quale dovremo smet­terla di ritenerci archivi ambulanti della ideologia e depositari della verità asso­

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luta. Si tratta di una nuova grossa bat­taglia, forse la piu dura della nostra vita di militanti, però... ce la faremo! ». Bi­sogna ora che, almeno per quanto riguar­da i suoi scritti — data l ’enorme impor­tanza e la stringente attualità di un di­scorso e di una analisi, a tutt’oggi incom­pleta, sullo stalinismo — Vidali travali­chi l ’ambito del diario e ci dica anche come.

G i a n f r a n c o B e r t o l o

Antifascismo

E s t h e r M o d e n a - B u r k h a r d t , Voti « Giu­stizia e Libertà » zum « Partito d‘Azio­ne ». Zurich, Limmat-Verlag, 1974, pp. VII-287 (Schriftenreihe der Stiftung Stu- dienbibliotek zur Geschichte der Arbeiter- bewegung, Band 1).« Azione e programmatica di un movi­mento liberalsocialista nella resistenza contro il fascismo (1924-1945)» è il sot­totitolo di questo volume di una giovane studiosa svizzera che per la prima volta ci dà la storia di un movimento dell’anti­fascismo italiano dalle sue origini ai suoi esiti nella Resistenza, un’impresa che avrà un parallelo analogo (con ben altra dimensione, naturalmente) quando Paolo Spriano avrà portato a termine la sua Storia del partito comunista. Il lavoro intrapreso dalla Modena-Burkhardt non può non essere un lavoro provvisorio; nato come dissertazione discussa qualche anno fa presso l ’Università di -Zurigo, di quella origine reca le tracce, anche nella bibliografia che presenta diverse lacune così rispetto all’epoca in cui fu steso il lavoro (la documentazione di Zucàro sul caso Pitigrilli, l ’importante saggio di Pa­vone su « Passato e presente » del 1959, la bibliografia della Resistenza della Con­ti, tra le cose più importanti) come nel­l’aggiornamento (dal libro di Agosti su Morandi alla documentazione di Pietro Secchia sul PCI nell’antifascismo all’inter­no, all’edizione degli scritti di S. Trentin, al libro di Lussu sul partito d’Azione e

così via). Resta il fatto tuttavia che non si può non salutare con favore il tentativo compiuto dall’A. di affrontare in tutta la sua dimensione politica e ideale (e assai meno in quella organizzativa) la vicenda di GL fino al suo sbocco nel partito d’A­zione, anche se quest’ultima parte della sopravvivenza del patrimonio giellista (va­le a dire il cap. I l i della parte III) è certamente quella meno approfondita e più affrettata. Sostanzialmente consen­zienti ci trova la prospettiva nella quale si è posta l ’A. di considerare il movimen­to di GL essenzialmente come una « avan­guardia intellettuale » e di vederne quin­di la vicenda come « un contributo alla storia degli intellettuali di sinistra in Eu­ropa » (p. VII) tra le due guerre e nel periodo del fascismo. Di questa storia fa appunto parte quella oscillazione tra liberalismo e socialismo che contribuì al dibattito politico e intellettuale ma che sul piano politico portò anche alla disso­luzione del partito d’Azione, incapace, per ragioni oggettive e non per sole in­sufficienze politiche o di altra natura, di sciogliere il dilemma: « grande partitodemocratico o piccola eresia socialista? » (pp. 262 sgg.).Diviso in tre parti, il libro offre anzi­tutto uno spaccato di « Giustizia e Liber­tà » dal 1924 al 1936, insistendo sulle radici di GL nell’antifascismo degli anni venti, sui centri della cospirazione al­l ’interno, sulla polemica con comunisti e socialisti, sulla conclusiva opzione per un « socialismo liberale » sotto l’influenza di Carlo Rosselli; la seconda parte affron­ta il decennio dell’emiglrazione 1932- 1942 che culmina nell’intervento in Spa­gna e nella scelta filosocialista che fece seguito alla morte di Rosselli. La terza riguarda infine il movimento liberalso­cialista in Italia e la nascita del partito d’Azione.La parte più valida del lavoro ci pare senz’altro quella relativa alla ricostruzio­ne della fisionomia intellettuale del movi­mento più che quella dedicata all’orga­nizzazione e all’iniziativa politica, anche se non va neppur essa esente da qualche osservazione critica. Così ad esempio sul

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rapporto tra giudizio sul fascismo e valu­tazione sulla storia d’Italia precedente, che tanta parte ebbe proprio in un movi­mento intellettuale come GL (come del resto l ’aveva avuto nel gruppo di « Ri­voluzione liberale » e ne « Il Caffè » tan­to per citare i precursori), si dovrebbe andare più a fondo (e qui cade il richia­mo al già citato saggio di Pavone); vice­versa ci paiono eccessivamente sottolinea­ti così l ’antifascismo crociano come la sua eredità in GL e nel liberalsocialismo. Vi è forse un equivoco sull’influenza an­tifascista della casa editrice Laterza; a parte il fatto che non ci consta che T. Fiore sia mai stato direttore della stessa (come erroneamente scrive l’A. a p. 266), l ’influenza della pubblicazione di certe opere in Italia, come il De Man, andreb­be vista con maggiore decisione in dire­zione di un freno alla diffusione di inter­pretazioni socialiste, ebbe cioè un signifi­cato decisamente antisocialista e anti­marxista, come tale anche anticomunista e favorì l’antifascismo borghese, caso mai. Ma nello stesso senso non andrebbe sopravvalutato neppure il significato teo­retico del « socialismo liberale », tanto meno poi se si volesse dare ad esso, co­me vuole l ’A., un significato anche attua­le nella fase odierna di ripensamento ge­nerale del marxismo (p. 134). Ma è chia­ro che su questo come su altri giudizi dell’A. (citiamo ancora a p. 252 la valu­tazione a nostro avviso non centrata sul governo Parri come « l ’unico governo di ispirazione socialista del dopoguerra ») molto si potrebbe discutere, anche se probabilmente talune divergenze di valu­tazione scomparirebbero ove non inter­venissero errori di fatto desunti da testi­monianze non sufficientemente controlla­te (è una nostra ipotesi) o da informa­zioni di seconda mano.E siamo anche sicuri che in linea gene­rale un più diretto accesso alle fonti, quanto meno a quelle a stampa, consen­tirebbe — se non altro per l’aspetto qui del resto prevalente del dibattito poli­tico — un maggior respiro proprio allo sviluppo del rapporto dialettico che si instaura tra GL e i comunisti (per i qua­

li non basta utilizzare l ’antologia di « Sta­to operaio » ma occorre ricorrere all’edi­zione originale di quest’organo), tra GL e i socialisti, anche qui utilizzando diret­tamente « Politica socialista » (citata er­roneamente a p. 149 come « Politica nuo­va »).Ci sia consentita un’ultima osservazione al di là della sostanza del libro in paro­la. Nell’aprire il suo lavoro l’A. consta­ta la difficoltà di una ricerca come voleva essere la sua a raggio nazionale in un pae­se come l’Italia e deplora la frantumazio­ne locale di istituzioni culturali e di an­golature di ricerche (p. II): sono rilievi che hanno un riscontro reale nello stato dei nostri studi e delle nostre strutture culturali. Ma una certa arretratezza e il ritardo degli studi sull’antifascismo co­me movimento o come correnti a livello nazionale e nell’emigrazione non sono riconducibili soltanto alle cause indicate dall’A. In realtà senza una grossa ri­cerca d’archivio, che appena oggi inco­mincia ad essere possibile, la storia rea­le dell’antifascismo, della sua consisten­za all’interno, del rapporto tra cellule e movimenti antifascisti e stato reale della società italiana, un lavoro come quello postulato dall’A. non sarebbe possibile e poiché si è partiti, e per molti aspetti ancora si parte da zero, ecco la ragione del fiorire di certi studi locali, con tutte le loro insufficienze e i loro limiti, e non soltanto patriottismo di istituti o di isti­tuzioni. Analogamente si potrebbe dire per un ipotetico lavoro sull’emigrazione antifascista, per il quale non esistono a tutt’ora neppure quei minimi strumenti bio-bibliografici che in Germania per la Exilliteratur sono stati bene o male ap­prontati. È un problema di orientamen­to degli studi ma anche, soprattutto se si valuta la politica archivistica, un proble­ma che va rapportato alle conseguenze di indirizzi di politica generale che fino a un decennio fa non consentivano di programmare un certo tipo di lavoro, né di finanziare certe ricerche. Gli studiosi stranieri fanno fatica a rendersi conto della situazione della ricerca in Italia, e in particolare per quanto riguarda i de­

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cenni passati dalla liberazione, ma non c’è dubbio che molti dei vuoti che ri­scontriamo negli studi sulla nostra storia recente (e che probabilmente tali rimar­ranno ancora per molti anni) vanno ad­debitati a più generali sviluppi politici e culturali e non soltanto a indirizzi di sin­goli più o meno dotati istituti.

Enzo Collotti

Il guerra mondiale

U g o b e r t o A l f a s s i o G r i m a l d i , G h e r a r ­

d o B o z z e t t i , Dieci giugno 1940. Il gior­no della follia, Bari, Laterza, 1974, pp. VIII-504, lire 6.000.Non so se Salvemini l ’abbia lasciato scrit­to da qualche parte, ma chi ha avuto la fortuna di frequentarlo nell’ultimo de­cennio della sua esistenza in Italia ricor­derà un principio che egli continuava a ripetere e che già in passato aveva martel­lato nella testa dei suoi allievi: « La pri­ma regola del metodo storico è l ’intelli­genza ». Questa è la ragione per la quale dubitiamo che agli autori del presente vo­lume si possa attribuire la qualifica di « salveminiani ortodossi » come è stato fatto: di intelligenza, di intelligenza sto­rica intendiamo, in un libro come questo ne abbiamo trovata poca, per la verità. E che Salvemini fosse un puro empirico, proprio non diremmo, altrimenti non ci avrebbe lasciato dei libri che nonostante tutto rimangono.Viceversa di fronte a un libro come que­sto vien fatto di domandarsi: a chi ser­ve? Se voleva essere solo la rievocazione, un pezzo di colore, di una giornata non propriamente come ogni altra, il ricordo di un’atmosfera fatta di mille sensazioni reali e irreali, bastava forse un articolo di giornale o al più di una delle riviste esi­stenti di storia illustrata. Ma un intero libro sul filo di quel « giorno della fol­lia » ci pare un po’ eccessivo: e non solo perché la tesi è storicamente e politica­

mente sbagliata (e oltre tutto implicita­mente contraddetta anche dalla ricostru­zione che dei precedenti fanno gli Auto­ri, sia pure con molte lacune e insuffi­cienze, troppo spesso di seconda mano e dando credito anche eccessivo alla me­morialistica fascista e parafascista) ma an­che perché il contributo effettivo che es­so può recare alla conoscenza degli svi­luppi che portarono l ’Italia all’ingresso nella seconda guerra mondiale è pratica- mente nullo. Può darsi che chi si mette in imprese di questo genere pensi sem­pre a due livelli di conoscenze, uno di carattere scientifico ed uno di carattere divulgativo. D’accordo, anche se noi pen­siamo che la migliore divulgazione non possa mai prescindere da un minimo di fondatezza scientifica. Ma resta il fatto, e qui rivolgiamo l ’interrogativo all’editore, che questo libro viene presentato in una collana che ha ben altre pretese e ambi­zioni e che in molte (non in tutte) occa­sioni a queste pretese e ambizioni, a que­ste premesse ha tenuto fede.

e. c.

A n t o n i n o T r i z z i n o , Traditori in divisa, Milano, Bietti, 1974, pp. 177, lire 4.000.Un titolo scandalistico, un linguaggio semplice e conciso, una struttura essen­ziale, una narrazione sfrondata di ogni particolare: queste in sintesi le carte di presentazione dell’ultima fatica del Trizzi­no, forse fra i più noti ma anche il più discutibile fra gli scrittori di cose mili­tari.Confluiscono nel libro due temi fonda- mentali già ampiamente trattati e ripresi variamente dall’A. in suoi precedenti la­vori: le vicende riguardanti la seconda offensiva britannica in Cirenaica dell’in­verno 1941 (cfr. Gli amici dei nemici) e l’operazione di Gaudo con il successivo tragico scontro di Capo Matapan (cfr. Navi e poltrone). Il volume si apre (gli italo-tedeschi risultano vittoriosi su tut­ta la linea) con un colloquio tra il gene-

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rale italiano Piazzoni e il comandante dell’Afrika Korps; ci viene spiegato co­me l ’abbandono da parte dei tedeschi delle posizioni raggiunte non fu dovuto né a rovesci, né ad esaurimento di mez­zi e neppure alla preponderanza delle forze avversarie ma, al contrario, alla in­sipienza, all’inettitudine, anzi, forse, al­l ’intesa col nemico (così almeno sembra venir suggerito) di alcuni comandanti ita­liani che rifiutarono o mossero con gra­ve ritardo le loro truppe (divisioni Arie­te e Trieste). In tal modo fu impossibile condurre un combattimento d’insieme proprio mentre i britannici stavano per essere accerchiati e severamente battuti. « L’ottava Armata inglese non avrebbe potuto sperare in collaboratori più va­lidi e sicuri di quelli trovati nel comando superiore italiano in Africa settentriona­le » (p. 62). La seconda parte riprende il tema del libro più noto del Trizzino (Navi e poltrone): il « tradimento » del­la marina, causa portante della sconfitta italiana, emerso dall’analisi dei fatti che si venivano a concatenare secondo un lo­gico e preordinato disegno. Restavano da stabilire i nomi dei responsabili e i mezzi con cui costoro avevano comuni­cato con il nemico. È quello che l’A. pensa di poterci dare soffermandosi sulla narrazione dell’operazione di Gaudo. « A- desso sappiamo come e perché moriro­no i tremila marinai italiani a Capo Ma- tapan » (p. 87). Supermarina, nelle for­me degli ammiragli Giartosio, Brenta, Ferreri e Campioni, avrebbero comunica­to via radio alle navi e a Rodi, in detta­glio le operazioni del 28 marzo 1941. Cunningham, venutone a conoscenza sen­za difficoltà, dato il mezzo impiegato per la trasmissione, preparò con comodo in tutti i particolari la trappola di Matapan. I due episodi vengono artificiosamente a confluire e a saldarsi in una spiegazio­ne più generale della nostra sconfitta che si rivolge duramente contro la marina. Perché Malta, chiave di volta della dife­sa inglese del Mediterraneo non venne occupata nell’estate del ’42? La marina era stata uno strenuo e deciso sostenito­re dell’operazione, e, a tutt’oggi, essa

identifica nella mancata occupazione di Malta uno dei fattori che resero inevita­bile la sconfitta di El Alamein e accele­rarono la nostra disfatta. Ma il rinvio e poi l’annullamento dell’operazione non sa­rebbe imputabile all’incapacità dell’OKW di intendere la strategia navale e segna­tamente quella mediterranea, né all’in­fatuazione di Hitler per il miraggio delle piramidi, ma bensì proprio per l ’atteg­giamento della marina (!). La flotta ita­liana, di fronte alla reazione britannica e americana in difesa dell’isola minacciata, sarebbe stata chiamata alla prova supre­ma. Ma poiché Supermarina con la sua condotta, si era resa responsabile del di­sastro di Matapan e della perdita di cen­tinaia di mercantili finiti in fondo al mare lungo le rotte della Libia, lo sbarco di reparti italo-tedeschi a Malta si sareb­be risolto in un disastro ancora peggio­re. La marina non sarebbe intervenuta, le comunicazioni sarebbero state tagliate e le truppe rigettate in mare con ingenti perdite di uomini e di mezzi. Sarebbe stata accelerata la sorte della guerra in quello scacchiere. « Hitler dovette ren­dersene conto e il suo no è probabilmen­te derivato dalla consapevolezza del ri­schio enorme che si sarebbe corso affi­dando alla marina italiana un ruolo così impegnativo » (p. 77).Ora, francamente, la conclusione ci ap­pare, non solo troppo personale, ma così discutibile da parere assurda. Sembra che si sia dissolto anche quello smalto e quella brillantezza caratteristici dei lavo­ri precedenti e quella problematica (se pur discutibile sotto molti aspetti) che li aveva proposti, per qualche spunto, al­l’attenzione degli storici. Arbitrario è in­tanto mettere in relazione le mancanze e le inefficienze dell’esercito con quelle della marina e trarne auspici per il ri­sultato di eventuali future operazioni. Ci furono certo carenze e ben gravi, soprat­tutto nell’esercito, ma non tali da poter­si ritenere predisposte ad un unico fine. Assurdo è poi concepire un atteggia­mento della marina volto a favorire i piani del nemico (per quale ragione?) e, sempre, comunque, negativo. Bastereb-

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be a questo proposito ricordare, proprio nel ’42, il grosso successo ottenuto nella battaglia di mezzo agosto. Nelle opera­zioni per la conquista di Malta la marina sarebbe certamente intervenuta con la consueta abnegazione, e se un giorno le navi fossero rimaste nei porti ciò avrebbe dovuto essere imputato all’assoluta man­canza di nafta. L’appunto, se mai, po­trebbe essere diverso: non aver prepa­rato piani e mezzi adeguati per la con­quista dell’isola prima della guerra (ma si era poi in grado di farlo?) in modo da realizzarne l’occupazione all’apertura delle ostilità. Poche parole, infine, ri­guardo al sottotitolo esemplificativo: « gli sconvolgenti documenti segreti che nessuno doveva conoscere » base por­tante della posizione del Trizzino; cioè, le prove dell’avvenuta trasmissione via radio dei messaggi riguardanti l ’operazio­ne di Gaudo, raccolti e riportati in fo­tocopia in fondo al volume. L’accusa della trasmissione via radio, intercettabi- le dal nemico, l ’A. l ’aveva già formulata contro gli ammiragli Cavagnari, Riccardi e De Courten (capi di SM della marina durante la guerra). Il Tribunale militare di Roma, il 6 marzo 1961, aveva preso la decisione di non doversi pronunciare azione penale contro i tre ammiragli, in quanto risultava da accurate indagini, che la trasmissione degli ordini prelimi­nari di operazione era avvenuta con mezzi non penetrabili dal nemico. Nel ’64, abbandonata la vecchia tesi, il Triz­zino aveva fantasticato che il cifrario o- perativo della nostra marina fosse stato venduto a un agente àelYIntelligence Service, dall’ammiraglio Alberto Lais, ad­detto navale a Washington, nei primi me­si del ’41. Con una sua prefazione, infat­ti, aveva avallato il libro di Montgomery Hyde, I l canadese tranquillo, che pro­spettava appunto tale ipotesi. Nel pro­cesso che ne seguì, per diffamazione, ve­niva accertato che l’ammiraglio Lais non poteva aver consegnato il cifrario operati­vo della nostra marina semplicemente perché non ne era in possesso e veniva riconfermato che gli ordini preliminari di operazione non erano stati trasmessi via

radio. Ora, dei documenti riprodotti in allegato in fondo al volume, il n. 3 ri­vela un espediente del tutto indegno di uno storico. Risulta infatti non solo già noto comunemente, pubblicato dallo stesso ufficio storico della marina nei volumi sulla seconda guerra mondiale, ma riportato con una fondamentale dif­ferenza. La fotocopia è tagliata un poco al di sopra del fondo pagina e in tal modo risulta impossibile leggervi la pa­rola « filo » riguardo il mezzo di trasmis­sione, che appare invece chiaramente nel­l ’edizione del volume dell’ufficio storico. Con tale premessa segue il commento: « ordine di operazione radiotelegrafato da Supermarina alle navi per la missio­ne in Egeo finita tragicamente a Capo Matapan » (p. 129). Certamente, quando si vogliono dimostrare tesi preconcette, non c’è molto riguardo per la serietà del­la ricostruzione storica né molta stima per il lettore.Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, perché tanto spazio dedicato a un lavo­ro di così poco pregio. Intanto, ci sem­brava doverosa una precisazione. In se­condo luogo il libro stesso, così com’è concepito, sottolinea, potremmo dire, « 1’ esaurimento » della nostra memorialistica di guerra, che pur ci ha dato i pregevoli lavori del Bernotti e dello Iachino. E- saurimento che non è solo dello scrittore, ma, ci sembra, dello stesso materiale a disposizione dell’editoria italiana. Abbon­dano le vicende personali, gli appunti slegati e le celebrazioni di maniera, i ricordi senza alcun valore storico, le acri­tiche accettazioni di qualche versione di comodo, le chiacchiere reducistiche con­dite con piatte e scontate considerazioni. Eppure, il discorso sulle cause e sui motivi della nostra sconfitta si presenta a tutt’oggi, estremamente interessante e con una grandissima ricchezza di pro­spettive purché, naturalmente, si abbia voglia e capacità di andare al di là dei soliti schemi. Campo d’indagine dovreb­be essere, prima di tutto, l ’inquinamento delle forze armate prodotto dal fascismo e le sue pesanti conseguenze. Vennero al­lora considerati riprovevoli l ’autonomia

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del pensiero e lo spirito di iniziativa; fu­rono messi in disparte coloro che mani­festavano idee proprie, mentre altri giun­gevano al comando entrando nelle grazie del capo o di quelli che l ’attorniavano. La marina, in particolare, frastornata dai discorsi del fascismo, non percepì o non volle percepire che era da questi con­siderata uno strumento propagandisti­co, un comodo scenario per riviste e parate più che un’organizzazione effi­ciente e moderna per la guerra. Soprat­tutto venne meno nel ventennio ogni contatto con la coscienza, gli interessi e le competenze del paese, elementi essen­ziali di ogni rinnovamento; infine, l’ele­fantiasi burocratica, già presente e da questo accentuata, il moltiplicarsi dei gradi, i favoritismi, i clientelismi politici e la prevalenza di interessi personali. L’A. sembra intendere ad un certo pun­to questa feconda direzione, quando de­dica alcuni cenni alla figura, per la veri­tà squallida, dell’« uomo » Gambara (ge­nerale comandante il corpo d’armata di manovra in Libia). « Abile faccendiere politico, Gambara era riuscito a procu­rarsi agganci molto in alto. Negli stessi giorni in cui sabotava Rommel in Mar- marica, scriveva a Ciano lettere confiden­ziali piene di insolenti denigrazioni con­tro Rommel. Purtroppo non ne riceveva in risposta quei secchi richiami al dove­re che avrebbe meritato. Da un altro amico altolocato, Farinacci, Gambara a- veva sollecitato appoggi perché fossero mandate in Libia soltanto mitragliatrici Breda, escludendo dalle forniture qual­siasi altra fabbrica di armi. La strana ri­chiesta puzzava tanto di speculazione af­faristica che era stata senz’altro respin­ta dal Comando Supremo » (pp. 37 e 38). Ma è una pennellata di costume (in più, il Trizzino, omette di dire da quale fonte trae le notizie) che fa coppia con alcune sferzanti fotografie, ma che non si risolve in un ripensamento e in un ap­profondimento dei temi trattati. Qualche punta, qualche grattata in superficie e si ritorna ai logori e consueti schemi.

Walter Polastro

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C a n d i a n o F a l a s c h i , Gli ultimi giorni del fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 146, lire 900.Questo volumetto raccoglie una serie di articoli di Candiano Falaschi apparsi su « l ’Unità » nel febbraio e nel marzo 1973; si tratta della ricostruzione, non inedita, della preparazione, della cattura e dell’esecuzione di Mussolini e dei prin­cipali responsabili del regime. Gli articoli sono arricchiti dalle testimonianze di al­cuni protagonisti di quelle giornate. La lunga prefazione di Luigi Longo è uno scritto del marzo 1954 che, come ci av­verte FA., oltre a inquadrare storicamen­te gli avvenimenti descritti, vuole essere « una denuncia e una risposta polemica [...] all’animo anticomunista e antipopola­re delle correnti attendiste e conservatri­ci ». Tali posizioni, precisa Longo, non sono un fenomeno legato alla Resistenza, ma rispecchiano l’atteggiamento di quanti ancora oggi vogliono sminuire il ruolo dei comunisti nella lotta antifascista.

a.m.t.

Ebraismo

G u i d o F u b i n i , La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, presentazione di Arturo Carlo Jemolo, Firenze, La Nuova Italia, 1974, pp. 129, lire 2.000.Da molti anni Guido Fubini, autorevole esponente del nucleo israelita italiano, si batte con coraggio ed impegno contro i residui dell’antisemitismo fascista e per una rinnovata presenza degli ebrei nella vita culturale e nel dibattito politico del nostro paese. Sull’uno e sull’altro motivo, con profonda conoscenza della legislazio­ne in materia, il Fubini ritorna ora con questo denso saggio nel quale, attraverso un’accurata analisi di tipo giuridico, è esa­minato l’evolversi della condizione degli ebrei italiani dal periodo napoleonico ai nostri giorni. Per un verso, cioè, è ana­

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lizzato il susseguirsi dei vari provvedi­menti via via più liberali dell’epoca ri­sorgimentale, sino al passo indietro me­dioevale imposto dal fascismo ed al ri­lancio democratico sancito dalla Costitu­zione repubblicana; per un altro sono messe in evidenza le caratteristiche del­l ’organizzazione delle Comunità israeliti­che, con particolare riferimento al signi­ficato del regio decreto del 30 ottobre 1930 che istituiva appunto le Comunità stesse collegandole nell’Unione delle Co­munità.Attivo nel PSI, che ha tra l ’altro rappre­sentato in modo non formale nella Con­ferenza di Bologna per la pace e la giu­stizia del Medio Oriente, il Fubini riba­disce dunque qui in un lavoro organico, nobile e dotto, le sue tesi per una legisla­zione democratica di piena tutela delle minoranze religiose: una legislazione che per essere veramente adeguata dovrà, co­me dimostrano le circostanze storiche, trarre forza e riscontro dalla volontà di partecipazione dei cittadini in genere, ma anche dell’intento innovatore di coloro che del provvedimento sono particolar­mente interessati, nella fattispecie i cit­tadini di religione ebraica.Senza forzature, ma al contrario seguen­do nelle sue varie fasi il problema del rapporto tra ordinamento generale dello stato ed esigenze delle minoranze, l ’A. perviene in sostanza ad individuare due obiettivi da perseguire, tra loro collegati ed interdipendenti: da un lato occorre non solo disattendere le indicazioni costi­tuzionali, ma vivificarle interpretandole dinamicamente; dall’altro è necessario ar­rivare ad una profonda revisione della leg­ge del 1930 pur essendo stata voluta ed accettata a suo tempo dai massimi diri­genti dell’ebraismo italiano. Sul primo aspetto, a testimonianza d’una prassi le­gata a remore e prevenzioni dure a scom­parire sono recati, come esempio, tra gli altri i casi veramente emblematici del processo Durando (del quale personal­mente il Fubini molto si occupò) sulla questione del vilipendio dei culti am­messi, e della richiesta di certificati sani­tari del campo di concentramento di

Auschwitz ad ex-deportati che avevano avanzato domanda di pensione per inva­lidità di guerra. Per ciò che concerne in­vece l ’esigenza d’un superamento della legge del 1930, vero strumento per in­quadrare gli ebrei italiani nella logica to­talitaria del fascismo, oltre a metterne in rilievo i rigidi limiti e le finalità di con­trollo, il volume delinea la battaglia te­nacemente condotta con qualche risulta­to positivo per accantonarne le norme più incongruenti con lo spirito della carta co­stituzionale. Così, dopo circa un decennio di polemiche e discussioni il congresso straordinario delle Comunità israelitiche dell’aprile 1968, quali nuove norme pre­cettive per l ’organizzazione interna, in­troduceva il suffragio universale ed il principio di progressività nella tassazio­ne, istituiva l’assemblea della Comunità quale nuovo organo consultivo, introdu­ceva il principio della rappresentanza delle minoranze e riduceva la durata in carica dei consigli di Comunità e di quel­lo dell’Unione.Indubbiamente, a fondamento delle di­squisizioni del Fubini che non sono mai aridamente tecniche e formalistiche, vi so­no precise scelte politiche e chiari orien­tamenti ideali. Tra questi forse il più ori­ginale è Tessersi sforzati di recepire re­centi determinate spinte radicali e liber­tarie tendenti ad instaurare, a completa­mento della parità di tutti di fronte alla legge, il diritto ad essere se stessi ed a veder salvaguardate e protette le proprie caratteristiche culturali.Sotto molti aspetti questa sorta di riven­dicazione alla quale accenna più volte il Fubini in nome non solo della minoranza israelita, ma di tutte le minoranze esi­stenti e possibili, è validamente motivata e pienamente comprensibile. Da un lato infatti, la durezza della persecuzione su­bita ha legittimamente indotto talune cer­ehie israelite a rifiutare la prospettiva del­l ’assimilazione ed a chiedere di essere aiu­tate nel conservare i costumi e le tradi­zioni avite. Per un altro verso, valutan­do il fenomeno nella sua globalità, lo sta­to non può non considerare un bene cui-

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turale da proteggere la pluralità dei riti, delle usanze, delle liturgie, degli inni, dei linguaggi ecc. ed è quindi quanto mai uti­le sollecitare anche un intervento legisla­tivo che, andando oltre il concetto della uguaglianza dei cittadini e di tutte le con­fessioni di fronte allo stato, incisivamen­te operi per contrastare il processo di massificazione ed omogeneizzazione tipico dell’era consumistica.D’altro canto, come con grande saggezza esorta A.C. Jemolo nella presentazione, è indispensabile che a questo punto tutti —• anche e in specie le minoranze — si impegnino contro gli esclusivismi e gli auto-esclusivismi: contro la creazione di nuovi ghetti e la costruzione di novelle torri, più o meno d’avorio, aspetti specu­lari d’una analoga ed inaccettabile devia­zione. Invero, quando (p. XXIV, p. 124) il Fubini pare riecheggiare formule che, per dirla con il presentatore « sarebbero eccellenti se non si desse tutta una seco­lare esperienza storica contro di loro » giacché « non c’è alcuna ragione logica perché la formica rossa non possa essere in cordiali rapporti con la formica nera, ma in fatto non lo è », sembra egli quasi avviarsi a mettere in ombra quella fun­zione di coordinamento e mediazione, nel

rispetto di ogni membro della società ci­vile, che è dello stato e dei suoi organi, una funzione che sarebbe alquanto ri­schioso deferire ad altre fonti del diritto. Indubbiamente sembra aprirsi cioè l’e­ventualità che l ’aspirazione a rivendicare uno spazio per gli ebrei, induca a presta­bilire per loro un destino fatalmente uni­co, condensato nell’espressione popolo ebraico, quasi che non fosse lecito pure dissentire dalla validità di tale interpre­tazione e di conseguenza non provare al­cuna emozione di fronte all’ipotesi della sua scomparsa.Ma poiché gli « altri » sono in definitiva assai numerosi — dagli zingari ai curdi, dai negri d’America ai palestinesi, agli emigrati dal meridione nel triangolo in­dustriale .—. è presumibile che l’A. non voglia indebolire troppo il potere dello stato nel garantire a ciascuno il diritto di essere quello che vuole: di essere se stesso secondo qualsiasi interpretazione o anche di rifiutare il proprio ambiente e la propria tradizione per cercarsene dei diversi più confacenti alle proprie scel­te ideali, di associarsi e dissociarsi, di non assimilarsi e di assimilarsi.

Guido Valabrega