Movimento cattolico - Istituto Nazionale Ferruccio Parri · 2019. 3. 5. · Movimento cattolico E m...
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Rassegna bibliografica 105
Movimento cattolico
E m i l i o F r a n z i n a , M a r i o I s n e n g h i , S i l
v i o L a n a r o , M a u r i z i o R e b e r s c h a k , L i
v i o V a n z e t t o , Movimento cattolico e sviluppo capitalistico. Atti del Convegno su « Movimento cattolico e sviluppo capitalistico nel Veneto », Venezia-Padova, Marsilio, 1974, pp. 192, lire 3.800.Le motivazioni che stanno alla base del convegno di cui ora l’editore Marsilio pubblica gli Atti sono tutte nella premessa al volume, non senza una certa « enfatizzazione » che, se può essere comprensibile per la novità del settore di ricerca e dei risultati conseguiti, rischia peraltro di dimenticare i limiti di « qualità » dello sviluppo veneto e i ritardi che esso sconta nei confronti del modello capitalistico « puro ». Un modello il quale, per quanto sia oggettivamente astratto, non cessa peraltro di essere il punto di tendenza di un rapporto sociale — il capitale — volto per sua legge intrinseca alla massimizzazione della sua riproduzione.È per questa ragione che mentre si può essere d’accordo nel considerare il Veneto « come l’osservatorio privilegiato per l ’analisi delle modalità e degli effetti dell ’incontro storico tra moderatismo laico e cattolicesimo politico lungo l ’arco del- l ’otto-novecento », nell’individuarvi « un blocco d’ordine capace di gestire lo sviluppo senza rinunciare ai pregi e alle garanzie del sottosviluppo », nell’affermare che « il Veneto cattolico, proponendo una immagine estremizzata del ruolo mondano della chiesa, consente forse lo studio in ingrandimento e in scala più lampante di taluni aspetti nodali dell’Italia cattolica », pare discutibile — e quantomeno non ancora dimostrato — definire la regione veneta il « luogo di gestazione e sperimentazione di un modello di sviluppo, economico e politico, che sopravvanza largamente i confini regionali » che « conosce da quasi un secolo ormai, per isole, i punti alti dello sviluppo: aree d’impatto tra industria e campagna, capitale e rendita, operaio e contadino ». Infatti
questo schema interpretativo non dà ragione né dell’obsolescenza dei settori produttivi, dei bassi tassi di accumulazione del capitale e dell’arretratezza delle forme di organizzazione del lavoro di queste stesse « isole » (il lanificio Rossi di Schio è dal 1896 che ha cessato di essere la più grande industria italiana) né della mancata massiva urbanizzazione, chiave di volta dell’adozione di modelli culturali e di consumo indotti — e a loro volta inducenti lo sviluppo capitalistico. Per non parlare del polo industriale di Porto Mar- ghera che rimane totalmente estraneo e incomprensibile a questo schema — se non fosse, com’è, l ’impatto neocoloniale di una fase più avanzata dello sviluppo nei confronti di un modello — quello veneto — che ricupera la specificità della propria arretratezza in termini di funzionalità all’obiettivo di controllo della conflittualità sociale. Che è ciò che si voleva dimostrare.Fatta salva questa necessaria precisazione, volta a correggere il tiro degli studi che sul « modello di sviluppo veneto » e sul suo blocco di potere capitalistico-cle- ricale sono in gestazione, i risultati pur diseguali di queste ricerche sono da salutare con soddisfazione.Il saggio di Silvio Lanaro (nel frattempo pubblicato anche da « Studi storici », XV, 1974, n. 1) recupera attraverso l’esame della storiografia sul movimento cattolico, applicandola al caso veneto, la convinzione ormai irrinunciabile della inaccettabilità del giudizio che l ’« opposizione cattolica » sia stata un’opposizione effettivamente anticapitalistica e antiborghese — ciò che supporrebbe la « persuasione che il capitalismo italiano, nella fase dell’accumulazione originaria e del decollo industriale, non si ponga mai problemi concreti di integrazione delle classi subordinate, e [dal]l’idea che la prassi politico-istituzionale dello stato unitario si rifaccia al codice ideologico di una borghesia fondamentalmente imbevuta di cultura laica, liberale e risorgimentale ». Infatti l ’analisi del movimento cattolico veneto nelle sue due componenti, in realtà assai più dialettiche e complementari
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di quanto non si creda, dei moderati e degli intransigenti attesta una oggettiva convergenza anche di questi ultimi con i ceti dirigenti « laici » dello stato italiano, nei campi del « comune » e della « politica estera » — come scriveva un anonimo ex-diplomatico sulla « Rassegna nazionale » ancora nel 1884. Non solo: ma la scelta specifica del movimento cattolico nel Veneto fu quella di farsi « sostegno di un tipo di sviluppo industriale gestito dai grandi capitani della manifattura veneta ». Lanaro è pienamente consapevole di quanto detto agli inizi di questa nota, egli stesso riconoscendo che « il Veneto non conosce industrializzazione né sviluppo prima del sorgere del polo di Marghe- ra »; infatti individua con sicurezza la specificità del processo economico e politico di crescita del Veneto laddove osserva che « Schio [e cioè Alessandro Rossi, n.d.r.\ è l ’espressione di uno sviluppo reale delle forze produttive, che però condiziona i propri piani e i propri ritmi al mantenimento in tutto il Veneto dei vecchi rapporti sociali legati alla terra », rapporti che permettono un « regime di compressione dei consumi che è indispensabile a provocare il concorso della rendita fondiaria nell’accumulazione ». Ma se questo è l’elemento che assicura nei suoi termini strutturali l ’alleanza fra movimento cattolico e nascente capitalismo industriale, è anche l’elemento che assicura al Veneto un ritardo storico dello sviluppo che si è poi progressivamente trasformato in un ritardo nello sviluppo. E infatti -—■ continua ancora Lanaro — « il modello del Rossi non è in grado — né d’altra parte pretende — di provocare uno scatto verticale dell’occupazione e di attuare un rovesciamento nella struttura del mercato del lavoro »: questo è il limite storico della realtà veneta e di questo non si tiene sufficientemente conto. Due ultime osservazioni di Lanaro meritano di essere ricordate: da un lato che un esame della sua storia rivela che la « sinistra cattolica non postula né un’inversione né una variante dettagliata del modello complessivo di sviluppo », dall’altro che anche per l ’ala estrema degli intransigenti
veneti, i fratelli Scotton, l’« opificio » cessa di essere « capitalismo » se si innesta « sul rispetto della tradizione e dei rapporti sociali (naturali) »: ciò permette a essi, monsignori e pastori di anime, di continuare a guidare il loro gregge alla salvezza eterna — e quindi di mantenere l ’autonomia (per quanto sempre più relativa) della sovrastruttura ideologico-reli- giosa — anche attraverso le vie tortuose dello sviluppo industriale che pure era destinato a esserne il maggiore beneficiario.Sulla linea di Lanaro si muove il saggio di Emilio Franzina il quale esamina il rapporto fra intransigenti e clerico-mode- rati in particolare nella provincia di Vicenza. Un rapporto — si è detto — dialettico perché indirizzato per vie diverse (sono gli intransigenti che controllano le parrocchie e le masse popolari cattoliche, mentre spetta ai moderati battere nuove vie di accordo politico e ideologico con lo sviluppo capitalistico) a un medesimo fine di « stabilizzazione sociale ». Quindi se è vero che sul piano dell’ideologia, intesa propriamente come « falsa coscienza », quella degl’intransigenti rimane una ideologia di tipo reazionario e precapitalistico — come ebbe a notare Mario Sabbatini più di dieci anni or sono — è altrettanto vero che sul piano pratico ciò non solo non impedì ma anzi mediò nei confronti delle masse rurali cattoliche la necessità dell’accumulazione capitalistica ottenuta attraverso il sottoconsumo, l’emigrazione e il paternalismo delle relazioni industriali. Lo stanno a mostrare « gli spunti di nazionalismo e di malcelato imperialismo puntualmente emergenti nello stesso campo cattolico in concomitanza con la presa in esame dei problemi di carattere migratorio » come pure la già intuita e ora da Franzina evidenziata « netta prevalenza che sulla stampa intransigente fanno registrare, negli articoli d’interesse economico-sociale, le polemiche antisocialistiche a confronto di quelle dirette a colpire gli orientamenti della pur odiata compagine « liberalesca » alla quale, alla fin fine, veniva rimproverata solo la sua scarsa incisività a livello di massa
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(che veniva dunque a richiedere l’intervento intransigente).Un breve saggio di Livio Vanzetto, che esamina il settimanale clericale della diocesi di Treviso « Vita del popolo » dal 1890 al 1902, verifica in questo settore specifico i risultati raggiunti dai due saggi precedenti: in particolare la « doppiezza » della posizione intransigente, il suo antisocialismo di fondo e il suo antiliberalismo contingente che giunge ad accordi elettorali coi liberali, l ’emarginazione degli intransigenti dal giornale ad opera dei clerico-moderati come scelta dettata necessariamente dallo stesso sviluppo capitalistico la cui acutizzazione dei conflitti di classe cominciava a vedere pericoloso lo stesso ideologico « antiborghesismo » di cui si ammantava il giornale intransigente.
Dopo un saggio di Mario Isnenghi che riprende sostanzialmente il libro recensito in queste stesse pagine, chiude la raccolta un saggio di Maurizio Reberschak sui cattolici veneti tra fascismo e antifascismo che intende ricostruire « il collegamento fra gli aspetti sfumati di una presenza contraddittoria e in cerca di definizione durante il regime fascista [...] e l ’inequivocabile e saldo blocco di potere che esplode nel secondo dopoguerra ». La ricognizione sulle conoscenze attuali non lascia ombra di dubbio che per il clero non può assolutamente parlarsi di « antifascismo »: in esso prevalse « un’idea religiosa e politica di lealismo e di autoritarismo, che si traduceva concretamente in un supporto al nazionalismo e al colonialismo ». Il nemico, come era trent’anni prima il socialismo, ora era diventato il comuniSmo. E dentro questa linea di condotta rientrano pienamente anche il distacco del clero veneto dalla Repubblica sociale e il suo affiancamento al movimento di liberazione per il fatto che « da una parte i cattolici si erano riorganizzati politicamente e si affacciavano alla ribalta come nuovo gruppo dirigente, che offriva la garanzia di una continuità con la tradizione dello stato liberale e che poteva accattivarsi la fiducia delle al
te sfere del capitalismo; dall’altra i preti non avrebbero rinunciato alla loro qualifica di ’guida spirituale’ delle masse rurali, che la resistenza riuscì a mobilitare ». Il laicato cattolico veneto, come corroborò soprattutto l ’ala destra del partito popolare, così nel ventennio fascista andò preparandosi a ricevere l ’eredità della direzione dello stato conformemente alle indicazioni vaticane filtrate dalla FU CI e dal Movimento laureati cattolici. A partire dal 1943 si incominciano a stringere le fila del nuovo partito dei cattolici con una composizione che si rivela essere tale da far saltare il vecchio schema tradizionale (vecchi popolari + intellettuali fucini + laici del movimento guelfo) — e questo sì modello probabilmente esportabile al di fuori della regione veneta e proponibile come chiave interpretativa della formazione della democrazia cristiana! Nel Veneto dunque a un primitivo strato di antichi popolari e di provenienti dall’Azione cattolica si sovrappose prima la « nuova » generazione di giovani professionisti, antifascisti della « seconda ora » e infine e definitivamente il gruppo « dei veri esperti e dei provati tecnici, non solo, e non tanto, nella conduzione del partito, quanto nella prefigurazione di una nuova classe dirigente in grado di raccogliere la guida dello stato, che sarebbe uscito dall’eredità fascista ». Fra costoro la figura forse meno nota, ma certo la più importante per comprendere fin nelle intime sfumature lo stretto connubio fra movimento cattolico e ceto capitalistico veneto, è quel Piero Mentasti su cui Reberschak va conducendo una ricerca che porterà chiarezza su questo « nodo » fondamentale di natura teorico-pratica.
Maurizio Maddalena
G i a n n i B a g e t - B o z z o , I l partito cristiano al potere. La De di De Gasperi e di Dos- setti 1945-1954, Firenze, Vallecchi, 1974, 2 voli., pp. 572, lire 8.000.Due concezioni del « partito cristiano » si fronteggiarono nel primo decennio de
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mocristiano. Da una parte quella dega- speriana, empirica e mediatrice, aperta al confluire dei voti laici, che vedeva nella Democrazia cristiana il « partito dei cattolici », la cui credibilità ed autorità sul piano interno ed internazionale dipendevano dalla garanzia per essa offerta dalla Chiesa cattolica; dall’altra quella di Dossetti, che fin dal dicembre 1946 s’era presentata come « la presa di coscienza della propria autonomia da parte della nuova generazione democristiana », di quanti cioè avevano maturato il loro « antifascismo cristiano » all’ombra del fascio littorio e di Pio XI. « Dossetti, come Gemelli nel 1919, — scrive Baget- Bozzo — si rifaceva all’originalità di cui la realtà cattolica era portatrice, opponendola a una linea politica [quella di De Gasperi] considerata più come una formula tattica che come un atto di creatività » (pp. 142-143).Attorno a questo contrasto centrale Ba- get-Bozzo ricostruisce una fitta e pedante cronaca delle vicende interne della Democrazia cristiana dal 1945 al 1954. Le ambizioni dell’autore erano in realtà rivolte ben oltre: il proposito — enunciato nella Premessa — era quello di analizzare i modi attraverso cui la DC, quale « partito cristiano », « ottiene la preminenza nel governo e giunge a conseguire per una legislatura la maggioranza assoluta in parlamento» (p. 1). «Esperienza storica significativa », la chiama giustamente Baget-Bozzo, che si impegna anche ad inquadrarla in una concezione teorica dei rapporti tra partito e società civile, in cui al primo spetta una funzione attiva e condizionante rispetto alle scelte che la seconda compie: « un partito non è un semplice riflesso dei rapporti sociali [...] ma nasce da un’interpretazione della realtà sociale » (pp. 2-3). Sulla base di queste considerazioni, il momento centrale per interpretare correttamente la storia della DC è quello della « sua cultura » e delle « forme in cui questa si articola ». Chi cercasse di classificare la DC « sulla base degli interessi sociali espressi » — afferma Baget-Bozzo con un’argomentazione « a contrario » di dubbia solidità —
troverebbe l’impresa assai difficile: la DC ha infatti espresso il « bisogno profondo della società post-fascista [...] di una convivenza fondata sulla mediazione delle parti politiche e sociali »; e il risultato da essa ottenuto (indubbiamente un po’ panglossiano: « una società in cui la politica è demitizzata quasi senza limiti, i valori statuali, esaltati dal Risorgimento e dal fascismo, privati di ogni significato, ma dove le forze politiche e sociali possono dispiegarsi compiutamente », (p. 6) è la prova di quanto, tra il 1945 e il 1948, « la cultura fondante del partito cristiano e i bisogni politici del paese » fossero in reciproca corrispondenza. Mediazione, dunque, a tutti i livelli: tra Chiesa cattolica e società politica, tra le diverse esigenze della società civile, e infine all’interno stesso del partito cristiano, attraverso l’esistenza delle correnti, le quali altro non sono se non « varie possibilità d’interpretazione del partito cristiano » (pp. 4-5).Tale criterio della « mediazione » come caratteristica primaria della DC è fin troppo evidente e fin troppo dilatabile al tempo stesso, tanto da non costituire in realtà una categoria sufficiente a misurare con un minimo di credibilità il significato ed i fini di un partito o di una forza politica. Tuttavia, rispetto all’uso che altri ne hanno fatto, l ’operazione di Baget- Bozzo si rivela singolarmente seria ed onesta, nella misura almeno in cui egli si impegna a dare alla « mediazione » almeno un retroterra ideologico e culturale. Una dissertazione iniziale sulla collocazione dei problemi della politica e della storia all’interno della visione cristiana della realtà permette infatti a Baget-Bozzo di mettere in luce le radici ideologiche profonde del « partito cristiano », muovendo dal Nuovo Testamento per giungere al Concilio vaticano secondo. Anche in questo caso non si tratta di un’analisi politicamente asettica: il continuo richiamo ai tre schemi fondamentali di teologia della politica (eusebiano, gelasiano ed agostiniano) non solo sottolinea, pur schematicamente, elementi di conti
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nuità dottrinale evidente, ma soprattutto si prefìgge di mettere in luce come l ’atteggiamento maturato nella Chiesa postconciliare porti alla rottura con ogni schema precedente, spinga a fare della politicità della Chiesa, in una prospettiva « storico-escatologica », « una dimensione essenziale della Chiesa stessa » e a porla « in alternativa e contrasto con la politicità dello stato in quanto tale », mentre viene negata « l ’esistenza di un sistema socialcristiano che possa diventare programma politico » (p. 43). In questa prospettiva l ’ipotesi del « partito cristiano », che media tra la Chiesa e la società politica, è dissolta; ma proprio grazie alla sua origine la Democrazia cristiana — conclude Baget-Bozzo cinquecento pagine più avanti — può proporsi già nel 1954 « come il partito della mediazione pura », « senza alcun riferimento teologico »: « la politica della mediazione avrebbe costituito il volto pubblico del partito, il suo unico nucleo teorico riconosciuto » (p. 547). Potrebbe sembrare, a chi è disposto a seguire con candore l’analisi delle varie ispirazioni delle correnti democristiane, un giudizio negativo sull’esito di un decennio di politica democristiana. È invece, a ben guardare, una patente di legittimazione concessa al partito del potere contro quei cristiani che della loro fede sono disposti a fare un’arma di lotta contro la democrazia cristiana.Ma nell’opera di Baget-Bozzo l ’argomentazione conclusiva è giustapposta ad una narrazione scarsamente compatta, interessata più allo scontro marginale, di gruppo o di corrente, che al fondarsi del potere reale del partito democristiano in Italia. Dati esterni e sovrapposti risultano pertanto il recupero della tradizione cattolica e il richiamo alle elaborazioni ideologiche della dottrina sociale cristiana. D’altra parte, se il partito cattolico è mediazione tra Chiesa e società politica, dovrebbe pur esserci materia per individuare il carattere della Chiesa pacelliana, per comprendere più a fondo di quanto non sia possibile attraverso gli schematici richiami agli atti politici di Pio XII la realtà di un mondo cattolico che non era
forse tanto lineare e grezzo quanto può apparire se si studia il pensiero di Luigi Gedda.A questa povertà di approfondimento in merito agli orientamenti del primo dei termini di mediazione, fa preciso riscontro una sommaria e sbrigativa considerazione del secondo. La società politica è infatti ritratta alla luce violenta dello spirito del 18 aprile: comunisti e socialisti sono solo i servi di Mosca, monarchici e destre gli alleati necessari, se pur poco graditi. Né si può tacere che la volgarità di simili riferimenti giunge alla pura e semplice denigrazione; si vedano, a mo’ d’esempio, le pagine dedicate alle vicende della « legge truffa », nelle quali si possono leggere affermazioni di cui ci sembra doveroso fornire al lettore almeno un saggio: « Che il PCI accettasse la collusione con i partiti di destra apparve dalla proposta a- vanzata da Togliatti di un referendum sul disegno di legge elettorale, che avrebbe condotto sinistre e destre a combattere per lo stesso obiettivo e a saldarle in una lotta comune. L’antifascismo, infatti, ebbe una parte assai poco rilevante nella politica comunista dei primi anni cinquanta » (pp. 442-443).Entro i limiti assai angusti di un discorso storico-politico così caratterizzato, Baget- Bozzo svolge un’analisi delle figure contrapposte di De Gasperi e Dossetti. È certo il tema più interessante dell’intero lavoro, il solo in cui le componenti dell ’analisi si saldino in modo efficace e l’interpretazione appaia in qualche modo convincente. I « due miti », « sia quello di De Gasperi ‘laico’ e ‘liberale’ e quello di Dossetti ‘integralista’» sono fortemente «inesatti». «Ciò che aveva [...] opposto De Gasperi e Dossetti era una diversa cultura, una diversa teologia della politica » (p. 398): il giudizio di Baget-Bozzo sembra su questo punto aprire le possibilità di un discorso diverso, per quanto riguarda sia i rapporti interni al partito sia la dialettica con le altre forze politiche, rispetto a quanto sostiene la corrente storiografia, sorda o indifferente alle componenti di una tradizione cultu-
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rale che Baget-Bozzo sa esplorare con estrema puntualità. Contestare l ’ispirazione laica e liberale di De Gasperi può in effetti significare mettere in discussione il mito dell’« uomo solo » e ricondurlo a proporzioni forse più modeste, ma certo più feconde per la comprensione dello sviluppo della DC e dei suoi rapporti con le varie componenti dell’intero mondo cattolico; mentre, per quanto riguarda Dos- setti, la forte sottolineatura delle richieste tendenti alla « creazione di uno Stato fondato sulla partecipazione popolare, in cui l ’iniziativa cristiana [...] fosse il cuore stesso della partecipazione e potesse sostituire l ’impegno della sinistra » socialista e comunista (p. 159), propone interrogativi che investono, oltre la Democrazia cristiana, tutte le illusioni sulla solidarietà tra i partiti di massa, su cui s’era- no fondate le speranze della democrazia progressiva.Se nell’opera di Baget-Bozzo questi problemi restano allo stadio di proposizioni, ciò non sembra dovuto solo ad una scelta metodologica — una storia politica nel senso più restrittivo — che ci sembra profondamente arretrata e infeconda; ma dipende soprattutto dalla volontà di creare parametri di giudizio politico mistificanti e in ogni caso sordi a quanto di positivo vive, malgrado la DC, nel cattolicesimo italiano postconciliare.
Luigi Ganapini
M a r i o I s n e n g h i , Stampa di parrocchia nel Veneto, Padova, Marsilio, 1973, pp. 168, lire 1.800.In questi ultimi tempi un rinnovato interesse si è rivolto alla realtà socio-economica del Veneto e al blocco di potere che ne ha gestito lo sviluppo. Libri, articoli, corsi universitari stanno affrontando ognuno dal suo angolo disciplinare il problema di questo singolare « modello di sviluppo » che viene a coincidere nella sua essenza con la « questione cattolica » e con la « questione democristiana ». Si può dire che è stata un’urgenza pratica
— intesa nel senso migliore del termine— a richiedere una risposta non più elusiva alla tematica che caratterizza a ogni livello l ’assetto regionale.In questa prospettiva si pone il presente contributo di Mario Isnenghi che esplora il mondo assai poco noto della stampa clericale e cerca di individuare la funzione specifica da essa svolta nel campo so- vrastrutturale al fine di creare un consenso ideologico di massa alle scelte operate dallo sviluppo capitalistico. È un sorta di « blocco storico » — di segno opposto— che è riuscito fino ai tempi più recenti a legare le classi subalterne del Veneto a scelte di politica economica le quali andavano in direzione radicalmente contraria ai loro interessi. Capire come e perché ciò sia avvenuto è compito essenziale di chi voglia recuperare una « organicità » del proprio lavoro intellettuale.Per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno dei settimanali diocesani basta ricordare che nelle Tre Venezie si stampano ben 16 giornali per un totale di 300 mila copie complessive su un totale nazionale di 700.000 copie. Ma a chi sono diretti? chi li legge? e che dicono? Il rapporto che questi giornali stringono con la realtà sociale circostante ha un elemento di continuità con la situazione del resto d’Italia e un elemento di differenziazione: sono essi stessi un fenomeno al tramonto, via via più sfasato rispetto al sistema di valori, laico e consumistico, imposto dalla società capitalistica, però combattono una efficace battaglia difensiva, d’arresto che rallenta la presa di coscienza da parte delle masse contadine e contadino-operaie dell’opposizione d’interessi rispetto all’attuale modello di sviluppo, in attesa di una nuova, superiore capacità di aggregazione sociale. Quanto il problema della stampa diocesana sia, nonostante tutto, ancora sottovalutato lo attesta un sondaggio effettuato dall’A. fra i corrispondenti provinciali dei quotidiani ufficiali del PCI e del PSI sull’incidenza dei rispettivi settimanali diocesani: la risposta è stata il silenzio o l ’assoluta ignoranza del fenomeno. Intuitivamente parrebbe ovvio ipotizza-
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re una correlazione diretta fra diffusione dei giornali diocesani e sottosviluppo socio-economico: quanto diminuisce quest’ultimo, aprendo la via a un modello di vita urbano-industriale, tanto diminuiscono tiratura e diffusione di quelli. In realtà anche nel nostro caso il semplicismo di questa correlazione, che sottintende un approccio economicistico, non viene convalidato dai dati empirici i quali riconfermano l’autonomia relativa della sovrastruttura Infatti se è vero che le campagne leggono ancora il giornale diocesano mentre le città non lo leggono quasi più, è altrettanto vero che nel Veneto urbanesimo e industrializzazione non coincidono. Le città venete sono terziarie — e ancor più lo divengono nel loro attuale accrescimento; l’industrializzazione veneta è diffusiva — o frammentata — nel territorio, si sviluppa nella dimensione della piccola e media industria (70 per cento del totale degli addetti all’industria), vede la presenza del doppio lavoro nella figura dell’operaio-contadino — questi alcuni elemento fenomenici del « modello di sviluppo veneto ». Questa realtà l’A. individua attraverso l ’esame dei giornali di curia. La stessa struttura produttiva e l ’organizzazione del lavoro del foglio diocesano lo attestano: l ’elaborazione dei contenuti, che pure avviene al vertice, realizza contemporaneamente una forma di interscambio imperfetto con la base territoriale e sociale nella figura, in primo luogo, del direttore, sacerdote, di origine agricola, di famiglia di modesta condizione; dei corrispondenti locali, il più spesso parroci o maestri elementari — tipiche figure d’intellettuale organico contadino; dei difensori che appartengono allo stesso strato sociale dei lettori. Tutto induce a fare del giornale diocesano « un’emanazione in qualche modo riconosciuta e partecipata dal basso », anche se la scelta e la rielaborazione dei materiali fatta al centro, nella città — per questa ragione l ’interscambio è imperfetto — dà luogo all’« egemonia di uno strato selezionato di intellettuali di curia sul mondo rurale ».Certamente non si tratta più dell’egemo
nia esercitata nei decenni passati. L’omogeneità sociale del tessuto rurale è rotta — e definitivamente; il giornale di curia ha ormai rinunciato a rivolgersi a tutto il popolo, « vede via via assottigliarsi le possibilità di ricoprire il suo antico ruolo di intellettuale collettivo di un gruppo organico, di una società integrata in un blocco intercorporativo di condizioni e di interessi, unificato dai comportamenti e da un codice ». Ma il loro guardare al passato, il riproporre modelli di vita individuale e associata ormai « ideologici » permette ai giornali cattolici di incunearsi come componente tendenzialmente marginale, ma ancora non priva d’ascolto, nella crisi di identità prodotta dal passaggio da un modello di vita rurale, statico e di sussistenza al nuovo modello di vita industriale, dinamico e di consumo (crisi permettendo — e comunque come nuova concrezione ideologica) in assenza di una tradizione e di una pratica di organizzazione di classe operaia. Si tratta quindi di un elemento della mediazione sociale che nel Veneto ha lunga vita (si può risalire ad Alessandro Rossi) e che cerca di mantenere una continuità in funzione del controllo sociale — o in subordine di mitigarne gli elementi dirompenti. Tale va quindi considerato il « giornale di parrocchia », per quanto il blocco di potere si sia spostato verso concezioni più « scoperte », più laiche, più razionalizzate, più tipicamente capitalistiche. Il fatto che l’ideologia del settimanale diocesano non sia ancora considerata inutile attesta però la debolezza del capitalismo veneto e del suo modello di sviluppo. Ogni settimanale diocesano ha il suo particolare modello tematico-espressivo: TA. determina una tipologia la quale va dall ’uso del « liturgico » come fuga da una concretezza che viene appaltata al locale quotidiano « laico » ma sicuro (« Il Gazzettino », « Il Messaggero veneto »), all ’individuazione dello specifico provinciale come strumento di collegamento organico con un territorio e una popolazione che il quotidiano laico non raggiunge se non a stento o malamente (ed è proprio delle province maggiormente agricole),
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al rifugio in un integrismo reazionario e nazionalistico — è il caso di « Vita Nuova » di Trieste — prodotto dalla mancanza di un interlocutore subalterno e di una tradizione consolidata.Questa prima parte più critica e problematica viene poi dall’A. verificata analiticamente con l ’esame storico del settimanale diocesano di Padova « La difesa del popolo » dalla fondazione ai giorni nostri e con Pesame comparato del linguaggio e di una serie di temi d’attualità nei settimanali diocesani delle Tre Venezie. Ne risulta un altro elemento di estremo interesse perché convalidante, anche in questo settore specifico, un’ipotesi generale già avanzata nel corso delle ricerche sul movimento cattolico veneto: il populismo antiborghese, espressione verso le classi subalterne dell’intransigenti- smo clericale del secolo scorso, si continua tuttora — ma in funzione squisitamente conservatrice, e perciò realmente antioperaia.
Maurizio Maddalena
Movimento operaio
AA. W ., I comunisti a Torino 1919-1972. Lezioni e testimonianze, prefazione di G. C. P a j e t t a , Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 338, lire 3.000.Il volume raccoglie i risultati di una iniziativa dell’Unione Culturale torinese che nella primavera del 1973 organizzò una serie di lezioni, sette in tutto, sulla storia del PCI a Torino dalla fondazione del partito agli ultimi anni. L’iniziativa, e il volume che ne è derivato, si inseriscono nel ricco panorama di studi e di raccolta di testimonianze a cui ha dato origine il 50° anniversario della fondazione del partito (per un primo esame critico di questi contributi si veda la rassegna curata da A. Scalpelli nel numero di luglio-settembre 1974 di « Italia Contemporanea »). Il carattere originale del lavoro è costituito dal fatto che esso rappresenta, se non
andiamo errati, il primo tentativo di vedere l ’intera storia del partito ripensata attraverso l ’angolatura di una organizzazione locale, sia pure importante sotto il profilo organizzativo e politico come l ’organizzazione torinese è stata nel passato ed è nel presente della vita del PCI. Accanto a questo primo elemento, ci pare di dover subito sottolineare lo sforzo compiuto per superare certe date canoniche della storiografia del movimento operaio, aprendo le porte ad un sempre più necessario lavoro di riflessione da parte delle organizzazioni operaie sulle loro più recenti esperienze.Questi caratteri ci sembrano di per sé sufficienti a suffragare un giudizio complessivamente positivo del volume, anche se non vanno taciuti alcuni limiti in parte riconducibili all’impostazione generale delle lezioni, in parte al taglio che ciascun autore ha ritenuto opportuno dare alla sua esposizione.Concepite secondo uno schema quasi esclusivamente cronologico, le relazioni presentano sfasature e salti metodologici per cui alcune si limitano a fare il punto sulla base di dati ormai acquisiti, altre tendono a risultati originali; alcune restano eccessivamente chiuse nella dimensione locale, altre la superano forse con eccessiva disinvoltura; né le testimonianze che accompagnano le lezioni risultano sempre con esse congruenti. Ma su questi limiti, inevitabili quando un contributo collettivo non può essere a lungo preparato e coordinato per evidenti ragioni pratiche, non è il caso di insistere.Più interessante ci sembra tentare la verifica di come vengano affrontati quei temi, che per il loro rilievo nell’elaborazione complessiva del partito, possono costituire un punto di riferimento comune a tutto il lavoro: tra questi, centrale per l ’esperienza torinese risulta senz’altro il rapporto tra lotte sociali e lotta politica, tra lotta di classe in fabbrica e definizione della linea politica dei comunisti.La fabbrica, momento qualificante e centrale della nascita del partito con l ’esperienza esemplare dell’Órdine Nuovo (a
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cui è dedicata la prima lezione di R. De Felice), è sicuramente centro qualificante della presenza del partito a Torino nei lunghi anni della clandestinità, come illustra con cura di particolari la relazione di C. Pillon, ma appare già come centro importante ma non più privilegiato di iniziativa politica nella Resistenza; giustamente A. Agosti sottolinea le difficoltà e le contraddizioni che si aprono nel partito e nelle fabbriche a Torino nel passaggio dal vecchio modello di partito, al « partito nuovo » di Togliatti, strumento per realizzare una linea nuova che vede i partiti, le istituzioni, lo stato democratico come terreno primario di applicazione. Purtroppo la relazione di L . Gruppi, troppo «ufficiale » nell’impostazione generale, troppo scarna di elementi locali, non affronta esplicitamente, per gli anni della ricostruzione, il tema della realizzazione della nuova linea, a cui dedica invece un notevole approfondimento critico S. Garavini per gli anni ’50. Analizzando le cause internazionali e nazionali della forte ripresa dell’iniziativa capitalistica e delle conseguenti difficoltà del movimento operaio, Garavini colloca tra di esse 1’allentarsi del rapporto tra partito e fabbrica: la fabbrica negli anni ’50 resta come estrema roccaforte spesso « e- roica » di difesa del partito, ma non garantisce più al partito la forza e la creatività necessarie per rispondere all ’avversario di classe. Ai tentativi di recupero di un rapporto più pieno danno ampio spazio la relazione di G. Amyot per il decennio 1955-65 e soprattutto quella di A. Minucci per gli ultimi anni. Sull’onda della ripresa delle lotte operaie degli anni ’60, i comunisti ricercano con numerose iniziative, raccontate in modo esemplare da Minucci, un nuovo rapporto con le grandi fabbriche torinesi; ma si tratta di un processo non facile sia per le imponenti trasformazioni che la fabbrica ha subito, sia perché di queste trasformazioni si è fatto più tempestivo interprete il « nuovo » soggetto politico di questi anni, il sindacato.
Claudio Dellavalle
R e n a t o J a c u m i n , Lotte contadine nel Friuli Orientale. 1891-1923, a cura dell ’Istituto Friulano per la storia del Movimento di Liberazione, Udine, Doretti Editore, 1974, pp. 522, lire 3.000.
L’attività di promozione e rinnovamento degli studi di storia locale svolta dall ’Istituto Friulano per la storia del Movimento di Liberazione sta dando i suoi frutti, anche al di fuori dell’ambito strettamente resistenziale. Ne è esempio quest’opera che colma una grossa lacuna nella disponibilità di studi sulla storia recente friulana, affrontando il problema della lotta di classe nelle campagne nel primo dopoguerra.Il libro dello Jacumin ricostruise l ’operato delle organizzazioni contadine cattoliche e socialiste nel Friuli ex-austriaco, prendento le mosse dal primo associazionismo cattolico inserito nella struttura paternalistica e garantista dell’impero austroungarico, durante il periodo precedente la guerra mondiale. Dedica comunque la parte di gran lunga preponderante all’affermarsi nel dopoguerra del movimento socialista e alla contemporanea riorganizzazione e ripresa delle organizzazioni cattoliche. Per questo periodo il lavoro si incentra sulla figura di Giovanni Minut, tecnico agrario friulano, di origine contadina, dirigente socialista e poi comunista della Federterra, di cui fu segretario provinciale dal 1919 al 1921, e sulla sua attività di organizzatore di masse sempre più vaste di contadini, soprattutto coloni, e di promotore di ampie e combattute lotte per la conquista del patto colonico collettivo e la soppressione delle disdette. È un crescere organizzativo strettamento legato all’allargarsi delle lotte, testimoniato dal capillare intervento del Minut in ogni centro agricolo, che lo Jacumin puntualmente riporta, nettamente contrapposto nei modi e nei fini all’intervento del movimento cattolico; questo soprattutto per la preminenza data dal Minut all’azione sindacale come momento di erosione del predominio di classe
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degli agrari e creazione di sempre nuovi equilibri nelle campagne, tendenti all’obiettivo finale della socializzazione della terra nella forma dell’affittanza collettiva. Elemento questo di contrasto con la direzione riformista del movimento socialista, che porterà ad un’accesa polemica al momento del passaggio del Minut al PCd’I, che coincide con il suo allontanamento dalla segreteria. Polemica cui l ’A. dedica molto spazio, forse troppo rispetto all’economia generale della trattazione, con lunghi riferimenti testuali agli articoli che segnano lo svolgersi del contrasto.Il tipo appunto di fonti usate, stampa locale di partito, e l ’abbondante, in certi casi eccessivo, uso della citazione diretta degli articoli, oltre che rendere faticosa la lettura, porta a un quadro spesso parziale e frammentario della situazione reale, nelle sue articolazioni politiche e sociali. Si sente l’assenza di una interpretazione globale che unifichi i diversi momenti di dibattito e di scontro in un quadro generale. Forse è frutto di un’ottica eccessivamente localistica, ma appare immediatamente evidente un insufficiente collegamento alla situazione politica, all’articolazione delle lotte di massa, alle posizioni dei partiti a livello nazionale, che spesso appare semplice giustapposizione senza trasformarsi in organico inserimento della problematica locale, pur con la sua specificità, in quella complessiva delle lotte politiche e sociali del dopoguerra in Italia.Da qui perciò il privilegiare momenti esteriori, personalistici, come la polemica tra Minut e i socialisti e le sue a- sprezze, di fronte a una analisi approfondita ed articolata delle posizioni reciproche del PSI e del PCd’I su quei problemi e in quel momento.La stessa carenza di fondo si riscontra riguardo al movimento cattolico, al suo contrapporsi a quello socialista nelle campagne, ai problemi dell’atteggiamento di questi di fronte all’insorgere preponderante del fascismo.Su questo punto l ’interpretazione dello
Jacumin, per cui gli accesi contrasti tra comunisti e socialisti avrebbero indebolito le capacità combattive delle masse contro il fascismo, di contro alle maggiori garanzie offerte dall’associazionismo cattolico per la sua compattezza interna e la maggior rispondenza alle esigenze contadine appare limitata e settoriale, non considerando i reali rapporti di forza nelle campagne, le modificazioni che vi apportava il fascismo agrario e, ancora, l’analisi complessiva delle posizioni dei partiti, cui fanno capo le organizzazioni contadine. Soprattutto non considera i motivi di debolezza dello stesso movimento cattolico di fronte all’avanzata del fascismo: ad esempio le divergenze di valutazione del fenomeno fascista tra gli stessi esponenti cattolici, l ’atteggiamento a questo riguardo delle gerarchie e del Vaticano, l ’importanza nell’ambito delle organizzazioni cooperative degli istituti di credito e l ’integrazione di questi nella organizzazione del capitale. Indipendentemente da questi limiti l ’opera dello Jacumin ha il merito di una estrema puntualià e completezza d’informazione, portando un contributo notevole e approfondito su un problema finora molto limitatamente studiato, con un quadro complessivo vastissimo delle condizioni di vita e della situazione politica e sociale della zona in esame: zona estremamente interessante rispetto al resto del Friuli, anche rispetto alle esperienze successive durante il fascismo, la Resistenza e il dopoguerra. Di notevole valore e stimolo è infine la minuziosa ricostruzione della crescita delle organizzazioni, delle lotte portate avanti e dei dibattiti che determinarono, con un vastissimo apporto diretto di fonti di stampa e testi di accordi tra organizzazioni contadine e agrarie.In ultima analisi un libro utilissimo per il grande apporto di fonti e materiale inedito, per la novità dei temi che affronta e per i problemi che in questa maniera apre.
Gian Carlo Bertuzzi
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V i c t o r S e r g e , Vita e morte di Trotskij, Bari, Laterza, 1973, pp. 360, lire 4.500.
Vladimir Kibalcic, figlio dell’autore, avverte in una premessa al libro, che l ’opera venne concepita inizialmente come raccolta di memorie di Natalja Ivanovna Sedova, la moglie di Trotskij. Victor Serge non avrebbe dovuto che essere l ’estensore di tali memorie, ma a firmare l ’opera avrebbe dovuto essere la Sedova, la quale alla fine rivide e corresse tutta l’opera pur insistendo perché comparisse soltanto Victor Serge come autore.È importante questa premessa perché essa fornisce anche la chiave di lettura del libro. Per di più va sottolineato che il libro fu terminato nel 1946, quasi trent’anni fa e ciò ce lo fa oggi apparire insufficiente e parziale rispetto, per far un esempio, a quello di Isaac Deut- scher, ben più disincantato e ricco sia sul piano della pura biografia personale che sul piano delle vicende politiche di cui Trotskij fu protagonista di primo piano.In questo lavoro di Serge si avverte la presenza di un suggeritore chiaramente indicato nell’atteggiamento affettivo sia della moglie che dell’autore che pure subì, per i suoi rapporti con Trotskij, la persecuzione staliniana. Di qui il taglio dell’opera che ha il sapore del ricordo commosso, di una rievocazione in chiave di sentimento, ma ignora o sfugge alle motivazioni politiche degli atteggiamenti di Trotskij nelle varie fasi della sua vita. Serge si rivela attento ai dati biografici della personalità potente di Trotskij, ma non altrettanto avvertito di fronte ai complessi problemi della vita politica tumultuosa del rivoluzionario comunista. Un libro quindi forse valido nel 1946, quando venne concluso, ma che nel momento della pubblicazione in Italia, circa trent’anni dopo, rivela la fragilità dell ’impostazione, insieme persino a una limitazione di informazioni biografiche. Trotskij fu personalità poliedrica di grande influenza negli anni della rivoluzione
del ’17 e per tutto il periodo in cui il PCUS e il giovane stato rivoluzionario vennero diretti da Lenin, ebbe grandi responsabilità non solo nel soffocamento della controrivoluzione, ma anche nella creazione dell’esercito e nell’impostazione della politica estera, perché si possa limitare la sua biografia ai ricordi della vedova e al tratto generoso, ma limitato degli affetti degli amici. Siamo quindi convinti che già nel 1946 questo libro fosse da considerarsi superato nella sua impostazione generale e nel suo stesso risultato, anche se era difficile allora parlare di Trotskij con serenità.
a. se.
V i t t o r i o V i d a l i , Diario del XX Congresso, Milano, Vangelista editore, 1974, pp. 192, lire 2000.« Quando parlano i rappresentanti di questi popoli con la loro voce forte, fresca, si ha la sensazione di una marcia in avanti. Sono delegati giovani di popoli giovani [...] È la rivoluzione ai suoi inizi; poi si burocratizza »: è da uno dei brani come questo (p. 53), fra i molti che si potrebbero estrapolare tra quelli contenuti in questo Diario del XX Congresso di Vittorio Vidali, che abbiamo ricevuto l ’impulso immediato di riaffrontare il discorso sullo stalinismo. Ed a ciò l’autore ci riporta, attraverso ricordi e meditazioni, con il sentimento più ancor che con la ragione.Non è questa la sede per opporre atteggiamenti razionali a momenti di prevalenza sentimentale, anche se si comprende lo stato d’animo comune ad una gran parte della generazione di militanti comunisti vissuti o formatisi negli anni a ridosso della rivoluzione d’ottobre e dello stalinismo. Per cui non citeremo, per esempio, i testi del Gorz sul socialismo difficile o di Moshe Lewin sull’ultima battaglia di Lenin; né ci porremo il quesito di Alee Nove se Stalin fosse realmente necessario; cosi come lasceremo,
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ancora da parte il Medvedev o l ’ultima pregevole opera del Procacci. Ci sembra che soprattutto in questo caso si tratti di recepire il lavoro, quasi una «confessione » del Vidali, per quello che è: un diario, affrontandone la lettura ed operando una attenta analisi delle cose più rilevanti, sulle quali riteniamo sia d’obbligo soffermarci, soprattutto sul travaglio personale, ma così comune a tanti militanti, per quelle sconvolgenti « rivelazioni » del XX Congresso: le interminabili camminate e le profonde riflessioni nelle gelide sere moscovite e lo sguardo serio « se non diffidente dei poliziotti di guardia » (p. 37); certi discorsi cauti ma fortemente critici di non pochi giovani compagni sovietici intellettuali e non; il narrare lento e le medesime frasi di vecchi bolsce- vichi « riabilitati » (« il vostro Dante non avrebbe potuto immaginare un inferno piu terribile di quello descritto; noi sì, noi l ’abbiamo vissuto... », p. 146); lo stupore nell’apprendere che solamente dopo il 1952 si è potuto leggere, più o meno pubblicamente, le opere di Gramsci! È il costo di un dato che, ancora, continua; di una esigenza, certo errata, espressa dai diversi grupi dirigenti dell’Urss: l’obbligo alla totalità del consenso. Per contro si hanno, certo, le grandiose realizzazioni sul piano sociale ed economico, le entusiasmanti conquiste scientifiche.Tra i non pochi pregi di questo diario di militante vi è poi, quello assai raro di avere affidato con estrema spregiudicatezza alla profanazione della stampa, stati d’animo intimi anche sui fatti più personali e di carattere familiare; il non indifferente coraggio di avere respinto, nel tratteggiare militanti e dirigenti, la suggestione di coniare facili medaglioni oleografici. Per cui quando Vidali, per esempio, parla di Miinzemberg o di Misiano, della Stassova o di Vera, lo fa ricordandoceli e presentandoceli non come se u- scissero dalle pagine di vecchi libri di storia, ma da quel colloquio-scontro con la storia in cui sono presenti con tutta la loro personalità e carica umana. Il ritratto stesso che traccia di Togliatti alla conferenza dei partiti comunisti europei
del novembre 1957, dopo l’attacco subito da parte di Suslov, non lo troviamo troppo spesso sulle pagine dei diversi suoi « biografi » ufficiali: « Si canta l’Internazionale. Sono vicino a Togliatti; ha le spalle curve come fosse sofferente; muove le labbra ma non canta; il suo viso è contratto nello sforzo di controllarsi [...] e quando mando al diavolo un compagno è Togliatti stesso ad invitarmi alla prudenza » (p. 163).Ma fatti questi rilievi, dette queste cose, il discorso non può ancora essere considerato concluso. Il Diario contiene altri dati, molte sollecitazioni, elementi contradditori, interrogativi ai quali Vidali non ha risposto. Attacca ferocemente Stalin (« perché ora sono convinto che il vecchio non permetteva neppure che venissero fucilati; era innamorato della forca » p. 56) ed i suoi numerosi lacche; ma poi in almeno altre tre occasioni lo difende con decisione; ha una manifesta (non sospetta) simpatia per Mao e i cinesi; poi riporta in appendice, decisamente un neoplasto, l ’intervento di Togliatti alla conferenza di Mosca del ’57 e la lettera di Dubcek alla vedova di Smr- kovsky. Significa che le condivide? Stanno lì conclusione e risposte? Francamente ci sembra che soprattutto nelle pagine conclusive Vidali, contraddicendo in parte lo spirito « ribelle » di cui sono impregnate queste riflessioni, assuma posizioni difensive o d’attesa, rientri nell’alveo di una impostazione togliattiana, di forma più che di sostanza, da « documento storico di Yalta» (p. 167): questo è probabilmente un limite intrinseco al carattere diaristico dello scritto. Tuttavia così come abbiamo avuto difficoltà a staccarci dalla lettura di molte mirabili pagine, abbiamo anche difficoltà a recepirne, al di là di quanto sollecitato a livello di subconscio, un messaggio. È del resto rilevante il fatto che affermi: « Questo ventesimo congresso mi ha fatto soffrire, ma mi ha fatto comprendere che siamo alle soglie di una nuova fase della nostra vita di comunisti, nella quale dovremo smetterla di ritenerci archivi ambulanti della ideologia e depositari della verità asso
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luta. Si tratta di una nuova grossa battaglia, forse la piu dura della nostra vita di militanti, però... ce la faremo! ». Bisogna ora che, almeno per quanto riguarda i suoi scritti — data l ’enorme importanza e la stringente attualità di un discorso e di una analisi, a tutt’oggi incompleta, sullo stalinismo — Vidali travalichi l ’ambito del diario e ci dica anche come.
G i a n f r a n c o B e r t o l o
Antifascismo
E s t h e r M o d e n a - B u r k h a r d t , Voti « Giustizia e Libertà » zum « Partito d‘Azione ». Zurich, Limmat-Verlag, 1974, pp. VII-287 (Schriftenreihe der Stiftung Stu- dienbibliotek zur Geschichte der Arbeiter- bewegung, Band 1).« Azione e programmatica di un movimento liberalsocialista nella resistenza contro il fascismo (1924-1945)» è il sottotitolo di questo volume di una giovane studiosa svizzera che per la prima volta ci dà la storia di un movimento dell’antifascismo italiano dalle sue origini ai suoi esiti nella Resistenza, un’impresa che avrà un parallelo analogo (con ben altra dimensione, naturalmente) quando Paolo Spriano avrà portato a termine la sua Storia del partito comunista. Il lavoro intrapreso dalla Modena-Burkhardt non può non essere un lavoro provvisorio; nato come dissertazione discussa qualche anno fa presso l ’Università di -Zurigo, di quella origine reca le tracce, anche nella bibliografia che presenta diverse lacune così rispetto all’epoca in cui fu steso il lavoro (la documentazione di Zucàro sul caso Pitigrilli, l ’importante saggio di Pavone su « Passato e presente » del 1959, la bibliografia della Resistenza della Conti, tra le cose più importanti) come nell’aggiornamento (dal libro di Agosti su Morandi alla documentazione di Pietro Secchia sul PCI nell’antifascismo all’interno, all’edizione degli scritti di S. Trentin, al libro di Lussu sul partito d’Azione e
così via). Resta il fatto tuttavia che non si può non salutare con favore il tentativo compiuto dall’A. di affrontare in tutta la sua dimensione politica e ideale (e assai meno in quella organizzativa) la vicenda di GL fino al suo sbocco nel partito d’Azione, anche se quest’ultima parte della sopravvivenza del patrimonio giellista (vale a dire il cap. I l i della parte III) è certamente quella meno approfondita e più affrettata. Sostanzialmente consenzienti ci trova la prospettiva nella quale si è posta l ’A. di considerare il movimento di GL essenzialmente come una « avanguardia intellettuale » e di vederne quindi la vicenda come « un contributo alla storia degli intellettuali di sinistra in Europa » (p. VII) tra le due guerre e nel periodo del fascismo. Di questa storia fa appunto parte quella oscillazione tra liberalismo e socialismo che contribuì al dibattito politico e intellettuale ma che sul piano politico portò anche alla dissoluzione del partito d’Azione, incapace, per ragioni oggettive e non per sole insufficienze politiche o di altra natura, di sciogliere il dilemma: « grande partitodemocratico o piccola eresia socialista? » (pp. 262 sgg.).Diviso in tre parti, il libro offre anzitutto uno spaccato di « Giustizia e Libertà » dal 1924 al 1936, insistendo sulle radici di GL nell’antifascismo degli anni venti, sui centri della cospirazione all ’interno, sulla polemica con comunisti e socialisti, sulla conclusiva opzione per un « socialismo liberale » sotto l’influenza di Carlo Rosselli; la seconda parte affronta il decennio dell’emiglrazione 1932- 1942 che culmina nell’intervento in Spagna e nella scelta filosocialista che fece seguito alla morte di Rosselli. La terza riguarda infine il movimento liberalsocialista in Italia e la nascita del partito d’Azione.La parte più valida del lavoro ci pare senz’altro quella relativa alla ricostruzione della fisionomia intellettuale del movimento più che quella dedicata all’organizzazione e all’iniziativa politica, anche se non va neppur essa esente da qualche osservazione critica. Così ad esempio sul
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rapporto tra giudizio sul fascismo e valutazione sulla storia d’Italia precedente, che tanta parte ebbe proprio in un movimento intellettuale come GL (come del resto l ’aveva avuto nel gruppo di « Rivoluzione liberale » e ne « Il Caffè » tanto per citare i precursori), si dovrebbe andare più a fondo (e qui cade il richiamo al già citato saggio di Pavone); viceversa ci paiono eccessivamente sottolineati così l ’antifascismo crociano come la sua eredità in GL e nel liberalsocialismo. Vi è forse un equivoco sull’influenza antifascista della casa editrice Laterza; a parte il fatto che non ci consta che T. Fiore sia mai stato direttore della stessa (come erroneamente scrive l’A. a p. 266), l ’influenza della pubblicazione di certe opere in Italia, come il De Man, andrebbe vista con maggiore decisione in direzione di un freno alla diffusione di interpretazioni socialiste, ebbe cioè un significato decisamente antisocialista e antimarxista, come tale anche anticomunista e favorì l’antifascismo borghese, caso mai. Ma nello stesso senso non andrebbe sopravvalutato neppure il significato teoretico del « socialismo liberale », tanto meno poi se si volesse dare ad esso, come vuole l ’A., un significato anche attuale nella fase odierna di ripensamento generale del marxismo (p. 134). Ma è chiaro che su questo come su altri giudizi dell’A. (citiamo ancora a p. 252 la valutazione a nostro avviso non centrata sul governo Parri come « l ’unico governo di ispirazione socialista del dopoguerra ») molto si potrebbe discutere, anche se probabilmente talune divergenze di valutazione scomparirebbero ove non intervenissero errori di fatto desunti da testimonianze non sufficientemente controllate (è una nostra ipotesi) o da informazioni di seconda mano.E siamo anche sicuri che in linea generale un più diretto accesso alle fonti, quanto meno a quelle a stampa, consentirebbe — se non altro per l’aspetto qui del resto prevalente del dibattito politico — un maggior respiro proprio allo sviluppo del rapporto dialettico che si instaura tra GL e i comunisti (per i qua
li non basta utilizzare l ’antologia di « Stato operaio » ma occorre ricorrere all’edizione originale di quest’organo), tra GL e i socialisti, anche qui utilizzando direttamente « Politica socialista » (citata erroneamente a p. 149 come « Politica nuova »).Ci sia consentita un’ultima osservazione al di là della sostanza del libro in parola. Nell’aprire il suo lavoro l’A. constata la difficoltà di una ricerca come voleva essere la sua a raggio nazionale in un paese come l’Italia e deplora la frantumazione locale di istituzioni culturali e di angolature di ricerche (p. II): sono rilievi che hanno un riscontro reale nello stato dei nostri studi e delle nostre strutture culturali. Ma una certa arretratezza e il ritardo degli studi sull’antifascismo come movimento o come correnti a livello nazionale e nell’emigrazione non sono riconducibili soltanto alle cause indicate dall’A. In realtà senza una grossa ricerca d’archivio, che appena oggi incomincia ad essere possibile, la storia reale dell’antifascismo, della sua consistenza all’interno, del rapporto tra cellule e movimenti antifascisti e stato reale della società italiana, un lavoro come quello postulato dall’A. non sarebbe possibile e poiché si è partiti, e per molti aspetti ancora si parte da zero, ecco la ragione del fiorire di certi studi locali, con tutte le loro insufficienze e i loro limiti, e non soltanto patriottismo di istituti o di istituzioni. Analogamente si potrebbe dire per un ipotetico lavoro sull’emigrazione antifascista, per il quale non esistono a tutt’ora neppure quei minimi strumenti bio-bibliografici che in Germania per la Exilliteratur sono stati bene o male approntati. È un problema di orientamento degli studi ma anche, soprattutto se si valuta la politica archivistica, un problema che va rapportato alle conseguenze di indirizzi di politica generale che fino a un decennio fa non consentivano di programmare un certo tipo di lavoro, né di finanziare certe ricerche. Gli studiosi stranieri fanno fatica a rendersi conto della situazione della ricerca in Italia, e in particolare per quanto riguarda i de
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cenni passati dalla liberazione, ma non c’è dubbio che molti dei vuoti che riscontriamo negli studi sulla nostra storia recente (e che probabilmente tali rimarranno ancora per molti anni) vanno addebitati a più generali sviluppi politici e culturali e non soltanto a indirizzi di singoli più o meno dotati istituti.
Enzo Collotti
Il guerra mondiale
U g o b e r t o A l f a s s i o G r i m a l d i , G h e r a r
d o B o z z e t t i , Dieci giugno 1940. Il giorno della follia, Bari, Laterza, 1974, pp. VIII-504, lire 6.000.Non so se Salvemini l ’abbia lasciato scritto da qualche parte, ma chi ha avuto la fortuna di frequentarlo nell’ultimo decennio della sua esistenza in Italia ricorderà un principio che egli continuava a ripetere e che già in passato aveva martellato nella testa dei suoi allievi: « La prima regola del metodo storico è l ’intelligenza ». Questa è la ragione per la quale dubitiamo che agli autori del presente volume si possa attribuire la qualifica di « salveminiani ortodossi » come è stato fatto: di intelligenza, di intelligenza storica intendiamo, in un libro come questo ne abbiamo trovata poca, per la verità. E che Salvemini fosse un puro empirico, proprio non diremmo, altrimenti non ci avrebbe lasciato dei libri che nonostante tutto rimangono.Viceversa di fronte a un libro come questo vien fatto di domandarsi: a chi serve? Se voleva essere solo la rievocazione, un pezzo di colore, di una giornata non propriamente come ogni altra, il ricordo di un’atmosfera fatta di mille sensazioni reali e irreali, bastava forse un articolo di giornale o al più di una delle riviste esistenti di storia illustrata. Ma un intero libro sul filo di quel « giorno della follia » ci pare un po’ eccessivo: e non solo perché la tesi è storicamente e politica
mente sbagliata (e oltre tutto implicitamente contraddetta anche dalla ricostruzione che dei precedenti fanno gli Autori, sia pure con molte lacune e insufficienze, troppo spesso di seconda mano e dando credito anche eccessivo alla memorialistica fascista e parafascista) ma anche perché il contributo effettivo che esso può recare alla conoscenza degli sviluppi che portarono l ’Italia all’ingresso nella seconda guerra mondiale è pratica- mente nullo. Può darsi che chi si mette in imprese di questo genere pensi sempre a due livelli di conoscenze, uno di carattere scientifico ed uno di carattere divulgativo. D’accordo, anche se noi pensiamo che la migliore divulgazione non possa mai prescindere da un minimo di fondatezza scientifica. Ma resta il fatto, e qui rivolgiamo l ’interrogativo all’editore, che questo libro viene presentato in una collana che ha ben altre pretese e ambizioni e che in molte (non in tutte) occasioni a queste pretese e ambizioni, a queste premesse ha tenuto fede.
e. c.
A n t o n i n o T r i z z i n o , Traditori in divisa, Milano, Bietti, 1974, pp. 177, lire 4.000.Un titolo scandalistico, un linguaggio semplice e conciso, una struttura essenziale, una narrazione sfrondata di ogni particolare: queste in sintesi le carte di presentazione dell’ultima fatica del Trizzino, forse fra i più noti ma anche il più discutibile fra gli scrittori di cose militari.Confluiscono nel libro due temi fonda- mentali già ampiamente trattati e ripresi variamente dall’A. in suoi precedenti lavori: le vicende riguardanti la seconda offensiva britannica in Cirenaica dell’inverno 1941 (cfr. Gli amici dei nemici) e l’operazione di Gaudo con il successivo tragico scontro di Capo Matapan (cfr. Navi e poltrone). Il volume si apre (gli italo-tedeschi risultano vittoriosi su tutta la linea) con un colloquio tra il gene-
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rale italiano Piazzoni e il comandante dell’Afrika Korps; ci viene spiegato come l ’abbandono da parte dei tedeschi delle posizioni raggiunte non fu dovuto né a rovesci, né ad esaurimento di mezzi e neppure alla preponderanza delle forze avversarie ma, al contrario, alla insipienza, all’inettitudine, anzi, forse, all ’intesa col nemico (così almeno sembra venir suggerito) di alcuni comandanti italiani che rifiutarono o mossero con grave ritardo le loro truppe (divisioni Ariete e Trieste). In tal modo fu impossibile condurre un combattimento d’insieme proprio mentre i britannici stavano per essere accerchiati e severamente battuti. « L’ottava Armata inglese non avrebbe potuto sperare in collaboratori più validi e sicuri di quelli trovati nel comando superiore italiano in Africa settentrionale » (p. 62). La seconda parte riprende il tema del libro più noto del Trizzino (Navi e poltrone): il « tradimento » della marina, causa portante della sconfitta italiana, emerso dall’analisi dei fatti che si venivano a concatenare secondo un logico e preordinato disegno. Restavano da stabilire i nomi dei responsabili e i mezzi con cui costoro avevano comunicato con il nemico. È quello che l’A. pensa di poterci dare soffermandosi sulla narrazione dell’operazione di Gaudo. « A- desso sappiamo come e perché morirono i tremila marinai italiani a Capo Ma- tapan » (p. 87). Supermarina, nelle forme degli ammiragli Giartosio, Brenta, Ferreri e Campioni, avrebbero comunicato via radio alle navi e a Rodi, in dettaglio le operazioni del 28 marzo 1941. Cunningham, venutone a conoscenza senza difficoltà, dato il mezzo impiegato per la trasmissione, preparò con comodo in tutti i particolari la trappola di Matapan. I due episodi vengono artificiosamente a confluire e a saldarsi in una spiegazione più generale della nostra sconfitta che si rivolge duramente contro la marina. Perché Malta, chiave di volta della difesa inglese del Mediterraneo non venne occupata nell’estate del ’42? La marina era stata uno strenuo e deciso sostenitore dell’operazione, e, a tutt’oggi, essa
identifica nella mancata occupazione di Malta uno dei fattori che resero inevitabile la sconfitta di El Alamein e accelerarono la nostra disfatta. Ma il rinvio e poi l’annullamento dell’operazione non sarebbe imputabile all’incapacità dell’OKW di intendere la strategia navale e segnatamente quella mediterranea, né all’infatuazione di Hitler per il miraggio delle piramidi, ma bensì proprio per l ’atteggiamento della marina (!). La flotta italiana, di fronte alla reazione britannica e americana in difesa dell’isola minacciata, sarebbe stata chiamata alla prova suprema. Ma poiché Supermarina con la sua condotta, si era resa responsabile del disastro di Matapan e della perdita di centinaia di mercantili finiti in fondo al mare lungo le rotte della Libia, lo sbarco di reparti italo-tedeschi a Malta si sarebbe risolto in un disastro ancora peggiore. La marina non sarebbe intervenuta, le comunicazioni sarebbero state tagliate e le truppe rigettate in mare con ingenti perdite di uomini e di mezzi. Sarebbe stata accelerata la sorte della guerra in quello scacchiere. « Hitler dovette rendersene conto e il suo no è probabilmente derivato dalla consapevolezza del rischio enorme che si sarebbe corso affidando alla marina italiana un ruolo così impegnativo » (p. 77).Ora, francamente, la conclusione ci appare, non solo troppo personale, ma così discutibile da parere assurda. Sembra che si sia dissolto anche quello smalto e quella brillantezza caratteristici dei lavori precedenti e quella problematica (se pur discutibile sotto molti aspetti) che li aveva proposti, per qualche spunto, all’attenzione degli storici. Arbitrario è intanto mettere in relazione le mancanze e le inefficienze dell’esercito con quelle della marina e trarne auspici per il risultato di eventuali future operazioni. Ci furono certo carenze e ben gravi, soprattutto nell’esercito, ma non tali da potersi ritenere predisposte ad un unico fine. Assurdo è poi concepire un atteggiamento della marina volto a favorire i piani del nemico (per quale ragione?) e, sempre, comunque, negativo. Bastereb-
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be a questo proposito ricordare, proprio nel ’42, il grosso successo ottenuto nella battaglia di mezzo agosto. Nelle operazioni per la conquista di Malta la marina sarebbe certamente intervenuta con la consueta abnegazione, e se un giorno le navi fossero rimaste nei porti ciò avrebbe dovuto essere imputato all’assoluta mancanza di nafta. L’appunto, se mai, potrebbe essere diverso: non aver preparato piani e mezzi adeguati per la conquista dell’isola prima della guerra (ma si era poi in grado di farlo?) in modo da realizzarne l’occupazione all’apertura delle ostilità. Poche parole, infine, riguardo al sottotitolo esemplificativo: « gli sconvolgenti documenti segreti che nessuno doveva conoscere » base portante della posizione del Trizzino; cioè, le prove dell’avvenuta trasmissione via radio dei messaggi riguardanti l ’operazione di Gaudo, raccolti e riportati in fotocopia in fondo al volume. L’accusa della trasmissione via radio, intercettabi- le dal nemico, l ’A. l ’aveva già formulata contro gli ammiragli Cavagnari, Riccardi e De Courten (capi di SM della marina durante la guerra). Il Tribunale militare di Roma, il 6 marzo 1961, aveva preso la decisione di non doversi pronunciare azione penale contro i tre ammiragli, in quanto risultava da accurate indagini, che la trasmissione degli ordini preliminari di operazione era avvenuta con mezzi non penetrabili dal nemico. Nel ’64, abbandonata la vecchia tesi, il Trizzino aveva fantasticato che il cifrario o- perativo della nostra marina fosse stato venduto a un agente àelYIntelligence Service, dall’ammiraglio Alberto Lais, addetto navale a Washington, nei primi mesi del ’41. Con una sua prefazione, infatti, aveva avallato il libro di Montgomery Hyde, I l canadese tranquillo, che prospettava appunto tale ipotesi. Nel processo che ne seguì, per diffamazione, veniva accertato che l’ammiraglio Lais non poteva aver consegnato il cifrario operativo della nostra marina semplicemente perché non ne era in possesso e veniva riconfermato che gli ordini preliminari di operazione non erano stati trasmessi via
radio. Ora, dei documenti riprodotti in allegato in fondo al volume, il n. 3 rivela un espediente del tutto indegno di uno storico. Risulta infatti non solo già noto comunemente, pubblicato dallo stesso ufficio storico della marina nei volumi sulla seconda guerra mondiale, ma riportato con una fondamentale differenza. La fotocopia è tagliata un poco al di sopra del fondo pagina e in tal modo risulta impossibile leggervi la parola « filo » riguardo il mezzo di trasmissione, che appare invece chiaramente nell ’edizione del volume dell’ufficio storico. Con tale premessa segue il commento: « ordine di operazione radiotelegrafato da Supermarina alle navi per la missione in Egeo finita tragicamente a Capo Matapan » (p. 129). Certamente, quando si vogliono dimostrare tesi preconcette, non c’è molto riguardo per la serietà della ricostruzione storica né molta stima per il lettore.Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, perché tanto spazio dedicato a un lavoro di così poco pregio. Intanto, ci sembrava doverosa una precisazione. In secondo luogo il libro stesso, così com’è concepito, sottolinea, potremmo dire, « 1’ esaurimento » della nostra memorialistica di guerra, che pur ci ha dato i pregevoli lavori del Bernotti e dello Iachino. E- saurimento che non è solo dello scrittore, ma, ci sembra, dello stesso materiale a disposizione dell’editoria italiana. Abbondano le vicende personali, gli appunti slegati e le celebrazioni di maniera, i ricordi senza alcun valore storico, le acritiche accettazioni di qualche versione di comodo, le chiacchiere reducistiche condite con piatte e scontate considerazioni. Eppure, il discorso sulle cause e sui motivi della nostra sconfitta si presenta a tutt’oggi, estremamente interessante e con una grandissima ricchezza di prospettive purché, naturalmente, si abbia voglia e capacità di andare al di là dei soliti schemi. Campo d’indagine dovrebbe essere, prima di tutto, l ’inquinamento delle forze armate prodotto dal fascismo e le sue pesanti conseguenze. Vennero allora considerati riprovevoli l ’autonomia
del pensiero e lo spirito di iniziativa; furono messi in disparte coloro che manifestavano idee proprie, mentre altri giungevano al comando entrando nelle grazie del capo o di quelli che l ’attorniavano. La marina, in particolare, frastornata dai discorsi del fascismo, non percepì o non volle percepire che era da questi considerata uno strumento propagandistico, un comodo scenario per riviste e parate più che un’organizzazione efficiente e moderna per la guerra. Soprattutto venne meno nel ventennio ogni contatto con la coscienza, gli interessi e le competenze del paese, elementi essenziali di ogni rinnovamento; infine, l’elefantiasi burocratica, già presente e da questo accentuata, il moltiplicarsi dei gradi, i favoritismi, i clientelismi politici e la prevalenza di interessi personali. L’A. sembra intendere ad un certo punto questa feconda direzione, quando dedica alcuni cenni alla figura, per la verità squallida, dell’« uomo » Gambara (generale comandante il corpo d’armata di manovra in Libia). « Abile faccendiere politico, Gambara era riuscito a procurarsi agganci molto in alto. Negli stessi giorni in cui sabotava Rommel in Mar- marica, scriveva a Ciano lettere confidenziali piene di insolenti denigrazioni contro Rommel. Purtroppo non ne riceveva in risposta quei secchi richiami al dovere che avrebbe meritato. Da un altro amico altolocato, Farinacci, Gambara a- veva sollecitato appoggi perché fossero mandate in Libia soltanto mitragliatrici Breda, escludendo dalle forniture qualsiasi altra fabbrica di armi. La strana richiesta puzzava tanto di speculazione affaristica che era stata senz’altro respinta dal Comando Supremo » (pp. 37 e 38). Ma è una pennellata di costume (in più, il Trizzino, omette di dire da quale fonte trae le notizie) che fa coppia con alcune sferzanti fotografie, ma che non si risolve in un ripensamento e in un approfondimento dei temi trattati. Qualche punta, qualche grattata in superficie e si ritorna ai logori e consueti schemi.
Walter Polastro
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C a n d i a n o F a l a s c h i , Gli ultimi giorni del fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 146, lire 900.Questo volumetto raccoglie una serie di articoli di Candiano Falaschi apparsi su « l ’Unità » nel febbraio e nel marzo 1973; si tratta della ricostruzione, non inedita, della preparazione, della cattura e dell’esecuzione di Mussolini e dei principali responsabili del regime. Gli articoli sono arricchiti dalle testimonianze di alcuni protagonisti di quelle giornate. La lunga prefazione di Luigi Longo è uno scritto del marzo 1954 che, come ci avverte FA., oltre a inquadrare storicamente gli avvenimenti descritti, vuole essere « una denuncia e una risposta polemica [...] all’animo anticomunista e antipopolare delle correnti attendiste e conservatrici ». Tali posizioni, precisa Longo, non sono un fenomeno legato alla Resistenza, ma rispecchiano l’atteggiamento di quanti ancora oggi vogliono sminuire il ruolo dei comunisti nella lotta antifascista.
a.m.t.
Ebraismo
G u i d o F u b i n i , La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, presentazione di Arturo Carlo Jemolo, Firenze, La Nuova Italia, 1974, pp. 129, lire 2.000.Da molti anni Guido Fubini, autorevole esponente del nucleo israelita italiano, si batte con coraggio ed impegno contro i residui dell’antisemitismo fascista e per una rinnovata presenza degli ebrei nella vita culturale e nel dibattito politico del nostro paese. Sull’uno e sull’altro motivo, con profonda conoscenza della legislazione in materia, il Fubini ritorna ora con questo denso saggio nel quale, attraverso un’accurata analisi di tipo giuridico, è esaminato l’evolversi della condizione degli ebrei italiani dal periodo napoleonico ai nostri giorni. Per un verso, cioè, è ana
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lizzato il susseguirsi dei vari provvedimenti via via più liberali dell’epoca risorgimentale, sino al passo indietro medioevale imposto dal fascismo ed al rilancio democratico sancito dalla Costituzione repubblicana; per un altro sono messe in evidenza le caratteristiche dell ’organizzazione delle Comunità israelitiche, con particolare riferimento al significato del regio decreto del 30 ottobre 1930 che istituiva appunto le Comunità stesse collegandole nell’Unione delle Comunità.Attivo nel PSI, che ha tra l ’altro rappresentato in modo non formale nella Conferenza di Bologna per la pace e la giustizia del Medio Oriente, il Fubini ribadisce dunque qui in un lavoro organico, nobile e dotto, le sue tesi per una legislazione democratica di piena tutela delle minoranze religiose: una legislazione che per essere veramente adeguata dovrà, come dimostrano le circostanze storiche, trarre forza e riscontro dalla volontà di partecipazione dei cittadini in genere, ma anche dell’intento innovatore di coloro che del provvedimento sono particolarmente interessati, nella fattispecie i cittadini di religione ebraica.Senza forzature, ma al contrario seguendo nelle sue varie fasi il problema del rapporto tra ordinamento generale dello stato ed esigenze delle minoranze, l ’A. perviene in sostanza ad individuare due obiettivi da perseguire, tra loro collegati ed interdipendenti: da un lato occorre non solo disattendere le indicazioni costituzionali, ma vivificarle interpretandole dinamicamente; dall’altro è necessario arrivare ad una profonda revisione della legge del 1930 pur essendo stata voluta ed accettata a suo tempo dai massimi dirigenti dell’ebraismo italiano. Sul primo aspetto, a testimonianza d’una prassi legata a remore e prevenzioni dure a scomparire sono recati, come esempio, tra gli altri i casi veramente emblematici del processo Durando (del quale personalmente il Fubini molto si occupò) sulla questione del vilipendio dei culti ammessi, e della richiesta di certificati sanitari del campo di concentramento di
Auschwitz ad ex-deportati che avevano avanzato domanda di pensione per invalidità di guerra. Per ciò che concerne invece l ’esigenza d’un superamento della legge del 1930, vero strumento per inquadrare gli ebrei italiani nella logica totalitaria del fascismo, oltre a metterne in rilievo i rigidi limiti e le finalità di controllo, il volume delinea la battaglia tenacemente condotta con qualche risultato positivo per accantonarne le norme più incongruenti con lo spirito della carta costituzionale. Così, dopo circa un decennio di polemiche e discussioni il congresso straordinario delle Comunità israelitiche dell’aprile 1968, quali nuove norme precettive per l ’organizzazione interna, introduceva il suffragio universale ed il principio di progressività nella tassazione, istituiva l’assemblea della Comunità quale nuovo organo consultivo, introduceva il principio della rappresentanza delle minoranze e riduceva la durata in carica dei consigli di Comunità e di quello dell’Unione.Indubbiamente, a fondamento delle disquisizioni del Fubini che non sono mai aridamente tecniche e formalistiche, vi sono precise scelte politiche e chiari orientamenti ideali. Tra questi forse il più originale è Tessersi sforzati di recepire recenti determinate spinte radicali e libertarie tendenti ad instaurare, a completamento della parità di tutti di fronte alla legge, il diritto ad essere se stessi ed a veder salvaguardate e protette le proprie caratteristiche culturali.Sotto molti aspetti questa sorta di rivendicazione alla quale accenna più volte il Fubini in nome non solo della minoranza israelita, ma di tutte le minoranze esistenti e possibili, è validamente motivata e pienamente comprensibile. Da un lato infatti, la durezza della persecuzione subita ha legittimamente indotto talune cerehie israelite a rifiutare la prospettiva dell ’assimilazione ed a chiedere di essere aiutate nel conservare i costumi e le tradizioni avite. Per un altro verso, valutando il fenomeno nella sua globalità, lo stato non può non considerare un bene cui-
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turale da proteggere la pluralità dei riti, delle usanze, delle liturgie, degli inni, dei linguaggi ecc. ed è quindi quanto mai utile sollecitare anche un intervento legislativo che, andando oltre il concetto della uguaglianza dei cittadini e di tutte le confessioni di fronte allo stato, incisivamente operi per contrastare il processo di massificazione ed omogeneizzazione tipico dell’era consumistica.D’altro canto, come con grande saggezza esorta A.C. Jemolo nella presentazione, è indispensabile che a questo punto tutti —• anche e in specie le minoranze — si impegnino contro gli esclusivismi e gli auto-esclusivismi: contro la creazione di nuovi ghetti e la costruzione di novelle torri, più o meno d’avorio, aspetti speculari d’una analoga ed inaccettabile deviazione. Invero, quando (p. XXIV, p. 124) il Fubini pare riecheggiare formule che, per dirla con il presentatore « sarebbero eccellenti se non si desse tutta una secolare esperienza storica contro di loro » giacché « non c’è alcuna ragione logica perché la formica rossa non possa essere in cordiali rapporti con la formica nera, ma in fatto non lo è », sembra egli quasi avviarsi a mettere in ombra quella funzione di coordinamento e mediazione, nel
rispetto di ogni membro della società civile, che è dello stato e dei suoi organi, una funzione che sarebbe alquanto rischioso deferire ad altre fonti del diritto. Indubbiamente sembra aprirsi cioè l’eventualità che l ’aspirazione a rivendicare uno spazio per gli ebrei, induca a prestabilire per loro un destino fatalmente unico, condensato nell’espressione popolo ebraico, quasi che non fosse lecito pure dissentire dalla validità di tale interpretazione e di conseguenza non provare alcuna emozione di fronte all’ipotesi della sua scomparsa.Ma poiché gli « altri » sono in definitiva assai numerosi — dagli zingari ai curdi, dai negri d’America ai palestinesi, agli emigrati dal meridione nel triangolo industriale .—. è presumibile che l’A. non voglia indebolire troppo il potere dello stato nel garantire a ciascuno il diritto di essere quello che vuole: di essere se stesso secondo qualsiasi interpretazione o anche di rifiutare il proprio ambiente e la propria tradizione per cercarsene dei diversi più confacenti alle proprie scelte ideali, di associarsi e dissociarsi, di non assimilarsi e di assimilarsi.
Guido Valabrega