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Gruppo di Ricerca della Provincia di Padova 27 Minoranze, identità e diversità culturale: verso la costruzione di una nuova cittadinanza europea Giulio Zennaro Sommario Introduzione: attualità del problema La tolleranza tra culture: il punto di vista filosofico La tolleranza tra culture: il punto di vista sociologico. La situazione attuale. La tolleranza tra culture: il punto di vista storico L’integrazione culturale nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza) Prospettive di lavoro: esigenze fondamentali Bibliografia 1. Introduzione: attualità del problema Il tema è di quelli che non solo hanno l’urgenza dell’attualità, ma anche lo spessore delle sfide epocali che l’uomo di oggi deve assolutamente affrontare se vuole costruire un futuro autenticamente civile. La Scuola deve sempre guardare al mondo che la cir- conda e che la interroga con le sue sfide. Il Veneto, insieme a poche altre Regioni del Nord, è al vertice in Italia per un apporto sempre maggiore di immigrati, anche a causa di una stanzialità sempre più spiccata e della tendenza al ricongiungimento fa- migliare, dopo il primo periodo di ambientamento del coniuge lavoratore. Così, sempre più ragazzi di varie etnie e culture convivono insieme, facendo emergere il tema forte della interculturalità. Nella Scuola questo si riflette come necessità di edu- cazione a nuovi stili di rispetto e di apertura e necessità di nuove dimensioni che la didattica deve assumere, come il plurilinguismo e l’educazione alla cittadinanza euro- pea e alla pace. Numerose sono, naturalmente, le difficoltà che la Scuola, come del resto la Società, incontra: la difficoltà a comprendersi, la reciproca ignoranza o indifferenza, il clima di tensione che si è accentuato in Occidente dopo l’11 settembre e le guerre che ne

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Minoranze, identità e diversità culturale: verso la costruzione di una nuova cittadinanza europea

Giulio Zennaro

Sommario

Introduzione: attualità del problema

La tolleranza tra culture: il punto di vista filosofico

La tolleranza tra culture: il punto di vista sociologico. La situazione attuale.

La tolleranza tra culture: il punto di vista storico

L’integrazione culturale nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza)

Prospettive di lavoro: esigenze fondamentali

Bibliografia

1. Introduzione: attualità del problema

Il tema è di quelli che non solo hanno l’urgenza dell’attualità, ma anche lo spessore delle sfide epocali che l’uomo di oggi deve assolutamente affrontare se vuole costruire un futuro autenticamente civile. La Scuola deve sempre guardare al mondo che la cir-conda e che la interroga con le sue sfide. Il Veneto, insieme a poche altre Regioni del Nord, è al vertice in Italia per un apporto sempre maggiore di immigrati, anche a causa di una stanzialità sempre più spiccata e della tendenza al ricongiungimento fa-migliare, dopo il primo periodo di ambientamento del coniuge lavoratore. Così, sempre più ragazzi di varie etnie e culture convivono insieme, facendo emergere il tema forte della interculturalità. Nella Scuola questo si riflette come necessità di edu-cazione a nuovi stili di rispetto e di apertura e necessità di nuove dimensioni che la didattica deve assumere, come il plurilinguismo e l’educazione alla cittadinanza euro-pea e alla pace.

Numerose sono, naturalmente, le difficoltà che la Scuola, come del resto la Società, incontra: la difficoltà a comprendersi, la reciproca ignoranza o indifferenza, il clima di tensione che si è accentuato in Occidente dopo l’11 settembre e le guerre che ne

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sono seguite, (Afghanistan e Iraq), i richiami sempre forti, perché appaiono ai giovani sbrigativi e apparentemente risolutivi, del razzismo, dell’intolleranza verso l’altro, lo straniero; ma anche il relativismo culturale che omologa le diversità, un falso univer-salismo e unanimismo che appiattisce le differenze in un mélange culturale che si converte in spersonalizzazione, perdita di identità. “La Grande Omologazione”, come l’aveva prevista e definita Pasolini. Hannah Arendt, la grande filosofa ebrea che ha compreso la vera radice della violenza che caratterizza la storia e la società dell’uomo moderno, riferendosi all’età dei totalitarismo, ma con un significato ancora attuale, diceva che: “La principale caratteristica dell’uomo di massa non era la brutalità e la rozzezza, ma l’isolamento e la mancanza di normali relazioni sociali”. Ecco che qui tocchiamo veramente la difficoltà insita nel problema dell’interculturalità: è l’antico problema del dialogo, della tolleranza, del rapporto tra identità e apertura, del rap-porto tra particolare e universale, tra sentirsi parte di un popolo e di una nazione e il sentirsi cittadino del mondo. Come conciliare queste due dimensioni, che sembrano in antitesti, come conciliare le esigenze del radicamento in una terra, in una cultura del luogo con le esigenze dell’apertura a ciò che è diverso, straniero e portatore di va-lori altri? In realtà, il problema è mal posto e risente della ambiguità e del forte con-dizionamento che le logiche dei poteri culturali, ideologici e politici tendono oggi sempre più ad imporre: poteri che impongono la spersonalizzazione, la frammenta-zione della persona, la sua riduzione a pura funzione del sistema, la sua perdita di ra-dici storiche e religiose.

Per una crescita adeguata della coscienza dei Diritti Umani è fondamentale il ruolo dell’insegnante e della scuola, come ha sottolineato recentemente Antonio Papisca, anche se ormai da decenni è il suo cavallo di battaglia: “Le grandi trasformazioni in atto nel pianeta terra interpellano la nostra responsabilità sociale su vari fronti, in par-ticolare su quello dell'educazione, il più strategicamente importante. Nell'era dell'in-terdipendenza e della mondializzazione c'è infatti bisogno di una cultura che aiuti ad affrontare i crescenti squilibri, la dilagante conflittualità e l'insicurezza nel rispetto dei valori umani universali, primo fra tutti la dignità della persona, la eguale dignità di tutte le persone. Su questo terreno, il mondo della scuola in Italia, dal livello prima-rio fino all'università, non è ancora adeguatamente attrezzato. La coscienza morale e civica dell'insegnante-educatore è dunque sollecitata a impegnarsi creativamente, a prendere iniziativa. C'è un problema di metodo, ma ancor più impellente è il pro-blema dei contenuti. Molte pur generose e brillanti proposte didattiche sono naufra-gate in sterili didatticismi perché prive di sostanza e di altrettanto sostanziosi aggior-

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namenti. La formazione a e per i diritti umani, la pace, la solidarietà, il dialogo inter-culturale - operazione per sua natura interdisciplinare e orientata all'azione - sollecita ad ampliare il canestro di dati cognitivi riguardanti la complessa fase evolutiva della condizione umana nel pianeta, allo stesso tempo impegna ad affinare quelle capacità didattiche che sono indispensabili al delicato lavoro inteso a elucidare i valori univer-sali e a facilitarne l'interiorizzazione - mai l'imposizione, ovviamente - da parte dei discenti. Il paradigma diritti umani, pace, solidarietà rilancia per così dire alla grande il ruolo-arte-missione dell'insegnante e del formatore quali attori primari dei processi di "sviluppo umano" nel senso inteso dai pertinenti Rapporti annuali del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo. Nell'assolvere bene a questo compito sta la pri-ma e più profonda gratificazione dell'insegnante, cui deve evidentemente, urgente-mente accompagnarsi un più adeguato riconoscimento sociale ed economico”. (A. Papisca, Introduzione al volume Il sapere dei diritti umani nel disegno educativo, a cura di A. Papisca, n. 5, 2002 dei “Quaderni” del Centro interdipartimentale di ricerca e di servizi sui diritti della persona e dei popoli dell’Università degli Studi di Padova, p. 13.)

2. La tolleranza tra culture: il punto di vista filosofico

2.a. Voltaire: la tolleranza scaturisce dalla percezione dei limiti dell’uomo

Già il buon Voltaire sottolineava che quando non viene messa in discussione la trama originale delle esigenze umane, delle evidenze elementari di giustizia, di felicità, di verità, gli uomini si sanno incontrare in modo pacifico, sanno convivere e risolvere i conflitti in modo tollerante, nella consapevolezza che ognuno porta un fardello di debolezza e di precarietà e nessuno ha il monopolio della giustizia e della verità: “Che cos’è la tolleranza? È l’appannaggio dell’umanità. Noi siamo tutti impastati di debo-lezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre balordaggini, è la prima legge di natura… È chiaro che noi dobbiamo tollerarci mutuamente, perché siamo tutti deboli, incoerenti; soggetti all’incostanza e all’errore” (Dizionario filosofico, Verona 1974, pp. 620-631). Allora, se sorgono conflitti tra l’identità e i valori universali, vuol dire che il problema è mal posto, cioè che l’uomo vive in una situazione di soffe-renza, di disagio, tale per cui alcune sue evidenze elementari di umanità (“appannag-gio dell’umanità” le chiamava Voltaire), sono offuscate e non più chiaramente perce-pite.

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2.b. Kant: la tolleranza nasce dal riconoscimento del valore assoluto della persona umana

Il grande filosofo Kant ha teorizzato, tra i primi nell’età moderna, lo stato federale europeo e mondiale e la necessità di una autorità sovranazionale (come l’ONU) per risolvere i conflitti tra le nazionalità: la sua opera Per una pace perpetua andrebbe oggi ristudiata e ripresentata alle giovani generazioni in un tempo in cui l’autorità sovra-nazionale è messa in discussione da logiche sbrigative di potere da “gendarmi del mondo”. Ebbene, proprio Kant, pone nel valore sovrano, irriducibile della persona umana, che è fine a se stessa e non strumento di altri obiettivi, sede di valori inaliena-bili di libertà, il fondamento di ogni concezione etica e quindi politica: “La natura razionale della persona umana esiste come un fine in sé… l’imperativo pratico sarà dunque: agisci in modo da considerare l’umanità sia nella tua persona sia nella perso-na di ogni altro sempre come scopo e mai come semplice mezzo” (Fondazione della metafisica dei costumi, Milano 1982, p. 143). Allora è il rispetto della persona con tutte le sue esigenze elementari a impostare correttamente il problema del dialogo in-terculturale aperto sia ai valori dell’identità (e che non cada nel relativismo e nello scetticismo culturale) che a quelli dell’universalità, dell’accoglienza e del rispetto dell’altro (e che non cada nell’intolleranza, nel fanatismo, nell’integralismo). Come chiaramente fanno capire le fondamentali riflessioni di Popper e di Habermas.

2. c. Popper: il metodo democratico è espressione della non-arroganza intellettuale

Per Popper, teorizzatore della Società aperta, il rifiuto di tollerare è in primo luogo un atto di arroganza intellettuale, che scaturisce dalla negazione della possibilità di essere in torto, di non ammettere il proprio errore, come del resto sottolineava Vol-taire.

È significativo il fatto che per Popper la tolleranza non si accompagna né allo scettici-smo, né al relativismo, ma ha alla base la concezione della verità come ideale regolati-vo del sapere umano, cioè come meta verso cui tendere attraverso una continua veri-fica delle nostre ipotesi e conoscenze, sia in ambito scientifico, sia in tutte le altre at-tività umane. Solo così è possibile evitare il rischio di ricorrere alla discriminazione di chi non la pensa come me. Se è il bisogno di muovere verso la verità a indirizzare gli sforzi di una comunità, nessuna ipotesi può essere respinta a priori e nessuno sarà di-scriminato per le sue idee, con il risultato di favorire il progresso scientifico e civile. (Cfr. Tolleranza e responsabilità intellettuale, in AA. VV. Saggi sulla tolleranza, Il Sag-giatore, Milano 1990, pp. 36-41) Non a caso l'appello per un'ampia tolleranza e per

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l'accettazione e la verifica sperimentale di tutte le teorie si accompagna, nel pensiero di Popper, con la difesa del metodo democratico, che solo permette un proficuo scambio di idee e consente di sperimentare strade mai percorse in precedenza. Il con-fronto comune, per il filosofo inglese, è la sola strada che permette di correggere gli errori.

2. d. Habermas: la tolleranza nasce dall’inclusione dell’altro nella mia identità

Se Popper ha sottolineato il dialogo democratico come metodo per cercare l’unità nella diversità, per cercare una verità complementare e regolativa, sintesi di vari ap-porti di verità e in presenza di vie diverse di approccio e di diverse identità, senza ca-dere nel relativismo o scetticismo, Habermas sottolinea in modo complementare l’esigenza che le identità particolari siano rispettate e integrate in un contesto sociale universalizzante. Il sociologo e filosofo tedesco sostiene che nelle società contempora-nee, caratterizzate dal pluralismo dei gruppi e delle culture, le richieste di tolleranza non riguardano solo le libertà individuali, ma anche il riconoscimento di gruppi mi-noritari che intendono preservare la propria specificità dal rischio di omologazione e chiedono sia visibilità e riconoscimento pubblico che usufrutto di una certa quota di potere. Habermas, attento alla dimensione comunicativa dell'esperienza umana, uti-lizza il termine "inclusione" per indicare il modo in cui oggi si specifica il tema della tolleranza: inclusione non significa accaparramento assimilatorio, né chiusura nei confronti del diverso, bensì apertura verso coloro che sono e si sentono reciproca-mente estranei e che tali vogliono rimanere. I valori culturali, secondo Habermas, hanno diritto al riconoscimento politico, perché sono costitutivi delle varie identità, ma vanno inseriti in una realtà sociale - una "prassi" - fondata su criteri costituzionali universali, cioè accettati e condivisi da tutti, e transculturali, cioè non vincolati a nes-sun gruppo culturale specifico. Questo per evitare che la società sia formata da gruppi chiusi, che non intendono comunicare tra loro e che come tali sono incapaci di dare origine a una comunità che si possa identificare in istituzioni e leggi comuni. La tute-la delle identità particolari e l'attenzione alle richieste dei gruppi minoritari è proprio ciò che dà titolo allo Stato di esigere, in cambio, lealtà alle istituzioni democratiche e adesione ai principi politici che le ispirano. Insomma uno scambio di riconoscimento reciproco tra comunità particolare e comunità universale, dei rispettivi valori di cui ognuno è portatore, ma non esclusivo, bensì, appunto, inclusivo (Cfr. J. Habermas – C. Taylor, Multiculturalità, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 69-73). Cioè, il mio valore, proprio nella misura in cui è vero e autentico, non mi chiude e non mi porta a esclu-

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dere l’altro e i suoi valori, ma mi apre alla sua specificità, mi porta a includere i suoi valori nella mia visione. “Inclusione”, perciò non esclusione è il metodo di cui parla Habermas, che riflette l’antica saggezza che Seneca ha espresso nelle sue Lettere a Lu-cilio: “Devi vivere per un altro se vuoi vivere per te stesso”: se vuoi essere veramente te stesso e avere una identità autentica, devi essere aperto agli altri e disponibile a vi-vere includendo l’altro nel tuo identikit costitutivo, nel tuo progetto di vita. È per questo che le filosofie solidaristiche hanno sempre una attrattiva di carica ideale supe-riore a quelle particolaristiche.

3. La tolleranza tra culture: il punto di vista sociologico. La situazione attuale.1

Oggi, però, è difficile che queste idee vengano riconosciute e accettate: la spinta verso l’intolleranza appare sempre più forte. E le difficoltà attuali del mondo lo stanno a dimostrare, stretti come siamo tra due fuochi: il conflitto che sorge dalle identità che diventano intolleranti e il totale relativismo culturale. Bisogna uscire da questa stret-toia, da questa alternativa soffocante.

Esaminiamo queste due situazioni utilizzando il contributo dell’analisi sociologica e prendendo le mosse dal conflitto tra le identità. Premetto che il relativismo culturale è altrettanto pericoloso del conflitto identitario, perché nasce dal non riconoscerlo, dal non individuarne la radice. È molto pericoloso non riconoscere il conflitto identi-tario. Di fronte a questo conflitto tra le identità e le culture sono possibili storica-mente tre modelli: quello assimilazionista, quello multiculturale e quello dell’integrazione culturale.

3. a. Il modello assimilazionista

Questo modello prevede che l’immigrato debba integrarsi e identificarsi con la cultu-ra prevalente nel paese in cui è ospitato. È un modello fagocitante: nella sfera pubbli-ca l’identità minoritaria non ha libertà di esprimersi e deve assimilarsi a quella domi-nante. Questo modello è stato attuato, ad esempio, in Francia: la proibizione di Chi-rac alle giovani donne islamiche di portare il velo nelle scuole francesi è una conse-guenza del modello assimilazionista. Siccome la scuola è un luogo pubblico, l’identità non deve manifestarsi. Questo modello ha creato gravi disastri perché è un modo di

1 Ci riferiamo alle tesi esposte in una lezione di Bruno Zamagni in un recente convegno sulla multicul-turalità

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trattare il conflitto di identità come se fosse un conflitto di interessi: pone una alter-nativa tra le identità, una impossibilità di convivenza come se rappresentassero inte-ressi opposti e, quindi, le pone in conflitto tra loro, instaurando un rapporto recipro-co di forza, tale per cui l’identità minoritaria deve sottomettersi e assimilarsi a quella prevalente, almeno fino ad un possibile ribaltamento dei rapporti di forza. Natural-mente, c’è anche un vantaggioso rovescio della medaglia, perché è come se si dicesse: “se tu rinunci alla tua identità o a manifestarla pubblicamente, io ti do numerosi van-taggi economici”. È questo in sintesi lo scambio che questo modello propone alle cul-ture minoritarie. È il modello fatto proprio dalle correnti repubblicane francesi ed ha la sua radice profonda nell’illuminismo francese, soprattutto nella ispirazione rousse-auiana, fatta propria poi dai giacobini. Secondo questa concezione lo stato non rap-presenta la sintesi di un mosaico di identità, ma deve identificarsi e uniformarsi in una unica volontà, impersonata dallo stato che definisce i criteri della sfera pubblica, l’etica e la politica. Questa mentalità, depurata dagli estremismi e fanatismi del terro-re giacobino, è però rimasta sostanzialmente inalterata anche sotto le forme attuali della democrazia moderata.

3. b. Il modello multiculturalista

Questo modello è la descrizione di un fatto, dell’esistenza in un territorio di una plu-ralità di culture. Questo modello si riferisce alla situazione del Canada e degli USA e concepisce la società come un arcipelago, le cui isole sono comunità con matrici cul-turali diverse. Secondo questo modello un soggetto sceglie l’isola e ne adotta i caratte-ri. Compito dello stato è regolare i rapporti tra le diverse culture: è il modello del melting pot, ed è stato un successo recente del modello nordamericano. È affascinante perché lascia liberi ed è sottoscritto dal pensiero liberale: ognuno vive secondo la pro-pria concezione. Ma c’è un limite: il mercato. Nella sfera del mercato non ci devono essere distinzioni e non ci devono essere interferenze nella conduzione degli affari e-conomici. Questo modello ha molte ragioni in suo favore, ma non funziona perché anche questo è un tentativo di ridurre il conflitto identitario a conflitto di interessi. È tollerante finché non si parla di soldi, ma nel momento in cui si comincia a parlare delle regole con cui vengono distribuite le risorse, cominciano i problemi e l’intolleranza. Le identità sono tollerate finché non mettono in discussione l’attuale establishement del mercato mondiale. È proprio questo che gli USA non vogliono mettere in discussione, soprattutto dopo l’11 settembre, evento che rappresenta un attacco mai così profondo alla loro leadership economica mondiale e al sistema di re-

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gole di mercato globale che rappresentano. La situazione attuale dimostra a nostro avviso che anche questo modello è in crisi e mostra tutti i suoi limiti, perché nascon-de e sottrae alla tolleranza un aspetto importante: quello economico, è relativista in tutto tranne che sui soldi, detto brutalmente. Mentre una vera tolleranza nasce da un vero incontro di identità: la convivenza pubblica deve includere tutti gli aspetti della vita umana, non escluderne qualcuno, in qualsiasi modo lo si faccia.

3. c. Il modello dell’integrazione culturale

Questo modello si pone di fronte a questo bivio con un atteggiamento diverso: cerca una integrazione non superficiale, non escludente a priori qualcuno degli aspetti della cultura ma senza cadere nel relativismo culturale. È un modello difficilissimo, ma che è oggi particolarmente urgente. Vediamo di che si tratta.

3. c. 1. Inadeguatezza del relativismo culturale

Innanzitutto rendiamoci conto del fenomeno migratorio recente: negli ultimi dieci anni dopo il crollo del Muro di Berlino i tassi di immigrazione sono molto aumenta-ti. Ma nella stragrande maggioranza dei casi non si tratta di integrazione culturale ma solo economica (per il lavoro) o sociale (per la casa e i servizi). Il problema è che non basta. L’immigrato reclama il riconoscimento della propria identità. Oggi, invece ci troviamo nel caos per aver sottovalutato questo problema. Ci stiamo appiattendo su una interpretazione dell’integrazione culturale intesa come non fare niente: è perico-losissimo. La leadership politica preferisce non intervenire per non creare problemi: è l’anticamera del relativismo assiologico. È un indifferentismo che provoca disorien-tamento nelle giovani generazioni che hanno bisogno di certezze e di ipotesi da verifi-care: nell’assoluto relativismo educativo e nella neutralità assiologia i bambini cresco-no nevrotici e psicotici. Il bambino vive progetti educativi opposti presentati come assolutamente indifferenti: non può fare la mediazione e diventa schizoide. Il consu-mo di antidepressivi aumenta continuamente e la scuola produce sempre più disso-ciazioni.

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3. c. 2. Il dialogo culturale, premessa e strumento fondamentale dell’integrazione cul-turale

È urgente che inizi un dibattito su queste cose, perché bisogna affrontare in modo serio il nodo dell’integrazione culturale. Con quale modello è possibile realizzare que-sta integrazione culturale? La risposta è una sola: attraverso un autentico dialogo cul-turale. Ma cosa è un vero dialogo culturale? Ce ne dà una chiarissima idea il professor Antonio Papisca, che del dialogo interculturale è stato in questi anni preziosissimo paladino:

“Insieme con la democratizzazione del sistema delle relazioni internazionali ha priori-tà l'obiettivo del dialogo interculturale come palestra di cittadinanza attiva nelle città, nelle strade, nelle scuole, nei luoghi di lavoro. Per dialogare occorrono conoscenze, sensibilità, motivazione, disponibilità di strumenti che consentano di passare dalla condizione (conflittuale) di multi-culturalità a quella (cooperativa) di inter-culturalità. Il paradigma dei diritti umani internazionalmente riconosciuti si offre come codice di comunicazione, come uno strumento di trans-culturalità che agevola il passaggio dalla fase del confronto a quella appunto del dialogo. Ma il dialogo po-trebbe limitarsi allo scambio di conoscenze, senz'altro utile ma non sufficiente per realizzare l'obiettivo principale, cioè l'inclusione di tutti nella comunità politica a pa-rità di diritti fondamentali e di corrispettivi doveri. Il dialogo interculturale, perché sia fecondo, deve rispondere all'interrogativo: per che cosa? La risposta è: per realizza-re un progetto comune. E siccome la conflittualità multiculturale nei paesi europei è alimentata soprattutto dall'immigrazione, la quale è a sua volta legata a fattori, circo-stanze e squilibri di mondializzazione, il progetto da condividere e da perseguire in-sieme è quello di un ordine mondiale più giusto, pacifico, democratico. Anche per operare su questo terreno in cui, giova ripetere, si costruiscono insieme pace sociale e pace internazionale, si manifesta come indispensabile la dimensione internazionale dell’educazione alla cittadinanza attiva”. (A. Papisca, Riflessioni in tema di cittadinan-za europea e diritti umani, relazione all’interno del XV Corso di perfezionamento sui diritti della persona e dei popoli intitolato Cittadinanza europea e diritti umani, pub-blicato dal Centro interdipartimentale di ricerca e di servizi sui diritti della persona e dei popoli dell’Università degli Studi di Padova, A.A. 2003/2004, p. 16)

Secondo quanto detto, bisogna allora distinguere tra la conversazione e il dialogo: il dialogo non è una conversazione. La conversazione è piacevole, è un utile intratteni-mento, ma il dialogo è un’altra cosa. Nella conversazione ognuno dice ciò che pensa e poi torna a casa come prima: non gli è chiesto un cambiamento di posizione, di men-

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talità. Ma il dialogo non lascia mai come prima, come si era. Dal dialogo ognuno e-sce sollecitato, “intrigato”: il punto di vista dell’altro ci lascia in un subbuglio interio-re. Ecco che, se non vogliamo ricadere nei due modelli riduttivi precedentemente de-lineati (il modello assimilazionista e il modello multiculturalista), dobbiamo proporre all’immigrato che viene da noi in Occidente un autentico dialogo. Per far questo dobbiamo precisare l’accettazione reciproca del metodo di questo dialogo, i punti fermi irrinunciabili che impediscono di ricadere nel relativismo culturale da una parte e nella intolleranza e nell’imposizione dall’altra: altrimenti non ci può essere dialogo e tutta la conversazione diviene inutile o ambigua.

3. c. 3. I principi fondamentali del dialogo culturale

I principi reciprocamente irrinunciabili di un corretto metodo dialogico di integra-zione culturale sono cinque:

3. c. 3. I. Accettazione del primato della persona umana sia rispetto allo stato (cioè contro lo statalismo, secondo il quale viene prima lo stato e poi la persona; statalismo secondo il quale è la persona per lo stato e non lo stato per la persona) che alla forma della comunità (cioè contro il comunitarismo, secondo il quale, cioè, viene prima la comunità e poi la persona) Bisogna arrivare a una reciproca affermazione della perso-na come primum ontologico, come chiaramente sottolinea, anche in chiave storica, Antonio Papisca: “Il riconoscimento giuridico dei diritti fondamentali della persona sul piano internazionale è la tappa più recente di una lunga, millenaria storia di libe-razione e promozione umana, segnata da impegno intellettuale e mobilitazioni popo-lari, che ha condotto all'adozione di Costituzioni democratiche all'interno degli stati. Fino al 1945, il riconoscimento giuridico dei diritti umani era una conquista che ri-levava soltanto per il diritto costituzionale interno agli stati, separatamente l'uno dal-l'altro. Con la Carta delle Nazioni e, segnatamente, con la Dichiarazione Universale del 1948 e con le successive Convenzioni giuridiche in materia, lo spazio del ricono-scimento si è esteso al di là e al di sopra dei tradizionali confini della sovranità dello stato. Significativamente il Preambolo della Dichiarazione Universale proclama che "il riconoscimento della dignità di tutti i membri della famiglia umana e dei loro di-ritti, eguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo" (corsivo aggiunto). Dunque, la dignità umana è solennemente as-sunta come valore fondativo dell'ordine mondiale. Questo comporta che debba valere

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anche per l'ordinamento internazionale il principio secondo cui la sovranità appar-tiene al popolo - nel nostro caso alla famiglia umana universale - in ragione del fatto che ciascuno dei suoi membri, egualmente, è titolare di diritti che ineriscono appun-to alla dignità umana, e sono pertanto inviolabili, inalienabili, imprescrittibili. L'arti-colo 1 della Dichiarazione Universale è esplicito quanto alla radice dei diritti della persona: "Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratel-lanza" (corsivo aggiunto). L'essere umano è pertanto riconosciuto, anche nell'ordi-namento internazionale, quale soggetto originario, mentre gli stati e qualsiasi altro sistema organizzato sono entità derivate, sistemi 'artificiali' creati per un prestabilito facere, come tali strumentali rispetto al perseguimento dei fini primari collegati alla realizzazione dei diritti umani”. (A. Papisca, Riflessioni in tema di cittadinanza europea e diritti umani, op. cit., pp. 4-5)

3. c. 3. II. Laicità dello stato e del potere politico. Ci sono due tipi di laicità: a) laicità come indifferentismo, che sostiene che lo stato deve fare come Pilato, che non deve prendere una posizione e rimanere indifferente di fronte a tutte le posizioni, perché tutte sono uguali. È una posizione pilatesca di “menefreghismo” politico e sociale; b) c’è una laicità intesa come imparzialità: lo stato non deve favorire una posizione piut-tosto che un’altra, non deve discriminare, ma deve rifiutare di essere stato etico. In questo senso molti intellettuali che si definiscono liberal, in realtà sono statalisti, così come Hegel, se inteso in questo senso e portato alle estreme conseguenze può essere considerato come il padre di tutte le dittature. È chiaro che la laicità intesa nel secon-do senso è il principio fondamentale per un vero dialogo. La Corte Costituzionale ha recentemente dato questa interpretazione della laicità. È come un genitore che ha tanti figli: per lui sono uguali nella dignità. L’imparzialità non impedisce, ad esem-pio, di aiutare di più chi ha più bisogno.

3. c. 3. III. Accettazione da parte dei dialoganti del nucleo dei Diritti Umani fonda-mentali. È un punto difficilissimo perché le culture non giudaicocristiane non accet-tano le nozioni di diritto naturale e di diritto fondamentale che sono tipiche della no-stra matrice culturale. È invece un punto irrinunciabile: ce ne rendiamo conto anche dal modo in cui, storicamente, è stato fissato questo nucleo fondamentale di diritti umani; ce ne parla Antonio Papisca: “Per la stesura del testo ad opera della Commis-

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sione diritti umani delle Nazioni Unite, energicamente presieduta da Eleanor Roose-velt, ci fu un ampio coinvolgimento di personalità del mondo della cultura di ogni parte del pianeta, compreso il Mahatma Gandhi, attraverso una consultazione pro-mossa dall'UNESCO e coordinata da Jacques Maritain. Anche i paesi socialisti die-dero un contributo sostanziale, ottenendo che nella Dichiarazione fossero inclusi i diritti economici e sociali. Al momento della votazione essi tuttavia si astennero, mo-tivando che la Dichiarazione non enuncia anche il diritto di autodeterminazione dei popoli e non prevede specifiche misure di garanzia. La Dichiarazione fu adottata con 48 voti favorevoli, 8 astensioni (oltre ai paesi socialisti, Arabia Saudita e Sudafrica), nessun voto contrario. È importante ricordare che, a informare l'intero documento, prevalse l'approccio delle "verità pratiche" propugnato da Maritain, il cui senso può così riassumersi: si metta nero su bianco, si scrivano i diritti fondamentali, a prescin-dere dalle diverse concezioni circa il loro fondamento (come pure avrebbe voluto qualche governo), insomma primum vivere deinde philosophari. La storia ha dato ra-gione a Maritain, anche se sarebbe inesatto dire che nella Dichiarazione non c'è un richiamo generale al fondamento dei diritti. L'articolo 1 infatti proclama: "Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza". I diritti fondamentali sono dunque "innati": ne consegue, senza ombra di dubbio stando alla lettera della Dichiarazione, che il diritto naturale è il loro humus. Come lo statuto dell'ONU è il primo atto giuridico internazionale che sancisce il "principio" del ri-spetto dei diritti umani, così la Dichiarazione Universale è il primo atto internaziona-le contenente, nei suoi trenta articoli, una "lista" organica di diritti fondamentali. Nonostante che la Dichiarazione, al momento della sua adozione, abbia il carattere formale non di un accordo giuridico internazionale ma di una solenne "raccomanda-zione" che vincola in termini etico-politici, essa segna l'inizio di una legislazione or-ganica in materia, giuridicamente vincolante. Insomma, è la madre feconda del "nuovo diritto internazionale", il Diritto internazionale dei diritti umani appunto, costituito da "Convenzioni giuridiche" che, puntualmente, richiamano la Dichiara-zione Universale promuovendola così al rango di "fonte delle fonti" del nuovo Dirit-to”. (A. Papisca, L’internazionalizzazione dei diritti umani: verso un diritto panumano, in Il sapere dei diritti umani nel disegno educativo, op. cit., p. 28)

Molti dialoganti non accettano, purtroppo, questo nucleo di diritti umani fonda-mentali perché dicono, sbagliando, che la sua origine è occidentale. È sbagliato per-ché è vero che l’Occidente europeo è stato il primo che ha accolto i diritti fondamen-

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tali nelle sue Carte Costituzionali, ma non è un frutto unicamente della cultura giu-daicocristiana, come è evidante da quanto detto da Papisca. Un conto è l’affermazione di un principio e un conto è la sua affermazione pratica. Ad esempio, il valore della vita, quello della non-discriminazione: non sono valori in sé occidentali e basta, ma sono valori universali, solo che sono stati messi in evidenza e accolti per primi nella tradizione occidentale. Questo non implica un disprezzo per le altre cul-ture, ma semplicemente un invito anche per esse per accogliere questi valori al loro interno. Se la tua religione ti spinge a considerare la donna ontologicamente inferiore all’uomo, non possiamo ammettere questo principio all’interno di un vero dialogo interculturale, perché significa arrivare a conseguenze perverse di relativismo e indif-ferentismo culturale. Non possiamo inserire nel dialogo culturale i principi del nazi-smo o di Pol Pot: arriveremmo ad un totale caos assiologico. Alcuni paesi musulmani non attribuiscono piena validità ai contenuti della Dichiarazione universale sui diritti umani del 1948 poiché, secondo alcune interpretazioni offerte da alcuni Ulema, essa non rifletterebbe pienamente i principi contenuti nel Corano.

Perché ci sia un vero dialogo interculturale bisogna che in questi paesi, ad esempio, si avvii una riflessione e una mediazione culturale che spinga a rivedere questa incom-patibilità dichiarata tra il Corano e i Diritti Umani intesi non come patrimonio uni-versale ma espressione della cultura occidentale. Come è avvenuto nella Chiesa Cat-tolica dopo il Concilio Vaticano II, in cui si è compreso il principio ermeneutico ap-plicato alle Sacre Scritture (che vanno interpretate all’interno del loro contesto e del loro interlocutore e che va distinto in esse un nucleo teologico immutabile all’interno di una forma relativa ai tempi, cosa del resto già intuita da Galilei), così dovrebbe av-venire anche nelle altre grandi religioni del Libro, pur con tempi e modi che devono essere autonomamente decisi dai responsabili delle rispettive religioni e che non pos-sono essere assolutamente imposti dall’esterno ma solo suggeriti rispettosamente.

3. c. 3. IV. Siccome il dialogo non si può imporre e nulla vi si può imporre, ma può solo essere accettato liberamente, vediamo quali debbano essere le condizioni minime perché ci possa essere una integrazione culturale. Infatti, perché ci sia un dialogo ci deve essere una disponibilità esplicita e evidente da entrambe le parti, altrimenti non si dà il dialogo, ma un ibrido ambiguo e perverso. Ora, siccome la convivenza è già stata attuata, perché l’immigrazione è già iniziata prima che inizi il molto più lento cammino della integrazione culturale, bisogna distinguere secondo noi tre livelli in

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cui il dialogo può essere attuato, mentre si attende che matura una posizione di pro-fonda e piena integrazione culturale:

3. c. 3. IV. a) Tollerabilità: è la condizione minimale nel senso che tollero un com-portamento anche se non lo condivido e non lo accetto come pienamente legittimo. Si tratta di tollerare in vista di un possibile futuro cambiamento, come ad esempio le mutilazioni fisiche per ragioni rituali o l’inferiorità giuridica della donna che alcune culture impongono.

3. c. 3. IV. b) Rispettabilità, nel senso che, pur non condividendo il tuo punto di vi-sta, lo rispetto perché la tua posizione è legata e consegue da un principio etico che condivido. Non condivido la conseguenza specifica ma condivido il punto di vista etico che lo genera. Non seguo perciò il tuo comportamento ma riconosco che corri-sponde ad un trincio etico che è uguale o simile al mio (ad esempio: rispetto la tua usanza di astenerti dalle carni di maiale ed anche se non la condivido, nel senso che non la pratico, riconosco che l’opzione etica che la sottende è meritevole e simile alla mia. Così farò in modo che la tua usanza sia rispettata presso la società in cui mi tro-vo a operare).

3. c. 3. IV. c) Condivisibilità, nel senso che un certo valore può essere integrato ed entrare a far parte a pieno titolo della mia cultura, può miscelarsi con la mia cultura, producendo un arricchimento reciproco, una fertilizzazione incrociata, fonte di pro-gresso e di acculturazione (Esempio: la cultura nordica-barbarica e quella romana).

Le ripercussioni pratiche di questa distinzione di livelli di accettabilità sono molto importanti, perché se i politici devono assegnare i fondi devono avere un criterio uni-tario, altrimenti è il caos più totale. Ci deve essere una politica unitaria, che si uni-forma a uno dei tre criteri che abbiamo esaminato. Se si accetta il criterio dell’integrazione culturale, che ci sembra evidentemente il migliore, ai comportamen-ti solo tollerabili evidentemente non si devono assegnare fondi, al rispettabile è possi-bile destinare risorse, al condivisibile vale la pena investire risorse per favorire l’integrazione culturale. Se non si distinguono questi tre livelli, in base a cosa si desti-nano le risorse? Un paese non dura se ci sono regole troppo diverse al suo interno: serve solo ad aumentare le tensioni rispetto alla popolazione locale e talvolta ad “alle-vare la serpe in seno”, come si suol dire.

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3. c. 3. V. Tolleranza condizionata. Se un gruppo viene da un’altra matrice culturale non si può pretendere che nel giro di poco tempo siano pronti ad accettare i quattro principi precedenti: è mancanza di realismo. Se non sono pronti, si può loro destina-re risorse affinché possano evolvere e perché possano arrivare ad accettare quei prin-cipi base che la comunità umana ritiene indispensabili. È un criterio di prudenza e di saggezza: concedere un periodo assistito e condizionato, al termine del quale possono decidere se vogliono o no accettare i quattro punti precedenti. Questa ipotesi ha due vantaggi:

3. c. 3. VI. a) Almeno è una proposta: tutti dicono che vogliono una integrazione culturale ma non dicono su cosa si basa.

3. c. 3. VI. b) Favorisce il metodo veritativo: ci incentiva a trovare i germi di verità nelle altrui culture. È vero antirazzismo: noi vogliamo scoprire questi semi di verità e attraverso il dialogo invitiamo a rivelarceli. Ha il vantaggio di avvicinarsi ad un mo-dello di democrazia non solo rivendicativa ma anche di una democrazia che fornisce ragioni. Oggi, invece, si tende a confondere il dialogo con il buonismo: non bisogna avere paura che l’immigrato si offenda se gli si parla dei Diritti Umani, anche lui in prospettiva dovrà accettarli insieme agli altri punti giudicati imprescindibili.

3. d. Considerazioni conclusive: democrazia e reciprocità

Nella democrazia ognuno è libero ma deve fornire ragioni che l’altro deve poter ca-pire: non si può rispondere “perché nel Corano c’è scritto così”, o nella Bibbia, ecc… Bisogna fornire le ragioni, non basta dire che è scritto nel Vangelo. È quello che manca nel “buonismo”: il “buonista” dice che non si può chiedere niente all’immigrato e che lo si deve assecondare in tutto. Ma in fondo è mancare di rispetto agli immigrati stessi, perché non li si aiuta a crescere. Invece il vero dialogo fa cam-biare perché fornisce le ragioni del cambiamento che propone alla libertà (e mai im-pone con la forza). Il modello dell’integrazione culturale è il più completo e opportu-no perché anch’io devo fornire la ragioni della mia credenza, devo studiare anch’io le altre culture, devo evolvere.

Si deve applicare il principio di reciprocità: do qualcosa a te perché tu possa a tua volta dare. Ci sono difficoltà notevoli per diffondere e realizzare questa mentalità, ma è un modo concreto per fare integrazione culturale. In questo senso è fondamentale il

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ruolo degli insegnanti e degli operatori sanitari. Sono questi i luoghi dove si vede immediatamente il servizio alla persona: se è saltato o se è autentico. Finora è prevalsa una asimmetria: abbiamo dato priorità all’operosità materiale, ma dobbiamo mettere in comune anche le ragioni e cambiare reciprocamente le categorie di pensiero. Non basta fare il bene e basta, non basta dare una testimonianza. Spesso i missionari ven-gono respinti perché non sanno dare le ragioni: il modello integrazionista non fa sconti, né agli altri né a noi e costringe tutti a cambiare, altrimenti gli altri si allonta-nano.

Non basta confrontare solo il principio, ma anche le conseguenze. Gli effetti sono sempre confrontabili e misurabili. Il metodo integrazionista esige da parte nostra una capacità di dare ragione a cui non siamo abituati perché siamo stati abituati a pensare che gli altri debbano venire incontro a noi: ad esempio i termini libertà e democrazia non esistono nelle lingue mediorientali. Dobbiamo abituarci a dare la ragioni delle nostre categorie culturali. C’è una debolezza del pensiero per una istintiva identifica-zione della integrazione con la colonizzazione: perciò, per non creare chiusure, si sce-glie sempre la via di minore resistenza. Invece queste cose bisogna dirle apertamente e smascherare le ambiguità da qualsiasi parte provengano. Come è dimostrato in socio-logia, certi sforzi, se non sono vicini alla massa critica generano l’effetto opposto. E i politici non si interessano se non di quello che riguarda la massa critica dei cittadini. Noi educatori nelle scuole dobbiamo lavorare per formare coscienza di integrazione culturale e contribuire a formare questa massa critica che altrimenti nessuno crea.

4. La tolleranza tra culture: il punto di vista storico

Ma non sono solo la filosofia e la sociologia a dare chiare indicazioni sul valore di una multiculturalità autenticamente intesa, ma anche la storia, come sottolinea in modo approfondito e esauriente Michele Di Cintio, che di questa fondamentale funzione della storia è sempre stato strenuo sostenitore:

“La dimensione storica resta sempre il "luogo" delle potenzialità e delle scelte umane ed il compito dello storico non è quello di descrivere "come stanno effettivamente le cose" (Rauke), elencando le cause di determinazione dell'evento, bensì quello di "in-terpretare" il passato alla luce del presente e nell'orizzonte della progettazione del fu-turo, in base ad una operazione di interazione ermeneutica con il contesto storico che ha reso possibile quell'accadimento. Evidentemente questa non può essere una "inter-pretazione" del passato, in cui viene ad essere coinvolto, e messo in gioco, il "vissuto"

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dello storico stesso e l'insieme dei suoi pregiudizi (intesi, naturalmente, in termini di mera precedenza temporale rispetto all'attivazione del circolo ermeneutico e senza al-cuna discriminazione valutativa nei loro confronti). Riguardo, più specificatamente, ad una prospettiva interculturale di insegnamento della storia va detto che queste ca-tegorie (complessità, relatività, causazione) sono già fondamentali in quanto permet-tono di acquisire la consapevolezza della pluralità delle storie e della specificità, all'in-terno di ciascuna di esse, delle dimensioni di temporalità, spazialità ecc..., che sono anch'esse, categorie costitutive della realtà storica delle varie civiltà. Altro elemento fondante di tale prospettiva viene ad essere rappresentato dalla possibilità di attribuire alla dimensione della differenza, costituita dall'altro da me, un valore positivo e non negativo, proprio in quanto, nell'orizzonte della relatività e della complessità delle storie, riconosco a ciò che è differente il significato ed il valore dell'arricchimento del-la mia realtà. Ulteriore implicazione di tale processo di sviluppo di una coscienza sto-rica globale ed interculturale è il riconoscimento ad ogni cultura e a ogni civiltà della loro dignità e legittimità, abbandonando, una volta per tutti, il mito dell'unica civil-tà, che procede inesorabile nel suo cammino, travolgendo o assimilando a sé qualsiasi altra realtà storica. È chiaro che un tale riconoscimento coinvolge e struttura un'altra categoria, che si potrebbe definire etico-storica, cioè il rispetto per ciò che è differente da me. Occorre, però, una precisazione importante: il rispetto per le altre culture e civiltà può essere portato ad estreme conseguenze, secondo una prospettiva culturale, il cui massimo esponente è il filosofo post-modernista Lyotard. Se infatti, in base al riconoscimento della legittimità di ogni cultura nella sua specificità storica, si accetta e non si mette in discussione qualsiasi implicazione, atteggiamento, usanza ecc... che quella comporta, si corre il rischio di cadere in quello che definirei l' "anarchismo delle civiltà", ragion per cui non vi è la possibilità di nessun terreno di confronto fra realtà storico-culturali diverse, ciascuna delle quali resta intangibile nella sua specifici-tà”. (M. Di Cintio, Didattica della storia e interculturalità, in Il sapere dei diritti uma-ni nel disegno educativo, op. cit., pp. 53-54)

Noi viviamo in un’area, quella Mediterranea ed Europea che è stata se non la culla, certamente, la casa della civiltà occidentale e moderna. Quest’area geopolitica e cultu-rale ha visto spesso combattersi, ma anche fondersi culture diverse, che hanno saputo dialogare e costruire una ecumene, una casa comune, al di là delle divisioni e delle ri-valità. Come ha sottolineato Pirenne, il Mediterraneo può essere considerato come il luogo dell’incontro tra la grande cultura greca e quella romana; e, poi, del primo dif-ferenziarsi tra Cristianesimo e Islam, ma anche, nello stesso tempo, ineludibile trami-

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te di comunicazione, economica e culturale, che ha impedito alle culture presenti nel-la grande area mediterranea di diventare monolitiche. Le spinte antitetiche e di divi-sione sono state sempre controbilanciate da momenti di dialogo e collaborazione (ba-sti pensare all’età di Federico II). Il Mediterraneo, quindi, si presenta oggi alla ricerca storica e alla didattica come ambito privilegiato di una indagine tesa a cogliere nel fluire dei rapporti tra i popoli anche, in mezzo alle inevitabili tensioni, un profondo processo di integrazione multiculturale tra identità diverse.

Anche il grande padre della storiografia moderna, Bloch, nell’Apologia della storia, sottolinea nel metodo storico un approccio aperto e razionale estremamente educati-vo ai valori della multiculturalità. Egli osserva: "Persino nell'azione noi giudichiamo troppo. È così comodo gridare Alla forca! Non comprendiamo mai abbastanza. Colui che differisce da noi - straniero, avversario politico - passa, quasi necessariamente, per un malvagio. Anche per condurre le lotte che si presentano come inevitabili, occorre-rebbe un po’ più di intelligenza delle anime... La storia, pur che rinunci alle sue false arie di arcangelo, deve aiutarci a guarire da questo difetto. È una vasta esperienza del-le varietà umane, un luogo di incontro degli uomini. La vita, al pari della scienza, ha tutto da guadagnare da che questo incontro sia fraterno". Pertanto è da riscoprire for-temente la valenza educativa della storia nelle giovani generazioni, in quanto le apre ad una accettazione aperta dell’altro, dello straniero e del diverso, così come del dato storico oggettivo che non puoi ridurre alla tua propria misura. Ma anche nella didat-tica della storia, come nel dialogo interculturale, occorre certamente un po’ di corag-gio, accanto all'imprescindibile amore alla verità, per superare le comode schematiz-zazioni che abbondano nella vulgata corrente e per accettare le sfide del presente, tra-sformandole in occasione di crescita culturale per gli studenti e per noi stessi. In que-sto compito non facile ci sostiene la consapevolezza che l'esigenza della giustizia, del vero, della felicità costituiscono la struttura ultima e l'energia profonda con cui gli uomini di tutti i tempi e di tutte le razze affrontano tutte le cose della vita, al punto che essi possono mettere in comune idee e cose e possono trasmettersi l'un l'altro ric-chezze a distanza di secoli e noi leggiamo con commozione frasi di poeti scritte mi-gliaia di anni fa e appartenenti a culture diversissime, come Omero, le leggende dei pellirosse, i poeti cinesi, che ci suggeriscono spesso di più delle produzioni nostrane e attuali. La maturità umana sta proprio in questa capacità di accostarsi al passato e a ciò che è diverso come se fosse vicino e parte di sé proprio per quell' "appannaggio di umanità", come definiva Voltaire le evidenze umane fondamentali. La storia bene in-tesa è stata sempre un aiuto a questo difficile incontro e comprensione tra identità

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diverse. L'atteggiamento più adeguato alla comprensione del diverso viene favorito dalla conoscenza adeguata del metodo storico perché la storia è capace di aprire l'i-dentità particolare all'universalità, mostrando dall'interno che non c'è vera identità se non si riconosce che è data da un principio superiore, infinito, eterno. Educare ad affermare insieme sia l'identità che l'universalità è il grande compito della scuola nel futuro ma è stata anche l'eredità della tradizione autentica delle culture religiose cri-stiane, giudaiche e islamiche, che hanno saputo dialogare con apertura e tolleranza: ed è questa tradizione che la scuola deve raccogliere e rielaborare per le sfide del futu-ro.

5. L’integrazione culturale nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza)

Siamo consapevoli che molta strada è stata percorsa non solo negli ambiti della ricer-ca storica filosofica e sociologica, ma anche in quelli politici, importantissimi per la costruzione della Nuova Europa e i passi che si sono compiuti proprio in queste set-timane sono così decisivi per il nostro futuro e quello dei nostri figli. Già la Carta di Nizza, che è stata integralmente recepita e inserita nella nuova Costituzione dell’Unione Europea, pone al centro dei suoi valori costitutivi quello della persona e quindi tutela tutti i diritti che da essa scaturiscono e sono collegati: “Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universa-li di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà; l'Unione si basa sui principi di democrazia e dello stato di diritto. Essa pone la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell'Unione e creando uno spazio di libertà, sicurez-za e giustizia” (Preambolo). In particolare riconosciute, tutelate e protette sono tutte le identità e le minoranze, concepite come patrimonio e ricchezza da difendere e promuovere e non come ostacolo da rimuovere: “L'Unione contribuisce al manteni-mento e allo sviluppo di questi valori comuni, nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli europei, dell'identità nazionale degli Stati membri e del-l'ordinamento dei loro pubblici poteri a livello nazionale, regionale e locale; essa cerca di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile e assicura la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali nonché la libertà di stabilimento” (Preambolo). In particolare, poi, viene tutelata la libertà professionale e il diritto di lavorare: “Ogni individuo ha il diritto di lavorare e di esercitare una professione libe-ramente scelta o accettata. Ogni cittadino dell’Unione ha la libertà di cercare un lavo-ro, di lavorare, di stabilirsi o di prestare servizi in qualunque Stato membro. I cittadi-

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ni dei paesi terzi che sono autorizzati a lavorare nel territorio degli Stati membri han-no diritto a condizioni di lavoro equivalenti a quelle di cui godono i cittadini dell’Unione” (Articolo 15). Prevedendo poi una società multiculturale, a partire da queste e altre premesse, viene garantita l’uguaglianza e bandita ogni discriminazione: “È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la raz-za, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lin-gua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale…” (Articolo 21).

Anche l’attuale Costituzione che è stata approvata in queste settimane recepisce que-ste linee fondamentali: “L'Unione combatte l'esclusione sociale e promuove la giusti-zia e la protezione sociale, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazio-ni e la tutela dei diritti dei minori. Essa promuove la coesione economica, sociale e territoriale nonché la solidarietà tra gli Stati membri.

L'Unione rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigila alla salvaguardia e allo sviluppo del patrimonio culturale europeo”. (Articolo I-3) Protegge e rispetta le minoranze e le identità specifiche al suo interno: “La libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali e la libertà di stabilimento sono garantite all'interno e da parte dell'Unione in conformità delle disposizioni della Co-stituzione. Laddove la Costituzione si applica e fatte salve le disposizioni particolari da essa previste, è vietata qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità”. (Articolo I-4)

6. Prospettive di lavoro: esigenze fondamentali

Molto è stato fatto quindi a livello giuridico e costituzionale: adesso si tratta di riem-pire di volontà politica questo contenitore e di dare il supporto della buona volontà di tutti, così come i politici, nello spirito di sussidiarietà devono recepire le istanze che vengono dalla società aperta ai valori, come era stata teorizzata da Popper. Ma il corretto rapporto con il territorio tra vecchie minoranze e nuove minoranze si può sviluppare solo con queste considerazioni di base, valide nella scuola e nella società:

a) rispetto di tutto e di tutti nel dialogo interculturale; b) uno studio serio e adeguatamente documentato; e) una scuola e il territorio in osmosi multiculturale; d) accoglienza di chi si sposta con spirito di solidarietà; e) diritto all’educazione con superamento dell’assistenzialismo di vecchia maniera;

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f) affermazione dei diritti universali dei popoli come crescita per tutti; g) ricerca-azione quale nuovo modo di fare scuola, valorizzando tutte le componenti della scuola e, soprattutto, chi ha il carisma di creare sinergie per far lavorare insieme le scuole.

In tal modo, con un felice approccio al "saper essere" si crea un fruttuoso scambio di buone prassi e si costruisce l'Europa delle persone. “Accoglienza di tutti”; “Ognuno di noi è su questa strada per l’Europa dei cittadini”: sono gli slogan della nuova Di-dattica multiculturale.

Come dicevamo, la Scuola non è un Sistema chiuso, ma interagisce con il Territorio, con lo spazio e il tempo in cui è inserita. L’interculturalità costituisce il senso dell’essere umano in quanto tale, perché è incontro tra diversità. E l’uomo è tempo e storia, è un essere storicizzato: perciò dalla coscienza storica si apre alle storie, alla lo-ro ricchezza e genialità. Come hanno intuito gli antichi e nel secolo appena trascorso ha ricordato Heidegger in una conferenza del 1951 intitolata Costruire, abitare, pen-sare, quando dice che ogni luogo ha un suo genio, un suo particolare messaggio che l’uomo in quanto entra in sintonia profonda con il territorio, coglie e recepisce. Que-sta sintonia crea un ambiente armonico e particolarmente pregnante di significato e di bellezza, come è evidente nel nostro territorio veneto, italiano ed europeo. Questa ricchezza non perirà perché troppo importante per tutti e tutte le Istituzioni sono impegnate, come abbiamo visto, a salvaguardarla: ma nello stesso tempo è una ric-chezza che si deve aprire alle nuove sfide che la società pone, quella dell’interculturalità e dello sviluppo sostenibile, quella delle nuove minoranze e delle nuove identità con cui siamo chiamati a dialogare e interagire. La scuola deve dare il suo contributo educativo verso le giovani generazioni, creando le premesse formative per la crescita del senso democratico attraverso la razionalità e la conoscenza storica delle radici comuni europee, ma anche mediterranee, che hanno nell’ospitalità e nell’accoglienza, fin dai tempi di Omero, per il quale l’ospitalità era sacra, e di San Benedetto che si inchinava di fronte all’ospite e al pellegrino, i loro valori fondanti ed essenziali e, perciò, perenni. È collegandosi in questo modo con i valori della grande tradizione europea e mediterranea che la Scuola può dare un grande contributo per la costruzione della nuova identità europea.

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