Microscopio Febbraio 2011

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1 M croScopio Mensile Medico Scientifico RIZOARTROSI www.microscopionline.it NANOTECNOLOGIA le malattie cardiovascolari M croScopio Pubblicazione Mensile in abbonamento • Num. XI - Febbraio 2011 MCV MANDORLE e diabete di Tipo 2 per la cura delle lesioni midollari croniche

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Microscopio mensile medico scientifico - Mese Febbraio 2011

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M croScopioMensile Medico Scientifico

RIZOARTROSI

www.microscopionline.it

NANOTECNOLOGIA

le malattiecardiovascolari

M croScopioPubblicazione Mensile in abbonamento • Num. XI - Febbraio 2011

MCV

MANDORLEe diabete di Tipo 2

per la cura delle lesioni midollari croniche

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FLASH

L’Addetto StampaPierpaolo Berra

notizia

Per la prima volta in Italia è stata eseguita presso la Cardiochirurgia dell’ospe-dale Molinette di Torino la riparazione di una valvola mitralica con metodica mi-ninvasiva transapicale e a cuore battente. Con questo

primo innovativo intervento è partita così la sperimentazione sull’uomo a livello italiano di posizionamento di corde tendi-nee transapicali. L’ équipe del professor Mauro Rinaldi (diret-tore della Cardiochirurgia dell’ospedale Molinette), coadiuva-ta dalle équipe cardiologiche del professor Fiorenzo Gaita e del dottor Sebastiano Marra, ha effettuato questo intervento su un paziente di 52 anni di Torino, affetto da prolasso della valvola mitralica con insufficienza severa. Sono state inserite tre neocorde in goretex dall’apice del ventricolo sinistro. Una tecnica innovativa e rivoluzionaria assolutamente mininvasiva. Non si effettua, infatti, l’apertura dello sterno come in prece-denza, ma una microtoracotomia sinistra. La novità assoluta è che l’intero intervento è eseguito a cuore battente senza cir-colazione extracorporea. Si tratta insomma di una riparazio-ne fisiologica della mitrale. Il paziente è ritornato nel reparto di degenza subito dopo l’intervento ed è in ottime condizioni generali. Si prevede una degenza di 4 giorni, anziché 8 come nel caso dell’intervento tradizionale. La suddetta operazione chirurgica si potrà effettuare in gran parte dei casi di prolasso della mitrale, che è la prima causa di insufficienza mitralica nel-la popolazione. Essendo in via sperimentale, questo innovativo intervento non ha ancora ricevuto il marchio CE, ma se tutto andrà bene e se si raggiungerà con successo la quota di 30 pa-zienti operati, lo si potrà ottenere già entro la fine dell’anno. In questo modo questa nuova tecnica potrà diventare di ordina-ria amministrazione per tutti i pazienti affetti da insufficienza mitralica da prolasso. Una vera e propria svolta.

Per la prima volta in Italia effettuata una riparazione di valvola mitralica con metodica transapicale, presso la Cardiochirurgia dell’ospedale Molinette di Torino

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ROMA

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in tutta Italia

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SOMMARIO

Direttore EditorialeAntonio Guerrieri

Direttore ResponsabileCaterina Guerrieri

Capo redattore e coordinatriceCinzia Mortolini

RedazioneStefania Legumi, Caterina Guerrieri, Francesco Fiumarella

CollaboratoriPaolo Nicoletti, Marco Nicoletti

Le opinioni espresse impegnano solo la responsabilità dei singoli autori. Tutto il materiale inviato, anche se non pubblicato, non sarà restituito e resterà di proprietà dell’editore.

CardiologiaMCV le malattie cardiovascolaripag. 6

ChirurgiaLa Rizoartosipag. 8

inSaluteMedicina fisiologica di regolazionepag. 12

L’opinioneRicomincia la farsa dell’influenza suina dopo che...pag. 13

inFormaIl nostro organismo produce Ozonopag. 22

Le Mandorle possono contribuire alla prevenzione del diabete di tipo2?pag. 24

Progetto GraficoMarco Brugnoni - [email protected]

StampaProperzio s.r.l - Perugia

Si ringraziaDottor Cosimo Stefanio, Dottor Giuseppe Internullo, Dottoressa Olga Fraschini, Dottor Tancredi Ascani, Dottor Nicola Cerbino responsabile Ufficio Stampa Università Cattolica sede di Roma e Policlinico universitario “Agostino Gemelli”, Luigi Di Pace Ufficio Stampa Università di Milano Bicocca, Sara Nanni Ufficio Stampa Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, Lorella Salce Capo Ufficio Stampa Istituto Nazionale Tumori Regina Elena – Istituto Dermatologico San Gallicano, Filippo degli Uberti Ufficio Stampa Comitato Telethon Fondazione Onlus

EditoreE.G.I s.r.l.Reg. Tribunale di PerugiaN. 12/2010 del 10/02/2010

Direzione e AmministrazioneE.G.I. s.r.l. Via Hanoi, 2 • 06023 Bastia Umbra (PG) Tel. 075.800.66.05 - Fax 075.800.42.70 [email protected]

Marketing & PubblicitàGuerrieri Antonio, Altea NatalinoTel. 075.800.53.89

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Pubblicazione Mensile in abbonamento • Num. XI - Febbraio 2011M croScopio

02Protesi elettronica impiantata con successopag. 14

Nanotecnologiauna scoperta per la cura delle lesioni midollari

croniche

pag. 17

Dal tessuto adiposo cellule staminali contro l’artrosipag. 18

Cattiva comunicazione nei tumori pag. 19

TeleThonun goal importante contro la retinite pigmentosa

pag. 21

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Le malattie cardiovascolari (MCV) costituiscono anco-ra oggi uno dei problemi più

importanti di salute pubblica nei Paesi industrializzati. In Italia rap-presentano circa il 44% della mor-talità totale, sono una delle cause più importanti di morbilità, la prima causa di dimissione ospedaliera e una delle cause più importanti di invalidità. Per quanto riguarda le malattie ischemiche e in partico-lar modo quelle cardiache, l’infarto miocardico presenta una prevalen-za maggiore nel sesso maschile ri-spetto a quello femminile, mentre per le malattie cerebrovasco-lari si riscontra una prevalenza maggiore nelle donne rispetto agli uomini. Lo studio INTERHE-ART, condotto su oltre 52 mila persone di tutto il mondo (Asia e Africa incluse), mostra che al-meno il 90% del rischio globale di sviluppare infarto miocardico può essere spiegato prendendo in considerazione i fattori di rischio tradizionali, quali: il diabete, l’iper-tensione arteriosa, la dislipidemia, il fumo di sigarette, l’obesità, la scar-sa attività fisica e il basso consumo di frutta e vegetali. Da ciò si evin-ce che impostando correttamente

Dott. Cosimo StefanioU.O. CardiologiaHesperia Hospital - ModenaVia Arquà 80/A

LE MALATTIE CARDIOVASCOLARI MCV

la prevenzione, con interventi sullo stile di vita, si ha la possibilità di prevenire gran parte delle malattie cardiovascolari. Un punto di svol-ta nelle strategie preventive è stato rappresentato dall’introduzione del concetto di rischio cardiovascolare globale. Esso ha definitivamente sancito, oltre che la natura multi-fattoriale della malattia ateroscle-rotica, la necessità che l’intervento terapeutico su un fattore di rischio venga realizzato, non sulla base del classico concetto del “valore soglia” predefinito, bensì sulla scelta di un valore in grado di garantire al sin-golo paziente un basso livello di ri-schio globale. Il concetto di rischio cardiovascolare globale è entrato prepotentemente in tutte le Linee

Guida che Società Scientifiche ed Enti Governativi hanno formulato allo scopo di orientare in questo campo le scelte terapeutiche del medico. Nell’ambito dei fattori di rischio tradizionali, si ha la distin-zione classica tra fattori di rischio “non modificabili” e fattori di rischio

“modificabili”.I fattori di rischio non modificabili sono: età; familiarità per MCV; sesso maschile. I fattori di rischio modificabili sono:fumo di sigarette; inattività fisica; ipercolesterolemia; bassi livelli di colesterolo HDL; ipertrigliceride-mia; ipertensione arteriosa; diabete. Il fumo di sigaretta e le patolo-gie legate al fumo rappresentano una importante causa di morbosi-tà e mortalità nei Paesi occidenta-li. Tanto negli uomini quanto nelle donne, la probabilità di sviluppare una malattia coronarica aumenta in rapporto al numero di sigarette fumate; interrompendo l’abitudine al fumo, nel giro di circa 5-10 anni, il rischio del soggetto risulta com-pletamente sovrapponibile a quello

di un soggetto che non ha mai fumato.Tra l’altro, uno studio pubblicato sul British Medical Journal ha, per la prima volta, dimostrato che il fumo pas-sivo è addirittura più nocivo del fumo attivo, avvallando, pertanto, le diverse iniziative che, sia le autorità sanitarie internazionali sia quelle nazio-

nali, hanno intrapreso per vietare il fumo di sigarette nei luoghi pubbli-ci. Considerato come uguale a 1 il rischio di soggetti che conducono una vita completamente sedentaria, via via che si incrementa l’attività fisica settimanale, questo rischio si

costituiscono ancora oggi uno dei problemi più importanti di salute pubblica nei Paesi industrializzati

“ “

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riduce, soprattutto in caso d’attivi-tà fisica di tipo aerobico. Pertanto, l’inattività fisica, spesso all’origine dell’obesità, è fonte di MCV e non soltanto. Dati ripresi dall’ISTAT, e relativi a soggetti in sovrappeso e obesi, mostrano che tanto il diabe-te quanto le patologie cardiache o l’ipertensione arteriosa hanno una frequenza almeno doppia rispet-to alle persone non obese. Diversi studi hanno dimostrato che, più che il peso, è la distribuzione del tessuto adiposo a condizionare il rischio car-diovascolare. Infatti, la distribuzione centrale (addominale) del grasso predispone al diabete mellito, all’i-pertensione arteriosa e tipicamen-te influenza negativamente i lipidi plasmatici. Una condizione stretta-mente legata all’besità, soprattutto “centrale”, è l’insulino-resistenza e l’iperinsulinemia che a questa si

associa. L’insulino-resistenza è alla base della cosiddetta sindrome plurimetabolica, una condizione al-tamente aterogena caratterizzata dalla contemporanea presenza di una moltitudine di fattori di rischio cardiovascolare. È largamente noto, ormai da molti anni, che il coleste-rolo è un fattore di rischio coronari-co, probabilmente il più importante, e che non esiste un livello-soglia per poter parlare di pericolosità: infatti, con l’aumentare del livello, aumen-ta, in modo esponenziale, il rischio coronarico. A questa conclusione giunge sia lo studio Framingham sia lo studio MRFIT. Lo studio Fra-mingham ha inoltre dimostrato che il rischio aumenta per livelli elevati di colesterolo LDL e che il rischio è ancora più alto se, contemporane-amente, è basso il colesterolo HDL, cioè quello che comunemente viene

chiamato “colesterolo buono”, che effettua il trasporto del colesterolo dai tessuti circolanti al fegato per metabolizzarlo. Anche l’iperten-sione arteriosa è un fattore di ri-schio incisivo. La nota metanalisi di McMahon dimostra che, man mano che aumenta il livello della pressio-ne arteriosa diastolica, aumenta il rischio d’ictus cerebrale o di infarto cardiaco. Il diabete è certamente un altro fattore di rischio rilevante, che sta sempre più assumendo il carat-tere di una vera e propria epidemia. A livello mondiale, tra il 1995 e il 2005, la frequenza della popolazio-ne diabetica è raddoppiata, passan-do da circa 100 milioni a 200 milioni di persone, e si prevede che, attor-no al 2030-2040, essa aumenterà ancora triplicando. Naturalmente, anche in questo caso, la frequenza della malattia varia a seconda delle popolazioni. Per esempio, in Giap-pone e in Cina la frequenza di dia-bete è piuttosto bassa, intorno all’1-2%; in Italia e nel bacino del medi-terraneo si aggira intorno al 6%; in America intorno all’8%, mentre fra gli indiani Pima, evidentemente per forti ragioni genetiche, il diabete addirittura interessa circa un terzo della popolazione. Tra l’altro è noto come il diabete sia in grado di rad-doppiare il rischio di ictus cerebrale o di infarto del miocardio, nonché il rischio complessivo di morte.

Gli interventi di prevenzione Gli interventi di prevenzione pos-sono essere di varia natura:strategia di popolazione: stile di vita, fattori ambientali; strategia per il rischio elevato: identificazione di individui a rischio elevato; preven-zione secondaria: evitare la pro-gressione della malattia. Per “strategia di popolazione” s’in-tende un intervento che coinvolga le

continua a pag. 26

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Oggi per rizoartrosi si intende una grave, pro-gressiva ed invalidante artrosi dell’articola-zione alla base del pollice, tra il trapezio ed

il primo metacarpale (MC) (foto1). Questa grave affe-zione degenerativa della mano è, certamente, la più frequente in questo distretto: essa colpisce la don-na attorno ai 50 anni, con frequenza dell’80-90 %. La rizoartrosi del pollice diviene nel tempo bilaterale, il suo esordio avviene quasi sempre dal lato dominante, dove l’evoluzione è sempre più accentuata.La sua fre-quenza ed incidenza clinica sono sicuramente sottosti-mate.La rizoartrosi del pollice si associa con notevole frequenza ad altre manifestazioni artrosiche delle dita della mano (noduli di Bouchard ed Heberdeen), alla s.

LA

del tunnel carpale, ad epicondilite, alla spalla dolorosa ed alle patologie legate alle degenerazioni artrosiche della colonna cervicale. Sul piano etiopatogenetico ad eccezione dei casi post-traumatici, non si riconoscono cause precise. Viene assegnato solitamente un ruolo predisponente oltre che scatenante alla menopausa. L’aspetto radiografico è anch’esso assimilabile alle al-tre alterazioni degenerative delle superfici articolari.. Di frequente riscontro è la presenza di corpi mobili o corpi rizoidei nell’angolo mediale, mentre all’angolo esterno del trapezio il processo osteofitosico tende a formare una mensola, nel tentativo di contrastare la tendenza alla lussazione della base metacarpale. Nel-le forme più gravi, con lussazione del raggio, la base

Immagine radiografica di Rizoartrosi con segni tipici

RIZOARTOSI

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Dottor Giuseppe InternulloSpecialista in Chirurgia della Mano, Università di ModenaCentro studi Patologie della Mano, Cataniawww.chirurgiadellamanocatania.it

quadro di radiografico di artroplastica preoperatoria quadro di radiografico di artroplastica postperatoria

del 1° MC appare verticalizzata. Il solo esame clini-co può già condurre alla diagnosi, specie nei casi già evoluti, quando l’ispezione e la palpazione mettono in evidenza la deformazione della radice del pollice, che presenta una salienza ossea irregolare, dura, dolente alla pressione, in corrispondenza della base ipertrofi-ca e sublussata del 1°MC. Utile complemento all’inda-gine clinica è l’esame radiografico. Mediamente una rizoartrosi è dolente dai 3-5 anni fino ai 9-12 anni dal-la sua comparsa. Esistono anche forme asintomatiche L’evoluzione della rizoartrosi costringe il paziente a pagare un prezzo molto alto sul piano funzionale, pri-ma di poter giungere alla regressione della sintoma-tologia dolorosa, che coincide con l’instaurarsi delle deformità. Queste pazienti, donne nella piena attività, si trascinano per molti anni, mentre il destino natura-le della rizoartrosi può invece essere modificato. La diagnosi differenziale è solitamente semplice. Solo la tenosinovite stenosante dell’abduttore lungo del pol-lice o m. di De Quervain può essere confusa con la rizoartrosi, nel caso della tenosinovite si osserva un evidente tumefazione sulla stiloide radiale, dolente alla pressione, in assenza di segni radiografici di ri-zoartrosi. Va comunque ricordato che le due malattie possono coesistere e che il m. di De Quervain può fungere da elemento aggravante oltre che scatenante il dolore ed il deficit funzionale. Il trattamento medi-co sintomatico più frequentemente utilizzato si avvale dei farmaci antinfiammatori non steroidei. Anche le cure fisioterapiche meritano una riflessione: richie-dono lunghi periodi di cure e non sono in grado di modificare di fatto l’evoluzione della malattia. il trat-tamento ortesico costituisce un elemento innovativo nel campo prognostico e terapeutico della rizoartrosi.La rizoartrosi è una realtà clinica bene definita, con un profondo risvolto sociale. Colpisce, come abbiamo vi-sto, un’altissima percentuale di donne in età attiva (50 anni), con dolorosi risvolti sul piano della economia

uno dei tutori utilizzati nel trattamento incruento

domestica e lavorativa. Il ricorso alla terapia medica e fisica solo temporaneamente e solo sotto il profilo sintomatico, mentre il trattamento chirurgico non può proporsi per un così elevato numero di casi ma trova una sua logica per casi singoli e selezionati. Il tratta-mento di scelta rimane quello dell’ortesi, che è nello stesso tempo minimo e massimo: l’ortesi, se ben tolle-rata, dà fiducia al paziente, lo allevia dall’angoscia del dolore ed evita la conseguente limitazione funziona-le e soprattutto previene l’instaurarsi degli squilibri meccanici sulla metacarpofalangea che determinano la comparsa di atteggiamenti articolari viziati, causa stessa dell’evoluzione della malattia che può in molti casi degenerarsi e condurre all’indicazione, se dolo-re persistente con grave limitazione funzionale, solo chirurgica.

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MEDICINAFISIOLOGICA

di REGOLAZIONE

Dottoressa Olga Fraschini www.olgafraschini.net

Questo tipo di medicina rispetta il nostro organismo portandolo ad un equilibrio psico-fisico, equilibrio tra accumulo di tossine e eliminazione, tra radicali liberi in eccesso e sistema difensivo efficiente, equilibrio tra or-moni, neuropeptidi e basi dell’invec-chiamento fisico e cerebrale

““

L a Medicina fisiologica di rego-lazione tratta le malattie con l’intento di regolare la fuoriu-

scita delle tossine esogene e endo-gene che colpiscono la persona dre-naggio e dintossicazione (primo pi-lastro dell’omotossicologia) ogni or-ganismo è pervaso da una notevole quantità di tossine esogene (batteri, virus, tossine alimentari, fattori di in-quinamento ambientale, cataboliti di

farmaci di sintesi, metaboliti prodotti da stress emotivi...) tossine endogene (prodotti intermedi dei diversi meta-bolismi, cataboliti finali). Quando la tossina è particolarmente aggressiva

o nei casi in cui il sistema di drenag-gio emuntoriale non è perfettamente funzionante si instaura un insieme di sintomi. Questa medicina di regola-zione cerca di ristabilire l’equilibrio del nostro corpo (omeostasi). I 3 pi-lastri della medicina fisiologica di regolazione sono: omotossicologia, PNEI, supplementazione nutriziona-le. I rimedi omotossicologici hanno la finalità di stimolare la capacità di autoguarigione, stimolare e regolare il sistema immunologico, endocrino e neurologico. Man mano che l’or-ganismo viene regolato con ormoni omeopatizzati, neuropeptidi omeo-patizzati, organoterapici suis, nosodi (estratti biologici da tessuti patologici )viene raggiunto l’equilibrio omeo-statico. Il recupero dell’efficienza im-munitaria avviene con nosodi, cito-chine omeopatizzate, nuove sostanze immunostimolanti. La supplementa-zione nutrizionale si prefigge di risol-vere le diete alimentari scorrette, le intolleranze alimentari e consiste di aminoacidi, oligoelementi, vitamine, antiossidanti. Esempi pratici di que-sto tipo di medicina sono le persone che presentano disturbi neuroendo-crini (ansia, depressione) disturbi del comportamento alimentare (bulimia) disturbi connessi alla menopausa, an-dropausa dismenorrea.

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P ensavamo che dopo l’evi-denza incontrovertibile dei fatti si stendesse finalmen-

te un velo pietoso su tutta questa storia della suina, la pandemia in-fluenzale “inventata” di sana pianta dall’OMS (ricordo che per dichiarare pandemica l’influenza suina, l’Orga-nizzazione Mondiale della Sanità do-vette modificare in maniera del tutto immotivata la definizione di “pande-mia influenzale”) ma ci illudevamo. Dopo i miliardi di dollari buttati al vento nel mondo in vaccini inutiliz-zati, antivirali pericolosi e mascheri-ne inutili, dopo gli innumerevoli casi di reazioni collaterali anche molto gravi al vaccino (che non è acqua fresca!), dopo che tutto il mondo si è indignato per la spropositata cam-pagna mediatica volta a impauri-re la gente e a farsi fare l’“innocua”

punturina (non senza prima aver firmato una delibera che sollevava i produttori dei vaccini da qualsiasi effetto collaterale del vaccino stes-so), dopo che i più prestigiosi studi scientifici hanno bocciato clamoro-samente l’efficacia dei vaccini antin-fluenzali in ogni classe d’età, dopo le rivelazioni choc pubblicate persino nel British Medical Journal di esperti dell’OMS nel libro paga delle azien-de farmaceutiche che “indussero i governi a comprare i vaccini”, dopo che hanno tentato di rifilarci dei vac-cini contenenti alcuni adiuvanti dagli effetti sconosciuti e potenzialmen-te pericolosi (rifiutati persino dagli Stati Uniti e dalle autorità politiche tedesche che, guarda caso, aveva-no per loro un vaccino senza quegli stessi adiuvanti), dopo che il gover-no polacco denunciò come truffa

colossale questa influenza e rifiutò (saggiamente) di comprare il vaccino risparmiando milioni di euro, dopo che gli altri governi, ormai gabbati, hanno cercato di svendere le milio-ni di dosi di vaccini avanzati ai Paesi Poveri (che muoiono di fame e sete, altro che influenza!) cercando di mi-tigare la montagna di soldi sprecata ecco che senza alcuna vergogna e come se nulla fosse accaduto, si ten-ta di insabbiare tutto ricominciando daccapo con la ridicola conta delle vittime (fatto mai verificatosi prima per nessuna epidemia influenzale normale) sbandierata a caratteri cu-bitali su tutti i maggiori quotidiani. Trattasi quasi sempre di malati già terminali o gravemente immuno-compromessi in cui il virus influen-zale gioca il ruolo, assolutamente marginale, di goccia che fa traboc-care il vaso. Persone che sarebbero decedute per qualsiasi altra causa come una boccata d’aria fresca o, perché no, in seguito allo squilibrio provocato dalla vaccinazione stessa. Probabilmente per salvare la faccia e continuare imperterriti a raggirare la gente, staranno già escogitando un vaccino che ci cancelli la memoria a breve termine ma possiamo stare tranquilli… sicuramente non funzio-nerà.

Dott. Tancredi AscaniIscritto all’Ordine dei MediciChirurghi di Perugia che praticano Medicine Non Convenzionali per la disciplina Medicina Omeopaticawww.omeosan.it

DOPO CHE…INFLUENZA SUINA

RICOMINCIA LA FARSADELL’

l’opinione

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U na protesi in titanio realizzata su misura con dispositivo elettronico miniaturizza-to è stata impiantata con successo per la

prima volta nel Lazio in un bambino di 11 anni af-fetto da osteosarcoma al femore della gamba de-stra, ricoverato presso l’Unità di Oncologia pedia-trica del Policlinico universitario “Agostino Gemel-li”. L’intervento, durato circa 5 ore e perfettamente riuscito, è stato condotto la scorsa settimana, da una equipe di ortopedici e chirurghi vascolari del Policlinico dell’Università Cattolica guidata dal dr. Giulio Maccauro, responsabile dell’Unità operativa di Oncologia Ortopedica presso l’UOC di Ortope-dia del Gemelli (diretta dal prof. Carlo Fabbriciani), e dal dr. Franco Codispoti, dell’Unità di Chirurgia vascolare. Hanno collaborato all’intervento i dot-tori Maria Silvia Spinelli, Calogero Graci e Marco Filipponi. Al bambino, L.K. nato a Roma, è stata ap-plicata una protesi speciale che prevede un mec-canismo in parte elettronico e in parte meccanico, che può allungarsi nel tempo, impedendo o, alme-no riducendo, il rischio della differente lunghez-za degli arti. L’intervento, che per la prima volta è stato eseguito nella Regione Lazio, è in assoluto il 7° caso in Italia (3 casi a Milano e 1 a Napoli, 1 a Brescia e 1 a Torino). Grazie a questo modello spe-ciale, all’avanguardia per il trattamento dei tumori

PROTESI ELETTRONICA IMPIANTATA CON SUCCESSO

DA ORTOPEDICI E CHIRURGHI VASCOLARI DEL GEMELLI IN BAMBINO CON TUMORE AL FEMORE

Permetterà crescita arto malato senza differenza di lunghezza con quello sano. È la prima volta nel Lazio e la settima in Italia di ese-cuzione di questo trattamento all’a-vanguardia nella terapia dei tumo-ri ossei

ossei, il piccolo paziente potrà con l’aiuto dei fami-liari gestire a casa il sistema di allungamento ogni qualvolta la crescita dell’altra gamba lo richiederà. “Il trattamento chirurgico dei bambini in questa fascia di età o anche più piccoli è gravato tra le varie complicanze anche della differente lunghez-za degli arti – commenta il dr. Maccauro - , poiché quello operato, durante l’accrescimento, rimane anche molto più corto dell’altro”. Entro circa 10 giorni il bambino, il cui decorso post operatorio è giudicato dai sanitari più che soddisfacente, e che proseguirà le cure presso l’Oncologia pediatri-ca del Gemelli, diretta dal prof. Riccardo Riccardi, potrà tornare a casa. “La riabilitazione postopera-toria – continua Maccauro - è già cominciata con l’ausilio di apparecchiature per la mobilizzazione passiva del ginocchio”. La protesi impiantata al Gemelli si chiama Mutars Xpand, ed è in titanio ri-vestito di nitruro di titanio, sviluppato dalla Scuola di Oncologia Ortopedica di Muenster (Germania).“Il sistema Xpand - spiega Maccauro - consente l’allungamento meccanico non invasivo dell’arto protesizzato, attraverso una procedura eseguibile anche dallo stesso paziente o dai genitori istruiti dai medici”. Il modulo di allungamento della pro-tesi Mutars Xpand, è costituito da un dispositivo elettronico miniaturizzato (attuatore) interno alla protesi, attivato attraverso una trasmissione ad alta frequenza inviata a un ricevitore sottocutaneo da un’unità di controllo esterna gestita dal medico o dallo stesso paziente. “L’innovazione di questo sistema – aggiunge Maccauro -, risiede nella pos-sibilità di recuperare la naturale dismetria (lun-ghezza differente degli arti) tra arto protesizzato e non, durante la crescita del paziente, senza ulte-riori interventi chirurgici, eliminando il rischio di infezioni”. Notevoli sono i vantaggi per il paziente dall’impianto di questa protesi elettronica rispetto

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alle altre soluzioni per il trattamento dei tumori ossei. A parte le alternative demolitive o molto in-vasive, quali l’amputazione e la giroplastica (che prevede la rotazione del piede dopo resezione ossea e l’utilizzo del tallone come ginocchio), que-sta innovativa protesi, che prevede l’allungamen-to meccanico ed elettronico, dà indubbi vantaggi anche rispetto alle più frequentemente utilizza-te protesi espandibili con meccanismo a vite. “In questi casi bisognava incidere la cute e allungare la protesi con un cacciavite speciale – spiega Mac-cauro - , ma ciò avveniva non senza inconvenienti per il paziente: il meccanismo poteva incepparsi e l’allungamento si bloccava; come conseguen-za si avevano gravi differenze di lunghezza negli arti perché l’arto protesizzato si fermava e l’altro cresceva normalmente”. La protesi Xpand trova indicazione solo nei casi di bambini in cui sia pre-visto un forte accrescimento del segmento femo-rale coinvolto dalla malattia. Tutte le componenti del sistema sono dispositivi su misura, progettati e realizzati per ogni paziente dopo un accurato planning. Il meccanismo si gestisce con una fonte

di impulsi elettrici che si appoggia sull’elettrodo situato in una tasca del tessuto sottocutanea del femore distale del bambino, e può essere gestita sia in ambulatorio sia a casa dai familiari. In Italia, l’incidenza dei tumori primitivi dell’osso si attesta intorno a 0,8-1 caso per 100.000 abitanti, quindi si calcola vi siano circa 500 nuovi casi di tumori ma-ligni primitivi dell’osso per anno. Tra questi, la per-centuale degli osteosarcomi, che è il tumore osseo primitivo più frequente al di sotto dei 18 anni, è at-torno al 20-25 %. La sopravvivenza a 5 anni libera da malattia è fortemente influenzata dall’efficacia della chemioterapia, che deve essere eseguita sia prima che dopo l’intervento chirurgico, passando dal 20% al 70% a seconda della risposta alla che-mioterapia soprattutto in neoadiuvante.

Responsabile Ufficio StampaDott. Nicola CerbinoUniversità Cattolica Sede di Romae Policlinico universitario “Agostino Gemelli”www.rm.unicatt.it - www.policlinicogemelli.it

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R igenerazione di lesioni midollari croniche tramite l’impianto di bio-protesi composi-te nano strutturate: questo il titolo della

ricerca presentata a Milano il 21 gennaio 2011 in anteprima mondiale a Roma presso l’Istituto Casa Sollievo della Sofferenza-Mendel, realizzata da un team tutto italiano guidato dal Prof. Angelo Ve-scovi, professore associato di Biologia Applicata nell’Università di Milano-Bicocca, Direttore Scien-tifico di IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza e Di-rettore del Centro di Nanomedicina e Ingegneria dei Tessuti dell’Ospedale Niguarda Ca’ Granda. La ricerca - pubblicata il 25 gennaio 2011 sulla prestigiosa rivista scientifica americana ACS Nano (http://pubs.acs.org/journal/ancac3), tra le prime tre al mondo nell’ambito delle nanotecnologie - ha portato alla creazione, attraverso tecniche di nanotecnologia, di una neuro-protesi innovativa di natura biologica, ma progettata e sintetizzata in laboratorio. Questa neuro-protesi, trapiantata a struttura tubolare, ha supportato la rigenerazione delle fibre nervose spinali e del tessuto midollare danneggiato in un modello di danno spinale cro-nico. Risultato che apre una nuova via allo svilup-po di terapie sperimentali per le persone paraple-giche e tetraplegiche.

La ricerca

Nello studio si dimostra per la prima volta che, tra-piantando nelle cavità della lesione spinale delle protesi tubulari - delle vere e proprie guaine cilin-

NANOTECNOLOGIAUNA SCOPERTA PER LA CURA DELLE LESIONI MIDOLLARI CRONICHE

L’eccellenza scientifica parla italiano. Presentati oggi in anteprima mondiale i risultati di una ricerca sull’impiego di bio-protesi

driche costruite in laboratorio partendo da mate-riali biologici di sintesi con funzione di supporto (scaffolds) - nano strutturate e bio-riassorbibili, è possibile ricostruire il tessuto del midollo spinale in animali afflitti da una lesione paragonabile a quel-le che troviamo nei pazienti mielolesi. La protesi eventualmente si dissolverà e sarà gradualmente riassorbita fino a scomparire. In altre parole, me-diante queste protesi si genera un nuovo tessuto, molto simile a quello originale, che sostituisce le cisti e cicatrici responsabili dell’interruzione degli impulsi nervosi e causa della paralisi e perdita del-la sensibilità, determinando inoltre un importante recupero funzionale degli arti paralizzati.

Le lesioni midollari croniche

Il recupero motorio conseguito è di particolare ri-levanza scientifica perché la lesione in cui si è in-tervenuti è di natura cronica, ovvero la fase più difficile da aggredire poiché il danno è ormai con-solidato ed il tessuto spinale degenerato è distrut-to. Un intervento terapeutico in questo ambito necessita quindi di un approccio che permetta let-teralmente di ricostruire del tessuto cerebrale che non esiste più, ristabilendo connessioni nervose simili a quelle che lo attraversavano in origine.

Prossimi sviluppi

Questi primi risultati aprono la strada all’utilizzo delle nanotecnologie per la ricostruzione del si-stema nervoso centrale mediante l’uso di protesi nano-biotecnologiche. Al momento sono in fase di sviluppo nuove protesi che combinano l’uso dei nano-materiali con terapie farmacologiche e, soprattutto, cellulari mediante l’uso di cellule sta-minali cerebrali umane già di grado clinico, nella futura prospettiva di un eventuale uso nei pazienti paraplegici. La stessa tecnica è in fase di imple-

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mentazione per sviluppare nuove bio-protesi per la rigenerazione di altri tessuti quali, ad esempio, pelle, cartilagine ed ossa. Qualche dato sulle lesioni midollari in Italia e nel mondo. In Italia, secondo dati forniti da varie As-sociazioni di paraplegici, vivono circa 100.000 mielolesi. L’epidemiologia e la letteratura scienti-fica affermano che ogni anno sul nostro territorio nazionale ci sono circa 1.200 nuovi casi di lesione midollare; ciò significa che ogni giorno, solo nel nostro Paese, almeno tre persone diventano para o tetraplegiche. Questo dato per altro è analo-go a quello di altri paesi della Comunità Europea. Ogni anno quindi vi sono circa 3 - 4 nuovi casi di paraplegia ogni 100.000 abitanti. Circa la metà di questi casi ha subito un grave trauma stradale, il 10% un trauma sportivo mentre nel 20% l’origi-ne della lesione è un infortunio sul lavoro o una caduta, nel 15% una malattia neurologica o altre cause ed infine nel 5% la causa è stata scatenata da una ferita d’arma da fuoco o da tentato suici-dio. Nel mondo vi sono circa 2.5 milioni di per-sone mielolese, con 130.000 nuovi pazienti ogni anno (Fonte: Medicitalia).

Chi ha finanziato la ricerca

La ricerca è stata co-finanziata dall’Associazione per la Ricerca sulle Malattie Neurodegenerative Neurothon, dalla Fondazione Cariplo (progetto “Cellule staminali neurali umane e biomateriali nano strutturati per la medicina rigenerativa”) e dalla Regione Lombardia tramite l’avvio del “Cen-tro di Nanomedicina ed Ingegneria dei Tessuti”.

Dichiarazione del Prof. Angelo Vescovi, ideato-re della ricerca

“I risultati della sperimentazione rappresentano l’avvio di un nuovo settore di ricerca sino ad oggi neppure concepibile, consentendo la ricostruzio-ne di interi frammenti di tessuto nervoso” dichia-ra il Prof. Angelo Vescovi, ideatore della ricerca, scienziato di fama mondiale da sempre impegnato in questo settore, sia in Italia che all’estero. “Que-sta è la pietra fondante di un nuovo approccio alla medicina rigenerativa e una svolta qualificante della ricerca di Casa Sollievo della Sofferenza, che opera da sempre nell’interesse del malato”.La ricerca è stata sviluppata da Fabrizio Gelain, uno dei cervelli rientrati dall’estero che danno lu-stro alla ricerca italiana, con importanti esperienze in prestigiose università straniere quali il MIT di Boston e chiamato dal Prof. Vescovi a dirigere una unità di ricerca presso Casa Sollievo della Soffe-renza. Alla ricerca hanno collaborato l’Ospedale Ca’ Granda Niguarda, l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, l’Istituto Casa Sollievo della Sof-ferenza - Mendel, il Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, l’Università degli Stu-di di Milano, la University of Alberta - Edmonton, la University of California - Berkeley.

Ufficio Stampa Università di Milano-BicoccaLuigi Di Pace - [email protected]@unimib.itUfficio Stampa Hill & Knowlton GaiaNicoletta Vulpetti - [email protected] Calvanese - [email protected] Siena - [email protected]

DAL TESSUTO ADIPOSO CELLULE STAMINALI CONTRO L’ARTROSI

Riparare la cartilagine del ginocchio attraverso una semplice iniezione: direttamente nell’articolazione “entrano” cellule in grado di svolgere un’a-zione riparativa e protettiva, in virtù della loro natura. Si tratta di cellule mesenchimali, cioè cellule in grado di differenziarsi, che provengono dal

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“ Gli studi preclinici stanno dando buoni esi-ti spiega il prof. Andrea Facchini, direttore del Laboratorio di Immunoreumatologia e

Rigenerazione Tissutale del Rizzoli. – La scelta del tessuto adiposo si conferma valida, in quanto le cellule staminali che se ne ricavano si sono dimo-strate in grado di rilasciare fattori di crescita che portano alla riparazione della cartilagine danneg-giata. Inoltre stiamo verificando, in collaborazione con i partner del progetto che le produrranno, la sicurezza delle cellule trattate: in pratica, prima di passare alla sperimentazione con i pazienti, dob-biamo essere convinti che l’isolamento e la cre-scita delle cellule ricavate dal tessuto adiposo in laboratorio non provochino danni al loro patrimo-nio genetico, rendendo il trattamento sicuro”. Una volta appurati tutti questi aspetti, il progetto ADI-POA, avviato un anno fa sotto il coordinamento

tessuto adiposo. Su questa opportunità di cura dell’osteoartrite, comune-mente detta artrosi, malattia degenerativa della cartilagine che ha oggi la protesi come unica soluzione a lungo termine, lavora ADIPOA, consorzio europeo riunito da domani all’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna per fare il punto sui risultati sinora raggiunti.

dell’Università di Montpellier con un finanziamen-to dell’Unione Europea di oltre 9 milioni di euro, previa approvazione delle Autorità regolatorie eu-ropee passerà alla fase clinica, che prevede la spe-rimentazione con pazienti affetti da osteoartrite avanzata al ginocchio. “Le prospettive che questa strada apre alla Medicina Rigenerativa nell’ambito della Reumatologia sono promettenti: si possono tradurre in un concreto miglioramento della qua-lità della vita di persone altrimenti costrette a for-ti limitazioni motorie oltre che a dolore cronico e intenso.”

Sara NanniComunicazione e Relazioni con i MediaIstituto Ortopedico Rizzoli di [email protected]

I l tumore alla mammella è una patologia che presenta diverse varianti a livello molecolare che guidano l’oncologo nella scelta terapeuti-

ca. Individuare i geni e le proteine coinvolte nello sviluppo dei vari tipi di carcinoma mammario e i loro meccanismi di comunicazione aiuta ad attua-re terapie sempre più mirate ed efficaci. Il team di ricercatori coordinati da Paola Nisticò, del Labo-

CATTIVA COMUNICAZIONE NEI TUMORI

DIAMOCI UN TAGLIO!REGINA ELENA: Interrompere la comunicazione tra hMena e Her2 può ridurre l’aggressività del tumore al seno Plos-One pubblica lo studio svolto in collaborazione con Sapienza e Istituto San Raffaele

ratorio di Immunologia dell’Istituto Nazionale Tu-mori Regina Elena in collaborazione con l’Univer-sità Sapienza di Roma e con l’Istituto San Raffaele di Milano, hanno dimostrato che i tumori al seno contemporaneamente positivi per l’espressione dell’oncogene Her2 e della proteina hMena, sono particolarmente aggressivi. Esperimenti condot-ti in vitro su cellule di carcinoma della mammella

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mostrano inoltre come inibendo hMena si abbia un rallentamento della proliferazione tumorale indot-ta da Her2. Lo studio, in parte finanziato dall’AI-RC, è stato recentemente pubblicato dalla rivista PLos-One. I dati ottenuti non solo evidenziano il ruolo fondamentale di hMena nello sviluppo delle neoplasie mammarie, ma suggeriscono anche che interrompendo i segnali di comunicazione mole-colari che intercorrono tra hMena e Her2 si possa arrestare la progressione tumorale. Il gene hMena, identificato per la prima volta all’Istituto Regina Elena dalla stessa Nisticò e da Francesca Di Modu-gno, è assente nell’epitelio delle mammelle sane e compare invece nelle lesioni benigne che evolvo-no in tumori. Esso si candida quindi ad essere un marker di diagnosi precoce per il cancro al seno e un importante target terapeutico. Per identificare alcuni meccanismi di comunicazione che le cellu-le tumorali utilizzano per proliferare, stimolate da segnali che provengono sia dalla cellula stessa che dal microambiente tumorale, i ricercatori hanno studiato la cooperazione tra l’oncogene Her-2 e la proteina hMena nei tumori al seno. Il gene hMena dà origine a diverse varianti proteiche che si sono dimostrate validi marcatori precoci di carcinoma mammario, in quanto sono presenti solo nelle le-sioni benigne che hanno però una elevata proba-

bilità di evolvere in cancro. Ciò avviene, con molta probabilità, poiché hMena regola il complesso di filamenti proteici che costituiscono l’impalca-tura delle cellule, il così detto citoscheletro. Que-sta è una struttura molto dinamica, che control-la la forma e la funzione di ogni cellula. In quelle cancerose, questo “scheletro mobile” cambia per l’ aumentata espressione di hMena e delle sue va-rianti . Il gene Her-2 invece è uno degli oncogeni più noti e rappresenta già un importante target terapeutico per il cancro alla mammella. La ri-cerca pubblicata su Plos-One mostra che il 70% dei tumori che esprimono Her-2 è positivo anche alla presenza di hMena. Inoltre getta una luce sui meccanismi che regolano l’interazione tra que-sti due geni che vengono co-espressi proprio da quelle neoplasie del seno con l’andamento clinico peggiore. Lo studio è stato condotto su biopsie di tumori mammari presso l’IRE e ha dimostrato la co-presenza di hMena e Her2 nelle neoplasie più gravi, suggerendo così un ruolo per hMena nella progressione di questi particolari tumori. Per suffragare i dati sono stati quindi effettuati studi in vitro utilizzando colture cellulari di carcinomi mammari hMena e Her2 positivi. Con questi espe-rimenti i ricercatori hanno dimostrato che silen-ziando hMena è possibile inibire la proliferazione

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tumorale promossa da Her2 e da fattori di cresci-ta rilasciati dal microambiente tumorale. “hMena si rivela un utile marker sia diagnostico che pro-gnostico,” - suggerisce Paola Nisitcò - “inoltre si potrebbero individuare farmaci inibitori di hMena per interrompere i segnali che ne permettono la cooperazione col gene Her2, migliorando così il decorso clinico dei tumori al seno più aggressi-vi. Inoltre Il ruolo di queste stutture di filamenti proteici e le loro modificazioni nei tumori rap-presentano una nuova area di ricerca che studia i meccanismi biochimici e biomeccanici che aiu-tano il tumore nella sua crescita. Da qui la neces-saria interazione tra biologi, bioingegneri e fisici“.

Riferimenti articolo: The Cooperation between hMena Overexpression and HER2 Signalling in Breast Cancer Francesca Di Modugno, Marcella Mottolese, Lucia DeMonte, Paola Trono, Michele Balsamo, Andrea Conidi, Elisa Melucci, Irene Terrenato, Francesca Belleudi, Maria Rosaria Torrisi, Massimo Alessio, Angela Santoni, Paola NisticòPLoS ONE: Research Article, published 30 Dec 2010 10.1371/journal.pone.0015852

Lorella Salce - Capo Ufficio StampaIstituto Nazionale Tumori Regina ElenaIstituto Dermatologico San Gallicano - www.ifo.it

R ete segnata dai ricercatori dell’Istituto Te-lethon di genetica e medicina di Napoli nei confronti della retinite pigmentosa, la

più comune forma di cecità ereditaria: la partita è solo all’inizio, ma come descritto sulle pagine della rivista scientifica EMBO Molecular Medici-ne* i ricercatori napoletani guidati da Enrico Maria Surace hanno compiuto il primo passo necessario per arrivare alla correzione del difetto genetico responsabile di questa grave malattia della vista.La retinite pigmentosa colpisce circa una persona su 3000 ed è una malattia molto eterogenea, sia per come si manifesta, sia per come si trasmette da una generazione all’altra. In particolare, il grup-po di Surace si è concentrato su quelle forme in cui basta ricevere il gene difettoso da uno dei genitori (malato a sua volta) per sviluppare la malattia. «Le malattie di questo tipo, dette a trasmissione “au-tosomica dominante”, sono molto difficili da cura-re con la terapia genica» spiega Surace, «perché il difetto genetico determina non l’assenza di una proteina, ma la presenza di una proteina anomala

TELETHON Ricercatori del Tigem di Napoli aprono le porte alla terapia genica contro la più frequente malattia ereditaria della vista

e quindi tossica per l’organismo. Non serve a nulla quindi fornire al paziente una copia del gene sano: bisogna invece cercare di “spegnere” quello difet-toso e questo è molto più difficile».Da circa 10 anni scienziati di tutto il mondo stanno provando a “mettere a tacere” geni difettosi come questi, grazie anche all’aiuto del computer. Per far-lo disegnano delle proteine artificiali, ispirate ad altre presenti in natura, capaci di “abbracciare” in modo specifico i geni alterati e di impedirne l’azio-ne. Nel caso della retinite pigmentosa le cose sono ancora più complicate: come spiega il ricercato-re del Tigem, «le forme dominanti della malattia sono circa il 35% e riguardano frequentemente il gene della rodopsina, che può presentare almeno 150 diversi “errori” nella sua sequenza che si tra-ducono poi in un difetto della vista. È impensabile costruire altrettanti “interruttori proteici” ad hoc, sarebbe troppo oneroso: abbiamo quindi provato a pensare a un’altra strategia». L’idea dei ricercatori del Tigem è stata quella di co-struire un interruttore universale per il gene della

UN GOAL IMPORTANTE CONTRO LA RETINITE PIGMENTOSA

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rodopsina, capace di spegnere sia quello sano sia quello alterato, indipendentemente dal tipo di er-rore genetico. Commenta Surace: «grazie a que-sta tecnologia basata su proteine “artificiali” che legano il Dna, siamo riusciti per la prima volta a rendere inattivo il gene alterato della rodopsina nelle cellule della retina nel modello animale: il passaggio successivo sarà fornire, insieme all’in-terruttore per lo spegnimento di rodopsina, an-che la versione sana del gene». Forti anche degli importanti risultati ottenuti nella terapia genica di un’altra malattia ereditaria della vista, l’amaurosi congenita di Leber, i ricercatori del Tigem contano di proseguire su questa strada e di aprire quindi le porte della terapia genica anche alle malattie a ereditarietà dominante, che storicamente hanno sempre scoraggiato gli scienziati per la loro diffi-

coltà intrinseca a essere trattate. «Potenzialmente questo approccio potrebbe applicarsi a numerose altre malattie dominanti che colpiscono non solo l’occhio, ma altri organi: penso quindi che questo risultato incoraggi a investire nella terapia genica di questa categoria di malattie genetiche rare, an-cora troppo trascurate», conclude Surace. * C. Mussolino, D. Sanges, E. Marrocco, C. Bonetti, U. Di Vicino, V. Marigo, A. Auricchio, G. Meroni, E. Surace, “Zinc-finger-based transcriptional repres-sion of rhodopsin in a model of dominant retinitis pigmentosa”. EMBO Molecular Medicine, 2011.

Ufficio StampaComitato Telethon Fondazione OnlusFilippo degli Uberti Anna Maria Zaccheddu

Ricerca

InForma

A lcuni ricercatori dello Scripps ( The Scripps Rese-arch Institute, sito in La Jol-

la in California ) hanno determinato, con una serie di esperimenti precisi, che il corpo umano è in grado di pro-durre ozono e compie tale operazio-ne allo scopo di proteggersi da mi-ceti e batteri. La produzione umana dell’ozono deriva sia da quei partico-lari globuli bianchi denominati neu-trofili, sia dagli anticorpi del nostro

IL NOSTRO ORGANISMO PRODUCE

OZONOsistema immunitario. Secondo gli scienziati del T.S.R.I (Istituto Scripps ), si tratta di un meccanismo chimico e biologico assai efficiente. L’ozono prodotto nel nostro organismo può legarsi a diverse patologie infiamma-torie, e quindi questo nuovo studio potrebbe fornirci delle innovative implicazioni atte a mettere a punto delle adeguate cure. Tali esperimenti messi a punto dai suddetti ricercatori hanno rinvenuto la presenza, nel ci-

clo biologico del nostro organismo, del gas ozono che noi ben conoscia-mo per l’odore pungente e non spia-cevole che impregna l’aria dopo un temporale. Questo gas svolge una funzione molto importante in natu-ra, infatti esso si trova nella nostra atmosfera con lo scopo di assorbire le radiazioni ultraviolette provenien-ti dalla stratosfera. Si tratta di una funzione di grande rilievo, atta ad evitare che le radiazioni ultraviolet-

di Marco Nicoletti e Paolo Nicoletti

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te possano nuocere sia all’uomo che agli animali. I ricercatori in questione, anni addietro avevano già dimostra-to la capacità degli anticorpi umani di produrre ozono ed altri ossidanti chi-mici. Gli anticorpi erano stati posti in una specifica soluzione reattiva di os-sigeno. Sappiamo tutti, per il grande parlare che se ne è fatto nei Congres-si e su riviste di settore, che i radicali liberi sono nient’al-tro che metaboliti dannosi derivanti dall’ossigeno. E nel caso in questione, di questa soluzione reattiva di ossigeno che è stata impie-gata negli esperi-menti del T.S.R.I., venivano prodotti molti radicali liberi. Ed in tale circostan-za gli scienziati han-no potuto constatare ed accertare la capacità degli anticorpi umani di produrre ozono, ed anche altri ossi-danti chimici. Come è noto, lo scopo di questi ossidanti chimici è quello di sopprimere alcune specie batteriche. La medesima equipe scientifica, di cui sopra, dimostrò nel 2009 che gli ossidanti in questione riescono ad eliminare numerose specie batteri-che determinando dei solchi nelle loro pareti cellulari. Quanto detto fi-

nora si riferisce ad alcuni lati positivi dell’ozono, come ad esempio il ruo-lo positivo esplicato nei confronti di specie batteriche e fungine. Tuttavia, gli stessi scienziati del T.S.R.I. hanno potuto constatare che, disgraziata-mente, l’ozono prodotto nel nostro corpo è collegato ai processi di ate-rosclerosi. Mentre l’arteriosclerosi è un processo di indurimento con

perdita di elasticità, subìto da tutti e tre gli strati dell’arteria ( intima, ovvero a contatto del sangue, media, ossia in posizione intermedia, ed infine avventizia che è lo strato più esterno dell’arteria ), l’aterosclerosi è un deragliamento metabolico che invece riguarda soprattutto l’intima. In tale strato dell’arteria si formano degli accumuli di colesterolo, che alcuni anni addietro sono stati chia-mati dalla comunità scientifica ate-

romi. Se tali piccole masse crescono troppo in volume sono addirittura in grado di ostruire l’arteria. I ricercato-ri in questione sono anche arrivati a mettere in luce che la fascia di ozono che si trova nello strato alto dell’at-mosfera protegge la vita di tutti sulla terra contro i fasci di radiazioni po-tenzialmente nocive, proprio grazie alla funzione assorbente dell’ozono. Mentre d’altra parte l’ozono prodot-to dai nostri corpi potrebbe essere anche rischioso per la nostra salute. Infatti le malattie cardiache costitui-scono la più comune causa di morte nell’intero Occidente e soprattutto negli USA, dove nel 2000 si riscontra-vano ben 878.471 morti dovuti a tale tipo di patologie. Due scienziati del T.S.R.I, Lerner e Wentworth, hanno esposto sull’argomento una teoria scientifica piuttosto seria, secondo cui l’ozono di natura endogena è in grado di peggiorare i processi col-legati all’aterosclerosi, creando dei composti nocivi da cui si può inge-

nerare un rischio maggio-re di ictus. I due scienziati, nella loro ipotesi scientifi-ca, asseriscono infatti che la molecola dell’ozono sarebbe in grado di fran-tumare la molecola del colesterolo situata negli ateromi per produrre una serie di composti tossici che si riversa nel sangue. A tali composti tossici e distruttivi, rinvenuti nelle placche ateromatose ri-

mosse chirurgicamente dai pazienti sofferenti di aterosclerosi, Lerner e Wentworth hanno dato il nome di “atheronals”. Tali “ atheronals “ sareb-bero un gruppo di composti tossici potenzialmente in grado di contribu-ire anche ad un discreto numero di altre malattie. Infatti i due ricercatori ipotizzano che i predetti composti tossici siano implicati anche nella ge-nesi del lupus, della sclerosi multipla e dell’artrite reumatoide.

Il nostro sistema immunitario nella frazione degli anticorpi e dei globuli bianchi neutrofili è in grado di produrre ozono. Tale sostanza può proteggere il nostro organismo da batteri e da miceti. Purtroppo l’ozono non è privo di controindicazioni, essendo anche coinvolto nei processi di aterosclerosi

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I l diabete di tipo 1, come è noto, è quello che ha bisogno dell’insu-lina per essere curato. Mentre il

diabete di tipo 2 viene curato solita-mente con gli ipoglicemizzanti orali, oppure con la dieta o con entrambi. Ed è proprio rispetto a quest’ultima patologia che la suddetta Università del New Jersey ha rivolto con mag-giore concentrazione gli ultimi studi inerenti dieta ed alimentazione ar-ricchiti con le mandorle. Va premes-so che già in passato si erano avuti studi e ricerche che già sembravano suggerire il fatto che le mandorle po-tessero addirittura influire sulla sen-sibilità dell ‘ organismo nei riguardi dell’ insulina. Secondo questi studi le mandorle avrebbero dovuto essere intese come un possibile alleato con-tro il diabete. Va anche rammentato come dato acquisito che un uso mo-derato di frutta secca, soprattutto noci e pistacchi, si sapeva in grado di conferire un aiuto sostanziale in gra-do di prevenire diverse malattie. Vari studi avevano intravisto relazioni tra un ‘ alimentazione a base di noci e discreti miglioramenti del diabete di tipo 2. Proprio nei confronti del diabete di tipo 2 (che abbiamo visto essere non insulinico), la predetta Università del N. Jersey ha condotto uno studio in grado di verificare le variazioni di sensibilità nei riguardi dell’ insulina in seguito all’assunzio-ne di mandorle. Il gruppo di ricerca-tori che hanno condotto tale ricerca si era subito orientato verso la possi-bilità di prevenire il diabete di tipo 2.Il primo dato positivo che i Ricerca-

LEMANDORLEPOSSONO CONTRIBUIRE ALLA PREVENZIONE DEL DIABETE DI TIPO 2?

tori hanno riferito è stato indicato nella maggior sensibilità. All’insu-lina secreta dal nostro organismo, sensibilità dimostrata nel gruppo di pazienti che avevano assunto co-stantemente le mandorle nella die-ta quotidiana. In tali pazienti, infatti, non aumentava la quantità di insu-lina prodotta nell’organismo, ma bensì diventava maggiore l’efficacia di tale ormone. E ciò per il fatto che l’organismo umano, nutrito anche di mandorle, aumentava la sua sensibi-lità all’insulina. Inoltre il gruppo di ri-cercatori dell’Università del N. Jersey ha messo in luce, nei pazienti con alimentazione arricchita con man-dorle, anche un livello di colesterolo LdL decisamente più basso, anche in fase di pre-diabete. Tornando ora ai ricercatori del N. Jersey, essi avreb-bero accertato che 16 settimane di consumo continuato di mandorle, oppure un loro utilizzo regolare, potrebbero addirittura prevenire il rischio di malattie cardiovascolari. Sembra quindi tornare utile un’altra precisazione: i pazienti oggetto del suddetto studio erano stati divisi in due gruppi, ed a tutti e due era stato raccomandato di consumare una data quota di carboidrati. Uno dei due gruppi assumeva anche le mandorle, e l’altro gruppo non le as-sumeva. Ebbene, coloro che insieme ai carboidrati assumevano anche le mandorle si erano autoridotti spon-taneamente il consumo dei carboi-drati, perché ritenevano di averne un bisogno minore. Il gruppo di Ricer-catori dell’ Università di Medicina e

Odontoiatria del New Jersey ha ri-tenuto di avere effettuato un passo in avanti per un trattamento efficace nei riguardi di alcune malattie cro-niche (diabete non insulinico, alcu-ne malattie cardiovascolari come la trombosi, l’ ictus, etc. etc. ) nell’ otti-ca di una valida prevenzione a lungo termine. Per questo essi si propon-gono degli studi ancora più appro-fonditi sul metabolismo e sull’ali-mentazione, proprio per la possibili-tà di prevenire queste malattie a ca-rattere cronico, allontanando la pro-babilità di doverle invece curare. Le mandorle, oltre alla loro ricchezza in proteine, contengono anche un’ alta concentrazione di tocoferolo (Vita-mina E ), di cui sono ben conosciute le proprietà antiossidanti. E conten-gono anche delle fibre solubili che riducono colesterolo e glicemia. E’ opportuno rilevare che la ricchezza in proteine delle mandorle è para-gonabile, percentualmente, a quella della carne. Le mandorle contengo-no molti acidi grassi monoinsaturi (che oscillano, come percentuale, da un terzo alla metà della quantità globale contenuta in questo frutto), mentre, ad esempio, le noci conten-gono molti acidi grassi polinsaturi (circa la metà), ed un 9% di omega-3. Le mandorle contengono infine ar-ginina, che costituisce un aminoa-cido precursore dell’ acido nitrico, molecola con effetto vasodilatatore, che rappresenta un possibile fattore protettivo per il cuore.

di Marco Nicoletti e Paolo Nicoletti

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persone sin dalla nascita o, comun-que, sin dalla tenera età; significa, per esempio, da parte delle madri, modificare l’abitudine in base alla quale si giudica sano il bambino quando è grasso e malato quando è magro. In questo caso, infatti, è vero il contrario: il bambino normopeso sta sicuramente meglio del bambi-no sovrappeso. Si tratta, pertanto, di diffondere un altro tipo di cultura a livello delle famiglie, e anche del-le scuole. Strategia di popolazione significa, quindi, alimentazione sana e attività fisica. Il secondo livello d’intervento preventivo è quello che mira a identificare i soggetti ad alto rischio, grazie anche alle carte del rischio. Il terzo livello d’inter-vento riguarda, invece, la preven-zione secondaria, ossia evitare che, in un soggetto con angina, infarto o ictus pregressi, l’episodio possa ripetersi. A questo scopo, la Società Europea di Cardiologia ha messo in atto tutta una serie di suggerimenti, per la famiglia e per la comunità, fi-nalizzati a migliorare lo stile di vita. In questo senso, ad esempio, stan-no nascendo in Europa, come anche in Italia, per iniziativa del Ministe-ro della Salute, dei centri antifumo dove i soggetti ricevono anche un supporto psicologico onde evita-re che, una volta smesso di fuma-re, riprendano l’abitudine. Inoltre, è stato posto il divieto di fumare negli aeroporti e sugli aerei, nelle stazioni ferroviarie e sui treni, negli uffici e nei locali pubblici.

Interventi sullo stile di vitaPer quanto riguarda l’alimentazio-ne, la dieta mediterranea è la mi-gliore possibile ai fini della preven-zione delle malattie cardiovascolari (MCV), perché suggerisce il giusto consumo quotidiano di pasta e di pane, di abbondanti quantità di frutta e verdura, di legumi e cere-

continua da pag. 7

ali, di olio d’oliva vergine o extra-vergine e di una piccola quantità di formaggio e yogurt magri. Altri alimenti, invece, non sono da con-sumare tutti i giorni, ma solo alcu-ne volte durante la settimana (ad esempio, evitare troppa carne ros-sa). Per quanto riguarda l’alcol, è dimostrato che il vino rosso aumen-ta il colesterolo HDL e attraverso il suo potere antiossidante si oppone all’aterosclerosi, pertanto un sano bicchiere di vino rosso è di benefi-cio, mentre è da sconsigliarne for-temente l’abuso. Nel caso di elevati valori pressori, ridurre il consumo di sodio evitando il sale a tavola e in cucina e privilegiando alimenti fre-schi o surgelati senza sale. L’interesse nei confronti dell’olio di pesce è nato principalmente da osservazioni di carattere epidemio-logico: la bassa mortalità per ma-lattie cardiovascolari riscontrata fra gli Eskimesi e i Giapponesi è stata messa in relazione alla loro alimen-tazione, comparabile in termini di consumo di grassi a quella degli europei o dei nordamericani, ma particolarmente ricca di acidi grassi poliinsaturi omega-3 di cui sono ric-chi i pesci che vivono nelle coste del Giappone e della Groenlandia. Da questa osservazione, a partire dagli anni ‘70, si sono via via mol-tiplicati gli studi clinici volti a stabi-lire il ruolo di questi alimenti nella prevenzione di alcune patologie, soprattutto quelle a carico dell’ap-parato cardiocircolatorio. Le carni di alcuni pesci sono particolarmente ricche di due sostanze, l’EPA (acido eicosapentaenoico) e il DHA (acido docosaesaenoico) particolari aci-di grassi (detti omega-3) che sono responsabili di una serie di reazioni biologiche e fisiologiche che spie-gano, in parte, l’importanza di que-sto alimento nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. L’EPA e il DHA, seppure in quantità modesta, si formano normalmente

nell’organismo a partire dall’acido linolenico. Gli acidi linolenico e li-noleico, sono acidi grassi essenziali, cioè il nostro organismo non è in grado di sintetizzarli, ma devono essere introdotti con la dieta. L’a-cido linolenico, è contenuto in ali-menti come i legumi, le noci, l’olio di soia, ecc. Una volta assunto viene trasformato nell’organismo in EPA e DHA. Il contenuto esatto di un olio di pesce varia in funzione della sua origine, che può essere il solo fegato o tutto il pesce. 10 ml di un olio ricavato dal fegato di merluz-zo, ippoglosso o squalo, di solito contiene circa 2 g di acidi grassi omega 3. Gli acidi grassi omega-3 sono in grado di modificare la ten-denza delle piastrine ad aggregare; ciò si traduce in una riduzione del rischio di formazione di trombi. In base agli studi effettuati in vitro e in vivo, le azioni biologiche degli acidi grassi omega-3 vanno tuttavia ben oltre l’effetto antiaggregante; inter-vengono infatti in molteplici mec-canismi, responsabili del processo di aterosclerosi, della diminuzione della pressione arteriosa, dell’ef-fetto antiaritmico, ipocolesterole-mizzante e ipotrigliceridemizzante. L ‘importanza sotto il profilo bio-logico e fisiologico di un adeguato apporto nell’uomo di acidi grassi omega-3 non ha ormai bisogno di ulteriori conferme. L’interesse su queste sostanze si è espanso per accertare quale sia il loro possibile ruolo nel preveni-re l’aterosclerosi, riducendo così la morbilità/mortalità per patologie cardiovascolari. L’azione farmacolo-gica più studiata inizialmente è sta-ta la capacità di ridurre i trigliceridi. Altre ricerche hanno evidenziato un vasto ambito di proprietà, tutte po-tenzialmente utili nella prevenzione cardiovascolare, quali l’effetto an-titrombotico, antiaterosclerotico e antinfiammatorio. Gli acidi grassi omega-3 sono con-

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tenuti principalmente nel pesce grasso (salmone, tonno e pesce az-zurro, come sgombri, sardine, arin-ghe). In genere una dieta varia ed equilibrata, che comprenda 2 o 3 pasti alla settimana a base di pesce, riesce a soddisfare appieno le esi-genze dell’organismo. In alcuni casi, tuttavia, qualora la dieta e l’elimina-zione dei fattori di rischio fallisca-no, si può ricorrere agli integratori dietetici di omega-3. In questi pre-parati la quantità di omega-3 varia da un prodotto all’altro: le confe-zioni riportano tuttavia il contenuto di acidi grassi per ogni capsula e il numero di capsule da assumere al giorno, la dose giornaliera consi-gliata varia da 0,9 a 2,5 g di ome-ga-3 (1-3 capsule). Un aspetto rile-vante, che spesso viene dimentica-to, è che questa integrazione serve ben a poco in una dieta che mantie-ne inalterato il contenuto totale di grassi e, soprattutto, di grassi saturi

(grassi di origine animale). Un altro aspetto importante nell’ambito della prevenzione car-diovascolare riguarda l’attività fisi-ca. Ogni incremento dell’attività fisica si traduce in un beneficio per la salute. Trenta minuti al giorno di esercizio moderatamente intenso riducono il rischio globale e aumen-tano il benessere fisico.

Interventi farmacologiciPer quanto riguarda gli interventi farmacologici, nel caso dell’iperten-sione arteriosa, le linee-guida del-la Società Europa dell’Ipertensione Arteriosa, messe a punto nel 2003 e aggiornate nel 2007, in collabora-zione con la Società Europea di Car-diologia, danno una graduazione del rischio cardiovascolare globale del soggetto iperteso in rapporto al numero dei fattori di rischio as-sociati alla presenza o all’assenza di diabete e alla presenza o assenza

di co-morbilità In base a tali linee-guida, ad esempio, un soggetto con livelli pressori praticamente norma-li (130-139/85-89 mmHg), ma che presenta altri fattori di rischio e ha una comorbilità, è già un soggetto ad alto rischio; così come un sog-getto con livelli pressori di 180/110 mmHg, anche in assenza di altri fattori, è un soggetto ad alto ri-schio. La decisione di iniziare un trattamento farmacologico dipen-de non solo dal livello di pressione arteriosa, ma anche dal rischio car-diovascolare totale. L’obiettivo pri-mario del trattamento del paziente iperteso è di conseguire la massima riduzione del rischio di morbilità e mortalità cardiovascolare globale a lungo termine. Questo richiede il trattamento di tutti i fattori di ri-schio reversibili identificati. In tutti i pazienti ipertesi eleggibili al tratta-mento farmacologico, la pressione arteriosa dovrebbe essere ridotta a

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M croScopiovalori < 140/90 mmHg. Nei diabetici e nei pazienti con MCV clinicamente nota, il trattamento antiipertensivo deve essere più aggressivo, miran-do a valori <130/80 mmHg, se fat-tibile. Per quanto riguarda il tratta-mento dell’ipercolesterolemia, al di là delle carte del rischio, è piutto-sto semplice e pratico utilizzare le raccomandazioni del NCEP-ATP-III. Lo schema dell’ATP-III ci suggerisce che: nei soggetti con 0 o 1 fattore di rischio, i livelli auspicabili di co-lesterolo LDL dovrebbero essere < 160 mg%; nei pazienti con più di 2 fattori di rischio, il livello auspicabi-le dovrebbe essere < 130 mg%; nei pazienti che hanno avuto un infarto o che hanno quella che è denomi-nata “malattia CHD equivalente”, cioè arteriopatia periferica sinto-matica, carotidopatia sintomatica (TIA o ictus) o diabete, il colestero-lo LDL dovrebbe essere inferiore a 100 mg%. Lo studio PROVE-IT, per la prima volta, ha dimostrato che pazienti con sindrome coronaria acuta trattati, nei primissimi gior-ni dopo l’evento, con un dosaggio aggressivo d’atorvastatina, vanno incontro ad una riduzione di even-ti maggiore rispetto a quelli trattati non aggressivamente. I risultati del-lo studio PROVE-IT sono stati con-fermati da un altro studio, A-to-Z Alla luce di questi due studi, Grun-dy hanno aggiornato le linee-guida del NECP-ATPIII, con la raccoman-dazione di ridefinire un opportuno livello di target di colesterolo LDL > 70 mg% nei pazienti con sindrome coronarica acuta e nei pazienti ad altissimo rischio. Nonostante la co-munità scientifica stia ancora discu-tendo, le implicazioni di questi ulti-mi studi sono che i pazienti con un rischio moderato dovrebbero avere un goal di colesterolo LDL inferiore a 130 mg%, con l’obiettivo even-tualmente di avvicinarsi ai 100 mg; i pazienti ad alto rischio dovreb-bero avere un target di colesterolo

LDL < 100 mg%; quelli invece a rischio altissimo dovrebbero probabilmen-te avere un target di colesterolo LDL < 70 mg%. Relativamente al trattamento aggressivo, si deve con-siderare un altro fattore di rischio: il diabete. Già lo studio UKPDS osser-vava che il trattamento aggressivo della glicemia dava, sicuramen-te, un vantaggio; soprattutto quando la glicemia veniva norma-lizzata, nei diabetici di tipo II, con l’impiego della metformina. Infat-ti, lo studio UKPDS ha dimostrato che, una riduzione dell’1% di emo-g l o b i - na glicosilata, equiva- le a una ri-duz io - ne dell’1% di com-p l i c a n -ze macro e microva-scolari nel dia-betico di tipo II. Lo studio STENO 2, pubblicato nel 2003 sul New England Journal of Medicine, mostra quanto possa essere importante, inoltre, il trat-tamento aggressivo di tutti i fat-tori di rischio presenti nel paziente diabetico. In questo caso, un grup-po è stato trattato in maniera con-venzionale (tutti i fattori di rischio trattati, ma non in maniera partico-larmente aggressiva) e un gruppo in maniera aggressiva (tutti i fattori trattati più aggressivamente). Alla fine di un periodo di osservazione di 7 anni, il gruppo trattato in ma-niera aggressiva aveva il 50% in meno di eventi rispetto al grup-po trattato in maniera tradizio-nale. Le conclusioni dello studio STENO 2 sono che i diabetici vanno trattati in maniera ag-gressiva, soprattutto se diabetici di tipo II, con microalbuminuria. L’American Diabetes Associa-tion ha messo in evidenza una ulteriore priorità, ormai condivisa, nel trattamento del paziente diabetico e cioè

che quest’ultimo deve raggiunge-re un target di colesterolo LDL < 100 mg%. D’altro canto, con qua-lunque farmaco si tratti il paziente diabetico, esso dà risultati migliori rispetto al non diabetico. Questo dicasi per le statine, così come per i farmaci anti-ipertensivi e i farma-ci anti-aggreganti piastrinici. Ad esempio, nello studio CAPRIE, nel sottogruppo dei diabetici, i risultati sono stati migliori rispetto a quelli

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M croScopiorelativi ai pazienti non diabetici. Se si considerano gli studi fatti con statine, mediamente nella popo-lazione generale la riduzione degli eventi è del 30%, mentre nei diabe-tici, in particolare nello studio 4S, si arriva addirittura a una riduzione del 57%. Pertanto, trattare il cole-sterolo nel diabetico paga in termini di riduzione degli eventi cardiova-scolari e di riduzione della morta-lità. Questi risultati sono stati con-fermati dallo studio CARDS, dove si è ottenuta una riduzione del 37% dell’end-point primario complessi-vo in pazienti diabetici trattati con atorvastatina per meno di tre anni.

ConclusioniOggi disponiamo delle conoscenze fisiopatologiche dei processi che danno origine all’aterosclerosi. E abbiamo inoltre a disposizione i ri-sultati di grandi trial clinici che han-no permesso di stilare linee-guida efficaci, ma, ovviamente, dobbiamo imparare a prenderle in considera-zione e ad applicarle correttamen-te per evitare che le conclusioni a cui giunge la ricerca, giorno dopo giorno, siano vanificate. È necessa-rio, inoltre, un grande impegno a livello delle famiglie, della scuola e dei medici per quanto riguarda la prevenzione primaria e secondaria. Soltanto se saremo in grado di agire a tutti i livelli, formando nei cittadini la cultura del “viver sano”, riuscire-mo a fare una corretta prevenzione diminuendo la mortalità per MCV e migliorando la qualità di vita.

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