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direttore: Paolo Flores d’Arcais

www.micromega.net

La televisione crea l’oblio, il cinema ha sempre creato dei ricordi.Jean-Luc Godard

MicroMega 6/2012almanacco del cinema

in redazione: Cinzia Sciutohanno collaborato alla realizzazione di questo numero:

Emilio Carnevali, Giacomo Russo Spena e Roberto Vignoli

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S O M M A R I OICEBERG 1cinema e impegno

Gianni CanovaIl fantasma del realismo 3Flavio De BernardinisLa frontiera del cinema civile 11Fabrizio TassiIl cinema non crede in Dio 24Roberto SilvestriIl cinema dei ragazzidi piazza Tahrir 40

MAESTRI 1

Paolo e Vittorio Tavianiin conversazione con Fabrizio TassiCinema in rivolta 55Francesco Rosiin conversazione con Curzio MalteseL’Italia in presa diretta 73Ennio Morricone(a cura di Tommaso De Lorenzis)Cinema in pentagramma 92David Lynchin conversazione con Mario SestiLa normalità scandalosa 99

TAVOLA ROTONDA 1

Angelo d’Orsi / Fabrizio GifuniDaniele Segre / Daniele Vicari(a cura di Giona A. Nazzaro)Cinema: il presente come storia 111

ICEBERG 2omaggio a Theo Angelopoulos

Fabrizio BentivoglioAmedeo Pagani / Toni Servillo(a cura di Malcom Pagani)Theo 129

Petros MarkarisLa donna tragicadi Angelopoulos 142

PICCOLO GRANDE SCHERMO

Federico PontiggiaBlack Mirror 147

MAESTRI 2

Matteo Garronein conversazionecon Federico PontiggiaDa Gomorra al Grande Fratello 159Marco Tullio Giordanain conversazione conFlavio De BernardinisOltre l’indignazione, la speranza 173Michael Mannin conversazione con Mario SestiLe mie strade violente 187

TAVOLA ROTONDA 2

Roberta Torre / Valeria GolinoJasmine Trinca(a cura di Barbara Sorrentini)Cinema al femminile 195

ICEBERG 3omaggio a Elio Petri

Carlo Lizzani / Mariangela Melatoin conversazionecon Enrico MagrelliElio Petri, maestro da riscoprire 205

Elio Petri / Tonino GuerraUgo Pirro / Giancarlo Gianniniin conversazione con Jean A. GiliUn poeta del grande schermo 217

NOTIZIE SUGLI AUTORI 242

segreteria di redazione: Laura Franzadirettore responsabile: Lucio Caracciolo

MicroMega, via Cristoforo Colombo 90, 00147 Roma, tel. 06.865147134, fax 06.865147124

Per abbonamenti e arretrati: Somedia, tel. 199.78.72.78(0864.256266 per chi chiama da telefoni cellulari )

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I C E B E R G 1

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Gianni Canova spiega perché il cinema‘impegnato’ non è un’inchiestagiudiziaria e invita a lavorare perrifondare il gusto estetico in Italia (p. 3);Flavio De Bernardinis si chiede qualesia lo spazio rimasto al ‘simbolico’

in questa dittatura del reale (p. 11);Fabrizio Tassi delinea le caratteristichedel cinema ‘laico’ (p. 24); RobertoSilvestri racconta come la primaveraaraba abbia avuto i suoi precedential cinema (p. 40).

cinema e impegno

IL FANTASMA DEL REALISMOMentre in Francia si rilancia un cinema d’impegno

per chiudere con l’era Sarkozy, in Italia si paga lo scottodi vent’anni di berlusconismo con tutti i suoi cliché:

malgrado i premi ottenuti, film ‘importanti’– di Sorrentino, Giordana, Vicari e fratelli Taviani –

non riescono ad affermarsi nell’opinione pubblica. È oradi scacciare i fantasmi del passato (primo tra tutti quellodel realismo) e di rilanciare un’idea di cinema diversa.

GIANNI CANOVA

Potrebbe sparargli. Potrebbe premere il grilletto. Potrebbeusare la pistola che porta con sé per fare giustizia e vendicarela memoria del padre. Invece, quando si ritrova davanti il vec-chio criminale nazista responsabile dell’umiliazione del pa-dre ebreo in un campo di sterminio, nel finale di This Must Bethe Place di Paolo Sorrentino, Cheyenne non gli spara. Gli fa

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una fotografia. Il rumore del clic sul pulsante della macchinafotografica, in effetti, sembra il rumore di uno sparo. In ingle-se, non per nulla, shoot significa tanto sparare quanto scatta-re, fotografare, filmare. C’è qualcosa di potente che accomu-na un’arma da fuoco e una macchia fotografica. Entrambe fe-riscono. Entrambe fermano il tempo. Lo immobilizzano. Nelrigor mortis o nel rigor imaginis. Nel gesto finale di This MustBe the Place c’è un’indicazione preziosa per il cinema italianoe per tutti noi: ci dice con forza come far politica, oggi, siaprima di tutto saper produrre immagini. Saper catturare il vi-sibile dentro visioni (dentro inquadrature?) non scontate, nonprevedibili, non banali. Paolo Sorrentino lo fa. È uno dei po-chi che lo sa fare e che sa di doverlo fare. Costruisce un filmapparentemente ondivago, che scivola sullo schermo comeuno skateboard ubriaco, o vi si trascina come un trolley me-ditabondo, e si lascia di colpo alle spalle i modelli collaudati(ma anche, ormai, risaputi…) che da quarant’anni a questaparte connotano il cinema d’autore italiano. Quello «impe-gnato». Quello che ha a cuore innanzitutto lo stato etico/poli-tico/civile della società a cui si rivolge. Sorrentino ha a cuoresoprattutto lo stato estetico. Sa – sulla scia di Benjamin – cheal pericolo strisciante dell’estetizzazione della politica è benerispondere con la politicizzazione dell’arte. In un paese comel’Italia – quello a più alto tasso di analfabetismo iconico delmondo – fare politica con le immagini significa prima di tut-to lavorare per rimuovere o ridurre questo devastante analfa-betismo. «Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignoran-te d’Europa», faceva dire quarant’anni fa Pier Paolo Pasolinia Orson Welles, regista in technicolor del film La ricotta(1963). Pasolini si riferiva all’ignoranza verbale. Ora la situa-zione non è cambiata né migliorata: si è solo trasferita dalleparole alle immagini. Siamo del tutto ignari di come funzio-nano, di cosa comunicano, degli effetti – emotivi, cognitivi,psicologici, politici, culturali – che esse generano su di noi.Lo sanno tutti, ma nessuno fa nulla. Così, mentre la Francia –sulla base di una cultura iconica capillarmente diffusa e pe-netrata a livello popolare – rilancia il suo cinema, vincel’Oscar (con The Artist di Michel Hazanavicius), sbanca i bot-teghini (con Quasi amici di Olivier Nakache e Eric Toledano) e

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produce un cinema nuovo e non conciliante che accompagnail paese nel difficile processo di fuoriuscita dal sarkozysmo,noi ci accontentiamo di galleggiare imbelli in un immobili-smo che si ostina a non voler fare i conti con la questione po-litica di fondo: quella che ha a che fare con la nostra capacitàdi produrre immagini e di saperle usare. Paolo Sorrentino èuno dei pochi che si pone il problema. E il suo This Must Bethe Place è un film troppo visivo per piacere a un pubblico e auna critica che magari sono anche colti (e militanti…), manon sul piano iconico, per cui continuano a valutare un filmcome se fosse un romanzo, o un racconto, o un’inchiesta: perquel che vi si dice, o per quel che vi accade, invece che perquel che vi si vede. Paolo Sorrentino è oggi uno dei tre oquattro registi più visionari al mondo: vedi una sua immaginee non la dimentichi più. Perché ti fa vedere come mai hai vi-sto prima. Perché inquadra sempre come non ti aspetteresti.Perché spiazza e sorprende. Prendete anche solo, nel suo ul-timo film, la scena frettolosamente liquidata dalla maggiorparte dei commentatori come il «cameo» di David Byrne. Inrealtà, è uno dei piani sequenza più vertiginosi e più «densi»di tutto il cinema recente. Guardatelo con attenzione e capi-rete cosa significa – oggi – usare il cinema e il suo linguaggioper confondere e mescolare il davanti e il dietro, il sopra e ilsotto, il prima e il dopo, la quinta e lo sfondo. Bastano queipochi minuti perché Sorrentino distrugga con una scossatellurica tutti i nostri vecchi, pigri modi di guardare. Nel suoessere un viaggio americano che va dalla visione di immagini(quelle dell’Olocausto che Cheyenne vede appena sbarcatoin America) alla produzione di un’immagine (la fotografiascattata nel finale), This Must Be the Place si candida a film po-litico dell’anno e, nello stesso tempo, ad antidoto contro lapigrizia e l’inerzia dello sguardo. Se non altro perché ci ricor-da che c’è sempre un altro punto di vista possibile, un’altravisione da assumere e da praticare.Ma Sorrentino fa un po’ gioco a sé. Nella stagione 2011-12 ilcinema italiano ha realizzato almeno altri tre esempi «alti» dicinema politico su cui forse vale la pena di tentare qualcheriflessione consuntiva, al di là delle polemiche che spessohanno accompagnato l’uscita dei singoli film. Si tratta, nello

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specifico, di tre film che ipotizzano tre diverse modalità di«impegno»: il cinema come ricognizione in chiave mimeticadi uno dei misteri d’Italia (Romanzo di una strage di MarcoTullio Giordana), il cinema come visualizzazione del rimossomediatico (Diaz di Daniele Vicari), il cinema come messa informa di un’esperienza civile e sociale (Cesare deve morire diPaolo e Vittorio Taviani). Quale che sia il giudizio individualesu ognuno dei tre film, è indubbio che si tratta di tre opereimportanti, che mantengono vivo l’animo non riconciliatodel cinema italiano.Al di là delle intenzioni degli autori, è pe-rò più interessante provare a interrogarsi sugli effetti chefilm come questi producono sul pubblico che li va a vedere(o che ne sente parlare sui vecchi e nuovi media…). Romanzodi una strage rientra a pieno titolo in quel filone del cinemapolitico italiano che rilegge quanto avvenuto in Italia tra la fi-ne degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta alla lucedella conspiracy theory. Come aveva già fatto, ad esempio, Giu-seppe Ferrara in un film di 25 anni fa (Il caso Moro, 1986),Marco Tullio Giordana e i suoi sceneggiatori Stefano Rulli eSandro Petraglia rileggono l’attentato alla Banca dell’Agri-coltura, in piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre 1969, nonsolo provvedendo a una meticolosa ricostruzione mimetica divolti, corpi e luoghi (secondo quell’estetica dei sosia che hatrovato un’ultima, recente concretizzazione in Il Divo di Pao-lo Sorrentino), ma calando le «trame oscure» di quei mesidrammatici dentro a una «teoria del complotto» che trova nellibro Il segreto di piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli la suafonte principale. Costruito come un’inchiesta di tv-verità a ri-troso nel tempo, il film tanto più simula accuratezza nell’uti-lizzo delle fonti e delle informazioni, tanto più rivendica au-torevolezza e veridicità, quanto più lascia lo spettatore nellosconcerto, presentando un universo diegetico in cui ogni ve-rità ne contiene un’altra, come in un gioco a scatole cinesi, eogni ipotesi è smentita da una controipotesi analoga e con-traria, e quanto più i fatti vengono a galla, tanto più il quadrocomplessivo diventa oscuro, inafferrabile, confuso. È il para-dosso di ogni teoria del complotto: come ha detto bene Fre-dric Jameson in suo illuminante passaggio, «la «conspiracytheory […] è la mappatura cognitiva da parte dell’uomo comu-

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ne nell’era postmoderna». I film (o i libri) che la fanno pro-pria non raggiungono mai quella funzione epistemologico-cognitiva prospettata e promessa dagli autori, ma caso maidanno espressione all’inquietudine e al malcontento diffusinel corpo sociale. Come ha notato Alan O’Leary in un suo re-cente saggio, la rappresentazione del complotto «non neces-sariamente rivela la “verità” alle spalle di quegli attentati ano-nimi, ma piuttosto offre una metafora per quella diffusa sen-sazione per cui la società sarebbe organizzata secondo unalogica iniqua» (Alan O’Leary, «Moro, Brescia, conspiracy. Lostile paranoico nel cinema italiano», in C. Uva, a cura di, Stra-ne storie. Il cinema e i misteri d’Italia, Rubbettino, 2011, p. 65).Dalla visione si esce insomma non con un surplus cognitivoe/informativo ma con la conferma che nella società ci sono«trame oscure» che insidiano la trasparenza della vita demo-cratica. Romanzo di una strage non ci fornisce una conoscenzaprivilegiata dei fatti né una rivelazione incontrovertibile del-l’accaduto: ci garantisce piuttosto una rimozione consolato-ria del disorientamento che oscuramente proviamo quandoci rendiamo conto di non disporre di nessuna intelligenzaoggettiva e indiscutile dei fatti. Una terapia, insomma, piùche una rivelazione o un’illuminazione.Diaz: non pulire questo sangue di Daniele Vicari prospetta e sol-lecita invece un «consumo» completamente diverso: accusatodi aver rimosso nomi e cognomi di colpevoli, e di non aver in-dicato la dietrologia di quel che mostra, trova invece un afflatopotentissimo proprio perché si stacca dalla cronaca o dall’ideadi film-requisitoria (quella tanto cara a certo cinema progressi-sta americano) per costruire una scena del crimine tanto piùsconvolgente quanto più addossa le responsabilità di un mas-sacro non a questo o quel funzionario carogna, ma a un siste-ma che può permettersi impunemente la sospensione dellegaranzie democratiche e il mattatoio come forma perversa direpressione del dissenso e di controllo sociale. Quei volti tu-mefatti, quei corpi illividiti, quel sangue sui pavimenti e soprai muri, quelle scene di ordinaria barbarie che accadono nellanotte di Bolzaneto sono più forti di qualsiasi requisitoria dapubblico ministero e il non capirlo, il non vedere la potenza diquelle immagini, significa, appunto, essere visivamente analfa-

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beti, e capaci soli di ragionare politicamente in termini di re-quisitorie da tribunale. Il problema che pone un film comeDiaz: non pulire questo sangue è, ancora un volta, quello di capi-re cosa si può chiedere all’arte e al cinema per considerarli«impegnati»: di sostituirsi al giornalismo, alla televisione, al lin-guaggio dei tribunali? Di proporre un’analisi politica o unasentenza giudiziaria? O non piuttosto di darci un aiuto a capi-re i meccanismi (ma anche i linguaggi, i fantasmi, le mitologie,i fraintendimenti, le ideologie) attraverso cui uno Stato di di-ritto (e gli uomini che lo rappresentano) possono arrivare ausare la tortura esercitata su persone indifese come mezzo didominio? Ha scritto bene Ida Dominijanni: «Le presunte man-canze o i presunti errori rafforzano, anziché indebolire, il tagliodel film: perché l’assenza dei nomi dei carnefici non assolve ilpotere ma lo spersonalizza, segnalando che quell’orrore è ripe-tibile; come la presenza dei black bloc alla Diaz non attenua lasproporzione del massacro ma la inchioda, ricordando che inuno Stato di diritto le garanzie appartengono, o dovrebbero, atutti, black bloc compresi». E aggiunge, toccando quello che è,forse, il cuore del problema: «Cos’è questo bisogno di new rea-lism che cerca e trova conferma e certificazione dei fatti solonei nomi, nelle sentenze, nei documenti, nei bolli e nei proto-colli, come se la verità del realmente accaduto e del politica-mente vissuto non avesse altre vie per imporsi?» (in Alias, sup-plemento settimanale di il manifesto, 21-5-2012, p .1).Non è il realismo da anagrafe o da referto giudiziario quelloche può e deve darci il cinema «impegnato»: e un’ulterioreconferma di questa verità piccola piccola ma tanto ostica anumerosi guru del radicalismo cinefilo italiano viene dall’al-tro grande titolo della stagione, Cesare deve morire di Paolo eVittorio Taviani. Qui non c’è denuncia. Non c’è inchiesta. Quic’è la socializzazione di un’esperienza: quella per cui alcunidetenuti del carcere romano di Rebibbia si misurano con untesto di Shakespeare e ne trovano elementi sufficienti per ri-tenere – cosa che prima non percepivano con tale chiarezza –che il carcere sia ignobile e disumano. Il cinema diventa vet-tore di un’esperienza, di una pratica di liberazione. Spacca leregole, le grate, le barriere. Si mette in maschera, recita, rom-pe. Se il film dei fratelli Taviani, giustamente premiato con

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l’Orso d’oro al Festival di Berlino, colpisce duro e lascia il se-gno è perché trasmette la forza, l’energia, la necessità di uncinema-esperienza che coinvolge e cambia la vita di coloroche ne fanno parte. Sulla scia di tanti altri film abbastanza re-centi che hanno lavorato sul e nel carcere (da Riccardo III diBruno Bigoni, a Tutta colpa di Giuda di Davide Ferrario), ilfilm trova nell’intervento situazionista più che nella denunciavittimista la sua arma vincente. Low budget, rifiuto netto dellacompassione e dell’indignazione come vie di fuga consolato-rie che la società dello spettacolo offre alla coscienza infelicedel pubblico: qui, nel film dei Taviani, come del resto anchein quello di Vicari, non c’è compassione. La compassione perle vittime – come diceva Susan Sontag nel suo Davanti al do-lore degli altri – è un alibi per autoassolverci dalla nostra even-tuale corresponsabilità di fronte al dolore di cui siamo spetta-tori. I Taviani e Vicari evitano la trappola. Invece che compas-sione nei loro film caso mai c’è orgoglio, rabbia, consapevo-lezza, volontà di creare cortocircuiti ripetuti e inattesi fra cro-naca e metafora. Purtroppo, sono tutti film condannati a unasostanziale marginalità dal punto di vista del mercato: nono-stante i premi, le critiche positive, il passaparola assolutamen-te lusinghiero, sono film visti da pochi. E questo resta il pro-blema di fondo del nostro cinema d’autore: la difficoltà di ar-rivare al pubblico, di farsi conoscere, di diventare esperienzaanche per chi non è un cinefilo militante. È un destino cheaccomuna un po’ tutto il nostro cinema impegnato (anchequello moralmente o esteticamente impegnato): da L’estate diGiacomo di Alessandro Comodin (emozionante percorso diapprendistato dei sensi, nell’attimo di sospensione che sta fral’adolescenza e la maturità, premiato al festival di Locarno) fi-no al film dei fratelli Gianluca e Massimiliano De Serio Setteopere di misericordia (bellissima opera prima su due marginalinella Torino di oggi, lei ragazza moldava che vive di espedien-ti, lui anziano tracheotomizzato che si fa ricoverare e intra-prende a sua volta una lotta per sopravvivere, premiato comemiglior film da Emir Kusturica al Festival di Marrakech), quelche manca è la visibilità. Pesa su tutti la condanna al minori-tarismo, alla marginalità. Anche un film bello, toccante ecoinvolgente come Io sono Li di Andrea Segre, con il suo ap-

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proccio originalissimo al tema della multiculturalità, fa teni-ture record ma in pochissime sale. Segno che trent’anni diberlusconismo estetico hanno fatto danni irreparabili, e leconseguenze si vedono chiaramente solo ora: tramontato (al-meno mediaticamente…) il mentore dei reality show comequintessenza dello spettacolo contemporaneo, e venuto a sca-denza quel mix un po’ rancido di provincialismo, machismo,razzismo, goliardia, voyeurismo e volgarità su cui si è fondataper quasi un ventennio l’estetica della tv berlusconiana, re-stano ora le carcasse di quella stagione, nel deserto del gustoche si è generato. Ma la battaglia da fare, ora, è proprio que-sta: ricostruire un gusto. Ridar vigore a una passione. Rilan-ciare un’idea di cinema diversa, nella convinzione che un filmpossa dirci qualcosa di importante (e di emozionante…) sen-za necessariamente dover imitare una puntata di Porta a Por-ta, la requisitoria di un pubblico ministero, ma anche – biso-gna pur avere il coraggio di dirlo – una trasmissione di Mi-chele Santoro. Bisogna liberarci, una volta per tutte, del fetic-cio del realismo. E del suo fantasma.

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LA FRONTIERADEL CINEMA CIVILE

A differenza della tradizione che abbiamo alle spalle,oggi non è più la narrazione a infondere senso alla realtà.

Viceversa, è la realtà a dare senso alla narrazione.È il paradigma dominante, il modello reality.

Il cinema civile si confronta con tale modello. E giàil semplice confronto assume l’aspetto di un atto politico.

FLAVIO DE BERNARDINIS

Tutti i film, oggi, sono tratti da storie vere. Realmente accadute.Tutti i film, oggi, mostrano personaggi veri. Realmente esistiti.Tutti i film, oggi, esibiscono alla fine uno, due, tre cartelli cheverificano ciò che lo spettatore ha appena visto. Senza questicartelli, il film, lo stesso film, sarebbe privo di credibilità. In-congruo. Sfasato. Privo di senso.Perché accade questo?La risposta è contenuta nel titolo dell’ultimo lavoro di MatteoGarrone, premio speciale della giuria a Cannes 2012: Reality.Il reality, oggi, è il paradigma di ogni specie di narrazione. Unparadigma assoluto. Ogni forma di racconto deve risultare«reality», aderente alla realtà. Non si frappone nessuno spazio,nessuna lente, nessun filtro tra la realtà e narrazione, che de-vono risultare la stessa cosa.Il reality è questo bisogno: vivere e raccontarsi, nello stessoistante. Senza aspettare che il tempo, o la memoria selezioni-no le cose.Se retrocediamo nella tradizione, aspettare era consideratauna virtù. La Firenze del 1348, devastata dalla peste nera, ac-quistava senso grazie ai dieci ragazzi di Boccaccio che mette-vano spazio tra sé e il flagello, trasferendosi a Fiesole, doveavrebbero allestito una comunità narrante che, raccontando,continuava a vivere, aspettando la fine del male. In questo ca-so, la narrazione costituisce e rappresenta anche il meccani-smo mercantile dello scambio, perché scambia la morte conla vita. Meccanismo utile all’ascesa storica della borghesia.

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Se, così facendo, era la narrazione a dare senso alla realtà, og-gi accade esattamente il contrario. È la realtà che infondesenso alla narrazione. Se è la realtà a giustificare la narrazio-ne, allora la narrazione non dispone di alcuna autonomia.Deve soltanto aderire, interfacciare con le informazioni cor-renti, i dati personali e sociali, le notizie acquisite, senza apri-re alcuno spazio di mediazione, o spazio simbolico.Il modello contemporaneo del reality è questo. Tempo fa unvecchio adagio asseriva che niente accade se non viene mo-strato in tv. Oggi non si dà nemmeno per ipotesi che qualco-sa sfugga a un qualsiasi teleobiettivo.Tutta la vita è osservata:e tale osservazione è la garanzia, narrativa, che la vita abbialuogo, e senso. Minuto per minuto, istante per istante.Non si tratta semplicemente del vecchio vizio del guardaredal buco della serratura. La forma reality soddisfa un bisognopiù vivo, e profondo. Un bisogno cruciale: combattere l’ango-scia, l’angoscia di non esistere.Questo non significa aspettare che il male della morte sia tra-scorso, come per i ragazzi di Boccaccio. Significa qualcosa dipiù insinuante e sottile: io posso essere vivo, certamente, maciò non vuol dire che io esista.È stata la grande metafora, al cinema, delle figure dello zom-bie, e del vampiro, che hanno anticipato la condizione antro-pologica del reality. Essi risultano dei non-morti (quindi, tec-nicamente, vivono): ma non sono certi di esistere. La voracerapacità dello zombi costringe la creatura alla coazione a nu-trire una vita che non può garantire esistenza alcuna. Nel ca-so del vampiro, l’angoscia è stata così incisiva da spostarel’attenzione sulle caratteristiche evidentemente animali(l’acuirsi dei sensi, la mobilità scattante, il fiuto…), per garan-tire la condizione di creature in vita, vita che risulta in tutto eper tutto suppletiva nei confronti dell’esistenza.Al di fuori dell’horror, tutto il resto è reality. Ovvero, il con-tento di essere vivi e, al tempo stesso, la consapevolezza ango-sciosa di non esistere. Il format Grande Fratello, dove tuttovive e pulsa nella registrazione audio e video, minuto per mi-nuto, istante per istante, è il rito puntuale per combatterel’angoscia contemporanea, essere vivi e insieme non esistere.Nella casa del Grande Fratello, grazie ai teleobiettivi, si è cer-

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ti di vivere in modo così intenso, nanosecondo per nanose-condo, che la questione dell’esistere quale senso della pro-pria presenza nel mondo, viene rimossa e integralmente pu-rificata nella catarsi virtuale della registrazione audio-video.L’angoscia di essere vivo e non esistere ha anche un nomecomune: l’angoscia del consumatore. Il consumatore è vivoperché mangia e beve, assimila e assorbe, senza ottenere al-cuna garanzia di esistere in quanto individuo. Ciò che risultadi lui è una perpetua funzione, il consumo, che tiene la vitaaccesa e spenta l’esistenza.Si chiarisce, pertanto, ciò di cui si diceva all’inizio: nel cine-ma contemporaneo, il rifiuto del soggetto originale, a vantag-gio dei personaggi realmente vissuti, degli eventi effettiva-mente accaduti. A vantaggio dei cartelli a verificare tutti etutto, che appaiono puntuali alla fine del film.Il cinema civile italiano, costola nobile del neorealismo, sitrova immerso in tale condizione. In fondo, sembrerebbe lastagione ideale per un cinema che vuole indagare dentro lavita, nelle feritoie della realtà. Ma il cinema civile italiano nonè semplicemente questo.Il cinema civile italiano è il cinema dei segreti da sondare, edei misteri da svelare. Salvatore Giuliano ed Enrico Matteiper Francesco Rosi, la battaglia di Algeri per Gillo Pontecor-vo, il macabro ritiro spirituale dei notabili democristiani e leacute perversioni dei funzionari di polizia per Elio Petri.Cinema civile, allora, è soprattutto un viaggio nei meandri dellapsiche di una società, di una cultura, in un dato momento sto-rico. Un disegno vivo del manifesto e del rimosso di un perso-naggio scelto, una figura esemplare, una comunità specifica. Ilcinema civile è la rappresentazione, così, della scena psichica diun corpo sociale determinato. Il Divo di Paolo Sorrentino e Go-morra di Matteo Garrone, questo hanno fatto: la raffigurazionedella scena psichica del potere nazionale, nello specchio defor-mato ma netto dei propri fantasmi e delle proprie nevrosi.Lo spettatore, al cospetto del cinema civile, deve quindi rive-dere e persino dismettere il modello reality. Narrazione e re-altà non possono aderire. Non può essere la realtà a infonde-re senso alla narrazione, perché la realtà è in maschera, cheva smossa, deformata, consunta.

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Nel film di Marco Tullio Giordana dedicato alla tragica vicendadi piazza Fontana, Romanzo di una strage, è spiaciuta a molti,forse a tutti, la questione della doppia valigia. Sarebbe un’ipo-tesi che fa solo confusione, quella di ipotizzare due bombe al-l’agenzia della Banca dell’Agricoltura, perché ciò implichereb-be un tirare dentro sia questi che quelli, utopisti e reazionari,per avviare infine un processo di assoluzione generale.Questa tesi è sostenibile se, e soltanto se, si aderisce al mo-dello reality. La doppia bomba non viene letta come un mo-mento romanzesco (eppure, nel film, dopo aver enunciato latesi, il commissario Calabresi si sveglia di soprassalto comepreda di un incubo), un passaggio simbolico di una verità chenon sia semplicemente quella dei cartelli a fine proiezione.L’ipotesi romanzesca della doppia valigia, invece, apre effetti-vamente uno spazio di mediazione tra racconto e realtà. Maquesto il modello reality non lo consente. Se si dicono duebombe, due bombe devono stare.Non esiste, non può esistere oggi un livello simbolico dellanarrazione.Il cinema civile, insomma, non può indulgere in una rappre-sentazione figurale e metaforica della realtà, perché si trovadi fronte uno spettatore che «la sa lunga». Uno spettatore inpresa diretta integrale con la realtà, di cui la narrazione ade-rente diventa un semplice supporto. La narrazione come sup-porto della realtà è soltanto uno degli effetti catastrofici delladittatura televisiva instaurata da più di vent’anni in Italia, ladittatura dell’immaginario: grazie alla televisione che vede tut-to, lo spettatore «sa».È tanto forte questo effetto proveniente da ciò che si dicel’età berlusconiana, la fabbrica del consenso attraverso la co-municazione di massa televisiva, che influisce persino suicomportamenti di chi a tale modello si oppone e resiste, gliutenti della rete. La rete, infatti, non vive ancora una propriaautonomia di medium, perché viene percepita e considerata,comunemente, come l’anti-televisione. Quelli che vanno inrete cavalcano una doppia bomba, «sanno», e immediatamen-te «sanno due volte». Conoscono la menzogna televisiva, e ac-cedono alla verità telematica. Una fede a specchio.Che l’umanità possegga la virtù dell’astrazione, della trasfi-

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gurazione simbolica, è consapevolezza ormai polverizzata dalmodello reality, che informa sia la televisione, sia, di riflesso,la rete. Per questo, anche per questo, tutta l’arte contempora-nea è schiacciata sulla dimensione concettuale, certo argine diresistenza contro il modello reality. Argine tuttavia ancoraspaesato e malinconico, perché sconfitto a priori nella consa-pevolezza che il format Grande Fratello, a confronto di qual-siasi vena autenticamente artistica, resti in ogni caso una ma-nifestazione estetica piena, e compiuta in se stessa, una per-formance già evidentemente concettuale, perché costituisce,concentra e assoda l’idea che la società del consumo ha pro-dotto ormai di se stessa.Nelle trasmissioni sul modello History Channel la figura discor-siva più frequentata dalla voce over è l’interrogativa retorica.Per esempio: «Hitler ha chiesto davvero aiuto agli spiriti celti,in sedute medianiche buie e accurate, per ricevere direttive uti-li sulla strategia politica da condurre in Europa?». L’effetto del-l’interrogativa retorica, come è noto, sta nella risposta implicitacon la domanda.Alla questione «Hitler faceva veramente sedu-te spiritiche?», lo spettatore che «la sa lunga», e conosce in anti-cipo menzogne e verità, ossia come vanno «effettivamente» lecose, non può che rendere esplicito l’implicito, rispondendo«Sì!». L’interrogativa retorica non è strategia discorsiva, masupporto elementare della realtà. Lo spettatore ha l’illusione ditoccare con mano la realtà nuda e cruda che preesiste alla nar-razione, e che ab origine la carica di senso. Che Hitler abbiapromosso colloqui con i morti per indirizzare la politica delTerzo Reich, non è una rappresentazione del nazismo, è una no-tizia dell’ultima ora, una news del Mein Kampf.Nel contesto storico culturale settecentesco, l’illuminismo, dacui, piaccia o meno, tutti proveniamo, il pregiudizio agiva pursempre sul piano dell’interpretazione. Partecipando al dibat-tito razionale, si mettevano in campo i propri pregiudizi comemateriali per alimentare e approfondire lo scambio dialetti-co. Oggi, il pregiudizio agisce esclusivamente sul piano dellecose, e riguarda solo il dato elementare della realtà.La doppia valigia non può essere un’interpretazione. È la re-altà reale. Il cinema di Michael Moore, che senza dubbio ap-prezziamo, illustra tuttavia la concreta possibilità che il presi-

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dente Bush abbia maturato la responsabilità effettiva dell’at-tentato alle Torri Gemelle. Non si tratta quindi, in Moore, diun pregiudizio sul piano dell’interpretazione, ma di un pre-giudizio posto e assodato sui dati reali.In Avatar, James Cameron mostra l’apparato bellico america-no, in pieno spirito colonizzatore, che distrugge un enormealbero, emblema morale, spirituale, culturale, della civiltà abi-tante il pianeta Pandora. Il precipizio dell’albero sotto i colpidel fuoco dei marines è filmato alludendo esplicitamente alcrollo delle Torri Gemelle. Cameron, così, non dice che l’indi-viduo George W. Bush ha la responsabilità compiuta dell’ab-battimento delle Twin Towers: dice, invece, che il presidenteBush è il rappresentante della responsabilità storica della poli-tica americana riguardo l’attentato dell’11 settembre 2001.Il cinema civile italiano, costola nobile del neorealismo, oggi,si trova di fronte un grande albero, ben piantato e da tutti rico-nosciuto: la modalità narrativa dell’inchiesta. L’inchiesta è undogma del narrare contemporaneo. Soprattutto in una culturadi ascendenza neorealista come quella italiana, in cui la sce-neggiatura di un film è frutto anche di un lavoro di inchiesta,di indagine diretta sulla realtà. A questo punto, il cinema civi-le, costola nobile del neorealismo, deve decidere se fare del-l’inchiesta una fruttuosa possibilità di indagine nelle spire delquotidiano, oppure un intoccabile moloch, un onnipotente apriori, l’alfa e l’omega del proprio inamovibile destino.È curioso, quasi divertente, notare come il contesto culturalecontemporaneo, in un soprassalto anti-postmodernista, abbiaabiurato alla formula «tutto è interpretazione», a vantaggiodell’assioma, uguale e contrario, «tutto è realtà». Ne soffre, ditale dissidio, il palcoscenico della rappresentazione, ovvero lospazio deputato alla raffigurazione simbolica del reale.Gli esempi sono evidenti e tangibili.La realtà nuda e cruda, agitando il suo scettro, ha prodotto laconvinzione comune che i fatti narrati in Romanzo di una stra-ge siano materia ancora troppo viva e presente nella coscien-za degli italiani, e come tale non possano essere oggetto dinarrazione romanzesca, di rappresentazione simbolica. Moltiasseriscono che è necessario innanzitutto chiudere la que-stione investigativa, sanare le ferite, conoscere nomi e detta-

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gli, e soltanto in seguito alla verifica e certificazione dei fatti,permettersi di «romanzare».Anche questo è sintomo del modello reality: solo la realtà nu-da e cruda, lucida e schietta, può conferire senso, eventual-mente, all’azione narrante. L’atto narrativo sarà solo il suppor-to, l’illustrazione di una realtà che si è già raccontata da sé, de-finita nelle fonti ufficiali, svestita di tutte le ipotesi possibili avantaggio di quella che ipotesi non è più. Ossia la verità.Paolo Sorrentino, in Il Divo, prende di petto questa condizio-ne, ossia il rapporto, solidale, del cinema civile con la struttu-ra dell’inchiesta. Sorrentino ha l’intuizione, forse geniale, dirivestire i contenuti del dossier Andreotti, messigli a disposi-zione da Giuseppe D’Avanzo, con una forma narrativa chetenga comunque conto del modello reality dominante. Ilfilm, così, ha l’aspetto di un’inchiesta altamente spettacola-rizzata, un occhio liquido onnipresente, una sorta di iper-Iso-la dei Famosi concentrata su un unico bersaglio, Giulio An-dreotti. Sorrentino attacca il nemico sul suo stesso terreno. Ilfilm si propone allo spettatore come fosse un format stabilitoa tavolino, in cui l’oggetto dello spettacolo, però, il divo, allostesso tempo, è concorrente, arbitro, conduttore e pubblico.Se si vuole, è la formula ultramoderna della figura dell’EnricoIV pirandelliano, che nell’esibizione della follia, reale e simu-lata, risulta già il format di se stesso, ossia attore, regista, auto-re e spettatore della propria performance di alienato.Questa struttura narrativa «a format» rassicura gli spettatoridi Il Divo, i quali si trovano pur sempre di fronte alla presadiretta sulla realtà costituita dall’impero andreottiano, ma an-che inesorabilmente proiettati in un gioco di specchi, unadoppia struttura (una «doppia bomba»?) che lo spettatorestesso non riesce a prevedere, e da cui non può e sa sottrarsi.Il Divo, in una parola, è la messa in abisso del modello reality.La «realtà Andreotti» è irrorata sullo schermo nella trasparenzaassoluta di un format tv, e subito la trasparenza, piano piano, di-venta opacità, ossia l’opacità dell’enigma, l’enigma del potere.Tornando sulla visione del film (rivedendolo, come si deve fa-re con il cinema che merita), il format, messo in abisso, scolo-ra, ed emerge la densità dell’enigma. È come se ci fosse unastruttura narrativa in cui è previsto il modello reality, il for-

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mat tv giornalistico spettacolare, il quale, una volta propostoe manifestato, come gli affreschi pompeiani che prendonoaria per gli scavi della metropolitana in Roma di Fellini, sipolverizza, si autodistrugge. Facendo così emerge l’altra par-te dello specchio, la trasfigurazione simbolica di Andreotti, lametafora del potere che rappresenta.Un esempio per tutti. La concezione spaziale del film. La fi-gura spaziale dominante del film è la cella/corridoio. Per laprecisione, la cella/corridoio di Aldo Moro. Andreotti è com-preso, anzi compresso in questo spazio, in cui scalpita e da cuinon può uscire. La cella/corridoio è modulo spaziale che simostra direttamente (Moro prigioniero compare nell’inqua-dratura), e poi si ripete lungo tutto il film. I corridoi di casaAndreotti, stretti e bui, dove il divo passeggia nervoso; l’auladella commissione d’inchiesta per l’autorizzazione a proce-dere, in cui il divo è seduto al centro di un corridoio delimi-tato dalle due tribunette ove seggono i parlamentari; l’archi-vio segreto del divo, un lungo tenebroso corridoio di scaffalipieni di polvere, carte e faldoni; l’interno dell’aereo per Pa-lermo, dove, in fondo al corridoio tra le poltrone, una ho-stess, maschera d’ossigeno sul volto, nel consueto rito di illu-strazione delle procedure di emergenza, mima addosso all’il-lustre passeggero la condizione di personaggio senz’aria,chiuso e soffocato per sempre nell’ossessione della propriastrategia di potere. Il lungo piano sequenza finale, merito diLuca Bigazzi, in cui la steadicam 1 percorre il corridoio obbli-gato che conduce nell’aula di tribunale di Palermo, in semi-soggettiva del divo, e prosegue nella sala spaziosa in un ulte-riore, ostinato, effetto corridoio, lungo i banchi degli avvoca-ti, lungo gli scranni della corte che fa il suo ingresso, fino aterminare il percorso sul primo piano di Giulio Andreotti,fissato nella propria maschera, dove l’immagine si asciugadel colore per rimanere secca e piantata nel bianco e nero,marcando così sul piano visivo il vuoto d’aria della cella incui Aldo Moro giace, e tiene legato il suo avversario.I corridoi di casa, l’aula della commissione parlamentare, gli

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1 Macchina da presa che, grazie a un’imbracatura, si muove insieme all’operato-re mantenendo però ferma l’immagine (n.d.r.).

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scaffali dell’archivio segreto, l’abitacolo dell’aereo, e il lungocammino, tra passo marziale e volo divino, nel tribunale bun-ker di Palermo, sono tutte figure del modulo spaziale domi-nante, ossia il budello della cella/corridoio in cui le Brigaterosse stringono Aldo Moro. La cui voce off, che preme sulprimo piano del volto ingessato del divo, come un segnale ra-dio proveniente dalle profondità dello spazio, non a casoconclude il film. Tale struttura modulare mette in abisso ilmodello reality, elemento presente ma non dominante, ele-mento compositivo che partecipa infine di un’altra struttura.Anche in Diaz, diretto da Daniele Vicari, dedicato agli atrocie sanguinosi eventi del G8 di Genova 2001, si affronta di pet-to il rapporto tra cinema civile e inchiesta. Il film funzionacome un vero e proprio reportage ricostruito. Se Giordanaguarda al romanzo, a una sorta di spericolato missaggio fraVisconti e Bellocchio, Vicari pensa certamente a FrancescoRosi. Diaz, come Salvatore Giuliano, è uno psicodramma col-lettivo, verniciato da action-movie, uno spazio in cui le pul-sioni culturali e sociali premono ed esplodono. Entrambi, èevidente, rifiutano il modello reality, e si accingono a un’ipo-tesi di rappresentazione della storia e della realtà in cui l’Ita-lia è stata prossima al colpo di Stato.Anche Diaz procede a un’operazione in abisso, perché rac-conta i fatti di Genova come fossero il reality di un colpo diStato.Vicari fa della scuola Diaz la casa del Grande Fratello, os-sia lo spazio del potere che è pre-potente, potente a priori suuna realtà che il potere stesso domina e condiziona. Il filmquesto mette in scena. L’irruzione delle squadre di poliziatrasforma il luogo, la Diaz, da spazio di asilo a spazio di de-tenzione coatta. Come avviene per lo spazio reality, che ini-zialmente è scelto, e improvvisamente è subìto.Il film questo rappresenta. La Diaz quale metafora dello spazioconcentrato in cui il cittadino contemporaneo, eletto consu-matore, è costretto. Sarà inconsapevole, ma certo non casuale,nella modalità del lapsus narrativo, che i pochi ragazzi che sisottraggono alla Diaz si rifugiano in un bar, ossia un luogo do-ve si entra per consumare, e proprio lì non vengono toccati.Nel film di Vicari, l’evento Diaz si sottrae al gioco delle opi-nioni, per diventare figura del prepotente reality che si è gio-

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cato in Italia negli ultimi vent’anni. La Diaz è filmata come lospazio di un format, in cui gli abitatori sono messi a dura pro-va nelle spire di un esercizio di potere calato a valanga, privo dialternative. Non c’è infatti alternativa, al reality come regimetotalitario in presa diretta con i luoghi e i corpi. Presa diretta,come format comanda, così aderente alla realtà da affondaresanguinosamente in essa.Il cinema civile italiano, costola nobile del neorealismo, è riu-scito ancora una volta a tirarsi fuori dal magma atroce del cor-to circuito della comunicazione e dell’informazione, comeRossellini e De Sica riuscirono con il circuito più lungo del-le macerie e delle miserie, per mettere in scena uno spazio dimediazione, aprire uno sguardo critico sulle cose. Per questo,proprio per questo, i film di cui parliamo sono belli, moltobelli. Perché bellezza adesso è questo sollevarsi, prenderearia, come James Cameron sul pianeta Pandora. Svellere i re-cinti in cui il format allestisce le sue dispotiche esercitazioni.Verso la fine del film, quindi, Vicari mostra un cittadino, se-duto sul ciglio della strada, attento alla propria indifferenza,se non fastidio, per il disagio arrecato dagli eventi alla pro-pria vita quotidiana. Quel cittadino assume il comportamen-to del consumatore, teledipendente, infastidito, che chiede dicambiare canale.Questo è il fine del format, lo scopo del reality: sostituire l’in-dignazione con l’indifferenza. O meglio, convertire il dispet-to per l’abolizione dei più elementari diritti civili, in una sor-ta di indignazione indifferente. La strategia più aggiornata ri-duce il cittadino, metà ignaro e metà qualunquista, a manova-lanza virtuale di ciò che sente prossimo e tuttavia non lo ri-guarda.Nel 1968 delle bombe, erano ancora gli squadristi neofascistia fungere da manovalanza. Nel 2001 del reality, la strategiadella tensione ha quasi centrato l’obiettivo: è il cittadino qua-lunque, ormai, la manovalanza che il circuito comunicativo dimassa ha esteso a tutti gli utenti, tutti i consumatori. Questal’ipotesi di colpo di Stato immaginario, che il film raffigura.La strategia del 1968 verteva su un principio ancora moder-nista, ossia il meccanismo cospiratore, il motore che si innescae fa muovere la macchina là dove si vuole che la macchina va-

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da: il rapporto tra strategia e manovalanza avviene in modoautomatico. La paura del cittadino è l’esito di un congegnodeterminato di causa e effetto, tra la bomba, una o bina, e lareazione reazionaria.La strategia del 2001 prosegue il piano aggiornando il mecca-nismo, che si avvale di un principio di caratura postmoderni-sta. Non più un meccanismo automatico, a orologeria, maqualcosa di davvero immediato, un’interfaccia. Le forze di po-lizia e i comuni cittadini interfacciano la funzione reality. Es-si agiscono e si raccontano nello stesso istante, abolendoogni specie di dubbio, ogni possibilità di esitazione, ogni for-ma di riflessione.Dei cittadini resi manovalanza virtuale, si è già detto. I poli-ziotti provvedono alla difesa dell’ordine pubblico abolendoogni forma di mediazione tra il comando ricevuto e la sua at-tuazione solidale. I poliziotti interfacciano con chi li coman-da. Come in un gioco reality, in cui le prove che i concorren-ti devono eseguire non ammettono replica. Se non negli spa-zi detti «confessionali». E infatti, nel film di Vicari, i poliziotti,in una pausa, telefonano a casa e parlano coi figli. Mostratiquindi nel loro momento «vero», di confessione «umana esincera» con l’esterno. Ma anche questo è uno spazio virtuale.Nessun poliziotto, telefonando, apre uno spazio simbolico,uno spazio di mediazione su quello che fa: nessun poliziotto,infatti, vede in qualche studente malmenato, qualcuno comepotrebbe essere «suo figlio».Se il poliziotto di Petri/Volonté, in Indagine su un cittadino aldi sopra di ogni sospetto, sempre 1968, cercava ancora uno spa-zio di mediazione (nella forma del paradosso e del delitto) ri-spetto al potere di cui era vittima e padrone, nel 2001 gli spa-zi sono soffocati, e il crimine non è esperimento paradossale,ma puro e semplice gesto quotidiano nell’ambito del para-digma reality. Obbedire a un ordine equivale a consumare unordine, nell’angoscia reality di essere vivi e tuttavia non esi-stere. L’angoscia del poliziotto consumatore di ordini, che ilfilm pietosamente raffigura, riguarda la coincidenza tra ciòche si fa, l’esecuzione del comando, e il sentimento narrante,attimo per attimo, di essere terribilmente vivo come poliziot-to, a costo di non esistere come uomo.

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Anche la struttura narrativa di Diaz, come del Divo, è modula-re: il lancio della bottiglia che si ripete (e che tanto è spiaciu-to ai tutori del gusto) è il modulo compositivo con cui i fattidella Diaz interfacciano con se stessi. In Il Divo, il modulo èspaziale, la cella/corridoio di Moro. In Diaz, il modulo è tem-porale. Cittadini, studenti, poliziotti, tutti sono compressi nel-l’arco di tempo, rallentato e sbrigliato, della bottiglia lanciata,e si frantuma. Non si esce dal lancio, perché non c’è un altro-ve. Come accade nel circuito dell’informazione, in cui non sipuò sfuggire a ciò che si chiama un «lancio di agenzia» chenotifica l’evento, e parimenti detta l’impronta che l’eventostesso affonda nel mondo. Tutti crediamo, e obbediamo, a unlancio di agenzia. Il lancio della bottiglia, modulato lungo ilfilm, è la figura cinematografica del lancio d’agenzia con cui ilpotere interfaccia verso chi deve obbedire: puro gesto «infor-mativo», istintivo, maldestro, anche premeditato, comunque«umano», gesto manuale senza alcuna «riflessione», ma ciòche più conta, come un lancio d’agenzia, gesto che non lasciaspazio a interpretazioni. Quello che si dice, un ordine.Il lancio dei poliziotti all’assalto della Diaz è l’omologo dellancio d’agenzia all’assalto dei consumatori. Puro interfacciastimolo/risposta, direttiva/ubbidienza, che la strategia del po-tere 2001 assume come fuor di dubbio, decisivo, scattanteverso le estreme, terribili, «naturali» conseguenze.Il cinema civile italiano, costola del neorealismo, ancora unavolta, rifiuta ogni immediatezza, per tentare di aprire unospazio simbolico che sviti la camera stagna del paradigmareality. Paradigma fortissimo perché rispondente non solo al-lo spirare dell’aria del tempo, ma anche ad alcuni aspetti par-ticolari del carattere italiano.Gli italiani, infatti, nelle istituzioni che ne hanno accompagnatoil cammino, quali il fascismo, la Democrazia cristiana, il berlu-sconismo, non cercano semplicemente protezione. Gli italianicercano qualcosa di più e di meno, una garanzia. C’è profondadifferenza tra protezione e garanzia. La prima è un affidarsi ti-morosi all’autorità. La seconda innanzitutto esclude ogni timo-re, e rende tranquilli e sicuri. Fascismo, Dc e berlusconismo, in-fatti, garantiscono che sotto la facciata di fedeltà e consenso, siapossibile la gestione consapevole dei propri interessi e affari.

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Il cinema civile italiano sa tirarsi fuori dai lanci d’agenzia eraffigurare anche questo. Come si vede in un bel documenta-rio del 2012 diretto da Gianfranco Pannone, dal titolo Scoriein libertà, in cui si indaga sul caso della centrale nucleare diBorgo Sabotino, provincia di Latina. C’è un personaggio, nelfilm, un lucido testimone davanti alla macchina da presa, cheammette di aver largamente approfittato, come tutti, della si-tuazione di deregulation creatasi sul territorio nel momentoin cui, causa nucleare, le autorità politiche e amministrativeavevano interrotto ogni controllo. È un personaggio che ilfilm racconta come di cultura evidentemente berlusconiana,che tuttavia davanti all’obiettivo non perde occasione di esse-re sarcastico e acutamente disincantato su Berlusconi.È esattamente questo lo spazio della garanzia. L’italiano nonha bisogno di essere protetto, perché sa benissimo proteg-gersi da solo: l’italiano, piuttosto, ha bisogno di essere garan-tito. E in tale consapevolezza, nutre la coscienza, l’ambizione,la spavalderia, l’arte di manovrare il manovratore. Il gioco dispecchi tra pupi e pupari è immediato: un’interfaccia cultu-rale, prima ancora che elettorale.Il film di Pannone, bell’esempio dell’attuale rinascita del ge-nere documentario, costola del cinema civile, mostra questoaspetto dell’italica antropologia con chiarezza non consueta.Il rifiuto della protezione e la ricerca della garanzia.Dalla garanzia all’avviso di garanzia, il passo qualche voltanon è poi così lungo.

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IL CINEMA NON CREDE IN DIOHa senso parlare di cinema ‘laico’? Quale la caratteristica

principale per definire ‘laico’ un film? In verità tuttii grandi film non possono che essere laici, perché il cinema

non fornisce risposte, pone domande, racconta la vita,in tutte le sue contraddizioni.

FABRIZIO TASSI

‘Lascia fare a Dio…’

«Mal… Mal… Mal…». Anne ormai non sa dire altro. «Mal…Mal… ». È una litania ossessiva. Un urlo senza più coscienza.Un rosario del dolore. «Mal… Mal…». Georges si avvicina alsuo letto, le prende la mano, la accarezza. Non è un semplicegesto di affetto. È un movimento tormentato, inconsolabile,impotente. Vorrebbe aiutarla in qualche modo, perché gua-rirla non è più possibile.Vorrebbe che quel dolore avesse unsenso.E comincia a raccontare.La macchina da presa è ferma al centro della scena. Unosguardo vicino e distante che abita la stanza, che è lì con loroma non coincide con loro, nel senso che non può dimenticar-si, non deve rinunciare al suo ruolo di osservatore consape-vole, presente a se stesso. Lei, Emmanuelle Riva, è sdraiatasulla sinistra e guarda fisso nel vuoto. Lui, Jean-Louis Trinti-gnant, guarda lei e guarda dentro se stesso, mentre sta sedu-to sul letto a destra, contro una finestra che non dà alcunapossibilità di fuga, che non si apre verso chissà quale cielo oorizzonte lontano. La luce è impietosa. Non è la trascendenzadi un senso superiore in cui ogni cosa trova la sua ragionemisteriosa. È la ragione, nuda, di fronte alla realtà della ma-lattia e della morte.Georges, il generoso, stoico, «santo» Georges, comincia a rac-contare. È il ricordo di un bambino lontano da casa, un’esta-te di tanti anni fa. Si rifiutò di mangiare, quel bambino, e lolasciarono lì, da solo, davanti al suo piatto, per ore, fino aquando i suoi aguzzini decisero che la punizione era adegua-ta alla colpa. Era solo, abbandonato alla mercé di una situa-

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zione su cui non aveva nessun potere. Scoprirono che eraammalato di una malattia infettiva, e lo misero in isolamento.Quando sua madre arrivò, si incontrarono attraverso un ve-tro. Finalmente insieme, irrimediabilmente separati.Questa la storia. Che non ha bisogno di parafrasi sentimenta-li. Che sembra stridere con il contesto e l’età dei due vecchiottantenni. Che lui non le aveva mai raccontato, in tanti annidi vita insieme. Lo fa ora, quando il dolore e la malattia li di-vidono, per sempre, come una parete di vetro. Lui la puòguardare, la può accarezzare, ma non può toccarla davvero,non può comunicare con lei, non può vivere in coscienza e li-bertà insieme a lei.Ed eccolo, improvviso. Il gesto estremo che non ti aspetti,ora, così, dentro una scena che sembra l’epitome dell’impo-tenza. Della natura che reclama (con pacifica, crudele indiffe-renza) la sua sovranità sulla cultura. È un attimo e ti prendealla sprovvista, lasciandoti disarmato. Un istante che non fi-nisce mai. Orrore. Amore!Il film, in effetti, si intitola Amour. E non è una provocazione.Il regista Michael Haneke non dice che quel gesto è giusto osbagliato. Non fa la morale e neppure l’anti-morale. Lo mostra,lo racconta come una possibilità, che qui assomiglia a una ne-cessità. Gli concede la dignità di un atto di compassione e di-sperazione, lasciando allo spettatore la libertà (la responsabili-tà) di interpretarlo secondo il proprio universo di valori.Se esiste un «cinema laico» assomiglia a questa attitudine ver-so la realtà. Senza giudizi. Senza prediche (neanche quelle lai-che). Con la consapevolezza che le azioni e i rapporti umani,le emozioni e le scelte, si adattano malvolentieri alle nostresemplificazioni intellettuali. Da Cannes, dove il film ha vintola Palma d’Oro (in Italia dovrebbe uscire il 31 ottobre), in tan-ti scrissero che Amour era un «film sull’eutanasia», banalizzan-done il discorso per renderlo potabile e venderlo (comunicar-lo) meglio. No, Amour non è un film che ragiona sul problema(bio)etico, politico, filosofico dell’eutanasia, non è un pam-phlet e neppure un soggetto a tema. È la storia di un uomo euna donna che si amano, dentro i limiti che hanno le coseumane, e che di fronte alla malattia devono imparare ad amar-si in modo nuovo (devono imparare anche a morire).

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Certo, non è difficile immaginare ciò che un osservatore catto-lico – di quelli che giudicano un’opera ragionando dentro glischemi, i princìpi, i pre-giudizi del cattolicesimo istituzionalemilitante – penserebbe di un film del genere: bello, sì, impor-tante, come no, ma non parlate di amore quando un uomo sisostituisce a Dio e decide della vita e la morte di un altro esse-re umano; e poi, la sacralità della vita, i valori non disponibili, lalegge naturale, e via equivocando e distorcendo la realtà (inter-pretandola in modo tale da renderla irriconoscibile e inospita-le). Se esiste un cinema laico, forse è quello che affronta que-stioni come la libertà di vivere, amare, morire – quelle su cui laChiesa esercita un diritto di giurisdizione divina autoconcesso,oltre che un’opera di lobbying politica – liberando la realtà dal-le catene del dogma, affrontando questioni che il clero vorreb-be confinate nei confessionali o nelle sagrestie, opponendo almoralismo e alla pedagogia dell’obbedienza l’etica della libertà,della coscienza, della responsabilità.La questione non si può ridurre a un «credere o non credere».Vedi Million Dollar Baby (2004), che non è un film dello spieta-to Michael Haneke – con la sua agghiacciante visione delmondo e della vita – ma dell’empatico Clint Eastwood, i cuipersonaggi sono spesso assidui frequentatori di chiese, peròdisincantati. Capita perfino che un suo eroe finisca per mori-re cristianamente in croce, sacrificandosi per il prossimo(GranTorino), dopo aver chiarito che il «cristiano» non ha biso-gno di templi, parole d’ordine medievali e sacerdoti paternali-stici (il pretino del film è accettato come amico solo quandomanifesta i primi dubbi e si rivela in quanto essere umano),traslocando simboli e pratiche dal chiuso della chiesa alla vitalà fuori (nel confessionale va in scena una rappresentazione-parodia del peccatore pentito, la vera confessione arriva inuno scantinato, davanti al figlio elettivo, e se ne frega della re-torica del peccato, è qualcosa di più profondo e radicale).Ricordate il dialogo tra il vecchio allenatore di pugilato e ilprete in Million Dollar Baby? Lui è dilaniato dal dubbio: Mag-gie, campionessa di boxe, immobilizzata per sempre in un let-to d’ospedale, in condizioni sempre più penose, le ha chiestodi aiutarla a morire. Ha perfino provato a suicidarsi mangian-dosi la lingua.

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«Che cosa devo fare?», chiede disperato il vecchio Frankie alsacerdote (un giovane sacerdote).«Niente», risponde lui, lasciandoci agghiacciati. Vorrebbe fi-nirla lì, probabilmente. «Devi farti da parte. Lascia fare tutto aDio», aggiunge poi.Troppo facile. Troppo comodo. Liberarsi dal peso di essereumani, con una coscienza, con il nostro libero arbitrio, contutto ciò che dobbiamo agli altri e a noi stessi, lasciando chea decidere non sia tanto Dio, quanto l’immagine che se n’èfatta la Chiesa, una Chiesa, che pretende di sapere ciò che ègiusto per Lui e per gli uomini.«Ma lei non sta chiedendo l’aiuto di Dio, sta chiedendo il miodi aiuto», è la risposta di Frankie.Prima aveva detto: «Per lei tenerla in vita è come ucciderla».Che sembra una frase fatta, una frase ad effetto, e invece foto-grafa la sostanza del problema. Il dilemma morale si può an-che comodamente appaltare a chi sceglie per noi al posto diDio (certo, parlare direttamente con Lui sarebbe tutta un’al-tra cosa). Si può discutere in un consesso filosofico e bioeti-co (ricordando, con Hans Jonas, che «la mortalità è una carat-teristica integrale della vita, non una sua estranea e casualeoffesa» che «il diritto di vivere, correttamente e integralmen-te inteso, include anche il diritto di morire»). C’è la vita in ge-nerale, come concetto, come categoria del vivere, e poi c’è lamia vita e la sua, c’è un’esperienza particolare della sofferen-za, tremende scelte individuali che non possono certo diven-tare norma universale, ma neppure essere sottoposte alla dit-tatura morale-legale del «dovere di vivere».Queste però sono solo parole che svaporano di fronte allabellezza, all’umana pienezza dello sguardo di Maggie, quandoFrankie le dice che ha deciso di aiutarla, di sacrificare le pro-prie convinzioni e la propria serenità per lei (il prete, subdo-lamente, aveva insistito sul fatto che non avrebbe mai potutoperdonarsi quel gesto: «Se fai una cosa del genere, ti perde-rai, finirai in un abisso») e le svela il significato di quella pa-rola che aveva accompagnato la sua rinascita (la sua vera na-scita): «Mio tesoro». Il sorriso di lei è indimenticabile: un pri-missimo piano, un alone di luce al centro dell’inquadratura,il suo viso illuminato in fondo a due laghi scuri, il nero della

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nuca di lui, piegato sul suo viso, e la sua ombra sul cuscino. Èil ritorno di Maggie come essere umano, non come pezzo dicarne, entità biologica e/o spirituale che dipende dalla tecno-logia medica e dalla teologia cristiana. Frankie scivolerà fuoriscena, dietro le quinte, lontano dalla tentazione del primopiano eroico o del monologo dispensatore di saggezza, condolore ma anche pudore, trasformato nell’avventore di unbar che sta in nessun dove, «perduto tra il nulla e l’addio», oforse ritrovato una volta per tutte.Il (grande) cinema (laico?) è questo. Non dà risposte. Non facomizi. Non illustra verità preconfezionate. Non dice. Mostra.Racconta. Fa vivere la realtà e la verità particolare delle cosee delle persone, che in virtù del potere dell’arte diventanouniversali. Non nel senso della norma, ma dell’esperienzacondivisibile, comprensibile, in quanto esseri umani.

Cinema e libertà (anche di morire)

Poi, se volete, possiamo anche stare a discutere della battagliadi Ramón Sampedro (Mare dentro di Alejandro Amenábar,2004), la sua lotta per il riconoscimento del diritto a una «dol-ce morte», o della voglia di vivere nonostante tutto di Jean-Dominique Bauby (Lo scafandro e la farfalla di Julian Schna-bel, 2007), che comunica battendo una palpebra e si affida al-la memoria e all’immaginazione. C’è chi cita i due film cometestimonial contrapposti del proprio specifico credo. Ma alcinema ci sta la volontà di vivere come quella di morire (do-vrebbe starci anche nella vita qui fuori). C’è la realtà nella suacomplessità. Compreso il «socialista concupiscente» Remy(Le invasioni barbariche di Denys Arcand, 2003), alle prese conun tumore inguaribile e con quel buco nero (di senso) che èla morte, amante della vita e del vino, delle belle donne e deibei libri, nemico del «capitalismo puritano» e di tutti i barba-ri che vogliono privarlo del piacere di vivere e del diritto dimorire.Se continuiamo a citare film che parlano di eutanasia, è soloperché si tratta ancora del terreno più insidioso e in passatocensurato (censura «di mercato»), quello che continua a su-

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scitare le rimostranze più vivaci dagli ambienti ecclesiastici,dal mondo della politica e dell’associazionismo cattolico (an-che quello «democratico», col suo insopportabile tono predi-catorio e buonista), da parte dei polemisti-moralisti atei de-voti. Siamo in un paese in cui vorrebbero rendere obbligato-ria l’alimentazione e l’idratazione artificiale anche contro lavolontà del paziente. In cui il corpo di Eluana Englaro è ri-masto per anni ostaggio di un’assurda coazione a (soprav)vi-vere, vittima di un’ossessione ideologica assecondata dalla(mancanza di una) legge, al centro di uno spettacolo televisi-vo indecente e senza pietà (quanto abbiamo bisogno del filmdi Bellocchio, che ci ripulisca lo sguardo, che restituisca unpo’ di pudore e verità a quella vicenda!). Un corpo diventatosuo malgrado emblema delle contraddizioni e dei paradossiin cui si dibatte lo stesso pensiero morale cattolico contem-poraneo. (Quanto è spietato questo dovere di vivere impostoanche a chi conserva solo qualche funzione organica senzacoscienza, magari contro la sua volontà? Quanto è assurdo ilcontinuo appellarsi alla «legge naturale» di fronte a situazioniartificiali di vita-non-vita determinate dalla tecnologia medi-ca, ostinatamente rifiutata quando si tratta di aiutare una vitaa nascere con la procreazione assistita? Quanto è paradossal-mente materialista questa ossessione per la vita intesa in ter-mini puramente biologici, da parte di chi dovrebbe crederenell’anima e in un’esistenza che non è solo respiro e nutri-mento?). Il furore del dibattito di quei giorni continua a bru-ciare e a generare mostri, se pensiamo al nauseante dibattitoalla Regione Friuli (con la complicità del Pd) sui finanzia-menti al film di Marco Bellocchio dedicato proprio alla storiadi Eluana, sospesi, poi reintrodotti, infine cancellati da unemendamento Udc (votato «per errore» anche dal centro-si-nistra), in attesa di essere recuperati di nuovo, mentre la FilmCommission (che aveva deciso quel finanziamento) è statadefinitivamente cancellata.In una situazione del genere, in cui anche la più elementaredelle libertà viene messa in discussione, difficile che si possadiscutere serenamente di eutanasia. Ed ecco allora perché labattaglia di Remy o di Ramón diventa anche la nostra, il cine-ma laico assume quei connotati di testimonianza, impegno,

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provocazione, denuncia, che gli vengono convenzionalmentericonosciuti, e i film diventano bandiere. Hai voglia a dire chesulla pellicola di Amenábar pesa il bisogno di dire e spiegare,che il sacerdote gesuita viene ridotto a una caricatura, che gliargomenti sono semplificati (ideologicamente? poco laica-mente?), che le emozioni sono quasi estorte allo spettatore: lastoria di Ramón ha il merito di sollevare la questione, propo-nendo riflessioni importanti e provocando sensazioni forti(con la sua dialettica visiva tra l’immobile corpo di lui, prigio-niero della sua malattia, e l’inafferrabile vastità del mare, sim-bolo della voglia di vivere di Ramón, causa della sua fine).Guarda caso Amenábar è anche il regista che ha firmato Ago-rà (2009), il peplum dedicato a Ipazia, raro caso di film «popo-lare» che ha il coraggio di mettere in scena il lato oscuro e leradici fondamentaliste del cristianesimo (c’è un solo Dio ve-ro, una sola Verità, una sola Chiesa che garantisce la salvezza),di alludere alle sue colpe storiche, in una singolare associa-zione visiva col fondamentalismo islamico contemporaneo (ifanatici aizzati dal vescovo e santo Cirillo, nemici di pagani edebrei, che massacrarono e smembrarono l’astronoma filosofaIpazia, sembrano fisicamente dei taliban). Un film che fastorcere il naso agli esteti (e agli storici), col suo gusto del po-sticcio, ma assolve indubbiamente al suo compito – didasca-lico, divertito, disturbante – con sorniona intelligenza. Chedire della quantità di libri, articoli, trasmissioni televisive, in-titolazioni varie, provocate dall’uscita del film nel nostro pae-se, in cui era pressoché sconosciuta questa filosofa neoplato-nica, matematica, astronoma, donna di vasta cultura e solidafede nella ragione, convinta che la filosofia fosse uno stile divita, una costante ricerca della verità, barbaramente uccisanel V secolo d.C.? D’altra parte fuori dagli ambienti accade-mici poco o niente si sa della repressione del paganesimo odella battaglia contro l’insegnamento filosofico accademicoad Atene (curioso che l’editto di Giustiniano del 529 vietassel’insegnamento della filosofia, l’esegesi del diritto e il giocod’azzardo, così come oggi in Cina si equipara il dissenso poli-tico proprio all’azzardo, oltre che alla pornografia).Chi vorrà cimentarsi, in futuro, in un’analisi sistematica delvago concetto di cinema laico, dovrà tenere conto di questa

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ambivalenza: da una parte i film che affrontano temi sensibi-li e/o controversi in modo volutamente e provocatoriamenteantidogmatico (che non vuol dire per forza antireligioso), fa-cendo controinformazione e adattando tono e argomenti aun certo contesto politico-sociale (ciò che è liberatorio in unpaese occidentale, è diverso da ciò che lo è in Iran o in Egit-to, in India o in Birmania, in Cile o in Kenya, in Cina o a Cu-ba); dall’altra film e autori per cui la laicità è un’attitudineetica ed estetica, che parlano di amore, morte o malattia, diquestioni che hanno risvolti bioetici impegnativi, di libertà dipensiero, con la consapevolezza che il cinema non è il luogodella dimostrazione, della (contro)propaganda, ma quellodella realtà realizzata, dell’ambiguità intrinseca alla vita e almondo, del dubbio e delle verità molteplici. Il cinema può in-segnarci a vedere per davvero (la realtà), invece che acconten-tarci di guardare senza vedere, attraverso i filtri del pregiudi-zio, dell’abitudine, della tradizione, della verità rivelata, maanche dell’arbitrio egotista o del qualunquismo tribale.Parlando di etica e moralità, è difficile valutare (nel senso di«dare un valore», non di giudicare) un gesto, una scelta,un’azione se non la si inserisce nel suo contesto, se non lo siguarda all’interno di una specifica storia, con i suoi protago-nisti (e antagonisti), i suoi accidenti, la sua singolarità. Il cine-ma non è un tribunale, ma un palcoscenico. È il luogo delpossibile. È un esercizio di libertà intrinsecamente laico,quando non è piegato da intenzioni ideologiche o distorsioniconfessionali, perché riflette la realtà nella sua complessitàirriducibile a un’idea (a quella soltanto), a un’intenzione, a unintegralismo.La riflessione su cinema e laicità non può certo ridursi a unacasistica tematica, a meno di voler collezionare film modestima utili allo scopo. Tanto per rimanere al tema eutanasia, va-le davvero la pena rivedere il pavido Di chi è la mia vita? diJohn Badham (Whose Life Is It Anyway?, 1981), storia di ungiovane scultore paralizzato da un incidente stradale, che sibatte contro medici e giudici per ottenere il diritto di morire?Un po’ più onesto è Quando morire di Paul Wendkos (Right toDie, 1987), in cui una donna ammalata di sclerosi lateraleamiotrofica, cristiana, chiede di essere libera di decidere («Il

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mio corpo è diventato una tomba in cui vengo sepolta pocoalla volta»), ma anche qui il cinema si riduce a enunciazione.Niente di tutto ciò vale neppure lontanamente la scena in cuiFrank Pierce, paramedico di New York raccontato da MartinScorsese in Al di là della vita (1999, in realtà Bringing Out theDead, perché la morte va mostrata, rivelata), libera il signorBurke, vittima di una spietata terapia intensiva, dal suo limbosenza senso. Salvato da 17 arresti cardiaci, è diventato l’og-getto di un’ossessiva routine (la sua vita non ha più alcun si-gnificato per lui, lo ha solo per l’ospedale, le sue procedure,le sue tecniche di rianimazione). Frank fissa sul proprio pettogli elettrodi del signor Burke, perché non scatti l’allarme, eimbocca la cannula che lo ventilava, respirando profonda-mente, mentre lo guarda morire, e quel respiro (il suo rumo-re pesante) è l’unica cosa che vive e si muove dentro una sce-na immobile, una natura morta con cadavere e liberatore. Ciòche è davvero «sacro» è la persona, non la vita (biologica) insé, è sacra la libertà che abita quel corpo e quella mente. Bur-ke, finalmente, riposa in pace (prima era un fantasma, un’al-lucinazione che urlava in silenzio nella mente di Frank, unnon-morto infuriato col mondo dei non-vivi), mentre Frankse ne sta lì col respiratore in bocca, dentro la sua «vita termi-nale» («Siamo tutti morti»). Forse è proprio in quel momento– quando assume su di sé, sul suo corpo, sulla sua coscienza,il peso, la responsabilità, del (non)vivere di Burke – che il pa-ramedico trova la propria «resurrezione» da povero Cristosenza dio, alla fine di tre giorni di via crucis, dopo aver salva-to la vita a un disadattato di nome Noel e aver trovato riposotra le braccia di Maria (che doveva imparare a lasciare andareil padre e ricominciare a vivere). E quella «pietà» finale, conl’alba della domenica che illumina la scena, ci dice che l’uo-mo sradicato da ogni certezza, libero da sovrastrutture illuso-rie e consolatorie, provato a ogni disperazione, ritrova final-mente se stesso, la sua umana nudità, il suo nulla, e quindi lapossibilità di un nuovo inizio, consapevole dei limiti, dell’in-ferno e del paradiso in terra. Quel prete mancato di Scorseseci mostra che l’uomo ritrova «Dio» (sostituite a piacimentocol nome che date di solito e ciò che di più alto c’è nell’uo-mo: spirito, coscienza, giustizia, bellezza, verità, vera umanità)

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quando ha rinunciato alla superstizione ma anche al cinismo,al fatalismo come all’attivismo – tutte caratteristiche incarna-te dai colleghi di Frank – quando la smette di atteggiarsi a «fi-glio prediletto» che deve convertire il mondo alla propriaspecifica moralità-fede (o non fede), quando raccoglie su disé il dolore del mondo e impara che l’amore a volte libera(anche dalla vita, se necessario).E che dire dell’atto di estrema pietà (ed estremamente politi-co) con cui il grande capo libera Mac ridotto a una larva inQualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew over the Cuckoo’sNest di Milos Forman, 1975)? Lui, indiano d’America, espro-priato di tutto, terra e libertà, decide di liberare l’amico dallaprigione del suo corpo. Un estremo atto di rifiuto dell’istitu-zione totale, che chiede omologazione, obbedienza, buonsenso, controllo sociale. Il manicomio è solo la sua versionepiù radicale.Un’ultima suggestione? Hana-Bi di Takeshi Kitano (1997). Ilviaggio definitivo di Nishi e della moglie Miyuki, malata dicancro in fase terminale. Il male e la morte sono un destino acui il poliziotto-delinquente non può sottrarsi. Ma prima del-la scena sulla spiaggia, dei due spari fuori campo, del voltoesterrefatto della bambina a cui è stato rubato l’aquilone, cisono i giochi di prestigio e i dispetti affettuosi, i fiori, i quadri,il monte Fuji, la neve, il mare, e quelle campane mute che simettono a suonare. «Ti ringrazio. Perdonami», sono le unicheparole che la moglie rivolge al suo Nishi, prima di morire.Potremmo ripetere questa operazione – il cinema che affron-ta un tema, il tema che si mangia il cinema, oppure il grandecinema che mostra la vita (con i suoi temi) – affrontando tut-ti gli argomenti «sensibili», le questioni su cui la Chiesa e al-tre autorità religiose e morali esercitano un diritto di veto,dalla questione dell’aborto alla procreazione assistita, dal-l’omosessualità (la libertà di viverla a piacimento) alle fami-glie «diverse» con bambini e genitori dello stesso sesso. Ma lasostanza non cambia. Abbiamo bisogno di film che denunci-no l’ipocrisia, che sbugiardino le Chiese dogmatiche, che fac-ciano opera di memoria e riflessione dei diritti conquistati afatica e ora di nuovo in discussione, che svelino il bigottismosostanziale nascosto dietro l’edonismo banale della società

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dei consumi, che raccontino quanto è reazionaria la politicaapostolica romana.Però – tanto per fare un esempio – più della pellicola gayfriendly, col suo marketing e la sua specifica nicchia di merca-to (chiamiamolo pure ghetto), abbiamo bisogno di un cinemain cui l’omosessualità sia «normalizzata», non perché banaliz-zata (privata della sua carica eversiva) ma perché calata nellanormalità della vita, per quello che è o che dovrebbe essere.Poi, per carità, siamo tutti grati a Brokeback Mountain (2005)per aver sdoganato il piacere fisico e l’amore romantico gaynelle sale di prima visione (ma chiedete a un omosessuale seama questa idea molto etero del gay vittima sacrificale dellasocietà, mai una volta che vissero felici e contenti e non tor-mentati), a Gus Van Sant e Sean Penn per averci restituitol’uomo e il mito Harvey Milk (Milk, 2008) o a I ragazzi stannobene (The Kids Are All Right, 2010) per l’abilità con cui ha rac-contato la routine e i valori tradizionali della famiglia parten-do dall’amore tra due lesbiche e il rapporto con i figli avutidall’inseminazione artificiale. I film di Ang Lee e Lisa Cholo-denko sono «laici»? Non sono militanti e neppure così rivolu-zionari. Ma certamente non sono amati da chi ritiene che cisia un solo modo giusto, normale, naturale di amare, procrea-re, vivere e morire.Per la verità, si sente anche il bisogno di film in cui il sesso ingenerale (etero o gay, in due, in tre o in gruppo) non sia unproblema, una complicazione morale, una fonte di travagli,rimorsi, sensi di colpa (cattolici?), o una banalità da consuma-re tra una scena madre e una sequenza di passaggio, indecisise nasconderlo dentro l’immagine o fuori campo. In cui siaraccontato con attitudine «pagana», gioiosa, sfrenata, vissutaliberamente e intensamente, come nel finale orgiastico diKen Park di Larry Clark (1996) o in Shortbus di John CameronMitchell (2006), o in cui sia schiettamente eccitato ed eccitan-te, come in History of Violence di Cronenberg o in Y tu mamátambién di Alfonso Cuaron (2000, film peraltro modesto). Me-glio ancora se l’attitudine pagana (che, volendo, ha una suaspiritualità) investe tutto il film, con o senza sesso, come inBeast of the Southern Wild, film malickiano dell’esordienteBenh Zeitlin, che abbiamo visto di recente a Cannes (è stato

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applaudito anche al Sundance) e che speriamo di rivederepresto in sala.

Bestemmia e trascendenza

Se poi invece vogliamo affrontare di petto la questione del-l’anticlericalismo, o del cinema esplicitamente ateo o agno-stico, apriamo un capitolo che da solo richiederebbe un’ope-ra in più volumi (così come il ruolo del cinema laico in queipaesi in cui una cultura laica ancora non esiste, in cui è im-pensabile, immorale, addiritura fuorilegge). Qualcuno si èanche divertito a tracciare una filmografia a tema. Ne trovateuna sul sito dell’Unione atei agnostici razionalisti (Uaar) eun’altra su nessundio.net, che va dalla A di Aiuto! (Help!, ilfilm di Richard Lester e dei Beatles del ’65 che, tra le altre co-se, satireggia il tradizionalismo inglese) alla Y di Yentl (misco-nosciuto film dell’83 di Barbra Streisand, storia di una donnache si traveste da uomo per avere il diritto di studiare il Tal-mud). In mezzo c’è di tutto, tra forzature e illuminazioni, daL’amante del prete di Georges Franju (1970) al crocifisso deca-pitato da John Huston in L’anima e la carne (1957), dal risorgi-mentale Arrivano i bersaglieri di Luigi Magni (1980, ci sonoanche Nell’anno del signore o In nome del papa re) a I diavoli diKen Russell (1971), da Il marchese del Grillo di Monicelli (1981)a Ordet di Dreyer (1955), da Monty Python il senso della vita(1983) a Orizzonte perduto di Capra (1937), da Vergine e di nomeMaria di Sergio Nasca (1975) a La bellezza del diavolo di RenéClair (1950).Cosa c’è di più laico di quell’inno (l’aggettivo più utilizzato è«giansenista») alla libertà di coscienza, senza esibizioni, senzapose, che era Suzanne Simonin di Rivette (1966), tratto da LaReligieuses di Diderot, cronaca del calvario di una giovane co-stretta a prendere i voti e sottoposta ad ogni sorta di violenzafisica e psicologica? Chi invece esibisce i suoi intenti e il suomessaggio è il Peter Mullan di Magdalene, che vinse il festivaldi Venezia nel 2002, denunciando e descrivendo minuziosa-mente i soprusi subiti da ragazze orfane, peccatrici, rinnegatedalle proprie famiglie, in quei luoghi dell’orrore che erano le

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case-prigioni irlandesi intitolate a Maria Maddalena. C’è chi,di area ecclesiale, protestò vivacemente contro il film colpe-vole di «generalizzare» (è la retorica della «mela marcia», chede-responsabilizza comunità e istituzioni) e chi, di area anti-clericale, ne sottolineò il manicheismo e la storia ad effetto,non senza un certo snobismo: si ricredettero in molti quandovennero alla luce in tutta la loro gravità le colpe e i criminicompiuti nel nome del cattolicesimo irlandese, dall’affaireMagdalene alla scandalo della pedofilia.Se poi vogliamo alzare il tiro e passare dall’attualità alla «me-tafisica», dal cinema efficace a quello sublime, non c’è nulladi più istruttivo sul tema dell’antiteologia di Luis Buñuel, pernon parlare dei film di Bergman o Bresson, o l’arte di PierPaolo Pasolini, spesso incompresa a destra e a manca (ai tem-pi del Vangelo secondo Matteo (1964), applaudito dai cattolici ecriticato a sinistra, diceva: «Io ho potuto fare il Vangelo cosìcome l’ho fatto proprio perché non sono cattolico, nel sensorestrittivo e condizionante della parola: non ho cioè verso ilVangelo né le inibizioni di un cattolico praticante (inibizionicome scrupolo, come terrore della mancanza di rispetto), néle inibizioni di un cattolico inconscio (che teme il cattolicesi-mo come una ricaduta nella condizione conformistica e bor-ghese da lui superata attraverso il marxismo)».Una visione laica delle cose – e quindi anche il cinema laico– non è per forza materialista o antireligiosa, non sceglie perprincipio di bypassare la questione del sacro, dell’invisibile,del «totalmente Altro», per citare un’espressione di RudolfOtto menzionata da Paul Shrader prima che diventasse PaulSchrader. Rimandiamo per questo proprio alle pagine, fintroppo rievocate, in cui il futuro sceneggiatore e regista ame-ricano raccontava il trascendentale nel cinema (che è unaquestione di metodo, più che di contenuto) magari tempera-te dalla lettura di Bazin, da cui si evince che il «divino» o la«santità» possono essere rappresentati solo nella loro umani-tà, in ciò che si può effettivamente vedere, ascoltare, mostra-re (sia detto per inciso che oggi Schrader si dichiara serena-mente ateo, si dice convinto che «tutto quello che si può farein nome di Dio è sbagliato», cita L’evoluzione di Dio di RobertWright e dichiara: «Ho raggiunto finalmente una mia pace,

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perché accetto l’idea che la mia vita non ha più significato diquella del mio cane»). Ma visto che la pratica è meglio dellateoria, rimandiamo soprattutto a un film qualsiasi di Apichat-pong Weerasethakul, dove l’invisibile è più concreto e verodel visibile (il regista thailandese «supera» sia Schrader cheBazin), ma anche al cinema da Terrence Malick, a DavidLynch, a Tsai Ming-liang…È evidente però che in un tempo come il nostro in cui laChiesa è tornata a utilizzare metodi, slogan e analisi preconci-liari, proponendosi come unica autorità morale legittima efondata; in un’epoca in cui la religione è usata di nuovo comeuna clava, uno strumento di distorsione della realtà, una sor-gente di fanatismo identitario; in paesi come l’Italia, laici soloa parole, in cui questo potere (del tutto terreno) continua aesercitare un’influenza esagerata sulla politica, i media, la so-cietà in generale… torna ad essere urgente un’opera di veritàe demifisticazione (possibilmente non in stile Religiolus diLarry Charles, che diverte, stimola, ma banalizza e alla fine silimita a intrattenere chi già è convinto dell’assurdità di ognifede). Serve anche al cinema una ribellione laica, che ribadi-sca la necessità di uno spazio aperto, pluralista, relativista (insenso proprio, non secondo la banalizzazione ratzingeriana)come unica possibilità di una convivenza civile e democratica.E così siamo tornati al doppio volto del cinema laico: il filmmilitante (necessario ma non sufficiente) e il film che veicolauna visione laica delle cose (che sarebbe sufficiente, se tuttilo sentissero davvero necessario).A ognuno il suo. C’è chi ha visto questa dimensione nella co-micità più corrosiva del miglior Woody Allen (quello del bu-nueliano: «Grazie a Dio sono ateo») e chi l’ha trovata nei librisacri inchiodati da Ermanno Olmi nel suo Centochiodi (o nel-la chiesa sconsacrata di Il villaggio di cartone che ospita deiclandestini in fuga e torna finalmente ad essere utile); chi lascorge nella straordinaria apocalissi di un Totò che visse duevolte (1998) e chi cita Lars von Trier, magari il suo ultimo Ma-linchonia, in cui lo spettatore viene travolto da un nulla senzavia d’uscita, che reclama il coraggio della consapevolezza; chila vede in film come Kadosh di Gitai (1999) o Il cerchio di Pa-nahi (2000), che guardano e mostrano la realtà dietro il velo

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dell’integralismo religioso o dietro le bugie della teocrazia; echi sottolinea il coraggio di film come Moolaadé di OusmaneSembène, un film del 2004 che si oppone alla pratica dell’in-fibulazione affrontandola dall’interno della cultura africana.Ma il film che si avvicina di più alla nostra idea di laicità, sedobbiamo scegliere tra gli ultimi nati, è Lourdes di JessicaHausner (2009), che esplora la fede/superstizione nel/del mi-racolo senza bisogno di indicare e giudicare, limitandosi a fo-tografare la bruta realtà dei fatti, portando la forza dirompen-te e dissacrante del dubbio fin dentro il tempio della speran-za, ormai da tempo occupato dai mercanti e dai professioni-sti del pellegrinaggio all inclusive. Jessica Hausner osserva eracconta il «miracolo» vero o presunto senza mai gratificarcidi una risposta, con un rigore monacale e un’ironia impalpa-bile che tiene lontano ogni traccia di retorica (lei si dicevaispirata insieme da Dreyer e Tati…), dentro un film in cui Dioè assente giustificato, nel senso che con la sua assenza giusti-fica la nostra libertà e la nostra tenera, insensata, lirica, grot-tesca ricerca della felicità (il tema in realtà è quello, Dio e ilmiracolo sono accidenti).A proposito di assenza di Dio, in Italia abbiamo la fortuna diavere un regista come Marco Bellocchio, con i suoi film acuti,liberi, necessari… laici, da Nel nome del padre (1972) a L’ora direligione (2002). La bestemmia urlata in quel magnifico filminterpretato da Sergio Castellitto non ha nulla di banalmen-te blasfemo, è quasi solenne e per niente liberatoria, ci ripor-ta alle nostre responsabilità, al coraggio di essere se stessi fi-no in fondo, con tutto il dolore e le contraddizioni che ciòcomporta; ci riporta alla ribellione contro un dio guardone eonnipresente che rende ridicola la nostra libertà e soprattut-to contro i suoi cerimonieri, che pretendono di decidere san-ti e dannati, abitando un mondo che esiste solo nella loro im-maginazione.Ma l’immagine più efficace che ci ha offerto il cinema italia-no più recente, è quella che Nanni Moretti ha posto al centrodel suo Habemus papam. Quel balcone vuoto dove dovrebbeesserci il papa, il capo della cristianità, colui che indica lastrada, che sceglie e decide per noi, è un segno potente (mi-tografico!) di ciò che ormai siamo diventati. Quelle figure che

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si ritirano nel buio fuori campo, camminando all’indietro,parlano di qualcosa che ormai non può più accadere. Sì, sia-mo rimasti soli, e allora? Di cosa abbiamo paura? Di deciderecosa è giusto e cosa è sbagliato? Ne abbiamo fatta di stradaper arrivare fino a qui, di filosofia, di politica, d’arte, di storia,di cinema, qualcosa lo abbiamo pure imparato.Per usare le parole di don Ferdinando Tartaglia: «L’idolo cat-tolico protegge l’italiano dalla serietà di un impegno verso unradicale e più alto teismo o verso un radicale e più liberoateismo. […] Questo cattolicesimo salva l’italiano dalla pas-sione della grande trascendenza, dalle torture della grandeimmanenza. […] L’italiano accetta (o tollera) il cattolicesimoperché lo dispensa dall’inventarsi una migliore visione dellavita o un più vasto modo d’azione. […] L’italiano accetta (otollera) il cattolicesimo perché questo, con la sua politica, lolibera dall’impegno a ogni autentica moralità o verità associa-ta, gli fornisce innumerevoli elusioni e falsissimi surrogatid’ogni responsabilità collettiva».

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IL CINEMA DEI RAGAZZIDI PIAZZA TAHRIR

In Occidente siamo rimasti sorpresi dall’improvvisodivampare delle rivoluzioni nel mondo arabo, un mondoche ci sembrava eternamente uguale a se stesso, incapace

di produrre innovazione e progresso. Ma, se avessimoavuto l’umiltà e la curiosità intellettuale di intraprendere

un viaggio dentro quella potentissima macchinadell’immaginario collettivo che è il cinema, avremmo

potuto scorgere da tempo i semi di quelle rivolte.

ROBERTO SILVESTRI

Il «risveglio arabo» è partorito da un film. Dal primo capola-voro della storia del cinema africano, il cortometraggio sene-galese del 1967 Borm Sarret, di Sembene Ousmane. Il carret-to demodé di un povero ambulante maltrattato dai poliziottidi Dakar perché osa sconfinare nei quartieri ricchi e moder-ni, e insozzarli… La visione profetica del «bonhomme à lacharrette» assassinato moralmente, dello straccione umiliato– urlata da Sembene con insolenza sessantottina in quel suopezzo di «art street» – deve avere costruito lentamente nel-l’immaginario arabo del dopo-indipendenza una bomba ato-mica spirituale di immane potenza, fino a cambiare il corsodella storia «panafricana e panaraba» (il ritorno di questaespressione demodé è più che giustificato, come vedremo).Così il 17 dicembre 2010 a Sidi Bouzid, cittadina agricola delcentro-occidentale tunisino, inizia la «seconda guerra di libe-razione» del Maghreb e del Mashreq. E forse qualcosa di an-cora più virale, contagiante e rivoluzionario… L’artista liba-nese Ali Cherri nelle sue opere Immolation 1 e Immolation 2,esposte all’Ima di Parigi, rappresenta un bidone di benzina euna scatola di fiammiferi, una sorta di «kit sacrificale» dedi-cato alla memoria di chi fu lo «starter» della rivolta.Il rogo umano, quel suicidio «blasfemo», ma costruttivo, del-l’ambulante Mohammed Bouazizi, che non poteva venderefrutta e verdura con il suo carrettino abusivo, farà cadere BenAli come una mela marcia.

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Quei giorni di manifestazioni pacifiche di protesta «dura» intutta la Tunisia, per la dignità, per la libertà, scavalcano il 14gennaio 2012 e faranno tremare e poi detronizzano ancheMubarak, Gheddafi e Ali Abdullah Saleh, il dittatore delloYemen. Facendo vacillare tutt’oggi dal loro piedistallo (e co-stringendoli a rispondere o con concessioni opportuniste ocon il fuoco più vigliacco) il presidente algerino AbdelazizBouteflika, l’alauita Bashar al-Asad, «dio in terra» siriano, eMuhammad VI, re del Marocco; e il re del Bahrein Hamadbin Isa al-Khalifa che da quando è morto il suo amico Micha-el Jackson non capisce più nulla.Molti film hanno anticipato questo momento. I giocolieri del-le focali e delle soggettività desideranti, come Sembene Ou-smane, mettono bene a fuoco prima ciò che gli altri (perfino ipolitici e gli esperti) trovano solo dettaglio secondario, insi-gnificante.L’arte di strada, la rivolta heavy metal femminista e l’incontrotra sufi, skater e rapper come azione di guerriglia civile rendo-no profetico il clash tra due mondi, le rock band di Alessan-dria d’Egitto e l’ottusità burocratiche dei funzionari di partitoconvinti che i gruppi locali Hate Suffocation (poi Scarab),Massive Scar Era (alias Mascara), Erebus, Chronic Pain,Worm, Hellchasm… rappresentassero davvero «il concilio su-premo del culto di Satana». E che si dovessero pentire, primadi un’inevitabile condanna a morte, secondo il verdetto emes-so dall’autoproclamatosi mufti di Egitto Nasr Farid Wassil edeseguito (in parte per fortuna) dalla polizia di Mubarak.Tutto questo in Microphone (2010), il film musicale di AhmadAbdalla che ha vinto il Tanit d’oro del festival di Cartagine, ecustodisce già dentro, compresso come un ordigno pronto aesplodere, la poliritmia e i desideri liberati del tumulto dipiazza. Troviamo confermate qui, punto per punto, le intui-zioni di Mark Levine nel saggio Rock the Casbah! I giovani mu-sulmani e la cultura pop occidentale (Isbn edizioni, 2008). Lamusica estrema è il migliore antidoto non alla fede ma al-l’estrema alienazione religiosa. Ed è anche utile artisticamen-te per liberare il flusso armonico e spezzare la ferrea dittatu-ra dell’arabesque musicale, la chiusura a riccio della canzonetradizionale in schemi immodificabili (è quando Oum Kal-

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thoum diventa una prigione), che teme le incursioni, dal Sud,della diabolica poliritmia subsahariana e, peggio, delle ereti-che ritualità «zâr», i proibitissimi ritmi magico-sensuali del-l’antico Egitto che hanno molto in comune con la nostra«pizzica». Pionieri di questa modernità un gruppo «sessantot-tino» marocchino, Nass El Ghiwane (protagonisti del filmrock Trances di El Manouni, recentemente restaurato da Mar-tin Scorsese). Musicisti che furono trattati da Rabat propriocome Kevin Bacon in Footloose. Basta scambiare i puritanicristiani con i «moderati arabi».Così il film più sperimentale e di ricerca Hawi (Il giocoliere)scritto, fotografato e diretto da Ibrahim El Batout (2010), chesceglie come protagonista una città, sempre Alessandria, e ladipinge in stile graffitista, deformandola in episodi rabbiosied ellittici, tra disperazione e malinconia, mette in discussio-ne proprio i modi del racconto, gli incastri narrativi consenti-ti e libera il fraseggio melodico (seguendo il piacere del fuorischema di Heliopolis (2008) di Abdalla – ambientato nel quar-tiere natio di Mubarak, lo stesso dove avvennero le retate dimetallari – consapevole della lezione puntilistica e policentri-ca del nuovo cinema internazionale, da Inarritu a Haggis, daAltman a Paul Thomas Anderson.E non dimentichiamo che in Hawi, trionfatore del festival diDoha, in Qatar, tra le storie che intreccia (danzatrici del ven-tre umiliate dalla polizia, ex prigionieri politici sperduti, chenon riconoscono più il loro paese – l’Egitto era il granaio delmondo adesso grazie all’Fmi è un importatore di cibo – néhanno mai visto i loro figli, giovani musicisti perseguitati)una parve davvero uscita d’altri tempi, quella di un poverocarrettiere che sta per perdere il suo adorato cavallo…Abdalla ed El Batout sono solo la punta di un iceberg com-posto da una generazione folta di registi (Marwan Hamed diPalazzo Yacoubian del 2006; Khaled Youssef, coregista conChahine di Il caos, vietato dalla censura; Maged El Mahdi) eregiste (Khamla Abiu Zekri di Uno a zero; la documentarista«americana» Jehane Noujaim di Control room, allieva di Pen-nebaker, Attiat El Abnoudi…). Cineasti che sono scesi inpiazza. E ne hanno dato testimonianza ragionata. Come neldocumentario Tahrir 2011 – sottotitolo Il buono, il cattivo e il

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politico, di Ayten Amin, Tamer Ezzaz e Amir Salama, con lacollaborazione alla sceneggiatura di Ahmad Abdalla, tritticodedicato agli oppositori di sempre di Hosni Mubarak, ai me-todi polizieschi del sistema e alla costruzione mediatica del«faraone» (detto anche «sarcofago ambulante»). Sono loro chehanno messo in moto e a soqquadro box office e «canone lin-guistico», rotto la disciplina di fabbrica del set, inquinatol’immaginario collettivo con il digitale, arricchendolo e spro-vincializzandolo con internet. Che hanno rotto il ferreo de-sign del format commerciale cairota, sempre più usurato, ba-sato su uno star system sempre meno esportabile, su una rigi-da e anacronistica divisione per generi (melodramma musi-cale, commedia e drammone storico-letterario prima di tutti)e su un disinteresse talmente imbarazzante per la ricerca vi-suale e per il documentario non istituzionale. A tal punto daessere definito, il cinema del Nilo, e perfino dal grande criti-co egiziano Samir Farid, che non è un sovversivo, «inguaribil-mente radiofonico», autocensurato per natura e sempre piùcensurato dall’Arabia Saudita che lo controlla (a parte l’idolopopolare Chahine, il suo allievo Yusri Nasrallah, e la docu-mentarista femminista e sessantottina Attiat El Abnoudi).In Tunisia lo sgretolamento progressivo del sistema Ben Ali sipoteva intuire proprio seguendo la crisi irreversibile del cine-ma, un tempo fiorente, quasi un punto di riferimento per tuttal’area, dal silenzio dei suoi migliori esponenti (Nacer Khmerir,Nouri Buzid, Ferid Boughedir, Mahmoud Ben Mahmoud, Mou-fida Tlatli) dal maggiore «controllo di partito» sul festival bien-nale di Cartagine e dalla fuga dei finanziamenti pubblici allearti (tanto che veniva il sospetto, anche agli osservatori menomaliziosi, che dietro il colpo di Stato che portò Ben Ali al pote-re, ci potesse davvero essere la complicità italiana. Il disinteres-se per il cinema non è mai francese). In Tunisia, dove Rosselli-ni lavorò spesso nel suo periodo televisivo ed entusiasmò i suoigiovani assistenti all’etica delle immagini e a un realismo «li-bertario» che fosse critica dello spettacolo e disinteresse totaleper le formule commerciali standardizzate, la seconda genera-zione di filmaker dopo l’indipendenza, inventò un design auto-nomo e un originale cinema d’autore (strada obbligata per lecinematografie piccole, che non possono autosostenersi con il

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solo mercato locale ed «esistono» solo esportando) che ponevaal centro della sua riflessione la crisi dell’uomo arabo e i muta-ti rapporti tra i sessi. Il triplo shock della guerra dei Sei giorni,di Camp David e dell’ubriacatura identitaria islamista costrin-se Nouri Buzid e compagni a scandalizzare l’iconoclastia impe-rante scandagliando l’uomo arabo a tutto tondo (e non, secon-do la lezione egiziana, rendendolo macchietta, burattino, tipo),indagando la psiche, la sessualità deviata e la centralità simbo-lica perduta del maschio patriarca. E mettendo se stesso e lapropria avventura privata, anche politica, al centro del raccon-to. Era un cinema a monologo interiore, raccontato in primapersona singolare, con tanto di prigione, esilio, matrimoni, lot-te di classe, frustrazioni, sconfitte. Il tutto con la raffinata edanzante cura visuale dello studio system e con l’accortezza dialludere alla storia, alla cronaca politica e ai problemi socialidel paese, in modo da essere chiari e mai censurabili. L’uomo dicenere di Buzid (che certi problemi li ebbe con i fondamentali-sti), Traverses di Ben Mahmoud, Il silenzio del palazzo di Moufi-da Tlatli, Les baliseurs du desert di Khemir e Arab di Fadel Jazirie Fadel Jaibi restano i capolavori di quella generazione «baroc-ca» e inquieta degli anni Ottanta e Novanta. Che verrà sostitui-ta da un cinema ancora più libero nel fraseggio e leggero nel-l’equipaggiamento, meno bertolucciano e più tarantiniano, do-ve il remix e il mash up sostituiranno la citazione e la doppiasuggestione cinefila. La blog generation avrà meno ambizionicinematografiche e più la passione della comunicazione rapidaa rete (fondamentale nei giorni della rivoluzione). Gli allievidella scuola di cinema di Nouri Buzid faranno reportage pre-ziosi sugli scontri verbali e non verbali tra femministe e islami-sti uniti nella lotta contro la dittatura, sul ruolo degli avanzi digalera liberati da Ben Ali per picchiare i manifestanti, sulla«vergogna» della vecchia generazione che non ha combattutocome avrebbe dovuto contro i soprusi e l’autoritarismo, sui ser-vizi d’ordine di quartiere per tenere a bada le bande di rapina-tori e saccheggiatori, sull’uso di internet e di facebook per co-ordinare attacchi e ritirate. Questi corti, realizzati dagli studen-ti Imen Ben Mlouka, Zekri Achref e Haythem Khemir, trove-ranno in Non ho più paura del più anziano Mourad Ben Cheick,48 anni, un più accurato sfondo storico. Il trittico racconta in-

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fatti (nel microcosmo di Tunisi, la capitale, ma non l’unico cen-tro nevralgico della lotta) i rapporti tra la coraggiosa blogger«postideologica» Lina Ben Mhenni e il padre comunista «al-l’antica»; l’odissea dell’avvocata Radhia Nasraoui, imprigionataspesso con il marito per aver difeso, in nome dei diritti umani,i «nemici della patria»; e infine il giornalista Karem Cherif, unintellettuale che ha combattuto e vinto nel suo quartiere con-tro gli squadristi e la paura, quella che ha regnato per decennisulla vita dei tunisini, quella che è stata sconfitta per sempre.Summa di questa ricerca, riconquista della geografia emozio-nale sovversiva della strada è il documentario improprio di Ya-hya Abdallah Nahnu Huna (Noi qua), un altro viaggio, tra hud erap, al termine della notte, nel quartiere Jbel Jloud di Tunisi,segato dalla tangenziale, dove «furto, saccheggio, rapine e sbal-lo» sono stati qui dipinti con precisione iperrealista da Ben Ali,sempre prono alla politica di tagli alimentari voluta dall’Fmi apartire dal 1977. Qui è nata la sommossa. La canzone (tradottada Vincenzo Mattei sul manifesto) spiega anche ai sassi: «Atten-zione alla mia collera, alla mia rivolta, non provocatemi […] so-no fiero, libero, e soprattutto tunisino! Non sopporto le frustra-zioni. Criminale e pieno di risorse […] io lo sono! Lasciatemiesprimere, parlare liberamente! Vogliono chiudermi la bocca,ma non ci riusciranno».In Siria di grande interesse i documentari critici, i drammicontemporanei amari o gli affreschi storici realizzati tra glianni Settanta e oggi da una generazione di cineasti formati aMosca, Belgrado e Praga, come Nabil al Maleh, MohammadMalas, Omar Amiralay (morto improvvisamente poco primadelle rivolte) e Oussama Mohammad, autori non proprioamati dal potere (anzi alcuni sospesi per vari anni dai finan-ziamenti pubblici, come si fa in Iran e si faceva in Urss). Film«fastidiosi» che sono stati comunque prodotti, distribuiti,esportati, conosciuti e apprezzati a livello mondiale (Italia ov-viamente esclusa). Film di qualità che mostrano una dialetti-ca più vivace tra società civile (certo underground, non dotatadi istituzioni autonome) e partito unico al potere, con margi-ni di coraggiosa «critica del regime lucida, intelligente e sov-versiva», come scrive lo storico del cinema siriano e cineastaesule Rasha Salti in Insight into Syrian Cinema (New York

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2006), almeno prima delle recenti sollevazioni popolari e del-la degenerazione finale. Opere di alto livello artistico e tecni-co, più libere e sciolte (rispetto all’Egitto, ipnotizzato pro-gressivamente dal wahhabismo) proprio come la serialità te-levisiva, di standard quasi libanese.Nell’era della globalizzazione molti cineasti stranieri si sonocatapultati nel vivo dello scontro. Molti instant-movie di con-troinformazione sono stati girati in questi ultimi mesi di tu-multo, dalla Tunisia al Bahrein. I più interessanti e «di merca-to» quelli di taglio Cnn – azioni di guerriglia, scontri, eccidi,brutalità dell’esercito. La cattura live, attraverso telecameredigitali e cellulari e la diffusione clandestina in rete, è diven-tata un’arma contundente di inedita efficacia. Altri filmaker,però, faranno scelte diverse.Vorranno avere la responsabilitàpolitica ed etica di dare risposte agli avvenimenti incalzanti enon facilmente decifrabili. O vorranno porsi le prime do-mande serie, al di fuori della propaganda.Di parte, e senza troppi dubbi da condividere con lo spettato-re (che non ha dimestichezza con la storia siriana, perché RaiTre, che programma il documentario nel contenitore Doc3,condivide lo sciovinismo autarchico dell’azienda pubblica) èinvece Isqat Al Nizam – Ai confini del regime di Antonio Marti-no (2012) che utilizza, senza contestualizzare, immagini crudee drammatiche di pestaggi, uccisioni e torture sparse, riprese(dove? come? quando?) sia dai manifestanti che dai soldati dial-Asad (poi passati alla rivolta), per lo più al confine con laTurchia, dove si sono rifugiati 20 mila profughi. Il movente?Spingere l’Occidente, scandalizzato, ad armare generali etruppe democratiche anti-Ba‘th. Si ha l’impressione che que-ste immagini «brutali» puntate sullo spettatore come un fuci-le carico vengano strumentalizzate più per impellenti inte-ressi economico-strategici che per aprire spazi di compren-sione storica o per appoggiare davvero la Siria libera e demo-cratica (di cui mai ci si è interessati prima), dovunque decidadi andare dopo essersi liberata dell’orrendo tiranno (e ondenon traghettarsi verso altri orrori). La cosa che scandalizzamaggiormente il regista (che ha confessato di essere appro-dato in Siria come un pesce fuori dall’acqua, senza conosce-re il paese né avere punti di riferimento) non è l’isolamento

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del paese «carogna» e la comprensione dei suoi problemieconomici e sociali e neanche il ruolo sempre più autoritariodel partito unico Ba‘th o delle milizie private del regime o ildisprezzo di Bashar al-Asad per la società civile («non è nellenostre priorità lo sviluppo delle istituzioni libere» dichiaròalla stampa internazionale nel 2001). Non ci si chiede comemai l’esercito siriano, nella sua maggioranza, protegga ancorail «dio in terra» alauita – a differenza di quello egiziano cheha deposto il suo «faraone» senza troppi dubbi – e per questouccide quotidianamente centinaia di oppositori. No, quelloche Antonio Martino non tollera è che si prenda in giro la re-ligione, qualunque sia, moltiplicando le sequenze di torturadei soldati più «blasfemi». Tanto da far collegare gli eccidi dioggi a quello dei Fratelli musulmani sterminati da papà Asadnel 1982. E dare dunque alla rivolta di oggi una lettura a unadimensione, alla Qatar, destoricizzata e inquietantementeconfessionale. Anche Ba‘th vuol dire rinascita, risveglio. Sitratta dell’interpretazione laica, ma non meno autoritaria edogmanica, di quella islamista della tanto desiderata «secon-da Nahda». È con il filo rosso dell’islam aperto e pre-illumi-nista, prima del trauma imperialista e della globalizzazione«dall’alto», che va ripensato un «risveglio», non più solo pana-rabo e panafricano, ma forse euro-arabo ed euro-africano…Si è mosso in modo completamente differente l’italiano Ste-fano Savona, un cineasta italiano costretto come troppi altritalenti a vivere e lavorare all’estero. Savona, parigino di ado-zione, è un documentarista d’assalto e di profondità insieme.Si trova sempre nel posto giusto nel momento giusto, maprepara meticolosamente i suoi incontri fatali con la storia: aGaza, quando attaccano gli israeliani; sulle montagne delKurdistan quando una colonna di soldatesse Pkk scavalca lafrontiera e combatte i turchi. Diventa il tassello di un proget-to comune. E, questa volta, da archeologo ed egittologo, dapesce nell’acqua, il suo arrivo in piazza Tahrir non ha nulladel reportage estemporaneo «vendibile». Tahrir (2011) è gira-to dentro la piazza ed è un film che partecipa alla battaglia, ri-schia la vita, non racconta gli eventi dall’alto verso il basso,dai balconi dei palazzi dove erano annidati i corrispondentiesteri. Stefano e alcuni ragazzi del movimento, anche creden-

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ti, Elsayed, Noha e Ahmed poco più di vent’anni, provenientida Alessandria, Luxor e Suez, occupano di giorno e di notteda una settimana. Discutono, litigano, fuggono, attaccano,cantano insieme ad altre migliaia di egiziani e urlano tuttoquello che non hanno mai potuto dire apertamente. Finché il«faraone» non abdica.Ecco un modo di declinare «rinascita» in senso nuovo. Sareb-be piaciuto a Mohammed Bouazizi.I suicidi pacifisti di quel tipo colpiscono «in alto», dritti alcuore dello Stato e non nel mucchio degli indifesi. Deforma-no invisibilmente ma implacabilmente l’esistente, sono piùcostruttivi e drastici del suicidio cruento islamista, succubedell’attualità più futile, tanto da assecondarne, parodiarne gliapici esplosivi e spettacolari alla Rambo, i banali riti complot-tistici e la cieca crudeltà. Pensiamo invece alla precisione nel-la mira e alla geometrica potenza dell’effetto nel caso deibonzi vietnamiti, di Jan Palach e perfino del seppuku di Mi-shima o del volo di Monicelli o dei roghi tibetani…Lotte pacifiste durissime, anzi «suicide», hanno cosparso lastoria moderna dei paesi nordafricani e mediorientali. Primae dopo le guerre di liberazione nazionale. Ma l’Occidente de-mocratico rimuove (se non ci fosse ogni giorno in tv la Pale-stina a infastidirne l’oblio).Non appoggia. Non aiuta mai. Anzi. Preferisce la repressioneselvaggia e i tiranni che, molto ben pagati, aiutano a fluidifi-care i loro interessi economici nell’area. Prendiamo l’Egitto,oggetto di radiografia profonda da parte di un altro patriarcadel cinema africano, Youssef Chahine, il compianto capofiladella nouvelle vague araba, l’intellettuale che lottò per tutta lavita con le sue immagini (spesso messe all’indice) contro ladittatura poliziesca e militare (1.200.000 guardie «interne»contro 500 mila soldati) e dedicò gli ultimi suoi film (pensia-mo a Il Destino del 1997 e a Chaos del 2007) al pericolo islami-sta, alla piaga corruzione e alla presa di possesso da parte deiFratelli musulmani di alcuni pezzi preziosi del paese, comel’educazione, la giustizia e i mass media (la televisione in par-ticolare, diventata, con Mubarak compiacente, un’ipnoticamacchina d’indottrinamento wahhabita).L’Egitto però è stato il primo paese della periferia capitalisti-

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ca che ha tentato di «emergere», di uscire fuori dal feudalesi-mo. Il sogno modernista di Muhammad Ali, che anticipaquello giapponese e cinese, sarà ridimensionato dalle armi disua maestà britannica nel 1840 e nel decennio 1870 e infineschiacciato con l’occupazione militare del 1882 che rafforzasistematicamente le concezioni ideologiche e culturali passa-tiste e reazionarie (la Nahda, il risveglio arabo religioso, manella formulazione tradizionalista di Afghani e MuhammadAbduh) utili per il mantenimento del paese nel suo status su-bordinato (e mandando contemporaneamente al confino nu-biano, dal 1880 al 1920, tutto lo staff laico e modernista diMuhammad Ali). Un secondo tentativo di ascesa progressistae anticapitalistica avverrà tra il 1919 e il 1967, con il tripliceobiettivo di conquistare «la democrazia, l’indipendenza na-zionale e il progresso sociale» e sarà ancora più ferocementecombattuto. Inaugurato dalla rivoluzione del 1919-1920, dallacostituzione democratica del 1923, dall’ascesa del partito li-berale Wafd, questo flusso di lotte laiche e di conquiste avan-zate, di cui il periodo nasseriano (1955-1967) non fu che l’ul-timo contraddittorio capitolo, vide schierati contro, in un solblocco reazionario, inglesi, monarchia, grandi proprietari ter-rieri e contadini ricchi che imposero la dittatura di Sidqi Pa-sha per tutti gli anni Trenta, poi la nascita in provetta dei Fra-telli musulmani di Hasan al-Banna (un istruito professore)nel 1927 e la fabbricazione ex novo di un pensiero islamistanella sua versione più passatista (salafita), ereditata dagliscritti religiosi di un fan della scienza e delle nuove tecnolo-gie, Muhammad Rachid Rida, nostalgico però del califfato.L’islam politico diventava così – dopo la batosta di Suez – un«raggio della morte» puntato contro ogni ipotesi rivoluziona-ria nella zona, e per impedire ogni lotta per l’uguaglianza deipopoli, tra i sessi e le religioni e per il progresso sociale (sten-tiamo sempre a usare l’aggettivo democratico, perché nonrende bene). Ricchezze immaginarie di cui comunque solol’Occidente ha il diritto di adornarsi. Il cinema nasseriano diimpegno sociale (Tawfiq Salah e Salah Abu Seif, principal-mente) racconteranno quella straordinaria epopea nazionali-sta e progressista (molto poco socialista), mentre la bellezzaradiante di chi combatte per eliminare ogni potere resta piut-

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tosto racchiusa nei sottotesti dei musical sgargianti degli an-ni Quaranta e Cinquanta, diretti e interpretati perfino da ci-neasti e star di origine ebraica, come il romano Togo Mizrahie Leila Murad. Dal 1967 al 2011 in effetti si entrerà nel perio-do del riflusso dominato dalla triplice alleanza nella zona traStati Uniti, Arabia Saudita e Israele, che ha come obiettivoprincipale quello di impedire ad ogni costo la formazione diStati a democrazia reale nell’area, prefigurando oggi perl’Egitto del dopo Mubarak, una soluzione a modello pakista-no gradito a Riyad e Tel Aviv: l’esercito nelle retrovie e un go-verno «civile» assunto da uno o più partiti islamici. Rispetto aquesto fosco progetto ecco che perfino la strategia di Doha edel Qatar (che agisce nell’area con lungimiranza, in stile, dal1996,Aljazeera) potrebbe sembrare alternativa e più aperta. Èa Doha che il Tribeca Film replica il suo festival. E l’appoggioalla cultura libera, al diritto d’espressione, all’arte critica an-che di strada, al cinema di qualità che sta arrivando da Doha,questa capitale wahhabita fautrice (almeno all’estero) di unislam meno rigoroso e più aperto, lascia non poco perplessi.L’appoggio politico a Ennadha e ai Fratelli musulmani fapendant con la formula made in Qatar del «femminismo ara-bo» e della «democrazia islamica». Con l’esaurimento del pe-trolio si sta essiccando anche quella strana setta eretica del-l’islam che già il marchese de Sade indicava come il pericolopubblico numero uno per l’emancipazione dei popoli? Arabi,ancora uno sforzo per non essere più wahhabiti!In Europa, soprattutto quelli che hanno poca dimestichezzacon quei sismografi sociali di alta precisione che sono i film, ehanno voluto rimuovere la stagione del Sessantotto arabo, so-no stati sorpresi dall’emergere improvviso delle «rivoluzioniper la democrazia e per la libertà». Ma come: non erano questipopoli condannati eternamente al fatalismo e alla sottomissio-ne? Il Nordafrica e il Medio Oriente non sono regioni giudica-te incompatibili con i grandi valori del mondo civile?Siamo stati anche cauti e intimoriti prima di appoggiare le pri-mavere arabe, tremando per l’inevitabile deriva islamista, co-me se Sayyid Qutb, il cui spettro s’aggira ancora per il Cairo,dove fu giustiziato da Nasser nel ’66, non fosse espressionedello stesso cenacolo accademico nordamericano di Leo

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Strauss, il «critico della modernità» tanto caro a Bush jr. Comese le mostruose stragi di civili del «laico» Bashar al-Asad nonavessero le scaturigini nei bombardamenti iracheni di Chur-chill o in quelli madrileni di Hitler 1936. Come se il terrori-smo fondamentalista non fosse stato un manufatto che è tra ivanti dell’astuzia occidentale antipopolare (e in particolarebritannica, vedi la nascita dei Fratelli musulmani nel 1926) eoggi non sia la carta preferita che «il capitalismo dei monopo-li generalizzati, mondializzati e finanziarizzati», secondo la de-finizione transnazionale dell’economista egiziano Samir Amin(«2011: Le printemps arabe?» in Mouvements des idees et des lut-tes, autunno 2011, 136 pp.) voglia giocare perché, nel cambia-mento inevitabile, tutto resti uguale a prima.E là dove siamo stati subito al fianco dei popoli in lotta per illavoro, la libertà e la dignità, su Le Monde e su Liberation peresempio, abbiamo ancora usato occhi e sguardi orientalistiper capire, più ancora degli arabi, cosa stesse davvero succe-dendo… e allora abbiamo tirato fuori dall’inconscio profondoespressioni esotiche, folk e poetico-paternalistiche come la ri-voluzione dei gelsomini o peggio. Gli slogan delle manifesta-zioni tunisine sarebbero, secondo la sinistra francese, tuttipragmatici e concreti («dégage», «fuori!»). Nessuno slogan ara-bista, rivendicazioni nazionaliste… sottolineano Jean Danielsu Nouvelle Observateur o Olivier Mazorelle di Bmf tv. Quandoinvece gli slogan – come ricorda la ricercatrice della SorbonaHayat Lydia Younga rivendicando la proprietà anche arabadei valori di dignità, libertà e giustizia – erano molto articolatie diversificati. «Révolution à la francaise au coeur du Mah-greb», titolava patriotticamente Le Monde del 16-17 gennaio2011 asserendo, in un momento di patetica amnesia, che sitratta della «prima spinta democratica nel mondo arabo po-stcoloniale». Michel Foucault trasecolerebbe. Professore a Tu-nisi durante il Sessantotto, è testimone di lotte durissime de-gli studenti, coraggiosi e determinati, anche se sottoposti auna repressione di Stato sadica e sanguinaria, inimmaginabi-le durante il maggio parigino. Altro che Crs. Il cineasta tunisi-no Nouri Bouzid ne fu una delle vittime e porta ancora sulvolto i segni delle torture di Burghiba. Per non menzionare levarie «rivolte del pane» in Tunisia, Marocco e Algeria a comin-

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ciare dai diktat del 1977 dell’Fmi; le manifestazioni a Dama-sco e Aleppo di oltre dieci anni fa contro la dittatura delBa‘th; gli scioperi operai egiziani del 2007 (che furono i piùforti del continente africano negli ultimi cinquant’anni); lanascita di una cinquantina di sindacati indipendenti; la resi-stenza dei piccoli contadini minacciati di esproprio dal Cairoattraverso una legge che annulla la riforma agraria nasseriana,votata scelleratamente dai Fratelli musulmani con il pretestoche la proprietà privata «è sacra» mentre la riforma agraria èispirata dal «diavolo comunista»; e la formazione nel 2004 enel 2008 dei movimenti Kefaya e 6 Aprile, ceti medi controMubarak, la corruzione, la stagnazione economica e il non ri-spetto dei diritti umani, che utilizzano facebook come mezzodi comunicazione, proselitismo e organizzazione.Si può ridurre alla fame un popolo, impedirgli perfino di ven-dere frutta e verdura con un carretto di fortuna, ma se lo co-stringi a due sole alternative per sopravvivere, spacciare drogao fare lo schiavo in Italia, da extracomunitarizzato a forza, saltaogni patto sociale. Poverissimi, emarginati, delle periferie piùinvisibili dall’occhio del turista i tre protagonisti, vittime sacri-ficali della storia, dei film nordafricani visti a Cannes 2012. Ilterrorista di Casablanca, che nasce e cresce nei quartieri dere-litti e al-Qa‘ida lo salva dalla droga e da una condanna pesante(assassinio, anche se per legittima difesa) trasformandolo in di-namite umana. È Il cavallo di dio di Nabil Ayouch (Marocco). Ilcavallerizzo macho, ma esperto in dressage, utilizzato in piazzaTahrir contro i dimostranti perché gli speculatori edilizi lohanno gettato sul lastrico. È Dopo la battaglia di Yousry Nasral-lah (Egitto). Un ex combattente islamista del Fis-Gia, responsa-bile di assassini e rapimenti, che propone un macabro affare dasciacallo a una famiglia che ha perduto una figlia (rapita e as-sassinata dal suo gruppo) appena riconsegnate le armi ed è ria-bilitato. Le repenti di Merzak Allouache (Algeria).Tre opere chemostrano l’odissea tragica di vite alla deriva, come un barconedi emigranti che ha finito la benzina. La metafora di tre paesitenuti alla periferia del mondo con la forza delle armi (anchebancarie) che sprofondano in abissi morali ed esistenziali sen-za fondo. E introducono a un film, ancora inedito, dell’egizianoMajed al-Mahdi che spiega come mai la rivolta non si fermerà

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mai, se non usciranno carte costituzionali e dei diritti davverorispettosi delle minoranze. Siano gay, copti, danzatrici del ven-tre o sciti tra i sunniti e viceversa. Perché il popolo non ha piùneanche le proprie catene da spezzare. Gli hanno rubato anchequelle. Secondo il film, il cui titolo provvisorio è Basta parlare,danziamo una gravissima epidemia di epatite C sta falcidiandola popolazione, con punte di mortalità altissime, del 20 per cen-to e oltre. Nascosta dall’Oms per ovvi motivi di tutela turistica eresa devastante per la politica sanitaria di Mubarak, responsa-bile dello stato igienico disastroso del paese, i giovani non han-no niente da perdere e si lanciano contro i carri armati senzatroppi problemi. Quel che fa paura al potere è un popolo dan-zante che marcia all’unisono contro le classi dominanti. E ilpopolo egiziano è un popolo di inguaribili danzatori… Nientelo fermerà. Anche perché la geografia politica ed emozionaledel Maghreb e del Mashreq nel frattempo si è modifica com-pletamente dal 1968.Le famiglie erano rurali e numerose, organizzate attorno allasolidarietà tra fratelli, con una forte endogamia (matrimoniotra cugini) e donne con statuto inferiore e sistema patriarcaledove l’uomo aveva la voce preponderante. Oggi le famiglienon sono più allargate (2 figli in media a famiglia, come inFrancia, Iran o negli Usa), le figlie hanno una scolarizzazionemaggiore dei padri e dei mariti (nelle università dell’Iran il 62per cento sono donne), l’endogamia è sparita; sono societàrapidamente urbanizzate e si dirigono verso l’alfabetizzazio-ne universale. È la modernità. E l’islam è compatibile sia conla democrazia che con la laicità. Anche perché prima del-l’islam politico c’è tutta una storia di lotte politiche, sociali,intellettuali e sociali che i cortei della primavera araba hannoimprovvisamente fatto rivivere. Attraverso gli slogan, attra-verso le canzoni dei cortei, danzando poesie i cui versi sonopiù potenti dei cannoni. Quelli del poema La volontà di viverescritto nel 1933 dal poeta romantico tunisino Abu al-Qasimal-Shabbi, per esempio, che si considera uno dei fondamentidella cultura poetica e politica della modernità araba:

Si un jour le peuple veut la vie,le destin se doit de répondre!

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Le ténèbres se dissiperont!Et le chaines se briseront!(Se un giorno il popolo vuole vivereIl destino deve rispondereLe tenebre si dissiperannoE le catene si spezzeranno!)

Inoltre tutte le rivendicazioni dei manifestanti iniziavano conl’espressione «le peuple veut… (faire chuter le régime)», peresempio, anche qui citando il poema di al-Shabbi. Non è sta-to senza significato intonare di nuovo le canzoni rivoluziona-rie di Marcel Khalife, le poesie di Mahmoud Darwich, i versitratti dai poemi rivoluzionari di Ahmed Fouad Najm (e la pre-senza in piazza Tahrir di sua figlia, tra i giovani rivoluzionaridel 25 gennaio, non è stata solo simbolica) cantati da CheikhImam, assieme alle canzoni patriottiche di Oum Kalthoum eAbd al-Halim Hazef, durante le lotte di liberazione degli anniCinquanta e Sessanta, e dimenticate durante le manifestazio-ni in Algeria del 1988, e poi degli anni Novanta, e via via sosti-tuite dagli slogan islamisti, come «Le democrazia è miscre-denza!» oppure «Niente carta costituzionale! Dio ha detto, ilProfeta ha detto: Non c’è dio al di fuori di dio. Per lui vivia-mo. Per lui moriamo». La Nadha, il movimento di rinasci-mento culturale arabo e di riforme politiche e religiose delprimo Novecento se provocò una deriva oscurantista produs-se anche una teoria antagonista. Pensiamo al pensatore, sin-dacalista e nazionalista tunisino, amico di al-Shabbi TaharHaddad (1899-1935) che ha scritto testi decisivi per promuo-vere la dignità della donna.Con questi «spettri arabi» il nuovo cinema del Nordafrica edel Medio Oriente dovrà fare i conti. Questo è l’immaginarioimposto e riproposto dalle lotte e dai tumulti che hannoaperto la seconda fase della guerra di indipendenza. Non so-lo «nell’altra riva».

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M A E S T R I 155 /110

CINEMA IN RIVOLTAL’Orso d’Oro al Festival di Berlino per Cesare deve

morire non è stato che l’ultimo riconoscimento di unacarriera lunga e straordinaria. I due celebri fratelli del

cinema italiano raccontano la loro formazione, le loro vite,il loro cinema. Con una consapevolezza che li accompagnaanche lontano dalla macchina da presa: “Non c’è la resa,

mai. Si dice che invecchiando si è più generosi, piùtolleranti. Non è vero niente. Abbiamo lo stesso istinto

di ribellione di sempre”.

PAOLO e VITTORIO TAVIANIin conversazione con FABRIZIO TASSI

Uomini d’altri tempi. Ma profondamente moderni (per nulla«post»). Amanti del melodramma, di Shakespeare e Tolstoj, delRossellini-Masaccio di Paisà, di quella summa di tutte le arti che èil cinema. Tornati prepotentemente alla ribalta con Cesare devemorire, tanto per ricordarci che loro sono ancora e sempre dei«sovversivi», anche nei modi di produzione di un film. Paolo e Vit-torio Taviani, 80 e 82 anni, sono i registi (tra gli altri) di Un uomoda bruciare, San Michele aveva un gallo, Padre padrone, La

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notte di San Lorenzo, Kaos, Good Morning Babilonia, Le af-finità elettive. Sono due utopisti che parlano ancora di ribellione,ma sanno che la natura è più forte dell’uomo e non le perdonanodi averci nascosto il senso di tutto questo. Hanno una serenità, unalucidità appassionata, una sensibilità, che andrebbero brevettatee poi distribuite alle generazioni che non hanno vissuto la guerrae il Sessantotto, che non hanno potuto confrontarsi con Visconti,Zavattini e Pasolini, che non hanno avuto la fortuna di sopravvi-vere al fascismo e alla Dc, a Craxi e a Berlusconi, nell’arco di unasola vita.Li abbiamo incontrati nel loro studio di Roma, in Trastevere, doveabbiamo ripercorso la loro storia. Ci hanno chiesto di non distin-guere le risposte di uno da quelle dell’altro, ma di considerarle ilfrutto dello stesso spirito («Dopo sessant’anni che facciamo le coseinsieme, quello che dice lui è quello che dico io e quello che dico io ècome se lo avesse detto lui»). Ci hanno chiesto di non dipingerli co-me dei grilli parlanti o dei registi vicini alla pensione in vena di ce-lebrazioni. No, non lo sono neanche un po’. Se non fosse per la sag-gezza dovuta all’età e al mestiere, per i pensieri pieni di ricordi,sembrerebbero dei ragazzini, entusiasti e impertinenti. Chapeau.

Ripartiamo da quella sala di Pisa in cui avete visto Paisà per laprima volta.Era una bella sala, si chiamava Cinema Italia. Oggi non esistepiù. Eravamo giovanissimi, andavamo al liceo.

L’amore per il cinema è nato sui banchi di scuola.Una volta il preside chiamò nostro padre e gli disse: «Lei cideve rimborsare un banco, suo figlio l’ha rovinato con untemperino». Avevo inciso i nomi di Dreyer, Rossellini, Ej-zenštejn…

Quel giorno, al Cinema Italia, siete entrati a metà proiezione.Una volta era una cosa normalissima, anche se oggi a noi sem-bra assurdo, come fumare al cinema. L’impatto fu con l’episo-dio di Firenze. Paisà a tutt’oggi è un’opera d’arte a livello diMasaccio. E diciamo Masaccio perché è quello più vicino allasemplicità classica di Rossellini. Ci emozionò tantissimo.Uscivamo dalla guerra (un’esperienza che abbiamo cercato di

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raccontare in La notte di San Lorenzo). Erano passati solo dueanni. Vedemmo quelle immagini sullo schermo e capimmodavvero quello che avevamo vissuto. Ci siamo detti: se il cine-ma ha questa forza, la capacità di farci capire la nostra realtà equindi noi stessi, allora noi faremo cinema. Da quel momentotutta la nostra vita è stata proiettata verso quella direzione.

Con voi c’era ancheValentino Orsini, che sarà vostro collaboratorenei primi due film.E c’erano anche quattro stronzi, dietro di noi, che dicevano:«Ma che è sta’ roba… Ma che, questo è cinema?». Al che civoltammo, anzi, si voltò soprattutto Orsini che era più grandedi noi, un omone forte e grosso (io pesavo 50 chili), e disse:«Questi sono i soldi, vi pago il biglietto, andate fuori che noivogliamo vedere il film in pace». La nostra storia d’amore conil cinema è cominciata così.

Che tipo di ragazzi eravate?Famiglia borghese, a San Miniato, cittadina stupenda ma feu-dale. C’erano i nobili, i marchesi, la classe dominante, e poic’era la borghesia di cui facevamo parte anche noi. La gentedel popolo non aveva nessun potere. Erano considerati quasidei paria. Certi poveri, a San Miniato, vivevano nelle stalle.Durante la settimana c’era il giorno di ricevimento della mar-chesa, poi quello del conte, e la gente stava alla finestra aguardarli passare. Su tutto questo, poi, c’era il fascismo.Nostro padre era uno dei pochissimi – si contavano sulle ditadi una mano – che non prese mai la tessera. Ma i casi della vi-ta sono sempre strani. I fascisti a San Miniato erano molto fa-scisti: li ricordiamo di ritorno dalla guerra di Spagna, con lefiaccole, di notte, a gridare sotto le finestre. Però il segretariodel partito di San Miniato, che era di un’onestà terribile oltreche terribile come fascista, aveva studiato a scuola con nostropadre, erano amici, e gli salvò spesso la pelle. Capitava co-munque che papà dovesse scappare di casa per qualche gior-no. Nostra madre non ci spiegava perché andava a nascon-dersi. Poi, dopo un giorno o due, quando il pericolo erascampato, ci diceva: «Andate a ritirare vostro padre». A queitempi non c’erano i telefonini. Papà si nascondeva nel cam-

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panile di don Micheletti, che tra l’altro era anche il mio inse-gnante di latino. Fino a quando eravamo piccoli nostro padrenon ci ha mai spiegato perché lui non indossava quei meravi-gliosi cappelloni che invece portavano i padri dei nostri com-pagni. Poi, un giorno, risalendo a San Miniato, ci spiegò tutto.Capimmo perché dovevamo odiare il fascismo.Papà era mazziniano, repubblicano, uomo di grandi valori eprincìpi. Nostra madre invece era una manzoniana. Lei era laparte letteraria, mentre papà era la parte musicale. Quando èmorta non ha voluto nessuna croce sul petto, ma I promessisposi. Molti, venendola a trovare, dicevano: «Ha voluto la Bib-bia!». Sì, la sua.

Prima del cinema, vi eravate appassionati al melodramma.Se andavamo bene a scuola avevamo un premio: andare a Fi-renze, al Maggio musicale, a vedere le opere. Lì c’è stata laprima scoperta di ciò che è la finzione, la finzione che svela larealtà, il sipario rosso che si apre, quelle apparizioni sul pal-coscenico, l’incanto. Avemmo la fortuna di cominciare colTrovatore, che inizia con una fiaba: nel buio della scena, i sol-dati del castello dicono che a mezzanotte forse arriverà lo spi-rito della strega, e tu sei lì ad aspettare i rintocchi e l’appari-zione… Abbiamo scoperto il piacere dell’invenzione attraver-so queste storie d’amore, d’odio, di potere, di cattiveria, diduelli. Si dipanava dinanzi a noi ciò che a quel tempo poteva-mo solo intuire, il destino umano, i suoi valori, i grandi senti-menti. Papà poi ci portava il disco dell’opera che avevamo vi-sto e cantavamo. Facevamo il karaoke [Vittorio tenore, Paolobaritono e Mariagrazia soprano].L’opera è stata importantissima per noi. Ma una volta scoper-to il cinema, abbiamo azzerato tutto (anche se il melodrammatornerà, dopo, nei nostri film). Il cinema fu una rivelazioneanche traumatica. Tutta una generazione scoprì una nuovarealtà, che era molto diversa da quella dell’Ottocento. Daquel momento per noi ci fu il cinema e soltanto il cinema.All’Università di Pisa, in biblioteca, scoprimmo l’unica Storiadel cinema che esisteva allora, quella di Pasinetti. Ce la siamostudiata parola per parola.

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Avete trascritto quel libro un pezzo alla volta. Un lavoro da mona-ci amanuensi.Era il nostro vangelo.

Ci pensate al fatto che oggi gli appassionati di cinema dell’ultimagenerazione hanno centinaia di libri a disposizione e migliaia difilm sul computer a portata di clic?Oggi il problema è che c’è troppa scelta. Si tratta di trovareprima di tutto se stessi e poi scegliere dei maestri come pun-to di riferimento.

Un altro film fondamentale per la vostra formazione è Ladri dibiciclette. L’avete inseguito in giro per la Toscana.A volte ci dicono: che cosa meravigliosa avete vissuto! L’etàdell’oro! Ma che oro, nemmeno di bronzo! Noi abitavamo inprovincia di Pisa. Sapevamo che davano il film di De Sica inun paesino lontano e partivamo con la nostra bici. Poi lo da-vano a Livorno e noi andavamo in treno. Volevamo capire.Prendevamo nota delle inquadrature, i carrelli, i primi piani.Abbiamo scritto tutto. Poi di nuovo andavamo a cercarlo escoprivamo che il 40 per cento della struttura cinematografi-ca l’avevamo catturata, ma il 60 per cento no. L’abbiamo rac-contato tante volte. C’è quella scena, quando Bruno, il figlio,vede un ladro che sta rubando una bicicletta, e i passanti loprendono e lo picchiano, e capisce che quel ladro è suo pa-dre. Vedendola, noi scrivemmo: lungo carrello intorno al pri-mo piano del bambino. Straziante. Poi siamo andati a rive-derlo e ci siamo accorti che invece il carrello è brevissimo. Elì abbiamo capito che se inserisci un elemento formale giustonel momento giusto, diventa qualcosa di dirompente.

Oltre al cinema, avete studiato anche il teatro.Sempre in nome del cinema studiavamo i testi teatrali perimparare a scrivere i dialoghi. Noi non abbiamo frequentatoscuole o centri sperimentali. Come si scrive un dialogo? Ab-biamo preso l’Enrico IV di Pirandello e l’Amleto, li abbiamoletti e riletti, e poi li abbiamo riscritti. Quando poi siamo an-dati a confrontarli, abbiamo scoperto delle rime baciate chenon avevamo intuito, o battute che ripetevano, in altro modo,

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lo stesso concetto di cinque pagine prima. Ci infliggemmodelle autoumiliazioni terribili. È possibile che il testo fossecosì diverso rispetto a come lo avevamo trascritto? Grazie aquegli errori, qualcosa abbiamo imparato.

Torniamo a quel giovane cinefilo che ha centinaia di film disposi-zione. Ipotizziamo che un giorno decida di diventare regista.Se quel giovane vuole fare cinema deve copiare, copiare, co-piare. La nostra esperienza è questa. Deve prendere i 6 o 7film che ama di più e continuare a guardarli. Coi dvd è facile.Può riguardare i film tutte le volte che vuole e poi magariprovare a riscriverli, come facemmo noi con Ladri di biciclette,cercando di capire quali sono i movimenti di macchina,quando viene usata la macchina fissa, i rapporti tra macchinafissa e carrelli… Dopo che ha copiato e copiato, può comin-ciare a sperimentare scrivendo. Questo mestiere, che sembraun mestiere per fannulloni, in realtà è un lavoro continuo.Faticosissimo. Bisogna lavorare sempre, non solo girando. Èimportante provare a scrivere una storia (cinematografica),cercando di dimostrare a se stessi che siamo ciò che pensia-mo di essere. È inutile dire: «Non trovo i soldi per fare unfilm».Va bene, continua a cercarli, intanto però devi scrivere,produrre, devi applicarti.

Ma il cinema da solo non basta. Ho provato a mettere insieme i no-mi che di solito associano a voi come numi tutelari: Rossellini, Vi-sconti, Brecht, Thomas Mann, Chaplin, Goethe, Verdi, Gramsci,Pisacane, Pollock,Tolstoj…Vi riconoscete nell’elenco?È perfetto! O meglio, quasi. E a proposito di Tolstoj: noi oraandremo a Mosca per la promozione di Cesare deve morire,che esce in Russia. Ma abbiamo fatto una richiesta molto pre-cisa. Abbiamo detto: veniamo volentieri, però ci dovete ac-compagnare a Jasnaja Poljana [la tenuta in cui visse lo scritto-re russo, situata a 12 chilometri da Tula]. La casa di Tolstoj aMosca già la conosciamo, ora vogliamo vedere Jasnaja.

Parliamo dei vostri interessi extracinematografici, così importantiper la vostra formazione.Da ragazzi eravamo molto legati alla musica, suonavamo uno

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il pianoforte e l’altro il violino. Ma leggevamo anche molto. Apartire dai libri della Scala d’Oro. In quei volumi c’era unacosa che non è bella ma per noi è comunque bella: le grandiopere venivano riassunte da autori bravissimi. Certi romanzili abbiamo scoperti con la Scala d’oro. Guerra e pace (fonda-mentale per noi, così come Shakespeare) ce lo siamo rilettidopo molti anni, scoprendo che lo possedevamo e non lopossedevamo.Una volta, in un’aula universitaria in cui ci hanno chiesto diparlare di cinema e letteratura, abbiamo osato dire che amia-mo Tolstoj perché non ha bisogno del linguaggio. Detto cosìpuò sembrare una sciocchezza. Noi, in realtà, amiamo moltis-simo la scrittura di Tolstoj.Volevamo dire che nei suoi roman-zi il passaggio dalla pagina scritta alla vita vissuta è talmenteinsensibile che sembra quasi che non abbia utilizzato nessunmezzo. Sembra un continuum.Tolstoj ha questa forza.Ci ha sempre affascinato una cosa che lui diceva: scrivere ècome camminare. Non pensi mai che quando metti avanti lagamba destra poi devi avanzare la sinistra. Si cammina e ba-sta. Se ci pensi, inciampi.

È facile accorgersi quando, in un film, un regista inciampa. Si no-ta che ci ha pensato troppo. Che il passaggio è forzato.Sì, a volte senti lo sfogliare della sceneggiatura. Oppure c’èquella cosa che fanno spesso i giovani nelle prime opere: ten-gono un’inquadratura lunga, troppo lunga, pensando che co-sì diventi più importante. Non è vero per niente.Quando è uscita la steady [macchina da presa che, grazie aun’imbracatura, si muove insieme all’operatore mantenendoperò ferma l’immagine], è stata una conquista importante, vi-sto che permette di fare un carrello a precedere. Noi abbiamousato molto la macchina fissa nel nostro cinema. I carrelli liabbiamo utilizzati sempre di lato, perché non puoi stare da-vanti, se no vedi il binario. Gli americani invece stavano fron-tali, perché avendo tanti mezzi, quelle gru meravigliose, realiz-zavano dei carrelli a precedere che noi abbiamo sempre invi-diato. La steady è stata una conquista del linguaggio cinema-tografico. Ma quando è arrivata, c’erano giovani, esordienti ono, che facevano un’unica inquadratura: uno usciva di casa in-

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contrava la ragazza saliva sulla metropolitana e andavano escendevano dalla metropolitana… e «cazzo, quanto è bravo!»,si diceva. No! Questa è la negazione dell’essere creativi nel ci-nema.

Un carrello a precedere voi lo avete fatto in uno dei primissimi cor-tometraggi, Curtatone e Montanara. Partiva dal cortile dell’uni-versità di Pisa.Esatto, sì. È uno di quei documentari che non riusciamo piùa rintracciare. Pensa come siamo vecchi: allora il carrello nonera in ferro, ma di legno massiccio. Bisognava partire e poipuntare la macchina da presa verso l’alto, in modo che non sivedessero i binari.

Vi dissero che quel documentario era troppo «astratto».Sì. Concorreva ai premi di qualità e lo bocciarono. Perl’astrazione. E perché ci rimproverarono un «falso storico».

Succederà altre volte.A noi ci hanno sempre affibbiato due etichette: cinema stori-co e cinema politico. Sono sballate tutte e due.

Parliamo dal primo equivoco. Il «cinema storico» dei Taviani.È chiaro che ci piace la storia e ci piace nella storia trovaredelle anticipazioni e delle risposte. Ci ha sempre suggestio-nato l’aspirazione di Pisacane all’utopia, il tentativo di cam-biare la realtà sociale del Sud illudendosi di avere le forzeper poterlo fare. È un po’ come il nostro cinema. Noi realizza-vamo film per il pubblico. Dicevamo: il nostro cinema è unpo’ come la spedizione di Pisacane, solo che ancora non cihanno ammazzato. Pensavamo di fare cinema per il pubblicoe invece il pubblico ci massacrava, perché non andava a vede-re i film. Sentivamo che quello sforzo terribile che sono lespedizioni di Pisacane era uguale al nostro.In Allonsanfan abbiamo voluto mettere le camicie rosse, inun’epoca in cui Garibaldi era ancora un bambino. Ce le sia-mo inventate, perché avevamo bisogno di quel segno rosso.Quando presentammo il film, un professore si alzò e disse:«Io non lo farò mai vedere ai miei studenti, perché voi avete

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tradito la storia». Aveva ragione dal suo punto di vista, perchélui avrebbe voluto un’illustrazione storica. Ma un film èun’altra cosa. Gli facemmo l’esempio classico di Giovannad’Arco, dei tanti modi in cui è stata rappresentata nel cinemae nella storia. Per Shakespeare è una strega orrenda. Al cine-ma c’è la Giovanna di Dreyer, una fanciulla ingenua, forte, in-nocente, ma anche spaventata, poi c’è quella di Rossellini,che è molto diversa, e poi quella di Bresson. Qual è quella ve-ra? Nell’arte sono vere tutte, perché chi le ha raccontate è riu-scito a renderle vere. La verità dell’opera d’arte è altro. Noinon cerchiamo la verità della storia, ma la verità del film.

Secondo equivoco: il «cinema politico».È una cosa che ci ha sempre perseguitato.

Forse anche perché avete raccontato che è stato il cinema a farviscoprire il «mondo rosso».È vero. Ci ha fatto scoprire un’umanità che non conosceva-mo. Il neorealismo non è un cinema politico, però ci ha per-messo di scoprire un mondo che da borghesi non conosceva-mo, quello degli oppressi, del mondo operaio e soprattuttodel mondo contadino.Noi siamo nati in un periodo molto particolare: il fascismo, ilnazismo, i partigiani, la resistenza, la ricostruzione. Siamovissuti in mezzo al grande movimento della storia, della poli-tica, della società.Facciamo una citazione liceale. L’uomo è zoos politikos, è unanimale politico, perché vive in mezzo agli altri e, se minima-mente si relaziona agli altri, assume anche se non lo vuole unatteggiamento, un modo, un essere politico. Questo noi dicia-mo. Abbiamo sempre raccontato le cose, gli uomini che cistavano intorno, noi stessi in rapporto col nostro tempo.Ognuno ha i suoi sentimenti, i suoi valori esistenziali, anchepersonalistici, ognuno fa le sue scelte e ha i suoi sogni, ma c’èsempre anche un momento in cui l’uomo si confronta con lasocietà e con gli altri. Non abbiamo mai pensato: ora vogliofare un film politico per dimostrare questo o quello. Nel ’44nel giro di un’estate si è capovolto il mondo. Dai nazisti aipartigiani e alla libertà. La realtà non è mai definitivamente

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chiusa. C’è sempre la possibilità che si rovesci nel suo con-trario. È un’esperienza che abbiamo vissuto sulla nostra car-ne, perché anche noi siamo scappati sui colli, ci hanno spara-to dietro, hanno ammazzato i nostri amici, abbiamo visto lasofferenza, il sangue, i morti. Tutto questo è cambiato nellospazio di pochi mesi. Nei momenti più difficili, quelli in cuisembra che la vita non abbia più un senso, e non sai più cosati aspetta, quando si smarrisce il significato di ciò che faccia-mo, ripensiamo a quell’estate. Ma non politicamente. Ripen-siamo al fatto che l’umanità ha in sé questa forza di cambiare.E quindi quella memoria, quel ricordo, diventa un presente,e questo ci aiuta molto.

Vale anche per gli anni che portarono al Sessantotto?In quegli anni fare politica significava decidere chi amare.Tutto passava attraverso il filtro politico, perché si pensavache fosse in atto una trasformazione della società. Politica si-gnificava filosofia, sentimenti, rapporti. Queste cose, e le per-sone con cui le vivevamo, noi le abbiamo raccontate, non per-ché volevamo fare un film sul Sessantotto, ma perché voleva-mo raccontare un’esperienza vissuta sulla nostra carne. NeiSovversivi c’è la morte di Togliatti, ma ci sono anche i rappor-ti con i nostri genitori, con la nostra terra, con personaggi«esoterici», con omosessuali, addirittura uno dei protagonistisi chiama Leonardo da Vinci. Quando ci dicono che facciamo«cinema politico» ci arrabbiamo molto. Vuoi realizzare unfilm politico? Fai un documentario! Fai informazione! Uno diquei film che vanno fatti e subito mangiati. Ma non è quelloche facciamo noi.Perdonateci il riferimento alto: si fanno esempi massimi soloperché così ci si attacca ai grandi. Quando si parla di Dosto-evskij e Tolstoj, si parla della loro religiosità. I loro romanzi,soprattutto quelli di Dostoevskij, hanno un’ideologia che èquella religiosa. Ma nessuno pensa che siano libri di propa-ganda religiosa. Sono libri sui grandi temi dell’uomo, dellavita, della società. I loro libri non offrono un messaggio dot-trinale, ma un modo per avvicinarsi al mistero del mondo.

Il «vostro» Tolstoj è privo di ogni riferimento religioso. Quando

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avete adattato Il divino e l’umano (in San Michele aveva ungallo) si diceva che gli atei Taviani al posto del «divino» ci avevanomesso il «politico».È vero. Anche in Resurrezione il finale di Tolstoj è molto reli-gioso. Ed è brutto. Noi ne abbiamo scritto un altro. Secondonoi più bello.

Non vi siete mai chiesti, in quel clima politico, con quella tensioneche anche voi avete sempre condiviso verso una società diversa, se ilfilm che stavate realizzando era utile allo scopo?No. Noi pensavamo che tutta la nostra vita fosse protesa versoil cambiamento. L’elemento utopico era sempre presente.Non pensavamo: questo film servirà specificamente a unacerta cosa. Quando abbiamo realizzato I sovversivi eravamousciti dal Pci per i fatti di Ungheria, ma eravamo sempre le-gati al partito. Eppure il film fu attaccato dalla sinistra. Rea-lizzando il nostro primo film, Un uomo da bruciare, non pen-savamo certo a un eroe sovietico. Già era stato detto molto suSalvatore Carnevale, il sindacalista ucciso dalla mafia. Primadi girare accadde una cosa che ci emozionò molto. Possiamodivagare?

Dovete!Stavamo realizzando un documentario per il governo Milazzosulla Sicilia. Girammo tutta quanta l’isola. Una volta incon-trammo un rappresentante della camera del lavoro, socialista,in un paesino in cima a una montagna. Mangiammo insieme,e a un certo punto disse: è arrivato il momento del comizio.Andò in piazza, con tre o quattro compagni, prese una seggio-la, la mise al centro, salì e cominciò a parlare. In mezzo allanebbia. E parlava con una forza! Diceva: «Perché io lo so chevoi dietro le finestre mi state ascoltando». Era vero. Ed era in-credibile il coraggio di quest’uomo, in un paese di mafia.In quel viaggio facemmo tanti incontri del genere. E tra glialtri andammo a conoscere la madre di Salvatore Carnevale.La prima donna che aveva rotto l’omertà, aveva denunciato,facendo nomi e cognomi. Pensavamo di trovare una donnagrande e forte, una Paxinou. Invece ci imbattemmo in unadonna piccolina, fragile, molto gentile. Ci portò al cimitero,

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sulla tomba di Carnevale. Avevamo una macchina da presaAriflex, quella di una volta, senza sonoro, che mentre andavafaceva cla cla cla cla. Lei si era inginocchiata, ma la pellicolafinì subito, e anche il rumore della macchina. Allora si girò edisse: «Perché non va?». Caricammo un altro spezzone di pel-licola, ricominciò il cla cla cla e questa donna, appena sentì ilrumore, quasi toccata da una bacchetta magica, cominciò arecitare come una Medea, come in una tragedia greca, urlan-do «Figlio mio!», contorcendosi, picchiando i pugni sullatomba, facendo tutto quello che all’epoca ci si sarebbe aspet-tati da una donna siciliana che piange il figlio morto. Finì lapellicola e, tac, lei tornò normale e ci offrì un caffè. La cosapuò anche far sorridere, ma riflettendoci capimmo che aveva-mo assistito a una cosa rivoluzionaria: questa donna siciliana,analfabeta, aveva capito il valore del cinema nel mondo! Ave-va capito che quella macchina serviva a far conoscere la sto-ria di suo figlio, a vendicarlo.Questa forte emozione, di ritorno a Roma, in macchina, deci-demmo di trasformarla in un film. E così nacque Un uomo dabruciare, che si ispirava alla vita di Carnevale, ma con grandelibertà.Tra le altre cose lui aveva detto una battuta tipo: «Chi ammaz-za me è come se ammazzasse Cristo». Era anche un po’ mito-mane. Uno che dava spettacolo.

Un uomo con le sue contraddizioni.Sì, proprio così. E per interpretarlo, scegliemmo Volonté, cheera al suo esordio. Realizzando quel film attingemmo anche anostre esperienze e al Coriolano di Shakespeare. Una volta ter-minato, lo proiettammo alla direzione del Pci. All’epoca usavache i registi comunisti presentassero le loro opere al partito.Finisce il film: silenzio. Non c’era Togliatti, ma Alicata, diretto-re dell’Unità. E c’era Antonello Trombadori, un amico, che ac-cennò a un applauso, ma capì subito che non era il caso. A uncerto punto si alza Alicata, col dito puntato, e dice: «Voi aveteinfangato la memoria di un uomo della classe contadina eoperaia.Vergognatevi!». Disse ciò che era giusto dire dal pun-to di vista di una concezione ideologica che noi rifiutiamo.Casiraghi, il critico dell’Unità, aveva visto il film e gli era pia-

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ciuto moltissimo. Ma quando la pellicola andò a Venezia, edebbe un grande successo, l’Unità non pubblicò la sua recen-sione. A Venezia c’era anche Amendola, a cui il film era pia-ciuto. Allora decidemmo di andargli a dire ciò che era suc-cesso con il giornale. Lo incontrammo al Lido mentre uscivadall’acqua. E lui disse: «Io non sono d’accordo con questocomportamento, ma voi commettete un errore: consideratel’Unità un giornale indipendente. Non lo è. È un giornale dipartito. Se la commissione culturale ha deciso una certa li-nea, la linea è quella». In realtà poi andò a Roma, si incazzò escoppiò un casino. Questo era il clima dell’epoca. Che a noidava forza. Perché eravamo convinti che la nostra strada fos-se vera, giusta, vergine, rivoluzionaria.

Voi avete spesso detto che l’utilità di un film non esiste fuori dall’ef-ficacia del suo linguaggio specifico. Su questo ormai siamo (quasi)tutti d’accordo. Se devi raccontare il Vietnam, occorre «vietnamiz-zare il linguaggio del film», non fare un comizio sul tema. La cosaperò non è così semplice se, ad esempio, devi raccontare Berlusconi(lo abbiamo visto in questi anni…).Non lo abbiamo fatto e quindi non sappiamo. Ma si potrebbemetterla sul piano del tragico grottesco. È un linguaggio an-che quello. Bisognerebbe utilizzare i mezzi del cinema in mo-do da far sprizzare fuori il grottesco dal film. Un buon esem-pio è Il Caimano di Nanni Moretti.

Vi sentite ancora utopisti e sovversivi? Cesare deve morire è a tut-ti gli effetti un film «sovversivo» per il modo in cui è stato pensato eprodotto.Non è che uno vuole essere, uno è. Ma siamo anche cambiati,insieme alla vita. Il senso del mistero è sempre più presente.Mistero significa credere che l’umanità può avere un cammi-no che si oppone a un altro cammino, ma sapere anche che laforza della natura è così più grande della forza dell’uomo chenon è possibile conoscere veramente il destino finale del-l’umanità.

La chiamano «la religiosità dei Taviani».Noi abbiamo cercato di trovare almeno una scheggia di senso

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nella vita. Forse l’abbiamo trovata. Però una bella risposta lanatura non ce l’ha data. La vera ingiustizia è questa. Che cifanno morire senza che nessuno ci abbia dato la risposta de-finitiva su che cos’è la vita. Dentro la complessità del rappor-to tra l’uomo e la natura ci sta tutto, compresa la politica,compresa l’utopia.Tu cerchi: cosa troverai è un mistero.

Però ci credete ancora alla necessità di lottare. Di provarci.Certo. Non c’è la resa, mai. Si dice che invecchiando si è piùgenerosi, più tolleranti. Non è vero niente. Abbiamo lo stessoistinto di ribellione di sempre.

Poi ci sono le circostanze.C’è l’elemento caso. Machiavelli diceva: il talento conta per il40-50 per cento e per il resto è fortuna. È vero! Cesare devemorire è nato dal caso. Il nostro amore per il cinema, il desi-derio di fare cinema, non è cambiato. È un mestiere che cipiace. Non abbiamo nessuna intenzione di andare in pensio-ne. Fare cinema è bello per tanti motivi. A partire dalla possi-bilità di vivere insieme ad altre 40-50 persone, con cui seicomplice nella realizzazione di un film. E nascono amicizie,innamoramenti, anche se poi quando finisce il film tuttiscompaiono e il regista rimane solo col suo montaggio da fa-re… Avevamo dei progetti che ci sembravano importanti. Pe-rò erano troppo tradizionali rispetto al cinema che avevamogià fatto, che è poi il rischio che corri quando invecchi: la ri-petitività.Improvvisamente, in questo clima, ecco la proposta di Danie-la Bendoni che da tempo ci chiedeva di andare a Rebibbia avedere gli spettacoli teatrali messi in scena dai carcerati. Pen-savamo alla solita bella filodrammatica, non avevamo moltavoglia. Ma dopo un bel po’ che ce lo chiedeva, siamo andati.Non conoscevamo Fabio Cavalli, il regista che lavora nel car-cere. Siamo andati e siamo rimasti travolti da questa realtà.Travolti non solo emotivamente come può esserlo chiunque.Travolti come chi intravede la possibilità di esprimere quel-l’emozione che sta provando. Abbiamo deciso che bisognavaraccontare questa emozione. Ci proponevano di fare un do-cu-film, definizione che troviamo mostruosa. A noi non im-

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portava il come: sarà un documentario, sarà teatro, sarà fin-zione. Quella emozione prendeva strade diverse che non era-no definibili. Ci siamo messi al lavoro e basta. E a un certopunto ci siamo accorti che stavamo girando con la stessa in-coscienza, con lo stesso tono ribaldo, con cui avevamo giratoi primi film.

E siete tornati a «uccidere il padre» (stavolta Cesare) un’altra vol-ta.È chiaro che poi riemergono i temi di tutta una vita. È rie-merso anche il nostro amore per Shakespeare, per il GiulioCesare. Lavorandoci, ci siamo accorti che avevamo già utiliz-zato certe battute del testo in altri film, senza citarlo, senzapensare di omaggiarlo. Ad esempio quando Bruto e Cassioprima della battaglia dicono: «Forse non ci rivedremo. Peròvorrei essere a domani per sapere come è andata». In San Mi-chele aveva un gallo, quando i rivoluzionari sono sotto il paese,dicono la stessa cosa. «Vorrei essere a domani per sapere co-me è andata». È tornata fuori, in tutto quel marasma, conl’emozione che ci davano quelle facce, quei carcerati.Ci siamo ritrovati ad affrontare di nuovo le orazioni di Brutoe Marco Antonio dopo 500 anni che questa cosa viene rap-presentata, dopo Marlon Brando. Ci dicevamo: ma siamomatti! Siamo diventati pazzi! Eppure. Abbiamo scelto quelcampo lungo sul campo di basket bruciato dal sole e queidue attori, che ci hanno fatto commuovere, perché ci si com-muove quando si gira un film. Quando Salvatore Striano,Bruto, dice «Per questo io l’aggio acciso» abbiamo visto qual-cosa nei suoi occhi. Non è che sia più bravo di Marlon Bran-do. È certamente un attore di talento, ma in lui, nel suosguardo, c’è una verità in più: dice qualcosa che ha visto dav-vero, un mondo che lui conosce. E questo è accaduto anchecon gli altri attori. Ecco cosa ci ha travolto, ed ecco, probabil-mente, cosa ha travolto anche il pubblico.Bruto non era un pretesto per dire qualcos’altro. Noi voleva-mo raccontare davvero il dramma di Bruto. E mentre lo rac-contavamo, ci siamo resi conto che stavamo raccontando an-che il dramma di chi lo interpretava. Il pubblico ha avvertitoquesta cosa. È stato l’incontro di queste due tragedie a crea-

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re quella forza.Qualche giorno fa ci è arrivato il messaggio di un frate. Dice-va: insieme a un confratello ho portato dieci seminaristi a ve-dere il film e abbiamo pianto molto. Quando siamo tornati,non siamo andati a dormire. Abbiamo voluto vegliare tutta lanotte e pregare per voi, per tutti coloro che hanno realizzatoquesto film.

E tutto questo dopo un periodo in cui avevate ricevuto anche tantecritiche per le vostre esperienze televisive.Uno di quei lavori televisivi non lo amiamo per niente: la Lui-sa Sanfelice. Ma Resurrezione, ad esempio, era venuto bene.

C’è chi, a questo proposito, ha ritirato fuori Rossellini e la suascommessa sulla televisione come strumento per diffondere cono-scenza. Forse erano altri tempi. Ed era un’altra televisione.Noi ci abbiamo creduto in quella cosa. Quando abbiamo fat-to Resurrezione ci siamo detti: è uno scambio. Ma non andia-mo a infilarci di nuovo nella discussione sulle differenze tracinema e tv.

Dopo che Cesare ha vinto a Berlino, la televisione è tornata a cer-carvi.Ieri sera per strada ho incontrato un bambino con un cane,che mi ha detto: «Scusi, ma lei è uno dei fratelli Taviani?».«Sì». «Ah, allora auguri!». Un bambino mai visto. È l’effettodella tv. Poi dopo 20 giorni ti cancellano… Succedono cosestrane in questo periodo.Tempo fa ci ha telefonato un signo-re che non conoscevamo: ha detto che dopo aver visto il no-stro film ha deciso di mettere la bandiera italiana sul balco-ne. Ora siamo diventati anche patrioti.

Ci andate ancora al cinema? C’è qualcosa che vi ha colpito di re-cente?Non vorremmo fare nomi, perché poi ci dimentichiamo sem-pre qualcuno. Il cinema italiano è vivissimo, pieno di talenti,ma è bloccato dalla situazione economica e da come è co-struita la produzione e la distribuzione. Lo sappiamo. InFrancia, ad esempio, è diverso.

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Il problema è che questa coercizione dal punto di vista pro-duttivo fa sì che nasca un prodotto medio, realizzato da genteche sa girare bene, con attori che recitano tutti bene, ma incui tu puoi entrare in un cinema, uscire, andare in un’altrasala e avere l’impressione di vedere sempre lo stesso film. Mirendo conto che questa è una cattiveria.

È la realtà.Ma in fondo è sempre stato così. Quando siamo arrivati a Ro-ma c’era un modo di fare cinema che andava per la maggioree che non potevamo certo amare. C’è sempre stata questabassa marea.

E il tentativo di creare dei filoni commerciali, o anche autoriali.Dopo il successo di Padre padrone ci arrivarono diverse pro-poste di produzione dall’Italia e dall’estero: mamma mam-mona, figlio figlione, tutte storie di conflitti famigliari. Quat-tro o cinque proposte di questo tipo. Strana storia anchequella di Padre padrone, altro film nato dal caso, dall’incontrocon Gavino. Dicono che è stato visto da un miliardo e mezzodi persone nel mondo. Nel Sessantotto si voleva usare un lin-guaggio violento, cattivo, che doveva essere un pugno in fac-cia allo spettatore addormentato. Si diceva: lo so che è un pu-gno, lo so che fa male, ma intanto vi scuote. E invece è arriva-to quel successo planetario. Quando sai che un miliardo emezzo di persone ha visto un tuo film, non è che cambi il mo-do di fare cinema, anzi, il tuo rigore aumenta, ma cerchi diavere una maggiore trasparenza, così che il tuo rigore arriviin modo più diretto. Da lì è nato quello che chiamano il no-stro cinema dell’affabulazione. Il tuo essere autore vive deltuo rapporto con gli altri. E fortunatamente si cambia, altri-menti la vita sarebbe noiosa, sempre uguale. C’è sempre uncontinuo scoprire, sbagliare e trovare.

Chiudiamo con una domanda «politica». Cosa pensate della situa-zione che stiamo vivendo in Italia? Sembra di stare ancora all’ini-zio dei Sovversivi: «Che cosa farete adesso poveri gattini ciechi?».Navighiamo a vista.Non abbiamo soluzioni. Ma una cosa possiamo dirla. In fon-

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do stiamo parlando di 70 anni di vita di un popolo. Non sonotanti.Anzi, sono proprio pochi. Prima c’era il fascismo e lì c’èstato un grande passaggio. Dopo di che, negli ultimi 70 anniabbiamo vissuto un’avventura molto simile. Una volta si dice-va, non si sa bene a chi: «Ti prego non farmi morire democri-stiano». E poi: «Non farmi morire craxiano», «Non farmi mo-rire berlusconiano». È una cosa che si ripete, ciclica. Siamovissuti in questo dramma continuo di qualcosa che non rie-sce a imporsi, come invece sembrava dovesse accadere neiprimi anni del dopoguerra, nel momento della ricostruzionee della Costituzione. Per il nostro popolo è una vita difficile edura. Ma in maniera forse ingenua e innocente, noi pensiamoche non è mai finita. Il nostro conflitto con Pasolini, quandoci siamo incontrati, era proprio su questo. Lui diceva: «È la fi-ne del mondo». Noi invece dicevamo: «È la fine di un mon-do», per quanto tragica. Ecco la risposta. Magari ci riderannodietro per questa battuta, ma a noi sta ancora bene: liberté,égalité… fraternité solo nel cinema.

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L’ITALIA IN PRESA DIRETTAHa vissuto quasi un secolo di storia italiana, e gran parte

l’ha raccontata nei suoi grandi film – da La sfida a Lemani sulla città, da Cristo si è fermato a Eboli a

Cadaveri eccellenti, da Lucky Luciano a Il caso Mattei –inaugurando il filone dei film inchiesta. Erede del grande

cinema neorealista, uno dei maggiori registi italiani ditutti i tempi si racconta, tra incontri privati e riflessioni

sull’Italia di ieri e di oggi.

FRANCESCO ROSIin conversazione con CURZIO MALTESE

Quando riguardo i tuoi film penso che i problemi del nostro paesenon siano cambiati poi molto da allora. Anzi, sono degeneratiquelli che vedevamo già negli anni Sessanta, quando hai comin-ciato a fare cinema. Sembra di osservare la genesi di tutto quelloche è successo in Italia. È come se avessi filmato progressivamenteil declino.La corruzione delle istituzioni in Italia è cominciata da tantotempo. Così come il potere della mafia, che poi, piano piano,è stato accompagnato dal potere sempre più crescente dellacamorra. La camorra, una volta, era strettamente legata alSud: il mio primo film che ne parlava era ambientato nelmercato ortofrutticolo di Napoli [La sfida, 1958]. Oggi invecesta diventando quasi più minacciosa della mafia.

Purtroppo la camorra e la ’ndrangheta sono il settore del paeseche ha colto meglio i meccanismi della globalizzazione.Ormai l’attività economica italiana non riesce più sottrarsi alpotere della mafia e della camorra.

È cresciuta anche la complicità della politica. Da questo punto divista i tuoi film andrebbero proiettati nelle scuole. Le mani sullacittà è perfetto per raccontare il sistema. Perché nei tuoi film il si-stema è sempre più potente dei singoli. Non è solo una questione diresponsabilità individuale. A differenza del modo in cui si parlaoggi di corruzione, quel populismo che ha molto successo e che habisogno di identificare un nemico fisico, il banchiere, il politico cor-

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rotto, tu identifichi un sistema malato nel quale anche l’eventualeribellione dell’individuo viene completamente annichilita, assorbi-ta. La tua è un’analisi molto più moderna.In effetti quei film hanno anticipato ciò che è poi successo nelpaese. E sono ancora attuali. Quando mi chiedono: non ti vie-ne voglia di fare un film sull’Italia di oggi, su ciò che sta suc-cedendo? Io rispondo che questi argomenti li ho trattati pertempo. Non avrebbe senso ripetersi. Bisogna andare avanti.Bisogna cercare di capire come si può uscire da questa speciedi baratro nel quale siamo finiti.

Nei tuoi film però c’era anche la speranza e l’impegno a uscirne.Oggi c’è solo rassegnazione, anche nel cinema. Lo sguardo dei filmitaliani sui fenomeni sociali e politici è sempre più rassegnato, an-che in quelli più belli. Penso ad esempio a Gomorra, che a me èpiaciuto molto, ma fotografa una situazione senza via d’uscita. Iltuo, invece, era un cinema di lotta.Gomorra è un bellissimo film. Ma forse avrebbe dovuto inte-ressarsi un po’ di più al contesto, al potere che ha creato que-sta popolazione di corrotti.In passato ho scritto diversi articoli per dire quanto sarebbeimportante investire nella scuola per smuovere la stasi male-fica in cui vive il Sud Italia. La scuola è stata trascurata nellamaniera più totale dalla classe dirigente del paese, non soloquella politica. Questi ragazzi dovrebbero andarci dalla mat-tina alla sera, non tanto per studiare delle materie, ma perimparare come si sta nella società. Quando ho scritto quegliarticoli, a Napoli, Palermo, Catania, a scuola non ci andavanoproprio. Perché a un certo punto la camorra metteva in manoa quei ragazzi un po’ di soldi e la possibilità di diventare im-portanti, in una società in cui conta solo la quantità di dena-ro che possiedi. La scuola ha una funzione fondamentale an-che da un punto di vista sociale, perché i ragazzi che ci vannoportano poi la loro esperienza in famiglia. Se non riusciamoa creare un rapporto tra i giovani e gli adulti, che società co-struiamo? In cosa possono credere?

L’infanzia, oggi, rischia di sparire. In fondo parliamo di un’inven-zione del XX secolo, collegata alla creazione dello Stato sociale,

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alle lotte degli operai, al divieto di lavoro minorile, tutte conquisterecenti. I bambini sono considerati dei piccoli adulti, come nel Me-dioevo, solo che allora erano dei piccoli lavoratori, adesso invecesono dei piccoli consumatori. In questo meccanismo fa comodo noninvestire nella scuola, privatizzarla, far entrare le grandi impresee le multinazionali nella gestione dell’istruzione pubblica. Tuttoquesto rischia di sconvolgere il rapporto tra le generazioni.Tu par-lavi dei ragazzi dei quartieri: lì c’è una doppia perdita di control-lo, da parte della scuola ma anche da parte della famiglia.Soprattutto da parte della famiglia, direi.

A volte questi bambini, arruolati dalla camorra, guadagnano piùdei loro genitori.Quindi la famiglia li spinge a mettersi nelle loro mani. La ve-rità è che per capire come stanno le cose bisogna andare perle strade, bisogna vedere come vivono questi ragazzini. Nonhanno altre speranze perché non vengono coltivate.Una volta sono andato a Nisida, Napoli, dove c’è un istituto dipena per i ragazzi traviati. Sono rimasto sbalordito dalla con-sapevolezza con cui parlano del loro rapporto con la vita. Èun rapporto fondato sul potere. Cercano solo quello, fin dabambini. Ecco, Gomorra cosa ti fa vedere? Che questi ragazzisognano solo di avere un po’ di potere attraverso le armi.

Parliamo di Napoli, che è un grande mistero della storia italiana.È la città che probabilmente ha pagato il prezzo più alto all’unitàd’Italia. È stata una metropoli, una grande capitale culturale. Havissuto stagioni gloriose, di rinascita, anche da un punto di vistapolitico, come l’epoca diValenzi. Adesso sta vivendo una nuova fa-se. Ma lo slancio che i napoletani hanno avuto in vari periodi si ècome scontrato contro un muro di gomma, per cui alla fine la cittàè ricaduta, sempre peggio, nei problemi che aveva già, la corruzio-ne, la criminalità.È come se oggi non credessero più veramente in una rinasci-ta: questa è la verità. Lo senti dalla rassegnazione nella qualesono caduti molti napoletani, anche gente di grande valoreintellettuale.

Eppure la cultura napoletana è la più politica e la più combattivache l’Italia abbia espresso.

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Questa è una delle illusioni che hanno segnato il mio percor-so di vita. Ricordo che una volta ci incontrammo a Napoli,molti anni fa, anche con Dino De Laurentiis, per ragionaresul modo in cui rilanciare la città. Parlammo della Mostrad’Oltremare, che è un territorio immenso, attrezzato, ci sonopiscine, teatri. Ho detto: ma perché non la facciamo viverequesta realtà? Qui può venire anche la voglia a qualche im-prenditore di fare cinema. Invece no, il cinema si è semprefatto fuori città.

A volte le cose funzionano: per esempio la sede Rai di Napoli, che èmolto ambita perché si lavora bene, con un’alta qualità dei lavora-tori. Ci sono state anche grandi stagioni culturali, teatrali, ma so-no dei fuochi d’artificio, poi si esauriscono.Sì, i festival sono utili, ma sarebbe più utile indurre i ragazzia frequentare una scuola in cui apprendere che cosa è il lavo-ro e perché è importante la cultura. Abbiamo una tale re-sponsabilità sulle spalle! Pensiamo ai bambini che cresconoin certi quartieri di Napoli: quando avranno 14-15 anni sa-ranno una forza operante della camorra.Tutti armati.

Girando Napoli per realizzare dei servizi sono rimasto impressio-nato dall’intelligenza di questi bambini. Lo stesso Garrone li hapresi dai quartieri per fare Gomorra. Bambini con facce meravi-gliose e anche bravissimi come attori. Hanno una tale prontezza econoscenza della vita. Poi però la appaltano alla criminalità. Sa-rebbero una grande risorsa per la città e per il paese.Mancano le istituzioni che potrebbero far fruttare l’intelli-genza e la forza di questi ragazzi, che hanno un’enorme vo-lontà. Bisognerebbe saperla incanalare perché produca qual-cosa di buono per la società.

Ci sono state varie stagioni politiche interessanti a Napoli. Il sin-dacoValenzi, il primo Bassolino, adesso c’è de Magistris.Tu hai fi-ducia in de Magistris?Non lo conosco bene. Mi ha telefonato per farmi i compli-menti per il premio alla carriera del festival di Venezia, e miha detto: «Venga a trovarmi, così parliamo, facciamo». Io horisposto: «Volentieri». Ma ormai non ho più l’energia creativa

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di una volta. È vero però che ci deve pur essere qualcuno incui credere dentro le istituzioni italiane.

Uno nel quale si può credere, che è stato decisivo negli ultimi anni,è il tuo amico Napolitano.Non ci fosse stato lui!

La mia impressione è che se non ci fossero stati Scalfaro, Ciampi eNapolitano, saremmo tornati al fascismo. Perché quello era il cli-ma che si respirava nel periodo più «splendido» del berlusconismo.C’era la tendenza ad abbattere ogni regola. Napolitano è stato de-cisivo nel mantenere le istituzioni democratiche nei periodi più bui.È interessante che un uomo di quella generazione, della tua gene-razione, abbia lavorato tanto per il futuro, rispetto ad altri politicimolto più giovani la cui visione si è rivelata limitata. Napolitanoha tenuto assieme il paese, Nord e Sud, in un passaggio difficile. Èun uomo del Sud, culturalmente napoletanissimo, ma è molto po-polare anche nel Nord Italia.Conosco Napolitano da quando eravamo ragazzi, perché sia-mo andati nella stessa scuola. Lui aveva tre anni meno di mee di La Capria, un altro personaggio molto importante per lacultura napoletana. Persone nelle quali puoi credere.

Ciò che spaventa è che non ci sono più personaggi capaci di incar-nare così efficacemente il rispetto per le istituzioni, l’amore per lademocrazia.Il significato della democrazia.

Quelli come loro e come te hanno sempre avuto anche una grandecapacità di rivolgersi al popolo, di ascoltare gli umori dell’epoca epoi di comunicare, di agire, perché la popolarità non deve essereun fine, ma uno strumento. Per te essere un regista popolare signi-ficava poter dire tante cose sul tuo paese e la tua città. Adesso si èinvertito il meccanismo. Si fa cinema per diventare popolari.Il cinema ti permette di riconoscerti in quei personaggi chefai vivere sullo schermo. Ma questo significa che la gente poisi identifica con loro, a prescindere dal fatto che siano positi-vi o negativi. Questo comporta una responsabilità.

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Non trovi che questa coscienza etica sia mancata in certi talenti ci-nematografici americani? Anche nei tuoi film i grandi mafiosi, igrandi corrotti, hanno un loro fascino, però nelle tue opere c’è unatenuta etica tale per cui non è così facile identificarsi con i crimina-li. Lucky Luciano, per quanto sia interpretato in maniera straordi-naria daVolonté e sia raccontato benissimo, è comunque un perso-naggio nero, grazie allo sguardo del regista.Il cinema americano non si poneva il problema morale che sisono posti gli autori italiani. I film di De Sica, Umberto D., La-dri di biciclette, sono uno specchio per riconoscersi nei valorimorali della vita. Petri, Scola, io, ci siamo identificati in queifilm.Anche grazie alla commedia all’italiana si sono dette veritàincredibili. Nei film di Monicelli puoi trovare un’intelligenzainterpretativa e creativa enorme, oltre a una grande moralità.

È questa eticità che è progressivamente franata nella società ita-liana, nella politica, nella cultura, nel cinema. Il paese è diventatocinico. C’è una specie di resa. E così torniamo al discorso che face-vamo su Napolitano. Rispetto all’amoralità diffusa della classe di-rigente italiana, la figura di Napolitano viene percepita come por-tatrice di valori etici.Voi avevate una visione che non era affatto moralistica, bacchetto-na, ma che era potentemente etica. Risi e Monicelli erano bravissi-mi nel raccontare la degenerazione, i «mostri» italiani.Il cinema italiano di quel periodo è stato grande e secondome bisognerebbe fare qualcosa per riproporlo in tv in manie-ra ordinata, inserendolo in un discorso culturale e morale.

Per la mia generazione (50 anni) la formazione politica vera, al dilà dei gruppi e dei movimenti, è stata andare al cinema, e vedere ifilm del dopoguerra, dal neorealismo fino agli anni Settanta.Quello che dici è molto vero. Guarda, io ricordo una sera incui eravamo a Taormina con Altman. Sul grande schermopassava un’immagine di Ladri di biciclette e io mi ero mossoper andare sul palco. Altman mi ha chiamato, fregandosenedel pubblico, della gente, e ha detto: questo è il più grandedel mondo, ha fatto il film più grande! E aveva ragione. Maquanti film sono stati messi da parte, ignorati? Hai più visto

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per esempio Germania anno zero? L’ho rivisto ultimamente esono rimasto sconvolto.

Anche i film cosiddetti minori, degli autori popolari, sono strepito-si, uno più bello dell’altro.Il cinema non ha paragoni. Sì, un grande libro è un grandelibro, ma tu in un grande film ti riconosci in un’ombra chediventa vita, un personaggio che si muove, che parla, chepensa. Il potere del cinema è una cosa enorme.

Ciò che oggi è più difficile, al cinema come in tutti i lavori, è il pas-saggio di esperienze.Tu hai cominciato che eri ragazzino dal mas-simo livello, facendo l’assistente.Ho fatto anche l’apprendistato con grandi sceneggiatori co-me Sergio Amidei e Suso Cecchi D’Amico.

Hai lavorato con LuchinoVisconti.Sono stato suo assistente per tre film. Visconti era un uomodi grandissimo valore, anche etico.

C’era anche un certo piacere nel trovare un giovane di talento co-me eri tu e coinvolgerlo, farlo crescere.Come no.

Secondo te cosa ha provocato il declino del cinema italiano? È sta-to un problema industriale o di tipo artistico?È stato principalmente un problema industriale. A un certopunto ha prevalso un cinema più leggero, più accessibile, piùdivertente. Il pubblico lo ha preferito. Ma quel tipo di cinemaè stato anche fatto da alcuni autori in maniera egregia: pen-siamo appunto a Risi, a Comencini, a Petri, a Scola. Lorohanno fatto la commedia all’italiana, ma hanno anche affron-tato dei problemi etici, i problemi del paese. L’altra sera, percaso, mi è capitato di vedere un pezzo di Pane amore e fanta-sia. Questi erano film che raccontavano l’Italia: il pubblico,oltre a divertirsi, si riconosceva, nel bene e nel male.

I tuoi film hanno girato il mondo raccontando realtà spesso moltoitaliane. Adesso i film italiani difficilmente ci riescono. Quelli che

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hanno girato il mondo e che hanno avuto successo in questi ultimianni parlano di un’Italia al passato: La vita è bella raccontavagli anniTrenta, Mediterraneo gli anni Quaranta,Tornatore l’Ita-lia del dopoguerra. Il problema è che il paese non è più interessan-te, come quando la raccontavi tu, fino agli anni Settanta-Ottanta?Oppure è il nostro cinema che non riesce più a raccontare il paese,e quindi diventa meno interessante?Credo che siano tutte e due le cose. Ma è evidente che c’è sta-ta, da parte del pubblico, la voglia di ritrovarsi a vedere deifilm più leggeri, più divertenti, alimentata da un discorso ditipo industriale, commerciale.

In questo la televisione quanto ha contato? Noi avevamo un gran-de cinema, ma anche una grande televisione pubblica, perché laRai è stata per anni una tv di grandissimo livello. Poi con la con-correnza delle private, in particolare di Berlusconi, il livello si èmolto abbassato. In più Rai e Mediaset hanno cominciato a gover-nare l’industria cinematografica.I soldi venivano da lì.

Questo secondo te ha avuto un’influenza sull’abbassamento gene-rale dei gusti del pubblico?Credo di sì. L’abbassamento però lo ritrovi quando la gentecomincia a riconoscersi anche negli aspetti più deteriori diciò che vede. Perché film belli da vedere, che trattano anchetemi importanti, ne sono stati fatti di recente. Penso ad esem-pio a Romanzo criminale di Michele Placido. A un certo puntoperò un film dovrebbe suscitare nello spettatore il desideriodi capire meglio quello che succede e magari poterlo anchecondannare. Questo è il problema. Ci sono dei film ai qualitu assisti solamente, ti diverti e basta. Quando vedevi Ladri dibiciclette, ti ponevi un sacco di domande sulla società, sull’uo-mo, sui rapporti tra un padre e un figlio, su un paese che ave-va dei difetti e sognava di poterli colmare. Oggi questa cosa siè un po’ persa.

Lo vedi all’uscita dalle sale. Che il film sia bello o brutto, la genteesce silenziosamente e se ne va in pizzeria. Io appartengo a unagenerazione che ha fatto molta ironia sul dibattito dopo il film. Ma

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quando uscivi dal cinema il dibattito lo facevi con gli amici. Parla-vi in continuazione, per giorni, del film che avevi visto.Il cinema era un’attività culturale molto sentita e anche mol-to importante. Lo capisco da come la gente si ricorda certifilm. Si ricordano anche cose mie che non erano affatto faci-li. Cristo si è fermato a Eboli non era un film che andavi a vede-re per divertirti.Andavi per riflettere, per riconoscere una so-cietà arretrata, che era quella del Sud dell’Italia, di mezza Ita-lia. Non era mica solo per merito mio. Anzi, era soprattuttomerito di Carlo Levi che aveva scritto quel capolavoro. Il fat-to è che una volta c’era voglia di farli quei film.

A proposito di Cristo si è fermato a Eboli: perché secondo te ètramontata la questione meridionale? Il più grande problema ita-liano è ancora la differenza tra Nord e Sud. Non c’è un paese ric-co al mondo in cui esiste questa differenza. La Germania si è unifi-cata vent’anni fa, ma hanno già ridotto la distanza. Noi invecel’abbiamo aumentata. Eppure stiamo insieme da 120 anni. Di que-stione meridionale non si parla più. Si parla di questione setten-trionale. Si è scelto di abbandonare mezzo paese, ormai in buonaparte nelle mani della criminalità.È un problema che andava previsto e affrontato. Perché lacriminalità non è nata così com’è oggi. Oggi la criminalità go-verna questo paese, non esito a dirlo, lo governa! E non soloil Sud.

Ormai ci sono comuni della Val d’Aosta, della Lombardia, dellaLiguria infiltrati dalla mafia, dalla ’ndrangheta, dalla camorra.Non solo non si è combattuto il crimine nel Sud, ma lo si è esporta-to nel Nord e oggi è molto potente. Film come Cristo si è fermatoa Eboli fotografavano una situazione drammatica, ma testimo-niavano anche un paese che aveva voglia di affrontare quel pro-blema.Quello di Levi è un grandissimo libro. Ho aspettato parecchianni per poterlo trasformare in un film. Ci aveva pensato an-che De Sica, credo pure Rossellini, poi Visconti, ma avevanoabbandonato l’idea perché allora si cominciava a credere so-lo nei film che avessero il «plot». Nel mio film il plot nonc’era, però c’era un grande attore, Gian Maria Volonté, che

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interpretava un grandissimo personaggio, Carlo Levi, il qualeprovava a misurarsi con la cultura di mezza Italia, quasi igno-rata dall’altra metà.

Hai avuto coraggio ad affrontare un’avventura del genere. È faci-le sbagliare un film partendo da un bellissimo libro.Un altro lavoro che aveva un retroterra letterario importanteera Cadaveri eccellenti, da Il contesto di Sciascia, un grande li-bro, ed è venuto fuori un film che va ancora in giro.

Anche quello molto moderno nello sguardo. A partire dalla durez-za con cui viene raccontata la classe dirigente.Una classe dirigente persa, rassegnata.

Cadaveri eccellenti fu oggetto anche di molte discussioni.Sì, perché era il periodo in cui si discuteva del compromessostorico. Molti comunisti lo osteggiarono, perché secondo loroil film accusava il Pci di rassegnarsi all’idea del compromes-so. Mentre altri capirono che era interessante proprio perchéaffrontava questo discorso. Quando uscì il film, Aggeo Savio-li, che è un bravo critico e oltretutto è un amico, mi disse:non si può rappresentare così il Partito comunista, come se sistesse arrendendo a un potere degenerato. Ma mi difeseroanche molto. Mi difesero sia Renato Guttuso che AntonelloTrombadori.

In realtà Cadaveri eccellenti racconta molto bene quello che poi èaccaduto con la fine della Prima Repubblica.È un film che visto oggi fa una certa impressione, perché di-ci: ma allora non è successo niente?

I tuoi film hanno spesso alimentato discussioni.Molte, sì.

Anche sulle differenze tra destra e sinistra.Molti mi accusarono di essere troppo socialista. Spesso misono trovato d’accordo con le scelte del Pci, ma mi sentivopiù vicino al riformismo.

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Il socialismo aveva una visione più libertaria della società rispettoal comunismo.Era quella la grande differenza… Mi viene in mente un altrofilm che, secondo me, è ancora interessante: Tre fratelli. Nonso se te lo ricordi.

Sì. In quello il plot c’era, ed è stato abbondantemente copiato.C’è un fratello giudice, un altro operaio e un terzo che faceval’educatore in una scuola per ragazzi traviati. Qualcuno miaccusò di aver scritto dei dialoghi che erano, praticamente,ciò che si leggeva ogni giorno sui giornali. Ma perché, chec’era di male? Vuol dire che quegli argomenti appartenevanoalla nostra realtà quotidiana.

Questa è una cosa interessante del tuo cinema. I tuoi film, quandouscivano, sembravano legati alla stretta attualità. In realtà, rivistinel tempo, rimangono moderni.Tanto più erano calati nel loro pre-sente, tanto più paradossalmente sono attuali, presenti, oggi. Pro-babilmente l’attualità non sta nell’oggetto del racconto, ma nelmodo di raccontare.Forse proprio per questo negli ultimi anni mi sono dedicatoal teatro: ho portato in scena tre commedie di Eduardo DeFilippo, che hanno avuto un notevole successo. Da Napoli mi-lionaria volevo trarre anche una pellicola. Però alla Rai dice-vano: abbiamo già il film con Eduardo e il film con Totò. Iodissi che volevo fare un’altra cosa, ispirata sì alla commediadi Eduardo, ma anche a un grande libro sulla Napoli dell’im-mediato dopoguerra. Nel film si raccontava anche della per-manenza di Eduardo in un campo di concentramento tede-sco, si raccontava della moglie che andava in giro per Napolia cercare la penicillina per la bambina che altrimenti sarebbemorta. Quindi sarebbe stato un film molto articolato, una co-sa tra il cinema e il teatro. Ma non se n’è fatto niente.Rimettendo mano alle sue opere, mi ha colpito la capacità diDe Filippo di raccontare la piccola borghesia, che allora eraun settore della società, adesso invece è la sua totalità. Tuttiormai ragionano così.

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Sono ancora più universali di quando le ha scritte… Un altro tuofilm che secondo me è impressionante per la forza del racconto è Imagliari. Un film sul lavoro, sui rapporti tra gli uomini, sull’immi-grazione.Mi criticarono perché c’era Sordi. Dicevano: ma come, haifatto un film coraggioso, una sfida, e ci metti Sordi? Ma Sor-di era un grande attore. E infatti è stato rivalutato grazie aquel film.

Sordi lì è straordinario appunto perché non fa Sordi.Infatti. Lo fa in un paio di momenti e basta.

È un attore geniale, meraviglioso, però per quindici anni…… ha fatto Sordi.

Diretto dai grandi, da te, da Fellini, da Monicelli, era un’altra co-sa rispetto a quando si dirigeva da solo. Ha un po’ rovinato il no-stro cinema, perché poi tutti volevano rifare la stessa cosa.Tra l’al-tro ha inaugurato il pessimo andazzo degli attori che dirigono sestessi. Soprattutto i comici. Il che non ha migliorato la qualità delcinema italiano.Adesso questa cosa è molto peggiorata.

Sì, adesso tutti quelli che hanno fatto tre puntate in televisione sifanno un film, in genere brutto, dove rifanno le stesse cose viste in tv.Si inventano registi.

Pensando di fare come Sordi.Il magliaro è un personaggio incredibile. Una specie di lesto-fante, che però, in quegli anni, non arrivava ancora ad essereproprio un criminale. Poi, dopo, lo è diventato anche lui, co-me tutti.

Nei bellissimi film con Gian Maria Volonté hai affrontato diretta-mente il personaggio del criminale. In Lucky Luciano lui fa unacosa incredibile, perché si trattava di una figura difficile da im-personare.Non era il solito film di mafia o di gangster. È uno dei primitentativi di misurarmi anche con la psicologia del personag-

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gio. Perché di solito nei miei film c’era più che altro la psico-logia degli ambienti, dei luoghi.

Ma l’hai conosciuto Lucky Luciano? Hai potuto incontrarlo?No. L’ho solo visto a Napoli in un paio di occasioni. Ma eraproprio come lo ha fatto Volonté. Abbiamo avuto anche l’ap-provazione della sua ultima amante, una signora napoletana,che aveva amici nella mala. Mi vennero a chiedere di farla in-contrare con Volonté e me la portarono sul set. Lui venne asedersi vicino alla signora, ancora con il cappello in testa, ilcappotto, e non parlava, non diceva niente. Lei, dopo un lun-go silenzio, si girò verso di me e disse in napoletano: è isso.

Cosa ti spinse a fare quello studio psicologico? Quale era il trattodi Lucky Luciano che ti colpiva al punto da volergli dedicare unfilm?Il suo silenzio.

Bella risposta.Mi diede una mano Lino Jannuzzi, uno che conosceva benel’ambiente. Andammo anche a New York, ed e lì che presiCharles Siragusa, il poliziotto che aveva fatto la guerra a Lu-ciano per tutta la vita. Mi piacque l’idea di realizzare un filmin cui c’era questo personaggio che non agiva, ma guardava.Sì, anche quello è un film che consiglio di vedere.

Tu ti sei occupato di misteri veri, ancora irrisolti.Grazie a Il caso Mattei sono venute fuori molte cose.

Quello è un altro buco nero della storia italiana. Le ipotesi si sonomoltiplicate. Pasolini è morto mentre scriveva un romanzo in cuiaffrontava l’argomento. È un passaggio cruciale della storia ita-liana e dei rapporti tra il nostro paese e gli Stati Uniti.Non si sapeva ancora se Mattei fosse morto per un incidenteo se fosse stato ucciso. Poi scomparve De Mauro, al quale ave-vo chiesto di farmi un resoconto delle due ultime giornate diMattei, passate in Sicilia, quando si inauguravano dei pozzi diestrazione dell’Eni. Non ebbi più notizie da lui. Non mi tele-

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fonò più. E si seppe che era stato rapito. La sua sparizione èrimasta un mistero.

Nel tuo film Mattei è rappresentato come un uomo estremamentepragmatico, ma anche come un utopista, perché in fondo lui cerca-va per l’Italia un grado di indipendenza, di libertà, che era stori-camente impossibile in un paese comunque colonizzato.Lui andava avanti imperterrito e gliel’hanno fatta pagare. Ilfatto che si mettesse d’accordo direttamente con i paesi cheproducevano il petrolio, non era una cosa che poteva piacerealle Sette Sorelle.Quello è un film che mi è venuta voglia di fare all’improvviso.L’ho realizzato velocissimamente. L’ho girato come se fosseun documentario. Quando sono stato in Africa, per le riprese,eravamo cinque-sei persone, senza il dolly 1 (il dolly lo facevaa mano il mio grande operatore Pasqualino De Santis), inmezzo alle dune del deserto. Lì Gian Maria ha forzato un po’la recitazione. Una volta Indro Montanelli disse una cosamolto bella: che Mattei avrebbe voluto essere come lo avevarappresentato Volonté.

Che tipo di metodo utilizzavaVolonté?Era molto serio nella preparazione dei suoi film. Io gli davola sceneggiatura man mano che era pronta, lui se la studiavae la copiava a mano per ricordarsela. Quando giravamo Cristosi è fermato a Eboli, non voleva andare in albergo, voleva starecon gli operai. Forse la cosa era un po’ demagogica. Ma eracomunque un grandissimo attore. Un creatore.

E poi curava molto i dettagli.Vedendo i suoi film molte volte, dopoun po’ noti i particolari, come usava le mani, come camminava.A un certo punto, in una scena in un motel dell’Agip, notaiche camminava con i piedi un po’ piatti. Volonté aveva vistouna fotografia di Mattei sotto una tenda, con dei maggiorentiarabi, in cui stava seduto con i piedi divaricati e lì notò cheaveva i piedi piatti…

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1 Un tipo di carrello (n.d.r.).

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I film che hai fatto ti hanno esposto a una marea di critiche, perchéprendevi subito posizione. Noi abbiamo passato vent’anni con Ber-lusconi, ed è uscito solo un film su di lui, Il Caimano, dopo anni,un film «laterale». Su quello che è accaduto negli ultimi vent’anniin Italia, o su Tangentopoli, non sono uscite pellicole. Tu invece fa-cevi film a impronta, rischiando di sbagliare anche clamorosa-mente, di prendere un abbaglio. Quasi tutti i tuoi film erano in-chieste in corso.Questo lo devo anche alla fiducia che aveva in me il produt-tore Franco Cristaldi. Eravamo molto amici e ci rispettavamol’un l’altro. Quando gli spiegai che volevo fare un film suMattei disse: benissimo, vai. Mi toccò inventarmi tutto, per-ché c’era solo un libro allora che parlava del probabile assas-sinio di Enrico Mattei.

Il film ha anche molto condizionato i libri che sono stati scritti do-po. Mattei in seguito è stato percepito come una figura anti-siste-ma. Anche in quel caso la sinistra non colse la novità.Tu sei consi-derato una personalità importante della sinistra italiana, però haiavuto rapporti molto conflittuali con questo mondo.Sì, certo. Anche con Craxi ho avuto dei rapporti conflittuali.Ho fatto un film nel quale si affrontava la possibilità di lega-lizzare la droga, nel periodo in cui lui voleva mandare in gale-ra tutti quelli che si drogavano. Gli dissi: ma se vanno tutti ingalera, come li curiamo? Quel film è stato molto osteggiato.Craxi non venne alla proiezione del film e non fece fare nep-pure la critica.

Come erano i tuoi rapporti con Craxi?All’inizio ci credevo.

Aveva una personalità interessante.Molto. Credo sia una figura sulla quale si ritornerà.

Questo lo diceva ancheVittorio Foa, che pure era stato in forte po-lemica con lui. Mi diceva sempre: Craxi comunque ha capito moltecose. Poi il danaro, il sistema…Soprattutto il sistema.

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mai amato i finali trionfalistici in cui l’orchestra, che suona algran completo, rimarca la vittoria dell’eroe. È un pregiudizioche sostengo con convinzione, al pari dell’avversione per imusical – eccetto capolavori come West Side Story – in cui lagratuità dell’elemento canoro finisce per irritarmi.Cercai di convincere De Palma a sfuggire ai cliché, ma fu luia spuntarla. Non si trattava solo della vittoria di Eliot Ness suAl Capone. Fu anche quella del regista sul compositore, per-ché – in quel caso specifico, in quell’inquadratura lunghissi-ma che sale sulla strada – ci voleva una simile apoteosi.

Ho attraversato praticamente tutti i generi cinematografici:dal western all’horror, dal gangster movie alla commedia, alrealismo engagé. Oggi mi guardo indietro e credo che il se-greto sia stato lo studio serio e rigoroso, insieme al rifiuto –maturato col tempo e attraverso l’esperienza – della distinzio-ne tra musica «assoluta» e musica per il cinema.Tra i due am-biti espressivi esistono delle convergenze profonde. Non so-no separati e distanti come credevo all’inizio della mia carrie-ra. Oggi il cinema entra nella musica «assoluta» e quest’ulti-ma contribuisce a informare di sé il cinema. E poi la musica– da sempre, salvo rare eccezioni – rimane arte commissiona-ta. Sul grande schermo, poi, finiscono per contaminarsi tuttii generi possibili: la musica «assoluta», quella popolare oquella da camera. Il quartetto d’archi insieme alla canzone.Un giorno, se qualcuno vorrà capire questo tempo, dovrà in-terrogare le ragioni che hanno portato gli editori musicali e iproduttori cinematografici a prediligere dilettanti e melodiesemplici, malgrado ci siano compositori del calibro di NicolaPiovani, Franco Piersanti, Carlo Crivelli, Luis Bacalov, mio fi-glio Andrea e pochi altri.In futuro, chi analizzerà l’alleanza tra suoni e immagini avràmodo di cogliere – come in uno specchio – il riflesso di que-st’epoca e della crisi che l’attanaglia.

(a cura di Tommaso De Lorenzis)

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LA NORMALITÀ SCANDALOSAI suoi film hanno indagato la deviazione, la deformazione

e il non senso di quella parte della normalità umanache è di solito inconfessabile motivo di repulsione.

Ma in questa conversazione il grande maestro del cinemaamericano rivela: “Mi piacciono le tenebre,

la confusione e l’assurdo ma mi piace anche credereche ci sia una piccola porta che mi permetta di uscireda tutto questo per raggiungere un mondo di felicità”.

DAVID LYNCHin conversazione con MARIO SESTI

Una delle prime cose che si capiscono facendo interviste ad autori dicinema è che non bisogna mai confondere le persone con i film chefanno. David Lynch è l’incarnazione vivente della necessità di questaaccortezza. Da vicino colpisce la sua singolare somiglianza con Ja-mes Stewart e Stan Laurel (sembra uno di quegli effetti fotograficiche sul computer fondono insieme due facce), due emblemi di umanitàrassicurante, pacifica o addirittura inoffensiva che il cinema ameri-cano ha provveduto a rendere popolari in tutto il mondo per decenni.Lynch è invece il regista che più di altri ha saputo scovare la linguadel mistero e dell’angoscia che si annida nell’apparenza più innocuadella realtà quotidiana. Nelle sue inquadrature, come nei quadri diEdward Hopper, tutto ciò che è consueto, ordinario e familiare si ca-rica di suggestioni oscure ed enigmatiche. Spesso, nei suoi film, è dif-ficile capire di cosa si parli davvero, ma anche comprendere perché lesue inquadrature colpiscano così profondamente. Come dirà lui stessonell’incontro, forse la prova evidente dell’energia del suo stile è il mo-do in cui una conversazione apparentemente banale o insensata tradue personaggi diventa senza preavviso un contenitore di tensione eironia che si confondono l’una con l’altra.Velluto blu, nel 1986, provocò un piccolo scandalo perché la Mostra diVenezia rifiutò di selezionarlo giudicando oltraggiosa l’aria di libidinee sadismo del reggiseno e delle mutandine nere di Isabella Rosellini,prigioniera di un compagno che la costringe a sordide prestazioni. Inrealtà è un film in cui le scene di criminalità e perversione (l’orecchiomozzato, le sevizie sulla protagonista, le infinite brutalità praticate dalsuo compagno, il voyeurismo che ne è oggetto) turbano quanto quelle di

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felicità assoluta e cartellonistica (lo steccato bianco, i tulipani carnosi, ilpettirosso stucchevole). L’attrazione per la vulnerabilità dei corpi che sirespira in tutto il film è, allo stesso tempo, disturbante e sensuale; il ca-rattere convenzionale della finzione quasi televisiva è scosso da una vi-sione della natura, dei legami sociali, del desiderio erotico che si avver-te appena sotto ogni inquadratura come un rombo sordo e minaccioso.Spesso, nei primi film di Lynch, c’è un personaggio dal capo fasciatocui sono state praticate torture sconosciute, una cantante che esegue inuno stato di trance melodie anacronostiche (BlueVelvet è un brano de-gli anni Cinquanta) e antri e corridoi illuminati da tetre apliques: segniche si è tentati di leggere come frammenti di una scena traumatica in-fantile come farebbe uno psichiatra in un film di Hitchcock. Ma ciò chepiù impressiona è l’infallibilità e la sicurezza da artista d’avanguardiacon le quali coltiva questa sospensione in ogni inquadratura: «L’odoredei corpi, la densità del quotidiano, la sostanza delle cose, lo scandalodella vita», come ha scritto uno studioso francese, Michel Chion.La sua passione per mondi malati, al confine tra deviazione e follia,non sembra, però, una condizione sufficiente per mettere in dubbio lasua ricerca di armonia, benessere, ironia. «Mi piacciono le tenebre, laconfusione e l’assurdo ma mi piace anche credere che ci sia una picco-la porta che mi permetta di uscire da tutto questo per raggiungere unmondo di felicità». In questo inesausto artigiano della perturbazioneemotiva, c’è qualcosa di inguaribilmente vicino all’americano medio,al piacere di poter accedere in qualsiasi momento in un locale dovetrovare un boccale di caffè e una fetta di torta, evento che produceun’estasi particolare in tanti suoi personaggi. C’è, nonostante tutto,qualcosa che somiglia davvero a James Stewart in David Lynch.Pittore, regista, fumettista, musicista, sostenitore entusiasta e testimo-nial d’eccezione della meditazione trascendentale, Lynch, al cinema,parte con le movenze tipiche dell’indipendenza assoluta. Il suo esor-dio, Eraserhead, girato nel garage di casa, è un incubo kafkiano incui un catatonico travet, che porta sulla testa una zazzera a forma diincudine, accudisce una creatura in fasce, mostruosa e repulsiva, inuna squallida periferia perlopiù immersa nel buio. Diventa un film diculto nelle programmazioni di mezzanotte di una celebre sala d’essai,l’Elgin di NewYork, sulla scia di film feticcio come El Topo, La nottedei morti viventi, Rocky Horror Picture Show. Con i successiviThe Elephant Man o Dune viene reclutato nella grande produzionedove non cessa di investire con una messa in scena dotata di risorse vi-

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sionarie e un uso inquietante del fantastico, alcuni generi tradizionalicome il melodramma in costume o il film di fantascienza. Negli anniNovanta, addirittura, il mondo di Lynch incontra quello delle serie tv:ciò che ne viene fuori, Twin Peaks, è destinato non solo a raggiungereattenzione e gradimento di pubblico eccezionali, ma anche a segnareprofondamente le forme di narrazione del genere più popolare che cisia: c’è chi ritiene che prodotti come Desperate Housewifes o Lostsiano discendenti realizzati da sceneggiatori e registi cui queste formecomplesse e non conformiste di televisione siano state rese possibili pro-prio dall’esperienza dei sobborghi corrotti, la narrazione piena dienigmi e il quotidiano pullulante di angoscia della contea in cui fu uc-cisa Laura Palmer. Nei suoi film è difficile non riconoscere l’istinto ca-ratteristico di chi vuole scandalizzare innanzitutto squadernando ciòche per la normalità costituisce motivo inconfessabile di repulsione.Epidermidi mappate da ulcerazioni ed escrescenze fantasiose, bulbioculari che sembrano intrappolati nelle palpebre, teste che rotolano,orifizi che rilasciano liquidi bui e densi, orecchi e mani mozzate, eppu-re, questa materia apparentemente oscena e disgustosa è perlustratacon la stessa convincente fascinazione con la quale Lynch guarda ilcorpo delle donne. I suoi film traboccano di erotismo con la stessa faci-lità con la quale le ferite dei suoi personaggi liberano laghi di sangueo ne sono pittorescamente imbrattati. Se si riguardano tutti i suoi film,infatti, si scopre che David Lynch, che è nato lo stesso giorno del mesedi Fellini (regista per il quale ha una scoperta devozione) ha un occhioprensile, morbido e sensuale, per i seni delle donne, i loro capezzoli, lecurve del loro corpo e il tremore delle loro labbra. I fianchi pallidi ematerni della Rossellini in Velluto Blu, le coppe piccole, lattee e roton-de di Naomi Watts in Mulholland Drive, e i numerosi bordeggiamen-ti che il lavoro della macchina da presa compie nel suo cinema intornoa polpacci, caviglie, addomi femminili, parlano di un cinema che amala mostruosità degli uomini con lo stesso incanto con il quale si inebriadell’infinita voluttà con la quale una macchina da presa può far scor-rere il proprio sguardo su rientranze e volumi del loro corpo, come unagoccia che scivoli sulla loro epidermide. In ogni caso, è un occhio chedispone di una gamma decisamente più ampia di quella standard.Nell’incontro a Roma 1 parlerà con tenerezza ed eccitazione del corpo

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1 La conversazione che segue è avvenuta il 13 gennaio 2006 all’Auditorium diRoma, nell’ambito della rassegna di incontri «Viaggio nel cinema americano».

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di un topolino che una volta rasò completamente con una crema depi-lante. Lì dove qualcuno scorge le tracce della perversione, lo sguardodel suo cinema affonda radici sconosciute nello scoprire nuove e infini-te forme di bellezza. Cronenberg ha usato il cinema per dimostrarequali meravigliosi paesaggi si celino all’interno dei nostri corpi, Lynchtrasmette un’analoga eccitazione, a metà tra l’orrore per la mostruosi-tà e lo stupore per l’infinito calore e tepore e desiderio e paura che siannidano in ogni cosa che abbia pelle, capelli, occhi. Il canone stan-dard della bellezza dei corpi, appare ridicolmente limitato per l’ideadi fisicità ed esistenza e sensualità che trasuda e cola dal suo cinema.Quando è venuto a Roma Lynch era ancora impegnato nella lavora-zione di Inland Empire. L’esperienza di quel film interamente gira-to in digitale, tra la Polonia e Los Angeles, lo aveva profondamentecolpito visto che nel corso della conversazione espresse una opinioneche costituisce una sorta di grave anatema per l’universo intero dellacinefilia: «Ho sempre pensato che il digitale fosse il giocattolo e la pel-licola la cosa seria. Ma mi sbagliavo. Più lavoravo col digitale e piùcapivo le sue potenzialità e mi rendevo conto che la pellicola è in real-tà un vecchio gioco per dinosauri: ingombrante, pesante e precario».Autore di immagini e suoni dal design straordinariamente curato eraffinato, Lynch, quella notte a Roma fu responsabile di uno strappodal sapore epocale: «I love bad quality». È la rivincita delle immaginiche a volte rivelano la quadrettatura dei pixel, dei bianchi sfondati,del livore digitale. Ma se qualcuno si chiede ancora se esistano i veriautori e che cosa siano, se c’è per forza bisogno della chimica e dellapellicola perché possano essere tali, non deve far altro che vedere quelfilm anche in dvd. Subirà la sensazione di minaccia quasi personaleche si libera da quelle inquadrature digitali, da quei volti e ambientiche non hanno la definizione smagliante del 35 mm. Come quandouno dei personaggi minori si reca a casa della protagonista (LauraDern), attrice in un film dal titolo Il buio cielo del domani, per con-segnarle una pericolosa premonizione nascosta in questa parabolaermetica e maligna: «Un bambino un giorno andò fuori a giocare.Quando aprì la porta di casa egli vide il mondo. Nel passare attra-verso la porta per uscire egli causò un riflesso. Il male era nato. Il ma-le era nato e seguiva il bambino».

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David Lynch, oltre a essere un grande regista è un fotografo, unpittore, un designer. Si considera un regista che fa anche tutte que-ste cose e le considera tutte ugualmente importanti?Ci vengono delle idee.Alcune servono per fare film, altre ser-vono per dipingere un quadro. Funziona così. Cogliereun’idea e innamorarsene per poi realizzarla. Questa è l’espe-rienza, per me, più esaltante in assoluto.

È vero che una volta ha rasato un topo per vedere quanto era bello?È vero. La natura riserva sempre delle sorprese. Mi sono im-battuto in questo topolino e gli ho fatto alcune applicazionidi una crema depilatoria per donne. Dopo qualche tempo eradiventato bellissimo. Quella morbidezza, quella pelle così lu-stra. Era veramente bello.

C’è una figura molto affascinante in uno dei suoi film che preferi-sco, Mulholland Drive, quella di un regista che è costretto a scelteassurde e pericolose da una serie di produttori-gangster. È davve-ro questa l’idea che ha dei produttori di Hollywood?Beh, in un certo senso. Per esempio. Adoro Dino De Lauren-tiis e tutta la sua famiglia, gli sono molto affezionato, ma Di-no ha un modo di pensare molto diverso dal mio: un registadovrebbe avere il controllo del montaggio finale. Con Dunefu un inferno da questo punto di vista, mentre con Velluto Bluè stato un paradiso. Dino ha un amore sconfinato per il cine-ma e una grande energia; se c’è una telefonata da fare non sifa problemi: chiama chiunque in qualunque momento. Hoimparato molto da lui.

Dedica molta attenzione al suono e ha influenzato molto il cinemacontemporaneo per come lo usa.Per me il cinema è questo: suono e immagine che si muovo-no insieme, è questa la sua bellezza. Quando ero giovane vo-levo fare solo il pittore, frequentavo l’Accademia della Pen-nsylvania. Una sera mi sono ritrovato nel mio studio a dipin-gere un giardino di notte e ogni volta che il vento cambiava ladisposizione del mio soggetto, pensavo: sarebbe veramenteinteressante realizzare una pittura in movimento con il sono-ro. Da allora ho cominciato a pensare al cinema. A volte, il

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suono arriva addirittura prima delle immagini a dare qualitàalle stesse immagini. L’importante è che il regista riesca a farsposare bene le due cose, allora i due ingredienti confluisco-no in un tutto che è l’essenza del cinema.

So che uno dei suoi registi preferiti è Fellini. In cosa l’ha ispirato?Mi ha ispirato moltissimo. Fellini ha creato dei mondi che tut-ti noi abbiamo voluto penetrare. Mondi unici e meravigliosi.

Un’idea ricorrente del suo cinema è che basta isolare un dettagliodi ciò che ci circonda per evidenziarne il mistero.Non è un approccio così intellettuale. Provo a esprimermi inaltri termini. C’è il buon senso che deve sviluppare un’idea:l’idea è importante, è come un pesce. Il cuoco non ha fatto ilpesce, lui lo trova già fatto e lo deve saper cucinare. Può farlobene o male o in maniera schifosa. Ma il punto è: bisognaprendere il pesce e poi se sei un bravo cuoco, sai anche cuci-narlo. L’idea è tutto, ma devi mantenerti fedele all’idea e nonpermettere che nulla la deturpi.Tieni gli occhi sulla ciambel-la e non sul buco.

So che sta girando in digitale e che non ha intenzione di tornarealla pellicola. È vero?È vero. Mi sono innamorato del digitale facendo alcuni espe-rimenti sul mio sito internet. Ho sempre pensato che il digi-tale fosse il giocattolo e la pellicola la cosa seria. Ma mi sba-gliavo. Più lavoravo col digitale e più capivo le sue potenziali-tà e mi rendevo conto che la pellicola è in realtà un vecchiogioco per dinosauri: ingombrante, pesante e precario. Il digi-tale non potrà mai raggiungere la qualità del 35mm, ma, infondo, la scarsa qualità per me è un pregio.

Alle nostre spalle stanno scorrendo immagini tratte da VellutoBlu. È vero che nel film c’era una scena a cui era particolarmenteaffezionato in cui c’era una donna con dei fiammiferi sui capezzo-li ? C’è qualcosa di vero?Precisamente si trattava di cerini, non di fiammiferi. La ra-gazza apriva il gambo del cerino, che era di carta, lo leccava ese lo attaccava sul capezzolo. Dopo di che lo accendeva e fa-

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ceva una piccola danza. La scena fece parte del film per po-chissimo; è stata tagliata al montaggio ed è finita nello scato-lone delle parti tagliate, ma so che tutto questo materiale èandato perduto. È accaduto anche con Eraserhead: alcunescene erano state tagliate ma le avevo conservate con cura in-sieme al resto del materiale del film. Poi però la mia secondamoglie ha distrattamente deposto vicino alla porta del garagetutti gli scatoloni che avevo preparato (risate in sala) – non ri-dete perché è un vero incubo – e il netturbino ha pensato be-ne di ritirare il tutto insieme alla spazzatura.

È difficile per un autore come lei lavorare con le grandi produzio-ni americane?Sarebbe facilissimo se mi promettessero il controllo sulmontaggio finale. I soldi, come sempre, sono l’elemento chefa la differenza a Hollywood. Se il tuo film fa cento milioni didollari al botteghino sei sicuro di poter avere il controllo to-tale sul tuo lavoro.

Le capita spesso di improvvisare sul set?È vero che succede, ma succede per diversi motivi. Di solitosono elementi collegati all’idea originale che ispira il film, manon è sempre così. Per esempio, in Cuore selvaggio, l’attoreche doveva interpretare il direttore dell’albergo mi chiamò inlacrime il giorno prima delle riprese perché si era rotto unagamba. Io gli dissi di non preoccuparsi perché per il suo ruo-lo la gamba rotta andava benissimo. Quindi mi sono ritrovatocon tre personaggi maschili, ognuno con la sua infermità. Ef-fettivamente il risultato è stato ottimo.

Mulholland Drive è diventato subito un film di culto. Ho acqui-stato il dvd e ho notato che non c’era il «menu capitoli»: non erapossibile scegliere i capitoli come in tutti i dvd. Mi ha spiegato che èstata una sua richiesta specifica. Come mai?In questo mondo di dvd, va a finire che il film che contengonoè diventato la cosa meno importante. Interessano molto di piùgli extra. E comunque ci dovremo abituare presto a vedere ifilm sul telefono. Non ho voluto i capitoli sul dvd perché trovomolto triste questo smantellamento che il mio lavoro subisce.

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[«Pensate al destino della povera madre di questa creatura, calpe-stata al quarto mese di gravidanza da un selvaggio elefante»: laprima clip che Lynch rivede insieme a noi e al pubblico è tratta dalfilm ispirato alla vera storia di John Merrick afflitto da una neuro-fibrosi che lo rende un’attrazione da fiera, The Elephant Man (ot-to nomination agli Oscar nel 1981). Il mondo vittoriano e dickensia-no è evocato da Lynch con la sicurezza di un paio di tocchi indelebi-li. Il muro di mattoni dove è appesa una fiaccola, le fedine bianchedell’imbonitore, il frac di Anthony Hopkins, il medico che si pren-derà cura del corpo dell’uomo elefante deturpato da ciclopicheescrescenze che sembrano sottoporre l’intera anatomia dell’uomo auna infernale torsione. L’intera scena culmina con un lungo e scon-volgente sguardo dell’attore, letteralmente a bocca aperta, al qualela macchina si avvicina come in punta di piedi. È Lynch stesso a de-scrivere il piccolo miracolo che è alla fine dell’inquadratura.]

Una delle cose che più colpisce di questo film è il nome del produt-tore, Mel Brooks. Come si è trovato a lavorare con lui? Oggettiva-mente fa un cinema molto diverso dal suo.Volevo fare prima un’osservazione su questa scena. In questoprimo piano di Anthony Hopkins c’è il dolly che si avvicina enel momento esatto in cui si ferma, gli spunta la lacrima. È unpiano sequenza e Hopkins, per tutto il tempo della ripresa,mormorava il Padre Nostro fino al punto in cui c’è questomomento di commozione. A quel tempo avevo appena termi-nato Eraserhead, che era anche il mio primo lungometraggio,e imperversavano i cosiddetti midnight movies. Si racconta cheil padre dei midnight movies fosse un certo Ben Barenholtz.Lui vide i primi dieci minuti di Eraserhead e mi telefonò im-mediatamente per avere il film nella sua programmazionenotturna. Ci accordammo subito. E nonostante il film andas-se solo il venerdì e il sabato dopo l’ultimo spettacolo, la lo-candina rimaneva sempre affissa fuori dal cinema; questo si-gnificava mesi e mesi di pubblicità gratuita. Ho amato moltoEraserhead, ma capisco che non sia esattamente un film tra-dizionale. Chi si sarebbe mai sognato che uno come Mel Bro-oks avrebbe scelto, tra tutti i registi, proprio me per dirigereun film da lui prodotto! E chi si sarebbe mai sognato che MelBrooks avrebbe scelto un progetto come The Elephant Man,

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così lontano apparentemente dalle sue corde! Eppure andòcosì: io, David Lynch, da Missoula, in Montana, che dirigo undramma vittoriano prodotto da Mel Brooks. Lui è un tipo ve-ramente speciale. Forse varrebbe la pena di chiederlo a luicosa diavolo gli sia passato per la testa quando mi ha contat-tato. Devo dire che mi ha anche sostenuto fino in fondo, an-che quando riceveva pressioni tali da indurmi a mollare tuttoe rinunciare al progetto. Mi ha sempre appoggiato.

[La seconda scena è tratta da Mulholland Drive ed è esemplare diuna tipica abilità dello stile del cinema di Lynch: la capacità dicreare tensione attraverso il dialogo assurdo ed ermetico tra duepersonaggi. Un personaggio che è il regista del film di cui Mulhol-land Drive segue la realizzazione, insieme a oscure trame e miste-riose macchinazioni che gravitano intorno alle due attrici protago-niste, incontra il produttore che è vestito come un cowboy e lo sotto-pone a indovinelli e giochi verbali che contengono minacce e mor-tali allusioni («Qualche volta c’è una carrozza. Quanti uomini ser-vono per guidare una carrozza?». «Uno». «Diciamo che io sto gui-dando questa carrozza e che se lei corregge i suoi atteggiamenti,può sedere accanto a me!».). La sensazione di irrealtà è costante-mente in bilico tra un’ironia maligna e la promessa di violenza im-minente tipica dei crime movie.]

La sensazione di assurdità nei suoi film oscilla continuamente trahumour e minaccia. Quanto di questo nasce in sede di scrittura equanto invece è creato da lei direttamente sul set?Nasce dall’idea. In fase di scrittura avevo un’assistente bravis-sima che capiva al volo le mie idee e le fermava sulla carta in-terpretandone perfettamente il senso. Mentre le dettavo que-sto dialogo mi sono messo a parlare in modo strano, propriocome il cowboy. E così è nata la scena. Nonostante nella scenasi affermi che un uomo solo può guidare la carrozza, in realtàmolte cose sono se stesse e il loro opposto: ha ragione quandodice che c’è umorismo e minaccia. Nel ruolo del cowboy ab-biamo scritturato Monty Montgomery, che è stato uno dei pro-duttori di Cuore selvaggio e ha una società di produzione chesi chiama Propaganda Films. Inizialmente avevo scelto per

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quel ruolo un vero domatore di tori del Colorado, ma la scenavenne malissimo. Decisi di far doppiare la scena e Monty mifece l’imitazione dell’accento del Colorado in maniera impec-cabile. Così decisi di farla fare direttamente a lui.

[È la volta di una scena di Velluto blu, una delle più famose, in cuiDennis Hopper, nei panni di un criminale psicotico spalleggiato damalevoli scagnozzi, incastra Isabella Rossellini e Kyle MacLa-chlan in un’auto e mentre si inala con una mascherina chissa qua-le sostanza stupefacente, le pizzica i capezzoli come un neonato ra-pace, viene colpito al volto dal personaggio di MacLachlan edesplode in una collera cieca mentre sul tettuccio della macchinauna prostituta di second’ordine ancheggia al ritmo di una ballataanni Cinquanta che si libera dall’autoradio. «Ti spedirò una lette-ra d’amore», urla contro il ragazzo tenuto fermo dai suoi scagnoz-zi, «sai cos’è una lettera d’amore? È il proiettile di una fottuta pi-stola». Sullo sfondo, l’angolo degradato di un suburbio dove nelbuio si avverte il pulsare di una sorda trivella.]

È una scena in cui è tangibile il lavoro particolarmente elaboratosul suono che spesso si avverte nelle inquadrature.È vero, ma a proposito di questo non posso fare a meno dinotare che in questa sala il suono non arriva da dietro loschermo. È una cosa che non va tanto bene. Nel sistema Sur-round ci sono gli altoparlanti dietro lo schermo – destra sini-stra e centro – e poi ai lati e dietro. Può essere molto spetta-colare e coinvolgente, ma se ti porta fuori dal film non va be-ne. Una cosa buona del vecchio sistema Mono, era che il suo-no arrivava statico da un solo punto e non poteva distrarti piùdi tanto. Però è fondamentale, in ogni caso, che il suono arri-vi da dietro lo schermo.

A proposito di questa scena di un film di diversi anni fa, volevochiederle: Fellini diceva che ogni volta che rivedeva il suo film sichiedeva chi fosse quel regista che lo aveva fatto. Non vi si ricono-sceva più. Capita anche a lei?È verissimo. Passa il tempo e ci si addentra in altre cose, altriprogetti. Non dico che dimentichi ciò che hai fatto, ma devi

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spegnere una cosa per passare alla successiva: è un fenome-no molto interessante.

È difficile spiegare davvero di cosa tratti questa scena ma tutte levolte che si guarda si ha l’impressione che parli di una idea chenon riesci bene ad afferrare anche se ti colpisce.Le idee indicano la strada. Può sembrare che non sia così, maquando cominci a scrivere ti accorgi che la cosa di cui vuoiparlare esiste già per conto suo e vuole solo essere scoperta.

E alla fine le domande del pubblico:

Mi piacerebbe saperne di più sul rapporto che si instaura tra lei e icompositori delle musiche originali dei suoi film.Ho lavorato con molti compositori, John Morris, i Toto, ma An-gelo Badalamenti, un grandissimo musicista italo-americano,mi ha veramente portato nel mondo della musica. Con lui houn rapporto così stretto che riesce a mettere in musica le mieparole. Se quello che suona non mi convince, cambio le paroleper descriverlo.Angelo mi ha offerto la possibilità di lavorare inmaniera molto più creativa sulla musica, siamo come fratelli.

Come sceglie gli attori per i suoi film e come li dirige sul set?Cerco di scegliere l’attore giusto. Dopo aver visto le foto, vo-glio conoscerli e a volte ho la sensazione di scorgere qualcosanegli attori che viene incontro alla mia idea. Capita che gli fac-cia recitare una scena, cercando di scegliere il dialogo giusto.Sul set discuto molto con gli attori faccio molte prove ma cer-co sempre di mantenere la mia idea originale. Così come di-scuto la musica con Angelo, allo stesso modo provo a stimola-re un attore a cogliere quello che volevo dire in quella scena.Il talento di tutto il cast deve convergere verso l’idea di base.

Il suo cinema è totalmente libero dalla narratività classica. Lei haparlato molto dell’idea estemporanea che la ispira: nella reiteratapresenza del fuoco e dei fiammiferi in Cuore selvaggio sembra in-dicare qualcosa di preciso, anche perché nulla si fa per caso quan-do c’è una cinepresa che filma.

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Io facevo il cronista nel periodo dei processi. Ricordo benissimoquando Craxi andò al Palazzo di Giustizia di Milano a deporre.Di Pietro, che era piuttosto spavaldo con tutti i politici, con Craxiera un agnellino.È presumibile che Craxi i soldi li abbia usati per fare politica.In qualche modo lui ha rivelato il fatto che il sistema non po-teva essere cambiato.Senza alcun dubbio. E lo stiamo vedendo ora, no? Ormaiquando leggo i giornali mi viene… Non so, non mi piacescontrarmi con quello che leggo. Proprio non mi piace. Per-ché è il segno di un paese che forse rimarrà sempre così.

Sai cosa trovo veramente cambiato negli anni? La progressiva in-fantilizzazione dei cittadini e del pubblico. E questo attraverso tut-ti gli strumenti, i giornali, la politica, il cinema. Lo vedo anche coni nuovi fenomeni politici, come Grillo. Partono dalla stessa infanti-lizzazione del pubblico di Berlusconi: siete dei bambini, non aveteresponsabilità, non è colpa vostra, la classe dirigente è corrotta,ma voi non c’entrate, vi hanno imbrogliato. Troppo semplicismo.Noi italiani abbiamo inventato il fascismo, ma già il giorno dopola liberazione era tutta colpa dei tedeschi. Abbiamo votato per an-ni Berlusconi, che ci ha portato al disastro attuale, ma il giorno do-po il paese si è autoassolto dal fatto di essere stato berlusconiano.È assolutamente vero.

La stessa cosa accade con i film. È diventato tutto un cinema perbambini.Tranne il cinema per bambini, che è fatto molto bene. Negliultimi anni, crescendo mio figlio, ho visto tanti cartoni animati bel-lissimi, pieni di valori etici. Poi vedi film teoricamente per adulti chetrattano lo spettatore come un bambino. Quello che è veramentecambiato nel cinema italiano, al di là dell’aspetto etico, è il modo ditrattare gli spettatori. Nel tuo cinema ci si rivolge a persone adulte,responsabili di ciò che accade, anche del male. È troppo facile e fur-bescamente popolare dire che la gente non ha colpa. Perché non do-vrebbe avere colpa di una classe dirigente che in fondo rispecchia at-teggiamenti diffusi? Quando vai nei quartieri, i ragazzini si identifi-cano nell’uomo di successo, si identificano anche nel delinquente acui vengono date responsabilità istituzionali, e dicono: quello lì, che

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è un mafioso, è rispettato da tutti. Chi ha offerto loro in questi anniun sistema di valori alternativo a «quello lì»?Ormai è come se la gente si fosse abituata all’idea che il pote-re giustifica tutto. Che appartiene a chiunque sia capace dimantenerlo. Diventano degli ammiratori del potere.

Diciamo la verità: il potere, generalmente parlando, fa schifo.Sì, è così.

Ti voglio chiedere ancora un cosa. Quando vai in giro per il mon-do, in America, in Cina, in Sudamerica, in Europa, a parlare deituoi film, come percepisci l’immagine che hanno del nostro cinemae del nostro paese?In giro per il mondo hanno molto rispetto per un certo cine-ma italiano, non certamente per tutto. Però una volta questorispetto era molto più tangibile, era un’adesione culturale,era ammirazione.

Per alcuni anni abbiamo rappresentato veramente un’alternativaal cinema americano.Senza alcun dubbio.

Era un’alternativa di valori e di estetica. Anche i nostri attori,Gian Maria Volonté, Mastroianni, Sordi, la Magnani, erano com-pletamente diversi dai divi americani. È stata una perdita per noi,ma anche per loro, in fondo, perché non avere un’alternativa tispinge a essere più banale, più convenzionale, a rifare sempre glistessi prodotti. Oggi dalle nostre scuole di cinema escono ragazzimolto ben preparati che però seguono una specie di manuale ame-ricano del cinema: come se ci fosse un unico canovaccio uguale pertutti. È anche curioso che noi facciamo film politici imitando quelliamericani, piuttosto che ispirarci alla nostra tradizione.Chi sta facendo in America dei film molto interessanti è ClintEastwood.

Il quale dice di aver imparato tutto da Sergio Leone.E come no! Una volta mi volle incontrare. Io andai, ma non cidicemmo niente. Mi guardava e basta. E io pensavo: ma che

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voleva fare, voleva vedere com’ero fatto? Simpatico, però, unbell’attore e magnifico regista.

C’è in questo momento una storia che ti piacerebbe raccontare, cheti potrebbe riportare dietro la macchina da presa?Qualche anno fa mi era venuta voglia di raccontare Cesare eBruto, cioè la politica e l’idealismo, prendendo anche spun-to da un film che volevo fare molto tempo fa su Che Gueva-ra e Fidel Castro. Ho anche lavorato allo script con La Ca-pria e con uno storico, Fulvio Sampoli. Poi la voglia si è attu-tita, perché non mi andava di fare il film con attori di linguainglese. Adesso, non saprei. Qualche volta mi dico: ma è pos-sibile? Ho davvero chiuso? Sì, probabilmente ho davverochiuso.

Però è affascinante l’idea di raccontare il rapporto tra Fidel Ca-stro e Che Guevara. La storia è piena di queste alleanze tra rivolu-zionari dove uno diventa un po’ Stalin e l’altro va a morire.L’ho anche preparato questo film. Sono andato a Cuba, hoparlato con Castro.Volevo iniziare con la rivoluzione cubana,i 12 sulle montagne. Ci sono ritornato recentemente, tre,quattro anni fa. È sempre un argomento che mi appassionamolto. E che ho riversato nella storia di Cesare e Bruto. Ognitanto mi torna in mente. Sarebbe bello farlo tra le pietre veredi Roma. Un film piccolo. Nel quale non si vedono le batta-glie. Come ho fatto, in parte, con La tregua, in cui ho decisodi non far vedere i mucchi di cadaveri. Certo, mostro i bam-bini mandati nei forni, il fumo che esce dai camini, ma nonho voluto fare come Spielberg, che ha riempito i teatri dicomparse dei detenuti di Auschwitz. Non ci credi alle com-parse di Auschwitz. A quel punto è meglio usare immagini direpertorio. Io ho preferito che ne parlasse Turturro, che è sta-to straordinario.

È un attore meraviglioso.Ed è anche un amico. Mi ha aspettato anni per realizzare quelfilm.

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C’è un’immagine, l’ultima in cui Fidel Castro e Che Guevara sonoinsieme, prima della partenza per la Bolivia. Mi ha sempre colpitoquella fotografia. Sarà la suggestione di sapere come sono andatele cose, ma nello sguardo di Castro c’è una freddezza, come se luisapesse benissimo che stava mandando Che Guevara, suo fratello,a morire ammazzato.Io ho parlato anche con la moglie di Fidel, sono stato accoltodai cubani, mi hanno portato in giro per tutto il paese, mihanno detto che mi avrebbero appoggiato. La verità è che poimi hanno chiesto di poter approvare il film una volta finito. Eio ho detto: no, questo non posso lasciarvelo fare; il film èuna cosa mia e mi stupisce che voi me lo chiediate; voi sietedei rivoluzionari e quindi dovreste rispettare la creatività. Ecosì mi sono allontanato da quella storia. Ma chissà, forse, ungiorno.

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CINEMA IN PENTAGRAMMA“Mentre da giovane ritenevo esistesse una musica

‘assoluta’ e una per il cinema, nel tempo – conl’esperienza – ho capito come tra i due ambiti espressiviesistano convergenze profonde. È cosi che ho musicato

i film di Leone, Pasolini, Pontecorvo, Petri, Malicke De Palma; nella consapevolezza che cinema e musicasono arti della temporalità, la cui alleanza si consuma

nello scorrere di secondi, minuti, ore”.

ENNIO MORRICONE

Ho iniziato a lavorare per il cinema negli anni Sessanta. Aitempi non amavo l’industria cinematografica e sognavo discrivere musica «assoluta» senza vincoli di committenza, co-me i grandi del passato. Era un’idea ingenua, ma questol’avrei capito molto più tardi.In quel periodo intrapresi il lavoro compositivo per il cinemaalla scuola di compositori del calibro di Enzo Masetti, Ales-sandro Cicognini e Franco D’Achiardi, uno sperimentalistavisionario che non dava nulla per scontato e amava rischiare.Un’altra fondamentale palestra fu la radio, dove mi cimentaicon gli arrangiamenti di musica leggera: prima per Carlo Sa-vina e poi per Canfora, Brigata, Barzizza, Angelini, Kramer,Luttazzi e altri eccellenti maestri che arrivavano da Milano eTorino. Consideravo quel mestiere con una certa spocchia euna buona dose di superiorità, ritenendolo eccessivamente alservizio della melodia cantata. E così provavo a riscattarlo, in-troducendo negli arrangiamenti qualcosa che li rendesse au-tonomi rispetto al tema melodico. Era importante che avesse-ro senso in sé, anche al di là dell’esecuzione del cantante.Dopo la radio e alcune incursioni nella televisione, venne ilcinema, anche se non firmai subito le prime partiture. Co-minciai componendo nell’anonimato. Oggi si direbbe che fa-cevo il ghostwriter. Ho «vinto» il Nastro d’Argento per un’im-portante pellicola nei cui titoli non figura la mia firma.All’inizio del 1961, quando mi trovai a lavorare su Il federale,il mio primo vero film, conoscevo già i trucchi della musicaper il grande schermo. Conobbi Luciano Salce nel ’58, men-

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tre arrangiavo per Le canzoni di tutti, una trasmissione televi-siva che realizzava insieme a Ettore Scola. Benché mi apprez-zasse come arrangiatore, Luciano aveva scelto di rischiare af-fidandomi la composizione delle musiche di Il lieto fine, unasua commedia musicale del ’59, che occhieggiava alla rivista,con Lauretta Masiero e Alberto Lionello. Il rapporto si con-solidò ulteriormente quando mi cercò per la partitura di Lepillole di Ercole, uscito nel ’60. La proposta non si concretizzòper lo scetticismo di Dino De Laurentiis, ma ricordo che an-dai a scrivere per qualche tempo a Salsomaggiore, dove sta-vano girando.Con Salce cominciai ad abituarmi alle reazioni del regista:colui che ha l’ultima parola su sceneggiatura, recitazione, fo-tografia, scenografia e costumi, ma che rimane interdetto in-nanzi alla musica. Ciò che viene eseguito al pianoforte finisceimmancabilmente per stupirlo. E c’è da augurarsi che questasorpresa sia virtuosa, perché – in caso contrario – il composi-tore si trasforma nel peggior elemento della troupe.Se con Luciano presi le misure, il confronto vero arrivò conPasolini.

Pier Paolo era un uomo gentile e disponibile, ma non sorri-deva mai, proprio come si vede nelle fotografie. Con me erasempre impenetrabile, impassibile. Una maschera. La primavolta che c’incontrammo per Uccellacci e uccellini, si presentòcon una lista di composizioni di repertorio. Pretendeva chelavorassi su quello schema. Quando rifiutai, palesando la miaindisponibilità ad adattare lavori altrui, ci pensò un attimo epoi stracciò il foglio. Da lì in avanti, per tutta la durata delfilm, mi concesse piena libertà. Dal canto mio gli venni in-contro allorché propose l’inserimento di una citazione daMozart, per il quale aveva una vera e propria mania musicale.In Teorema volle inserire dei riferimenti al Requiem con miemusiche dodecafoniche. Accettai, ma poi lavorai in totale li-bertà, finendo per fargli ascoltare il tema mozartiano dato aun clarinetto. Ho sempre pensato che non obiettò per ragio-ni scaramantiche. Ma col Decameron si prese una logica rivin-cita, descrivendo in sceneggiatura, e poi girando, canzoni na-poletane e altro che mi fece registrare. Acconsentii senza

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protestare e accettai ciò che non avrei mai tollerato se si fos-se trattato del primo film. Per Il fiore delle Mille e una notte ten-tai una qualche reazione, ma il rapporto ormai era sbilancia-to a suo favore. Mi sembrava comunque una «resa» dignitosa,consumata davanti a chi – alla prima e alla seconda collabo-razione – mi aveva dimostrato fiducia.Vidi Salò al cinema. Lui aveva un incredibile pudore e, quan-do lavorammo in moviola, la spegneva o la accelerava per ri-sparmiarmi le scene più crude. Per quel film composi soltan-to un pezzo originale, che poi gli ho dedicato dopo la morte.È il brano eseguito al pianoforte dalla ragazza che, al terminedell’orgia, si uccide buttandosi dalla finestra. Gli altri branisono arrangiamenti di musiche discutibili, risalenti al perio-do bellico ed eseguite da orchestrine sciagurate. Non c’eraniente di particolarmente nobile o artistico in quel lavoro,però evitai di dirglielo.La cosa che ci legava di più era la consapevolezza che cinemae musica sono arti della temporalità, la cui alleanza si consu-ma nello scorrere di secondi minuti ore. Questa cognizione èanche il principale requisito della fortunata collaborazionecon Sergio Leone, un maestro unico nell’arte di dilatare iltempo: grande cantore del passato, capace di valorizzare almassimo l’impatto della musica. Non a caso la mediazione trasuoni e immagini dipende – sempre e comunque – dalla pro-spettiva culturale del regista. Per questo è impossibile stabili-re a priori qual è la musica più adatta per un film. Forse, nep-pure esiste.

A metà degli anni Sessanta iniziai a lavorare con Gillo Ponte-corvo che mi cercò per La battaglia di Algeri. La proposta misorprese e gli chiesi spiegazioni. Mi rispose che si era inna-morato delle musiche di Per qualche dollaro in più di SergioLeone, che considerava straordinarie. Era un’ammissione digusto per nulla scontata in un periodo in cui quelle pellicoleerano unanimemente considerate di «serie b». Il legame conPontecorvo divenne subito paradossale, perché il contrattocol produttore prevedeva la coautorialità del regista nellacomposizione delle musiche.Mi veniva a trovare a casa e mi faceva ascoltare dei temi fi-

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schiati che aveva inciso su un registratore portatile marca«Geloso». Gli rispondevo immancabilmente che erano orren-de e inascoltabili, ma lui insisteva.Un giorno, dismessi fischio e «Geloso», mi cantò due battuteostinate – ripetitive – che mi colpirono. Erano bellissime edevidentemente era destino che un compositore ambiziosodovesse imparare da un regista ostinato. Alla fine realizzai lamusica come variazione di quel tema e Gillo cofirmò il lavo-ro. La pratica della variazione è l’esperienza più alta di questaprofessione.Tuttavia, la mia arrendevolezza doveva essere compensata inqualche maniera. E quindi, quando composi l’introduzioneper i titoli di testa, mentre scorrono le immagini dell’ingres-so delle truppe francesi alla qasba, inventai qualcosa che fos-se esclusivamente mia. Per l’occasione m’ispirai a un tema ditre note (il Ricercare cromatico) di Girolamo Frescobaldi, uncompositore unico, vissuto un secolo prima di Bach e pococonosciuto in Italia. Era il riscatto della mia superbia, o – me-glio – del mio onore creativo e artistico, davanti alla cocciu-taggine di Pontecorvo. Gillo non lo seppe mai.Il problema delle variazioni rimane una delle grandi questio-ni in termini di attribuzione. Continuo a difendere l’autono-mia creativa di chi varia con ingegno. È il motivo per cui leVariazioni di Beethoven sul tema di Diabelli finiscono per oc-cultare il tema stesso e la composizione risultante guadagnaassoluta autonomia.A Pontecorvo sono rimasto legato per tutta la vita, malgrado ilgioco di schermaglie e incertezze che ha segnato la nostra col-laborazione. Questo tipo di confronto, a tratti ludico, è anchestato l’essenza del legame con Petri, un regista che ho amatoinfinitamente. Elio diventò presto un caro amico e la sua mor-te fu una perdita incolmabile. Quando lo conobbi, ai tempi diUn tranquillo posto di campagna – un film di grande qualità cheraccolse i favori della critica senza ottenere quelli del pubbli-co – aveva cambiato compositore a ogni lavoro. Ci tenne a far-melo presente per evitare equivoci e false aspettative sullapossibilità d’una collaborazione a lungo termine. Gli risposiche capivo e che mi andava bene. La cosa commovente è cheda quel momento in poi lavorammo insieme fino alla fine.

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Per Un tranquillo posto di campagna ripresi a suonare la trom-ba. Una parte delle musiche fu il risultato della ricerca delgruppo d’improvvisazione «Nuova consonanza» realizzata du-rante la proiezione del film. Venne fuori un lavoro raro, pre-zioso, giocato al limite, su un’adesione complessa tra sonori-tà e immagini. Soprattutto nelle cupe derive oniriche delprotagonista, un pittore pop interpretato da Franco Nero.Purtroppo la pellicola incassò pochissimo. Mi crucciai alpunto che – più tardi – proposi al produttore di riscrivere lacolonna sonora, senza riuscire a convincerlo. Credo, forse ec-cedendo nell’esercizio autocritico, che certi miei azzardi nonabbiano giovato ad alcune pellicole. Ad eccezione dei lavoridi Dario Argento, in cui la particolarità dello stile legittimaval’effetto traumatico di certe soluzioni: ad esempio l’intrecciodi suoni musicali dissonanti e non.Nonostante gli scarsi risultati commerciali di Un tranquillo po-sto di campagna, la collaborazione con Elio divenne stabile, e sitradusse in un solido legame. Il successo arrivò con Indagine suun cittadino al di sopra di ogni sospetto, una pellicola semplice-mente perfetta, alla quale ho lavorato col massimo di autono-mia. Petri si fidava e non mi vincolava a richieste specifiche.Cominciò a pretendere qualcosa e ad avanzare dei dubbi ne-gli ultimi lavori. Per Todo modo, che conoscevo bene avendoletto il libro di Sciascia, gli proposi una musica difficile, addi-rittura con cinque fagotti e due controfagotti, che intitolaiTotem. Rifiutò la proposta, suggerendomi di scrivere alcunevariazioni sulla Sonata in fa diesis minore per pianoforte diSchubert. Non conoscevo l’opera e così dovetti studiarla perrealizzare tre variazioni per cinque strumenti, tra cui clavi-cembalo, clarinetto, viola e percussione.Neppure quel lavoro lo entusiasmò, ma le variazioni furono«poggiate» sul film successivo: Le buone notizie del 1979. Nonpotrò mai dimenticare il commento, che valeva da epitaffio,di Ruggero Mastroianni, il leggendario montatore di Indagi-ne. Mi guardò e mi disse: «A Ennio, a Moricò, ma qua nun se ri-de più». Dopo quella chiosa eloquente le variazioni furonostralciate e si ricominciò daccapo.Il lavoro con Elio e la sua troupe era così: amichevole, quasifamiliare.

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La composizione per il cinema è un’arte complessa, frutto diun’articolata dialettica tra sensibilità, intenti e culture diffe-renti. La tendenza del regista a riprodurre temi che già cono-sce si misura con le aspirazioni del compositore, desiderosodi sperimentare e inventare soluzioni inedite. Questa diver-genza strutturale si traduce in un confronto incalzante, in unlavoro che progredisce attraverso mediazioni e approssima-zioni fino al conseguimento del risultato finale. Da questopunto di vista il cinema è sempre lo stesso: in Italia come al-l’estero. E alla regola non sfuggono neppure artisti comeBrian De Palma e Terrence Malick.

Quando alla fine degli anni Settanta lavorai con Malick per Igiorni del cielo, gli mandai negli Stati Uniti la registrazioned’una ventina di temi. Dopo aver operato la selezione, vennea Roma per ascoltare la musica con l’orchestra. Anche inquel caso, procedemmo per tentativi: lui pretendendo solu-zioni alternative, io assecondandolo, benché convinto dellabontà delle mie proposte. Rinunciò sempre alle sue idee, main un caso mi fece usare addirittura tre flauti per poi ammet-tere che non funzionavano. E la situazione si ripropose. Si sa-rebbe dovuto fidare maggiormente, anche se il risultato com-plessivo compensò la fatica della ricerca.Malick è l’unico regista con cui ho conservato un rapportoepistolare. In seguito mi propose di comporre per film chenon realizzò mai, fino a La sottile linea rossa, quando ci man-cammo per un’incomprensione causata dal mio agente ame-ricano dei tempi.

Ma non sempre il compositore ha ragione e – a volte – l’intui-zione giusta è quella del regista. Realizzai al pianoforte i temidi Gli Intoccabili in quarantott’ore a New York, quando vidi ilfilm con De Palma.Tutto sembrava andar bene, ma – prima disalutarci – mi fece notare che mancava ancora una traccia:l’ultima, quella del trionfo conclusivo dei detective. Lavorai aRoma e gliene mandai tre, che rifiutò. Allora gliene inviai al-tre tre. E poi altre tre. Anche su quelle manifestò riserve eperplessità. Alla fine trovammo un accordo, ma al momentodelle strumentazioni le divergenze si riproposero. Non ho

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In Cuore selvaggio il fuoco ha un ruolo fondamentale e anche ilfumo. L’accensione di un fiammifero indica potenza, indical’inizio, l’avvio di una cosa. Scatta la scintilla e la fiamma è po-tenza creatrice. C’è anche un lungo lavoro sul suono per sotto-lineare questo effetto, ma naturalmente c’è qualcosa di ben piùgrande nella mia idea rispetto all’accensione di un fiammifero.

Ci ha parlato più volte dell’idea da cui nascono i suoi film. Qual èl’idea che sta alla base di Mulholland Drive?Una delle cose più belle del genere umano è che possediamol’intuitività. È una facoltà in cui il cinema non crede più.Spendiamo molto tempo a spiegare le cose, ma non ce ne èbisogno: Mulholland Drive è lì sullo schermo e può esserecompreso facilmente da te, anche se potrebbe essere diversoda quello che ho capito io. Faccio sempre un esempio perspiegare questa cosa: pensiamo ai registi o agli scrittori morti;non possiamo più resuscitarli e chiedere loro cosa volesserodire. Ci resta solo il loro lavoro. E il loro lavoro è perfetto cosìcom’è perché gli autori lo hanno creato così. Non ha bisognoche vi si sottragga o aggiunga niente altro. Questo è molto im-portante: tutti si ostinano a parlare di cinema. Le immaginiche vediamo sullo schermo vengono già da una sceneggiaturascritta. Una volta che esistono, non c’è nessun bisogno di ri-trasformarle in qualcosa di scritto parlandone all’infinito.

Il suo cinema è caratterizzato da un grande potenziale di inquietu-dine e da una grande attrazione per ciò che è misterioso e terrifi-cante. Fino a che punto lei somiglia al suo cinema?Mi piacciono le tenebre, la confusione e l’assurdo ma mi piaceanche credere che ci sia una piccola porta che mi permetta diuscire da tutto questo per raggiungere un mondo di felicità.

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T A V O L A R O T O N D A 1111 /128

CINEMA: IL PRESENTECOME STORIA

Il cinema italiano continua a fare quello che gliintellettuali hanno smesso di fare: confrontarsi

con la propria storia, anche recente. Lo fa ovviamentecon gli strumenti suoi propri, che sono quelli dell’arte

e della poesia. Due registi, un attore e uno storicosi confrontano sul rapporto del cinema italiano

con la storia del nostro paese.

ANGELO D’ORSI / FABRIZIO GIFUNIDANIELE SEGRE / DANIELE VICARI

(a cura di GIONA A. NAZZARO)

MicroMega: La principale vocazione del cinema italiano, misembra, è di cercare l’incontro con il reale e con la storia. Inquesto senso negli ultimi mesi, attraverso una serie di filmmolto diversi tra loro come Cesare deve morire dei Taviani, Ro-manzo di una strage di Giordana, Diaz di Vicari, Acab di Solli-ma, non dimenticando il ruolo sempre crescente ricopertodal nuovo documentario italiano, abbiamo osservato una ten-

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sione molto forte: porre delle domande al proprio paese,chiedergli conto di ciò che non ci piace e, contemporanea-mente, rivendicare il diritto di porre delle domande attraver-so gli strumenti del fare cinema.Angelo d’Orsi: Potremmo dire che mentre il mondo intellet-tuale, quello che si dedica alla cultura scritta e orale, che nonlavora sugli strumenti della visione, sugli atti della visione, ein particolare sul cinema, ha mostrato negli ultimi anni di ri-trarsi dall’impegno, il cinema ha compiuto un percorso in-verso, anche se noi sappiamo che il cinema italiano ha questavocazione abbastanza consolidata, che possiamo chiamare,senza timore di usare la parola un po’ maledetta, di «impe-gno», ma questa vocazione si è andata accentuando negli ul-timi anni. Da una parte quindi abbiamo il cosiddetto «silen-zio degli intellettuali», per usare la formula felice di AlbertoAsor Rosa, dall’altra parte, invece, il mondo del cinema sem-bra stia, fortunatamente, colmando una lacuna. Occupa, cioè,uno spazio quasi surrettiziamente, perché quello è uno spa-zio in cui gli altri intellettuali dovrebbero esercitare una sor-ta di egemonia, e invece da troppo tempo sono silenti, pernon dire assenti. Fortunatamente il cinema tenta di supplireal silenzio dei chierici portando avanti una propria linea didecifrazione della realtà sociale e politica del nostro tempo (ein particolare dell’Italia di oggi), e di intervento in essa.Fabrizio Gifuni: Io credo che tutto sommato il cinema – co-me anche il teatro – in questi ultimi anni sia stato, da questopunto di vista, una presenza discretamente attiva, all’internodi un panorama abbastanza desolante. In modi e in forme di-verse ma lo è stato. Il tentativo di uscire da una sorta di afasiain cui anche il cinema si era ritrovato è stato fatto. Questaspecie d’inedia nei confronti del gesto del guardarsi allospecchio, ci ha accompagnato per alcuni decenni; poi, da uncerto momento, il cinema italiano si è rimesso in moto ed haricominciato a raccontare il nostro paese. Per quanto riguar-da il mio lavoro personale, il teatro è stato e continua ad esse-re il centro e la misura del mio modo di rapportarmi alla sto-ria di questo paese forse più di quanto non lo sia stato il cine-ma. E questo perché in teatro da moltissimi anni ho deciso dilavorare da attore-autore e quindi di essere anche ideatore

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degli spettacoli che porto in scena. Il progetto «Gadda e Pa-solini: antibiografia di una nazione», cui ho dedicato gli ulti-mi dieci anni di lavoro, assieme a Giuseppe Bertolucci, va to-talmente in questa direzione. Al cinema, lavorando da inter-prete, quindi giocando i ruoli in storie pensate e volute da al-tri, il mio campo individuale d’azione è fatalmente più limita-to. Tuttavia è anche vero che spesso ho scelto di fare negli ul-timi anni film legati a questo filo rosso: film che potesserocontribuire a raccontare cosa eravamo, cosa siamo diventati ocosa in fondo siamo sempre stati.MicroMega: La notazione di Gifuni pone il problema del rap-porto del cinema con la storia, piuttosto che con la cronaca de-gli eventi. Per un autore che lavora nel campo dei documenta-ri e che interviene direttamente sulla materia nuda del reale,come si pone questo problema di dialogare con la storia?Daniele Segre: Il cinema interroga in molti modi la società,spesso anche in film apparentemente molto distanti dai temisociali. Non si può però delegare solo al cinema documenta-rio, termine che amorevolmente detesto, o al cinema d’impe-gno civile la responsabilità di segnalare i problemi. Nutro dif-fidenza nei confronti di un cinema proclama, di un cinemacomunicazione, di un cinema ideologicamente rigido. Credoche possa trascinare e indignare lì per lì, ma poi non lasciatraccia alcuna. Per quanto riguarda il rapporto con la realtà,ritengo che occorra avere la capacità generale di intervenire edi vivere un rapporto con le persone che s’incontrano neiterritori e offrire loro il diritto di parola. Offrire alla storiache s’intende raccontare un senso di universalità affinché sisuperi il confine del reportage e diventi davvero una storiache possa essere utile e nutriente.MicroMega: Com’è stato affrontato in Diaz il nodo del rap-porto con la storia?Daniele Vicari: Diaz è la conclusione, provvisoria, di un per-corso di dieci anni che ho tentato di fare muovendomi tra ilcinema di finzione e il documentario. Condivido l’idea di Se-gre e non credo ci sia una differenza sostanziale, perché nel-l’attività che ciascuno di noi svolge i due linguaggi si parlanoe si rafforzano a vicenda. Ho una tesi: il cinema documenta-rio, così come siamo abituati a chiamarlo in maniera un po’

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restrittiva, sta cambiando dall’interno il cinema italiano. Losta modificando profondamente. Non è un caso che ormaianche dalla critica il cinema del reale stia cominciando a es-sere considerato come la parte più vivace e più attiva dellanostra cinematografia. Detto questo, credo che l’insorgenzadi temi legati alla realtà sociale e storico-politica nel nostrocinema sia dovuta al crollo repentino e verticale di una seriedi approcci ideologici che avevano portato non solo il cinemaitaliano, ma tutta la cultura italiana, a rifiutare l’idea stessa direaltà. Ricordo l’urlo, nelle aule dell’Università La Sapienzadi Roma, di un neo-docente salito in cattedra, di nome OrioCaldiron, A me fa schifo il realismo! di fronte a cinquecentostudenti. Questo rifiuto ideologico legato a una posizionepreconcetta rispetto alla pluralità di forme che può prendereil cinema, ha portato la cinematografia e la cultura italiana alsilenzio più assordante. Adesso sta crollando un sistemaideologico che ha un suo correlativo in una visione economi-ca e politica del mondo capace di irretire tutti rendendo la vi-ta difficile e persino indecifrabile. Da qui nasce un’autocen-sura favorita da questo sistema economico-politico che fa sìche tu esista solo se accetti determinate funzioni, precise mo-dalità d’esistenza. Il crollo repentino di questa visione delmondo così angosciante e asfissiante, sta liberando molteenergie. Non solo nel cinema. Diaz sta dentro questa storia incontinuità con una determinazione un po’ inusitata sia sulpiano espressivo-artistico che su quello produttivo. C’è stata,infatti, la presa di posizione da parte di un gruppo di cineasti– definisco così anche chi produce – di fare comunque unacosa che non era prevista, una cosa che quel sistema nonavrebbe voluto fare. Procacci, mettendo in gioco la sua socie-tà, ha deciso di fare un film che in questo contesto è vietato,ossia non è previsto. Procacci lo fa e permette a un regista diesprimersi liberamente. In ultima istanza la questione del ci-nema d’impegno è legata alla libertà espressiva. La libertàespressiva uno se la prende, la esercita e diventa il nodosciolto dell’analisi del reale.MicroMega: Oggi viviamo in una società nella quale esiste ilfeticcio dell’informazione.Viviamo in una società nella qualela cosiddetta informazione domina il panorama della comu-

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nicazione, del discorso e della riflessione. L’informazione as-solutizzata è diventata uno specchio opaco con il quale il ci-nema deve fare i conti e sembra addirittura che questa perva-sività dell’informazione abbia sottratto terreno al cinema.Come può dunque il cinema trovare una sua nuova posizionein un panorama così fortemente dominato da questo feticciodell’informazione?Vicari: Per quanto mi riguarda questo problema non esiste.Se non nella misura in cui la cosiddetta informazione è parteintegrante di quel sistema valoriale, economico, produttivo dicui dicevo prima. Un sistema che tende a sussumere tutte lefunzioni sociali nelle quali il cittadino diventa solo un consu-matore, una mera funzione all’interno di un contesto. Lastessa cosa vale per chi fruisce dell’informazione o chi la pro-duce. Credo che lo spazio di libertà che ciascuno di noi rubao si concede sia lo spazio reale nel quale ci si muove. Altri-menti non si esiste. Il problema, dunque, per certi versi, nonè questo. Lo dimostra il fatto che negli ultimi trent’anni le ci-nematografie più interessanti si sono sviluppate dentro alcu-ni dei regimi più oppressivi che ancora esistono. Ho la sensa-zione che quindi, al contrario, il cinema abbia tratto vantag-gio proprio dal sistema mediatico dell’informazione pervasi-va. Il cinema è più libero. Più libero dalla cronaca. Non c’èpiù bisogno di costruire dei racconti che riproducano i con-testi con noiosa determinazione nel tentativo di essere esau-stivi. Non è più necessario perché lo spettatore non ne ha piùbisogno. È continuamente collegato con il mondo dell’infor-mazione. Per cui posso raccontare anche una microstoria equesta, come una palla, una volta lanciata muove tutto il re-sto. Segre con Dinamite (Nuraxi Figus) racconta la storia di al-cuni minatori in una Sardegna che forse, se vivi a Taiwan,non sai nemmeno dov’è. Magari non ti poni nemmeno il pro-blema di dov’è quella cosa lì, però improvvisamente quel filmti dischiude un mondo, ti colleghi alla rete e sei lì, in Sarde-gna. Non hai bisogno di vedere ricostruito un contesto politi-co, storico, economico all’interno di quel film, se quel filmt’interessa in qualche modo, se il regista ti trasmette qualco-sa, tu «navighi» e ti informi in pochi secondi.D’Orsi: Ritengo che la forza del cinema oggi sia la sua possi-

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bilità e capacità di farsi storia del tempo presente. Il che nonsi identifica nella cronaca, naturalmente, né è la fuga dalla re-altà. Ovviamente il cinema è un’arte e quindi ogni cineastaha una sua poetica e fa poesia realizzando cinema. Quindi,essendo un’arte e avendo un linguaggio specifico, delle tecni-che proprie, particolari, è chiaro che non si può chiedere alcinema quello che ci aspettiamo da un saggio storico, da unaricostruzione storica. Il cinema, davanti al debordare diun’informazione che non è più, a dire il vero, autentica infor-mazione ma mera comunicazione – si comunica per non in-formare: questa è la verità – sta aumentando la sua presa sul-la realtà. L’aumenta perché dimostra di essere capace di fare,per l’appunto, precisamente, anche se «poeticamente», storiadel tempo presente. A volte si afferma, da profani: siamotroppo vicini agli avvenimenti per parlarne. Non è vero: que-sto è un pregiudizio. È un problema di fonti. Sia per lo stori-co, sia per il giornalista si tratta di raccoglierle, selezionarle,valutarle. In fondo il cineasta lavora su tempi più comodi ri-spetto al giornalista, e ha maggiori possibilità di raccogliere evalutare le fonti. E oggi il nostro cinema sta dimostrandoquesta capacità: fare storia del tempo presente. Cosa che nonsanno fare la gran parte degli addetti alla pseudo-informazio-ne e non possono fare. E persino gli storici di professionespesso non sono in grado di farlo perché hanno essi stessi ilpregiudizio di essere troppo vicini al presente per raccontar-lo. Il cinema, giustamente, non si pone questo problema.Racconta il tempo presente con le sue poetiche e con i suoilinguaggi. Quindi, in qualche modo, riesce a essere un’alter-nativa a questo panorama massmediale contemporaneo,troppo spesso vacuo e inerte.MicroMega: Nei confronti del cinema è presente con mag-giore urgenza una richiesta d’impegno, anche in terministrettamente politici, che non nei confronti delle altre arti. Aun film, a un regista si chiede di prendere una posizione. Aun pittore, a un artista concettuale, questa domanda cosìpressante non è posta in termini così perentori. Perché que-sta disparità di richieste?D’Orsi: Al di là della citazione riportata di Caldiron, nel cine-ma italiano esiste una tentazione che corrisponde a una tra-

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dizione realistica e quindi storicistica. È entrato sottopelle, sevogliamo nel dna del pubblico, di aspettarsi dal cinema unacerta rappresentazione della realtà. L’arte, invece, dopo le fa-si storiche dell’impegno, si è andata distaccando, attraversouna serie di vicende piuttosto deprimenti, ed è diventataspesso esercizio assolutamente fine a se stesso, a mio avviso,per lo più, legato viziosamente a un circuito mercantile, incui il rapporto con il pubblico vale solo nella misura stabilitadal mercato, e il nesso con la realtà, e ancora meno la vogliadi intervenirvi criticamente, è andato impallidendo via via.L’artista inserito nel sistema lavora per un gallerista che a suavolta ha un suo giro di clienti, in un mercato nazionale, loca-le o internazionale. Il cineasta lavora per un pubblico di gen-te comune, che non è costretto a spendere qualche decina dimigliaia di euro per vedere i film di Daniele Vicari o di Mar-co Tullio Giordana o di Daniele Segre. Bastano 10-12 europer andare al cinema. Quindi si tratta di un vero pubblico. Ilcinema ha in se stesso una vocazione che definisco gramscia-namente nazionale-popolare, vocazione e attenzione che l’ar-te oggi non ha più.Segre: Rispetto all’informazione a volte ho la sensazione ditrovarmi di fronte all’avanspettacolo. Si presentano le notiziecome se fossimo sul palcoscenico di una vecchia sala del ge-nere. Si presentano i personaggi dello spettacolo serale,svuotandoli di identità e privando lo spettatore di un puntodi vista critico. Da questo punto di vista il cinema può ovvia-re conservando alta la sua forma di pensiero: pensando allasocietà in modi diversi da quelli appunto dell’articolo digiornale o della tv. Articolando immagini e suoni in modonon stereotipato. Poi, ovviamente, c’è chi ha il diritto di visi-bilità e quindi i suoi film vanno al cinema. Io non ho questapossibilità. Subisco continuamente degli embarghi censori edevo costruire delle forme resistenziali per mantenere alta lamia vivacità intellettuale. Devo trovare delle soluzioni di visi-bilità che siano originali e fuori dalla norma. Non mi lamen-to, ma fa parte del gioco di una democrazia chiusa che man-tiene in piedi solo alcuni detentori della titolarità del poteredella visibilità e di chi decide cosa far vedere. È inutile af-frontare queste questioni ignorando che questa libertà è una

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conquista che bisogna fare giorno per giorno. Certamente ilcinema della realtà offre degli spunti nutrienti al cinema del-la finzione, ma ribadisco: c’è sempre il rischio di cadere neiproclami, nel didascalico e nei santini che devono essereportati ai plebei imboccati da un pensiero monolitico chenon permette loro la libertà di sentirsi realmente protagoni-sti. Questa è una questione delicata, ma che c’entra con ilblocco sociale e politico che vive il nostro paese in merito al-la comunicazione. Non c’è assolutamente libertà. Ci sono po-teri forti che gestiscono anche il cinema e la comunicazione,e di conseguenza c’è un’autocensura che condiziona gli auto-ri per metterli in condizione di mangiare tutti i giorni.MicroMega: Come mai una realtà così vivace come quella deldocumentario italiano, riconosciuta in campo internazionalenei festival di cinema specializzati e non solo, non incontral’interesse degli addetti ai lavori? Questa problematica è stataaffrontata di recente in un convegno, il primo di questo ge-nere in Italia, organizzato dal professor Daniele Dottorini al-l’Università di Cosenza, nell’ambito di un convegno dedicatoal cinema del reale.Segre: Non li definirei addetti ai lavori. Sono lottizzati dallapolitica e inseguono degli ordini di scuderia. Faccio unesempio: il mio film Morire di lavoro, incentrato sugli inciden-ti nei luoghi di lavoro, Rai3 non l’ha voluto. Il capostrutturadi Rai3 mi ha detto: «Noi compriamo e prendiamo solo capo-lavori», negando così la visibilità a un film che ha avuto l’an-teprima alla Camera dei deputati e al parlamento europeo diStrasburgo. Ho fatto una distribuzione capillare sul territorionazionale e ancora adesso sono in giro a proiettare il film perl’Italia. Si tratta di una situazione di blocco politico e cultura-le. Parlo di Rai3, non di Canale 5! C’è stato un totale espro-prio d’identità e di storia. Questo è uno degli elementi su cuioccorre riflettere per capire la deriva del nostro paese. Nonparlerei quindi di addetti ai lavori. Parlerei di funzionari no-minati per eseguire degli ordini che non hanno alcuna abili-tà nel valutare e decidere una strategia culturale e comunica-tiva per quanto riguarda il cinema. Altrimenti i tanti giovaniche affrontano la realtà raccontandola con i loro film avreb-bero dei palcoscenici più significativi e non dovrebbero lot-

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tare tutti i giorni per cercare di dare visibilità ai loro piccoli-grandi lavori.MicroMega: Esiste questa idea del pubblico italiano comenon interessato ai film di un certo impegno. Invece, quandopoi in sala arrivano film come Noi credevamo di Martone, i la-vori di Giordana, diVicari, di Sollima, il pubblico li va a vede-re, perché confrontarsi con certe storie, nonostante i filmvengano distribuiti in poche sale o smontati anche quando lagente continua ad andarli a vedere, fa parte della tradizionecinematografica italiana.Gifuni: Io credo, anche in relazione alla seconda questioneche ponevi sulla pervasività dell’informazione, che il cinemadovrebbe innanzitutto ricordarsi di essere un’arte – popolarema pur sempre un’arte – rimettendo il più possibile a fuocociò che è uno specifico del suo territorio : ossia lo stile, che sitraduce nel cercare di avere uno sguardo il più possibile ori-ginale sulle cose che si raccontano.Al cinema, più che in altriterritori, la questione formale è sostanziale. Ricordando que-sto, da un lato si opera una naturale resistenza alla morsaproduzione-consumo, dall’altro credo si possa marcare inmaniera altrettanto naturale la distinzione nei confronti del-l’informazione e di quel flusso di pseudo-informazioni che cipiovono continuamente addosso in forma di immagini o pa-role. Riprendendo da un altro punto di vista la metafora del-lo specchio, credo che mentre nella vita l’atto di guardarsi al-lo specchio sia un atto semplice e immediato, guardarsi allospecchio al cinema non lo sia affatto. Per arrivare a guardarsiallo specchio al cinema bisogna essersi presi tutto il temponecessario per ricostruire l’immagine riflessa.La diversità degli sguardi rappresenta la vera ricchezza dellapolis. I cinema come i teatri dovrebbero essere piazze apertesulla città. Luoghi d’incontro dove ragionare, condividendoun momento di conoscenza emotiva. Ciò che del resto costi-tuisce il valore aggiunto di un’opera d’arte rispetto agli altricomparti del sistema dei saperi e della conoscenza. Anche ri-spetto alla storia, intesa come disciplina propriamente detta.Certo, questo «nucleo emotivo» che l’arte porta in dote puòcostituire un valore aggiunto ma può anche trasformarsi inuna trappola quando si falsifica in maniera palmare la verità

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o se questo nucleo viene «usato» in una forma ricattatoria. Èsoprattutto da questo che si misura l’onestà intellettuale diun’artista e di un autore.Detto ciò, concordo totalmente con Segre quando ricordache il problema sostanziale resta sempre, per troppi autori,quello di riuscire a far vedere e far circolare i propri film.MicroMega: La conoscenza emotiva di cui parla Gifuni, ciconduce a un nodo cruciale: l’accoglienza riservata ai film diVicari e Giordana. Gifuni è parte in causa perché per la suainterpretazione di Aldo Moro in alcune recensioni è statoquasi beatificato. Sostanzialmente questi due film sono statiaccusati di non rappresentare ciò che è accaduto. Il film diVicari è stato attaccato fortemente da Agnoletto, sul film diGiordana Sofri ha fatto sentire la sua. È come se ci fosserodei limiti per ciò che il cinema può fare e dire. Come se l’au-tore di cinema, il regista, quindi sostanzialmente chi si occu-pa di intrattenimento, non debba spingersi oltre i propri con-fini.Gifuni: Riguardo a questa questione mi piacerebbe poter di-scutere o assistere a un dibattito che si occupasse del rappor-to cinema-storia. Ma temo che, ad oggi, le questioni poste sia-no state spesso molto più piccole. Magari le polemiche chefatalmente s’accendono intorno ai film che trattano della no-stra storia più o meno recente, fossero polemiche con una so-stanza, di qualsiasi tipo, ma con una sostanza… a me sembrache troppo spesso non ce ne sia nessuna. La realtà, ripeto, miappare il più delle volte molto più semplice e piccola. Credo,per intenderci, che sarebbe molto più onesto dire: io ti attac-co e critico il tuo film perché non racconti esattamente quel-lo che io vorrei che tu raccontassi. Perché il tuo punto di vi-sta non è uguale al mio. Queste polemiche mi lasciano quasisempre la sgradevole sensazione che tutto si riduca a piccoleo grandi questioni personali e che i film diventino il pretestoper rimetterle in campo.Vicari: Se posso essere completamente sincero, credo chequelle cui fai riferimento sono delle posizioni legittime, manon entrano nel merito delle questioni che poi trattano i filmdi cui stiamo parlando. Spesso sono legate a dei punti di vistamolto particolari, legittimi, perché spesso si tratta di persone

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coinvolte nei fatti, ma che sono sterili. Il problema però èmolto serio, nel senso che nel momento in cui presuntuosa-mente un regista decide di raccontare una storia che riguar-da tutti o una porzione consistente della società, automatica-mente deve sapere che va incontro a una pluralità di punti divista che non è detto siano aderenti al suo. Non ho trovatonelle polemiche, né nel caso di Giordana né nel mio, elemen-ti in grado di sollevare a un livello più alto la discussione, difar fare al discorso pubblico un passo in avanti. Per cui que-sta cosa qui vive a un livello di superficialità della comunica-zione giornalistica e finisce lì. Il problema vero è cercare dicapire dov’è che va a parare la cinematografia come sistema.Ogni singolo film ha la sua storia e disegna la propria para-bola in base anche a casualità. Per quanto riguarda Diaz, houtilizzato un approccio storico non storicistico, non sempreinfatti il realismo e lo storicismo vanno a braccetto. Ho tenta-to di fare come suggeriva Benjamin: il contropelo alla storia.Ho tentato di guardare le cose in maniera obliqua, non linea-re: quello è il mio spazio di libertà espressivo. Dopodiché è lospettatore che si aspetta di vedere ricostruito il contesto sto-rico, di trovare dentro al film le storie, le parabole personalidi questo o quel dirigente politico che in qualche modoavrebbe o avrebbe dovuto prendere e non ha preso determi-nate decisioni, prendendone altre deleterie per la collettività.Ciascuno proietta la propria frustrazione e il dibattito pub-blico per questo diventa stucchevole. Allora lì dovrebbe in-tervenire la funzione dello storico, dell’intellettuale in gradodi fornire una chiave di lettura che non venga bruciata da undibattito che dura due giorni sulle pagine dei giornali. Sisente la mancanza di un sistema di riviste nelle quali si possafare un approfondimento del dibattito sul cinema. Mancandotale approfondimento, i dibattiti si avvitano su loro stessi e sibruciano con la cronaca.D’Orsi: Vorrei introdurre qualche elemento di discrepanza.Premesso che sono da un quarantennio un ammiratore diDaniele Segre, una sua frase mi ha inquietato: la sinistra cheblocca e censura. Ma quale sinistra? Di quale sinistra stiamoparlando? Sono d’accordissimo con il discorso che fa Segre,e per la conoscenza che ne ho, condivido che la gran parte

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dei personaggi che poi gestiscono il sistema sono «funzionarinominati»: quindi accetto anche la definizione. Dire però cheè la sinistra che blocca, mi sembra ingiusto, storicamente in-giusto. Altrimenti corriamo il rischio di fare delle affermazio-ni come quelle contenute nei temi degli allievi delle scuolesuperiori che scrivono che la sinistra ha governato l’Italia dal1945 a oggi. Non è così, quindi vorrei che questa cosa si di-cesse. Poi, molte di queste polemiche che sono trapelate quisono di persone informate dei fatti che ovviamente hanno lapercezione del testimone. Qui c’è la differenza proprio tra iltestimone e lo storico. Facciamo conto che in questo momen-to consideriamo Vicari o Giordana degli storici, storici deltempo presente, che lavorano con le armi proprie della cine-matografia, quindi con la soggettività. Mi è piaciuto molto il«guardare obliquo» di Vicari: traduce perfettamente la poeti-ca cinematografica. La differenza tra Agnoletto che dice – ov-viamente senza nessuna polemica verso Agnoletto – le cosenon sono andate come le racconta Diaz, e polemizza con Vi-cari, è proprio la polemica di chi è stato testimone di quegliavvenimenti.Vicari si pone in un altro modo: come uno stori-co che fa del cinema. Racconta la storia guardandola in ma-niera obliqua, però se ne tira fuori, per così dire, non è den-tro. Non racconta quel che ha visto, ma prova a ricostruire, asuo modo, con le armi della cinematografia. Quindi si verifi-ca, appunto, lo scarto tra il testimone e lo storico. Nello stes-so tempo però non si può neanche liquidare Agnoletto di-cendo: «Sono cavolate». Oppure rispetto a Giordana, trattareallo stesso modo Adriano Sofri. Premesso che non ho nessu-na simpatia per Sofri, nel film di Giordana effettivamente c’èun po’, mi sembra, l’adesione alla tesi del libro di Cucchiarel-li, libro storicamente poco fondato. Da questo punto di vistaSofri non ha tutti i torti. Dopodiché rimane un fatto fonda-mentale, a mio avviso, nel rapporto cinema-storia. Il cineasta,il soggettista, lo sceneggiatore e quant’altri, hanno nella lorolibertà espressiva quella di guardare in maniera obliqua, sog-gettivamente, poeticamente. Hanno anche, però, il dovere dinon rovesciare la storia. Di non raccontare fatti che non sonoaccaduti, presentandoli nella finzione cinematografica a me-tà strada. Non possono giocare sull’equivoco, altrimenti si ca-

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de in una forma di revisionismo che devo far rientrare nellacategoria (da me inventata, me lo si lasci dire) «rovescistico».Questo è l’unico vincolo che io pongo al cineasta che si occu-pa di fatti realmente accaduti.Segre: Penso che il regista non sia uno storico, almeno nondirettamente. Per quanto mi riguarda, la storia e le storie so-no narrate dai protagonisti e compongono un insieme fattodi tante parzialità. Sta al lavoro del montaggio e al lavoro del-lo spettatore la creazione di un percorso di ragionamento.I miei personaggi sono testimoni, appunto: sta ad altri deci-dere se e come questo mosaico di racconti di volti e di voci,che comunque è frutto di un’orchestrazione registica, tracciuna qualche storia del nostro paese.MicroMega: L’assenza di questo dibattito si potrebbe chia-mare anche in un altro modo. Il dibattito mancante è il terre-no, il territorio sul quale poi le idee fermentano. I film si pro-gettano e si crea una comunità del cinema che certe cose lericeve, discute, rielabora, preparando il territorio per altre co-se ancora. In Italia soffriamo di un ritardo nei confronti delnostro presente. Per esempio il film di Vicari è arrivato conritardo sui fatti di Genova. Quello di Giordana con un ritardoancora maggiore, ovviamente non imputabile ai cineasti, maa un sistema della comunicazione e della cultura che eviden-temente tenta di favorire certe amnesie. Questa mancanza didialogo tra chi i film li fa, vede, discute, lo riassumo nel termi-ne di comunità. Uno dei problemi del cinema, non solo ita-liano ma europeo, è di essere un cinema che non ha più unacomunità di riferimento, comunità intesa nel senso più am-pio possibile.Segre: Questo appartiene alla mia quotidianità. Mi scontrocon il tempo presente, per rispondere a d’Orsi. Sono di sini-stra, ma la sinistra praticamente non esiste. Non esiste più ocomunque ha modificato il suo codice genetico che non cor-risponde più ai bisogni e alle aspettative del popolo. Conquesto bisogna fare i conti. Si può giustificare tutto, ma laclasse dirigente ha fatto delle scelte strategicamente perden-ti, che ho anche raccontato, penso al film sulla chiusuradell’Unità nel 2000 che mi ha creato un sacco di guai. Daquesto punto di vista occorre considerare la realtà dei fatti,

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non vivere dentro un proprio immaginario e interpretarlo ri-spetto a un ideale che non esiste più. Certo che la situazioneè complessa e problematica. Per me è uno stimolo a resistereun giorno in più. A continuare nella mia ricerca finché me loposso permettere. Con la mia società di produzione, che sichiama, non a caso, I Cammelli, animali resistenti, che esisteda più di 31 anni vivo una condizione solitaria. Una solitudi-ne pesante rispetto anche alla capacità di avere visibilità e di-ritto di parola e questo la dice lunga rispetto poi alla condi-zione di libertà che noi possiamo vivere. Adesso sono moltocontento che Feltrinelli abbia deciso di realizzare questo co-fanetto Vivere e morire di lavoro con il libro di Peppino Orto-leva, che dà una visibilità nuova al mio lavoro. Ogni volta sta-bilisco un contatto vero, non astratto, con le donne e con gliuomini che hanno necessità di capire e anche di avere delleemozioni forti, adeguate a colmare le loro necessità di sapere.Ed è difficile, è molto difficile. Io stesso sono sorpreso chedopo tanti anni continuo a resistere, perché vi assicuro cheho le porte chiuse. Non propongo neanche quasi più, agisco,intervengo, perché tanto perderei solo del tempo a cercare ditrovare degli interlocutori con i quali condividere dei viaggi.MicroMega: Quest’anno, nell’ambito del festival svizzero Vi-sions du Rèel sono stati presentati due documentari, La fab-brica è piena – Tragicommedia in otto atti di Irene Dionisio eCadenas di Francesca Balbo. Una fabbrica chiusa, una ferro-via locale in Sardegna. Storie italiane accolte con interesseda un pubblico numeroso che vede questi film e si meravigliaquando i registi raccontano che tornati in Italia questi filmquasi scompaiono mentre poi vengono invitati per esempionelle facoltà statunitensi. Sono film di registi alle primissimearmi, armati di una piccola videocamerina digitale, che han-no investito denaro loro. In questo senso credo che Segre ab-bia ragione: polemicamente, un certo tipo di sinistra, quellache si occupa di cultura e così via, non ha fatto e non fa abba-stanza per difendere questo tipo di lavoro e produzione.Segre: Quella era la linea, ammazzare e annientare il senso diuna storia. Questa è la questione che ha precluso la possibili-tà del diritto di esistere a molti giovani, e non solo giovani, ci-neasti che si occupano della realtà italiana. È stato negato il

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diritto di parola. Questo deve essere chiaro e devono essereristabilite le priorità della comunicazione, di quello che il ci-nema può e deve raccontare. Non è possibile che si giunga al-l’autocensura.MicroMega: Questi giovani cineasti italiani rappresentanouna forza del rinnovamento a costo zero, una scommessa, sesi vuole, anche a livello industriale. Si tratta di gente che in-veste per la maggior parte il proprio tempo, denaro, futuro inprogetti che se valorizzati potrebbero creare confronto, pub-blico e lavoro.Vicari: Su questo tema ho una visione dovuta anche alla miaformazione. Sono allievo di uno storico e critico del cinemache si chiamava Guido Aristarco, che fa parte di una tradizio-ne per certi versi molto diversa da quella da cui per esempioviene Giona Nazzaro, che è quella di Filmcritica. Entrambeperò ritengono il cinema cultura viva, come un fatto che nonsi esaurisce con la produzione del film. Quindi il cinema in-teso anche come industria e organismo che produce delle co-se. Da questo punto di vista ho sempre tentato in manieramolto forte un rapporto col mondo produttivo. Non dobbia-mo chiuderci dentro un recinto, anche quando il recinto di-venta protettivo per il proprio modo di concepire il cinema.A volte essere un’isola galleggiante, come avrebbe detto Eu-genio Barba, ti salva, altre volte ti riduce al silenzio. La miabattaglia, come cineasta, è di trovare sempre un punto di in-contro con chi sul piano produttivo può dare forza ai mieiprogetti. Purtroppo è molto difficile, come notava Segre. Lasituazione produttiva è talmente complessa, troppo legata afenomeni politici, addirittura ai partiti politici. Piena e inzep-pata di funzionari che non sanno bene nemmeno di che cosaparlano e che invece sanno benissimo cos’è che non devonofare. Se instauri una dialettica con un produttore, le tue ideeriescono ad avere delle gambe che altrimenti è difficile avere.La «politica» di ciascun regista si misura anche con quest’at-titudine. Che è una cosa complessa, perché quest’attitudineti porta a discutere anche le tue idee, a metterle in crisi, te-nendo presente il punto di vista di un produttore che ha del-le esigenze diverse. Però quando si trova la sintesi, riesci arompere la barriera.

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MicroMega: Vicari, materialisticamente, ci ricorda che la po-litica del film è la politica della sua produzione. Questo ponein prospettiva eventuali rapporti, domande che si pongonoalla storia del proprio paese e così via. Eppure la produzionecinematografica e televisiva degli Stati Uniti ha una capacitàdi interfacciarsi con la storia recente del proprio paese che anoi manca. Faccio solo un paio di esempi: la serie tv The WestWing, che di fatto ha anticipato la presidenza Obama e rein-ventato il trauma del 9/11 e ancora la serie della Hbo, Treme,dedicata al post-Katrina di New Orleans che porta delle criti-che durissime alla presidenza Bush e alla mancata politicadegli aiuti. Come mai in Italia, dove si consuma tanta televi-sione, non si riesce ad avere un rapporto così fecondo con latelevisione come ce l’hanno negli Stati Uniti, che pure vivo-no in una realtà completamente dominata dalla tv?Vicari: La critica di Daniele Segre io la estendo al sistemapolitico. Non mi fermerei alla considerazione del fatto che lasinistra ha fatto o non ha fatto delle cose. Diciamo che il si-stema politico in Italia ha appoggiato tutta la propria potenzadi fuoco e tutti i suoi interessi sul sistema televisivo. Il siste-ma televisivo italiano attuale rappresenta le aspettative e laprogettualità di quel sistema politico. Questo sistema politicoha schiacciato un’organizzazione industriale classica che inqualche modo abbiamo avuto in Italia fino degli anni Ses-santa quando si producevano 350 film all’anno e si poteva af-fermare che esisteva un’industria cinematografica che avevaun’interlocuzione vera con la televisione. Ma non era la tele-visione, era qualcosa che interloquiva con il sistema dellaproduzione radiotelevisiva ma non esauriva tutta la propriafunzione in relazione alla tv. Poi, questa è una questione dicarattere squisitamente storico, a un certo punto il sistemapolitico italiano ha deciso di investire tutto sulla televisione,che sia privata o che sia pubblica purtroppo non fa alcunadifferenza, e il modo in cui si è costruita la televisione pub-blica e privata in Italia negli ultimi 30-35 anni, forse anche40, ha fatto sì che la produzione culturale dentro il sistemacinematografico e televisivo divenisse progressivamente fun-zionale alla propaganda ufficiale. È accaduto quello che suc-cede nei regimi autoritari. La differenza profonda con gli

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Stati Uniti è che la produzione cinematografica e televisiva èbasata su un prodotto unico: il cinema è diventato serventenei confronti della tv e non ha più esercitato una propria au-tonomia. Le tv legate a doppio filo al sistema politico e allebanche, sono diventate dei modelli di costruzione del con-senso, solo ed esclusivamente questo. Negli Stati Unitid’America la pay tv, le televisioni e il cinema nazionale, consi-derato appunto come un’industria strategica, hanno conser-vato la loro autonomia. Dentro questi sistemi, che non sonomeno duri del nostro, è più facile muoversi per la quantità,l’enormità della produzione e, di conseguenza, si possonotrovare delle vie di ingresso più semplici, ma non è che ci siameno controllo. Gli Usa hanno una grande differenziazione,una cosa che esiste anche nell’industria automobilistica. Sichiama differenziazione del prodotto. Ecco che la serie tele-visiva della Hbo si rende autonoma rispetto alla serie televisi-va classica della televisione generalista o al film per il cine-ma, trovando la propria strada. Alle serie a cui hai fatto riferi-mento, se ne potrebbero aggiungere almeno altre dieci, nonhanno niente da invidiare al cinema in quanto a elaborazionedel linguaggio e non hanno nulla da invidiare alla televisionein quanto a capacità di raggiungere un pubblico. Noi tuttaquesta roba non ce l’abbiamo. Ecco perché da noi nel cinemala libertà espressiva e creativa s’inabissa sotto il livello dellaproduzione media. Quella ricchezza di formati ed esperienzein Italia bisogna cercarla underground. «Sottoterra» trovidelle esperienze straordinarie, appunto come quella di Se-gre, ma anche come quella di registi più giovani, magari suoiallievi al Centro sperimentale.Segre: Adesso mi hanno licenziato.Alberoni mi ha licenziato.Vicari: Però ne hai avuti un bel po’ di allievi.Segre: Moltissimi, non solo al Centro sperimentale, ma an-che all’Università di Pisa e da altre parti. Sono molto d’accor-do su quello che ha detto Daniele. Questo dipende dalle stra-tegie delle scelte socio-economiche e politiche forti. Io hol’impressione che la sinistra in genere continui a sottovaluta-re l’importanza strategica di quelle che un tempo si chiama-vano sovrastrutture e che oggi sono una componente econo-mica fondamentale, oltre che potentissimi creatori di imma-

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ginario. Quindi occorrerebbe una grande spinta in questosenso. Ma questo è un discorso più generale, sulle responsa-bilità di un’intera classe politica nei confronti della cultura,dell’arte, ma anche della scuola, la cui importanza mi paresottovalutata da tutti. Si può prendere ad esempio il Centrosperimentale di cinematografia, dove io ho insegnato per ben17 anni, con una grandissima produttività e con tantissimi al-lievi che hanno frequentato il mio corso «Cinema della real-tà». Centro sperimentale che ha svilito la sua identità cine-matografica, che adesso sembra al servizio della televisione,ma della pessima televisione. La scuola invece deve essereelemento fondante per la costruzione e il radicamento di unqualcosa che deve rappresentare anche uno sbocco economi-co produttivo per il nostro paese. Probabilmente il cinema inItalia non è mai stato un’industria, l’esempio che Vicari face-va degli Stati Uniti è tutto qui: lì è un’industria, qui c’è altoartigianato in certi casi, ma in altri c’è il totale asservimento aprodurre prodotti omologati, quando non di regime.D’Orsi: Qui bisogna guardare proprio alle origini storiche,cioè l’Eiar. La radio in Italia nasce come Eiar nel 1924, nascecome strumento di propaganda di un regime politico, di unregime che sta cominciando a diventare totalitario. Questo èil vizio d’origine che poi ci porta alla televisione attuale.

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THEO“Angelopoulos era uno che pensava veramente in grande

perché riteneva che il cinema dovesse rispondere in grandea enormi interrogativi o rilanciare grandi interrogativi suuna scena enorme, senza confini. Ecco, se devo scegliere

un’emozione particolare tra le tante che ho avuto lafortuna di provare lavorando con Theo, opto per questa.Mi sono sentito attore in una scena immensa. Una scena

della storia. Una scena del destino”.

FABRIZIO BENTIVOGLIO / AMEDEO PAGANITONI SERVILLO

(a cura di MALCOM PAGANI)

L’ufficio era un riflesso della giovinezza. Delle prime notti feroci,circondati dal fumo e dai fuochi fatui della creazione, a parlare didissolvenze, maestri e aspirazioni. Quattro stanze nel quartiere de-gli studenti, gli odori di kebab, le foglie al vento dell’autunno gre-co (non più estate e non ancora inverno) i volti stravolti dei collabo-ratori di una vita e una targhetta arrugginita alla porta che untempo fu in similoro. Un pellegrinaggio silenzioso di barbe bian-che, donne vestite di nero, ragazzi più vicini ai vent’anni che ai

omaggio a Theo Angelopoulos

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trenta. Le figlie di Theo a salutare il padre per l’ultima volta. Sulluogo di lavoro. Con gli occhi chiari, vitrei, smarriti. L’ostensionelaica di Theo. La sua santa povertà. Una vecchia moviola, moltiposter alle pareti, una porta chiusa su venti metri quadri utili acontenere decine di premi, fotografie, pergamene. Palme, orsi, leo-ni. L’esistenza di Theo Angelopoulos, la sua testimonianza. Il cine-ma che ti porta altrove e poi chiude il cerchio nel luogo in cui tuttoera partito, nella città riabbracciata dopo l’esilio, all’inizio deglianni Settanta, quando i colonnelli erano già transitati e urgeval’ultimo giro di carrarmato, l’unico possibile, il talento della Gre-cia. Le idee. Ne aveva tante, il regista applaudito a Cannes, nel1975 per La recita e – dono e lusso – tantissime seppe realizzarne.Compiendo il suo destino, imponendo il ciclo della storia patria,del topos e della tragedia per spiegare l’universale. La paraboladegli uomini, il ripetersi dei delitti, la solitudine, l’arbitrio, la soli-darietà, la speranza.Theo Angelopoulos era un persona seria, manon seriosa. Sapeva ridere, ma anche incupirsi. Sapeva concen-trarsi. Con la testa nell’opera. Con l’assenza creativa «Theo sta in-ventando, non vedi? È da un’altra parte». L’obiettivo chiaro. Nondemandava, o lo faceva pochissimo, perché il suo film avrebbe do-vuto restare. Con il suo nome. Un vessillo di diversità. Un segnopreciso, unico, personale. Non vuota messa in scena, ma definizio-ne. Non vezzo intellettuale, ma cosmogonìa. La strada, lo stessoasfalto che se l’è ripreso mentre su un’arteria di periferia prepara-va una scena del suo affresco incompleto, L’altro mare, era stata ilterreno per guardare al di là del confine. E oltre la siepe, cogliere ifrutti avvelenati delle guerre di potere e di quelle tra poveri, pla-smare il senso profondo di ciò che a un primo sommario esame sen-so non poteva averlo. C’era il cinema, l’amore per la scintilla ini-ziale (come in Lo sguardo di Ulisse) e l’incapacità di dissimulare.Nel 1995, Angelopoulos portò a Cannes l’epopea balcanica che vi-de le ultime corse di Gian MariaVolonté. Erano a Florina, in Gre-cia, Theo e Gian Maria. Avevano parlato, ragionato, bevuto vinofino alle tre di notte. Volonté non si svegliò più e Theo gli dedicòl’opera tenendo tutti desti pochi mesi dopo, con un manifesto di im-pensabile azzardo e gigantismo, naturale candidato alla Palmad’oro. Vinse invece Kusturica con Underground. I due si detesta-vano. Theo trovava disonesta la visione di Emir. Artefatta la sua

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versione. Pelose le sue convinzioni politiche. Brutto il film. Entrò insala grande, con uno di quegli smoking che nella vita vera preferi-va sostituire con un maglione di incerta eleganza. Theo era per lasostanza. Entrò convinto di aver trionfato. «È fatta Theo, stavoltaè fatta». Si sedette felice con la controllata euforia di Angelopoulose gli toccò invece il secondo premio. Attraversò rapido la sala, salìle scale e disse la verità: «Mi ero preparato un discorso per la Pal-ma, mi dispiace, ora non so cosa dire».Venti secondi netti. Ritornòal proprio posto, incazzatissimo. Anni dopo Kusturica ammise di«aver goduto» con parole da ultrà. Theo venne ricompensato nel1998 per L’eternità e un giorno. Per l’episodio del 1995 a Theotoccarono critiche e accuse di antisportività. Non era vero, perchénon poteva essere un soprammobile di pregio da spolverare, lo sco-po di tutta quella ricerca. Theo amava l’Italia, così vicina e cosìlontana. Ammirava i suoi attori e i filosofi di provincia come Toni-no Guerra, uno che in campo di concentramento, quando le esigen-ze non rappresentavano vizio, ma disperazione, davanti alla fame,seppe cucinare tagliatelle immaginarie e accudire i deportati conla fantasia: «Tonino, mi è piaciuta, me ne daresti ancora?». A Theobastava poco. Pensare il film, chiamare gli scudieri di sempre, par-tire. A ogni viaggio di Angelopoulos, un anacronismo. A ogni av-ventura, la propria eversione. Statue di Lenin a spasso sul Danu-bio, gitani in festa intorno alle roulotte, bibliotecari in fuga sepoltidalla bombe, bambini persi nel bianco pane della nebbia. Dirada-ta la foschia, in fondo alla scena, c’era il basco di Theo. Il megafo-no al collo, l’ottica in tasca. Le lenti pulite, lucide, specchiate.

MicroMega: Theo il pensatore ruvido. Il regista dall’umori-smo sacrificato alla riflessione. La Cassandra vaticinante, involo costante sulle distorsioni della contemporaneità. Comefu il vostro primo abbraccio con le leggendarie asperità ca-ratteriali di Angelopoulos? Le impressioni del principio, rive-larono con il tempo un uomo diverso da quello che vi aveva-no descritto?Fabrizio Bentivoglio: Non ricordo esattamente l’anno, macredo fosse il tramonto del 1995 o al più tardi l’inizio del1996. Il film per cui Angelopoulos mi propose un ruolo,L’eternità e un giorno, Palma d’oro a Cannes nel 1998, era an-cora distante. Sul carattere di Theo c’erano narrazioni mito-

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logiche, da Vietnam. Mi avevano preparato a dovere. Come seinvece dell’artista stessi andando a incontrare l’orco delle fia-be: «Stai attento alle cose che dirai». Invece trovai un sogna-tore. Un omino che giocava con la poesia e osservandoti, pa-reva ti trapassasse da una parte all’altra. Aveva uno sguardoprofondo, perforante, intelligentissimo, avevi veramente il so-spetto di essere radiografato, studiato, valutato. A mediare tranoi, le distanze geografiche e quella della lingua, fu una vec-chia audiocassetta. In L’eternità e un giorno avrei dovuto inter-pretare un poeta, Solomos, parlando in greco, recitando unpasso in lingua madre, a memoria.Theo – i tempi erano quel-li – lo registrò sull’audiocassetta e me lo inviò. Io lavorai sul-la pronuncia, consapevole che quando ci saremmo rivisti, co-me sarebbe potuto accadere per il provino di un neofita,avrei dovuto stupirlo, fargli sapere che meritavo la sua fidu-cia, rassicurarlo sulla scelta. Fissammo l’appuntamento a Sa-lonicco, mesi dopo. Emozionato, gli feci sentire i frutti delmio lavoro. Lui ascoltò. Respirò. Poi disse: «Sembra che tucapisca perfettamente quello che dice il poeta, qualcuno po-trebbe persino sostenere che tu sia greco». Poi sorrise. Allamaniera di Theo, dietro gli occhiali, con gli occhi soddisfatti.Il suo modo di ringraziare. Un complimento pazzesco.Amedeo Pagani: I versi di cui parla Bentivoglio sono quellifondamentali della koinè greca, diventati poi inno nazionalee propulsori della nuova lingua che in un lungo processoavrebbe sostituito l’antica.Bentivoglio: Il passo descriveva un cielo stellato che cedeva ilcampo alle prime luci dell’alba. Ancora me la ricordo la poe-sia. Quanti anni sono passati, Pagani? Con le cose importantiaccade così. Indipendentemente da quel che vuoi lasciare daparte, per fortuna, non dimentichi. Non a caso il mio debuttoalla regia si intitolò Tìpota. Parola greca. Filiazioni.Pagani: L’eternità e un giorno, come tutti i film di Theo si rive-lò un’avventura straordinaria.Viaggio e cinema. Una notte citrovammo sulle sponde di un lago ghiacciato, al confine fratre piccole nazioni. Girammo in una minuscola chiesa postaal centro del lago, bassa bassa, così bassa che a malapena cistavamo dentro io e te Fabrizio, che eravamo lievemente più

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alti della media. Alle quattro e mezzo-cinque di mattina, conla nebbia, gli aironi e gli animali acquatici che venivano fuorial rumore del ghiaccio spezzato dalle barchettine fantasmamesse in scena da Theo, venne filmata una scena sublime.Bentivoglio: C’era un carrello di 40 metri, ma Servillo, ti deviimmaginare non il carrello che usiamo noi «leggero», pensaai binari di un treno.Toni Servillo: Sì, me l’hanno detto, me l’ha raccontato ancheTheo stesso.Bentivoglio: E dato che il carrello mano a mano scopriva i bi-nari del treno, dopo una sola ripresa andava tolto e rimonta-to. Un lavoro enorme che a Theo, intenzionato a girare conuna luce a cavallo tra la notte e il giorno, consentiva due soleopzioni. Girare una scena al tramonto e una all’alba. Così an-dò. Dopo il rompete le righe della sera prima andammo adormire. E all’alba del giorno dopo ci trovammo in silenzio,nella stessa posizione di poche ore prima, perfettamente con-sapevoli di ciò che avremmo dovuto fare. Theo disse sola-mente un impercettibile «azione» e poi tutto andò per il ver-so giusto, come per magia.MicroMega: L’incontro di Toni Servillo con Theo invecequando avvenne? A teatro?Servillo: Magari, sarebbe stato un onore. Ho incontrato An-gelopoulos nella primavera del 2011. Ero impegnato sul setbrindisino di Daniele Ciprì e Giorgio Magliulo, il produttoredel film, mi disse distrattamente: «Ti vorrebbe offrire un ruo-lo Angelopoulos». Quella che pensavo fosse una barzelletta,si tramutò in realtà. Che il regista che aveva folgorato me e lamia generazione con un film fondante come La recita, venis-se appositamente dalla Grecia per me, in Puglia, a casa delsuo storico produttore italiano, Amedeo, per conoscermi,rappresentava una rara emozione. Per prepararmi lessi infrancese e in italiano il copione di L’altro mare, il film cheTheo mi avrebbe proposto di interpretare. Edotto sul tema,andai con Angelo Curti, Giorgio Magliulo e Alessandra Acciainella casa salentina di Amedeo. Theo ci aspettava sotto unulivo, seduto. Ebbi subito l’impressione di trovarmi di frontea un magnifico ossessivo, avviluppato dentro a una sfera spe-culativa totalmente legata al risultato drammaturgico della

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sua opera.Theo era curioso. Mi scrutava con lo sguardo di unpensatore, di uno abituato a frequentare idee e pensieri. Unfilosofo con la dimensione straordinaria dei grandi ossessi:Bergman,Tarkovskij, autori che coincidono anche fisicamen-te con l’opera stessa che stanno progettando. Non vi furonopreamboli, bevemmo un bicchiere di vino, poi Theo entròimmediatamente nel merito di quello che saremmo andati afare e si aspettava da me. Il suo ultimo film, un film che avevaal centro la Grecia, la sua terra, oggi al centro del dibattito so-ciale e culturale nel mondo. Sentiva la responsabilità di cosaavrebbe detto l’artista al suo paese, dall’alto della sua autore-volezza, in un momento così drammatico.Theo, l’uomo che èmorto a 76 anni da un momento all’altro, per me è stato unpadre dolce. Mi ha guidato con affetto non esteriore, protettonel corso delle riprese con delicatezza e coinvolgimento. Ab-biamo avuto un dialogo serrato. Continuo. Durante la lavora-zione del film, mi chiamava in albergo di prima mattina, poimi invitava a scendere in un bar di Atene a discutere. Era ica-stico: «Vediamoci, parliamo del personaggio». Non è così fre-quente nella relazione tra interprete e regista, il desiderio ditrascorrere molto tempo con il protagonista da parte del se-condo. Theo era di aspetto severo, ma sapeva ottenere con le-vità il massimo dai suoi attori e dai suoi personaggi. Ho pas-sato molti mesi con un signore nella cui testa bollivano mol-te idee del mondo, dello stare su questa terra e delle relazio-ni tra persone.Theo era uno di quegli artisti che non separa-no l’arte dalla vita. Un’ossessione febbrile legata al lavoro.Ovunque fosse,Theo era sempre in compagnia della sua ope-ra. Questa simbiosi diventava sul set straordinaria chiarezzadi idee e capacità strategica di dirigere. Theo era un uomoprofondamente etico. L’idea stessa del suo cinema e l’esteticatradivano una posizione morale.Pagani: Per il mio primo incontro invece fu complice l’amicoTonino Guerra. «Devo conoscerlo a tutti i costi», gli dissi. ETonino, in un baretto sotto casa sua in piazzale Clodio, mi ac-contentò lasciandoci soli. «Fate voi». Mi hanno commosso iprimi ricordi di Bentivoglio e Servillo perché la mia primaimpressione con Theo fu la stessa. Aver incontrato un’intelli-genza prodigiosa. «Voglio fare un film con lei», azzardai. Lui

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mi diede un copioncino di 12 pagine, Paesaggio nella nebbia.In pochi mesi, Theo girò l’opera e a Venezia, era il 1989, ilfilm vinse il Leone D’Argento. Non ci lasciammo più.Un’amicizia trentennale. Non ho smesso di ammirarlo. PerTheo, come in quel film di Nanni Moretti, le parole sono sta-te sempre importanti. Mai avrebbe detto una stupidaggine invita sua, una frivolezza e la memoria di Toni Servillo sull’ar-gomento è precisa. Theo viveva per la sua arte, nulla lo inte-ressava di più. Una volta, durante Lo sguardo d’Ulisse, si sentìmale a metà della lavorazione: «Mi divora, mi divora». Avevaun rapporto più che fisico con il suo film.Ti telefonava a no-vembre: «Vieni che comincio a sentire l’umidità». Era un co-dice. Umidità per lui significava chiarezza. Ispirazione. Azio-ne. Si rinchiudeva in una casetta al mare, a «Mati» e comin-ciava a leggere fogli scritti regolarmente a mano. Il suo filo dadipanare, la sua sceneggiatura da sviluppare.Servillo: Theo appartiene a una generazione di registi che, ri-spetto a certo cinema striminzito di oggi, inseguiva un limiteideale che andasse oltre le stesse possibilità dell’artista. Uncinema che sprecava, che si vendeva senza risparmio e ricava-va energia dai suoi stessi fallimenti. Parole oggi assolutamen-te fuori dal vocabolario dell’industria cinematografica. Spre-co, fallire, ideale, trascendenza anche… è il cinema di Bu-ñuel, è il cinema di Fellini, è il cinema di Tarkovskji, è il cine-ma di Ozu e naturalmente di Theo. Gente che non pensava alcompiacimento del pubblico o all’effetto consolatorio di faci-le rispecchiamento tra spettatore e autore, ma provava a tur-barci, stupirci, superare la frontiera del banale.MicroMega: Marc Bloch sostiene che la storia analizzi il pas-sato in funzione del presente e il presente in funzione delpassato. Mi pare di riconoscere la stessa summa filosofica(andate, ritorni, trasvolate spaziotemporali) nel cinema di An-gelopoulos. A iniziare da La recita, il film che nel 1975 lo rive-lò al mondo.Servillo: Da uomo di teatro che si trovò con Mario Martone,Angelo Curti e Antonio Neiwiller a guardare La recita alloscopo di preparare con Teatri uniti «La seconda generazio-ne», l’opera «brechtiana» di Theo è stata fondamentale inquesta relazione incessante di suggestioni e rimandi con la

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tragedia greca e con la riflessione sui grandi miti fondantidella civiltà.Bentivoglio: Ero appena uscito dalla scuola del Piccolo, miero nutrito di Brecht e di Shakespeare e un pomeriggio conCaterina D’Amico andammo a vedere La recita. Per un giova-ne teatrante vedere quel film era la conferma che stavamo fa-cendo la cosa giusta. Allora sembrava che si sarebbero potu-te vedere altre simili dimostrazioni di talento siderale. Il tem-po invece, si è poi incaricato di disilluderci. Di talenti comeTheo ce n’erano pochissimi.Pagani: La recita è intrisa di storia, un tema fondamentaledella cinematografia di Theo. Era l’unico che in un solo pia-no sequenza riuscisse a descrivere epoche diverse. Accade inLo sguardo di Ulisse e in I cacciatori.MicroMega: Avete parlato di lezione brechtiana, e quindi co-me Brecht si chiede se siano stati i re a trascinare i blocchi dipietra utili a costruire Tebe o se il giovane Alessandro allaconquista dell’India fosse solo, così in qualche modo, conforme diverse e mezzi lontani dalla poesia, ma non così dissi-mili, anche Angelopoulos ha posato il proprio sguardo sugliultimi, oggetto principe della propria indagine.Servillo: Per formazione culturale, appartenenza politica, ra-gioni anagrafiche e, non ultime, squisitamente intellettuali,Theo apparteneva come uomo a quella generazione di perso-ne che credevano che il popolo fosse un agente sulla scenadella storia. Quando lo vedevo girare in un’Atene che misembrava anche per lui irriconoscibile, osservavo un indivi-duo che con fatica si riconosceva in questo mondo. Il para-dosso è che questo suo «brechtismo» ha conosciuto, durantela realizzazione di L’altro mare, l’amarezza. Nel film si intrec-ciava il destino del mio personaggio, con quello di una figliateatrante attiva in una compagnia che metteva in scena L’ope-ra da tre soldi.Theo si vide negare i diritti d’autore dalla fami-glia di Brecht e l’evento, voglio dirlo con molta forza, lo gettòa dieci giorni dalla sua tragica scomparsa in uno sconfortoche un artista come lui, così intimamente legato a Brecht,non meritava. Era molto amareggiato e anche per questo, fa-ticava a riconoscere le comparse di un mondo che non capi-

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va più. Si diceva: «Ma come, proprio a me che ho fatto diBrecht un faro artistico vengono negati i diritti di utilizzodell’opera?». Per Theo le moltitudini influenzavano il percor-so della storia e il rifiuto di concentrarsi sugli scenari picco-lo-borghesi o sulla rappresentazione onanistica e consumi-stica figlia della stragrande maniera di fare cinema oggi,sventolava come manifesto esistenziale una barricata, una re-sistenza non urlata. Alla compagnia teatrale, in L’altro mare,Theo affidava un messaggio di speranza che tenesse insiemei giovani che guardavano a Brecht e i nuovi poveri, i cassinte-grati, gli operai, i migranti. Se L’opera da tre soldi con la suaprofezia ancora fortemente capace di orientare la lettura del-la realtà era lì come un monito, in L’altro mare la partecipazio-ne alla messa in scena di popolazioni che passavano attraver-so la Grecia, provenendo dall’Iran e dall’Iraq per andare nelcuore dell’Europa, non poteva essere un caso.Bentivoglio: Brecht certo, le tematiche della storia sicura-mente, ma anche e soprattutto un maestro assoluto della tec-nica cinematografica, il creatore dei geniali piani sequenzache sembravano inventati sul momento. In una sola inqua-dratura Theo riusciva nella stratificazione creativa attraver-sando le epoche senza che unità, luogo e senso complessivoperdessero in chiarezza o poesia. Da giovani pensavamo cheil piano sequenza fosse semplice, quando vidi che tipo di ma-gico equilibrio richiedeva dal vero, impallidii. Theo non arri-vava con il compitino fatto, con le certezze acquisite, ma ave-vi sempre la sensazione che immaginasse insieme a te quelloche stava creando. Era entusiasmante.Servillo: Il piano sequenza lo chiamava grand plan. Dicevache il francese era la lingua della sua formazione, parigina,dei film francesi che aveva amato, del suo percorso intellet-tuale. Nella grandezza della messa in scena, Theo stendeva lesue regole. Regole mastodontiche. Folle, tecnici, attori, gran-di spazi. Il mondo non poteva essere ridotto nel suo significa-to poetico, nell’articolazione solitaria del montaggio, dove si-curamente è possibile produrre capolavori, ma è presente ilrischio di confinare visione, rischio e talento sul proprioscrittoio. Vedere questo piccolo uomo all’opera era come os-servare una sorta di Napoleone del cinema, uno che pensava

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veramente in grande perché riteneva che il cinema dovesserispondere in grande a enormi interrogativi o rilanciaregrandi interrogativi su una scena enorme, senza confini. Ec-co, se devo scegliere un’emozione particolare tra le tante cheho avuto la fortuna di provare lavorando con Theo, opto perquesta. Mi sono sentito attore in una scena immensa. Unascena della storia. Una scena del destino.MicroMega: Un cinema identificabile, uno sguardo persona-le e un dubbio identitario che attraversa quasi tutti i suoipersonaggi, figurine atterrite dal capitalismo, dall’economiaglobale, dalla perdita delle radici. Angelopoulos non era at-tratto dalle semplificazioni del denaro. Le combatteva. Argo-mentando.Bentivoglio: Verissimo. Era evidente anche in L’eternità e ungiorno dove alla vicenda dell’intellettuale, del personaggio diBruno Ganz e del suo sogno si intrecciava la storia di unbambino abbandonato. La critica all’opulenza, alla stupiditàdi una certa macroeconomia unita all’attenzione verso gli ul-timi, popolazioni in fuga, reietti o anche simboli di innocen-za per antonomasia, i bambini, erano al centro della sua poe-tica. Lui faceva conversare amabilmente la storia con il pre-sente e in questo e non solo in questo, era unico.Pagani: Era stato, all’epoca in cui era normale esserlo, ancheideologico. Ma è chiaro che Theo, come tutti i poeti, era unprofeta. E della degenerazione del capitalismo contempora-neo complice la lezione di Brecht, in L’altro mare, avrebbe di-pinto un ritratto fedele. Sarebbe stata la forza del film e la suastraordinaria attualità. Theo era appassionato anche di tra-smigrazioni ed esilii. Avrebbe voluto intitolare così anche unvecchio progetto che non concludemmo mai. Ma su frontie-re, esodi, separazioni forzate e partenze obbligate, i temi uni-versali dei cambiamenti del mondo, Theo teneva desta l’at-tenzione. Aveva antenne che altri non possedevano, e nutriva,come suggeriva Toni, la volontà e la capacità di poterle rac-contare. Non è poco.MicroMega: L’idea del viaggio, l’avete raccontato voi stessi, èuna costante del cinema di Angelopoulos. Partire e ripartirecontinuamente per conoscere se stessi, per capire il sensodella propria esistenza, per trovare risposte che spesso risul-

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tano più difficili e problematiche delle stesse domande che ciponiamo. L’idea dell’esperienza itinerante era basilare. Comeera importante il sogno di una conoscenza obbligata del buioche va oltre al perimetro della nostra illuminata quotidianità.Uno dei desideri sublimati da Angelopoulos.Servillo: Effettivamente nel suo cinema il viaggio significapercorso di conoscenza. Non accontentarsi, ma guardare il li-mite ancora più lontano per superarlo, facendosi carico du-rante il viaggio dei momenti di sosta, delle pause, della ric-chezza nascosta nei fallimenti. Ma viaggio è anche il sinoni-mo di ridimensionamento del tuo particolare. L’unica possi-bilità che noi abbiamo, attraverso la bellezza di occuparci diqualche cosa che valga. Sono gli obiettivi dell’arte e sono sta-ti gli obiettivi delle religioni. La possibilità di venir fuori danoi stessi, estrofletterci dal nostro ambito che rischia di esse-re poi pernicioso, da un intimismo micragnoso. Oggi siamoossessionati dall’intimità, siamo rintronati dalla morbosa cu-riosità per la sfera intima di chiunque, siamo irresistibilmen-te attratti dalle bizze di Balotelli.Theo ne avrebbe fatto a me-no, Balotelli gli sarebbe parso incomprensibile.Theo non erauno snob, ma si sarebbe rifiutato di capire, come avrebbe fat-to Rossellini oggi, davanti ai reality. Ai fenomeni deterioriche diventano anche pasto adatto e terreno fertile a innaffia-re sociologie idiote. Ecco, davanti a miserie del genere, Theoe Roberto Rossellini avrebbero alzato lo scudo morale, iden-tificando in questi fenomeni concrete degenerazioni del-l’umano.Pagani: In Lo sguardo di Ulisse il protagonista dice una cosamolto chiara: «In principio, Dio creò il viaggio». Per Theo ilviaggio era ricerca e non c’è film di Theo che non sia in qual-che modo itinerante perché Theo si sentiva un migrante. Sisentiva come Ulisse, destinato alla ricerca dantesca della co-noscenza, perché conoscere se stesso e gli altri era un dovere.Ecco perché amava i marginali e perché guardava con favorea quella che Toni chiamava con felice definizione la moltitu-dine della gente. Il motore della storia per Theo.Bentivoglio: Mi allineo ad Amedeo Pagani. Quanti angoli na-scosti di Europa ci ha fatto scoprire Angelopoulos. Quanteperiferie estreme, villaggi degradati, treni in corsa nel cuore

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di un’Europa lontana dalle copertine abbiamo conosciutograzie a lui. Quanti dialetti. Quante epoche. È inutile che vidica, che sottolinei quanto poi la questione linguistica, oltreche culturale, fosse importantissima per Theo.MicroMega: Vi ricordate Il volo, chiamato anche L’apicoltore?C’è Marcello Mastroianni, impersonificazione di Theo, comequasi sempre è accaduto ai suoi protagonisti nei film girati dalui. Mastroianni si sente disorientato, perduto e senza alcunaspiegazione plausibile abbandona la famiglia, e inizia a viag-giare verso il Sud della Grecia. Incontra altre persone simili alui, invecchiate, prossime alla fine, e assecondando gli eventi,si lascia morire.A leggere i suoi film, il senso della morte nonera alieno ad Angelopoulos. Un destino ineluttabile. Il finaleche attende noi tutti.Servillo: Ricordo con molto turbamento che Theo, nei fre-quenti incontri che mi chiedeva per discutere del personag-gio, ribadiva alla fine di ognuno che avrei dovuto raccontareal pubblico una cosa semplice e brutale: non si sfugge al pro-prio destino. Mi sembra che da qualche parte, per quantostupida ci è apparsa e si è manifestata questa morte, Theosorrida dicendo: «Avevo ragione, vedi come hanno sempreavuto ragione coloro che nella mia nazione hanno fondato ilpensiero sull’uomo, insegnamenti di cui ancora ci nutria-mo?». Il pensiero non mi consola affatto, anzi mi terrorizza, ecredo che anche Theo lo dicesse con tensione tragica, nonavendo nessuna intenzione consolatoria, anche perché nono-stante ciò che abbiamo detto, mi fa piacere sottolineare cheTheo era un uomo tutt’altro che passatista, tutt’altro che le-gato a un’annoiata nostalgia.Theo era di un vitalismo straor-dinario, aveva la vitalità e la voglia di opporsi di chi si ribelladicendo, attenzione, andiamo verso un’astrazione che rendetutto incomprensibile, e stiamo eliminando cose importantidalla scena della storia che ci renderanno sconosciuti gli uniagli altri.Pagani: Posso dire un’ultima cosa? L’unica opera che nonavevo visto di Theo era un documentario sulla città di Atene.La prima inquadratura è un camera car di una motociclettaguidata da un giovane motociclista con le ali. L’angelo ster-minatore. A metà del documentario sull’asfalto, disegnato

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con il gesso, la figura di un morto che è caduto sulla strada.Ditemi voi se questa non è profezia, io non dico altro, è im-pressionante. Il documentario è del 1983.Servillo: Non lo so, più che immagine profetica adagiata sul-lo sguardo intelligente e penetrante di Theo, leggo il tuo rac-conto come una beffa, come una fregatura rispetto al vitali-smo di Theo, come un’ingiustizia. Quello che ci ha lasciatoattoniti quella sera davanti al suo corpo, sul set, sotto la piog-gia, con tanti giovani africani, iraniani, iracheni che facevanole comparse e che erano accanto a lui in un gesto di pietà chesembrava il racconto di un suo film, era la sensazione di aversubito una fregatura, una beffa, una truffa. L’indicazione cheTheo mi aveva dato, spiegare al pubblico che al proprio desti-no non si sfugge, mi era stata suggerita non con fatalità con-solatoria, ma con rabbia.Bentivoglio: Theo era fantastico. Si adattava e faceva adattaregli altri a qualunque situazione. La sua posizione preferita inassoluto, quando era in macchina, era stare seduto accanto alguidatore. Lui a guardare, guidato, a cogliere un tratto di stra-da, un’ispirazione, un’ipotesi di lavoro. Mi sembra l’immagi-ne più bella. Lui seduto, sereno, placido, che guarda fuori dalfinestrino su una macchina senza direzione certa.Pagani: Cinema puro.

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LA DONNA TRAGICADI ANGELOPOULOS

Non si può non vedere un filo rosso che uniscele grandi tragedie greche di Eschilo e Sofocle ai film

di Theo Angelopoulos, che di quella tradizione èdegnissimo erede. Filo rosso costituito principalmentedalle figure femminili: da Antigone ad Elena, le donne

come vittime sacrificali di un sistema, simbolo del luttoe del dolore di un intero paese.

PETROS MARKARIS

In Ricostruzione di un delitto, il primo lungometraggio di TheoAngelopoulos, una donna, madre di due figli, con l’aiuto del-l’amante uccide il proprio marito; questi, emigrato in Germa-nia per lavoro, era appena tornato al suo villaggio natale. Leg-gendo questa trama sembra di trovarsi davanti a una variantedel mito degli Atridi: dopo lunghi anni di lontananza, un uo-mo andato a lavorare all’estero fa ritorno al suo paese natio(Agamennone) e viene ucciso dalla propria moglie e dal-l’amante di lei (Clitennestra e Egisto), mentre i suoi due figli(Oreste ed Elettra) giocano nel cortile di casa. Ma i parallelinon finiscono qui: nell’Agamennone, la prima tragedia di cuisi compone l’Orestea, solo le donne e gli anziani sono rimastia vivere ad Argo. Gli uomini combattono davanti alle mura diTroia. Allo stesso modo, anche in Ricostruzione di un delitto sivedono quasi solo donne e anziani; gli uomini sono tutti inGermania, a lottare per la sopravvivenza della famiglia. Nellatragedia, poi, non ci viene detto chi sia l’esecutore materialedel delitto. È stata Clitennestra a uccidere Agamennone, o èstato Egisto? Oppure l’hanno ucciso insieme? Questo parti-colare non viene rivelato neanche nel film: è stata la moglie auccidere l’uomo, o è stato l’amante di lei? O entrambi?Già dal suo primo lungometraggio Angelopoulos rende quin-di palese il suo amore per la tragedia classica, e in particolareper il mito degli Atridi. Il film è stato girato tra il 1969 e il1970, durante gli anni della dittatura militare, ed è ambientato

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in un paesino nell’Epiro, regione che a quei tempi era la piùpovera della Grecia. Le scene, in bianco e nero, si svolgono inun ambiente brullo e roccioso. Tutte le donne sono vestite dinero: nella trilogia degli Atridi il lutto ha inizio nell’Elettra, ilsecondo episodio di cui si compone l’Orestea; in Ricostruzionedi un delitto il lutto è già lì, ancor prima dell’omicidio.Nel suo terzo film, La recita (1975), Theo Angelopoulos si oc-cupa di momenti storici più vicini al nostro tempo: l’azioneha luogo nel periodo dell’occupazione tedesca della Grecia ein quello ad essa immediatamente successivo. Il regista siconfronta dunque con gli eventi di un periodo denso di con-seguenze, eventi che hanno influito sulla storia della Greciafino al presente.Al contempo, però, Angelopoulos intende mantenere i riferi-menti al mito di Atride. Il percorso che porta da Ricostruzionedi un delitto a La recita è lo stesso che conduce dal primodramma dell’Orestea al secondo, Le Coefore.Theo Angelopoulos comprende la storia della Grecia del do-poguerra attraverso il modello della tragedia. In essa, le don-ne simboleggiano il lutto e il dolore del paese. La personifi-cazione della nazione in figure femminili non è però un’in-novazione introdotta da Angelopoulos; al contrario, questarappresentazione è presente già nelle opere dei padri fonda-tori dello Stato neogreco, i quali hanno immaginato l’emble-ma della Grecia nelle fattezze di una donna dell’antichità.Nella maggior parte delle raffigurazioni, essa è mostrata nel-l’atto di sventolare la bandiera (neo)greca.In quanto cronista della recente storia della Grecia, in partico-lare del periodo del primo dopoguerra e del conflitto civile, neltratteggiare la figura sacrificale di quei tempi tormentati – la fi-gura di donna e di madre – Theo Angelopoulos si ispira allatragedia antica, un genere in cui la donna viene rappresentatain un contesto per così dire «infernale». Ifigenia, Clitennestra eElettra, Antigone e Medea, Ecuba, Andromaca e Cassandra:sono queste le dolenti figure del mito e della tragedia classica.Non solo esse soffrono incomparabilmente di più rispetto agliuomini, ma sono anche le loro vittime sacrificali.L’antica tradizione della donna come simbolo del lutto e co-me vittima sacrificale dell’uomo viene portata avanti da An-

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gelopoulos di film in film. Le donne che egli rappresentapossono atteggiarsi a tenerezza o a durezza, possono esserecombattive oppure rassegnate; ad ogni modo, esse sono sem-pre figure di dolore e di sacrificio. Questo aspetto è partico-larmente evidente nel film La recita, opera in cui Angelopou-los si ispira da vicino al mito degli Atridi.Elettra (questo è il nome della protagonista del film) vuolevendicare la morte di suo padre, che è stato ucciso dalla di leimadre, aiutata dall’amante. La vendetta di Elettra è il filoconduttore della trama; analogamente a quanto accadeva inLe coefore di Eschilo o nell’Elettra di Sofocle, Oreste fa il suoingresso nel film solo in un secondo momento.Tanto Elettra, aggressiva e combattiva, quanto la sua rasse-gnata madre (Clitennestra) sono vittime sacrificali degli uo-mini. Il film si mantiene fedele al mito fino all’ultimo: nono-stante l’odio per il proprio patrigno (Egisto), Elettra non puòvendicare personalmente suo padre: come per l’Elettra del-l’antico mito, la vendetta spetta al fratello.Con insistenza quasi maniacale Angelopoulos porta avanti lapropria costruzione della medesima figura femminile; egliprosegue in questa ricerca fino al primo film della sua ultimae, a causa della sua morte, purtroppo incompiuta trilogia: Laterra piange (2004). Anche in questo caso alla protagonista, lagiovane Eleni, non resta che sottomettersi al proprio destinodi donna, sposando un uomo che, data l’età, avrebbe potutoessere suo nonno. E quando lei fugge con il figlio dell’uomo,di cui si è innamorata, il suo gesto viene giudicato imperdo-nabile non solo dagli uomini del villaggio, ma anche dalledonne. Alla fine viene abbandonata anche dal ragazzo cheama, sebbene non per volontà di lui, e durante la guerra civi-le dovrà seppellire i due figli nati dal loro rapporto.In questo film il riferimento di Angelopoulos è a un’altra tra-gedia di Eschilo, I sette contro Tebe. I due figli di Eleni, chenella guerra civile combattono su fronti contrapposti, sonosenz’ombra di dubbio ispirati ai personaggi di Eteocle e Poli-nice. A differenza che nel dramma eschileo, a seppellirli nonsarà la sorella, ma la madre.Antigone viene condannata da Creonte; Eleni, unendosi aipartigiani, fugge verso l’Albania. A trentaquattro anni di di-

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stanza dal primo film di Angelopoulos, Ricostruzione di un de-litto, la figura della donna come vittima sacrificale continua ariproporsi.Sebbene Angelopoulos, fin nel suo ultimo film, tratteggi le fi-gure femminili prendendo immancabilmente ispirazione dal-l’antichità, dal punto di vista dell’ambientazione geograficaegli non si limita alla Grecia, né, da quello temporale, agli an-ni dal 1936 al 1938 (ossia al periodo che va dalla dittatura diMetaxas, passando per l’occupazione tedesca, fino al terminedella guerra civile). Con il film Lo sguardo di Ulisse (1995), la fi-gura di donna tipica delle opere di Angelopoulos viene tra-sposta al di là dei confini della Grecia e situata in Bosnia, nelmezzo della guerra civile. Il colpo di genio di Angelopoulos, inquesta pellicola, non è solo nel fatto che tutte e tre le figurefemminili in essa presenti sono recitate dalla stessa attrice;bensì, attraverso questo, anche nel riferimento al destino co-mune che unisce le donne dei Balcani: essere in ogni casocreature sofferenti, vittime sacrificali degli uomini.Tutte e trele donne che A., il regista, incontra nel procedere della trama,sono state abbandonate dai loro uomini. Alcuni sono emigra-ti, altri sono a combattere. La donna come figura tragica, insenso originario e per questo antico, subisce sempre il destinodi rimanere, alla fine, sola e abbandonata.Anche in film in cui è assente il riferimento al tema preferitodi Angelopoulos, ossia la recente storia della Grecia, la donnavive nell’ombra dell’uomo, lasciata a se stessa e da questiignorata. In L’eternità e un giorno (1998) il protagonista maschi-le è a tal punto assorbito nello studio della poesia e della let-teratura che a malapena considera sua moglie. E lei accettatutto questo, senza proteste, senza avanzare la minima richie-sta di un po’ più di amore o di un maggior calore della vita fa-miliare. Molto tempo dopo la morte di lei, lui stesso malato diun male incurabile, l’uomo trova per caso una lettera che lamoglie gli aveva scritto ma mai spedito, in cui ella parla dellasua solitudine. Anche nel giorno più felice della loro vita in-sieme, il giorno della nascita della loro figlia, egli era immersonel suo lavoro, dal quale non si era allontanato neanche unmomento per condividere con lei la gioia del lieto evento.Nei film di Theo Angelopoulos la figura femminile funziona a

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tutti gli effetti come elemento di regressione. Angelopoulosrimane fedele al modello della donna tragica; i movimentifemministi o il tema dell’emancipazione delle donne, che so-prattutto dopo la guerra hanno fortemente influenzato l’im-magine della donna nella letteratura e nel cinema, non rive-stono alcun interesse per lui.Ad ogni modo bisogna ammettere, in tutta onestà, che nelperiodo in cui Theo Angelopoulos ha rappresentato nei suoifilm la donna come figura sacrificale, il movimento femmini-sta e la questione dell’emancipazione delle donne in Greciaerano ancora topoi sconosciuti. Perfino tra i partigiani domi-nava una gerarchia patriarcale: le donne erano subordinateagli uomini, e se uno di essi aveva una relazione con una par-tigiana, i quadri di partito lo obbligavano a sposarla.Se dunque Theo Angelopoulos si mantiene estraneo alla mo-derna immagine della donna, egli descrive fedelmente, però, ireali rapporti sociali che a quel tempo vigevano in Grecia e lacorrispettiva figura femminile, più vicina alle eroine della trage-dia antica che alle donne dei movimenti per l’emancipazione.Questa rappresentazione della figura femminile, così estra-nea alle tematiche dell’emancipazione e dei diritti delle don-ne, nelle pellicole di Angelopoulos non prende origine solodal mondo antico. Essa risente anche dell’influsso di un di-rettore di film che, per la generazione registica di Theo An-geopoulos, costituisce un modello di riferimento: il registagiapponese Kenji Mizoguchi (1898-1956). Quest’ultimo, nellesue opere, ha tematizzato a più riprese il sofferto destino del-le donne. Pietre miliari, da questo punto di vista, sono il filmLa signora Oyo (1951) e la sua ultima pellicola, La strada dellavergogna (1956).Theo Angelopoulos, però, non è stato influenzato da KenjiMizoguchi solo per quanto riguarda la delineazione delle fi-gure femminili. Egli ha imparato da Mizoguchi anche il reali-smo poetico, un canone che ha difeso con forza fino al termi-ne della sua vita e che ha portato a compimento come pro-prio stile personale di narrazione.

(traduzione di Eleonora Piromalli)

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P I C C O L O G R A N D E S C H E R M O147 /157

BLACK MIRRORBisogna sempre andare all’estero per vedere cosa si muovenel caleidoscopico mondo delle serie tv, settore che ormainegli Usa e in Inghilterra non ha più nulla da invidiare almiglior cinema. È il caso dell’inglese Black Mirror: una

trilogia capace di sconvolgere tutti i paradigmi delle serietv, e di mettere in discussione – senza fobie, senza

moralismi – gli inquietanti risvolti sociali di quello‘specchio nero’ (dal monitor di un computer al palmare)

che ormai fa parte integrante della nostra vita quotidiana.

FEDERICO PONTIGGIA

«Che si fa ora? Qual è il programma?». «Questo è territoriovergine, Primo Ministro. Non c’è programma». E non c’è ana-logo nel panorama delle serie tv, e pure del cinema: vi imma-ginate un primo ministro britannico costretto a fare sessocon un maiale in diretta televisiva? Succede in «The NationalAnthem» («L’inno nazionale»), primo capitolo della miniseriein tre parti di Charlie Brooker, Black Mirror. Prodotta da Zep-potron per Endemol, trasmessa da Channel 4 nel Regno Uni-to e disponibile in homevideo, è – perdonate il gioco di paro-

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le – una fuoriserie: «Ogni episodio ha un cast diverso, un’am-bientazione diversa, anche una realtà differente. Ma riguarda-no tutti il modo in cui viviamo ora», dice Brooker, che di tele-visione e tecnologie ne sa, eccome. Critico televisivo delGuardian per 10 anni fino al 2010, poi il passaggio dietro latelecamera: aveva già convinto con Dead Set, nominato aquattro Bafta, ma qui si supera, rimanendo incollato alla no-stra realtà mediale e mediatica. Che cos’è il Black Mirror deltitolo? Forse un altro «specchio delle mie brame», per dirlacon la Regina Cattiva, ma Brooker non guarda alle favole,semplicemente, si guarda attorno: «Lo specchio nero è quel-lo che trovi su ogni muro, ogni tavolo, e sul palmo di ogni ma-no: il freddo, luccicante schermo di una tv, un monitor, unosmartphone». Non è luddista, né tecnofobico Brooker (sua lascrittura dell’episodio, regia di Otto Bathurst), al contrarioconosce, usa e s’interroga sul mezzo: «Se la tecnologia è unadroga, e in effetti lo è, allora quali sono gli effetti collaterali?Questa zona, tra piacere e disagio, è dove si piazza Black Mir-ror». Tecno-paranoia? Nemmeno, piuttosto riflessione sul-l’uso: Brooker l’ammette, una nuova app lo esalta, prova pia-cere per i gadget, appena si sveglia va su Twitter, eppure…Eppure, tutto questo – si interroga – ci serve? soprattutto, cifa bene? Dipendenza e urgenza, spaesamento e alienazione,comando e controllo, inappartenenza e tecnofilia, e ritornabuono un gioco da bambini: «specchio riflesso». Comunque,in soli 44 minuti si fa largo un political thriller capace dismuovere le coordinate del genere e deformare la cornice diriferimento, incrociando guerrilla-style e YouTube, ragion diStato e dinamiche familiari, potere e mass-media in una mi-scela lowbudget e high art.In principio è un dilemma da far tremare i polsi di una nazio-ne e squassare un civico, il 10 di Downing Street: l’amataprincipessa Susannah viene rapita, condizione necessariaper il rilascio è che il primo ministro abbia un rapporto ses-suale con un maiale in diretta televisiva nazionale. Il politico– si chiama Michael Callow – ovviamente fa di tutto per sot-trarsi a quella richiesta, cercando di catturare il sequestrato-re prima dell’ultimatum e, parallelamente, impedire che la

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notizia divenga di dominio pubblico. Ma qualcosa non va peril verso giusto: il video con la richiesta di riscatto viene cari-cato suYouTube, e la viralità fa il resto. Ci rimane solo per no-ve minuti, ma sufficienti perché all’estero se ne parli. Non inGran Bretagna, almeno inizialmente, ma lo splendido isola-mento dura poco: il tamtam mediatico non conosce steccati,il Regno Unito conosce e giudica. Sequestro, riscatto, che fa-re? L’opinione pubblica è a favore del rilascio della princi-pessa, ovvero dell’utile sacrificio di Callow (Rory Kinnear), esulla medesima lunghezza d’onda sono gli stessi consiglieridel premier e la Royal Family. L’unica voce drammaticamen-te dissonante è quella della moglie, che prega Callow affin-ché non accetti quel diktat ignominioso e non metta a repen-taglio il matrimonio.Fin qui tutto bene, non per Michael (i rapitori ne sanno ditecniche di video-contraffazione…), ma per drammaturgia,suspense, utilizzo ancora abbastanza ortodosso dei topoi digenere e radicalità della messa in scena, capace di spazzar viain pochi minuti The Queen, Frost/Nixon, I due presidenti, TheIron Lady e politica compagnia. È finzione dichiarata, ma in-sieme è realtà top secret, prossima ventura forse, eppure giàpresente: non c’è troppo tempo per decrittarla, non c’è trop-po spazio per introspezione psicologica e sculture a tuttotondo dei caratteri, eppure «The National Anthem» risuonanitido, stentoreo e disturbante. Sì, fa male. Nondimeno, si fer-masse qui, ne loderemmo la resa estetica, la potenza dell’atto(sessuale), e quel vagheggiare distopico e «antipolitico» nellaperfida Albione. Nulla di più, e la cortocircuitazione tra poli-tica e nuove tecnologie, democrazia e webcrazia finirebbequi, con qualche rimpianto. Invece no, la seconda strofa del-l’inno dispiega premesse, mantiene promesse e colpisce bas-so: Callow è costretto a consumare quell’amplesso bestiale, econ successo, perché la principessa ricompare sana e salva.La porcheria ha pagato, onore al merito, eppure… Eppure,qualcosa non quadra, e il recadrage mette in campo la beffa:Susannah è stata liberata prima della scadenza dell’ultima-tum. Inaudito, anzi, inaudibile: il popolo viene tenuto al-l’oscuro dell’evento, affinché la gloria del sacrificio di Callow

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non sia offuscata e sminuita. Un anno dopo, la sua immaginepolitica è fulgida: il baratto tra perdita di dignità personale egradimento pubblico è andato a buon fine. Callow s’è raffor-zato, con un unico effetto collaterale: il matrimonio è andatoa rotoli.Ma chi è stato l’artefice del rapimento della principessa e del-la gogna carnale e mediatica cui è stato costretto? Un artista,il vincitore del Turner Prize Carlton Bloom. La sua intenzio-ne? Poetica e politica, ovvero dimostrare quanto il nostro sta-re incollati ai vari black mirror ci estranei dalla realtà hic etnunc, tanto che eventi di capitale importanza possono acca-dere sotto il nostro naso senza che ce ne rendiamo minima-mente conto. Mentre i sudditi di Sua Maestà guardano la per-formance televisiva di Callow, la principessa è già libera, machi se n’è accorto? Dunque, Carlton Bloom, ovvero CharlieBrooker, stigmatizza il nostro essere con la testa tra le nuvole(clouds…), assorbiti dalla Twitter-sfera, cosicché il comando econtrollo – letteralmente – digitale ci esclude da tanta partedel qui e ora: provocazione artistica o memento esistenziale,statement apocalittico o esortazione alla salvezza? La posizio-ne di Brooker non è moralistica né aprioristica, e il colpo discena passa quasi inosservato: l’attenzione è sull’effetto, nonsulla causa, che pure è «principesca». Facile per lo spettatoreappiattirsi, ovvero identificarsi, sull’audience interna al rac-conto che segue l’umiliazione di Callow sugli schermi neri,dunque, difficile comprendere come in realtà la notizia siaun’altra, colpevolmente e diffusamente ignorata (la liberazio-ne della principessa).Sostiene Brooker,Twitter & Co. non sono – solo – i social me-dia delle rivoluzioni, ma dell’involuzione della presa sul rea-le, e pare davvero ostico dargli torto: che cosa ci perdiamoquando l’utilizzo della tecnologia ci sposta nolenti o volentiin un non luogo, in un luogo altro dall’hic et nunc dove stiamofisicamente? Non solo, Brooker segnala il gap in espansionetra media tradizionali, drasticamente incapaci di relazionarsia quanto succede, e i new media, peraltro incapaci di relazio-narvisi senza speculazioni né diversioni. Dunque, il tanto de-cantato citizen journalism? Alla gogna finisce anche la perdita

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indiscriminata di un’autorità, meglio, autorevolezza informa-tiva, capace di filtrare e gestire il flusso: già, l’altra faccia del-la medaglia non è solo info-democrazia al potere, ma anar-chia febbrile, che – per coniugarla all’Infinito di Leopardi –«da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude». Senon quantitativamente almeno qualitativamente, ovvero eti-camente. Brooker non si nasconde dietro lo smartphone,adombrando da fedele sostenitore dei new e social media lepossibili, anzi, presenti disforie e ridando implicito lustro auna delle asserzioni più epocali del XX secolo e so far: «Il me-dium è il messaggio» di McLuhan.Il passo successivo, «15 Million Merits» («15 milioni di meri-ti»), è fondamentale per l’architettura ideologica di The BlackMirror, poiché segnala e precisa come il côté politico di «TheNational Anthem» vada inteso: non è sulla contingenza istitu-zionale il focus di Brooker, bensì la politica rappresentaun’ineluttabile e gravosa esternalità del «modo in cui viviamoora». Se – e solo apparentemente è una contraddizione – pre-scinde agevolmente da denominazioni di origine controllatao indicazioni geografiche tipiche, la valenza politica della mi-niserie è rintracciabile, in quanto sua logica conseguenza,nella natura stessa della res publica 2.0 e futuri prossimi up-grade. Per metterla a fuoco serve la giusta distanza, dunque,Brooker e la moglie Kanaq Huq – la regia è di Euros Lyn – citrasportano nel secondo capitolo in un futuro non meglioprecisato quanto marcatamente distopico: la cornice è quelladel reality, il registro in bilico tra satira e sarcasmo, il fil rougeintrecciato allo showbiz e ritorto sulla dipendenza dalle di-strazioni, pardon, dal cosiddetto «tempo libero». In due paro-le, il mondo di «15 Million Merits» prevede che ci si guadagnida vivere pedalando sulla cyclette, per produrre l’energia ne-cessaria al funzionamento del sistema. L’energia paga, l’ener-gia è valuta: meriti, appunto, accumulati in modo direttamen-te proporzionale ai chilometri percorsi da fermo. Il regimec’è ma non si vede, a dare nell’occhio è l’irregimentazione:tute grigie per tutti, e un Avatar con cui interfacciarsi al mon-do out there, ovvero virtuale. Vestiti e accessori per cambiarloa proprio piacimento, e gli aficionados di Second Life e

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XBox 360 potranno agevolmente intendere. Analogamente,chi per esempio ha Android sul proprio smartphone non tro-verà così strano che per saltare un annuncio pubblicitario sidebba pagare qualche merits, eppure stiamo parlando di fin-zione, come no… Una «finzione» che parla di schiavitù, conle caste del caso, e Bing Madsen (il Daniel Kaluuya di The Fa-des) non fa eccezione, sebbene sia un privilegiato: a furia dipedalare ha messo da parte 15 milioni di meriti, garantendo-si la possibilità di saltare gli annunci pubblicitari. Ma non disolo telecomando vive l’uomo, nemmeno questo: in bagnosente cantare un vecchio pezzo del periodo «pre-reclusione»,l’ugola d’oro è di Abi (la Jessica Brown-Findlay di DowntownAbbey) e c’è il talent show perché anche altri possano sentiree applaudire. Pensate a X-Factor, Hot Shots ne è un parenteprossimo: Bing offre ad Abi i 15 milioni di meriti necessariper accedervi, la ragazza è riluttante, ma infine accetta il do-no. Se vince, mai più cyclette. Se vince…Bando all’emozione, Abi ci prova: i giudici e il pubblico gra-discono, ma non basta. Il secondo è una banderuola alla mer-cé dei primi, che giocano con i concorrenti come il gatto coltopo: non c’è spazio per una «cantante sotto la media», almassimo ad Abi possono concedere di diventare un’attrice aluci rosse per il tv show Wraith Babes. Oppure, può ritornar-sene a pedalare. Che fare? Abi decide, ma non è libera: vienecostretta a prendere una sostanza chiamata Cuppliance, ov-vero «Compliance in a cup» («Accondiscendenza in tazza»), ea Bing si spezza il cuore. Ritorna in cella, senza un soldo ed ècostretto a vedere un promo di Wraith Babes con Abi che fasesso: è troppo, cerca di fuggire, sbattendo contro la portafinché non rompe il vetro. Ne nasconde una grossa scheggia,e torna a pedalare furiosamente per guadagnare altri 15 mi-lioni di meriti, nutrendosi esclusivamente degli scarti deglialtri cittadini per risparmiare. Passano i mesi, e Bing raggiun-ge il suo traguardo: sotto i riflettori di Hot Shots stavolta c’èlui, e ha quel pezzo di vetro per rendere credibile la minacciadi uccidersi. Eppure, il suo disperato gesto da innamoratoscippato non tocca minimamente i giudici: delle pene di Binge del suo attacco al sistema se ne fregano, loro guardano solo

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alla rappresentazione, e quella del ragazzo è devastante, sor-prendente («the throat-cutting thing – neat gimmick»)…Ricorda Brooker, «nel 1984 Apple se ne uscì con una famosapubblicità che sosteneva che il Mac avrebbe salvato l’umani-tà da un futuro orwelliano da incubo. Ma – aggiunge – comesarebbe sembrato un futuro orwelliano da incubo sul softwa-re Apple? Probabilmente un po’ come questo». Tra i riferi-menti di Black Mirror cita l’americano The Twilight Zone (Aiconfini della realtà) di Rod Serling, cinque stagioni dal 1959, eil «gemello» britannico Tales of Unexpected, 112 episodi scrittio comunque ispirati da Roald Dahl, ma come già nel casodell’accezione politica bisogna intendersi su rilevanza e am-biti del côté fantascientifico di questa miniserie: «15 MillionMerits» non è science fiction in senso proprio, se non perl’ombreggiatura distopica à la Orwell richiamata dallo stessoBrooker. Qui, per farla breve, non ci sono astronavi e alieniné fantasticherie fenotipiche: l’uomo è uomo, e pure la suavita ridotta al grado zero della pregnanza esistenziale, ovveroscaduta a mera interazione uomo-macchina (cyclette) di fron-te a schermi neri che assicurano distrazione e sollazzo. Enter-tainment, null’altro che divertimento mediato e mediatizzato:se gli spot si possono saltare a proprie spese, la salvezza vieneda un talent contest. In altre parole, pena e sollievo condivido-no la stessa appartenenza mediatica e simbolica: pubblicità eshow televisivo, ovvero ossessione culturale filtrata da Broo-ker attraverso satira e distopia. Il mondo di Bing e Abi è vir-tuale, non le ricadute sul nostro qui e ora: ok, la critica fero-ce ai talent show à la X-Factor, ma il tentativo è più ambizio-so e infidamente stimolante. È così assurdo immaginarsi unavita prossima ventura scandita da un lavoro alienante e im-produttivo lenito da trucchi palliativi e giochini virtuali? No,e Brooker punta il dito, senza temere la collisione di finzionee biografia: chi è Bing se non un critico feroce della tv tra-sformato in presentatore tv? E la moglie e qui co-sceneggia-trice Huq non aveva forse presentato X-Factor?Queste evenienze non intaccano la vis satirica di «15 MillionMerits», piuttosto, ne ribadiscono la fertile ambiguità: Brookernon cambia il piatto dove da critico ha mangiato per anni, so-

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lo perché ora possiede i mezzi di produzione. No, come per ladipendenza consapevole dalla tecnologia, così il suo approc-cio a X-Factor e i suoi fratelli, alla realtà virtuale che surrogasensi ed emozioni non è apocalittico, disintegrato e disinte-grante, ma punta a portare sotto la lente d’ingrandimento i(tanti) vizi e le (sparute) virtù del «nostro modo di vivere ora, eil modo in cui potremmo vivere tra 10 minuti se siamo malde-stri. E se c’è una cosa che sappiamo del genere umano, è que-sta: solitamente siamo maldestri». Attributo quanto mai elo-quente, perché la potenza artistica, critica e morale – non mo-ralistica – di Black Mirror risiede in ultima istanza proprio nel-le sue intenzioni propedeutiche e istruttive, senza accademi-smi né velleità ex cathedra: piuttosto, la miniserie funziona dabugiardino per la pillola tecnologica e mediatica che spessovolenti, raramente nolenti, dobbiamo trangugiare. Un manua-le d’uso. Certo, non manca, se non lo snobismo, l’assertivitàdell’insider. Possiamo ben immaginare come nel giudice à laSimon Cowell interpretato con graziosa perfidia da RupertEverett si celino aneddoti, esperienza e mimesi maturati daBrooker in anni e anni davanti allo schermo (critico) e dentrolo schermo (produttore, sceneggiatore e quant’altro), quellibuoni per porsi di fronte a un poverocristo come Bing con ilkarma professionale utile a scovare la gallina dalle uova d’oro:calma sussiegosa, sangue freddo da talent scout e nessunaconsiderazione per la minaccia rappresentata, bensì per la lu-singhiera rappresentazione. Sulla scia gattopardesca del «bi-sogna cambiare tutto per non cambiare niente», Brooker conBing introduce il «bisogna traslare tutto per non cambiareniente»: focus dal rappresentato, appunto, alla rappresentazio-ne, affinché il sistema nella sua infinita magnanimità possacontenere estroversioni e attacchi e garantirsi sopravvivenza efunzionalità. Perché ciò che serve, chi funziona viene coopta-to, il resto si butta, indipendentemente dalle qualità intrinse-che (la bella voce di Abi) e dalle connotazioni manifeste (l’an-tagonismo di Bing): lo zenit è la perpetuazione del sistema, etecnologia, mondi virtuali e tv contest aiutano. Eccome.Arriviamo così alla terza e ultima parte del trittico Black Mir-ror: «The Entire History of You» («L’intera storia di te»). Broo-

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ker fa un passo indietro delegando la scrittura a Jesse Ar-mstrong, il co-creatore di Peep Show e Fresh Meat, e si sente.Non per un decadimento estetico (la regia è di Brian Welsh),ma per un significativo slittamento poetico: è la consapevo-lezza delle disforie relazionali e sociali a farla da padrone, masenza il ricorso alla satira e al voltaggio filosofico dei prece-denti capitoli. Almeno di primo acchito, nonostante il meta-discorso sulla fantascienza distopica qui possa giocare unacarta importante, e rivoluzionaria: in sinergia con i social net-work, Armstrong non concentra il potere tecnologico nellemani di un dittatore o comunque di una oligarchia, bensì nefa una sorta di app condivisibile fruibile dai più, anzi, da tut-ti. Non è davvero questo uno slittamento di poco conto, mal’effettiva perversione, negli esiti, del buon, vecchio power tothe people o, se volete, della democrazia 2.0. Immaginate di ri-vivere la vostra vita alla moviola ogniqualvolta ne sentiatel’esigenza: basta che vi portiate una mano dietro l’orecchio eattiviate il disco fisso impiantato nel cervello che conservatutte le vostre memorie. Scorrete, trovate la sequenza che viinteressa e la proiettate dove vi pare: potete zoomare, manda-re indietro, rivedere. Ma, s’interrogava l’architetto della serieBrooker, tutto questo ci fa bene? Come sempre, non si offreun giudizio aprioristico, ma si dà al pubblico la possibilità divalutare liberamente i pro e i contro: bello sarebbe – vi trove-rete a pensare – rivedere i gloriosi giorni che furono con gliamici, bello ritornare alla nascita del proprio figlio, bello fis-sare il fotogramma del primo bacio, bello… No, non propriotutto è bello, non proprio tutto ci fa bene: il vulnus è relazio-nale, perché avanti e indietro per una storia d’amore l’amorepotrebbe perdersi, la coppia scoppiare. Succede a Liam (To-by Kebbell), un giovane avvocato poco sicuro di sé, e sua mo-glie Ffion (Jodie Whittaker), che lui sospetta l’abbia traditocon il piacente Jonas (Tom Cullen): prima rintraccia nella suamemoria l’eventuale dolo, poi ubriaco fradicio costringe lei elui a mostrargli le loro private video memory per accertarsi del-l’infedeltà. Ha ragione, ma cui prodest? Appunto, qui si volapiù basso rispetto a «The National Anthem» e «15 Million Me-rits», portando al centro della scena lo shakespeariano mo-

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stro dagli occhi verdi: il focus è sulla gelosia, ma nel flou tre-molano i contorni della nostra (s)mania di controllo, propor-zionalmente accresciuta e resa effettiva dall’upgrade tecnolo-gico. L’intera storia di me da poter rammentare a piacimento,l’intera storia di te da estorcere tuo malgrado: non ci sonovincitori né vinti, ma la perversione dello strumento, e la per-versione del sentimento.Senza voler fare le pulci a Facebook, che significa oggi «darel’amicizia», affermare che «mi piace», se non pervertire alme-no il vocabolario sentimentale ed estetico? Ma il mostro è al-trove, ed è democratico: quanto siamo disposti a concederedi noi stessi per avere informazione – e potere – sugli altri,qual è il do ut des 2.0? Soprattutto, qual è la differenza tra sfo-gliare le pagine di Facebook e muoversi tra i propri ricordicon un dito dietro l’orecchio? Forse, nessuna: comando econtrollo tecnologico, ma già voyeuristico, quindi umano,troppo umano. E fallibile. La gelosia monta, e non c’è piùhardware che tenga: il nostro software sensibile e sentimen-tale può impazzire, e farci impazzire. Sullo specchio nero, ilriflesso del mostro dagli occhi verdi: dramma umano, trage-dia umanissima, e si direbbe per fortuna. Con un ultimo in-terrogativo: meglio una sofferenza analogica o una felicità di-gitale? Vedete voi, ma al Black Mirror in frantumi manca unascheggia di vetro: è la nostra ultima possibilità. E si chiama li-bero arbitrio. O, se volete, futuro prossimo.Purtroppo, non è facile rendersene conto. Non tanto sul pia-no poetico, perché Black Mirror è felicemente accessibile, masul piano della mera reperibilità: perché non ce l’hanno fatto– e non ce lo fanno – vedere in Italia? Forse, ce lo meritiamo,ma perché da noi Endemol fa Centovetrine e in Gran BretagnaBlack Mirror? Vexata quaestio, ma non esaustiva. Mediaset, chefino a pochi mesi fa aveva quote importanti di Endemol, haportato in Italia Person of Interest (Premium Crime), serieideata da J.J. Abrams e Jonathan Nolan, che sull’onda para-noica del post 9/11 mette sotto indagine l’intera popolazioneamericana, con una prevenzione del crimine molto social:non è male, intendiamoci, ma perché Person sì e Mirror no?Perché la prima è più tradizionale (non solo tre capitoli, una

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serie vera e propria con la seconda stagione già in lavorazio-ne), ha nomi di richiamo (J.J. e il fratello di Chris) e dunqueun maggiore appeal commerciale, ma vuoi mettere? BlackMirror non strilla che «si può prevenire il crimine con untweet», ovvero non si accontenta di slogan promozionali eclaim proporzionali alla twitter-mania, ma scava dentro lospecchio nero e le sue mille rifrazioni social(i): scrive KenTucker su Entertainment Weekly che «Person of Interest viaggianella zona grigia di una morale spesso ambigua e ambivalen-te, una scommessa non facile per attrarre l’audience a tutti icosti, ma di indubbio valore qualitativo». Di certo, non ha vi-sto Black Mirror e, purtroppo, è in buona compagnia, almenoa queste latitudini. Le sorti poco magnifiche e molto regres-sive della creatura di Charlie Brooker sul piccolo schermoitaliano inducono a una saggezza proverbiale: chi fa da sé faper tre. Elogio della pirateria? Fate vobis, ma con la societàdell’immagine qualcosa è già cambiato: primum videre deindephilosophari.

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DA GOMORRAAL GRANDE FRATELLO

Che cosa c’è dietro lo straordinario fenomeno mediatico esociale dei reality show? Che cosa ci fa preferire una vita

artificiale, ricostruita sotto gli occhi di tutti, alla vita‘vera’? Quanto ha in comune ognuno di noi con le migliaia

di persone che ogni anno si mettono in fila per i provinisperando nel ‘colpo di fortuna’? Dopo il successo

internazionale di Gomorra, uno dei nostri registi piùtalentuosi si cimenta con un’esperienza del tutto nuova.

E racconta: “Reality è il film più difficile della miacarriera”.

MATTEO GARRONEin conversazione con FEDERICO PONTIGGIA

Più di qualcuno avrebbe voluto un altro Gomorra: duro, puro, di-chiaratamente drammatico.Viceversa, con Reality Matteo Garroneriparte dalla commedia, mettendo a fuoco il napoletano Luciano(l’ergastolano Aniello Arena, già attore a teatro per Armando Pun-zo), pescivendolo e artefice di piccole truffe in combutta con la mo-

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glie Maria (Loredana Simioli): la truffa più grande, però, se la con-feziona a sue spese, e si chiama Grande Fratello. Ha una vocazioneper lo spettacolo, Luciano, ma i travestimenti, le gag a uso e consumodi parenti e amici non gli bastano più: prova ne è un matrimoniostrapaesano, dove la scena gliela ruba un ex del GF, capace di rima-nere ben 116 giorni nella Casa. Non c’è paragone, e Luciano ci pro-va: provino in un centro commerciale, secondo provino a Cinecittà, espunta la speranza: «Li ho scioccati, Mari!». Scioccato, viceversa, èlui: l’ossessione monta, lo divora, lo estranea, perché con la testa nonè più a casa, ma già nella Casa. Offre da bere e regala mobili ai po-veracci, perché, non si sa mai, potrebbero essere escamotage dellaproduzione del GF per metterlo alla prova: vero, falso, x?Il reality, sostiene Garrone, non è un format tv, ma uno stato del-l’anima, un format esistenziale: l’illusione del successo televisivonon conosce classe sociale, censo né istruzione, e miete vittimeovunque. La scelta di Napoli e di una napoletanità con la memorialunga (L’oro di Napoli, Matrimonio all’italiana) val bene la cor-nice, ma il ritratto di Reality è senza denominazione d’originecontrollata. Siamo noi, siamo tutti noi, appesi all’attesa di Lucia-no, che si mette in nomination per entrare nella Casa, costruiscenello sgabuzzino il suo confessionale privato e novello, infelice Pi-nocchio parla perfino con un Grillo muto. Glielo avrà messo in ca-sa la produzione per spiarlo? Nel frattempo, chiude la pescheria,la moglie lo lascia e lui si ammala di Grande Fratello, ma forse ilprimo reality è già la famiglia, sorelle, madri, mogli e Fratelli piùo meno Grandi. C’era una volta e c’è ancora la famiglia davanti alpiccolo schermo, ma ora la Casa sono diventate altre case, i fami-liari concorrenti, le nomination e i confessionali, la quotidianitàdelle relazioni. Non è più, dunque, la società dello spettacolo diDebord, ma lo spettacolo della società: Reality o realtà?

Garrone, partiamo dal Grand Prix di Cannes 65 a Reality: te loaspettavi?Al di là del fatto che c’è sempre una certa vanità, la cosa piùimportante è che un premio ti aiuta, valorizza il film rispettoalle vendite e gli dà la possibilità di viaggiare in tutto il mondo.

Tornato in Italia, che hai detto a Nanni Moretti, presidente di giu-ria a Cannes?

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Nulla, non ci vediamo, non abbiamo rapporti. A Cannes l’horingraziato, insieme a tutta la giuria.

Aveva precisato Nanni, «Reality non l’ho votato solo io»: excusa-tio non petita?No, non credo. Diciamo piuttosto che con Nanni presidente digiuria ero consapevole che se m’avessero dato un premio cisarebbero state sicuramente polemiche, almeno da parte diqualcuno. Può darsi che proprio per questo motivo Morettiabbia specificato che non si può dare un premio se si è da so-li. Del resto, è un problema che si crea quasi sempre, come traRobert De Niro e Terrence Malick l’anno scorso a Cannes otra Quentin Tarantino e Sofia Coppola a Venezia. Insomma,nulla di nuovo sotto il sole, e io più di tanto non seguo, mi di-fendo molto da queste cose, perché non mi portano nulla. Epoi ho avuto il lutto di Marco [Onorato, direttore della foto-grafia di Reality e degli altri film di Garrone], un papà, un se-condo papà. Stava con mia madre da 40 anni, s’è messo conlei quando io avevo tre anni: se ho iniziato a fare cinema è an-che grazie a Marco. Ho iniziato a fare l’aiuto-operatore con lui,e con la pellicola che gli era avanzata e m’aveva lasciato ho gi-rato Silhouette: lui, io e un fonico. Non era il mio direttore del-la fotografia, un collaboratore, ma un papà. Ho perso mio pa-dre dopo il Grand Prix di Gomorra, e adesso ho perso Marco.

Meglio due Grand Prix o una Palma d’Oro?Non c’ho pensato, davvero, ma posso dirti una cosa: su Go-morra ci son rimasto un po’ male, te lo dico francamente. Unavolta arrivato lì, alla vetta, nel senso che eravamo rimasti indue, se avessi vinto la Palma d’Oro non sarebbe successoniente, viceversa, nel caso di Reality ho temuto che me la po-tessero dare. Anche qui eravamo rimasti in due, e ho avutopaura: sentivo che nella sala già si iniziava a rumoreggiare,perché non c’erano stati premi a film francesi. Quando sonoarrivato io a prendere il Grand Prix ho sentito che non tuttierano d’accordo, figuriamoci se m’avessero dato la Palmad’Oro… C’erano Jean-Louis Trintignant e tutti gli altri [delfilm Palma d’Oro di Michael Haneke Amour], se avessero da-to a me un premio più importante che a loro sarebbe stato

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controproducente. E poi io non so dire se Reality è inferioreo superiore a Gomorra…

E nemmeno devi essere tu a deciderlo.Infatti, quando faccio un film faccio del mio meglio, e unavolta che penso di aver fatto del mio meglio cerco di pensarea un film successivo. Finché vedo che ci sono cose che possomigliorare le miglioro, poi a un certo punto… passo oltre.

Avevi parlato di Reality come «un piccolo film per uscire dall’im-passe del dopo-Gomorra».No, va spiegata. Nasce come un piccolo film, ma non è un pic-colo film. Venivo da un periodo in cui dopo Gomorra mi sierano aperte, come accade, due strade: farsi prendere dallamegalomania se le cose vanno bene o dalla depressione se lecose vanno male, e in quel caso erano andate bene. Successo,e megalomania: America, Los Angeles, la possibilità del-l’Oscar… E di conseguenza dopo un anno che giravo in tuttoil mondo facendo il rappresentante, quando ho cercato di ri-mettermi al lavoro ho fatto una certa fatica per ritrovarel’equilibrio e la concentrazione. E, soprattutto, ogni soggettonon mi sembrava all’altezza del precedente, quindi cercavo difare un film ancora più forte di Gomorra. Pian piano, avevoimboccato una strada che mi stava portando incontro al disa-stro sicuro, perché mi stavo sempre più allontanando da mestesso, dal piacere di fare cinema. Sentivo solo il peso dellaresponsabilità.

Che proposte ti arrivavano?Molte dall’America, anche sul filone Gomorra: per intenderci,mafia, Al Capone, queste cose, o film d’azione… Ma non hoabboccato, perché non avevo trovato una storia che mi con-vincesse. Per fortuna, ma al tempo stesso ero combattuto sefare un altro film legato a quel mondo o cambiare genere.

Beh, complimenti e lodi non ti erano mancate, era difficile cambia-re strada.Sì, Scorsese stesso aveva presentato il film, ci aveva messo ilsuo nome, ma a un certo punto mi sono accorto che stavo mo-

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rendo, almeno artisticamente [ride]. Del resto, è un pericolosempre in agguato, sappiamo quanto spesso grandi registi siperdono e non si ritrovano. Quindi mettici anche l’ansia di di-re: «Beh, forse mi sto perdendo e non riesco più a ritrovarmi».

Come ne sei uscito?Avevo sentito di questa piccola storia [l’evento di cronaca allabase di Reality] e l’ho raccontata a Massimo Gaudioso [co-sce-neggiatore]. In realtà, avevamo iniziato a lavorare sul progettolegato a Fabrizio Corona: volevamo affrontare quel mondo lì,il materiale mi piaceva, ma la cronaca era ancora troppo inva-dente rispetto alla materia che stavamo trattando. Non c’era lagiusta distanza, purtroppo, perché – ripeto – il materiale mipiaceva, ma abbiamo dovuto accantonarlo. Poi, in qualchemodo, è rientrato in Reality attraverso un altro punto di vista,un’altra tematica, ma certe atmosfere, certe sensazioni si sonotravasate attraverso la storia di un uomo comune, quindi me-no riconducibile alla cronaca. A Massimo quel racconto è pia-ciuto molto: partiva come un mediometraggio, un cortome-traggio, non sapevamo se avesse le potenzialità per uno svi-luppo ulteriore. Ma, ci siamo detti, proviamo a buttarlo giù, epian piano lavorando il film ha preso corpo. Pertanto, nascecome un piccolo film, ma poi ci abbiamo messo tutta una se-rie di cose che ci sembravano interessanti: piccolo era lospunto, il racconto, poi è cresciuto e così il film.

Difficile?Per quel che mi riguarda, Reality è il film più difficile dellamia carriera. E anche dal punto di vista produttivo, è il miofilm più costoso, circa 7 milioni di euro di budget, perché ab-biamo ricostruito tantissime cose: tutta la piazza mercato eanche la casa del Grande Fratello, perché dopo ogni edizioneviene smontata. E, come per la Via Crucis al Colosseo, ci sonoscene di massa con 250-300 comparse alla volta. E lo stessovale per il matrimonio iniziale, centinaia di comparse impie-gate per vari giorni.

Un matrimonio che ci riporta letteralmente al tuo documentariodel ’98 Oreste Pipolo, fotografo di matrimoni.

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Già, e ho trovato una foto divertente del ’98 in cui sto sul setcon la 16 mm e ci sono gli sposi e le colombe che partono: lastessa inquadratura. A Oreste Pipolo volevo tornarci pure conL’imbalsamatore, ma qui era perfetto, perché Reality si muovesu due piani: uno favolistico e uno realistico, con un confinecosì labile, e in quella location [una sorta di fabbrica di matri-moni] la dimensione da fiaba e quella reale si incontravanoalla perfezione. Che uno del Grande Fratello vada lì a saluta-re degli sposi è assolutamente naturale, e così l’incontro tralui e il protagonista Luciano.

Il carrello aereo dell’inizio che segue il cocchio con gli sposi è mol-to bello.Sì, l’inizio e la fine del film sono molto belli.

In mezzo che succede a Luciano?Raccontiamo la sua trasformazione, la santificazione: diventasan Francesco, è come se quello che fa non è mai abbastanzae quindi rilancia continuamente, come un giocatore. È unelemento centrale nella storia: mi piaceva che parlando dellatelevisione – nel caso specifico del Grande Fratello, ma pote-va essere qualsiasi altro programma – anziché avere un ap-proccio tra virgolette moralistico, che puntasse sulla naturadiseducativa del medium, si arrivasse al paradosso: la tv ti fadiventare un santo, un benefattore, ti rende più buono diquel che eri all’inizio. Non a caso, inseriamo l’elemento dellatruffa, e il rapporto di Luciano col denaro è avido, e lo vedia-mo quando va dalla signora a riacchiapparsi il robot. Appun-to, poi si trasforma.

Reality come lo segue?Il film, appunto, si muove su due piani. La prima parte è piùlineare, ti rimanda se vuoi a Bellissima di Visconti o allo Sceic-co bianco di Fellini; la seconda è più introspettiva, un viaggiopsicologico, più simile a L’inquilino del terzo piano di Polanski.Un viaggio nelle mente.

E anche lo spettatore si può perdere.È vero, può capitare, e capita. Che si segua fino a un certo

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punto e poi, se non si entra in quel meccanismo, viene amancare l’empatia. È successo anche a me, addirittura hoprovato una sensazione strana: in certe proiezioni sono en-trato tutto dentro il film, in altri casi solo a metà, a volte nem-meno. Del resto, che ci si entri o meno è assolutamente sog-gettivo. Mi è capitato anche con Gomorra: ci sono state proie-zioni in cui non ce la facevo, altre in cui entravo e mi emozio-navo. Dipende dalla proiezione, e dallo stato d’animo.

Se si entra in Reality, ci si imbatte nel contagio televisivo di Luciano.Sì, parliamo di una sorta di contagio, come se si trovasse inun film di fantascienza – e soprattutto il finale è fantascienti-fico. Lui viene contagiato, ma il contagio nasce dalla famiglia,dal quartiere: non è lui il motore iniziale.

Forse senza accorgersene sta già vivendo in un reality.Precisamente, e anche nella scelta delle location c’è una volu-ta ambiguità: hai la sensazione che stiamo già vivendo in unreality. E non tanto per la piazza ricostruita, perché in realtà lasi deve alla volontà di raccontare una Napoli calda, differenteda quella di Gomorra, che rimandi ad atmosfere eduardiane.Appunto, Napoli si presta a questo contrasto tra realtà legateal passato e luoghi-non luoghi modernissimi, come l’acqua-park, l’outlet che sono già dei set, delle location da reality.Questo intenzionale contrasto è stato un aspetto fondamenta-le nella scelta delle ambientazioni: il racconto vive essendo unviaggio all’interno di un paese di contrasti. E non riguarda so-lo i luoghi, ma anche i volti: io metto accanto alla signora Ma-gnotta, quella che ha problemi a risolvere la truffa, il castingnel centro commerciale. E ci sono anche altre facce, altre at-mosfere, come nella Via Crucis, e sono tanti mondi che inter-rogo nel film. Reality racconta un viaggio attraverso il nostropaese, e quindi i cambiamenti dell’Italia sono evidenti.

Il filo conduttore tra Reality, Gomorra e le tue opere precedenti?Il mio approccio è sempre lo stesso: cerco di costruire la sce-neggiatura attraverso immagini e personaggi che mi convin-cano e mi possano emozionare. Gomorra era un mosaico ditante storie, qui c’è un personaggio che attraversa tanti mon-

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di, tanti mosaici. Gomorra era un luogo chiuso, qui un viaggioattraverso l’Italia, da Napoli a Roma: Reality è aperto, e per fi-sicità e volti rimanda a un discorso antropologico, alla tra-sformazione antropologica legata al presente.

E il nostro presente si chiama crisi.Viene fuori in maniera inequivocabile da Reality, ma non èun film sulla crisi. Proprio per non cadere nelle trappole delcinema di denuncia, sociologico, del cinema di impegno, hocercato di vivere questa storia entrando in relazione con ilpersonaggio: viverla accanto a lui, cercando di farmi piacereanche il Grande Fratello, e comunque di capirlo, di viverlo co-me una piccola soap-opera che può emozionare e piacere.Quando sono entrato a girare dentro la Casa io stavo bene, el’idea di finire con lui sdraiato nasce dal fatto che anche io mison sdraiato su quella poltrona mentre aspettavo arrivassesera per le riprese: avevo fatto il bagno in piscina, stavo in co-stume e il fotografo di scena a mia insaputa ha scattato. E mison detto, «Ma in fondo è una sorta di paradiso artificiale an-che questo, perché non finire qua?». Perché in realtà nellasceneggiatura lui si perdeva e si ritrovava poi di notte di nuo-vo fuori dalla Casa, sulla strada. Aveva iniziato ad aprire varieporte e a un certo punto una si chiudeva, una di quelle cheapri solo dall’interno: lui si accorgeva di un lungo corridoio,tipo quelli sotterranei del Policlinico [l’Umberto I di Roma],e man mano procedeva verso il fondo sentiva da lontano ru-mori di macchine, apriva e si ritrovava sulla strada. E finivacon lui che si incamminava e se ne ritornava a Napoli. Tutta-via, dato che giro in sequenza, arrivati lì nella Casa mi sem-brava la cosa più naturale al mondo che lui si sdraiasse.

E ridesse…L’idea della risata è fondamentale, e ci son arrivato pian pia-no, ricollegandomi a un finale drammatico che avevamo sem-pre avuto in mente, ma non riuscivamo a trovare effettiva-mente, perché la nostra volontà era di non cadere nelle solitetrappole della televisione che uccide. Quel finale prevedevauna colluttazione tra Luciano e le guardie all’entrata dellaCasa che lo sorprendevano: riusciva a farcela, ma arrivava

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dentro sanguinante. Un finale molto ideologico, con la poli-zia: non ci convinceva. Qui, invece, è più metafisico: una risa-ta folle, che mi sembrava fosse più vicina alle corde del film,che è astratto.

Qualche modello?Come sguardo, per rimanere su Fellini, Reality è più vicino aToby Dammit che a Ginger e Fred. Il primo è senza amarezzané nostalgia rispetto a Ginger e Fred, che per gusto mi convin-ce molto meno, anche visivamente. Toby Dammit ha genialità,freschezza e felicità di immagine: è ancora dentro quel cheracconta. E io, con le debite proporzioni, volevo cercare distarci dentro e vedere quel che sarebbe venuto fuori. Per lefile ai provini del Grande Fratello il mio riferimento era il cir-co, qualcosa di colorato: non volevo cadere nel documentari-stico, nell’immagine appiattita su quella televisiva delle fileche vediamo milioni di volte. Ed è stata la cosa più difficileper questo film, perché quando devi trattare una materia co-sì scivolosa, così paludosa come il Grande Fratello e la tv èdifficile raccontare. Devi mantenere comunque una verità,non puoi tradirli, ma al tempo stesso devi trasfigurarla.

Eppure, per il progetto su Corona l’impatto della cronaca si è rive-lato proibitivo.Sebbene nel racconto che avevo scelto fossero archetipi, mispaventava che nei miei personaggi si potessero riconosceredei personaggi molto famosi già raccontati attraverso tv, in-terviste, immagini. Non riuscivo ad avere la distanza e anchela libertà di reinventare: ho provato anche a cambiare le cose,ma l’anima era quella, se cambiavo troppo si perdeva il fasci-no. Ripeto, ci sono immagini, racconti che mi piacciono an-cora, può darsi che col tempo li possa riprendere, qualcosal’ho già inserito Reality. Comunque, per rimanere sempre suFellini, penso che per La dolce vita i racconti da cui partivaerano passati attraverso rotocalchi e giornali, ma questi me-dia non erano così invasivi come oggi sono tv, programmi, in-chieste e interviste. In breve, era più facile trovare il modo disorprendere, mentre oggi devi fare i conti con la cronaca cheè già una rappresentazione: devi trovare una strada, che non

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è quella frontale, per arrivarci in un’altra maniera e riuscire asorprendere.

Rifare il Grande Fratello: la sfida principe di Reality?Una delle tante sfide, volevo anche riuscire a dare al perso-naggio, a Luciano, una purezza: uno che prova a entrare alGF e non ci riesce, detto così può anche essere un cretino.Ma il personaggio ha questa ingenuità, un candore, è un Pi-nocchietto. E mi sembra una bella scommessa prendere unattore [Aniello Arena, ergastolano] che non aveva mai fattonulla al cinema e riuscire comunque a renderlo vivo: Aniellomi sembra abbia fatto una grande interpretazione, ti consen-te di identificarti, perché ha le sue ingenuità. Almeno io miidentifico con lui e in parte anche con chi gli sta intorno eche a un certo punto si rende conto che Luciano non ci stapiù con la testa: eppure, chi gli sta intorno è mandante ecomplice nella sua vicenda. Comunque, Luciano è una figuracon un certo fascino, e io mi sono identificato molto, nel sen-so che lo capisco. In fondo anche io ho le mie seduzioni, an-che tu, chiunque le ha: possiamo pure pensare che quello siaun personaggio che non ci riguarda, perché ci fa comodo, maio credo abbia molte cose in comune con le problematicheche posso avere io a vari, altri livelli. Lui ha il Grande Fratel-lo, io posso avere altre seduzioni, altre trappole.

Cannes, l’Oscar?[Ride] …mah, ce ne sono tremila, dipende da te, dal periodoin cui ti trovi. Luciano è un personaggio che non ho racconta-to con distacco, senza sapere chi fosse: ho cercato di capirlo.

Ma tu non sei arrivato alla sua folle risata…[Ride] Ma che ne sai… Anche con il secondo Grand Prix, e sedopo faccio una stronzata?!

Prima di Cannes è scoppiata la polemica: sei stato accusato di averdato 20 mila euro a un boss della camorra per poter girare Go-morra.È gossip, io lo considero tale. Se la notizia esce a febbraio-marzo – Rosaria Capacchione ne parlò sul Mattino – è un

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conto, ma se a pochi giorni da Cannes, quando si sa che sonol’unico italiano in concorso, ricompare in prima pagina, chia-ramente ci sono dinamiche commerciali, di gossip.Detto questo, non si è mai sentito di un regista che di tascasua dà 20 mila euro alla camorra per girare: semmai ci doves-se essere qualcuno che contratta – nel caso nostro so che laproduzione non ha dato una lira – è la produzione, non il re-gista. Me l’avessero detto su Reality già poteva essere, perchésono per metà anche produttore, ma su Gomorra ero stipen-diato come regista.Al di là di questo, faccio un lavoro che mi piace, ho una vitaprivilegiata, qualcosa dovrò pure pagare. Come diceva Pasoli-ni, il successo è l’altra faccia della persecuzione: un po’ è vero,il successo è anche bello, in certi casi ti può aiutare, ti agevola,in altri diventa persecutorio. Eppure non mi sembra elegantefare del vittimismo: certo, mi ritrovo in procura a Napoli a tregiorni da Cannes, interrogato due volte al 12° piano, e ancoraun’altra volta tornato dal festival. E mi fanno delle domandesu fatti che risalgono al 2007, di tempo ne è passato…

Come ti spieghi queste accuse?Vogliono attaccare me per attaccare Saviano, l’ho capito. Hol’impressione di trovarmi in mezzo, ma a differenza di Savia-no, che va a parlare in tv e fa un percorso diverso dal mio, iopreferisco starmene in disparte, quindi mi scoccia ritrovarmicontinuamente buttato in mezzo. E mi spiace anche per ilmio lavoro: quando vado a Cannes, so che devo passare sultappeto rosso e che mi fanno le foto, ma poi come ho fattocon Gomorra ritorno nella mia ombra. Il fatto che mi ritirinofuori, che mi vogliano far diventare personaggio mio malgra-do mi dà fastidio, perché mi impedisce di aver quella capaci-tà camaleontica che è la mia caratteristica principale. Quandolavoro, ho bisogno di mimetizzarmi con i luoghi e l’ambiente,viceversa, nel momento in cui divento personaggio sono glialtri che guardano me, non più io a guardare gli altri. Dettoquesto, c’è sempre un prezzo da pagare, anche la procura èun’esperienza nuova, non mi posso lamentare… Ma quel chemi è successo non è lontanamente paragonabile alla tragediache è capitata con Marco: un vuoto incolmabile che segna un

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punto del mio percorso. Con lui avevo un affiatamento spe-ciale, anche quando facevo la macchina a mano mi giravo eguardavo sempre Marco al monitor per avere conferme econsigli. Un compagno di lavoro e una figura paterna, di dol-cezza unica.

Accompagnerai Reality in giro per il mondo come hai fatto conGomorra?No, decisamente meno. Con Gomorra è stato troppo e poi nonè servito a nulla. Non so quante cene ho fatto a Los Angelesper la campagna Oscar… L’esclusione di Gomorra, che nonrientrò nemmeno tra i titoli preselezionati per il miglior filmstraniero degli Academy Awards, fu uno scandalo, come ebbea dire anche il Los Angeles Times. Non tanto per la mancatacinquina, perché quando hai a che fare con le giurie è legitti-mo che ognuno abbia i suoi gusti, ma perché anche in passa-to erano rimasti fuori dei film importanti e per questo si eracreata una giuria tecnica chiamata a giudicare in base al valo-re del film e ai premi vinti. Considerando i riconoscimenti in-cassati, Gomorra era il primo: pace per i vecchi giurati del-l’Academy, ma la giuria tecnica? Detto questo, non è chel’Oscar al film straniero ormai cambi qualcosa: un conto sevinci per il miglior film come The Artist, o ne prendi cinque osei, ma la statuetta del film straniero non cambia granché. E,ripeto, ho fatto delle cene assurde, con le gente che mangiavae mi faceva domande: un’umiliazione incredibile, terrificante.

Comunque, Gomorra è piaciuto, anche in America.Sì, da un certo pubblico americano è stato molto amato. Inhomevideo è uscito con la Criterion Collection, una dellepiù prestigiose collane di cinema classico, che include po-chissimi film contemporanei. Ma in principio non è stato fa-cile: la struttura della sceneggiatura fu criticata da una gros-sa distribuzione – per non fare nomi – italiana. Parlarono, miricordo, di occasione mancata, e mi immagino bene quantoavesse in mente chi legge le sceneggiature: una strutturaamericana, Saviano con la vespetta che girava e rifletteva sulbene e sul male, per rendere più agevole l’identificazionecon il personaggio e individuare il buono e il cattivo senza

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problemi. Ma a me non interessava, mi sembrava un mecca-nismo un po’ artificioso che arrivasse sempre Saviano con lavespetta nel momento in cui accadeva qualcosa, e quindi hocambiato la struttura di Gomorra. Non ho puntato a creareun’identificazione con un personaggio, perché il film centrala propria anima sulla continua zona d’ombra che si muovetra bene e male.

Che cosa ti aveva affascinato del romanzo?Le immagini, alcune immagini molto forti, come l’aperturadel container con i cinesi ghiacciati che cadevano giù. Poinon l’ho messa, perché non entrava più nella storia, ma miaveva molto colpito. A dire il vero, inizialmente avevo propo-sto una serie tv da Gomorra tipo Decalogo, perché dal film sa-rebbero inevitabilmente rimaste fuori un po’ di scene che mipiacevano. Ora la fanno quella serie tv, ma non mi riguardapiù: mi sembra di essere riuscito miracolosamente a passareattraverso la giungla, ritornarci non avrebbe senso, e nonavrei la freschezza.

Torniamo a Reality, e al tuo protagonista Aniello Arena, che è re-cluso nel carcere diVolterra.Fa l’attore con Armando Punzo e la Compagnia della Fortez-za da 10 anni, con successo e premi. Ha una passione per larecitazione, ma è anche un mestiere: al contrario, il caso delpersonaggio che interpreta è più illusorio. Luciano viene illu-so. A molti basta avere il colpo di fortuna per arrivare lì, peròpoi se non c’è un mestiere dietro duri una stagione, ed è unaltro discorso da quello di Aniello: lui ha trovato la sua stra-da, non aveva mai fatto cinema, ma ora l’ha fatto con me, e inmaniera non traumatica rispetto al suo modo di lavorare conArmando, perché anche se abbiamo linguaggi diversi siamoabbastanza vicini, ovvero lasciamo libertà all’attore di metter-ci del suo, cerchiamo il dialogo. Ripeto, Aniello non ha avutotraumi, è un attore e mi auguro che quando uscirà Realitypossa avere altre proposte, che affini la dizione per fare an-che personaggi diversi. Non ho la sensazione d’averlo illuso,l’ho scelto perché aveva la fisicità giusta per il personaggio eha talento come attore.

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E ora il post-Reality.Ho iniziato a scrivere un nuovo progetto, non so se l’ideaprenderà corpo o meno, però l’unico modo per capirlo è la-vorarci. Appunto, il desiderio è stato di mettermi subito al la-voro, non fare come dopo Gomorra, quando ho perso un an-no tra i vari paesi in cui lo presentavo, le cene e i premi. Rea-lity è stato faticosissimo per me, ma averlo superato mi sdoga-na da Gomorra, che già è una cosa positiva, e poi essendo unfilm apparentemente realistico ma in realtà molto ricostruitoe astratto mi avvicina ad altre scommesse. Dopo Reality, pos-so saltare a film di fantascienza, horror, chissà.

Quali temi ti interessano?Sono sempre gli stessi, legati ad archetipi, e mi vengono na-turalmente dalle atmosfere che vivo, lo stato d’animo, qual-siasi cosa. E anche se facessi un film ambientato nel Seicen-to sono certo che arriverebbero delle cose sull’oggi, sul no-stro presente.

Qual è il presente di Reality?Nelle interviste con la stampa internazionale a Cannes vole-vano sempre farmi dire che quella era l’Italia di Berlusconi,al contrario, io cercavo di far riflettere i giornalisti stranierisul fatto che il percorso, la deriva parte da prima: ne parlavagià Pasolini nel ’75 di società dei consumi, trasformazioneantropologica. Non è che per forza bisogna parlare di Berlu-sconi, ma ritengo sia una questione di gusti: c’è chi ama untipo di cinema più didascalico e di denuncia, e chi inveceama un cinema più astratto. Appunto, so che uno dei tanti ri-schi di questo progetto era fare un film a tesi, per cui alla fi-ne si arrivasse a dire: «Vedi come la tv riduce le persone?».Questo c’è sicuramente, ma mi sembrava che l’aspetto uma-no fosse il più importante: tirare fuori le contraddizioni, iconflitti che vivono le persone come Luciano, riuscire a crea-re qualche domanda, perché le motivazioni per entrare alGrande Fratello possono essere tante, tantissime.

Ti ritroveremo nella Casa?[Risata] Non sono un intellettuale…

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OLTRE L’INDIGNAZIONE,LA SPERANZA

“Non si tratta né di revisionismo né di fedeltà allabandiera, ma di capire quello che è successo, di

raccontarlo – piaccia o meno – per il verso giusto. Saròantiquato ma il mio modello resta Pasolini”. Uno dei

maggiori registi italiani contemporanei racconta il suocinema partendo dal suo ultimo lavoro su Piazza Fontana.

Una riflessione che va oltre il film per interrogare ilrapporto fra arte e verità storica, fra passato e presente,

fra ‘indignazione’ e ‘progetto per il cambiamento’.

MARCO TULLIO GIORDANAin conversazione con FLAVIO DE BERNARDINIS

L’idea è conversare con Marco Tullio Giordana sulla funzione civi-le, e intellettuale, del cinema. E non solo. Perché oltre a Romanzodi una strage, il film che racconta e tenta di ricostruire la tragicae tormentata vicenda di Piazza Fontana, Giordana ha messo inscena a teatro la monumentale trilogia di Tom Stoppard, circa 400pagine di copione, dal titolo La sponda dell’utopia. Una rifles-sione sul sogno di chi si dibatte a immaginare un’altra società,un’altra idea di comunità civile e politica.Tra i personaggi, infatti,figurano Bakunin, Herzen, Marx, Kossuth.

Partiamo senz’altro dal tuo ultimo film, Romanzo di una strage,che racconta i fatti relativi all’eccidio di Piazza Fontana.Premetto che «cinema impegnato» è un modo di dire moltoriduttivo, evoca una brutta simbiosi tra cinema e ideologia,come se il cinema fosse uno strumento pedagogico, un’armadi persuasione. Per me l’ideologia non è altro che falsa-co-scienza, il cinema dovrebbe essere tutto il contrario. Dovreb-be fare mondo a sé, navigare in un altro mare, come dicevaBurkhardt: politica e cultura sono due potenze nemiche. Ve-nendo al film: Stefano Rulli e Sandro Petraglia stavano lavo-rando a questo progetto già da cinque-sei anni. Per suo con-to Riccardo Tozzi, il produttore, aveva in mente una sorta ditrilogia sugli anni Settanta, Piazza Fontana avrebbe dovuto

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esserne il primo capitolo. Un altro il caso Moro (per quantosia stato già affrontato), un altro ancora la progressiva dege-nerazione della cosa pubblica, il crimine che poco per voltaconquista lo Stato. Per quanto affascinato, questo progettomi spaventava, lo pensavo impossibile. Per la massa stermina-ta di informazioni, per la loro diluizione nel tempo, le veritàemerse nel corso degli anni smentite l’una con l’altra e, infi-ne, per l’infinità di personaggi da raccontare.

Poi però il film l’hai fatto, perché hai cambiato idea?Sono milanese, ero un ragazzo quando è scoppiata la bomba.Stavo sul tram a poche centinaia di metri, ho sentito l’esplo-sione, lo spostamento d’aria, ho visto i bigliettini volare viedal tavolino del controllore. La scena che nel film vede il bra-vo giornalista Marco Nozza è successa a me. Conoscevo i pro-tagonisti di quei fatti, il commissario Calabresi, il questoreGuida, Licia Pinelli, i ragazzi del movimento studentesco,quella storia l’ho vissuta in prima persona. Non sono per mevicende astratte, cognizioni de relato, ma esperienze che han-no marcato tutta la mia giovinezza. Come i funerali in Piazzadel Duomo, come le continue manifestazioni per contrastarela disinformazione e chiedere giustizia, in una delle quali,l’anno dopo la strage, il mio compagno di scuola Saverio Sal-tarelli fu ucciso da un lacrimogeno sparato ad alzo zero. Do-po Piazza Fontana niente è stato più uguale a prima.

Hai voluto fare i conti con le illusioni perdute?Volevo raccontare quella storia a chi è ragazzo adesso e nonne sa nulla. Perché la scuola non lo insegna, perché i genito-ri non gliel’hanno saputo raccontare. Potevo utilizzare la miaesperienza personale nella ricostruzione di quelle atmosfere,del sentimento del tempo. Anche se ho dovuto «studiare», ri-leggermi tutto, perché la memoria spesso è ingannatrice.

Hai riletto tutto, ma ovviamente «tutto» non poteva entrare nelfilm…Infatti, il lavoro più arduo è stato scremare, «cavare» dalla pie-tra viva, estrarre dalla mole di dati e informazioni il nucleo vi-vo di ciò che volevamo raccontare. In una parola: scegliere. Un

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film infatti può essere tante cose, tanti progetti diversi. Cosavuoi fare: una fabbrica, una chiesa, una stazione ferroviaria,un appartamento oppure la Casa sulla cascata? Il progetto delfilm era raccontare a una generazione che non sa nulla diquelle cose, remote come le guerre puniche, cosa è stata quel-la stagione, quel terrificante laboratorio italiano che alla finedegli anni Sessanta tenta di bloccare l’avanzata di quella cheoggi chiamiamo società civile, non solo la richiesta di salaripiù alti ma di maggior giustizia sociale, di accesso alla cultura,di ampliamento dei diritti. Raccontare oltre al quadro politicointerno quello internazionale, il mondo diviso in blocchi, diqua l’America, di là la Russia, la sovranità limitata delle nazio-ni entro queste due aree. La risposta del Palazzo al Sessantot-to, l’eterno camaleontismo gattopardesco, e infine la doman-da più logica: chi è stato e perché nessuno ha pagato il conto?Certo, questo non tutto, ci penseranno gli storici a dire il resto,ma se un film riesce a dar conto, anche soltanto in parte, diquesto contesto, penso che sia già molto.

Vi siete comunque posti il problema del contesto di ricezione in cuiil film veniva a cadere? Intendo dire che l’immaginario collettivo,per dirla così, manipolato dai mass media e dalla letteratura diconsumo, è molto attento al tema del complottismo, della dietrolo-gia misteriosa e oscura, e tuttavia appagante e rivelatrice. Intendodire che l’immaginario contemporaneo è totalmente estraneo allaluce della metafora, dell’immaginazione artistica, del dubbio comemetodologia per lo smascheramento degli inganni del potere. Il te-ma della doppia valigia è spiaciuto proprio per questo: è stato vistocome motivo di confusione capace di frenare, intorbidire la ricercadella verità, e non come una metafora. A me sembra importantesottolineare che la doppia valigia sia anche una metafora. Il temaè infatti presentato come il sogno di un personaggio, un’immagina-zione romanzesca, perché subito dopo il colloquio con il dirigentedegli Affari segreti, il commissario Calabresi, accovacciato sul di-vano di casa sua, si sveglia di soprassalto.Proprio perché espediente narrativo la doppia valigia è pre-sentata nel film attraverso una modalità onirica. Tuttavial’ipotesi della doppia bomba è una possibilità su cui si è effet-tivamente investigato. Ci aveva lavorato il giudice Emilio Ales-

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sandrini, non era per niente campata in aria. Io non capiscoperché abbia suscitato tanto scandalo. O meglio: la capiscosolo se si ragiona in termini di ciò che si dice politically cor-rect. Lo scandalo proviene dal fatto che una valigia l’avrebbe-ro messa gli anarchici (e non è nemmeno lontanamente am-missibile che uno di sinistra abbia potuto fare una cosa simi-le! Lo penso anch’io e infatti il film non dice questo!). Mentidi destra, manovali di sinistra, questo pensava Calabresi, manon è questo quello che racconta il film. Quando Calabresilo dice al prefetto D’Amato (capo dell’Ufficio affari riservatidel Viminale) questi lo smentisce: la prima bomba è statamessa da fascisti travestiti da anarchici (perché la colpa rica-desse su di loro) e la seconda bomba viene raddoppiata daiservizi segreti che non si fidano dei loro manovali di destra.D’altra parte c’erano stati i precedenti attentati del 25 aprilea Milano (alla Fiera campionaria e all’Ufficio cambi della Sta-zione Centrale), e dell’8 e 9 agosto sui treni dove gli ordigniavevano fatto i botti ma non i morti. Erano i morti che si vo-levano, per questo a Piazza Fontana hanno agito direttamen-te. Fantapolitica? Dietrologia? Complottismo? Quelli chepensano che il film voglia affibbiare una corresponsabilitàagli anarchici non hanno capito nulla. Il film dice proprio ilcontrario! Dice che Piazza Fontana non è la nascita del terro-rismo (che ne sarà se mai la conseguenza) ma una manovra diintelligence, italiana e Nato, pianificata a tavolino, l’invenzio-ne della cosiddetta strategia della tensione. Forse i detrattorinon hanno nemmeno visto il film.

Vi rimproverano di esservi ispirati al libro di Paolo Cucchiarelli Ilsegreto di Piazza Fontana. Che sostiene che la prima bombal’hanno messa gli anarchici, sia pure con l’intenzione di non farevittime.Erano convincenti le prove di un doppio ordigno (fatte spari-re subito), ma non sono mai stato d’accordo sulla loro attri-buzione. Il film, ripeto, sostiene che la prima bomba l’hannomessa i fascisti travestiti da anarchici, la seconda l’hannomessa i servizi. Cucchiarelli esegue una Tac accurata ma sba-glia in parte la diagnosi. Per me non è motivo sufficiente percondannarlo al rogo, si può non essere d’accordo su tutto, la

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dialettica esiste anche con le proprie fonti d’ispirazione.L’anatema che gli accademici hanno scagliato su Cucchiarel-li lo trovo abbastanza ridicolo.

Sono andato a rimestare nelle testimonianze di quegli anni, e hoverificato che questa teoria del «doppio livello» era allora moltodiffusa, almeno negli ambienti della sinistra radicale. La teoria èeffettivamente quella espressa nel film. Il potere sembra agire at-traverso una strategia che investe un doppio livello di competenze:un potere di manovalanza, ossia gli attentatori, e un potere di in-telligenza, ovvero i reali ed effettivi beneficiari di tutta l’operazio-ne. Le mani sporche e la testa lucida.Esatto. Non ci sono novità, segreti mirabolanti, eresie. Già al-lora, mettendo in sequenza la catena di episodi, era possibileformulare questa ipotesi. Il dato sconvolgente è se mai pro-prio questo: pur potendo giungere alla verità non si è arriva-ti ai veri colpevoli, oppure non si è arrivati per tempo.

Freda eVentura e gli ordinovisti veneti sono stati riconosciuti comeorganizzatori ed esecutori, oltre che delle bombe che citavi prima,anche di Piazza Fontana.Sì, nella sentenza della Cassazione del 2005, trentasei annidopo! Quando le precedenti assoluzioni li rendevano ormaiinvulnerabili!

La reazione di Adriano Sofri, l’apparizione fulminea del suo in-stant book elettronico dedicato a smentire le ipotesi del film, è sta-ta dura e sostenuta. Sono tuttavia rimasto molto colpito da ciò cheegli dice alla fine del libro. Il film di Giordana, afferma Sofri, conla questione della doppia valigia, dà a intendere che tutto quelloche è accaduto sia passato sopra le nostre teste, senza che noi sa-pessimo o potessimo far nulla. Ebbene, questo è inaccettabile. Inac-cettabile perché intollerabile: è semplicemente intollerabile, infatti,essere espropriati della propria storia, delle proprie scelte, dellapropria vita.Più che un instant book, mi sembra qualcosa già in pentola daparecchio tempo. Sofri pensa di avere il copyright sulla que-stione e ha convinto un po’ tutti del suo diritto ad avere sem-pre l’ultima parola. La rispetto, ma per me non è né l’ultima

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né la definitiva. Ognuno ha il suo Sessantotto da raccontare,le sue trombe da suonare o le sue campane. Purtroppo è pro-prio quello che è successo: tutto è passato sopra le nostre te-ste, la nostra rabbia fu costruita a freddo e radiocomandata.Preferisco rendermi conto della manipolazione piuttosto cheripetere il mio mantra all’infinito. Non si tratta né di revisio-nismo né di fedeltà alla bandiera, ma di capire quello che èsuccesso, di raccontarlo – piaccia o meno – per il verso giu-sto. Sarò antiquato ma il mio modello resta Pasolini.

Il titolo del film è una citazione esplicita da Pasolini.Romanzo di una strage si riferisce esplicitamente al celebre arti-colo apparso sul Corriere della Sera. Pasolini, siamo nel 1975,mette in fila tutti i dati e i fatti dello stragismo e vi individuadue linee direttrici: una intesa ad addossare la filiera dei delit-ti alla sinistra, per creare nel paese una compatta opinionepubblica anticomunista; l’altra, scaricando i manovali fascisti,tesa a produrre una reazione antifascista (ecco perché vengono«bruciati» Junio Valerio Borghese, Delle Chiaie, Giannettini evari operativi dei servizi). Entrambe queste linee vogliono coa-gulare l’Italia attorno a un centro robusto, stabile, non conta-minato dagli opposti estremismi. La Democrazia cristiana piùconservatrice e lontana dall’ipotesi di aperture a sinistra (Mo-ro). Quello che interessa ai reazionari di casa nostra, e all’Ame-rica di Nixon e di Kissinger.Allora tutto ciò non era evidente, equell’articolo apparve come una delle consuete acrobazie pa-soliniane, una rappresentazione paradossale e visionaria, sen-za vera attinenza coi fatti reali. In realtà – e le scoperte succes-sive ne confermeranno ogni virgola – è un’analisi che coglieperfettamente non solo quello che sta succedendo nel paese –per l’appunto: i fatti – ma ne racconta il «senso», quello che Pa-solini chiama «romanzo», il romanzo delle stragi.

Molti hanno detto che i fatti narrati nel film ci riguardano ancoratalmente tanto che è impossibile, forse inopportuno, rimestarvi. Sa-rebbe una ferita così aperta e reattiva, che non è possibile «roman-zare».Come si fa a dire una cosa del genere dopo quarant’anni epassa! È assurdo. E soprattutto mi sembra una sciocchezza

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che la letteratura, il cinema, la poesia, l’arte debbano seguirele leggi del magistrato. Siccome il magistrato non ci è arriva-to, nemmeno io debbo permettermi. Ma io ci arrivo prima, emeglio! Il cinema, la letteratura, la poesia, sono infinitamen-te più libere, il loro statuto è raccontare la realtà – per quan-to «romanzesca» – non scrivere un rinvio a giudizio.

Questo è frutto anche dell’attuale civiltà del reality. Raccontare evivere coincidono. Non c’è più immaginazione, c’è solo realtà. Uncritico importante, sul tuo film, ha detto che a conti fatti avrebbepreferito non un romanzo, ma un’inchiesta.Capisco. Può sempre scriverla lui. Sempre meno complicatoche mettere in piedi tutto il baraccone di un film. Che, toccaripeterlo fino alla noia, è un altro genere di scrittura.

A me è capitato spesso di parlare del tuo film. Quando si arrivavaalla questione Pasolini, la discussione si accendeva ancora di più.Altro che Pasolini, mi veniva obiettato, con Pasolini ci si indigna,qui invece alla fine non c’è nulla di cui indignarsi.Adesso c’è questa parola d’ordine: indignazione, molto mo-derna, molto cool. Certo, in Italia c’è parecchio da indignarsi.Poi però, finita la febbre, tutto rimane esattamente come pri-ma. L’indignazione non richiede molto lavoro, non richiedeapplicazione né studio, tutto finisce con un elegante do dipetto. Basta quello a salvare l’anima. A me non piace, non di-ce niente, non se ne fa nulla di e con questa indignazione,non si cambia una virgola. C’è un profondo narcisismo di cuiè vittima l’intelligencija italiana, sembra che il solo obiettivosia mantenere e difendere il proprio status. Per questo non èpiù simpatica, per questo non è più incisiva. Pasolini non siindignava, era al contrario molto freddo, analitico, chirurgico.Niente invettiva, niente lauda medievale ma anamnesi spieta-ta e demolizione del luogo comune, della vulgata rassicuran-te. Quando scrive la poesia Il Pci ai giovani e se la prende congli studenti di valle Giulia difendendo i poliziottelli del Sudfa proprio questo. All’epoca ne fui irritato, ma quei versi mihanno fatto pensare. Non si trattava affatto di indignazione.L’indignazione è molto simile al sentimento che suscita lapubblicità: mi emoziono, compro. Mi indigno, mi eccito, godo

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assieme ai miei sodali entrobordo, a quelli che la pensano co-me me. E poi, che succede veramente? Ho fatto cadere Berlu-sconi con questo? Ho liberato l’Italia dal neofascismo? Cosasi vuole ottenere davvero con questa indignazione?

L’altra parola d’ordine contemporanea, uguale e contraria, è as-suefazione. Il malaffare è ormai qualcosa a cui noi tutti siamo as-suefatti. Evidentemente assuefatti nell’indignazione. Se così stan-no le cose, come riesce la metafora, come fa l’immaginazione arti-stica a scalfire, se non incrinare, questa assuefazione all’esistente?Al concorrente di un reality, in fondo, si chiede proprio questo, as-suefarsi alla vita condivisa, coatta, in comunità.Questa assuefazione c’è ma non riguarda tutti. Siamo assue-fatti una buona metà, certo quella che basta a eleggere il par-lamento screditato che abbiamo. Ma non tutti siamo assuefat-ti, non sempre, non nello stesso momento. A me sembra, peresempio, che i giovani non lo siano. Sono comunque alla ri-cerca di qualcosa, hanno poco da perdere, non sono compro-messi. Questa assuefazione riguarda piuttosto l’informazione,così come oggi è prodotta, così come viene intesa, casta che hacome interlocutrice un’altra casta.Tutto il sistema della comu-nicazione mi sembra oggi assai narcotico. Gli artisti – e non daoggi – hanno sempre lavorato per ottenere l’effetto contrario.

Parlando di assuefazione e di sistema della comunicazione, non èpossibile sorvolare sulla questione dell’antipolitica, che si è staglia-ta con forza, forse imprevista, nell’orizzonte della società e dellacultura in Italia.Non credo che antipolitica sia l’espressione giusta. Ciò che staaccadendo in Italia oggi è piuttosto il rigetto di un’intera classedirigente che ha assunto i connotati di un’oligarchia immobi-le e incompetente, compatta solo nel difendere i propri privi-legi, sia a destra che a sinistra. Un’oligarchia senza più remo-re né titubanze al saccheggio, evidentemente parassitaria,senza più nemmeno il nascondiglio delle buone maniere. Icittadini chiedono – ancora abbastanza sommessamente, macredo che la misura sia ormai colma – la sostituzione di que-sto apparato inetto, corrotto, intellettualmente molto scaden-te. Questa, per me, non è antipolitica, forse è solo un sano an-

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ticorpo. Si tratta, certo, di forme di rigetto ancora elementari,che non hanno ancora elaborato un’ipotesi alternativa. Maarriverà prima o poi anche quella. Non è antipolitica chiede-re l’estromissione dei corrotti e dei mafiosi dal parlamento.

Permettimi di insistere in tale direzione. Cambiando un poco ilpunto di vista. Oggi assistiamo a questo fenomeno: le persone si ri-fiutano di essere rappresentate, rappresentate da una classe diri-gente per lo meno inadeguata. Questo rifiuto della rappresentan-za, allora, va anche a incidere nella sfera artistica. Intendo dire,nauseate da chi vorrebbe rappresentarle, ma anche narcotizzatedal sistema della comunicazione, non pensi che le persone abbianoormai metabolizzato, istintivamente, il rifiuto di essere rappresen-tate dall’artista?È giusto che non si sentano rappresentate da un solo artistain maniera univoca, come se esistesse un unico cantore, unsolo Bardo! Non esiste l’Artista, esistono gli artisti. Tante vo-ci, diverse, tante esperienze raccontate. È un ecosistema, nonil culto della personalità. Penso agli artisti come tessere di unmosaico che costituisce, appunto, lo stato dell’arte, cioè laconsapevolezza che un paese ha di se stesso. Sono le opereche parlano. Può anche darsi che l’opera incroci un periodostorico ostile, non è detto che venga capita subito. Bach, dopola sua morte, cadde nel dimenticatoio per quasi un secolo.L’opera lavora nel tempo, può capitare che venga compresa eadottata da generazioni anche molto successive.

Vorrei allora passare all’altra tua opera recente, ossia la messin-scena a teatro del testo di Tom Stoppard, La sponda dell’utopia.Innanzitutto per chiederti di questa esperienza. E poi per interro-garti, nello specifico, su quale possa essere, oggi, davvero, una pos-sibile sponda dell’utopia?Credo che il bellissimo testo di Stoppard dica una cosa mol-to importante: malgrado tutti gli errori e gli esperimenti an-dati a vuoto, l’uomo ha bisogno di un progetto, di qualcosache cerchi il superamento di un limite. L’uomo per forza dicose aspira a una società migliore di quella in cui vive. Così èstato, così sempre sarà. Le grandi correnti di pensiero attivenel Novecento, hanno preso forma un secolo prima. In Euro-

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pa, in Russia, quella Russia che nel XIX secolo era molto piùintegrata nell’Europa di quanto non sia oggi. Il lavoro diStoppard esprime l’idea che sia possibile arrivare a un muta-mento, anche radicale, della società, senza praticare necessa-riamente la violenza. Certo, il cammino sarà più lungo, ma ilcosto in termini di sofferenza infinitamente minore. Il sensodello spettacolo, credo, sia molto chiaro: anche quando unasocietà sembra aver esaurito tutte le speranze, la spinta si ri-genera perché necessaria ad andare avanti. Necessaria allasopravvivenza stessa dell’uomo, che non può esistere senzaaspirazioni, senza ideali. L’uomo non si limita a replicare idati del proprio dna. Tutta la sua intelligenza è impegnata aimmaginare variazioni, a progettare modifiche.

Il contatto con il linguaggio teatrale aiuta quindi il tuo dna a nonreplicare i dati?Io adoro il teatro. Sono sempre stato uno spettatore appas-sionato, credo soprattutto perché mi piacciono gli attori. L’at-tore lo si vede bene solo a teatro.Vado a spettacoli teatrali chenon mi piacciono solo per vedere il lavoro degli attori, la loropresenza sulla scena. Non lo faccio solo perché cerco nuovomateriale; mi piace proprio! Mettendo in scena la trilogia hocercato di intercettare un pubblico più giovane di quello abi-tuale degli stabili (Utopia era coprodotto dallo Stabile di Tori-no e dal Teatro di Roma), ponendo particolare attenzione agliaspetti visivi, al movimento della scena e ai suoi cambiamen-ti continui, al taglio della luce. Rispetto al cinema, dove tuttoviene trascritto «realisticamente» nella koiné del linguaggioquotidiano, il teatro permette ancora di sentire parole «alte»,resta il luogo dove una lingua concettuale è possibile. Ovvioche dipende dai testi che si scelgono.

Il film e la trilogia di Stoppard nello stesso anno. Due missioni im-possibili!Effettivamente, sia Romanzo di una strage che La sponda del-l’utopia sembravano imprese disperate. Non era certo previ-sto che coincidessero e ci sono stati momenti in cui ho temu-to per la mia salute! Alla fine però è andata, si sono fatte, edevo dire che ognuna ha dato forza all’altra.

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Vorrei soffermarmi sulla questione degli attori. Il tuo cinema, tutto,presenta delle marche ben precise di riconoscimento. Una di questeriguarda gli attori. Ho l’impressione che con te gli attori riescanosempre a dare il meglio.Tra l’altro, è una questione che mi sta par-ticolarmente a cuore perché, nel mio lavoro di insegnante presso ilCentro sperimentale di cinematografia, da qualche anno a questaparte, ho notato che gli attori sono gli allievi forse più curiosi e mo-tivati. Quelli più attenti alle implicazioni anche intellettuali dellaprofessione che si accingono a intraprendere.Per esempio Pierfrancesco Favino, un attore davvero moltobravo. Grande conoscenza di sé, dei propri mezzi, del propriocorpo. Un talento da istrione, una capacità mimetica sorpren-dente, un dono naturale per i dialetti e la loro musica. C’è unagenerazione di attori, oggi più o meno quarantenni, con carat-teristiche molto simili: Favino, Lo Cascio, Gifuni, Zingaretti,Boni. Vengono tutti dall’Accademia d’arte drammatica Silviod’Amico, hanno fatto in tempo ad assorbire la lezione – eprendersi qualche strigliata! – da quel grande maestro che èstato Orazio Costa. Tutti attori estremamente consapevoli diquello che stanno facendo, come usano la voce, come la tiranofuori. Ne sanno perfino più di tanti registi che li hanno diretti,e infatti prima o poi – qualcuno l’ha già fatto – li vedremo tut-ti diventare registi al cinema o in teatro. È un piacere lavorarecon loro perché ogni battuta, ogni sfumatura di ogni singolaparola, sai che l’hanno studiata, provata e riprovata mille volte,cercando mille strade, offrendo una straordinario spettro dipossibilità. Questo può perfino avere qualche controindica-zione. Troppa consapevolezza, troppo perfezionismo rischianodi rendere l’attore impeccabile e sublime, ma «freddo». Mancaquella vibrazione, quell’incertezza, quel controtempo che as-somiglia alla naturalezza e cancella del tutto l’idea della finzio-ne. Allora mi capita di cambiare qualche battuta all’ultimo, in-vertire l’ordine di una frase, sostituire, tagliare o aggiungerequalcosa. Non si tratta di una vera improvvisazione, ma un pic-colo ostacolo che renda meno filante e tornita la frase, ne cor-rompe il suono perfettamente intonato per portarlo invecepiù vicino all’approssimazione della lingua parlata, alle suepause fuori tempo, alle sue accentuazioni tecnicamente sba-gliate, e in realtà infinitamente più espressive.

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Questo metodo non li disorienta?In genere funziona, i risultati alla fine convincono anche lo-ro. Fabrizio Gifuni – pur vincolato alla forte caratterizzazionedel suo Aldo Moro – ha «improvvisato» una lunga scena scrit-ta lì per lì, pochi minuti prima del ciak. È la scena in cui rac-conta al colonnello Alferano (il bravo Bruno Torrisi) di quan-do insieme a Saragat aveva affrontato il presidente Segni du-rante il tentativo di golpe del generale De Lorenzo. Gifuni haavuto giusto il tempo di impararla a memoria eppure l’ha re-citata, anzi l’ha detta, in perfetta coerenza col personaggioche stava disegnando. Oramai era Aldo Moro!

Ricordo la scena, e sembra tutto tranne che improvvisata. A questopunto, vorrei una tua considerazione anche su Valerio Mastan-drea, che personalmente ritengo uno fra i migliori attori di questagenerazione. Quanto meno, l’attore più squisitamente cinemato-grafico, che incontra la macchina da presa nell’istante preciso incui la macchina da presa sta incontrando lui.Mastandrea è un tipo di attore del tutto diverso, pieno di ta-lento anche lui. Mi ha sempre colpito l’assoluta naturalezzadella sua recitazione, le battute che sembrano sgorgare da so-le. Non sembrano scritte, sembra che non esista un copione etutto venga improvvisato al momento. Ho notato questa ca-ratteristica in tutti i film che Valerio ha girato, un dono cheregala a tutti i suoi personaggi. In più ha straordinari tempicomici, qualità per me somma in un attore. Ma per interpre-tare il commissario Calabresi, Valerio doveva dire battutemolto precise, né poteva avvalersi delle sue qualità «comi-che», e per la prima volta nella sua carriera si è misurato conun personaggio realmente esistito. Essere impassibile, senzache questo risulti assenza di pathos. Indossare la mascherache il personaggio adotta all’esterno, persino in casa, persinocon la moglie, per non trasmettere la propria angoscia, i pro-pri dubbi terribili.

Non aver paura di essere antipatico…Infatti! La parola significa proprio questo: negare il pathos,nasconderlo, tagliare questo ponte tra sé e gli altri. Mastan-drea ha fatto un lavoro impressionante persino sulle micro-

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espressioni. Verso la fine del film c’è un dialogo-scontro colcapo degli Affari riservati, affronta Federico UmbertoD’Amato (Giorgio Colangeli, altro magnifico interprete). Inquesta scena, a un certo punto, Colangeli quasi lo provoca,dice: ma lei crede davvero, commissario, che uomini delloStato possano aver voluto la morte di tante vittime innocen-ti? Valerio ne sostiene per un po’ lo sguardo, poi si volta versola finestra dove è precipitato Pinelli, e cosa fa? Si commuove.Una cosa che passa solo nei suoi occhi, che per un attimo siinumidiscono. Tutto questo succede dentro di lui, fuori nonsi è mosso un muscolo. È proprio vero, come mi diceva il ca-ro Vittorio Mezzogiorno, che il cinema è una radiografia.

Quanto tempo ci è voluto per girare quel dialogo?Una giornata. Era necessario che quel dialogo, così importan-te nell’economia del film, il famigerato dialogo della doppiavaligia, fosse recitato senza interruzioni. Ho detto agli attoriche non potevamo interromperlo, ridurlo a sezioni. Per ognisingola ripresa, occorreva farlo tutto intero. Come si può in-fatti riattaccare a metà, interrompere la cottura? Ogni inqua-dratura, ogni punto di vista della macchina da presa, ogni ciakdurava l’intero chassis, circa nove-dieci minuti. Certo, gli atto-ri dovevano conoscere a memoria dieci pagine di sceneggiatu-ra. Mantenere la concentrazione, non perdere mai il filo, unpo’ come a teatro. Tutta la credibilità della scena si basa sugliattori, sul loro grado di persuasione, sul fatto che stanno inte-ragendo, non recitando semplicemente il loro bravo copione.

Ti faccio allora la domanda che tutti gli intervistatori rivolgevanoai registi negli anni Cinquanta e Sessanta: tu sai sempre, istintiva-mente, dove mettere, piazzare la macchina presa?Metto la macchina nella posizione che mi sembra più logica,dove può raccontare di più. Una volta cercavo questo puntodi vista prima di cominciare. Da molti anni invece piazzo lamacchina solo dopo aver provato con gli attori e aver trovatotutti i movimenti. Rispetto ai miei primi film la macchina dapresa sembra che si muova poco, piantata lì nel terreno, fissacome un monolite. Invece ci sono sempre piccoli, impercetti-bili spostamenti e correzioni continue.

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Luis Buñuel ripeteva spesso, nelle interviste, che nei suoi film lamacchina da presa si muove sempre, senza però che nessuno se neaccorga veramente.È vero. Ho sempre ammirato nei film di Buñuel l’uso continuodelle panoramiche, il che significa aver progettato l’inquadra-tura in maniera molto precisa, perché è impossibile muoverela macchina per caso, senza coordinarla a quel che succedesulla scena. Se vuoi, è addirittura più casuale il carrello, anchese sembra invece una forma di movimento molto più elabora-ta. La panoramica esige continue correzioni di fuoco, non sipuò assolutamente improvvisare. Buñuel muove tantissimo lamacchina, ma questo non appare mai evidente, i movimentiarrivano allo spettatore in modo quasi subliminale, scendononel profondo. Da ragazzo studiavo Buñuel proprio per questosuo controllo assoluto delle panoramiche, sempre mimetizzatenella scena in modo da renderle invisibili.

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LE MIE STRADE VIOLENTEDall’invenzione di serie tv (MiamiVice) al digitale

radicale di Nemico pubblico, Mann – autore tra gli altridi Collateral e Ali – ha riletto il crime movie tanto che

alcuni lo ritengono l’unico vero erede del grande cinemaamericano, quello di Hawks, di Lang, di Aldrich, di

Friedkin: “Lo stile per me è ciò in cui la forma decadequando non c’è contenuto”.

MICHAEL MANNin conversazione con MARIO SESTI

Il NewYork Times, parlando di Collateral, uno dei suoi film più in-ventivi e sorprendenti – e forse il primo vero film della storia del cine-ma in cui la fotografia del digitale gonfia di notti livide e crepuscoliincandescenti, è praticamente indistinguibile, per qualità e sfumatu-re, da quella della pellicola – l’ha definito il regista che più di altri,attraverso il cinema d’azione e di genere, ha affrontato in modo radi-cale e appassionato il tema più caldo di questo pianeta: quello del la-voro. Ciò che nel suo cinema si assorbe profondamente e inavvertita-mente, attraverso l’uso di schemi di genere molto popolari ed efficaci,è l’ammirazione per le persone che amano la propria occupazione.Invece quello che Michael Mann proprio detesta è, da Strade vio-lente a Collateral passando per Miami Vice, la gente che sfruttail lavoro degli altri. In realtà gli appassionati e la critica cinemato-grafica lo considerano uno dei più grandi registi viventi. Alcuni loritengono l’unico vero erede del grande cinema americano, quellodi Hawks, di Lang, di Aldrich, di Friedkin ma lui non ama affattoquesti paragoni.Ha profondamente riletto il crime movie, dotandolo di personag-gi di spessore letterario (come Heat, con Al Pacino e Robert De Ni-ro) e facendone una sorta di noir al quadrato che prende corpo inun mondo dove gli uomini non sono mai troppo duri o abili per re-sistere alle insidie e ai tranelli di metropoli sconfinate e tentacola-ri. Non ama neanche la parola «stile» eppure basta vedere L’ulti-mo dei mohicani per capire quanto ne possieda, o Ali e Nemicopubblico, per capire con quale romanzesca complessità abbia sa-puto dare vita al cinema a icone della storia americana come Cas-sius Clay e Dillinger.

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Regista di sorprendente impatto visivo, ha una tecnica inimitabilenella costruzione di complesse scene d’azione la cui coreografia e ilcui camerawork hanno la perfezione delle creazioni artistiched’avanguardia, ma allo stesso tempo si documenta così scrupolosa-mente sulle storie e i personaggi dei suoi film che molto di ciò checompare sullo schermo è autentico e fa parte della vera vita: il pri-mo film che ha girato, The Jericho Mile, era ambientato in unavera prigione con veri detenuti; uno degli attori che più ha usato, elanciato, spesso nei panni del poliziotto, Dennis Farina, è statodavvero un poliziotto. Michael Mann ha girato nella vera casa diMuhammad Ali per Ali e ha avuto una vera corrispondenza conun serial killer prima di lavorare a Manhunter. Dall’invenzionedi serie tv che hanno rivoluzionato il piccolo schermo (Miami Vice)al digitale radicale di Nemico pubblico, Mann è la dimostrazio-ne di come si possa essere dei grandi autori e dei grandi innovatorisemplicemente facendo al meglio il proprio lavoro. «Le personescrupolose in quello che fanno e consapevoli degli impegni assuntinella propria vita, per me sono ammirevoli. Se c’è una cosa che de-testo e che mi fa orrore, è il cadere nel compiacimento». Quello chesegue è il testo integrale di una intervista esclusiva concessa al Fe-stival internazionale del film di Roma che nel 2011, nella sezioneExtra, ha ospitato un gremito incontro con il regista.

Benché il suo cinema sia fatto soprattutto di energia e azione, intel-ligenza dello spazio e delle inquadrature, dei suoi film rimangonoimpressi a lungo i personaggi. È interessante il modo in cui lei rie-sce a farli esprimere, animati spesso da una sorta di atmosferadensa di tenerezza e debolezza, potere e consapevolezza della pro-pria vulnerabilità. Come riesce a far in modo che gli attori condivi-dano con lei questi sentimenti?Per quanto riguarda il modo in cui lavoro con gli attori, pre-ferisco lavorare con quelli che hanno buone capacità sul set,fiducia in se stessi e un sano egocentrismo. Questo li rendeartisticamente ambiziosi e sicuri. Quando le persone sono si-cure di sé, hanno una mentalità aperta e sono desiderose diconoscere. Non temono l’esposizione. Altre scoprono le pro-prie debolezze. E questo le rende insicure e incerte. Alla fineil lavoro lo fanno loro, non io. Christian Bale, per esempio (inNemico pubblico): lui ha studiato il codice d’onore di un genti-

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luomo del Sud, la previsione ancestrale dei tratti caratteriali.Purvis, nella parte del poliziotto che dà la caccia ai gangster,mette tutto ciò da parte perché crede nella nuova visione diHoover: le nuove metodologie e gli ordini di Hoover venneroinfatti presi in prestito dalla polizia di Stato. Quando il crimi-nale Dillinger subisce torture in ospedale, l’agitazione all’in-terno del mondo cristiano, per me, voleva significare chePurvis stesse violando le più profonde regole del suo mondointeriore. Il suo volto riflette una sorta di croce illuminatache eleva al massimo la sua espressività. Non so se il pubbli-co è riuscito a cogliere questo aspetto, ma era questo il suointento. Ancora, la profondità di emozioni della splendidaMarion Cotillard messa in luce alla fine di Nemico pubblicoquando viene a sapere che le ultime parole di Dillinger eranodedicate a lei, mi portava ad avere una gratitudine per le suecapacità e per la sua profonda e indescrivibile sincerità arti-stica. E questo vale anche per i personaggi di Gong Li inMiamiVice e Jamie Foxx in Ali.

So che non le piace essere paragonato ad altri registi e pensa chesia troppo arbitrario trovare influenze e affinità intenzionali (cheè uno dei giochi preferiti della critica), ma è difficile non sottoli-neare quanto profondamente i suoi film esplorino il rispecchiarsidi poliziotti e criminali, che è uno dei temi principali del generenoir a partire da Fritz Lang. Per esempio, ho la sensazione che neisuoi film la responsabilità che assumono i personaggi nell’affron-tare grossi rischi, nel proteggere le persone che amano e come si ri-spettano l’un l’altro se condividono quei valori sebbene si trovinoin ambiti differenti, siano molto importanti (in qualche modo lofanno i personaggi dei film di Hawks, secondo alcuni critici).Vor-rei sapere la sua opinione a riguardo.Sono interessato al conflitto. Il dramma è conflitto. Quandole persone si trovano in circostanze – o sono loro la causadelle stesse – in cui devono prendere una decisione esisten-ziale critica, affrontano un crogiolo che può fortificare la pro-pria personalità, o, nel fallimento, causare l’annientamento diuna parte, non piccola, del sé. Non c’è niente di spirituale inquesto. Significa rinforzare o annientare interiormente ilmodo in cui percepiamo noi stessi. Questo è il dramma.

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Lei ha studiato cinema in Europa e questo è abbastanza inusualeper un regista molto conosciuto e stimato ad Hollywood. È stato im-portante per lei, e qual è la principale differenza tra i due «mondi»?Tra il fare film a Hollywood o in Europa, non penso che oggici sia una grande differenza. C’era negli anni Sessanta, Set-tanta e Ottanta. Secondo me, andando a scuola di cinemanella seconda metà degli anni Sessanta, dopo il forte impattodella Nouvelle vague e l’emergere del cinema del Terzo Mon-do, molti giovani che entravano nel cinema e volevano fare iregisti avevano un approccio teorico «d’autore», mentre ledecisioni di regia delle produzioni convenzionali di Hollywo-od erano gestite delegando le responsabilità ai capi settore.Questa considerazione generale è una semplificazione ecces-siva, ma spesso l’ho riscontrata mentre lavoravo in televisio-ne negli anni Settanta. Tra alcuni registi, di sicuro non tutti,era un atteggiamento diffuso discutere in termini generali illook del film. Poi il direttore della fotografia o l’operatoreavrebbero costruito le inquadrature e così via per tutti i set-tori. Il mio orientamento e la mia inclinazione personale era-no il contrario. Cercavo di acquisire competenze lungo tuttolo spettro del mestiere. Io preparo tutte le mie inquadrature emi impegno quanto è necessario. La mia ambizione è semprestata quella di usare tutti gli strumenti a disposizione, in mo-do attivo, nel contesto di stimoli che un regista crea. Una del-le esperienze più gratificanti è lavorare con professionisti,come nel caso del direttore della fotografia Dante Spinotti,mentre facevamo Insider-Dietro la verità e Heat-La sfida, o diDion Beebe, il direttore della fotografia di Collateral, o di uncostumista come Michael Kaplan di Miami Vice, o soprattuttodi Colleen Atwood, la costumista di Manhunter-Frammenti diun omicidio e Nemico pubblico, la cui creatività e competenzanon solo realizzano quello che immagino, ma raggiungono li-velli inaspettati (i vestiti di Gong Li in MiamiVice, tutti i vesti-ti di Nemico pubblico).

È molto importante per lei conoscere le persone reali dietro ai per-sonaggi dei suoi film: veri ladri, veri poliziotti (Dennis Farina, senon sbaglio, era un poliziotto prima di diventare attore), vera pri-gione e veri prigionieri (come nel primo film che ha diretto). Ha gi-

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rato nella vera casa di Muhammad Ali per Ali e ha avuto una ve-ra corrispondenza con un serial killer prima di lavorare a Man-hunter. Oltre a un bisogno naturale di verità nel fare film, si ha lasensazione che lei abbia bisogno di essere eticamente vicino almondo reale nel fare il suo lavoro, una sorta di fede personale e diprofessionalità nel raccontare storie allo stesso tempo. Cosa può di-re in merito?Sì, Dennis Farina era un detective in una delle principaliunità anticrimine del dipartimento di polizia di Chicago. Ilsuo collega era Charles Adamson, che ho addestrato al me-stiere di scrittore e che ha creato con me la mia serie televisi-va Crime Story dal 1988 al 1990, in cui Dennis lavorava comeattore. Il problema di questa domanda è che ha già scritto insé la risposta, ed è corretta. Io cerco davvero di essere il piùpossibile immerso nel mondo del film che sto facendo. Per-ché qualcuno dovrebbe volere diversamente? Più a fondo siva nella complessità, più ricche sono le scoperte. Di solito so-no in cerca di contraddizioni e anomalie. Il personaggio diWigand, in Insider, per esempio, supera di gran lunga la purainvenzione, ho cercato di costruirlo in una stanza di Los An-geles. L’esperienza è portare avanti un’avventura. La ricerca èsul personaggio e sull’atmosfera, sull’esito inaspettato di unevento, sui toni e i colori, i ritmi e i modelli che creano l’am-bientazione giusta. Nell’insieme, il processo di immersione èanalogo a quello attraverso il quale l’attore si cala nel perso-naggio. È quello che ho provato a fare. Per un regista, ovvia-mente, non si tratta di un personaggio; è il mondo complessi-vo del film. Quindi, aver incontrato e scambiato lettere conDennis Wayne Wallace prima di Manhunter, mi ha permessodi capire e riscattare il Dolarhyde di Thomas Harris e la men-talità di Dolarhyde che l’agente Fbi Will Graham immagina ein cui si immedesima. Da Dennis Wayne Wallace ho preso loschema delirante della sua mente, il motivo per cui si trovavalà, l’umore nerissimo, la convinzione di avere un vero amore(una ballerina di night club chiamata Cinnamon Cindy theSurfin’ Queen – Cindy Cannella la regina del surf – è tuttovero!) e la loro canzone d’amore «In A Gadda Da Vida» degliIron Butterfly. Tutto questo mi ha aiutato a creare il perso-naggio di Dolarhyde così magnificamente interpretato da

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Tom Noonan. Rispetto ai luoghi, i luoghi mi parlano e io vor-rei essere capace di farli parlare al pubblico. C’era qualcosadi magnifico negli ampi spazi che Muhammad Ali occupava aHyde Park, a Chicago (il quartiere di Obama). Questi proiet-tavano l’ampia e accurata visione che Ali aveva di se stesso, diquello che stava diventando, e questo era importante perchéquella cosa riusciva ad essere un potente fattore motivaziona-le per le persone di tutto il mondo. Le loro aspirazioni eranosimboleggiate dalle battaglie e dalla vittoria di Ali. Secondome, la sua identità ha raggiunto il suo apice con la vittoria suGeorge Forman. È riuscito a impersonare l’ambizione, in tut-to il pianeta, per tutti quegli individui che cercano di rialzar-si da terra. Forman, dall’altra parte, è diventato l’inconsape-vole incarnazione dello status quo.

Ho trovato diversi riferimenti in cui lei esprime il suo disappuntoper la definizione del suo cinema come lavoro di un autore dotatodi stile. Come possono definire il suo lavoro, le persone che amanoil modo in cui lei accuratamente si occupa della luce, della musica edel montaggio?Lo «stile» per me è ciò in cui la forma decade quando non c’ècontenuto.

Ciò che lei veramente ammira sono le persone che amano il propriolavoro, anche se piene di difetti, e ciò che lei non sopporta è – daStrade violente (Thieves, 1981) a Collateral a Miami Vice – lagente che sfrutta il lavoro degli altri. È d’accordo con questa affer-mazione?La persone scrupolose in quello che fanno e consapevoli de-gli impegni assunti nella propria vita, per me sono ammire-voli. Se c’è una cosa che detesto e che mi fa orrore, è il cade-re nel compiacimento. Quanto allo sfruttamento presente inStrade violente, il sistema di valori che Frank, rapinatore pro-fessionista e individualista, e il film applicano è prevalente-mente marxista. Non nel senso di emancipato o teatrale. Leovede il mondo dalla prospettiva di un boss. Dando a Frankciò che a questi è dovuto, Leo ha un atteggiamento generoso,paterno. Al contrario, poi, crede che Frank abbia verso di luiuna sorta di obbligo filiale (ero interessato al conflitto di clas-

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se visto dal personaggio). Conseguentemente, quando Franksi arrabbia con Leo, il quale spende il suo denaro nei centricommerciali invece di pagarlo, Leo rimane interdetto poichénutre grande ammirazione per Frank. Questo perché Leo èmolto arrabbiato con Frank quando questi uccide Belushi escioglie il corpo nell’acido. È una viscerale repressione diclasse. Frank dichiara chiaramente la teoria del valore del suolavoro (ovvero il fatto che sia lui a idearlo e a realizzarlo: sequalcuno se ne impadronisce, si crea la più classica delle for-me di alienazione) e il modo in cui funziona il mondo. Nelletasche di Leo c’è il denaro di Frank. Quest’ultimo non per-metterà a Leo di appropriarsi del valore del suo rischio e dellavoro (Leo: «Perché non ti iscrivi a un sindacato?». Frank: «Iolo sto indossando»: la sua pistola). I personaggi che manife-stano quei valori sono una parte importante di un sistema ingrado di determinare cosa la gente ha dentro.

Sin dai primi film ha dimostrato una particolare attitudine per lamusica progressive ed elettronica. Potrebbe spiegare questoaspetto del suo cinema?Sono sempre attratto e affascinato da nuovi strumenti e datecnologie che possano avere un impatto sul pubblico.

So che ha avuto la possibilità di incontrare Roberto Saviano a LosAngeles. Volevo sapere cosa pensa di questo importante autore (discrittori come lui, di poliziotti come Kiki Camarena o del biochimi-co Jeffrey Wigand che ha rivelato le agghiaccianti campagne dioccultamento degli effetti del fumo da parte delle multinazionali),che si è trovato a lottare contro il crimine e l’illegalità rischiando lapropria vita.Vedendo i suoi film ci sembra che siano molto attenti aquesto aspetto. Cosa ne pensa?Quando i personaggi sono spinti da conflitti interni o circo-stanze esterne ad adottare con le loro azioni una linea di con-dotta al di fuori della prassi comune, a volte c’è una liberazio-ne, la vita è più intensa e vivida, la percezione è più nitida.Spesso mi sono interessato a personaggi che si sono trovatiin zone borderline. Ciò spesso li nobilita. Nel caso di Wigand,egli era un grande eroe nel denunciare illeciti, perché erauna persona piena di difetti. Proprio quei difetti hanno per-

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messo alle sue azioni di risaltare. Se avesse vissuto e agito co-me Robert Redford sarebbe stato noioso. Credo che le perso-ne debbano essere giudicate dalle loro azioni, da quello chefanno realmente, non dalle loro intenzioni. Certamente nondal fatto se sia più o meno piacevole averle vicino. Wigandnon è piacevole. Quello che ha fatto Wigand e la solidarietàdi Lowell Bergman mi stupiscono. Nel pensare alle caratteri-stiche del personaggio, sono stato molto influenzato proba-bilmente dalla mia educazione e da mio padre, che era un uo-mo degno d’onore e di grande carattere. Parlare di Kiki Ca-marena, di cui dicevamo poco fa, è una storia un po’ più com-plessa. Egli è divenuto un martire per gli uomini interni allaDea (Drug Enforcement Administration) che avevano un sto-ria archetipica di martirio impressa nella loro mente per laloro comune formazione. Molti agenti della Dea che lavorava-no in Messico erano ispanici o avevano un’educazione gesui-ta. La tragedia che ha riguardato Camarena – la tortura el’uccisione – può essere paragonata a una storia di passione,lacerazione analoga a quella dei santi. Per me questo spiega-va l’impegno inflessibile di uomini come Jack Lawn, al tem-po amministratore della Dea, e Jaime Kuykendahl, partner diCamarena. Quegli agenti hanno proceduto con un’aggressivadenuncia, un’indagine verso uomini di spicco del governomessicano, complici dell’omicidio Camarena, e hanno spaz-zato via gli ostacoli messi sulla loro strada dalla politica este-ra, dalla Casa Bianca, da interessi bancari, addirittura dagliinteressi della Cia durante la guerra fredda.

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T A V O L A R O T O N D A 2195 /203

CINEMA AL FEMMINILEAnche nel mondo cinematografico si confermano

le statistiche sulla scarsa presenza femminile, soprattuttoin ruoli di ‘comando’. Molte attrici, poche registe. Eppure

lo sguardo femminile può contribuire ad arricchirel’immaginario collettivo. Una tavola rotonda tra alcunedelle donne protagoniste della nostra cinematografia.

ROBERTA TORRE / VALERIA GOLINOJASMINE TRINCA

(a cura di BARBARA SORRENTINI)

MicroMega: Perché sono così poche in Italia le donne che la-vorano nel cinema dietro la macchina da presa?Roberta Torre: Ho una risposta che mi sono costruita neglianni. Quando nel ’90 ho iniziato a lavorare non avrei maipensato che il cinema fosse un ambito profondamente ma-schilista, è un’ipotesi che ho sempre negato e ferocementeavversato. Andando avanti, invece, devo ammettere che que-sta caratteristica è emersa in modo molto prepotente. Noncredo sia un problema legato solo al cinema ma al paese:l’Italia è profondamente maschilista. L’idea di una donna alla

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direzione, in un ruolo propositivo, non è semplicissima. Si ri-schiano di ripetere dei cliché che hanno poco a che fare conil cinema. E di confondere il desiderio di comandare con ilbisogno di uno spazio in cui esprimere la propria creatività.Il cinema è il luogo dell’immaginario e l’immaginario è pote-re: io ti impongo il mio immaginario e questo mi dà un pote-re. E poi il cinema è un mestiere faticoso e duro anche fisica-mente, sono ore e ore di lavoro non soltanto mentale.Valeria Golino: Le cose sono cambiate da troppo poco tempoma qualcosa si sta muovendo. In positivo. È come se ci chie-dessimo in maniera retorica, come mai Obama è il primo pre-sidente nero? Perché storicamente non era possibile prima acausa dei troppi pregiudizi e del razzismo. Così è anche per ledonne. Il processo ha bisogno di tempo: sono stati fatti passida gigante, ma restano ancora una serie di ostacoli culturali.Jasmine Trinca: Se penso al cinema europeo, per esempio,nella civilissima Danimarca dove immagino ci siano quote ro-sa e donne presenti in ruoli importanti della società, della po-litica, della dirigenza, l’unica regista che mi viene in mente èSusanne Bier. In America, in mezzo a tanti registi uomini,penso a Kathryn Bigelow che fa un cinema non proprio fem-minile. Quindi, dall’America all’Europa più evoluta, il cinemaal femminile fatto da registe e da autrici è sempre una mino-ranza. Le donne sono arrivate in questo mondo più tardi: nel-la carriera accademica (come nella letteratura, nell’arte), ci erapreclusa la possibilità di partecipare – cosa concessa solo tem-po dopo, con grave squilibrio che ancora non si è sanato. No-nostante ci siano state e ci siano delle affermazioni, minorita-rie, importantissime molto più all’avanguardia, più interessan-ti e più acute di quelle al maschile. Nel nostro paese poi la si-tuazione è particolarmente desolante, a parte singoli esempi,parliamo sempre di una parte piccola rispetto alla massa. Sen-to un’enorme mancanza. Quando mi imbatto da interprete aleggere sceneggiature al femminile, noto una differenza disensibilità. Una specificità che amerei incontrare più spesso. Èsbagliato vedere la regia come una sorta di comando, come sesi trattasse di una battaglia: da una parte – come diceva Torre –un regista deve dirigere e avere resistenza fisica, però è fonda-mentale sempre il concetto di sensibilità.

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MicroMega: Non a caso anche in politica ci sono poche don-ne, eppure sia nella regia che in tutti i ruoli che richiedonoun comando, spesso funzionano meglio degli uomini. Comela vedete questa relazione: comando, donne, politica e ruolidirezionali?Torre: Il cosiddetto comando riguarda essenzialmente il rap-porto tra il femminile e il potere. Da sempre è stato associatoa un potere di tipo generativo, materno, di accudimento. Di-verso è quando al femminile si deve anche associare, in ma-niera profonda e con le conseguenze pratiche che poi ha nel-la quotidianità, un potere di tipo maschile, decisionale, fatti-vo ed economico. Il potere va a influire su una visione cultu-rale, perché un regista, o un artista modificano l’immaginarioe creano l’identità di un paese. È uno scontro profondo, qua-si atavico, con l’idea di concedere anche alla donna quelloche può essere il potere di modificare un immaginario collet-tivo. Un potere che va oltre a quelle dinamiche che da sem-pre gli sono state date. Possiamo essere madri e avere capaci-tà creativa, ma quando vogliamo provare a creare un immagi-nario è più difficile ci venga concesso. L’artista donna ha vitadifficile. È vero: siamo giunte dopo, perché c’è un archetipocollettivo che alla donna concede solo le famose quote rosa,della serie «resta nel tuo angolino e non disturbare il nostroimmaginario». Bisogna fare i conti con il narcisismo maschi-le, debordante e distruttivo.MicroMega: Quando le donne arrivano in posizioni di pote-re spesso dimostrano una maggiore capacità organizzativa edi sensibilità rispetto agli uomini…Golino: Cerco di non pensare in questi termini ma sempreindividualmente. Chiaramente donne e uomini sono diversiuno dall’altro, quindi è possibile che alcune cose le donne lefacciano meglio.Trinca: Artisticamente avrebbe senso dirlo, perché la donnaha una sensibilità più complessa e profonda. Mi piacerebbeavere più voci femminili, più sguardi femminili.Torre: Le due cose sono strettamente legate, è necessarioavere più punti di vista sulla realtà da parte delle donne, masi passa inevitabilmente attraverso una gestione del potere.Gli spazi vanno conquistati con le unghie e con i denti. Ho

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avuto meno possibilità dei miei colleghi maschi, questo ècerto: ho fatto sforzi per ottenere cose che a loro sono statespesso regalate. E questo non vale solo per le donne, ma an-che per tante altre categorie. Il discorso deve essere spostatosul versante delle possibilità, perché lì si gioca la partita vera.MicroMega: Valeria Golino ha appena finito di girare un filmcon una tematica forte e scabrosa: il suicidio assistito. Rober-ta Torre ha lavorato spesso partendo da soggetti impegnati elegati alla realtà per poi trasformarli e interpretarli in unaforma d’arte originale. E Jasmine Trinca è nota per aver inter-pretato personaggi seri e rappresentativi del mondo intornoa noi. Come si declinano temi di questo tipo al cinema senzascadere, da una parte nella superficialità e dall’altra nel sag-gio noioso e pedante senza valore artistico?Trinca: Nell’urgenza narrativa di un film l’eventuale messag-gio che l’autore vuole trasmettere non sottomette la sua esi-genza creativa o visionarietà, altrimenti non sarebbe cinemama reportage giornalistico o slogan. La soggettività, lo sguardopersonale sono necessari, fondamentali. Poi credo che alcuniartisti, intellettuali, abbiano il dono e l’obbligo di raccontare lasocietà. Questo è fare cinema politico. E in un momento diprofonda crisi del senso comune, del collettivo, alcuni leggonoi tempi che viviamo attraverso l’individualità e quando la cosariesce non ha meno valore del raccontare il resto, anzi. Nelfilm appena realizzato con Valeria Golino era chiara la visione,non soltanto il messaggio da trasmettere: la pellicola parla diciò che è tra noi e non si può ignorare. Come quando NanniMoretti ha fatto Il Caimano: il Caimano esisteva e appartenevaal nostro mondo. Alcuni autori, sceneggiatori e artisti sentonoil bisogno di raccontare il mondo in cui siamo che contemplaanche il fine vita. Ho sempre pensato che il privilegio di farel’attrice mi desse l’opportunità di promuovere un messaggio,di fare del cinema una testimonianza: mi affascina poter rac-contare qualcosa ed essere vigile sul presente. Riconosco an-che il valore di un cinema di intrattenimento e di puro diver-timento, ma in questo momento storico è importante osserva-re le persone, esplorare la sensibilità della gente.Golino: Sono d’accordo conTrinca, il tema del mio film è mol-to importante, grave e forte. Non ho un’etica certa su questo

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argomento, ma si può raccontare una storia anche senza pren-dere per forza una posizione, ponendo delle domande e inse-rendo caratteri molto personali. Alcuni personaggi esprimonoconcetti che in parte condivido, però non posso dire di avereesaurito completamente la tematica. Come in ogni racconto sidipanano altre verità, ogni storia diventa un’altra cosa.MicroMega: Produrre un film su un tema così spinoso, non ècosa semplice. Marco Bellocchio ha avuto dei problemi perportare a termine il suo film ispirato alla storia di Eluana En-glaro; segno che in Italia alcuni temi sono tabù, anche al ci-nema. Golino, che difficoltà hai incontrato preparando que-sto film?Golino: Le difficoltà classiche di film non facili: non è statosemplice montare la pellicola e l’ho fatto con pochissimi sol-di. Una pellicola che tratta un tema così serio, inadatto all’in-dustria, rischioso per chi ci investe, deve essere realizzato conpochi soldi per poter essere il più possibile liberi da pressio-ni e interferenze. Giusto così. Immagino che il lavoro di Bel-locchio sia più politico del mio, perché parla di un caso mol-to conosciuto, su cui la politica è entrata prepotentemente. Ilmio film invece è una storia molto personale: non parla dieutanasia, ma di suicidio assistito. La protagonista del film faquesto lavoro illegalmente. Oltre che intrattenere, un attorepuò scegliere di trasmettere dei valori anche interpretandopersonaggi che non sono nel «giusto», parlandone dal puntodi vista opposto. Al cinema, che non è la televisione, un arti-sta si può permettere di essere più spregiudicato.Torre: Per un artista l’impegno è nell’interpretare la propriaepoca, nel raccontare il proprio momento storico e ciò cheavviene nel mondo attraverso il proprio sguardo. Sentire lacontemporaneità, quello che l’oggi ti impone. A volte succe-de che alcuni temi siano così prepotenti che gli autori ci siavvicinano nello stesso momento. Per esempio, quando èuscito il mio ultimo film I baci mai dati, quasi contempora-neamente è uscito Habemus papam di Moretti, che trattava undiscorso sacro, di religione, di ateismo. Ci sono dei temi, deimomenti storici che chiedono di essere letti attraverso gli oc-chi degli artisti. Il mio impegno è quello di non accontentar-mi mai, di non stare comoda, di raccontare le cose nella loro

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ambiguità, nella loro luce e nelle loro ombre, e di andare finoin fondo, di non avere paura, di non fermarmi alle prime im-pressioni, di avere il coraggio di scavare, di tirare fuori anchele viscere della nostra contemporaneità e di farlo con un lin-guaggio nuovo. La parola arte accostata al cinema è stata unpo’ dimenticata, ce la ricordiamo solo nelle intestazioni tipola Mostra d’arte cinematografica, per il resto regna l’intratte-nimento o la paratelevisione.MicroMega: Stiamo parlando di film che narrano questionispinose per la società in cui viviamo. Roberta Torre, hai af-frontato anche temi di mafia e temi come questi in Italia nonsi possono trattare in modo troppo audace.Torre: Penso a Tano da morire, che mi hanno chiesto di pro-iettare quest’anno in occasione del ventennale delle stragi.Quando uscì quel film furono in molti a chiedersi se si potes-se ridere della mafia. Poi intervenne Antonino Caponnettodicendo che si può ridere della criminalità organizzata e daquel momento in poi il film fu sdoganato. Purtroppo in Italiaesiste una forte censura, spesso preventiva, sui contenuti daparte di chi produce e questo induce necessariamente a lavo-rare in una direzione di autonomia e di budget limitati.Golino: Anche una forma di autocensura. Ormai insita in tut-ti noi.Torre: Molto forte.Golino: Ed è ancora più grave, perché ormai ci siamo abituatialla mediocrità, a dover aderire a un certo modo di essere me-di, «rotondi». Negli ultimi quindici anni ci hanno insegnato adallinearci, per cui ancor prima di proporre, non si pensa nem-meno a quell’idea un po’ scabrosa.Tra l’altro si possono gira-re film di «spessore» anche senza essere per forza contro.MicroMega: Ad esempio Diaz, con livelli artistici altissimi, rie-sce a raccontare un tema tabù, tant’è che ha creato discussionifiume. Un film recente che si è guardato intorno, senza andareneanche troppo in là negli anni, come ha fatto invece MarcoTullio Giordana con Romanzo di una strage. E bisognava raccon-tarla la strage di piazza Fontana, prima o poi, ma perché ci sonovoluti tanti anni? E perché ancora tutte queste polemiche?Torre: Ci sono dei temi in Italia come la malattia, la sessuali-tà, la devianza o alcune pagine della nostra storia passata –

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come il terrorismo – che non sono mai stati raccontati in ma-niera definitiva o con un’analisi profonda. Ci ha provato Mar-co Bellocchio con un bellissimo film, ma il tema meriterebbemaggiori approfondimenti. E senza pensare a Berlusconi, an-cora dietro l’angolo, quindi forse non sono maturi i tempiper poterne fare una riflessione. C’è una sorta di anestesiaestetica e di contenuti che ha uniformato lo stile a quello pa-ratelevisivo, che ha penalizzato il nostro cinema. Non ho nul-la contro la tv, ma che il linguaggio cinematografico diventiquello televisivo, non è accettabile.MicroMega: Tornando al discorso delle donne vorrei provarea ragionare sugli stereotipi a cui siamo state sottoposte perdecenni. Sarebbe bello poter distruggere queste immaginiscorrette e forse solo le donne potrebbero ristabilire una vi-sione giusta del femminile.Trinca: Non essendo autrice – anche se non escludo che infuturo la sceneggiatura mi possa interessare – la vedo da unaltro punto di vista: fino ad ora ho fatto dei film importanti ebelli, però devo ammettere che spesso mi sono stati propostiruoli, sì femminili ma scritti per raccontare caratteri maschi-li. Mi piacerebbe poter interpretare un personaggio femmini-le ideato e raccontato da una donna. La protagonista dellastoria del film di Valeria Golino è stata pensata da tre donnee di questo personaggio mi interessa l’approfondimento, laconoscenza, la sensibilità: tre donne riescono a portare a unpersonaggio tre voci diverse sul femminile. Il film è tratto daun libro scritto da un uomo sotto pseudonimo femminile, ma– devo ammettere – che, appena letto il testo, ho subito avutol’impressione che si trattasse di uno scrittore e non di unascrittrice.MicroMega: Le donne hanno il potere e la responsabilità discardinare alcuni stereotipi a cui anche il cinema ci ha abitua-to. Come si può raccontare bene un personaggio femminile?Torre: A me è sempre venuto naturale raccontare le donne.Con le attrici si è sempre instaurata una dinamica poco razio-nale, ma intuitiva ed empatica che parte dal corpo. È inevita-bile che due donne abbiano un bagaglio di conoscenze co-muni, è ovvio che si comporteranno diversamente dagli uo-mini per via dei caratteri differenti, ma è innegabile che il ge-

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nere le accomuna e le gamme di possibilità da mettere incampo sono infinite, rispetto a quello che puoi fare con unattore uomo. Prima Trinca parlava di Kathryn Bigelow, unadonna inserita in un sistema molto diverso dal nostro, che fafilm di ogni genere tranne che raccontare personaggi femmi-nili, a differenza di quello che ha fatto, per esempio, JaneCampion disegnando l’animo femminile in tutte le sue sfac-cettature più complicate e più anticonvenzionali, senza crea-re stereotipi e raccontando storie splendide. È vero, noi ab-biamo una responsabilità nei confronti dell’immaginariofemminile, al cinema ci sono molte donne, anche grandi don-ne, ma spesso scritte da registi uomini. Nel secolo scorso inostri predecessori hanno raccontato grandissime eroine, masempre con un occhio maschile, da Mamma Roma in poi. Cer-to, la storia la faceva da padrona: non erano i tempi idoneiper raccontare i meandri più nascosti dell’animo umanofemminile, c’era la prepotenza della storia che chiedeva eroi-ne forti. Adesso il momento è giusto e importante per rac-contare anche le contraddizioni del femminile ed è ora che lofacciano le registe, le autrici e le sceneggiatrici.Golino: Di volta in volta bisogna immedesimarsi il più possi-bile nel punto di vista di quell’autore o di quel regista: la co-sa migliore che possa fare un attore. Se hai la fortuna di lavo-rare con delle persone che abbiano un’idea forte sul perso-naggio e sulla storia che stanno raccontando, devi cercare diaderire a quello che ti viene detto. E comunque un attore èanche un po’ un autore, volenti o nolenti portiamo qualcosain più al personaggio. Per esempio, Jasmine Trinca ha con-dotto il mio film anche dove ha voluto lei. Un’attrice di per-sonalità e di talento ha la forza per fare questo passo in più,«abitando» il personaggio. Rispetto a come era scritto inizial-mente, andando avanti ho dovuto adattarlo a Jasmine Trincae di questo la ringrazio.Torre: Ho sempre preteso dai miei attori che diventasseroautori, anche quando non lo volevano. Ho insegnato loro lalibertà. Non tutti gli attori la desiderano, perché magari nonriescono a dominarla o all’inizio non gli appartiene. Quandopoi si accorgono che la possono avere, si riesce a fare ungrandissimo lavoro. Si tratta sempre di una libertà che va gui-

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data, ma se da attore non ce l’hai diventi una sorta marionet-ta. L’attore crea con il suo corpo, la sua voce, i suoi occhi, ilsuo sguardo e questi strumenti sono l’incarnazione del per-sonaggio. È un equilibrio molto sottile, fatto di fili, di limitida non oltrepassare mai: è sufficiente che uno dei due, regi-sta o attore, non sia in equilibrio e crolla tutto improvvisa-mente. Quando l’attore prende il sopravvento il risultato èsempre fallimentare, ma anche quando non ha la libertà suf-ficiente, il risultato non è così interessante.MicroMega: C’è una storia che vorreste vedere al cinema oche vorreste raccontare voi, che non è ancora stata narrata?Golino: Se l’avessi questa idea, cercherei di farla.Torre: Io ne ho una, è molto delicata: è una storia di sesso edisabilità, la storia di un’assistente sessuale, una figura che inItalia non esiste, che è addirittura fuorilegge. Invece in paesicome il Belgio, la Svizzera e la Francia è presente.Vorrei rac-contare il viaggio di questa donna: quando ho iniziato a scri-verla ho pensato subito a Valeria Golino per confrontarci sulcome fare in Italia un film così. Con la giusta sensibilità e li-bertà. Perché il problema vero non è solo quello di realizzarela pellicola ma anche creare un pubblico. Puoi raccontare lastoria più incredibile del mondo ma non la puoi lasciare mo-rire in quei pochissimi giorni in cui il film verrà messo nellesale per poi sparire. Bisogna trovare nuove strade.Trinca: Finché non si ha veramente qualcosa da narrare, noncredo sia necessario farlo. Però mi piacerebbero film chedanno voce a chi non ne ha o che si soffermano su qualcosache ci dà fastidio guardare. Ad esempio raccontare la vec-chiaia, capire dove porta e cercare di entrare in una situazio-ne ancora lontana da me.

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ELIO PETRI, MAESTRODA RISCOPRIRE

Con i suoi film straordinari – come Indagine su uncittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia

va in paradiso, A ciascuno il suo, Todo modo – ElioPetri ha anticipato idee, stili, atmosfere e paradossidel miglior cinema civile italiano contemporaneo.

È stato forse questo eccessivo ‘essere avanti’ coi tempiad attirargli molte critiche e a relegarlo per lungo tempo

in un cono d’ombra. La sua lezione va ora riscoperta.

CARLO LIZZANI / MARIANGELA MELATOin conversazione con ENRICO MAGRELLI

È davvero un autore inattuale Elio Petri? Sono davvero datati isuoi film? Scrive a tal proposito Jean Gili: «Elio Petri è sempre ap-parso come il mal-aimé del cinema italiano. Mal-aimé in Italia,mal-aimé in Francia in un paese che ha spesso salvato in appellocineasti che non erano profeti in patria». Infatti su Petri ci sonostati lunghi anni di silenzio, di rimozione, quasi un prolungamentodi quegli attacchi da parte di una certa critica che il regista dovet-

omaggio a Elio Petri

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te subire ai tempi di Indagine su un cittadino al di sopra diogni sospetto (Oscar per il miglior film straniero). Eppure il per-corso, la gavetta sono simili a tanti cineasti cresciuti nella fertilestagione neorealista. Sin da giovane con la passione cinefila nellevene, mescolata all’impegno politico, esordisce nel mondo della cri-tica e della scrittura in qualità di critico cinematografico sull’Uni-tà e come sceneggiatore, soprattutto a fianco di De Santis per quelpiccolo capolavoro di modernità tardo-neorealistico chiamato Ro-ma ore 11. Grande animatore culturale, aiutoregista, esordisce al-la regia prima con i documentari, poi nel lungometraggio L’assas-sino, cominciando a scardinare generi e categorie. Nell’operad’esordio il meccanismo del giallo viene smontato in favore di si-tuazioni alienanti, grigie, debitrici del cinema di Antonioni, e daun montaggio moderno molto simile alla coeva Nouvelle vague.Nei film successivi Petri contribuirà a sconvolgere altre categoriecome il cinema d’impegno civile, sconfinando volentieri nel grotte-sco (La classe operaia va in paradiso, La proprietà non è piùun furto, Todo modo) e nel visionario dall’estetica pop (La deci-ma vittima, Un tranquillo posto di campagna), rigoroso semprenell’osare e nel non accontentarsi di legarsi a forme già collauda-te. Rispetto ad altri cineasti, Petri ha «peccato» d’imprudenza, dicoraggio, creando un cinema che potrebbe essere definito come «ilrito e la maschera» dove per rito s’intende il difficile mestiere dellaregia e la maschera il prolungamento fisico di tale lavoro, ovverol’attore (Volonté e Randone su tutti), coautore della stessa opera delregista. Questo osare e andare oltre ha fatto sì che per alcuni Petridovesse essere completamente rimosso, per altri rivalutato comeuna lezione di cinema indimenticabile. Un esempio: Paolo Sorren-tino con Il Divo. Come in Todo modo, il regista utilizza dei nonluoghi di un retro futuro debitore della fantascienza (si pensi al-l’edificio ipermoderno dove si riuniscono i politici nel film di Petri eal Transatlantico nell’opera di Sorrentino) e dell’horror (le stanzepercorse dal Divo sia politiche che private e le stanze buie e oscurein Todo modo) e un attore capace d’incarnare con grande elasti-cità il potere. Volonté sta a Servillo, come Petri sta a Sorrentino.Una proporzione per niente provocatoria sulla quale riflettere.

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Partiamo dalla cosiddetta prima volta. Lizzani, quando – e in cheoccasione – ha conosciuto Elio Petri?Carlo Lizzani: Il primo incontro ha un valore particolare. Av-venne mentre giravo il mio primo film Achtung! Banditi!. Unapellicola finanziata da alcune cooperative: un giovanissimo Pe-tri, allora membro dell’ufficio stampa del Pci, aveva il compitodi portarmi questi piccoli contributi. È un ricordo veramenteincredibile e caro. Inoltre Elio negli anni è stato il mio succes-sore a fianco di Giuseppe De Santis, un fratello maggiore perentrambi. Il neorealismo è stato una grande rivoluzione forma-le oltre che di contenuti e ciò ha favorito l’emergere di questilegami. De Santis mi aveva invitato fin dal ’42 a scrivere sulla ri-vista Cinema, avendo visto dei miei piccoli articoli sulla stampauniversitaria. Nel 1945 mi convinse a seguirlo, andammo a Mila-no, appena liberata. Io stavo orientandomi verso la politica, ilcinema italiano in quei tempi era pressoché morto: con gliamericani arrivò sì la libertà ma con essa anche le loro pellico-le, una vera invasione. Ma Peppe mi convinse a non mollare edebbe ragione. A Milano trovammo un regista, Aldo Vergano. Losponsorizzammo per un film sulla Resistenza e lui ci ripagòdandoci dei ruoli nel suo lavoro, ci fece scrivere la sceneggiatu-ra: Peppe fece il primo aiuto, io l’assistente. Da lì si consolidò ilrapporto tra me e De Santis, una sorta di fratello maggiore, co-sì come lo sono stati successivamente Lattuada e Rossellini.

È interessante l’idea di un movimento, di un gruppo e di un insiemedi intelligenze che lavora per un progetto comune.Lizzani: Allora le sceneggiature si scrivevano in quattro, cin-que. Pensi che nel primo film di De Santis, Caccia tragica, ol-tre a me – che gli ero vicinissimo – c’erano Zavattini e Anto-nioni. Negli anni poi è stato Petri ad affiancarsi a De Santis,svolgendo un ruolo decisivo per la sua formazione.Mariangela Melato: Tutte queste grandi personalità all’epocasi ritrovavano in gruppi perché accomunati dalla stessa pas-sione ideologica, dallo stesso fermento culturale: ci conosce-vamo, ci parlavamo, dialogavamo e questo sentimento di fra-tellanza ha coinvolto anche me, anche se le attrici venivanoconsiderate intelligenze minori rispetto ai registi. Eravamodalla stessa parte della barricata convinti di avere ragione,

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c’era tra noi rispetto reciproco. Ci si meraviglia che il nostromestiere stia soprattutto da una parte politica ma i fatti dimo-strano che – nel momento in cui il paese è passato in altremani – la cultura si è totalmente svilita e dileguata rispetto auna volta: sono venute meno le menti dotate d’intelligenza ecapacità. Questa premessa d’obbligo per dire che il mio in-contro con Petri è stato alquanto singolare e stravagante: eroconvinta di andare a fare un provino e invece sono tornata daNovara dopo aver girato il mio primo giorno di lavorazionenel film di Petri La classe operaia va in paradiso con Gian Ma-ria Volonté, che per me era un idolo assoluto e uno dei piùgrandi attori della nostra generazione.Lizzani: È stata anche la stessa destra a «regalare» alla sinistraquesto fermento culturale perché eravamo di una sinistra mol-to generica in realtà. Mi ricordo ad esempio che Lattuada eraassolutamente anti-Pci. E Germi poi non ne parliamo: eppurevenivano accusati incredibilmente di essere comunisti.Melato: Certo, non essendolo assolutamente. Però era conta-minante la passione di fare «cose belle» insieme. Erano per-sone di genio.Adesso è cambiato tutto anche a causa della te-levisione: non si segue più il criterio della qualità ma quellodell’audience che spesso va in direzione opposta. I lavori conmaggior pubblico sono quelli qualitativamente più poveri: siè abbassato il livello del nostro mestiere e di conseguenzaviene a mancare quel fermento che prima lo caratterizzava.Mi ricordo ad esempio che, dopo aver girato sul set con Petri,si andava a mangiare tutti insieme per conoscersi, per dareun senso anche al proprio lavoro.

Al di là di quelle che sono le trasformazioni politiche, culturali esociali, in quegli anni il cinema è stato sentito, percepito, teorizza-to e vissuto come uno strumento di lotta, per interpretare la realtà eforse per contribuire a trasformarla.Melato: Per mostrarla intanto, per farla conoscere. Era giàtantissimo.

A questo proposito l’esperienza di Petri come giornalista è stataimportante: tra inchiesta e neorealismo esiste un rapporto profon-do e fecondo.

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Lizzani: Assolutamente. Come dico sempre, si tratta di inter-pretare la realtà e, in tal senso, il neorealismo è stato un mo-vimento formalmente nuovo capace di rivoluzionare il lin-guaggio del cinema: Bazin l’ha definito il passaggio dal cine-ma classico al cinema moderno. Finita la stagione neorealistasono venuti avanti questi talenti, tra cui Fellini e lo stesso Pe-tri. Elio ha fatto una serie di film straordinari che andrebbe-ro rivisti e studiati più di quanto non si faccia.Melato: Invece in televisione non trasmettono mai i suoifilm. Un vero peccato. Come rivedrei volentieri Todo modo,ammirato alla prima, un film che non andò neanche bene,invece possedeva alcune novità assolute: per come era gira-to, per la scenografia insolita e meravigliosa. Me l’ha ricorda-to Il Divo che riprende quel tipo di atmosfera, di cupezza, dimodo di parlare di politica quasi fantascientifico, affrontan-do un personaggio da un punto di vista completamente sim-bolico: nel nostro film era Moro, in Il Divo è Andreotti. An-che La proprietà non è più un furto, altro lavoro di Petri, è spa-rito. Irriperibile.

Lo stesso Paolo Sorrentino, in un’intervista su Il Divo, ha ammes-so di aver preso spunto dal cinema di Petri, colpito dal suo utilizzodelle «maschere». Elio Petri rappresenta per lui una fonte di sug-gestione figurativa molto precisa e uno stile di grande modernità easciuttezza.Lizzani: Questo era dovuto alla grande cultura dei protagoni-sti della stagione neorealista. Di cui Petri era un erede. Ricor-do la passione di De Sica per De Chirico, Bontempelli, Svevoe la conoscenza di certi racconti di Kafka e Joyce da parte diRossellini. Una cultura del Novecento di base a cui successi-vamente ha seguito una rivoluzione figurativa e stilistica.

Un altro elemento che probabilmente non ha reso semplice il rap-porto fra gli spettatori e il cinema di Petri, e spesso anche fra il ci-nema di Petri e i critici – che con lui non sono stati mai molto tene-ri – è la sua continua ricerca. Nessuna nuova pellicola somiglia al-la precedente. Cambiano costantemente i punti di vista, gli scenari,gli interrogativi.Lizzani: Non è completamente vero. Ogni film, come ovvio

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che sia, è una cosa a sé, però tutte le pellicole di Petri hannouno sguardo sulla realtà in una chiave metaforica.

Questo sì, come molto spesso nei suoi film c’è la figura di un intel-lettuale, parola ormai in disuso. In realtà è semplicemente qualcu-no che ragiona, per cui può essere anche un Randone che fal’idraulico.Melato: In La classe opearaia va in paradiso Randone sta rin-chiuso in una sorta di manicomio ma indubbiamente lì rap-presenta l’intelletto, colui che riflette, che dice cose sensate.A modo suo. Magari in una maniera non comprensibile a tut-ti. Anche lui è un intellettuale, malgrado non abbia letto tut-to Proust.

È come se nel cinema di Petri compaiano le declinazioni di un nuo-vo soggetto, di un inedito animale sociale, di un essere umano checerca di definire se stesso negli anni del boom – e poi dello «sboom»– e che sembra essere smarrito quando non è protetto da alcunegabbie del potere o politico o poliziesco, come nel caso di Indaginedi un cittadino al di sopra di ogni sospetto.Melato: In La classe operaia va in paradiso era molto chiaroquesto smarrimento, lo stesso l’operaio era assolutamenteperso di fronte alla marcia del potere sulla fabbrica e difatti lìgli vennero in soccorso i sindacati, che però lui criticava.Questo occhio inconsapevole sul mondo c’è spessissimo.Lizzani: Del resto i titoli stessi alludono a questo: Indagine suun cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va inparadiso, La proprietà non è più un furto, A ciascuno il suo, Altainfedeltà. Titoli che raccontano un paradosso e rimandano auna spiegazione – politica e sociale – di Petri.

Inoltre Petri dà l’impressione di una figura di intelligenza mai ri-conciliata, pronto a discutere con i colleghi. Anche animatamente.All’epoca quando un nuovo film era pronto si invitavano gli altriregisti per sottoporre al loro giudizio, talvolta anche severo, l’ulti-ma fatica. Che cosa accadeva alla fine di queste proiezioni? Si di-scuteva, si litigava, come si commentavano i film di Petri?Lizzani: Elio era sempre alla costante ricerca del confronto,della dialettica, anche nelle riunioni. Con questa voglia – che

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lo contraddistingueva – di non adagiarsi sulle glorie ottenute.Dalle proiezioni dei suoi film scaturivano tra i registi profon-de discussioni.

Ha avuto modo di confrontarsi con Petri sui generi cinematografici?Lizzani: Allora non si prestava importanza al genere: i film diPetri erano innovativi e di altissima qualità cinematografica.Si poteva non condividere il messaggio, impossibile metterein discussione invece la fattura della pellicola.

Ripensando al suo cinema rimane il nodo tanto dibattuto del cosid-detto cinema d’impegno degli anni Sessanta-Settanta, che ha datoorigine a spaccature all’interno dello schieramento delle riviste di«sinistra». Le pellicole che venivano catalogate come esempi di ci-nema politico da una parte provocavano una vera e propria turbo-lenza critica, dall’altra avevano, talvolta, problemi con quello cheera l’assetto del potere politico.Lizzani: A un certo punto si è deciso di passare a un realismopiù «complesso»: si iniziano ad analizzare i personaggi, si dàspazio alla psicologia, alla storia. Così Senso diventa un filmdi particolare indicazione in questo percorso. Non era piùsufficiente l’impegno politico: bisognava fare uno sforzomaggiore per costruire il nostro paese, per farlo andare avan-ti. E anche per stare all’altezza delle altre cinematografie.Melato: Un determinato pubblico aveva timore del «film po-litico», così per allievare la diffidenza c’è stato il tentativo diunire il neorealismo con la psicologia, per far sì che i perso-naggi diventassero più godibili, più comprensibili a tutti. Ilpubblico voleva anche la storia e ciò spaventava meno di unfilm solo di denuncia o «d’impegno».Lizzani: Ci dimentichiamo di una verità storica: a rompere ildiscorso del cinema «politico» fu anche l’ondata di maccarti-smo che nel 1952-54 finì per scoraggiare alcuni progetti.Tut-ti noi registi italiani – scommetto anche Petri – abbiamo pen-sato in quegli anni a un film su Cefalonia, ma intervennequesta scure che veniva da lontano. Una volta ne parlai conAndreotti e mi fece vedere un archivio con migliaia di letteredi protesta che venivano da tutto quel corpo diplomatico chefino agli anni Sessanta era composto ancora da ex fascisti, ex

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monarchici. Il discorso sul cinema politico fu interrotto an-che da questa ondata di tipo maccartista.Ricordo, in tal senso, un famoso articolo del Rome Daily Ame-rican, un giornaletto americano che veniva pubblicato in Ita-lia, il quale sosteneva che il cinema italiano era tutto in manoalla sinistra e ai comunisti. Venivano citati Germi, Lattuada,De Sica, Rossellini eccetera.

Come tutta la generazione di registi che hanno lavorato dalla finedegli anni Cinquanta, anche Petri ha avuto a che fare con quelliche erano i grandi produttori: ha lavorato per Goffredo Lombar-do, De Laurentiis, Ponti. Erano rapporti difficoltosi perché si ave-va a che fare con produttori «ingombranti», esigenti, preoccupatidi alcuni equilibri.Lizzani: A parte Il processo di Verona che sono riuscito a rea-lizzare con De Laurentiis senza mediazioni e con assoluta li-bertà (un film in cui la Mangano esprime tutta la sua maturi-tà), con questi produttori si creava un continuo confronto.Ma c’era la stessa volontà di girare certi film. Anche Petri rac-contava della libertà che ha avuto nel fare Indagine su un citta-dino al di sopra di ogni sospetto.Melato: Se rapportato al cinema di oggi – ahimè – magari cifossero ancora quelle figure di produttori. Erano pronti a di-battere e ad addossarsi le battaglie per difendere i contenutidei propri film.

Invece com’era Petri sul set, come direttore degli attori?Melato: Me lo ricordo come una persona estremamente luci-da. Oltretutto era un grande montatore e quindi aveva giàtutto in mente. E poi dava agli attori una grande libertà inrapporto al dialogo. In La classe operaia va in paradiso avevoun ruolo non marginale ma semplice: Petri voleva una ragaz-za di Milano abbastanza popolare e mi ha lasciato parlare indialetto e ha spinto me e Volonté a non essere così ligi al co-pione. Quelle litigate tra noi erano ad esempio quasi tutteimprovvisate, era un regista che lasciava mano libera nell’in-terpretazione del copione… Venivo dal teatro – dove una vir-gola è un macigno da esprimere – e rimasi molto colpita daquesto modo di lavorare di Petri. Ne ebbi la riprova in Todo

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modo dove l’impianto era più asciutto, con moltissimi mono-loghi, era più teatrale. Si fidava ciecamente – anche della miaimprovvisazione – convinto di aver scelto la ragazza giusta epoi sul set c’erano attori del calibro di Volonté e Randone.C’era poco da scommettere.Lizzani: Questo è il segreto dei grandi registi: spesso la scel-ta degli attori costituisce già il 90 per cento della regia. Mel’ha confermato come addirittura ovvio il maestro Bergmanche ebbi occasione di frequentare quando dirigevo il Festivaldi Venezia.Melato: Petri ha subito fatto capire che credeva in me. Poi civuole anche il fisico, per il cinema sappiamo che una facciagiusta sostituisce qualsiasi cosa.Lizzani: E pensa che – Mariangela, tu lo sai benissimo – al tea-tro addirittura è stato sempre così. Si scriveva su certi attori.Melato: Certo. Difatti anche per gli attori è meraviglioso sen-tire il fisico al proprio agio. Ti rendi conto che sei idoneo intoto per quel ruolo.

Petri ha lavorato con tantissimi attori, però se dobbiamo pensareai tre che lo accompagnano nella sua storia cinematografica pen-siamo a Mastroianni,Volonté e Randone.Melato: Aveva l’attenzione e la cura di scegliere coloro che glisembravano gli interpreti giusti per la storia che voleva rac-contare. A differenza di quello che accadeva o accade in tea-tro – in cui alcuni registi sembrano guidati da una regola e sichiede agli attori di attenersi a quei parametri – lui da granderegista non aveva una paradigma da applicare. Riusciva a ot-tenere dall’attore quello che era necessario per il film senzadare l’impressione di spiegarti qualcosa di illuminante suquel che dovevi fare.

Amava ripetere molte volte le scene?Melato: No, non era un perfezionista. Aveva le idee moltoprecise. Era abituato a lavorare con Volonté che aveva dellecapacità di immedesimazione incredibili, amava il doppiag-gio: era come se girando sul set pensasse al fisico, al movi-mento e poi doppiandosi curava la parte vocale, che è una co-sa molto strana fatta da un grande attore come lui. Non ho

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mai visto nessuno così, però non aveva bisogno di ripeteremolte volte perché era un attore veloce e istintivo.

Una figura che nel cinema di Petri è stata decisiva è quella dellosceneggiatore Ugo Pirro. Un sodalizio che a un certo punto si è in-crinato.Lizzani: Erano una coppia inseparabile, un po’ come De Si-ca-Zavattini: intese che vanno al di là degli umori o delle sim-patie umane, un sentirsi su una stessa lunghezza d’onda. Uncamminare insieme. Poi possono intervenire chiaramenterotture o frizioni ma per altre ragioni. Del resto anch’io conPirro ho realizzato forse i film più significativi: aveva la capa-cità di intuire le personalità dei vari registi e di «suonare» in-sieme.Melato: L’intesa Petri-Pirro era fantastica. E non vedo coppiecosì forti nel mondo del cinema d’oggi. Forse in Francia dovela sceneggiatura sta ridiventando abbastanza determinanteper l’esito del film. In Italia comunque è impensabile unacoppia del genere: purtroppo non esiste più un certo tipo dicinema.

Da varie testimonianze si evince che Petri non amasse particolar-mente i documentari, quella componente di manipolazione dellarealtà non lo convinceva, non l’affascinava.Lizzani: Ritengo che tanti giovani per cominciare il mestieredovrebbero cimentarsi proprio col documentario, è una for-ma di racconto breve. È chiaro che ci debba essere – anchenel documentario – un’interpretazione personale, così la cro-naca diventa poesia.

Petri insiste molto sulla necessità della «sgradevolezza», in una fa-se in cui la società cercava e continua a cercare invece lo stile, il to-no, l’atmosfera. Andava controcorrente ponendosi fuori daglischemi. Negli anni Settanta tale rischio era già così forte?Melato: Non credo. Negli anni Settanta non percepivo questapaura della sgradevolezza, nel fermento culturale dell’epocac’era spazio per qualsiasi tipo di lavoro. Ma doveva essere unlavoro netto, con un messaggio. Non importava se gradevole omeno.

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Lizzani: Se oggi ci fossero i grandi protagonisti e autori dellacommedia italiana, avrebbero veramente da divertirsi molto.La commedia nostrana è stata a volte come uno schiaffo sulvolto dell’Italia mediocre.Melato: È stato un modo di uscire da quell’abisso e credoche la gente ne abbia ancora bisogno adesso, se non di più.Lizzani: Un bisogno di sgradevolezza purché non si perdal’idea che ci deve essere il riscatto: anche l’eroe negativo de-ve lasciarti un minimo di speranza, un minimo di possibilitàdi identificarsi con lui.

Petri considerava – e non era una battuta, ma lo diceva in modoprovocatorio – il suo cinema popolare, nell’accezione più nobilenaturalmente.Lizzani: I suoi lavori si possono catalogare come popolari, nelsenso che anche Dante Alighieri è stato popolare. Ecco unesempio limite. Quando ero in Corea per un documentarioincontrai l’ascensorista del mio albergo, appassionato dellacultura italiana, che aveva cominciato a leggere – nella sua lin-gua – la Divina Commedia. Un giorno mi domandò: la DivinaCommedia «come va a finire?». «Dante e Beatrice alla fine siincontreranno?». Il senso di suspense, questo è popolare.Melato: Che meraviglia! Per questo anche Shakespeare è po-polare.Lizzani: Certo.Melato: Appena ci si imbatte in una scrittura di quel genere,ci si chiede chi sarà il colpevole? E questo è il tirante di cui ilcinema ha bisogno.

Il cinema di Petri ha il grande pregio di essere stato inattuale nelmomento in cui è stato realizzato, proprio perché forse anticipavauna costellazione di idee e di problemi. All’epoca si parlava di tri-logia della nevrosi riferendosi a Indagine su un cittadino al disopra di ogni sospetto, La classe operaia va in paradiso e Laproprietà non è più un furto. Ora quest’autore e il suo lavoro so-no in un cono d’ombra.Lizzani: È avvenuto un po’ per tutti: pensiamo ad Antonioni– e la sua difficoltà di comunicazione che ha avuto col pub-blico – o a Rossellini. Alcuni autori devono essere assoluta-

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mente più avanti e cercare di invitare il pubblico e il propriopaese a muoversi, a svegliarsi e a volte c’è resistenza a questocambiamento. E adesso si ha l’impressione che siano stati di-menticati i vari Petri, Rossellini eccetera.Melato: Anch’io ho avuto questa sensazione. Al teatro fre-quentando i giovani devo constatare purtroppo la non cono-scenza di illustri autori della nostra generazione. C’è una per-dita della memoria. La televisione dovrebbe assolvere a questocompito fondamentale: arginare lo sgretolarsi del passato. In-vece la tv regala l’illusione che il successo sia l’effetto di un’im-magine che venga riconosciuta immediatamente: è un’idea fa-sulla di popolarità e raggela la fantasia e l’immaginazione.

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UN POETADEL GRANDE SCHERMO

ELIO PETRI / TONINO GUERRAUGO PIRRO / GIANCARLO GIANNINI

in conversazione con JEAN A. GILI

Nel febbraio 1976 Elio Petri girava alcune sequenze di Todo mo-do nei teatri di posa dell’Istituto Luce, a Roma, nei pressi di Cine-città. La scenografia del refettorio in cui mangiavano i parteci-panti al ritiro spirituale era di Dante Ferretti. Quei teatri oggi nonesistono più: la vecchia sede dell’Istituto Luce è stata trasformatain un palazzo per uffici utilizzato dal Comune di Roma.Io e ChristianViviani l’abbiamo incontrato l’8 febbraio, tra una ri-presa e l’altra. Pubblichiamo qui, per la prima volta in Italia,quell’intervista: verte sul film che stava girando e, nella secondaparte, sui problemi della critica cinematografica. Quelle che se-guono sono delle interviste, anch’esse inedite in Italia, che ho avutol’occasione di realizzare con alcuni compagni di strada e collabo-ratori di Petri. (J.A.G.)

PORTARE L’ATTENZIONE SULLA CULTURA POPOLAREELIO PETRI

Todo modo si ispira al romanzo omonimo di Leonardo Sciascia.Come ha affrontato il problema dell’adattamento?Il libro contiene un’idea bellissima. Il testo in sé è imperfet-to, ma è bello anche proprio per questa sua imperfezione.Perché? Perché non si capisce se si tratti di un saggio o se siaun dialogo, una pièce teatrale, un testo di filosofia. In questoconsiste il «fascino» del libro. La situazione dominante è di ti-po drammatico: è la situazione di sant’Ignazio di Loyola, de-gli esercizi spirituali. Si tratta di una situazione tipicamenteteatrale: un gruppo di persone si trova davanti a un persecu-tore, in una situazione sadomasochista, per dare vita a feno-meni di liberazione, di purezza, di ascesi verso Dio. È l’inizia-

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zione di sant’Ignazio, cioè un’esperienza autenticamente tea-trale. Ecco cosa mi interessava nel libro di Sciascia.Il personaggio del pittore è, in un certo senso, il veicolo attra-verso cui entriamo nel meccanismo che appartiene a sant’I-gnazio. È un personaggio che mi sembra un po’ inutile. Nellibro no, non è inutile: in questa specie di cosa che non sape-vo se definire romanzo, saggio o dialogo teatrale, il personag-gio del pittore è interessante. Ma nel film, no. Il pittore è unlaico. Che cos’è il libro? È la storia di un flirt tra un laico e unsacerdote. Io, a dirla tutta, avrei persino potuto portarli a farel’amore. Si tratta dell’incontro tra due umanisti, che arrivanoda sponde diverse e vanno verso sponde diverse. È la storiadi una relazione amorosa, di una seduzione, di un corteggia-mento. Ciascuno è il doppio dell’altro. Uno è il sacerdote lai-co della cultura laica; l’altro, al contrario, è il sacerdote misti-co della cultura religiosa, della liturgia. Tra i due, se dovessidare un giudizio, direi che sono entrambi responsabili di unasituazione di umiliazione, di schiavismo. Perciò, in un certosenso, se avessi fatto un film con il pittore, avrei fatto il filmcontro il pittore, probabilmente ancora di più che contro ilprete. Al contrario, nel libro Sciascia ha verso di lui un atteg-giamento piuttosto benevolo, è indulgente con il suo perso-naggio. Ha con lui un rapporto quasi di sottomissione.Siccome il pittore è laico, non può inserirsi completamentenell’esperienza teatrale proposta da sant’Ignazio. Così si per-dono di vista i fondamenti stessi dell’esperienza teatrale.Allo-ra, la prima cosa che ho dovuto fare è stata dimenticare il per-sonaggio del pittore, per le ragioni che ho spiegato. Prima ditutto perché mi era antipatico. I pittori come quello, io li co-nosco: sono tutti antipatici, sono tutti odiosi. Spesso esporta-no capitali all’estero, sono peggio dei padrini della mafia o deifunzionari del Vaticano, anche quando sono comunisti. Dun-que, visto e considerato questo, perché fingere di amare deipersonaggi che, al contrario, sono detestabili? In secondo luo-go perché la cosa interessante del libro (che io trovo geniale,nell’idea di Sciascia e nella sua struttura morale) è che metteun gruppo di notabili democristiani in una situazione sado-masochista, nel momento in cui si capisce che questa «classepolitica» (ma la definizione è impropria) cattolica è sul punto

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di naufragare, di affondare, di scomparire. Soprattutto, questomi permetteva di conservare quella struttura.Perché avrei dovuto rispettare il libro? Sono sicuro che inFrancia, e anche in Italia, sarà senz’altro uno scandalo, per-ché non ho rispettato il libro di Sciascia. Ma sono ridicolag-gini. Un libro è un’idea, è come un libretto d’opera. Sarebbecome rimproverare a Verdi – mutatis mutandis, naturalmente:io non sono Verdi – di aver fatto Macbeth con spirito pocoshakespeariano. Ma era Verdi. E gli esercizi spirituali si pos-sono fare anche in un film diretto da me.Il terzo punto che m’interessava era affrontare direttamente laquestione politica che Sciascia al contrario, per ragioni chenon capisco, voleva evitare. È inutile fare un processo a Scia-scia, e soprattutto io non ho intenzione di farlo. Il libro è bello,ma non è questo che m’interessava.A me interessava solo arri-vare al nodo della questione politica. E cioè: chi sono questiuomini? Sono dei notabili democristiani, cattolici. Ecco. Biso-gna chiarire questo. Nel libro è chiaro, ma fino a un certo pun-to. Allora, al posto del pittore, ho messo questo personaggioche è una specie di «potente Tartufo», un democristiano chepotrebbe assomigliare a uno dei tanti ministri che ci governa-no da trent’anni: un po’ omosessuale, un po’ impotente, so-prattutto un po’ impotente dal punto di vista politico. La suaperversione consiste nel fatto che non vuole cambiare niente.Si può quindi trasformare un libro, quando se ne trae unfilm, purché lo si faccia in perfetta buona fede, purché lo sifaccia in assoluta autonomia, cioè con la coscienza dell’auto-nomia, non solo per il gusto di cambiare. Io ho cambiato To-do modo allo stesso modo in cui avevo cambiato A ciascuno ilsuo. Per di più credo che Sciascia sia stato molto contento delrisultato che avevo ottenuto, visto che l’ha dichiarato a più ri-prese, anche di recente. Bisogna fare delle scelte sulla basedel proprio temperamento, della propria cultura e, nel casospecifico di Todo modo, della propria cultura politica che, evi-dentemente, non può essere la stessa di Sciascia.

Ogni volta che si adatta un film da un libro, i critici non fanno cheparagonare il libro al film e quasi sempre concludono che il libroera migliore.

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Il raffronto può essere interessante se il film non è autono-mo. Ma se il film dichiara la propria autonomia, allora questorimprovero non ha senso. Per esempio, ho visto un bruttofilm tratto da un romanzo di Hemingway, Addio alle armi conRock Hudson e Jennifer Jones. È il più bello dei romanzi diHemingway. È chiaro che il film non era autonomo. E allora,quand’è così, viene anche a me l’impulso di dire che il ro-manzo di Hemingway è meglio. Ma quando un film si presen-ta come autonomo, e al contrario cerca di trarre dal libro ilmassimo che questo può dare nell’interpretazione scelta, chesenso ha fare i moralisti?Il problema della fedeltà al libro, davvero, è un falso problema.

Come ha preparato la sceneggiatura di Todo modo?Come si fa a tradurre un libro in immagini? Sono due conte-nuti completamente diversi, dal punto di vista semiologico. Ilmassimo che può fare uno spettacolo per assomigliare a untesto letterario, è cercare di essere il più autonomo possibilenella scrittura cinematografica, in rapporto alla domandadello spettatore. Perché, comunque sia, la scrittura sarà sem-pre cinematografica.Visconti ha fatto La terra trema, che è molto diverso da Vergama è vicinissimo allo spirito di Verga, è profondamente legatoallo spirito di Verga. Non ha neanche dichiarato di averlo trat-to dall’opera di Verga. Noi sappiamo che si trattava dei Mala-voglia, ma lui non l’ha detto. E in effetti è molto verghiano.Ossessione è Il postino suona sempre due volte, ed è assolutamen-te diverso dal romanzo di James Cain; il libro era un bel libro,ed è ancora bello, e il film è un bel film. La stessa cosa si puòdire di Senso. Visconti è il caso tipico del regista che elaborauna propria visione a partire da un libretto, libretto nel sensooperistico. È come un musicista che utilizza un libretto.Per tornare alla questione della sceneggiatura, dirò che si ba-sa esclusivamente sull’esperienza teatrale, cioè sulle scansio-ni determinate dalla divisione in posizioni corporali, in medi-tazioni dell’esperienza ignaziana. C’è, sull’argomento, un sag-gio di Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola, citato anche nelfilm di Pasolini, Salò. Sant’Ignazio divide il suo libro sugliesercizi spirituali, la sua guida agli esercizi spirituali, esatta-

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mente allo stesso modo di Sade, in cerchi che seguono unoschema fisso e devono essere sempre uguali, anche perl’umanità che verrà tra duemila anni… Nella situazione disant’Ignazio, ogni meditazione corrisponde a una cosa preci-sa. Gli esercizi ignaziani duravano mesi, oggi durano tre gior-ni. Naturalmente, siccome per i capitalisti il tempo è denaro,e questo vale anche per i capitalisti cattolici, sono solo tregiorni. Ogni giornata è divisa per meditazioni: c’è la medita-zione sul peccato, quella sull’inferno eccetera. Ogni medita-zione fatta dal sacerdote – come un personaggio sadico –contro gli uomini politici fa parte di un capitolo del film. Econtemporaneamente alla meditazione, accade qualcosa pro-vocato dalla stessa: la meditazione sull’inferno scatena un in-ferno… È questa, detta in sintesi, la modifica che ho apporta-to, che però è sostanziale.Vale a dire che in un certo senso ilmio film è davvero ignaziano, in quanto suscita anche nellospettatore questa sorta di sensazione. E poi è un film moltosarcastico. Da questo punto di vista invece non è ignaziano,perché è davvero uno spettacolo sarcastico.

Di recente lei ha dichiarato che, quando il film sarà finito, nonvorrebbe presentarlo alla critica.Mi sono molto indignato per il modo in cui è stato accolto Laproprietà non è più un furto. Ma in fondo esempi di questo ge-nere non riguardano solo me. Le critiche le leggo solo in mo-do episodico sui quotidiani, sulle riviste specializzate, e vedoche ogni tanto commettono degli errori grossolani, spavento-si. A convincermi che la critica italiana ha fatto il suo tempoè stata l’accoglienza riservata al film di Pasolini, Salò. Pasoliniè morto, e loro sono corsi a vedere il film, subito, a poche oredalla sua morte. Già questo denuncia il valore giornalistico dicerte posizioni. Si sono sbrigati a scrivere. E così, in un colposolo, hanno vivisezionato il film e anche l’uomo. Hanno con-fuso la vita di Pasolini con il film, facendo delle operazioniignobili, davvero ignobili.Io mi sono rifiutato di vederlo subito. Ho aspettato che pas-sasse il pesante contraccolpo che avevo subìto, la sofferenzaumana, il dolore che ho provato. Il film l’ho visto dopo. È unfilm magnifico, che nessuno ha capito. Si sono tutti sforzati di

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non capire. Evidentemente, perché non si voleva accettare unfilm tanto puro nella sua provocazione, e così poco provocato-rio nella sua purezza. Pasolini credeva di fare un film provoca-torio, mentre in realtà faceva un film estremamente poetico,che è provocatorio solo e soltanto perché è poetico. Non pote-va essere capito da gente così biecamente moralista, moraliz-zatrice, così legata alle posizioni della morale piccolo-borghe-se. È chiaro che si tratta di persone che ormai scrivono di ci-nema per abitudine, di routine, seguendo una politica di pro-duzione, anche quando sono convinte di andare controcor-rente. Fanno parte di un contesto, e non ne sono nemmenoconsapevoli. L’esempio tipico è quello di continuare a ignora-re il cinema popolare italiano, che riempie le sale e raccoglie ilfavore degli strati più popolari del pubblico, e che i critici ne-anche conoscono. Mentre noi, al contrario, abbiamo la lezionedi Gramsci: da cui l’attenzione portata spesso più seriamentesu certi fenomeni della cultura popolare o della sottoculturapopolare, che su quelli della cultura borghese.Ci sono così tanti equivoci, sulla critica, che io personalmentenon me ne interesso più. Un critico comunista mi ha fatto ca-pire che io ero sostenuto dalla critica comunista perché le mieposizioni erano filocomuniste. Mi ha fatto schifo: anche se losospettavo già, speravo che non fosse vero. Mi fa apparire sottouna luce insopportabile. Evidentemente quel critico traveste ipropri testi con un gergo umanista, cerca argomentazioni este-tizzanti; nei suoi pezzi, come in quelli dei suoi colleghi, non sicapisce mai qual è davvero il suo punto di vista estetico, a qua-li princìpi estetici o filosofici si rifaccia. Le critiche sono spes-so identiche, a prescindere dalle convinzioni ideologiche degliautori. In queste condizioni, non vedo perché dovrei far vede-re il mio film, privilegiando i critici in qualche saletta di proie-zione privata che già danno l’idea di una comunità a parte. Io imiei film li faccio per il pubblico, anzi, vorrei dire che li faccioper il grande pubblico, con il massimo rispetto per il grandepubblico, e quindi con il massimo rispetto per lo spettacolo.Io credo nello spettacolo popolare. Il mio film dev’essere vi-sto tra la gente che ride, che piange, che polemizza sul film.Perché, se ci riesco, credo di aver fatto una cosa interessante,spero di aver provocato un fenomeno umano. Fare in modo

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che una sala fredda e vuota si riempia di persone che vengo-no a vedere degli attori e che partecipano a un evento.Un critico comunista può benissimo utilizzare l’aggettivo«popolare» come se fosse un insulto, dal punto di vista esteti-co. Ma io non sono d’accordo. Io penso che l’insulto che uncomunista dovrebbe scagliare contro uno scrittore o un ci-neasta, sia l’aggettivo «borghese». Personalmente, mi fa sof-frire sapere di far parte, malgrado le mie aspirazioni e i mieidesideri, di una cultura borghese. Ma questo, loro, non lo di-cono. Se ne guardano bene. Usano il termine «plebeo» comeun insulto. Ecco perché a un certo punto Giorgio Strehler fuvenerato in Italia come un santo. È un grande artista, ma è ungrande artista borghese. Fa dei magnifici spettacoli estetiz-zanti. Ammiro moltissimo il suo talento di mago, di medium.Ma i suoi spettacoli sono profondamente statici, non provo-cano nello spettatore alcun dinamismo. Non c’è critica. Nonc’è conflitto, tra spettatore e spettacolo.Per suscitare questo conflitto, occorre scendere in mezzo alpubblico e parlare dei loro problemi, a modo loro, con il lorolinguaggio. È un rischio che bisogna correre. Perché se nonlo si corre, si rimane al di sopra, nella sfera estetica.Il cinema non è soltanto estetica, è molte altre cose. È un fe-nomeno sociale, è un fenomeno di costume, è morale, è poli-tico, è estetico, è sociologico… I critici non sono capaci di ve-derlo , non sono capaci di creare quelle alternative che esigo-no da noi. Non diventano organizzatori della cultura. Gli uni-ci tentativi che ho fatto per uscire dalle convenzioni e dallevie tracciate dalla produzione capitalista, li ho fatti di mia ini-ziativa o grazie all’iniziativa dei miei compagni, non perchéc’erano i critici. Il loro giudizio è sempre dato a priori ed è le-gato a quel particolare film, a quel momento, a quell’autore.Non si fa neanche un discorso sull’autore legandolo agli au-tori suoi contemporanei, nemmeno quello.Tempo fa, quando anch’io facevo il critico, cercavo soprattut-to di rifarmi al contesto del film – parlo di me, ma credo cheun film debba sempre essere studiato nel contesto da cui na-sce, che non è un contesto esclusivamente cinematografico.Il fenomeno cinema è importante in quanto rivela cose mol-to più vaste, che lo contengono e lo superano.

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Come si possono cambiare le cose?Non lo so, ma quel che è certo è che bisognerebbe eliminarela figura del critico. Le recensioni le dovrebbero scrivere tut-ti. Mi riferisco soprattutto ai quotidiani. Una cosa sono le cri-tiche delle riviste specializzate, e un’altra quelle dei quotidia-ni. Le recensioni dei quotidiani e dei settimanali possono es-sere fatte da chiunque, da qualsiasi redattore. Per esempio, ilmanifesto pubblica spesso delle recensioni di cinema, di tea-tro, di libri, scritte da redattori non specialisti. Oppure lette-re di lettori che di fatto sono delle recensioni. Secondo me èmolto più interessante. E poi, perché scrivere di un film ap-pena esce? È stato fatto, in maniera aberrante, per il Salò diPasolini. Una cosa imperdonabile.

Il film di Pasolini è uscito in un momento drammatico.È vero, ma un critico serio, uno che fosse davvero interessatoal film e non allo scandalo, avrebbe detto: «No, questo filmnon lo vedo. Aspetto dieci giorni, quindici giorni, un mese».Invece i giornali volevano lo scandalo. E loro si sono sotto-messi, sono stati i mediatori dello scandalo, facendo allo stes-so tempo i moralisti.Un critico vero organizza la critica. Non si limita a scrivereuna recensione, organizza un dibattito. Cerca di innescare unfenomeno dialettico. A partire dalla sua posizione, avvia unprocesso, costringe il pubblico a farsi delle domande, suscitaun dibattito. Loro no, loro adottano la posizione di Croce, delvecchio critico che si deve esprimere per assoluti, e soprat-tutto che deve emettere un giudizio, una sentenza, e una sen-tenza che è sempre senza appello. La sentenza serve solo amandare o non mandare lo spettatore al cinema, mai a illu-minare lo spettatore sul contenuto e sullo stile dello spetta-colo. Semplicemente, se un film a loro non piace, cercano disottrargli spettatori. E se gli piace, di procurargli più pubbli-co. Dietro c’è solo la logica del consumo.Su una cosa possiamo concludere: un film, in sé, è spesso unatto di terrorismo, perché non avvia alcun processo dialetticocon lo spettatore. Il critico potrebbe almeno, grazie alla suamediazione, fornire allo spettatore una chiave per avviarequesto processo dialettico. Se la sentenza è terroristica, come

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accade nella maggior parte dei casi, lo spettatore subisce unsecondo attentato terroristico. Dunque, sono atti terroristicidovuti spesso alla frustrazione, all’alienazione di persone chene soffrono. Conosco dei critici che non hanno mai visto IlBarbiere di Siviglia – è una grave lacuna, almeno per un italia-no – o che non hanno mai visto una pièce di Beckett.

Parlando della situazione del cinema italiano di oggi, ho l’impres-sione che stia attraversando un periodo difficile.Non vado praticamente mai a vedere film italiani, quindi sonoun pessimo giudice. E però una cosa è certa: la distribuzioneamericana sta trionfando in Italia, e il sistema vincente è quel-lo che guida la distribuzione americana, fondato sullo sfrutta-mento. E dunque trionfa il film di consumo basato sulla vio-lenza, sul sesso, il prodotto puramente commerciale. Io stesso,con il mio ultimo film, sono stato vittima di questa situazione.Allo stesso tempo, possiamo anche continuare a dire che que-st’anno ci saranno dei film interessanti, i film di Bellocchio, diRosi, di Bertolucci, di Ferreri, e anche di Pasolini. Salò è unfilm di quest’anno. È come per gli altri anni… c’è un gruppo diopere dell’avanguardia, intesa in senso sociale, politico, poeti-co. E poi una massa stagnante di prodotti di cassetta, che co-munque riflettono il livello di civiltà a cui siamo arrivati.

Mi sembra che produrre un film che abbia una dimensione socio-politica stia diventando sempre più difficile.È sempre più difficile perché i modelli della distribuzioneamericana, e quelli di sfruttamento che comportano, sono al-l’insegna del culto dei divi, dei soggetti alla moda. Quindi èchiaro che bisogna spendere più energie. C’è sempre un grup-petto di film di punta, ma quello che manca è un cinema alter-nativo. Manca la lotta comune di alcuni gruppi di autori, man-cano anche i singoli autori capaci di fare del cinema davveroalternativo. Cosa intendo per cinema alternativo? Intendo deifilm che vanno visti in contesti diversi, fatti in modo diverso,con cineprese diverse, facce diverse, temi diversi, un linguag-gio diverso. Film che durino venti minuti invece di due ore, osei ore al posto di due. Insomma, un cinema fatto in un altromodo. Parlando di cinema alternativo, non intendo cinema

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aristocratico, intendo anche cinema spettacolare, cinema po-polare. Questo non mi fa paura. D’altra parte: quali sono i ca-pitali utilizzati, e i princìpi seguiti nell’usarli, per i film di pun-ta di cui stiamo parlando? Tutti quei film, anche se vanno con-tro la produzione capitalista, sono fatti sempre nel contesto diquella produzione. È questo, il problema di fondo.*

ERA INNAMORATISSIMO DELLA PITTURATONINO GUERRA

Se sono entrato nel cinema, penso di doverlo a Elio Petri.Ven-ne a Santarcangelo perché la prima cosa che abbiamo scrittoinsieme è stato Un ettaro di cielo di Aglauco Casadio, un picco-lo film in cui recitava anche Mastroianni, ha voluto esserci atutti i costi. Fu un film di successo, e lo è ancora adesso perchéla televisione lo trasmette spesso. Mi ricordo che ogni tantoElio (eravamo molto amici) veniva a trovarmi a Santarcangelo.Si era comprato una decappottabile verde e mi diceva: «Andia-mo a prendere il caffè a Rimini».Tra Santarcangelo e Rimini cisono dieci chilometri e io non volevo: «Non è possibile perchése mi vedono i miei amici contadini poi mi prendono in giro,non si possono fare dieci chilometri per andare a prendere uncaffè… è una cosa che non posso fare». E allora lui andava aRimini da solo e io l’aspettavo. Per quanto riguarda lui, a quel-l’epoca aveva avuto molto successo con un film di De Santis,Roma ore undici. Giovanissimo, aveva già realizzato un’inchiestastraordinaria su alcune ragazze rimaste coinvolte in una scia-gura, così in seguito è riuscito a farmi guadagnare un milionee devo dire che De Santis fu molto gentile con me, perché al-l’epoca lui era una grande star, persino il Partito comunista loconsiderava con ammirazione. C’erano molti comunisti chevolevano lavorare con lui – si facevano persino raccomandareda Togliatti – ma De Santis era stato deciso a volermi e così,anche grazie all’appoggio di Petri, mi ha tenuto. Io non eroiscritto al partito, ero un tipo libero come sono sempre stato e

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* Intervista inedita in Italia, realizzata da Jean A. Gili a Roma, febbraio 1976, in«Elio Petri & le cinéma italien», Rencontres du cinéma Italien d’Annecy, 1996.

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come sono ancora oggi, anche se mi considero un comunistazen. Ma ormai è risaputo da un pezzo.

Lei e Petri in quel periodo eravate amici del pittore Renzo Vespi-gnani.Molto amici. C’era il grande gruppo di Vespignani, il gruppodel «Portonaccio», e c’era anche un altro bravissimo pittore,che adesso è morto: Muccini. Dopodiché, Elio ha deciso difare un film tutto suo, da regista, e naturalmente l’abbiamoscritto insieme. Il film era L’assassino, ma adesso non ricordopiù se abbiamo scritto prima la sceneggiatura di L’assassino oquella di I giorni contati. Questo secondo film partiva daun’idea che ci piaceva molto, quella di dare a Salvo Randoneil suo primo ruolo da protagonista in un film, perché era co-nosciuto soprattutto come attore di teatro. Con quel film Pe-tri è stato premiato al festival di Mar del Plata, ha battuto ad-dirittura Jules et Jim di Truffaut. Fu una grande emozione permoltissime persone, e per qualcuno anche uno scandalo. Se-condo me è un film bellissimo. Randone è un attore eccezio-nale. È stato detto che il suo personaggio si ispirava al padredi Elio Petri ma io non credo, suo padre non era come quelvecchio che ha la morte addosso.

Per L’assassino, Mastroianni ha contribuito alla realizzazione delfilm.Tra noi e Marcello c’era un’amicizia intensa. In seguito conMastroianni ho fatto una decina, forse una dozzina di film:Angelopoulos, Antonioni, De Sica, Matrimonio all’italiana, unbellissimo film. Petri e io ci frequentavamo anche fuori dallavoro. Elio era una persona straordinariamente ospitale, an-davo spesso a mangiare da lui, ha avuto un’importanza incre-dibile nella mia vita, era davvero un uomo eccezionale. In se-guito abbiamo fatto insieme La decima vittima e Un tranquilloposto di campagna. L’idea di una Roma nel futuro, in La deci-ma vittima, era di Elio. A quei tempi leggevamo tutti moltafantascienza. E poi bisogna ricordare il ruolo dello scenogra-fo Piero Poletto, che ha lavorato anche con Antonioni perL’avventura, L’eclisse, Deserto rosso. Per La decima vittima Polet-to ha fatto delle scene meravigliose. È morto giovane.

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Per Un tranquillo posto di campagna ho scritto solo il soggetto.Poi io ed Elio non abbiamo più lavorato insieme; io ho presola strada di Fellini e di Antonioni, e i nostri tempi non si sonopiù combinati. Lui ha lavorato con Ugo Pirro. Su questa colla-borazione non vorrei dire niente. Con Elio c’è stata davverouna vita in comune, davvero in comune. Stavamo sempre in-sieme, a lavorare, a chiacchierare, a mangiare a casa sua. È sta-to lui a spingermi a venire a Roma. Io insegnavo, e non fu fa-cile abbandonare la scuola per quell’avventura a Roma, chepoi a un certo punto mi ha anche portato a dei momenti dimiseria nera. È stato un periodo esaltante, ma anche moltodifficile. Quanto a De Santis, con me fu di una tenerezza in-credibile anche se, detto tra noi, bisogna riconoscere che lascelta dei film che girava in quel periodo, e a cui ho collabora-to anch’io, con quell’amore, quella sua generosità verso chisoffre fosse pure un lupo, non poteva certo portare a cose dialtissimo valore. Ma a me stava bene così, anche perché ero unpo’ ai margini rispetto ai suoi collaboratori fondamentali,Puccini o Petri. Io ero quello nuovo che arrivava con le suecosette poetiche, con la sua ammirazione per Fellini, che DeSantis condivideva mentre gli altri mi prendevano in giro.Non perché Fellini era di Rimini e io lo conoscevo bene, maaveva tutto il mio appoggio, giustificatissimo, nel contesto diun mondo che gli rimproverava di essere indifferente alla po-litica e di non simpatizzare per l’estrema sinistra.Attorno a luisi era creato un certo gelo: Peppe De Santis aveva intuito inFellini la forza straordinaria del regista, ma gli altri prendeva-no le distanze. E io insistevo a dire che Fellini mi piaceva.

Lei e Petri siete stati non solo gli sceneggiatori, ma anche gli aiuto-registi di De Santis.Uomini e lupi fu un’avventura straordinaria sulle montagneabruzzesi, e io ogni tanto mi mettevo a cantare con Yves Mon-tand. Fu un’esperienza che mi tornò molto utile, perché miha permesso di vedere da vicino come si traducono in lin-guaggio cinematografico le indicazioni della sceneggiatura,primo piano, campo lungo… Ho potuto capire fino in fondotutti i meccanismi della sceneggiatura. Perché la sceneggiatu-ra ha una struttura sua propria, con le sue regole.

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Come mai Elio amava tanto la pittura?Tutto il gruppo che ruotava attorno a Vespignani amava lapittura. Elio comprava anche parecchi quadri. La metà dellenostre discussioni verteva sull’andare o no a vedere una cer-ta mostra, cosa che fa anche Antonioni. Prima di Blow up sia-mo arrivati a Londra e siamo andati a vedere tutti i pittori; lostesso quando ha girato in America Zabriskie Point. Mi ricor-do che siamo andati a trovare Roy Lichtenstein: aveva com-prato la sede in disuso di una banca, e c’era l’ascensore chearrivava fin dentro all’appartamento. Ci ha regalato anche undisegno. Elio era innamoratissimo della pittura. Quando an-davamo a Parigi si andava a tutte le mostre, era una malattiache forse gli era rimasta dai tempi del «Portonaccio», con tut-ti quei pittori. *

UNA FORMA DI PESSIMISMO UNIVERSALEUGO PIRRO

Io ed Elio Petri ci conoscevamo da diversi anni, ancora primadi lavorare insieme. Abbiamo collaborato entrambi a qualchefilm di Giuseppe De Santis. Poi abbiamo preso strade diverse,nel cinema, ma siamo sempre rimasti amici. Ci siamo riavvici-nati con l’idea di girare dei film a tema più esplicitamente po-litico, che intervenissero sulla realtà italiana. Pur su strade di-verse, perseguivamo lo stesso genere di ricerca, facevamo lostesso lavoro. Così abbiamo iniziato a lavorare insieme con Aciascuno il suo. Dopo quel film Petri, che aveva un contrattocon gli Artisti associati, ha realizzato un suo vecchio progetto,Un tranquillo posto di campagna; e poi abbiamo ripreso a colla-borare con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto,La classe operaia va in paradiso e La proprietà non è più un furto.

Dal punto di vista politico, siete molto vicini.Ci sono delle differenze, ma la matrice è comune. Petri è piùportato verso una forma di pessimismo universale; io ho un

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* Intervista inedita in Italia, realizzata da Jean A. Gili nel 1996, in «Elio Petri & lecinéma italien», Rencontres du Cinéma Italien d’Annecy, 1996.

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atteggiamento più critico, più incline all’intervento diretto,alla volontà di fare politica in qualsiasi modo. Petri ha dei pe-riodi di intervento diretto e altri di distacco, di riflessione; maquesto fa parte della personalità, del comportamento perso-nale: è giusto che sia così, altrimenti la collaborazione sareb-be priva di dialettica, troppo uniforme. Così ci sentiamo ab-bastanza complementari.

Chi ha avuto l’idea di adattare il romanzo di Sciascia A ciascunoil suo?Quel film voleva farlo Petri. Io, per caso, mi sono trovato tra lemani il manoscritto del libro prima che uscisse. Avevo pensa-to di fare un film con una cooperativa, ma il progetto non èandato avanti. Quando è uscito il libro, un produttore si è det-to disposto a finanziare il film e io e Petri abbiamo deciso difarlo insieme. Abbiamo lavorato alla sceneggiatura adottandoun metodo che è rimasto sempre il nostro: non scrivevamociascuno per conto proprio, ma lo facevamo insieme. A volteio scrivo la traccia di un soggetto e lui ci lavora su, oppuresuccede il contrario. Quando arriviamo alla sceneggiatura, lascriviamo insieme. Ci vedevamo tutti i giorni, e partivamo dauna discussione a carattere generale. Solo dopo affrontavamoi dialoghi. Nel caso di A ciascuno il suo abbiamo impostato agrandi linee l’adattamento, poi abbiamo iniziato a scrivere lescene. Di solito non facciamo come si usa in Italia, da Umber-to Barbaro in poi, una «scaletta», cioè una traccia di regia apriori: la facciamo al massimo per due o tre sequenze. Nonsappiamo mai, prima, quale sarà la conclusione: lasciamosempre il lavoro aperto.Abbiamo in testa un percorso, ma nonlo definiamo mai scena per scena e nelle conclusioni.

Quindi al momento di girare c’è un margine di improvvisazione.Sì. Può variare da film a film, a seconda del genere… Ci sonodei film che sopportano l’improvvisazione, altri no. A ciascunoil suo e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto sonobasati su sceneggiature così strutturate che ai dialoghi non sipuò aggiungere niente; non sono modificabili. Mentre conLa classe operaia va in paradiso era più facile: il film era co-

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struito su un personaggio che sopporta delle invenzioniestemporanee, e anche delle modifiche al contenuto.

Penso che la sceneggiatura di La classe operaia va in paradisosia stata scritta in pochissimo tempo.È vero, ma prima avevamo penato molto sul soggetto e sultrattamento. Ci eravamo documentati, abbiamo anche cerca-to di partecipare alle lotte operaie. Volevamo capire, entrarein un universo che conoscevamo solo dal punto di vista cul-turale: ci mancava la conoscenza precisa, diretta. Per esem-pio, nella sceneggiatura abbiamo dovuto far vedere a un pub-blico che poteva essere poco al corrente qual era il problemadei ritmi della fabbrica e del lavoro a cottimo, far capire che illavoro a cottimo era il fattore scatenante del conflitto dram-matico che esplode nel film.

In Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, vi sie-te ispirati a un modello reale per definire il personaggio?No. Hanno parlato del commissario Nicola Scirè, ma quandosi è iniziato a parlare di lui noi avevamo già scritto la sceneg-giatura. Credo che la vicenda Scirè sia venuta fuori mentregià giravamo. Quindi ogni rapporto è casuale. Ed è casualeche nel film esploda una bomba alla prefettura e che, quan-d’erano già finite le riprese, ci sia stato un attentato a Milano,alla Banca dell’Agricoltura. Siamo stati genericamente pre-monitori sulla questione delle intercettazioni telefoniche.Non sappiamo se esista una centrale telefonica come quelladescritta nel film, ma volevamo dare l’idea di un organismopotente, oscuro, sconosciuto, nel quale centinaia di personeascoltano altre persone: se nel dettaglio le cose stanno diver-samente, ha un’importanza solo relativa. Dunque, per con-cludere, tutto dipende dai materiali su cui si lavora. In Inda-gine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto non c’erano trop-pe ricerche da fare, il film faceva parte della nostra esperien-za, politica e umana. Diverso il caso di La proprietà non è piùun furto. Non abbiamo fatto un’inchiesta sui ladri, non era larealtà del mondo dei ladri a interessarci. Dal punto di vistadrammatico, ci interessava il concetto di crimine: all’internodel potere, si possono commettere dei delitti godendo del-

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l’immunità, il delitto non esiste; all’esterno, si viene punitiper il più piccolo crimine. A partire da lavori che toccano leistituzioni totali e il problema dell’emarginazione nella socie-tà contemporanea, abbiamo cercato di definire il privilegiosociale che nasce dal fatto di possedere. Il film è un discorsoe un dibattito sul senso e sulla dimensione drammatica deiprivilegi annessi alla proprietà, e non una ricerca su come vi-vono i ladri. Ci è costato molta fatica, ci abbiamo messo pa-recchio a scriverlo. Ci siamo trovati ad affrontare difficoltànuove, che sicuramente si percepiscono anche nel film. Èstato un lavoro durissimo, in quanto volevamo uscire da certicliché del nostro cinema, pur restando attaccati a una tradi-zione culturale italiana. Non so se ci siamo riusciti, forse al li-mite non abbiamo fatto un film italiano.

Avete fatto delle ricerche particolari per la parlata romanesca deiprotagonisti?Quello è stato un problema. Quando il protagonista è un la-dro, un macellaio, come lo fai parlare? In italiano forbito? Sesi usa una parlata troppo gergale, i dialoghi diventano incom-prensibili; d’altra parte, se non ci si appoggia a qualche ca-denza dialettale, i personaggi diventano inverosimili. In piùc’era il problema che Tognazzi è lombardo: Petri si è sforzatodi insegnargli la cadenza romana, e di guidarlo almeno nellamimica romana.

I film di Petri scatenano spesso delle polemiche; lei come reagisce?La difesa vera non riguarda i film, ma una linea che, al limite,non interessa soltanto il nostro lavoro.Tutti dimenticano cheper merito nostro, del nostro cinema, si è aperto uno spazio.Dimenticano che cosa si girava in Italia prima di A ciascuno ilsuo, prima di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto;hanno subito dimenticato che dominava il disimpegno, il di-vertimento. Se guardiamo alla storia degli ultimi anni, deglianni Sessanta – con quel miracolo economico che sembravauna festa destinata a non finire mai – constatiamo che chiparlava di impegno passava per un cretino, un pazzo, uno condelle manie. È la verità, lo dico senza nessun orgoglio. Se dalpunto di vista critico e storico esaminiamo i film osannati

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dalla critica prima di A ciascuno il suo, scopriamo che non cen’è uno che desse prova di un minimo di impegno civile. Af-fondavano tutti nelle illusioni. Ricordo che avevo un contrat-to di dieci anni con Bompiani, e che mi hanno rifiutato un li-bro che avevo mandato, un libro sul dopoguerra, molto poli-tico… Quel libro è uscito adesso, dopo dodici o quindici an-ni. All’epoca scrissi all’editore: «Basteranno quattro scioperiperché di tutta questa letteratura che lei difende non restiniente». Sono stato un profeta, le cose sono andate propriocosì. Oggi è tutto cambiato. E del resto, di quel cinema del di-simpegno non resta niente, o meglio resta soltanto il grandebarocchismo e una lettura diversa di certi film. In Italia siproclamava il disimpegno: e adesso è crollato. Antonioni havissuto di questo equivoco, anche se non per colpa sua: lopresentavano come il campione del disimpegno. Il concettodi alienazione, anche nel contesto della sinistra, era estraneoal discorso culturale italiano. Solo a una seconda lettura si ècapita la contemporaneità di Antonioni. La prima lettura erastata di tutt’altro genere, esclusivamente borghese. Così certisettori della sinistra, certi registi, hanno attaccato Antonioniperché veniva presentato come il portabandiera di un cinemadisimpegnato. Secondo me era una valutazione sbagliata, mache nasceva dal credito che Antonioni riscuoteva presso laborghesia e presso gli intellettuali borghesi. A ciascuno il suo èstato il sasso nello stagno: abbiamo fatto subito una scelta perl’impegno civile.A ciascuno il suo rappresenta un’inversione di tendenza: era il1967, il Sessantotto era già nell’aria, si cominciava a riconsi-derare la situazione del nostro paese, a capire che niente eracambiato. Certo, film come A ciascuno il suo, o Indagine su uncittadino al di sopra di ogni sospetto non vanno immediatamen-te a incidere sull’opinione pubblica, ma col tempo… Indagi-ne su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è stato un fenome-no pazzesco nel nostro paese, difficile da dimenticare. Il suc-cesso di pubblico è stato enorme, le code erano talmente lun-ghe che si è dovuto deviare il traffico. La gente si dava di go-mito, non credevano ai loro occhi. Mi ricordo che un attore, acui avevo offerto il ruolo del brigadiere, aveva rifiutato per-ché il film criticava la polizia. Io credo che il coraggio civile di

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Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto vada apprez-zato: ha aperto uno spazio a chiunque voglia fare un film po-litico. Qualcuno disse che saremmo finiti dentro, tale era labomba… Noi abbiamo cominciato a capire cosa stava succe-dendo quando l’abbiamo montato, allora ci siamo resi contodi cosa sarebbe potuto succedere. Il film non è stato bloccatodalla censura perché si sono resi conto che farlo avrebbeprovocato uno scandalo enorme. A permettere l’uscita delfilm è stato il contesto politico – la crisi di governo e la volon-tà democristiana di allearsi con i socialisti dopo le bombe diMilano.*

RAPPRESENTARE IL MONDO DA POETAGIANCARLO GIANNINI

Conoscevo Elio Petri da moltissimi anni. Avrei voluto che fa-cessimo insieme un film tratto da un romanzo italiano, Il fa-scistibile. Era la prima volta che si decideva di fare un film incui un cittadino si ribella alla violenza, senza l’aiuto della po-lizia o dello Stato. Purtroppo il progetto non è stato capito, esecondo me è stato un errore. Poi sono nati altri film di que-sto tipo, magari non troppo buoni; nemmeno Taxi Driver, diMartin Scorsese, è del tutto riuscito. Ma questo filone del cit-tadino che si ribella ha avuto molto successo. Noi non siamoriusciti a fare quel film. Petri all’epoca era impegnato, e ab-biamo rimandato a un’altra occasione. Una sera di parecchianni dopo mi telefona, saranno state le undici, e mi dice: «Tidevo parlare». Era circa un anno prima di Buone notizie. Nonmi ricordo esattamente quando. Mi ha letto qualche paginet-ta di appunti che aveva preso e mi ha detto: «Voglio fare que-sto film con te». Siccome anch’io lo volevo fare, abbiamo cer-cato di metterlo su insieme. A quell’epoca fare un film eramolto difficile, perché la cinematografia italiana aveva sospe-so tutte le produzioni. Per via di una stupida legge che si sta-va preparando, un giudice aveva contestato un sacco di film

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* Intervista inedita in Italia, realizzata da Jean A. Gili a Roma, ottobre 1973, in«Elio Petri», Facoltà di Lettere e scienze umane dell’Università di Nizza, 1974.

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per motivi assurdi: un film che non ha un titolo italiano nonè italiano, e quindi non ha diritto ai sussidi del governo…C’era tutta una polemica su questo, sui giornali. I grandi regi-sti, da Scola a Risi, dicevano «Bisogna fare questo, bisogna fa-re quello, aspettiamo la legge».Mi sembrava che l’unica maniera di reagire a questa stupidi-tà fosse di fare davvero dei film. E così ho deciso di produrreBuone notizie io stesso. Poi, nella produzione è entrato anchePetri.Abbiamo deciso di non preoccuparci dei finanziamenti stata-li. Se non arrivavano, pazienza. Ci producevamo da soli,quindi potevamo prenderci dei rischi. E infatti abbiamo gira-to con pochissimi soldi. Era un film a basso costo. Il nostromargine, mio e di Petri, era bassissimo. Sapevamo benissimoche non stavamo realizzando un’opera di cassetta, ma cerca-vamo comunque di fare qualcosa di nuovo. Mi piace moltoche nel cinema ci sia qualcosa di diverso. E così è nato que-sto film.È inutile dire che Petri manifesta la sua personalità attraversoi suoi film. Era una persona di un’intelligenza e di una cultu-ra fuori del comune; il rapporto che ho avuto con lui a livelloumano è stato straordinario. Un po’ perché i produttori erava-mo noi due: giocavamo a fare davvero quello che volevamo.Era un film un po’ strano per me, che ne avevo già prodotti.Se Petri decideva di girare in un posto e all’ultimo momentocambiava idea, poteva farlo. Petri era un uomo molto preciso,molto deciso. Era la prima volta che produceva un film, e que-sto a volte gli creava delle difficoltà, sulla scelta degli esterni.Si tratta di un film metafisico, insolito, come un quadro diMagritte. Petri amava moltissimo la pittura, cercava di ripro-durla, nelle sue scene metteva sempre qualche quadro.Buone notizie è un film che amo moltissimo: non è stato capi-to, e non so se un giorno potrà esserlo. Ho fatto molte coseche sono state capite solo in seguito. Anche come attore. Era-vamo molto felici di averlo girato, anche se quando è uscitoabbiamo ricevuto solo stroncature feroci. Ho seguito la pro-mozione del film in Italia insieme a Petri – la prima volta chelo faceva – per cercare di far venire voglia alla gente di anda-re a vederlo, spiegando che era un film difficile. In fondo il

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pubblico non è stupido; deve anche essere capace di vederequalcosa di difficile, di sforzarsi per capirlo. Abbiamo fattouna promozione davvero importante per quel film, siamo an-dati insieme in un sacco di posti, persino in Sardegna.Abbia-mo praticamente vissuto insieme per tre mesi, ed è stataun’occasione in più per conoscersi meglio.

Stiamo parlando dell’ultimo periodo della sua vita.Non era ancora alla fine. Gli restavano ancora tre anni da vi-vere. Ma di sicuro – l’ho capito dopo – aveva già dei sintomi,delle informazioni precise sulle sue condizioni di salute, sa-peva che poteva capitargli qualcosa da un momento all’altro.Ma non lo dava assolutamente a vedere. Forse in quel perio-do aveva dei problemi personali, non avevo ben capito tuttala storia con la moglie. In effetti ha cominciato a vivere da so-lo, in riva al mare a Torvaianica.Non so se avete letto l’ultima sceneggiatura, Chi illumina lagrande notte? Un lavoro molto insolito, che ho conservato.L’ha scritto proprio in quel periodo in cui andavo spesso atrovarlo a Torvaianica. Poi, quand’è rientrato a Roma, aveva-mo voglia di fare altri film. E forse questo sarebbe stato unodei progetti. Un film molto difficile, un’opera di fantascienza,ambientato nella realtà sotterranea della città. Ci vedevamospesso di sera. Lui era diventato come un bambino, andava-mo a mangiare il gelato… E poi rideva, mi ricordo che ridevatanto. Fino al giorno in cui non l’ho visto più. Mi hanno det-to che stava male. Io ero sempre in viaggio, non andavo mai atrovarlo. Era lui a telefonarmi spesso. Mi diceva di non anda-re a trovarlo.Voleva una cosa sola, dei film. Io avevo un saccodi cassette, moltissimi film, perché mi piace molto rivederli.E lui me li chiedeva. Mi ricordo che non riusciva a trovare Lagrande illusione di Renoir. Io ce l’avevo. Gli ho fatto una copia,come pure di qualche film di De Sica, Sciuscià, Umberto D.

Come avete girato Buone notizie?Era un film così strano, così insolito, così nuovo… ancora og-gi è un film nuovo. Un film che non è stato capito. A me pia-ce molto fare film che non si capiscano, e aspettare che sianocapiti più tardi. Ci siamo divertiti moltissimo, i personaggi

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nella realtà erano talmente assurdi… Era una presentazionedi personaggi, delle idee di quei personaggi, soprattutto erala rappresentazione visiva delle loro motivazioni interiori. Sipotrebbe quasi dire che i personaggi esteriorizzavano il loroinconscio. Era un modo di raccontare l’altra faccia del perso-naggio, non la parte più banale, che è quella realista.A ben vedere, il realismo nel cinema è un’idiozia. Chi l’hafatto in modo ammirevole? I Lumière. E basta. Dopo, c’è sta-to un signore di nome Méliès che ha girato più di cinquecen-to film e che è finito a vendere caramelle a Montparnasse. Luiha rappresentato quello che davvero si può fare con il cine-ma, questa favola per adulti che ci raccontavano i nostri padriquand’eravamo piccoli. A tre o quattro anni siamo gli spetta-tori migliori del mondo, i migliori registi, i migliori… Poi,quando diventiamo adulti, questa favola non c’è più, e allorac’è il cinema.Ma se si deve rappresentare la realtà, allora ha ragione quelloche piazza la cinepresa per sei ore, come Andy Warhol, su unoche dorme. Una persona che dorme: è il massimo del cinemarealista, no? E poi, invece, dicono che è una cosa astratta.C’è sempre molta confusione su questo. Si crede ancora cheil neorealismo italiano sia assolutamente realista. Non è vero.È la cosa più falsa che sia mai stata fatta: ma proprio all’inter-no di quella finzione, c’è la ricerca dei divertimento, di unaproposta di idea reale. Che sembra reale, perché la nostra im-maginazione si adatta di continuo. Si inserisce nello stile dichi racconta qualcosa creando un’unità credibile. Purtroppo,quest’idea non è ancora stata abbandonata.Ho lavorato in teatro con Anna Magnani.Tutti pensavano chein scena entrasse completamente nel personaggio! Non è af-fatto vero. Era una donna che si divertiva enormemente apresentare al pubblico un volto drammatico, e poi si girava escoppiava a ridere, e raccontava quanto fossero stupidi glispettatori. Non che non avesse rispetto per gli spettatori: maè proprio quello il gioco dell’attore, il plagio, il divertimento,la mistificazione, il trucco. Ecco perché con Petri ci divertiva-mo, perché quello era il tema del film. E noi andavamo addi-rittura oltre, nel senso che dovevamo entrare in una dimen-sione diversa. Abbiamo ballato il tango, io e Paolo Bonacelli!

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Uno spasso pazzesco! Ma era anche una tragedia violentissi-ma, espressa in termini astratti. Come l’epoca in cui viviamo.

L’immaginazione di Elio Petri gli permetteva di inventare dellestorie insolite. Per esempio, Indagine su un cittadino al di sopradi ogni sospetto non è un film essenzialmente realista.Lo so, ma lui riesce a ingannare il pubblico facendogli crede-re che si tratti di un film realista. Nessuno ha capito la finedel film.Tutti pensavano che Petri avesse fatto un film controla polizia, in realtà non è così, e non avrebbe neanche potutofarlo perché sarebbe stato censurato. Ma la magia delloschermo è tale, che il pubblico usciva dalla sala dicendo: «Èproprio un film contro la polizia». Ma non è vero. La vera finedel film è nel sogno, quest’uomo che si inginocchia, un fer-mo immagine e poi lo portano via in manette. Nel film questonon si vede, ma è così. Voglio dire, il cinema è bello proprioper questo, è bello per come un’immagine segue l’altra.

L’insuccesso, e il fatto che il film non sia stato capito, vi ha dato fa-stidio, a lei e a Petri?In Italia non si può dire che il film sia andato veramente ma-le. Quanto all’incomprensione, di sicuro ha contrariato piùPetri che me. Un giorno, dopo le recensioni all’uscita del film,siamo andati al Sistina a ritirare un premio. C’era una com-memorazione in ricordo di Anna Magnani, e poi si consegna-vano dei premi. Elio Petri sul palco è stato aggressivo. Era inbuona fede, ma era arrivato al punto di dire tutto quello chepensava. Quando siamo andati a presentare il film a Milano, siera reso conto che i critici non l’avevano capito e la presenta-zione fu violenta. Il dibattito alla fine della proiezione fu du-rissimo. Io ero un po’ imbarazzato, anche se sono anch’io unoche dice tutto quello che gli passa per la testa. Ma lui non eraminimamente diplomatico, diceva esattamente quello chepensava. Mi ricordo che ha strapazzato moltissimo un critico,Morando Morandini, dandogli dell’ignorante. «Lei si permettedi parlare del mio film, quando in un altro dei miei lavori hascambiato un quadro di Van Gogh per uno di Picasso. Lei do-vrebbe tacere, lei può fare solo il prete, faccia il prete!». Eramolto deciso, nelle cose che diceva. «Voi non potete capire

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questo film!». Dava a tutti dell’ignorante. Era arrivato al puntoche diceva davvero qualsiasi cosa in modo molto aggressivo.Questo mi fa pensare, a posteriori, che fosse consapevole del-la fine. Ma al fondo c’era un desiderio liberatorio, non solo didire tutto a tutti, ma anche di fare un film come Buone notizie,che è l’unica forma aderente alla realtà quotidiana: uno cheguarda la televisione e vede un funerale, perché la realtà diquesti tempi era proprio questa. C’è una bomba, a tal puntoche la bomba è diventata il simbolo dell’ufficio, basta dire«bomba», e si è detto tutto. Cioè, quel tipo che apre la porta edice «bomba», e poi la richiude e se ne va, è un po’ il mio per-sonaggio che alla fine del film dubita di tutto.

Elio Petri amava le metafore.Soprattutto in questo film, e anche in un film precedente,estremamente astratto sebbene ispirato alla realtà: Todo mo-do, un altro film che non è andato molto bene. Todo modo fa-ceva dei riferimenti precisi a certi personaggi. E forse questonon è piaciuto a certi uomini politici che si vedevano rappre-sentati. Petri ha messo in scena una realtà che si è realizzatain seguito: Moro è stato assassinato. Ma il film non si può ve-dere in questo modo, non deve essere considerata l’opera diqualcuno che aveva previsto la realtà ordinaria. È l’opera diuna persona che conosce a fondo il mondo in cui vive e checerca di rappresentarla, da poeta.Buone notizie va addirittura oltre Todo modo. I personaggi, tut-ti quanti, persino gli animali, recitano una commedia, persi-no i cani diventano attori. È un film feroce. Mi ricordo unascena in cui due cani si sbranavano, era davvero molto vio-lenta. Io gli ho detto: «Non giriamo questa scena. Mettiamoalmeno le museruole». No, lui non voleva le museruole e i ca-ni hanno combattuto davvero. Petri aveva questo modo moltoviolento di vedere le cose, nella rappresentazione della realtà,quasi iper-realista, ma lo faceva in modo così reale che non cisi credeva. È questa l’idea del film. Petri aveva l’impressione,o l’intuizione, di una condanna che pesava su di lui e, in uncerto senso, finiva per esserne contento. Così questa forma diliberazione gli consentiva qualsiasi cosa. Diceva: «Adesso viracconto tutto, e me ne frego di quello che pensate. Se non

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arrivate a capire, provateci e capirete». Era il suo ritornello.Se ne discuteva spesso. Il pubblico non è stupido. Cercavosempre di ricondurre Petri verso qualcosa di più morbido,per il pubblico. E lui faceva delle concessioni, sul mio perso-naggio. Ma poi nel montaggio ha tagliato tutto quello cheaveva ammorbidito. E forse ha fatto bene, perché il film avevaproprio bisogno di quella forma, che io definisco metafisicanel suo modo di osservare la realtà. Oserei dire che si trattadi uno dei film più metafisici che siano mai stati girati.

La sceneggiatura era completamente scritta, oppure c’era unaparte di improvvisazione mentre giravate?Era molto scritta. In fase di scrittura abbiamo discusso molto.Era divertente, perché il film era talmente folle da essere di-vertente. Ma mentre si girava – anche per via delle mie abitu-dini, perché io preferisco così – ero solo un esecutore. Senella scena c’è scritto che il personaggio piange, vedendo lamadre in punto di morte, e il regista mi dice: «Questa, falla ri-dendo», benissimo, io rido, non fa differenza per me. Perciòabbiamo seguito la sceneggiatura. Così era e così l’abbiamofatta, una ripresa dopo l’altra, ma tutte le riprese erano statestudiate in anticipo.

Come paragonerebbe Petri agli altri registi che ha conosciuto?Petri e Visconti erano due persone intelligenti, affascinantidal punto di vista personale, due uomini curiosi di tutto. Vi-sconti era molto più vecchio, ed era già malato, sapeva di do-ver morire presto, e quindi era molto più morbido nei suoigiudizi, nel modo di esporre la sua filosofia di vita, come fos-se uno scherzo del destino. Mi diceva: «Se muoio, per me vabene; ho fatto tutto quello che volevo. E anche quello chenon ho fatto… se riuscissi a farlo, tanto meglio, ma non è im-portante. Ho cercato di proporre quello che volevo».E in questo era un po’ Petri. Finito il film, gli hanno offertodiversi progetti, ma lui li ha rifiutati tutti perché erano brutti.Lui voleva fare i suoi film. Non aveva molti soldi con cui vive-re. Era una persona pulita, un vero artista come non ne esi-stono più. Poi, se ne possono trovare altri. Credo che ancheAntonioni fosse così, per quello che so di lui… Ci sono pa-

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recchi film che non siamo riusciti a fare insieme. Una volta,mentre eravamo in aereo, mi ha detto: «Vedi, nel cinema biso-gna fare quello che si pensa, quello che ci piace. Non bisognapensare al pubblico. Io faccio quello che mi piace, altrimentiil mio lavoro non avrebbe senso. Non importa se è incom-prensibile». La sua vita aveva un senso quando cercava di fa-re un film. Bisogna sempre cercare di fare qualcosa, di buonoo di cattivo non importa.Antonioni… Petri… Visconti… Con registi come questi nonera necessario mettersi a discutere. In realtà sono registi chefanno una vita molto semplice, anche sul lavoro… I grandiregisti sono così.Pasolini con me voleva fare – poi è morto e il progetto non siè realizzato – uno strano film sulla vita di san Paolo. Moderno.Abbiamo fatto in proposito una lunga chiacchierata, sono an-dato a trovarlo sul set di Salò. Abbiamo fatto una lunga pas-seggiata, di notte. Abbiamo parlato delle cose più banali: ve-deva dei fiori su un balcone, e mi parlava di quei fiori, di unpacchetto di sigarette…Voglio dire che vivere «come nella vita», come si dice agli at-tori, non significa tanto riprodurre la vita, ma ricordarci chesiamo vivendo un istante della nostra vita espressiva. E allorafate come volete, usate l’immaginazione. Questa è una fraseche agli attori non insegnano. Gli attori credono di dover ri-produrre la vita. Non è così. Loro vivono anche nel momentoin cui svolgono il loro lavoro in scena: quelle due ore, sonodue ore della loro vita; non del personaggio: la loro. Si pensasempre di dover ricostruire la vita del personaggio, cioè di ri-produrla in modo ripetitivo, banale. Invece bisognerebbe di-re: «Lei sta vivendo la sua vita di attore. È questo quello chedeve rappresentare».E questo Petri lo sapeva benissimo, così come Visconti, Paso-lini, Antonioni…*

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* Intervista inedita in Italia, realizzata da Jean A. Gili ad Annecy, ottobre 1987,in «Elio Petri & le cinéma italien», Rencontres du Cinéma Italien d’Annecy,1996.

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NOTIZIE SUGLI AUTORI

GIANNI CANOVA - Autore e conduttore del programma Il Cinemaniaco su Sky Ci-nema. Fondatore del mensile di cinema Duellanti, è stato critico cinematograficoper il manifesto, la Repubblica, Sette, Corriere della Sera, la Voce di Indro Monta-nelli e Saturno, inserto culturale di il Fatto Quotidiano. È anche professore ordi-nario di Storia del cinema nonché preside della facoltà di Comunicazione, rela-zioni pubbliche e pubblicità presso la Libera Università Iulm di Milano.

FLAVIO DE BERNARDINIS - Docente di Storia del cinema presso il Centro speri-mentale di cinematografia sedi di Roma e l’Aquila. Docente di Drammatizzazio-ne cinematografica presso la Link Academy Università di Malta. Direttore delMim - Master dell’Immaginario. Fa parte del comitato di redazione di Segnocine-ma. Ha pubblicato, fra l’altro, Nanni Moretti (Il castoro, 2006) e L’immagine secon-do Kubrick (Lindau, 2003).

FABRIZIO TASSI - Giornalista, critico cinematografico, scrittore. Redattore dellarivista Cineforum, collaboratore di MicroMega, responsabile delle pagine di cultu-ra di un giornale locale.

ROBERTO SILVESTRI - Giornalista e critico cinematografico italiano. È il respon-sabile di Alias, supplemento di cultura e spettacoli di il manifesto, e una delle vo-ci di Hollywood Party, trasmissione di cinema su Radio Tre. È stato tra i respon-sabili di «Rimini cinema» ed è il direttore del Festival di Sulmona.

PAOLO E VITTORIO TAVIANI - Registi e sceneggiatori dei loro film, a partire dal1962, in cui hanno diretto Un uomo da bruciare. Hanno realizzato 17 lungometrag-gi per il cinema, oltre a numerosi documentari e ai film-tv Resurrezione e LuisaSanfelice. Vincitori nel 1977 della Palma d’Oro al Festival di Cannes per Padre pa-drone, nel 1986 hanno ricevuto anche il Leone d’Oro alla carriera della Mostra in-ternazionale d’arte cinematografica di Venezia. Nel 2012, grazie a Cesare deve mo-rire, hanno vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, oltre a 5 statuette ai David,tra cui quelle per il miglior film e la migliore regia. Tra le loro opere, ricordiamo,I sovversivi, San Michele aveva un gallo, La notte di San Lorenzo, Kaos.

FRANCESCO ROSI - Regista e sceneggiatore. Aiuto-regista di Luchino Visconti,Michelangelo Antonioni e Mario Monicelli, esordisce nel 1958 con La sfida, pre-mio speciale della giuria alla Mostra di Venezia. Tra i suoi film più importanti:Salvatore Giuliano (1961), Le mani sulla città (1963), Uomini contro (1970), Il casoMattei (1971), Lucky Luciano (1973), Cadaveri eccellenti (1975), Cristo si è fermato adEboli (1978) e La tregua (1996). Nel 2008 ha ricevuto l’Orso d’Oro alla carriera alfestival di Berlino e nel 2012 il Leone d’oro alla carriera al festival di Venezia.

CURZIO MALTESE - Giornalista, scrittore e cinefilo. Editorialista di la Repubblica edel Venerdì di Repubblica. Tra i suoi libri – pubblicati entrambi con la Feltrinelli– La bolla: la pericolosa fine del sogno berlusconiano (2009) e La questua: quanto co-sta la Chiesa agli italiani (2008).

ENNIO MORRICONE - Tra i più celebri compositori di livello internazionale. Per ilgrande schermo ha realizzato circa quattrocento colonne sonore, collaborandocon registi italiani e stranieri quali Sergio Leone, Gillo Pontecorvo, Pier PaoloPasolini, Terrence Malick, Brian De Palma, Roman Polanski, Warren Beatty.Tra i film più noti di cui ha realizzato le musiche: La Battaglia di Algeri, Sacco eVanzetti, Nuovo Cinema Paradiso, Gli intoccabili, C’era una volta in America. Diret-tore d’orchestra e autore di un centinaio di composizioni di musica assoluta, haricevuto numerosi riconoscimenti in Italia e all’estero, aggiudicandosi nel feb-braio 2007 il premio Oscar alla carriera.

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TOMMASO DE LORENZIS - Consulente editoriale. Ha curato la riedizione di diver-si romanzi tra cui Duri a Marsiglia di Gian Carlo Fusco (Einaudi, 2005) e Nanà diDelacorta (Einaudi, 2008). È anche autore del libro L’aspra stagione (Einaudi,2012).

DAVID LYNCH - Regista. Forse il più radicale inventore di nuovi mondi narrativi,sconosciute esplorazioni di immagini e suoni, archetipi di inquietudini e miste-ri del cinema americano contemporaneo: da Eraserhead (1977) a Twin Peaks(1990), ha rifatto i connotati sia al cinema underground che al serial tv. Altri suoifilm: Elephant Man (1980), Velluto blu (1986), Strade perdute (1997), MulhollandDrive (2001). Ha vinto due volte il Premio César per il miglior film straniero edue volte la Palma d’Oro al Festival di Cannes: nel 1990 come miglior film perCuore selvaggio e nel 2001 come miglior regia per Mulholland Drive. Nel 2006 haricevuto inoltre il Leone d’Oro alla carriera.

MARIO SESTI - Giornalista e critico cinematografico. Per 13 anni collaboratore dil’Espresso. Nel 2003 un suo film documentario, L’ultima sequenza, è stato selezio-nato dal Festival di Cannes. Attualmente lavora per il Festival di Roma ed è di-rettore del Taormina Film Fest.

ANGELO D’ORSI - Professore ordinario di Storia del pensiero politico all’Univer-sità di Torino. Il suo ultimo libro è L’Italia delle idee. Il pensiero politico in un seco-lo e mezzo di storia (Bruno Mondadori). Tra le altre pubblicazioni 1989. Del come lastoria è cambiata, ma in peggio (Ponte alle Grazie, 2009), Guernica, 1937. Le bombe,la barbarie, la menzogna (Donzelli, 2007). Ha fondato e dirige la rivista HistoriaMagistra.

FABRIZIO GIFUNI - Attore teatrale e cinematografico, rivelazione europea al Festi-val di Berlino nel 2002. In teatro è ideatore e interprete di numerosi lavori fra cuiil progetto Gadda e Pasolini, antibiografia di una nazione (Premio Ubu 2010 comemiglior spettacolo e miglior attore dell’anno), per la regia di G. Bertolucci. Al ci-nema, più di trenta i titoli, ha collaborato fra gli altri con Amelio, Giordana, Ca-vani, Capuano, Molaioli.

DANIELE SEGRE - Regista, produttore, docente. Ha realizzato tutti i film con lasua società di produzione indipendente I Cammelli. Tra gli altri: Il potere deve es-sere bianconero (1978), Ragazzi di stadio (1980), Vite di ballatoio (1984), Dinamite(1994), Asuba de su serbatoiu (2000), Via due Macelli, Italia. Sinistra senza Unità(2000), Morire di lavoro (2008), Sic Fiat Italia (2011), È viva la Torre di Pisa (2012).Poi ancora i videoritratti di Luciano Lischi, Lisetta Carmi, Morando Morandinie Luciana Castellina.

DANIELE VICARI - Regista e sceneggiatore italiano, inizia l’attività con una seriedi documentari. Nel 2002, con il film Velocità massima, partecipa in concorsoal Festival di Venezia, e l’anno successivo vince il David di Donatello come mi-glior regista esordiente. Nel 2007, con Il mio paese, riceve un secondo David diDonatello come miglior documentario di lungometraggio. Nel 2012, con ilfilm Diaz - Don’t Clean Up This Blood vince ex aequo il Premio del pubblico alFestival di Berlino.

GIONA A. NAZZARO - Giornalista e critico cinematografico, scrive per Film Tv e faparte del comitato di redazione di Filmcritica. È autore di numerosi libri, tra iquali Action! Forme di un transgenere cinematografico (Le mani, 2000), menzionespeciale del Premio Barbaro/ Filmcritica. Ha esordito nella narrativa con l’anto-logia di racconti A Mondragone c’è il diavolo (Perdisa Pop, 2010). Inoltre lavoracome consulente e selezionatore presso Visions du Réel (Nyon) e Festival Inter-nazionale del Film di Roma.

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FABRIZIO BENTIVOGLIO - Attore. Debutta al cinema nel ’79 con Masoch di FrancoBrogi Taviani. È tra gli interpreti prediletti di Gabriele Salvatores (MarrakechExpress, 1989 e Turné, 1990) e Silvio Soldini (L’aria serena dell’Ovest, 1990 eUn’anima divisa in due, 1993). Nel 2007 passa dietro alla macchina da presa conLascia perdere Johnny! Tra i suoi film più recenti: La giusta distanza (2007) di Car-lo Mazzacurati, Una sconfinata giovinezza (2010) di Pupi Avati e Scialla! (Stai sere-no) (2011) di Francesco Bruni.

AMEDEO PAGANI - Produttore, comincia a scrivere per il cinema come soggettistae sceneggiatore. Sono circa 40 i film da lui prodotti o distribuiti dal 1988 ad og-gi. Ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti come la Grolla d’Oro come migliorproduttore per il film La domenica specialmente (regia: Tornatore, Bertolucci,Giordana) e nel 2000, il Premio David di Donatello, come miglior produttore,per il film Garage Olimpo di Marco Bechis.

TONI SERVILLO - Attore e regista teatrale. L’esordio cinematografico è col filmMorte di un matematico napoletano (1992), per la regia di Mario Martone. Sempreper il cinema ha recitato in Gomorra (2008) di Matteo Garrone e Il Divo (2008) diPaolo Sorrentino. Ha vinto tre David di Donatello come miglior attore protago-nista.

MALCOM PAGANI - Giornalista e cinefilo. Redattore di il Fatto Quotidiano. Ha la-vorato in passato per l’Espresso, l’Unità e il manifesto.

PETROS MARKARIS - Scrittore, drammaturgo e sceneggiatore greco di fama inter-nazionale. Ha collaborato con Theo Angelopoulos a numerose sceneggiature,tra cui quella del film L’eternità e un giorno, Palma d’oro a Cannes nel 1998. Tra isuoi romanzi pubblicati in Italia, L’esattore (2012), Prestiti scaduti (2011) e La balia(2009), tutti con l’editore Bompiani.

FEDERICO PONTIGGIA - Laureato in Storia e critica del cinema all’Università diTorino è giornalista e critico cinematografico. Redattore della Rivista del cinema-tografo e del sito cinematografo.it, scrive per il Fatto Quotidiano, Rolling Stone, Vi-vilcinema.

MATTEO GARRONE - Regista. Nel 1996 vince il Sacher Festival con il corto Silho-uette. L’anno seguente realizza, con la sua casa di produzione Archimede, il pri-mo lungometraggio, Terra di mezzo. Nel 1998 gira a Napoli il documentario Ore-ste Pipolo, fotografo di matrimoni e il secondo lungo, Ospiti. Il terzo film è Estateromana (2000), ma è con L’imbalsamatore, due anni dopo, che ottiene successo dicritica e pubblico. Nel 2004 è in concorso al 54° Festival di Berlino con Primoamore, nel 2008 il suo Gomorra vince il Gran Premio della giuria al Festival diCannes. Riconoscimento ottenuto di nuovo quest’anno con Reality.

MARCO TULLIO GIORDANA - Regista, ha realizzato il suo primo film Maledetti viamerò nel 1980. Tra i suoi film più importanti: Pasolini, un delitto italiano (1995), Icento passi (2000), La meglio gioventù (2003), Quando sei nato non puoi più nasconder-ti (2005), e Romanzo di una strage (2012). Ha pubblicato, inoltre, il romanzo Vitasegreta del signore delle macchine (Milano, 1990) e il saggio Pasolini, un delitto italia-no (Milano, 1994) oltre a varie sceneggiature dei suoi film.

MICHAEL MANN - Regista, produttore, sceneggiatore. Da L’ultimo dei mohicani(1992) ad Ali (2001) a Nemico pubblico (2009), ha rivisitato racconti e miti della cul-tura americana ridisegnandone prospettive, valori e forme di rappresentazione.In televisione, con Miami Vice (1984), ha aperto la stagione dell’innovazione pro-duttiva dei serial. Al cinema, con titoli come Heat (1995), The Insider (1999), Col-lateral (2004), ha portato al massimo di acutezza il noir come strumento di pos-senti radiografie di iniquità sociali.

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ROBERTA TORRE - Regista e sceneggiatrice, ha studiato alla scuola Paolo Grassidi Milano e al Centro sperimentale di cinematografia di Roma, per poi trasferir-si in Sicilia. Accanto all’attività di documentarista ha diretto i film di finzioneTano da morire, Angela, Sud side stori, Mar nero e I baci mai dati. Recentemente siè dedicata alla regia teatrale e alla preparazione del film Rose e matematica dedi-cato al nonno, inventore della Lambretta, e alla sua fabbrica.

VALERIA GOLINO - Ha debuttato come attrice nel 1985 in Piccoli fuochi di PeterDel Monte e l’anno successivo ha vinto la Coppa Volpi al Festival di Venezia conStoria d’amore di Francesco Maselli. Ha lavorato negli Stati Uniti accanto a Du-stin Hoffman in Rain Man, in Lupo solitario di Sean Penn, con Quentin Taranti-no e Mike Figgis. In Italia ha lavorato, tra gli altri, con Nina di Majo, EmanueleCrialese, Antonio Capuano, Mimmo Calopresti, Silvio Soldini, Gabriele Salva-tores. Nel 2012 il debutto alla regia con il film Vi perdono.

JASMINE TRINCA - Attrice. Esordisce in La stanza del figlio di Nanni Moretti (2001).Ha recitato inoltre in La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana, con cuiha vinto il Nastro d’argento come migliore attrice protagonista, Romanzo crimi-nale (2005), Il Caimano (2006) di Nanni Moretti e Il grande sogno (2009) di MichelePlacido.

BARBARA SORRENTINI - Giornalista a Radio Popolare, cura la trasmissione di ci-nema Chassis e quella culturale Babel. Tra le collaborazioni la Repubblica, E-IlMensile, Duel, Film Tv, Altrocinema. Ha pubblicato La guida ai film per ragazzi (IlCastoro) e Entretien avec Nanni Moretti (Cahiers di Cinema).

CARLO LIZZANI - Regista, sceneggiatore e produttore cinematografico. Dal 1979 al1982 ha diretto il Festival di Venezia. Tra i film da lui diretti, Achtung! Banditi!(1951), Cronache di poveri amanti (1954), Il processo di Verona (1963), La vita agra(1964), Banditi a Milano (1968), Storie di vita e malavita (1975), Fontamara (1980), Lacasa del tappeto giallo (1983) e Hotel Meina (2007).

MARIANGELA MELATO - Attrice italiana, di cinema e teatro. Nel cinema ha alter-nato ruoli drammatici (come in La classe operaia va in paradiso, 1971, e Todo mo-do, 1976, di Petri; Caro Michele, 1976, di Monicelli; Oggetti smarriti, 1979, e Segre-ti segreti, 1985, di Giuseppe Bertolucci) a quelli da commedia (come in Mimì me-tallurgico ferito nell’onore, 1972, e Film d’amore e d’anarchia, 1973, di Lina Wert-müller; Aiutami a sognare, 1980, di Pupi Avati). Dagli anni Novanta ha fatto an-che televisione. Ha vinto cinque Nastri d’Argento come miglior attrice e ben ot-to David di Donatello.

ENRICO MAGRELLI - Critico cinematografico. Conservatore della Cineteca nazio-nale. È autore e conduttore di Hollywood Party, programma di RadioTre. È statoconsulente della Mostra del Cinema di Venezia. Il suo ultimo libro è Sergio Ca-stellitto. Senza arte né parte (Rubbettino 2012).

ELIO PETRI (1929-1982) - Regista cinematografico. Sceneggiatore e documentari-sta, esordì nella regia con L’assassino (1960), seguito dal notevole I giorni contati(1962). Tra i film successivi, caratterizzati da un impegno di analisi radicale dellarealtà: Il maestro di Vigevano (1963), La decima vittima (1965), A ciascuno il suo(1967), Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), premiato conl’Oscar per il migliore film straniero, La classe operaia va in paradiso, vincitoredella Palma d’Oro al Festival di Cannes ex aequo con Il caso Mattei di FrancescoRosi (1971), La proprietà non è più un furto (1974), Todo modo (1975), Buone notizie(1979).

TONINO GUERRA (1920-2012) - È stato poeta, scrittore e sceneggiatore di fama in-ternazionale. Nel cinema ha lavorato con grandissimi registi come Giuseppe De

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Santis, Elio Petri, Vittorio De Sica, Mario Monicelli, Alberto Lattuada, i fratelliTaviani, Marco Bellocchio, Francesco Rosi, Federico Fellini, Theo Angelopou-los e Michelangelo Antonioni. Ha vinto tre David di Donatello per la migliorsceneggiatura: Tre Fratelli (di Rosi, 1981), E la nave va (di Federico Fellini, 1984)e Kaos (dei fratelli Taviani, 1985). Un quarto David, per la carriera, gli è stato at-tribuito nel 2010.

UGO PIRRO (1920-2008) - È stato uno dei più grandi sceneggiatori italiani. Esordìal cinema con Carlo Lizzani, per il quale firmò due film ambientati durante laResistenza: Achtung! Banditi! del 1951 e Il gobbo del 1960. Poi lavorò tra gli altricon Elio Petri, Vittorio De Sica, Damiano Damiani, Gillo Pontecorvo.Nel 1996 ha vinto il Premio David di Donatello per la sceneggiatura del film Cel-luloide. Nominato a due premi Oscar per il miglior film straniero: nel 1971 conIndagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e nel 1972 con Il giardino dei Fin-zi-Contini.

GIANCARLO GIANNINI - Attore, doppiatore e regista italiano. Dopo aver recitato innumerose produzioni teatrali e televisive, nel 1965 ha esordito nelcinema con Fango sulla metropoli di Gino Mangini. La popolarità è arrivata conMimì metallurgico ferito nell’onore (1972) di Lina Wertmüller. È stato candidato alpremio Oscar come miglior attore nel 1977 per la sua interpretazione in Pasqua-lino Settebellezze sempre della Wertmüller. Si è cimentato anche nella regia diri-gendo se stesso in Ternosecco (1987). Come doppiatore presta la sua voce ad AlPacino, Jack Nicholson, Michael Douglas, Gérard Depardieu, Dustin Hoffman ealtri grandi attori.

JEAN A. GILI - Già membro dell’École Française de Rome, professore emerito diStoria del cinema all’Université Paris-I-Panthéon-Sorbonne, è nel comitato diredazione della rivista Positif e direttore artistico del festival Annecy Cinéma Ita-lien, che ha contribuito a fondare nel 1983. È autore di molti libri sul cinema ita-liano, tra cui Le cinéma italien, Editions de la Martinière (2011), oltre che di mo-nografie su Francesco Rosi, Elio Petri, Luigi Comencini, Paolo e Vittorio Tavia-ni, Ettore Scola, Federico Fellini, Nanni Moretti.

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Copertina: a cura di La Cromografica srl

MicroMega n. 6/2012Rivista bimestrale

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Chiuso in redazione il 25 luglio 2012

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