Carmelo Dotolo, teologo · L’invito a una prassi di sequela nelle condizioni attuali, in...

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Carmelo Dotolo, teologo www.carmelodotolo.eu 1 L’alterità del Vangelo. Profezia di senso in un mondo che cambia di Carmelo Dotolo Siamo davvero gli ultimi cristiani? Con un interrogativo apparentemente retorico, il teologo canadese J. M. Tillard, apre una questione a dir poco essenziale nella riflessione teologica dei nostri giorni. Certo, il paradosso presente nell’interrogativo sembra fantasioso, se non addirittura inverosimile, ma la stranezza della ipotesi che il cristianesimo debba abdicare alla sua credibilità non pare contraddetta dalla crisi che attraversa la sua identità. “Siamo gli ultimi cristiani? Siamo certamente gli ultimi di tutto uno stile di cristianesimo. Non siamo gli ultimi cristiani” 1 . Le risposte possono essere differenti, ma ciò che si delinea è la complessità del panorama teologico e pastorale, là dove la contrazione sul passato o l’atteggiamento di chi si accontenta di sfiorare il reale non è in grado di sostenere l’urto di una domanda di senso nuova che è nascosta nelle attese e negli eccessi di benessere della post-modernità. Vivere oggi da cristiani non è affatto facile, per il fatto che “ciò che costituisce il diventare e l’essere cristiano non è qualcosa che possa essere definito valido atemporalmente, ma va colto costantemente sulla base delle situazioni in mutamento e deve continuamente dar prova di sé” 2 . Difficoltà ribadita da Giovanni Paolo II nell’esortazione post- sinodale Ecclesia in Europa, 7: “Molti non riescono più ad integrare il messaggio evangelico nell’esperienza quotidiana; cresce la difficoltà di vivere la propria fede in Gesù in un contesto sociale e culturale in cui il progetto di vita cristiano viene continuamente sfidato e minacciato; in non pochi ambiti pubblici è più facile dirsi agnostici che credenti; si ha l’impressione che il non credere vada da sé, mentre il credere abbia bisogno di una legittimazione sociale né ovvia né scontata” 3 . Non si tratta di attribuire colpe o responsabilità al vorticoso mutamento che ha colonizzato interi ambiti della vita, sottoponendola alla pressione delle scelte nel chiaroscuro dei modelli interpretativi; né di scaricare il peso delle responsabilità storiche ai principi ideologici e pratici guidati esclusivamente dalla razionalità. Piuttosto, è necessaria una capacità di discernimento che sia consapevole che l’annuncio e la prassi della vita cristiana non possono essere la semplice ripresa di decisioni anteriori da applicare in situazioni e contesti differenti e modificati. La convinzione di una continuità fine a se stessa è, in realtà, una falsa immagine di tradizione che dimentica la creatività fedele nel processo di trasmissione del credere 4 . La conseguenza è che le decisioni teoretiche ed etiche non possono muoversi sul solo consenso di teoremi già codificati, ma devono confrontarsi con le domande che la cultura pone. “La testimonianza collettiva va costruita sulla base di analisi della società contemporanea” 5 . Ciò implica alcune premesse. L’istanza di entrare nel conflitto interpretativo del reale è senza dubbio importante per comprendere le potenzialità del Vangelo e la significatività della sua proposta nei circuiti delle vicende della contemporaneità. Anzi, si può dire che è pertinente alla autocomprensione della profezia ecclesiale la lettura della cultura nella sua concretezza esistenziale. Se la Chiesa è soggetto dell’evento della comunicazione del Vangelo, se attiva il desiderio di senso e provoca la 1 J.-M. TILLARD, Siamo gli ultimi cristiani? Lettera ai cristiani del Duemila, Queriniana, Brescia 1999, p 33. 2 N. METTE, Il Gesù difficile. L’invito a una prassi di sequela nelle condizioni attuali, in «Concilium» 33 (1997) p. 41. 3 J. RATZINGER, La verità cattolica, in «MicroMega. Almanacco di filosofia» 2 (2000) p. 41, osserva che “il cristianesimo si trova, proprio nel luogo della sua originaria diffusione, in Europa, in una crisi profonda, basata sulla crisi della sua pretesa alla verità”. Cf. C. DOTOLO, La Chiesa in Europa: terra di missione?, in «Euntes Docete» 57 (2004) pp. 183-199. 4 Scrive G. COLOMBO, Sulla evangelizzazione, Glossa, Milano 1997, p. 32: “Nella prospettiva di una Chiesa francamente consegnata alla storia, per quanto mai abbandonata perché sempre assistita carismaticamente, si comprende che i rischi sono inevitabili. Il discernimento storico, conteso tra innovazione e tradizione e non garantito da meccanismi predeterminati né da formule matematiche, lascia esposti a scelte non felici, nelle quali si può restare imprigionati anche a lungo. Schematicamente questo fu il cammino della Chiesa nei suoi duemila anni di storia; e lo sarà anche per il futuro prossimo e remoto”. 5 C. DUQUOC, «Credo la Chiesa». Precarietà istituzionale e Regno di Dio, Queriniana, Brescia 2001, p. 192.

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L’alterità del Vangelo. Profezia di senso in un mondo che cambia di Carmelo Dotolo

Siamo davvero gli ultimi cristiani? Con un interrogativo apparentemente retorico, il teologo

canadese J. M. Tillard, apre una questione a dir poco essenziale nella riflessione teologica dei nostri giorni. Certo, il paradosso presente nell’interrogativo sembra fantasioso, se non addirittura inverosimile, ma la stranezza della ipotesi che il cristianesimo debba abdicare alla sua credibilità non pare contraddetta dalla crisi che attraversa la sua identità. “Siamo gli ultimi cristiani? Siamo certamente gli ultimi di tutto uno stile di cristianesimo. Non siamo gli ultimi cristiani”1. Le risposte possono essere differenti, ma ciò che si delinea è la complessità del panorama teologico e pastorale, là dove la contrazione sul passato o l’atteggiamento di chi si accontenta di sfiorare il reale non è in grado di sostenere l’urto di una domanda di senso nuova che è nascosta nelle attese e negli eccessi di benessere della post-modernità. Vivere oggi da cristiani non è affatto facile, per il fatto che “ciò che costituisce il diventare e l’essere cristiano non è qualcosa che possa essere definito valido atemporalmente, ma va colto costantemente sulla base delle situazioni in mutamento e deve continuamente dar prova di sé”2. Difficoltà ribadita da Giovanni Paolo II nell’esortazione post-sinodale Ecclesia in Europa, 7: “Molti non riescono più ad integrare il messaggio evangelico nell’esperienza quotidiana; cresce la difficoltà di vivere la propria fede in Gesù in un contesto sociale e culturale in cui il progetto di vita cristiano viene continuamente sfidato e minacciato; in non pochi ambiti pubblici è più facile dirsi agnostici che credenti; si ha l’impressione che il non credere vada da sé, mentre il credere abbia bisogno di una legittimazione sociale né ovvia né scontata”3.

Non si tratta di attribuire colpe o responsabilità al vorticoso mutamento che ha colonizzato interi ambiti della vita, sottoponendola alla pressione delle scelte nel chiaroscuro dei modelli interpretativi; né di scaricare il peso delle responsabilità storiche ai principi ideologici e pratici guidati esclusivamente dalla razionalità. Piuttosto, è necessaria una capacità di discernimento che sia consapevole che l’annuncio e la prassi della vita cristiana non possono essere la semplice ripresa di decisioni anteriori da applicare in situazioni e contesti differenti e modificati. La convinzione di una continuità fine a se stessa è, in realtà, una falsa immagine di tradizione che dimentica la creatività fedele nel processo di trasmissione del credere4. La conseguenza è che le decisioni teoretiche ed etiche non possono muoversi sul solo consenso di teoremi già codificati, ma devono confrontarsi con le domande che la cultura pone. “La testimonianza collettiva va costruita sulla base di analisi della società contemporanea”5. Ciò implica alcune premesse.

L’istanza di entrare nel conflitto interpretativo del reale è senza dubbio importante per comprendere le potenzialità del Vangelo e la significatività della sua proposta nei circuiti delle vicende della contemporaneità. Anzi, si può dire che è pertinente alla autocomprensione della profezia ecclesiale la lettura della cultura nella sua concretezza esistenziale. Se la Chiesa è soggetto dell’evento della comunicazione del Vangelo, se attiva il desiderio di senso e provoca la

1 J.-M. TILLARD, Siamo gli ultimi cristiani? Lettera ai cristiani del Duemila, Queriniana, Brescia 1999, p 33. 2 N. METTE, Il Gesù difficile. L’invito a una prassi di sequela nelle condizioni attuali, in «Concilium» 33 (1997) p. 41. 3 J. RATZINGER, La verità cattolica, in «MicroMega. Almanacco di filosofia» 2 (2000) p. 41, osserva che “il cristianesimo si trova, proprio nel luogo della sua originaria diffusione, in Europa, in una crisi profonda, basata sulla crisi della sua pretesa alla verità”. Cf. C. DOTOLO, La Chiesa in Europa: terra di missione?, in «Euntes Docete» 57 (2004) pp. 183-199. 4 Scrive G. COLOMBO, Sulla evangelizzazione, Glossa, Milano 1997, p. 32: “Nella prospettiva di una Chiesa francamente consegnata alla storia, per quanto mai abbandonata perché sempre assistita carismaticamente, si comprende che i rischi sono inevitabili. Il discernimento storico, conteso tra innovazione e tradizione e non garantito da meccanismi predeterminati né da formule matematiche, lascia esposti a scelte non felici, nelle quali si può restare imprigionati anche a lungo. Schematicamente questo fu il cammino della Chiesa nei suoi duemila anni di storia; e lo sarà anche per il futuro prossimo e remoto”. 5 C. DUQUOC, «Credo la Chiesa». Precarietà istituzionale e Regno di Dio, Queriniana, Brescia 2001, p. 192.

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conversione della cultura, è perché una delle sue funzioni storico-culturali si situa a livello delle domande di senso, educandole ad una apertura che lascia intravedere sentieri di verità. Tale attenzione è propria della contestualità della riflessione teologica. La qual cosa, di per sé, non è nuova nella storia della teologia, se non per il fatto che la crescente complessità socio-culturale con i suoi effetti di moltiplicazione dei sistemi interpretativi, chiama in causa l’esigenza di una adeguazione costante della sua pertinenza teoretica, nonostante il rischio, reale o presunto, di una frammentazione contenutistica. Al tempo stesso, il processo di autonomia dei diversi campi del sapere richiede alla teologia una certa capacità a gestire una simile complessità, al di fuori della quale il contributo che la riflessione teologica può offrire alla ricerca potrebbe risultare ininfluente o inadeguato alle domande della storia. “Assume la complessità chi non legge la storia a partire da uno schema ideologico precostituito, chi si lascia inquietare e provocare dai «sentieri interrotti» del vivere e del patire umano, chi accetta di sopportare il peso di non avere diagnosi già fatte e terapie già pronte”6. Al di là del fatto se ciò implichi o meno un cambiamento di paradigma del lavoro e dell’insegnamento teologico, l’avvertenza di un ripensamento del metodo teologico ha segnato la ricerca negli anni del post-concilio, a partire da alcune intuizioni che individuavano come discriminante il problema vivo della fede all’interno della storia e del mondo7. “Proprio per una responsabilità ecclesiale e missionaria, rettamente intesa, della teologia, occorre aprire la via ad esperimenti e al rischio”8.

Ma c’è di più. La percezione emergente già a partire dagli anni successivi al Vaticano II di una crisi profonda dell’identità cristiana e della problematicità dell’appartenenza ecclesiale è espressa sintomaticamente nella ricerca teologico-pastorale di una rilettura del Credo e della opportunità di nuove formule di fede più rispondenti al cammino di fede dei soggetti e delle comunità ecclesiali9. Ciò ha messo in evidenza con più coerenza l’inalienabile funzione inculturativa della teologia che, insieme alla riflessione pastorale e catechetica, non può non relazionarsi al luogo antropologico-culturale in cui si esprime la domanda di senso. Il legame tra teologia-evangelizzazione-cultura è, di fatto, inerente all’epistemologia teologica, proprio nella focalizzazione sempre più decisiva dell’ermeneutica della rivelazione e della sua credibilità per la storia. “La teologia è chiamata, pertanto, ad affrontare a livello critico-scientifico il problema di una sintesi tra «cultura, storia e fede», nella convinzione che un messaggio di salvezza non mostra la sua «universale efficacia» se non operando a fondo, e non solo a livello epidermico, nel luogo culturale nel quale l’uomo concretamente e storicamente vive”10.

Si impone, pertanto, la necessità di scrutare i segni dei tempi11, esercizio questo che esige la consapevolezza dell’opacità della storia e l’attenzione dialogica ai segni altri. Innanzitutto, l’opacità della storia che si profila anche nella conflittualità relazionale tra Chiesa e mondo, tra Vangelo e cultura. In questo ambito, va preso atto della drammaticità del cammino che connota la storia della salvezza, la cui soluzione è contrassegnata dal rischio del fallimento e dalla sensazione che la promessa della realizzazione del Regno continui a slittare. L’annuncio del Vangelo non è garantito dal successo immediato e da una tranquillità comunicativa, pena lo scadere in slogan facili ed enfatici; né deve cedere all’apologetica dello smascheramento il cui vezzo contemporaneo è quello 6 B. FORTE, Qualità pastorale dell’insegnamento della teologia sistematica, in M. MIDALI – R. TONELLI (edd.), Qualità pastorale delle discipline teologiche e del loro insegnamento. Una ricerca interdisciplinare, LAS, Roma 1993, p. 72. 7 Cf. W. KASPER, Per un rinnovamento del metodo teologico, Queriniana, Brescia 1969, pp. 42-43 e nota 17 e dello stesso autore: Teologia e Chiesa, Queriniana, Brescia 1989, pp. 5-21. Analogie in C. GEFFRÉ, Una nuova epoca della teologia, Cittadella Editrice. Assisi 1973, pp. 13-31. 8 KASPER, Per un rinnovamento, p. 42. 9 Cf. C. DOTOLO, La rilettura del simbolo di fede nella teologia dopo il Vaticano II, in ID (ed.), Il Credo oggi. Percorsi interdisciplinari, EDB, Bologna 2001, pp. 123-142; G. TRENTIN (ed.), Articoli di fede incerti. Rilevanza e irrilevanza della dottrina nella pratica dei cattolici, in «Studia Patavina» 49 (2002) pp. 41-111. 10 M. BORDONI, Riflessioni introduttive, in I. SANNA (ed.), Il sapere teologico e il suo metodo. Teologia, ermeneutica e verità, EDB, Bologna 1993, pp. 12-13. Cf. G. GUTIERREZ, Densità del presente, Queriniana, Brescia 1998, pp. 128-140. 11 Cf. R. FISICHELLA, Quando la fede pensa, Piemme, Casale Monferrato 1997, pp. 173- 190; G. RUGGIERI, La teologia dei “segni dei tempi”: acquisizioni e compiti, in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Teologia e storia: l’eredità del ‘900, a cura di G. Canobbio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, pp. 33-77.

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di non prendere mai nulla sul serio, preferendo non dipanare la contraddittorietà di messaggi, valori, idee che circolano con irrisoria frequenza12. Al contrario, proprio perché l’evangelizzazione deve scrollarsi di dosso l’ansia di ciò che appare ingovernabile, non codificabile come normale, né orientabile con moduli generali e standardizzati, è decisivo ritornare al centro del messaggio cristiano, “nel senso che in ogni annuncio e in ogni proposta di evangelizzazione il nucleo portante va riespresso e dietro le molte parole e i generi letterari impiegati (narrazione, annuncio, omelia, conferenza, istruzione) deve trasparire il riferimento costante a ciò che è essenziale e irrinunciabile”13.

In secondo luogo, l’attenzione dialogica ai segni che provengono dalla ricerca dell’uomo che nella sua autonomia desidera dare forma ad una differente qualità di vita. Compito della comunità credente è, alla luce del Vangelo, quello di intercettare i sussulti messianici della storia e contribuire alla loro promozione e realizzazione. Tale scelta, però, esige lo stare nella complessità, senza subirla; nei conflitti, senza esorcizzarli con risposte di comodo; nell’ambiguità, per rifiutarla, aiutando ogni uomo nel delicato compito di discernere il disegno della storia della salvezza. Non è casuale che alcuni anni or sono G. De Rita così si esprimeva nel convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana: “ Forse un giorno ci sarà una teologia delle scelte (implicate e da sviluppare) dello stare nella complessità, stare nelle tensioni e nei conflitti, stare nelle ambiguità e potremo capire meglio cosa tutto ciò significhi nel pellegrinaggio della Chiesa nella storia italiana di questi decenni”14.

Ancora una precisazione. Appare evidente che l’annuncio del Vangelo si inserisce in un panorama socio-culturale articolato, la cui caratterizzazione è individuabile nei processi di globalizzazione15 che pervadono il sentire comune, quasi a sancire la trasparenza perseguita dal mondo postmoderno liberato da fantasmi che limitavano la voglia di riprendersi da un tempo precedente malato e corrotto, come le violenze ideologiche e i totalitarismi politici e religiosi hanno mostrato16. Da più parti, però, la segnalazione di un disagio sottile ma invasivo circa la cultura del libero mercato come principio ermeneutico della realtà; l’impressione che la logica del profitto e del consumismo stiano impoverendo il capitale umano, secondo una prospettiva neosacrificale generatrice di angosce e smarrimenti, sono il sintomo di un livellamento che può ingenerare da un lato assuefazione, dall’altro evasione alle richieste di adeguamento agli standards imposti di vita. Il rischio di un irrigidimento culturale e/o di un relativismo alla moda, sono l’effetto tipico di una reazione che, proteggendosi nell’emozionale e nel virtuale, innalza uno spazio di resistenza a partire dal quale reinvestire in nuove forme culturali e religiose. “Se si tiene conto di questo fondamento emotivo della logica del capitalismo globalizzato si può davvero riconoscere, senza esagerazione, che la globalizzazione è la metafisica del nostro tempo. Questa metafisica, non riconoscendo l’altro, non riconosce neppure l’Altro radicale. Le chiese e, in generale, le religioni dovrebbero arrivare con più nettezza a questa coscienza: quella del capitalismo globale è una metafisica atea”17. Il dubbio è se questa religione ad effetto del mercato globale non sia eco di una stagione segnata dallo smarrimento e dal disorientamento e che, comunque, nella paura del futuro intende veicolare la rigenerazione della speranza18. E’ qui che si innesta la possibilità della

12 Cf. M. P. GALLAGHER, Fede e Cultura. Un rapporto cruciale e conflittuale, Paoline Editoriale Libri, Milano 1999, pp. 124-127. 13 U. SARTORIO, Credere in dialogo. Percorsi di fede e di annuncio, EMP, Padova 2002, p 51. 14 G. DE RITA, Tensioni e speranze della società italiana di oggi, in CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione e promozione umana. Atti del convegno ecclesiale (Roma 30 ottobre – 4 novembre 1976), A.V.E., Roma 1977, p. 129. Per una lettura delle implicazioni ecclesiologiche cf. L. SARTORI, Chiesa e comunità, in ID., Per una teologia in Italia. Scritti scelti – I, a cura di E. R. Tura, EMP, Padova 1997, pp. 87-108. 15 Si vedano le riflessioni presenti in UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI – SERVIZIO NAZIONALE PER IL PROGETTO CULTURALE, Globalizzazione comunicazione Tradizione. Progetto di ricerca interdisciplinare, Quaderni della Segreteria Generale della CEI, Roma 2002. 16 Cf. J.-L. NANCY, Globalizzazione, libertà, rischio, in «MicroMega. Almanacco di Filosofia» 5 (2001) pp. 101- 107. 17 R. MANCINI, L’uomo globalizzato e il codice dell’angoscia, in «Credere Oggi» 24 (2004) p. 34. 18 Cf. P. VALADIER, Modernità, mondializzazione e culture, in «Aggiornamenti Sociali» 4 (2001) pp. 299-307.

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rivelazione cristiana come dono che dà a pensare, per il fatto che testimonia l’irriducibile sorpresa di un Altro che non illude, né simula, ma risveglia l’inquietudine e la passione della ricerca.

Ritorno del religioso e futuro del cristianesimo: un confronto La questione decisiva che investe il futuro del cristianesimo19 si iscrive in una sorta di inedita

figura culturale che a fronte del ritorno del religioso, dichiara l’indebolimento del cristianesimo e la sua incertezza propositiva, nel senso che i suoi codici simbolici e linguistici non sembrano più condivisi, né in grado di incidere nelle trame della vita. E’ difficile controllare una simile “configurazione religiosa ‘a scalare’”20, per il fatto che la sovrapposizione tra credenze e convinzioni incide sul modello di religione e di cristianesimo, facendone risaltare incongruenze e discontinuità. Il conflitto interpretativo è ancor più stridente, nel momento in cui all’aderire alle credenze fondamentali del cristianesimo non corrisponde una condivisione consapevole e vigile del proprium della proposta evangelica21. Anzi, la convinzione del carattere relativo della fede, spesso conseguenza di una appartenenza socio-ambientale più che di una opzione fondamentale, alimenta le motivazioni sottese al dirsi o meno cristiano. L’emergenza di gradi e forme di appartenenza religiosa, fino alle insorgenze problematiche dei fondamentalismi22, lasciano aperta la questione se il credere sia frutto di una maturazione o l’atteggiamento che configura il bisogno religioso con la sua carica di significato. “La fede dunque persiste, ma essa appare depotenziata rispetto al modello della tradizione, avendo perso il suo carattere assoluto ed esclusivo”23. La questione che si apre, allora, è perché il cristianesimo sembra relegato nel quadro di una minoranza cognitiva, soprattutto in presenza di una molteplicità di esperienze religiose. Si tratta di stanchezza nei riguardi di un qualcosa che appare culturalmente compromesso, talora distante con le sue pretese dai protocolli di una religiosità più indifferenziata e, pertanto, più disponibile e malleabile? O è l’esito di un processo molto più stratificato (e bisognoso di ulteriore interpretazione) di uno sganciamento dell’idea di religione/religiosità dal contesto ermeneutico del cristianesimo? Sarebbe ingenuo stigmatizzare il desiderio di una rinascita spirituale come esempio di una persistente immaturità dell’uomo; così come improduttiva l’analisi di chi attribuisce alla religiosità il codice di avviamento per indirizzare la storia e il mondo nell’unico contesto antropologicamente significativo: il simbolico, il mitico e l’estetico. Se, come è probabile, le nuove fedi segnalano qualcosa di diverso da un semplice risveglio religioso, una sorta di invito al cristianesimo nel presentare credenziali più idonee alla stagione contemporanea, allora il cristianesimo deve saper render ragione in modo

19 Per un inquadramento più articolato della questione cf. C. DOTOLO, Il futuro del cristianesimo. Una questione teologica, in C. APARICIO VALLS - C. DOTOLO – G. PASQUALE (edd.), Sapere teologico e unità della fede. Studi in onore del Prof. Jared Wicks, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 2004, pp. 248-272. 20 F. GARELLI, L’Occidente e il cristianesimo. Una svolta, in «Hermeneutica» 1999, p. 14. Per un inquadramento più articolato cf. R. MARCHISIO, Religione e religiosità, Carocci, Roma 2002. 21 Cf., ad esempio le osservazioni di C. LANZETTI, Tra innovazione e conservazione: alcune questioni di fondo, in La religiosità in Italia, Mondatori, Milano 1995, pp. 265-290 e di I. DE SANDRE, Pratica, credenza e istituzionalizzazione delle religioni, in F. GARELLI – G. GUZZARDI – E. PACE (edd.), Un singolare pluralismo. Indagine sul pluralismo morale e religioso degli italiani, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 115-157. Lo stesso GARELLI, L’Occidente e il cristianesimo, p. 14 scrive: “Pur nel quadro di varie incongruenze, la maggioranza della gente si definisce credente e cristiana, mantiene un legame con la tradizione religiosa di appartenenza, condivide alcuni elementi dottrinari di fondo, anche sse ha difficoltà a specificare ulteriormente la propria identità religiosa o a dare espressione alla propria fede”. 22 Cf. J. MOLTMANN, Dio nel progetto del mondo moderno. Contributi per una rilevanza pubblica della teologia, Queriniana, Brescia 1999, pp. 200-214; J. ILUNGA MUYA, Considerazioni teologiche sul fondamentalismo, in G. MURA (ed.), Il fondamentalismo religioso. Contributi per il discernimento, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2003, pp. 23-48. 23 GARELLI, L’Occidente e il cristianesimo, p. 16. A conferma dell’oscillante interpretazione del fenomeno, lo stesso sociologo annota che “anche l’adesione alla fede, anche le motivazioni del credere, rispecchiano dunque i tratti specifici della cultura occidentale, in cui prevale un approccio razionale dell’esistenza e una sottoconsiderazione degli elementi affettivi ed esperienziali” (p. 17).

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nuovo di una sua inalienabile caratteristica: quella di essere una religione storica “non nel senso che il cristianesimo ha fondato e per molti secoli regolato la storia d’Occidente, ma nel senso che ha assunto la storia, il tempo profano, e le opere che in quel tempo si compiono, come fattori di salvezza, determinando, con la sua morale, che cosa alla salvezza concorre e che cosa allontana, e quindi che cosa si deve fare in questo mondo e che cosa no”24. Di fronte alla complessità di tale dato è opportuno sostare sulla configurazione di un simile tracciato.

Oltre la pre-potenza della razionalità Senza dubbio, uno degli aspetti più evidenziati dalla letteratura in proposito, soprattutto

filosofica, è la caduta degli steccati di un razionalismo filosofico e scientista che aveva preteso di ingabbiare la realtà, impedendole qualsiasi fuoriuscita empirica. Proprio la critica del sapere filosofico, istruito dalla denuncia dialettica dell’Illuminismo25, ha aperto il fianco alla discussione di una razionalità metafisica capace di interpretare e svelare il segreto del reale, alimentandone il pregiudizio e sospettandola di inutilità26. Come annota J. B. Metz: “L’illuminismo crea qualcosa di simile a una nuova società del consenso, la cui base non è più la ragione metafisica […] Pertanto l’illuminismo si attua con perfetta coerenza come critica della metafisica classica”27. Può essere indicativa l’analisi di J. Habermas che, parlando di un pensiero post-metafisico28, evidenzia come sia svanita l’illusione di poter conoscere la totalità, elevandosi all’altezza dell’Assoluto. La consapevolezza di un pensiero non più congruo alle esigenze di una relazione tra intelletto e realtà, ha provocato la pratica di una razionalità a basso profilo, di tipo procedurale e fallibilista. Ma, al tempo stesso, si è potenziato il soggetto concepito come coscienza, fondamento di un sapere universale, in virtù della dimensione intersoggettiva del linguaggio. L’effetto è stato quello di dichiarare il sapere filosofico non più capace di rispecchiare oggettivamente la realtà, a favore di una attività interpretativa all’interno di una particolare tradizione storico-culturale. Terminate le grandi narrazioni, il pensiero postfilosofico si accontenta di piccoli e brevi racconti in grado di accompagnare l’insostenibile leggerezza dell’essere, cercando di essere disponibile ad una verità che abita nel frammento e nella irriducibile eterogeneità. E’ salutare, pertanto, il ritorno della religione29 che, nel lenire le cicatrici dell’ordine imposto dalla ragione, si mostra più affidabile per reperire significati meno perentori: apre scenari simbolici, mitici, estetici molto più vicini all’uomo e alla sua ricerca di equilibri teoretici e pratici, avviando a quella esperienza di disincanto ideologico di cui beneficia la postmodernità.

24 U. GALIMBERTI, Orme del sacro. Il cristianesimo e la desacralizzazione del sacro, Feltrinelli, Milano 2000, p. 24. per un inquadramento teologico cf. G. PASQUALE, La storia della salvezza. Dio Signore del tempo e della storia, Paoline Editoriale Libri, Milano 2002. 25 Scrive B. FORTE, Dove va il cristianesimo?, Queriniana, Brescia 2000, pp. 91-92: “La dialettica dell’Illuminismo è esattamente la denuncia dei miti e delle presunzioni della ragione emancipante: essa smaschera le cadute e le incompiutezze causate dalla sete di totalità, che l’ homo emancipator ha finito col produrre”. Cf. le indicazioni di percorso offerte da A. TONIOLO, Cristianesimo e verità. Corso di teologia fondamentale, EMP, Padova 2004, pp. 29-61. 26 Cf. per una lettura critica E. BERTI, Una metafisica problematica e dialettica, in Metafisica. Il mondo nascosto, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 41-68 e C. VIGNA, Ontologia metafisica e postmodernità, in «Seconda Navigazione. Annuario di Filosofia» 2000, pp. 127-145. Da un punto di vista teologico cf. G. LORIZIO, La logica della fede. Itinerari di teologia fondamentale, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, pp. 13-62. 27 J. B. METZ, La fede, nella storia e nella società. Studi per una teologia fondamentale pratica, Queriniana, Brescia 1978, p. 48. 28 Cf. J. HABERMAS, Nachmetaphysisches Denken. Philosophische Aufsätze, Suhrkamp, Frankfurt a.m 1988, pp. 36-42. Non si può non ricordare la lucida analisi di R. GUARDINI, La fine dell’epoca moderna. Il potere, Morcelliana, Brescia 19938, pp. 53-109. 29 Sono indicativi in propositi i contributi presenti in ANNUARIO FILOSOFICO EUROPEO, La Religione, a cura di J. Derrida - G. Vattimo, Roma-Bari 1995. Per un approfondimento cf. U. REGINA, La soglia della fede. L’attuale domanda su Dio, Edizioni Studium, Roma 2001.

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Il delinearsi di una nuova sensibilità religiosa Sulla falsariga di quanto detto, l’ipotesi, tessuta dalle analisi della sociologia, è quella che

assegna all’esperienza religiosa quel bisogno di compensazione in grado si smorzare gli effetti, talora patogeni, di un clima di incertezza e rischio sociale30. La domanda di rassicurazione circa il bisogno di identità e appartenenze stabili, esprime non solo la scomparsa di strutture di plausibilità ritenute patrimonio di tutti, ma anche la necessità di orientamento nelle scelte della vita, invocando come principio esistenziale la consulenza a fine benefico. “Gli uomini e le donne postmoderni, volenti o nolenti, sono condannati a una continua scelta, e l’arte dello scegliere si basa soprattutto nell’evitare un pericolo: quello di lasciarsi sfuggire l’occasione buona, vuoi per non averla vista in tempo, vuoi per non avere impiegato sufficiente zelo per afferrarla, vuoi perché ci è mancata la forza fisica o spirituale per raggiungerla. Per evitare questo pericolo, gli uomini e le donne postmoderni hanno bisogno di consulenze. La variante postmoderna dell’incertezza non genera il bisogno delle visioni escatologiche nelle quali si è specializzata la religione, ma genera piuttosto una crescente richiesta di consulenza esistenziali impartite da esperti nel sopire o curare i problemi di identità”31. L’imperativo sta nel ridurre la complessità, sempre più stressante, dovuta alla differenziazione degli ambiti di significato e del pluralismo delle fonti che producono valori e modelli culturali. Per questo, la cultura postmoderna “costituisce, già di per sé, un’apertura verso l’esperienza religiosa, intesa nel suo senso proprio”32, visto che non abbiamo più la sicurezza che deriverebbe dalla nostra permanenza nel vero. Il configurarsi, quindi, di una religiosità individuale, allergica alle forme istituzionalizzate della elaborazione religiosa33, non va intesa semplicemente come conseguenza logica della individualizzazione dell’esistenza, bensì quale capacità dell’individuo di costruire da sé i significati datori di senso. Erede non più ingenuo della novità della modernità, l’individuo contemporaneo sembra possa determinare in proprio gli orientamenti del mondo, allargando la rottura con la tradizione. Il che significa da un parte, mettere in crisi l’influenza sociale dei grandi sistemi religiosi, fino alla perdita effettiva del loro valore propositivo per l’organizzazione dell’esistenza34; dall’altro, ricomporre in forme nuove le rappresentazioni religiose, rendendole disponibili e fluide alla fruizione estetica e psicologica35.

Il profilo emergente è quello di un bricolage delle credenze, che sembra confermare il desiderio di una religiosità emotivamente appagante, la cui traduzione è rintracciabile nella domanda di una religione a scelta, sul modello del menù. In fondo, credere non costa nulla se alimenta lo spazio del sogno e di mondi mistici. “Su questa scia si può facilmente e senza possibilità di essere smentiti sostenere che oggi credere è più connesso o sostituito con «presentire», «paventare», «supporre» o anche «sognare» o «credere di credere». E’ un credere che è inversamente proporzionale alle «ragioni» del credere tradizionale. E questo avviene tanto più in quanto la credenza è aleatoria, insostenibile con la ragione. L’ingenuità e la credulità stanno alla base e al fondamento dei nuovi volti del sacro in un vortice di frammentarietà e di irrazionalità che

30 Cf. R. DE VITA, La religione nella società dell’incertezza, in R. DE VITA – F. BERTI (edd.), La religione nella società dell’incertezza. Per una convivenza solidale in una società multireligiosa, FrancoAngeli, Milano 2001, pp. 17-59. 31 Z. BAUMAN, Il disagio della postmodernità, Bruno Mondatori, Milano 2002, p. 216. 32 F. CRESPI, L’esperienza religiosa nell’età post-moderna, Donzelli, Roma 1997, p. 10. 33 Sui motivi della deistituzionalizzazione della religione, annota CRESPI, L’esperienza religiosa, p. 22: “Invece di favorire, in ciascun individuo, l’approfondimento della propria esperienza esistenziale, nel suo carattere unico e irripetibile, la religione istituzionale propone un modello superegoico, fondato sulla negazione di sé, sulla rimozione dei propri desideri, delle proprie emozioni, della propria spontaneità, che non può che aere esiti distruttivi nei confronti della crescita della personalità individuale”. Cf. anche H. PUNSMANN, Una religione soggettiva senza strutture?, in CIPRIANI – MURA (edd.), Il fenomeno religioso oggi pp. 200-209. 34 Cf. D. HERVIEU-LÉGER, Il pellegrino e il convertito. La religione in movimento, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 29-48. 35 Cf. M. ALETTI, Psicologia e nuove forme della religione, in La religione postmoderna, Glossa, Milano 2003, pp. 21-54. Si legge a p. 51 : « L’interazione di simboli e riti religiosi codificati con il personale processo di «dazione di senso» può spiegare sia l’accettazione sia il rifiuto della credenza o la sua utilizzazione in forme de-viate e per-verse e/o creative e innovative, rispetto al sistema simbolico religioso istituzionale ».

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coinvolge ogni aspetto della fede e non lascia più intatto alcun momento proprio della vita religiosa, che diventa scomposta e a volte confusa” 36.

Probabilmente, è la conseguenza di un bisogno di spiritualità che si connota per la immediatezza del riferimento, sebbene arbitrario, a scelte di tipo religioso e/o etico, certamente in linea con una concezione sociale misurata sul sistema dei bisogni37. Nondimeno, però, affiora l’istanza di un permanente lavoro di reinterpretazione della tradizione in funzione dell’attualità e delle domande del presente, quasi a ribadire che il significato della religione non è depositato nella saggezza della memoria, ma nella praticità della sua aderenza alle improvvise svolte che la vita impone. In altre parole, in un classifica di gradimento i primi posti sono occupati da quelle esperienze religiose che consentono un consumo del sacro immediato e una sensazione di rilassamento a portata di mano; che centrifugano i prodotti dello spirito nello spazio del privatistico, mettendo in scacco le traiettorie della trasmissione e la sua qualità in ordine alla capacità di interpretare autenticamente il bisogno religioso. Che rapporto si pone, allora, “tra la rappresentazione collettiva della continuità della discendenza e la soggettivazione dei percorsi credenti con la conseguente pluralizzazione dei processi di costruzione dell’identità religiosa?”38. In effetti, a voler perimetrare le dimensioni dell’esperienza religiosa, ci si imbatte in una stratificazione della sua morfologia, nella quale convivono differenti istanze: da quella comunitaria che demarca i confini del gruppo, a quella etica che accetta valori che possono prescindere dai criteri dell’appartenenza; da quella culturale che intende il religioso come bene culturale comune, a quello emozionale in cui prevale l’intensità e la gratificazione del vissuto religioso, fino a forme di spiritualità ecologica pacificata e unificante. Il risultato è quello di rifunzionalizzare costantemente la religione: nell’ottica della richiesta costante di benessere psico-fisico e nell’attrazione ad un divino che non inibisce, l’esperienza religiosa viene relegata al tempo libero e investita di un ruolo capace di riabilitare il soggetto postmoderno ad una leggera riappropriazione degli ambiti della vita, per non dover soccombere ai ritmi insostenibili della realtà.

La seduzione del sacro plurale Non meraviglia, pertanto, che lo scenario del religioso mostra un volto inedito del sacro che,

nel simulare un recupero della trascendenza, ottiene l’effetto speciale di instillare illusioni di trascendenza e nostalgie di assoluto39, sulla scia di quel fenomeno culturale che è l’indifferenza post-atea. Alla resa dei conti, si è in linea con quel clima di pluralizzazione delle offerte religiose che inneggiando al politeismo come dimensione particolare della religiosità contemporanea, alimenta lo sviluppo di un multiverso etico ed estetico nel quale la stessa religiosità si fa interprete di esperienze di estrema intensità e appagante eccitamento. Che sia lo spazio lasciato vuoto dal ritiro del divino è lettura fin troppo nota, almeno a partire dall’annuncio nietzschiano della «morte di Dio» che caratterizza la nostra epoca come politeista, stranamente più disponibile ai segni del sacro di quanto non lo fossero le precedenti. Non senza qualche ragione, E. Fromm osservava che

36 A. N. TERRIN, Mistiche del post-moderno: tra il rifugio nel Sé e la riscoperta dell’«Olon», in G. BONACCORSO (ed.), Mistica e ritualità: mondo inconciliabili?, EMP, Padova 1999, p. 135. Cf. anche P. L. BERGER, Una gloria remota. Avere fede nell’epoca del pluralismo, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 83-103; 121-138; G. FILORAMO, Religioni e mutamento contemporaneo, in «Humanitas» 53 (1998) pp. 439-456. 37 Osserva P. SEQUERI, Sensibili allo spirito. Umanesimo religioso e ordine degli affetti, Glossa, Milano 2001, p. 11: “La visione della società come ‘sistema di bisogni’, al quale corrisponde oggi una visione del mondo come ‘mercato globale’ non è affatto una rappresentazione ovvi quanto vorrebbe farci credere la chiacchiera corrente”. Entro queste coordinate si profila l’ipotesi di una relazione tra religione ed economia, nel senso che le leggi della domanda e dell’offerta sono applicate alle scelte spirituali dei cittadini: cf. R. STARK – M. INTROVIGNE, Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente, Piemme, Casale Monferrato 2003, pp. 58-108. 38 HERVIEU-LÉGER, Il pellegrino e il convertito, p. 56. 39 Cf. J. RATZINGER, Svolta per l’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1992, pp. 80-81.

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“l’interesse verso la religione non è mai stato così alto come ai nostri giorni […] e la gente parla di Dio come mai aveva fatto prima d’ora. Eppure, questo tipo di adesione religiosa è soltanto una maschera dietro la quale si cela un atteggiamento profondamente materialistico e irreligioso, ed è da intendersi come reazione ideologica – causata dall’insicurezza e dal conformismo – a quella tendenza ottocentesca che Nietzsche riassunse nella famosa frase «Dio è morto»40.

Senza entrare nel merito di cosa significhi ciò e se tale situazione comporti il ritorno dei vecchi dèi o l’avvento di nuove divinità41, decisivo è cogliere il fatto che l’affermazione della «morte di Dio» non implica una realtà e un mondo tout court desacralizzato o deideologizzato. Tutt’altro. Piuttosto tale condizione, mentre rende più instabili e precarie le strutture, comprese quelle religiose che offrivano risposte di senso motivate, allarga il desiderio di tentare vie inesplorate adatte alla logica della flessibilità e al paradigma della gratificazione. “Pluralità di offerte, dunque, pluralità di modalità di accesso, ma anche pluralità e reversibilità dei percorsi soggettivi: assieme delineano una fase storica di progressiva soggettivazione del rapporto con la religione e di pluralizzazione dei modelli a disposizione”42. Ne deriva una forma di religiosità che, mentre interpreta la propria funzione sociale confinante con i presupposti di una religione civile, al tempo stesso si mostra allergica a proporsi come luogo di riferimento per valori e opzioni che abbiano attinenza a forme istituzionali. La parabola della traiettoria socio-culturale dell’esperienza religiosa mostra una strana e inaggirabile flessione, nel senso che pur non confinata nello spazio inviolabile del privato, essa si aggira nel pubblico rivendicando un rispetto geloso di una privacy socialmente garantita come diritto inalienabile. La questione è oltremodo più intricata se, pur con i dovuti distinguo, si guarda all’attuale realtà multiculturale nell’ottica della compresenza di molteplici religioni, la cui vicinanza esigerà sempre più una riconsiderazione teologica del pluralismo religioso43 e una focalizzazione coerente dello specifico cristiano nel suo servizio dialogico.

Se una prima conclusione è possibile, essa mostra come il ritorno del religioso su scala mondiale, sembra corrispondere all’esigenza di una salvezza che sappia intercettare il disagio antropologico dell’Occidente. Il desiderio di salute, il perfezionamento costante di un Sé sempre all’altezza della situazione, la tenacia nella costruzione di una esistenza al riparo da sorprese non controllabili tecnicamente44, alimentano l’ipotesi che la religione può e deve adattarsi alle richieste del sociale. L’importante è che la nuova esperienza del sacro, che trova la sua forza propositiva nell’apparire più disponibile all’uomo, più vicino ai suoi bisogni di compensazione psichica e spirituale45, costituisca una riserva esistenziale per una indifferenziata ricostruzione dell’io. Non è 40 E. FROMM, Psicoanalisi e buddismo zen, Momdadori, Milano 2004, pp. 12-13. Cf la lettura di J. ALFARO, Dal problema dell’uomo al problema di Dio, Queriniana, Brescia 1991, pp. 77-94. 41 Cf. le considerazioni di G. MARRAMAO, «Idola» del postmoderno. Considerazioni inattuali sulla fine (e il principio) della Storia, in G. VATTIMO (ed.), Filosofia ’87, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 163-181. 42 S. ALLIEVI, Il pluralismo introvabile: i problemi della ricerca comparativa, in GARELLI – GUZZARDI – PACE (edd.), Un singolare pluralismo, p. 272. 43 Cf. per un primo approccio A. FABRIS – M. GRONCHI (edd.), Il pluralismo religioso. Una prospettiva interdisciplinare, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998; G. RUGGIERI, La diversità dell’altro. La Chiesa e il pluralismo, in «Il Regno-attualità» 14 (2003) pp. 484-500; W. PAULY, Il fenomeno del pluralismo nella religione e nella cultura. Un approccio dal punto di vista della teologia fondamentale, in «Itinerarium» 12 (2004) pp. 23-37. 44 Ma non è forse ipotizzabile che è proprio la tecnica ad aver corroso e portato al crepuscolo la religione? Scrive GALIMBERTI, Orme del sacro, p. 31: “Il risveglio religioso, in tutte le disparate forme a cui oggi assistiamo, non deve trarre in inganno. Esso è solo un sintomo dell’inquietudine dell’uomo contemporaneo che, cresciuto nella visione della tecnica come progetto di salvezza, oggi percepisce, all’ombra del progresso, la possibilità di distruzione e, all’ombra dell’espansione tecnica, al possibilità di estinzione”. 45 Rimandiamo indicativamente a D. SELIJAK, Le retour du sacré dans les débats publics sur l’environnement. Les utilisations séculières et religieuses de la «transcendance», in P. GAUDETTE (ed.), Mutations culturelles et trascendance, Laval Théologique et Philosophique, Québec 2000, pp. 117-131; P. SEQUERI, Il sentimento del sacro: una nuova sapienza psicoreligiosa ?, in La religione postmoderna, Glossa, Milano 2003, pp. 55-97; M. GALLIZIOLI, Sentieri nel sacro. Antichi e nuovi attraversamenti tra l’umano e il divino, Cittadella Editrice, Assisi 2004, pp. 73-107. E’ significativa la constatazione di Giovanni Paolo II : “Insieme a molti esempi di fede genuina esiste in Europa anche una religiosità vaga e, a volte, fuorviante. I suoi segni sono spesso generici e superficiali, quando non addirittura

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questo, forse, il sogno celato nella grammatica spirituale delineata nel movimento New-Next Age46, il cui fascino risiede nel saper coniugare il rifugio del e nel Sé e la ricerca del tutto? D’altra parte, cogliere le esigenze e le intuizioni della nuova sensibilità religiosa vuol dire leggere le indicazioni di un mondo che sembra appellarsi ad un di più di senso che non rimanga impigliato nell’immanenza dei giorni, ma sappia dare forma ad una umanità differente che, dinanzi al venir meno di motivi di identificazione, possa trovare valori sostanziali, risorse simboliche e istanze positive. “La religiosità, in questo senso, desidera tornare ad essere anche una grande utopia storico-sociale, che sogna un mondo pacificato ed integrato, ma si fa soprattutto nuova speranza, affermando implicitamente che il mondo ha un «qualche» senso, magari non «dato» e fisso da costruire; un senso profondo e autentico di cui ognuno deve responsabilmente farsi garante e interprete, partendo da una radicale – eretica, appunto – messa in discussione di sé”47.

La crisi di identità del cristianesimo Nella logica normale delle cose, il cristianesimo avrebbe dovuto trarre beneficio dal risveglio

della domanda religiosa, almeno in relazione ad un incremento della sua quota di partecipazione alla vita sociale e culturale contemporanea. Eppure, sembra pagare un incongruente pedaggio alla vicinanza e solidarietà mostrata nei processi storici di emancipazione e di umanizzazione operati dalla modernità. Di fatto, non può non sorprendere la sottile e insidiosa estraniazione del cristianesimo dai contesti culturali nei quali si producono i nuovi vissuti religiosi, come se la sua morfologia non rientri nel credibile disponibile della contemporaneità postmoderna48. O vi rientri a certe condizioni, quelle che, accentuando l’individualizzazione del credere, optano per una moltiplicazione di forme di appartenenze e di credenze, divaricando la modalità del vivere la fede dalle forme istituzionali. L’ipotesi è che le trasformazioni in atto esigano una rilettura dell’autocomprensione del cristianesimo chiamato a verificare la sua fedeltà all’originario, quasi un ritradurre il senso della memoria in rapporto alla sua capacità di futuro. Ma un tale esercizio di cristianesimo richiede, al contempo, la lucidità dell’autocritica nell’individuazione di quegli aspetti che hanno delocalizzato la verità della sua proposta e indebolito la credibilità del vangelo. Dinanzi alla serena accettazione di una condizione post-cristiana49 da parte della cultura contemporanea, non è superfluo rilevare i motivi di un’allergia (reale o presunta) che sembra discreditare l’eredità del cristianesimo.

L’indebolimento della tradizione La parabola della vicenda cristiana sta vivendo l’effetto di una certa amnesia culturale. La

tradizione cristiana non riesce più a proporsi ragionevolmente come modello di riferimento, ma sembra essere catturata dalla tipica strategia della postmodernità che tende a spettacolarizzare il contrastanti nelle persone stesse da cui scaturiscono. Sono manifesti fenomeni di fuga nello spiritualismo, di sincretismo religioso ed esoterico, di eventi straordinari ad ogni costo, fino a giungere a scelte devianti, come l’adesione a sette pericolose o ad esperienze pseudoreligiose” ( Ecclesia in Europa, 68). 46 Cf. A. N. TERRIN, New Age. La religiosità del postmoderno, EDB, Bologna 1993; E. FIZZOTTI (ed.), La dolce seduzione dell’Acquario. New Age tra psicologia del benessere e ideologia religiosa, Las, Roma 1996. Scrive TERRIN, New Age, p. 248: “La New Age è il sintomo di una crisi totale della società d’oggi ed è anche il tentativo in extremis di salvarsi a qualsiasi prezzo, fino al punto che si è disposti a rinunciare perfino alla propria dignità di uomini e di esseri razionali pur di mettere insieme un mosaico di verità primitive in cui ancora poter credere e con le quali provvisoriamente ma anche positivamente rifarsi l’esistenza a livello di sentimenti e di ideali” 47 GALLIZIOLI, Sentieri nel sacro, p. 104. 48 Cf. W. KASPER, La Chiesa di fronte alle sfide del postmoderno, in «Humanitas» 52 (1997) pp. 171-189; J. MOINGT, Réenchantement ou crépuscole du christianisme?, in «Esprit» 50 (1999) pp. 5-18. 49 Si vedano le indicazioni di E. POULAT, L’era post-cristiana. Un mondo uscito da Dio, SEI, Torino 1996, pp. 167-231 e le differenti letture in G. BOTTONI (ed.), Fine della cristianità? Il cristianesimo tra religione civile e testimonianza evangelica, Il Mulino 2002.

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mondo teoretico e valoriale, riducendolo a luogo di fruizione estetica. La realtà diventa spettacolo, un parco a tema nel quale ognuno di noi diventa (o può diventarlo) comparsa di un film anche religioso50. Si potrebbe quasi dire che la sottolineatura dell’amabilità del cristianesimo colpisce l’immaginario spirituale della contemporaneità, ponendo in secondo piano i canoni di una sua diversità. In fondo, si è in presenza di un inventario rispettabile di temi, suggestioni, visioni della vita e del mondo che, rivisti e corretti, rendono più accettabile la proposta cristiana ad una mentalità disincantata, ma comunque sensibile alla presenza di miti in grado di ispirare e ricompattare la vita sociale. La conoscenza del testo biblico come classico della letteratura, l’arte cristiana come orizzonte di intuizioni e conoscenza, alcuni grandi feste (come il Natale) che accompagnano i momenti di svago e di vacanza, non sembrano essere più considerate fonte e riferimento veritativo.”La tradizione è ammirata senza essere significante, dato che il referente cui essa rinviava un tempo non ha più alcuna esistenza sociale per i nostri contemporanei”51. Se ne deduce che la tradizione cristiana non rappresenta più un collante valoriale in grado di ispirare scelte condivise, né è veicolo di senso perché arcaica e sovente anacronistica, ma solo un dato da ammirare per la sua imponenza cronologica o da imitare sine glossa come alcuni movimenti neofondamentalisti teorizzano.

La marginalizzazione del cristianesimo Sottesa alla neutralizzazione della tradizione c’è l’ipotesi che la modernità (e per certi versi la

postmodernità) abbia in qualche modo svuotato lo specifico del cristianesimo della sua pertinenza e forza d’attrazione. La contemporaneità, allora, non è anti-cristiana, perché non si accanisce nella demolizione dell’architettura del progetto cristiano, come, probabilmente, accadeva nel dibattito acceso con i teoremi dell’ateismo. E’, piuttosto, post-cristiana, nel senso che si è appropriata di ideali e valori evangelici, distaccando il messaggio dalla sua ispirazione di fondo, cioè cristologica. Sembrerebbe questo l’esito più morbido e imprevisto del processo di de-secolarizzazione, non distante dalla tesi avanzata dal filosofo H. Blumenberg52 che nel delineare i tratti della emancipazione dell’uomo dal cristianesimo, riconosceva a questa l’abilità nell’aver occupato, più che trasformato, i contenuti teologici trasfigurandoli in lineamenti culturali. Non una appropriazione in continuità con i criteri valutativi della tradizione cristiana, ma una ricollocazione dei presupposti che, per quanto prossimi alla novità della rivelazione cristiana, si erano impaludati nelle aree di un teismo sterile. Sulla scia di questo processo, la modernità aveva semplicemente riaffermato il diritto di cittadinanza di una concezione dell’uomo e del mondo, segnalata, ma smarrita, dall’evento dell’incarnazione. “La cultura moderna […] sarebbe o indifferente o, fatto infinitamente più grave, impregnata dei ‘valori’ cristiani di rispetto dell’uomo, di senso della non violenza che strutturano il dibattito democratico, […] al punto di poter fare a meno di un messaggio di cui avrebbe integrato l’apporto essenziale. […] Per questo motivo, o i cristiani hanno la sgradevole impressione di essere privati del loro messaggio specifico e di non aver nulla da ‘apportare’ alla società, oppure si rifugiano nelle visioni apocalittiche del presente”53.

Insomma, il cristianesimo avrebbe già assolto al suo compito, anche se ha lasciato alcune tracce che urtano la convinzione neopagana di un mondo e una vita che non abbisognano di progetti di salvezza o di utopie messianiche, per il fatto che l’uomo nella sua finitudine può trovare energie spirituali capaci di ottemperare i disagi della civiltà. Ma potrebbe anche continuare a rendere il

50 Cf. le analisi di D. LYON, Gesù a Disneyland. La religione nell’era postmoderna, Editori Riuniti, Roma 2002, pp. 15-38; 187-203. 51 C. DUQUOC, Fede cristiana e amnesia culturale, in «Concilium» 35 (1999) p. 156. 52 Cf. H. BLUMENBERG, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992. Cf. per una lettura critica W. PANNENBERG, Questioni fondamentali di teologia sistematica, Queriniana, Brescia 1975, pp. 537-549; P. DE VITIIS, Hans Blumenberg e il dibattito sulla secolarizzazione, in «Filosofia e Teologia» 9 (1995) pp. 529-542. 53 P. VALADIER, Possibilità del messaggio cristiano nel mondo di domani, in «Concilium» 28 (1992) p. 150.

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servizio all’uomo consegnato alla propria libertà, se svestisse i panni di un malcelato dogmatismo54 che si riduce a spiegazione del mondo e a contratto utilitaristico col divino, attenuando in questo modo la sua scandalosità e la critica escatologica55. Anzi, al cristianesimo spetterebbe giocarsi le carte della sua utilità sociale, a motivo dei suoi contenuti etici relativi a modelli comportamentali attenti ai problemi della vita e contro qualsiasi forma di implosione spiritualistica della fede.

Paradossalmente, un cristianesimo così disponibile non rischierebbe un tramonto ineluttabile, perché darebbe voce e forma all’esigenza dell’umanità di una trascendenza dentro il bisogno della storia, di un sacro che è nell’uomo, così come attesterebbe la parabola storica del cristianesimo dell’umanizzazione del divino. Il “paradosso supremo dell’umanesimo dell’uomo-Dio”56, non ha nulla di sacrilego né di idolatrico; esplicita solo l’identificazione tra cristianesimo e umanesimo57, nella cui convergenza abita la questione del senso. Declinato così, il cristianesimo potrebbe anche stemperare la responsabilità attribuitagli relativamente alla incrinatura nichilistica del mondo e della storia. La questione è senza dubbio complessa, così come mostrano le letture che collegano il processo di secolarizzazione58 a quello del nichilismo, la dinamica della desacralizzazione con lo svuotamento dei valori e degli ideali cristiani. Eppure, nell’oblio della significatività della rivelazione cristiana, pesa l’evento della morte di Cristo, del suo abbandono da parte di Dio che sigla definitivamente la prospettiva dell’assenza di Dio. “Dio che lascia essere il mondo fino a morirvi”59 è il motivo dello sgomento dell’uomo; di più, è alla base del nulla come apertura, spazio nel quale si è ritirato, assenza che non può essere riempita se non dal passare del divino e dai cenni che invia. Il cristianesimo, dunque, sembra assistere inerme e, forse, inconsapevole al suo svuotamento di senso, perché incapace di proporre un’alternativa seria alla radice secolarizzante del nichilismo; né un tentativo di risacralizzazione gioverebbe alla sua causa, perché l’annuncio cristiano è per la realizzazione dell’uomo e non per una sua destinazione ad una realtà che lo separa

54 Si vedano le osservazioni di M. RUGGENINI, Il Dio assente. La filosofia e l’esperienza del divino, Bruno Mondatori, Milano 1997, pp. 71-72. 55 In questo ambito, non stupisce la considerazione della vicinanza della critica cristiana allo smascheramento compiuto dall’ateismo filosofico ed esistenziale nei riguardi di alcune espressioni di religiosità, argomentazione questa abbandonata, forse, troppo frettolosamente. Cf. quanto suggerisce G. L. POLTRINIERI, Esistere senza Dio. La provenienza «apre» sempre futuro, in «Filosofia e Teologia» 17 (2003) p. 470: “Il cristianesimo come novità quotidiana, come scandalo che scuote l’esistenza anziché addomesticarne il lato tragico attraverso false protezioni, può trovare nell’ateismo non il nemico acerrimo, ma un compagno con il quale condividere un lungo tratto di cammino assieme, proprio perché numerosi sono gli avversari in comune: l’idolatria, le mistificazioni, le finte rassicurazioni metafisiche, l’oblio del carattere perturbante dell’esistenza, il disconoscimento della finitezza cui siamo tutti consegnati in quanto esseri umani”. 56 L. FERRY, Al posto di Dio, Frassinelli, Piacenza 1987, p. 187. 57 Scrive FERRY, Al posto, p. 175. “Il cristianesimo è un umanesimo? Certamente, perché colloca l’uomo al centro della creazione e gli attribuisce, in quest’ordine intramondano, il posto più eminente: quello dell’essere creato a immagine di Dio”. . 58 L’interpretazione del fenomeno della secolarizzazione è tra le questioni più delicate e sfuggenti, come evidenziano secondo differenti angolature FISICHELLA, Quando la fede, pp. 83-97 e C. DUQUOC, La teologia in esilio. La sfida della sua sopravvivenza nella cultura contemporanea, Queriniana, Brescia 2004, pp. 35-38 A noi sembra che la secolarizzazione abbia espresso una convinzione: la scoperta da parte dell’uomo che il mondo è stato posto sotto la sua custodia e responsabilità, rompendo una concezione magica della storia e una figura etico-sacrale della religiosità. Per questo, la teologia che ha investigato sulla secolarizzazione (si pensi a D. Bonhoeffer, F. Gogarten, R. Guardini, J.B. Metz, K. Rahner, E. Schillebeeckx, etc…) pur con accenti differenti, ha sottolineato il fatto che il mondo è un processo che scaturisce dalla fede, è un’offerta di Dio all’uomo. Non solo, ma di fronte ad una funzionalizzazione della questione di Dio, la teologia ha inteso riaprire la domanda su Dio nella sua originaria differenza ontologica. La secolarizzazione è, in altri termini, metafora di un cambiamento della concezione dell’uomo e della logica della fede, non leggibili solo in chiave di desacralizzazione. Cf. F.A. PASTOR, La logica de lo inefable. Una teoria teologica sobre el lenguaje del teismo cristiano, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1986; R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 1992, pp. 129-160; A. SABETTA, Teologia della modernità. Percorsi e figure, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, pp. 15-72. 59 S. GIVONE, Storia del nulla, Laterza, Roma-Bari 1995, .p. 236. Si veda la riflessione che suggerisce M. CACCIARI, Il cristianesimo al vaglio della modernità, in M. BELLET - M. CACCIARI – C. MOLARI, Il cristianesimo sta morendo?, L’altrapagina, Città di Castello 2001, pp. 43-66.

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dalla vocazione alla quale è chiamato. In tal senso, è difficile non rinvenire nel nichilismo contemporaneo un’interpretazione estrema della secolarizzazione il cui approdo sta nella chiusura ad ogni assoluto e in un finitismo che si accontenta di prendere atto della finitezza inoltrepassabile dell’esistenza. “Se è vero, infatti, che il nulla come principio del mondo o la morte di Dio nel mondo sono principi che hanno radici cristiane, un’interpretazione del cristianesimo che assuma in modo esclusivo questi principi è una negazione del cristianesimo stesso, e allora i tentativi di conciliazione possono avere soltanto una giustificazione biografica o estetica”60. In tal senso, altro è vivere l’evento della morte di Dio come appello ad una ricerca ulteriore, altro è confinarsi nella logica di una impossibilità che nega qualsiasi trascendenza come contrappunto dell’umanità-troppo-umana dell’uomo61.

Le incertezze dell’appartenenza ecclesiale Ed è, forse, sullo sfondo dei processi di autonomia e differenziazione funzionale della società,

che si fa strada l’idea di una distanza, se non addirittura indifferenza, della vita socio-culturale dalla prospettiva religioso-cristiana. In altre parole, la scelta della responsabilità dell’uomo nei riguardi del mondo e della storia, ha finito per tracciare una linea di impermeabilità a suggerimenti, prospettive, valori che non fossero decisi in proprio. Di ciò, ne ha fatto le spese lo stesso cristianesimo (o almeno una sua forma che alcuni identificano nella logica della cristianità). La conseguenza, come mostra l’analisi di F. X. Kaufmann62, è stata quella di ecclesializzare il cristianesimo, cioè di eleggere a luogo specifico le chiese, lasciando intendere che la fede potesse aver valore solo all’interno dell’ambito specialistico cristiano, rischiando di ridurre la novità evangelica ad addetti ai lavori. Ciò facendo, si è provocata una “deecclesializzazione della popolazione”63, vale a dire uno scollamento tra la dimensione istituzionale ed esistenziale del cristianesimo, nel senso che alle chiese è lasciato il compito di amministrare aspetti particolari, e non necessari, della tradizione cristiana rispetto alle scelte importanti dell’uomo. Tra le possibili letture, il sociologo tedesco indica che “responsabile della crescente deecclesializzazione è proprio la separazione tra una religione ecclesializzata e una cultura secolare, che è tuttavia condeterminata da valori cristiani”64. Di fatto, la possibilità di una sempre più crescente individualizzazione della fede, porta uno sganciamento della stessa dalla prospettiva della rivelazione cristologica, con il rischio di addomesticare l’esperienza credente entro i canoni di una religiosità più generica, talora miope nei riguardi dell’appello oggettivo del messaggio e prassi di Gesù Cristo.

E’ vero, si obietterà. Una delle ragioni, che costituisce anche un punto di non ritorno, sta nell’ampliamento delle possibilità di scelta dell’individuo, ampliamento che può condurre alla

60 C. CIANCIO, Cristianesimo e nichilismo, in «Filosofia e Teologia» 17 (2003) p. 422. Si vedano le riflessioni di A. MILANO, Quale verità. Per una critica della ragione teologica, EDB, Bologna 1999, pp. 47-65 e di I. SANNA, L’antropologia cristiana tra modernità e post-modernità, Queriniana, Brescia 2001, pp. 336-384. 61 Vanno ponderate le indicazioni che suggerisce M. GAUCHET, Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, Einaudi, Torino 1992, p. 292: “La morte di Dio non è l’uomo che diventa Dio, riappropriandosi dell’assoluta disposizione cosciente di se stesso che Dio gli aveva prestato; è al contrario l’uomo espressamente obbligato a rinunciare al sogno della propria divinità. Quando gli dei si eclissano, allora si vela realmente che gli uomini non sono dèi”. 62 Cf. F. – X. KAUFMANN, Quale futuro per il cristianesimo?, Queriniana, Brescia 2002, pp. 92-109. Itinerari di una analoga riflessione sono presenti nei saggi dello stesso autore Chiesa per la società di domani, in F. – X. KAUFMANN – J. B. METZ, Capacità di futuro. Movimenti di ricerca nel cristianesimo, Queriniana, Brescia 1988, pp. 9-52; La Chiesa cattolica e le side della postmodernità, in CIPRIANI – MURA (edd.), Il fenomeno religioso oggi, pp. 39-51. 63 KAUFMANN, Quale futuro, p. 102. Scrive poco più sotto: “Qui notiamo, per quanto riguarda l’Europa occidentale, una tendenza molto chiara: le indagini condotte su valori e atteggiamenti, che riguardano l’ambito della chiesa, della religione e del cristianesimo, danno risultati sempre meno positivi e soprattutto registrano risposte sempre più divergenti”. 64 KAUFMANN, Quale futuro, p. 104.

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diminuzione del valore della scelta, ma anche ad una maturazione valutativa del significato e dei contenuti che la scelta adombra. Ciò non esclude, però, che in un’atmosfera strutturalmente soggettivista, le istituzioni risentano di una crisi nell’offrire e suggerire criteri e norme, in nome di un’autonomia decisionale del singolo che rende sospettoso qualsiasi rapporto e legame minaccianti l’autonomia stessa. Da questa fenomenologia culturale, non solo non sono esenti le chiese65, la cui plausibilità appare oscillante, in particolare là dove la domanda religiosa si differenzia in conformità ai bisogni di senso; ma la stessa identità cristiana risulta sbilanciata o compromessa dall’incertezza di un’appartenenza ecclesiale che si traduce in crisi e/o in ricerca di alternative alla sete di spiritualità66. La stessa appartenenza ecclesiale67, considerata come garanzia istituzionalmente assicurante l’identità cristiana, non equivale più alla consapevolezza dell’essere cristiano; o, comunque, non costituisce un punto di riferimento fondante, con la conseguenza che l’adesione ad un corpus dottrinale non risponde più all’esigenza di un preciso segno distintivo dell’identità cristiana, a tal punto che non necessariamente cristiano è colui che ritiene vere le affermazioni fondamentali del cristianesimo. “L’assenso intellettuale non equivale alla coscienza d’identità, che implica una concordanza più profonda, concernente la vita stessa”68. Lo stesso dicasi nell’ottica di un determinato modello di comportamento etico che non sembra più rappresentativo della identificazione cristiana, in quanto la questione di un codice morale condiviso è oggetto di conflitto interpretativo.

Ciò nonostante, la crisi che da più parti attribuiscono al cristianesimo, appartiene alla sua identità. “L’identità cristiana è situata nelle cesure e dislocazioni culturali e non si fonda su quella che un tempo si qualificava, in termini prettamente intellettualistici,‘identità omogenea’ (che del resto non può comprovarsi neanche in modo storico). Così per le chiese cristiane le svolte culturali sono sempre tempo di vaglio, di crisi e incertezza. Ciò appartiene all’essenza stessa della fede cristiana e del suo modo storico di manifestarsi”69. Spingendosi oltre, si può dire che, se la crisi si riferisce ad alcune sue traduzioni concrete, non per questo esprime il tramonto del cristianesimo, bensì una trasfigurazione in virtù della sua capacità di leggere i segni dei tempi con spirito profetico. Vale a dire, con un’interpretazione in profondità del presente inteso nella sua universalità qualitativa, nella reciprocità e nella condivisione con ciò che alimenta le attese e le domande dei nostri contemporanei. “La parola di Dio si presenta al nostro contemporaneo, in questo modo, come quella provocazione ultima data per l’acquisizione del senso dell’esistenza, ma abilitando ognuno, nello stesso tempo, alla responsabilità personale”70.

L’alterità del Vangelo: possibilità e condizioni dell’annuncio L’interrogativo, al dunque, è più che legittimo: come è possibile inserire il Vangelo nei

circuiti della cultura postmoderna e nelle “decisioni pubbliche alle mutate condizioni dell’individualizzazione e del bricolage tendenzialmente sincretistico, della detradizionalizzazione

65 Può essere utile richiamare quanto annotava già alcuni anni fa N. METTE, Evangelizzazione e credibilità della chiesa, in «Concilium» 14 (1978) pp. 93-94: “Le chiese suscitano infatti presso un numero crescente di persone l’impressione di preoccuparsi di se stesse più che del vangelo; e questa impressione sembra essersi nel frattempo così radicata da non poter essere più cancellata attraverso interventi puramente apologetici. Bisogna invece chiedersi: questo disagio è veramente privo di ogni fondamento?” 66 Cf. B. SECONDIN, Spiritualità in dialogo. Nuovi scenari dell’esperienza spirituale, Paoline Editoriale Libri, Milano 1997, pp. 103-130. 67 P. BÜHLER, L’identità cristiana: tra l’oggettività e la soggettività, in «Concilium» 24 (1988) pp. 36-50. Cf. anche l’analisi di M. KEHL, Dove va la Chiesa? Una diagnosi del nostro tempo, Queriniana, Brescia 1998, pp. 41-63; 178-180. 68 BÜHLER, L’identità cristiana, p. 39. 69 E. SCHILLEBEECKX, Umanità la storia di Dio, Queriniana, Brescia 1992, p. 66. 70 R. FISICHELLA, Gesù di Nazaret profezia del Padre, Paoline Editoriale Libri, Milano 2000, p. 263.

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e dedottrinalizzazione?”71. E’ certo che i processi dell’evangelizzazione, non possono perseguire obiettivi di cristianizzazione della società72 attraverso una complicità proselitistica o demagogica, ma devono diventare offerta della peculiarità della novità cristiana e della sua differenza rispetto alle parole correnti del senso. Il punto nodale è, in fin dei conti, la riscoperta dell’alterità del Vangelo, da non intendersi come indifferenza distante dalle dinamiche della vita, ma quale provocazione ad un di più che si innesta nelle domande dell’uomo, riconducendole alla sua originaria qualità73. Affermare ciò significa prendere coscienza che la possibilità della prossimità tra vangelo e cultura, non esclude la spiazzante estraneità della sua proposta alle logiche che ispirano il quotidiano succedersi dei giorni. Sarebbe infeconda, infatti, una neutrale simmetria tra Vangelo e cultura, perché ridurrebbe la storia dell’interpretazione ad una storia della salvezza misurata sulla disponibilità del vangelo ai desideri dell’uomo. “Oggi più che mai si tratta di imparare ed esercitare la grammatica umana elementare: l’essere uomo e donna, l’essere con l’altro, l’amare e l’essere amato… E’ in questo spazio umano, umanissimo che occorre trasmettere la buona notizia come proposta di vita; è in questo vissuto umano che l’evangelo può essere visto e colto come «l’esistenza umana buona», nel senso migliore del termine, l’opera d’arte che esso può realizzare”74.

Al tempo stesso, però, rivendicare la novità indeducibile della rivelazione, non significa ampliare sempre più il fossato della irraggiungibilità della buona notizia, quanto persuadere l’uomo della fragilità di quella presunta familiarità psicologica con Dio, con gli altri e con se stesso, condizione necessaria per dare forma all’evento della conversione che inaugura un modo inedito di ricercare la verità e il senso dell’esistenza. Sta qui la delicatezza dei processi di inculturazione, ma anche l’inevitabilità della sua dinamica che è quella dell’incontro/scontro tra due realtà non omogenee: vangelo e cultura, che postula come possibilità autentica una fede inculturata, pena lo scadimento di questa in un inutile ritualismo psicologico75. Non è, forse, un dato il frequente parallelismo che la contemporaneità vive tra cultura e fede, allorché quest’ultima sospinge l’esistenza sui lidi di una radicale assunzione di responsabilità della storia? Non è, viceversa, ricorrente la tentazione del ripiegamento dell’esperienza religiosa che relega il credere entro la sfera della soddisfazione emotiva, ritenendo la fede sovrastrutturale rispetto alla dimensione culturale?76. In definitiva, il punto nodale della possibilità dell’evangelizzazione sta in un passaggio tuttora decisivo della Evangelii Nuntiandi, 19: “Evangelizzare è trasformare dal di dentro, rendere nuova l’umanità, convertire la coscienza personale e insieme collettiva degli uomini, raggiungere e quasi sconvolgere, mediante al forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le forze ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la parola di Dio e con il disegno della salvezza”.

71 M. JUNKER-KENNY, Chiesa, modernità e postmoderno, in «Concilium» 35 (1999) p. 153. 72 Cf. le annotazioni di C.M. MARTINI, Ripartiamo da Dio! Lettera pastorale per l’anno 1995-1996, Centro Ambrosiano, Milano 1995, pp. 94-102. In tale ottica vanno lette le riflessioni che a livello magisteriale e teologico propongono l’istanza di una evangelizzazione nuova in relazione ai mutamenti culturali: C. RUINI, Fede cristiana e mutamenti culturali, in SERVIZIO NAZIONALE PER IL PROGETTO CULTURALE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Libertà della fede e mutamenti culturali. III Forum del Progetto Culturale, EDB, Bologna 2000, pp. 9-18; J. RATZINGER, La nuova evangelizzazione, in A. RUSSO – G. COFFELE (edd.), Divinarum Rerum Notizia. La teologia tra filosofia e storia. Studi in onore del Cardinale Walter Kasper, Edizioni Studium, Roma 2001, pp. 505-516. Per un approfondimento cf. G. AMBROSIO, Il progetto culturale e la nuova evangelizzazione, in G. COFFELE (ed.), Dilexit Ecclesiam. Studi in onore del prof. Donato Valentini, Las, Roma 1999, pp. 40-52 e soprattutto SARTORIO, Credere in dialogo, pp. 59-99. 73 Cf. U. NERI, Pensieri sulla “nuova evangelizzazione”, Editrice AVE, Roma 1996, pp. 25-27. 74 E. BIANCHI, Come evangelizzare oggi, Qiqajon, Magnano 1997, pp. 47-48. 75 Cf. le indicazioni di J. P. MENSIOR, Percorsi di crescita umana e cristiana, Qiqajon, Magnano 2001, pp. 145-167 e di L. MEDDI, Catechesi. Proposta e formazione della vita cristiana, EMP, Padova 2004, pp. 135-164. 76 Scrive V. MATHIEU, Cultura e salvezza, in La salvezza oggi, Urbaniana Univesrity Press, Roma 1989, p. 146: “Che cosa concludere, insomma? Che l’apporto culturale è, rispetto alla fede, una sovrastruttura, analogamente a ciò che pensava Marx rispetto all’economia? O, al contrario, che è uno strumento indispensabile e decisivo per evitare che la fede sia cieca, anzi bloccata dall’impossibilità di conoscere ciò che dovrebbe credere?

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Ripartire dalla singolarità di Gesù Cristo Evidenziare la priorità e la centralità dell’evento Gesù Cristo per l’annuncio del Vangelo,

potrebbe dare l’impressione di ribadire l’ovvio, il già noto. Eppure, l’interpretazione della sua vicenda è al bivio di una duplice considerazione, la cui complementarità sembra ammorbidire il senso della differenza che emerge dalla prospettiva cristologica.

In prima istanza, la codifica del suo messaggio e prassi entro le coordinate di una novità aggiuntiva in relazione alla storia del manifestarsi di Dio, intende affermare un principio importante: la necessaria precompressione del mistero di Dio presente nell’uomo come condizione per la comprensione di Gesù di Nazaret. Ciò equivale a situare Gesù Cristo entro il perimetro della storia della ricerca umana di Dio che, in seconda battuta, è letta come la storia di Dio alla ricerca dell’uomo. Il presupposto, per altro incontrovertibile, corre, però, il rischio di smorzare gli effetti dell’unicità di Gesù Cristo, generalizzando la sua rivelazione, salvo poi ricorrere a soluzioni che cerchino di ottemperare all’impossibilità di far rientrare l’originalità di Gesù Cristo entro gli schemi delle nostre rappresentazioni teistiche e antropologiche. Le annotazioni di Gesù quale uomo fuori dal comune, dedito agli altri, leader coraggioso capace di mordere le apatie di un sistema culturale e religioso, appartengono ad una letteratura conosciuta e apprezzabile nel reperire sistemi di significato per l’uomo.

Ma la necessità di una tale prospettiva non rende sufficientemente ragione di un approccio che, ed è la seconda istanza, considera Gesù non il caso serio della rivelazione, ma una mediazione che, per quanto normativa, rinvia ad un Mistero ulteriore e inarrivabile. Il riferimento non è solo alla recente questione sollevata da alcuni esponenti della teologia del pluralismo religioso77 che, ricalcando l’antica questione del Gesù della storia e il Cristo della fede, ritengono la storicità di Gesù78 parziale rispetto alla manifestazione del divino. Allude anche al dibattito culturale e filosofico che esercitandosi sulla possibilità del Dio cristiano, sembra urtare sul paradosso che esso presenta, girando attorno alla questione centrale della sua identità. Lungi da qualsiasi pregiudizio valutativo, l’aver segnalato l’urgenza di ripartire da Gesù significa rimetterne al centro (concentrazione cristologica) la singolarità rivelativa e riconsiderare la novità messianica come punto d’avvio per entrare nella logica dell’autocomunicazione di Dio. Per questo, è inevitabile misurarsi sull’evento della kenosi, la cui intelligibilità è direttamente proporzionale all’apertura della comprensione del mistero di Dio e dell’uomo. “Credere in Gesù in quanto Cristo non implica solo inserirsi nella sua relazione al Padre, ma anche la partecipazione alla sua incarnazione, alla sua proesistenza «discendente» […] Fin quando cerco Dio al di fuori dell’evento Cristo, astraggo il «senso per me» dal «senso in sé». Solo quando con la mia fede mi calo nella carne, la fede non è più la mia relazione a Dio, ma la partecipazione all’autocomunicazione del Dio incarnato”79.

La soglia della fede costituisce, così, indizio di un Dio che si fa incontrare e conoscere nell’umano, ma contemporaneamente misinterpretare, perché rompe costantemente con le categorie con le quali ci avviciniamo al mistero della sua Alterità. In tal senso, la discrezione della kenosi (cf. 77 La questione è articolata e complessa: cf. orientativamente G. CANOBBIO, Gesù Cristo nelle recente teologia delle religioni, in QUADERNI TEOLOGICI DEL SEMINARIO DI BRESCIA, Cristianesimo e religioni in dialogo, Morcelliana, Brescia 1994, pp. 79-110; A. AMATO, L’unicità della mediazione salvifica di Cristo: il dibattito contemporaneo, in M. CROCIATA (ed.), Gesù Cristo e l’unicità della mediazione, Paoline Editoriale Libri, Milano 2000, pp. 13-44; M. BORDONI, L’annuncio di Gesù Cristo, unico salvatore e redentore e la missione dei credenti in un contesto di pluralismo religioso e culturale, in «Lateranum» 69 (2003) pp. 479-501; G. GRESHAKE, Pluralismus der Religionen oder Einzigartigkeit Jesu Christi?, in «Revista Espaňola de Teologia » 63 (2003) pp. 31-48. 78 Il dibattito si è riacceso in virtù degli studi sulla terza ricerca, segno di una inevitabile esigenza di rivisitazione della importanza storica dell’evento cristologico. Cf. V. FUSCO, La ricerca del Gesù storico. Bilancio e prospettive, in R. FABRIS (ed.), La Parola di Dio cresceva (At 12,24). Scritti in onore di Carlo Maria Martini nel suo 70° compleanno, EDB, Bologna 1998, pp. 487-519; A PUIG I TARRECH, La recerche du Jésus historique, in «Biblica» 81 (2000) pp. 179-201; G. SEGALLA, La terza ricerca del Gesù storico e il suo paradigma postmoderno, in R. GIBELLINI (ed.), Prospettive teologiche per il XXI secolo, Queriniana, Brescia 2003, pp. 227-250. 79 K.- H. MENKE, L’unicità di Gesù Cristo nell’orizzonte della domanda sul senso, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, p. 135.

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Fil 2, 5-11) è tutt’altro che eclissi di Dio, in cui il nascondimento prevale sullo svelamento, proprio nel contesto della postmodernità che ha provocato un inversione di tendenza rispetto alla questione di Dio80. Che si tratti di un ritorno inconsueto, è un dato incontestabile, così come lo è la presenza del divino nel compito ineludibile dell’interrogarsi sulla realtà. Sensibile a questa esigenza, la stessa riflessione teologica deve farsi interprete di modalità differenti del mostrarsi di Dio, persino nei luoghi dell’assenza e del silenzio. “Deve diventare possibile parlare con rispetto e onestà di «Dio» in modo tale che questo mistero ineffabile sia menzionato e interpellato, ma senza essere imposto al mondo o essere danneggiato dalle troppe parole, perché ciò che ammutolisce è demandato a sentimenti inarticolati”81. Resta il dubbio, però, che, pur nella consapevolezza dell’inesauribilità del suo Mistero, sembra essere in questione proprio la dicibilità di Dio che, nell’evento cristologico, ha comunicato se stesso esponendosi al rischio del linguaggio.

In altre parole, risulta problematico sminuire un dato neotestamentario: la vicenda Gesù Cristo nomina l’originalità e la differenza di Dio nell’esperienza dell’Abbà, sino a rischiare l’usura stessa della metafora della paternità. E’ innegabile che tale originalità doni un senso inedito all’esperienza dell’incontro con l’Alterità e dell’apertura sconvolgente alla Verità: a fronte di qualsiasi teismo filosofico e di un sacro anonimo, la simbolica trinitaria rivelata nella singolarità di Gesù Cristo, mostra un Dio diverso e capace di suscitare le differenze. “Vediamo dunque tutto ciò che separa la logica di un sapere sopra Dio, logica che si pone sotto il segno dell’identità, ed una teologia cristiana che vive sotto il segno della differenza. Nel primo caso, Dio rischia di non essere altro che un duplicato dell’uomo e l’ateismo è una soluzione logica. Nel secondo caso, Dio può diventare l’apertura liberatrice dell’uomo”82. La differenza suscitata da Dio diventa, pertanto, il presupposto per il riappropriarsi da parte dell’uomo di quella somiglianza inscritta nell’essere creatura in modo antitetico alla tentazione di misurare il divino sull’umano. Ad una condizione, però: che all’infuori della storia di Gesù di Nazaret la stessa categoria di paternità rischia di smarrire quell’infinita differenza qualitativa che connota il paradosso e, perché no, lo scandalo del messaggio cristiano83.

Per questo, riteniamo fondamentale riconoscere nella kenosi una rottura instauratrice. Vale a dire: comprendere nella sua forza comunicativa e performativa il paradosso cristologico come verità che eccede i nostri criteri interpretativi, nel momento in cui i segni del Regno sollecitano un mutamento e ridefiniscono la liberazione entrando in conflitto con il credibile disponibile al tempo di Gesù. “Questo compimento riconosciuto disorienta i suoi uditori: essi fanno fatica a credere vera questa notizia straordinaria i cui effetti non sono per loro percepibili. […] E’ significativo il fatto che i racconti dei vangeli, scritti dopo gli eventi drammatici della carriera finale del profeta, non abbiano creduto di dover cancellare un annuncio che, a quanto appariva, era stato smentito. Ciò significa che gli evangelisti ritenevano che, anche dopo la morte di Gesù e la sua risurrezione confessata, era necessario fare memoria di questa proclamazione: essa non aveva perduto nulla della sua attualità e della sua forza”84. Basta accennare al movimento di senso presente nella vicenda di Gesù per rendersi conto di un di più la cui imprevedibilità confina con la possibilità della sua fragilità, così come mostrano le continue incomprensioni a cui è soggetto. La frattura con la tradizione veterostestamentaria e giudaica del regno e del culto, insinuata nella relativizzazione della Legge; la distanza critica nei riguardi di una sacralizzazione politica e civile del religioso85; i gesti salvifici (guarigioni, miracoli, affidamento alla volontà del Padre..) attestanti la consapevolezza che la realtà possa essere differente; l’iscrizione nella storia di un futuro sorretto 80 Cf. C. DOTOLO, Dio Padre? Riflessioni intorno ad alcuni percorsi sulla domanda di Dio nella teologia contemporanea, in G. GIORGIO (ed.), Dio Padre Creatore. L’inizio della fede, EDB, Bologna 2003, pp. 133-152. 81 H. HÄRING, Sull’attualità della teologia negativa, in «Concilium» 37 (2001) p. 197. Su ciò cf. D. TRACY, Forma e frammento: il recupero del Dio nascosto e incomprensibile, in GIBELLINI (ed.), Prospettive teologiche, pp. 251-273. 82 C. GEFFRÉ, ”Padre” come nome proprio di Dio, in «Concilium» 17 (1981) p. 81. 83 Cf. A. AMATO, Il dibattito su Dio Padre nella tradizione e nella letteratura teologica, in GIORGIO (ed.), Dio Padre Creatore, pp. 49-98. 84 C. DUQUOC, L’unico Cristo. La sinfonia differita, Queriniana, Brescia 2003, p 92. 85 Cf. R. PENNA, Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pp. 63-88.

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dalla cultura della resurrezione, senza dimenticare la responsabilità sensibile al dolore altrui86, mostrano che Gesù Cristo pienezza del tempo nuovo, escatologico, contrassegna l’oggi della storia: fa emergere il bisogno di salvezza87 trasfigurandone le attese e le prospettive. Sarebbe profondamente pregiudiziale una riduzione filantropica della memoria di Gesù Cristo, perché opterebbe per una interpretazione della sua fenomenologia dettata dal voler vedere quei dati (e solo quelli) che rispondono a ciò che compete all’esperienza religiosa secondo i criteri del senso comune. La posta in gioco è più significativa: Gesù rimodella la concezione del sacro e del religioso, provocando una costruttiva amnesia culturale nei riguardi di un vissuto che si affida passivamente ad una memoria e tradizione rassicurante (cf. Mt 3, 9; Lc 13, 16; Gv 8, 33-40). Ma, soprattutto, ne mostra il valore nella differenza evangelica da lui proclamata, nel momento in cui lascia intravedere il fallimento di un’accoglienza di Dio che prescindi dalla sua testimonianza kenotica. Qui si può percepire l’essere di Dio e la simbolica condensazione del significato dell’esistenza, che trova nel dono della vita (cf. Gv 12, 25), nel superamento di se stesso verso l’altro, nella relazione dell’amore che si espone alla logica dell’ascolto e della condivisione, il centro autentico dell’esperienza religiosa, che altro non è che il segreto della vita stessa. “Ogni esistenza porta in sé una responsabilità sottilmente inquietante e generalmente difficile da identificare. Ma l’esistenza «secondo Gesù Cristo» chiarisce ogni mistero e scioglie ogni ambiguità. […] Su questo presupposto, vivere l’esistenza umana come l’ha vissuta Gesù Cristo si propone come l’attrattiva ideale per ogni uomo88. Da questa prospettiva, la concretezza della vicenda di Gesù può diventare orizzonte di riferimento che oltrepassa il fossato del particolare, proprio perché dà voce all’universale antropologico nella sua costante ricerca d’identità e felicità89.

La Chiesa, volto di una umanità differente Si comprende, pertanto, la decisiva responsabilità che compete alla Chiesa nell’annuncio del

kerigma cristiano per il quale Dio ha riconciliato a sé l’umanità. Chiamata a suscitare costantemente la notizia della novità cristologica, realizza la sua identità proprio nell’attivazione costante della promessa salvifica e nella reinterpretazione che richiede lo scorrere dei giorni. In tale ottica, è più che mai necessario riandare al significato della sua alternatività rispetto ad altre forme istituzionali90, espressa nella provocatorietà dell’essere segno reale dell’inaudita pretesa del Vangelo. Il senso globale di tale identità si articola nella responsabilità pubblica che la comunità ecclesiale deve esercitare, nella promozione di uno stile di vita che inquieti l’apatia ideologica presente nella gestione commerciale dell’esperienza religiosa (e non solo). Certo, purificare la religiosità sottomessa al desiderio di un risarcimento individuale agli scompensi dell’accelerazione della vita, non significa rendere elitaria la fede, né astratta, ma riabilitarla alla sua originaria capacità interpretativa che, nella lotta per la verità dell’uomo, assume i tentativi di cambiamento della qualità dell’esistenza. L’incondizionato realismo della fede cristiana attesta che i segnali di speranza che abitano la ricerca di una spiritualità nuova, possono dare forma ad un differente modo di essere, a condizione che la domanda dell’immediatezza e della gratificazione si apra al

86 Rileva J. B. METZ, Proposta di programma universale del cristianesimo nell’età della globalizzazione, in GIBELLINI (ed.), Prospettive teologiche, p. 394: “Questa sensibilità per il dolore degli altri contrassegna il «nuovo stile di vita» di Gesù. […] Essa è piuttosto l’espressione, assolutamente non sentimentale, di quell’amore inteso da Gesù quando parlava –del resto pienamente nella linea della sua eredità ebraica – dell’indivisibile unità dell’amore di Dio e del prossimo: pasione di Dio come compassione (Mitleidenschaft)”. 87 Cf. M. BORDONI, Cristo pienezza del tempo: un compimento non-ancora compiuto?, in S. DE MARCHI (ed.), Gesù Cristo pienezza del tempo, EMP, Padova 2001, p. 97-113. 88 COLOMBO, Sulla evangelizzazione, pp. 73-74. 89 S. PIÉ-NINOT, Unicidad y universalidad salvífica de JesuCristo come universale concretum personale, in ISTITUTO TEOLÓGICO COMPOSTELANO, Antopología y fe cristiana. IV jornadas de teología, Dipartimento de Publicaciones, Santiago de Compostela 2003, pp. 279-305. 90 Cf. le riflessioni di Y. CONGAR, Un popolo messianico. La chiesa, sacramento di salvezza. La salvezza e la liberazione, Queriniana, Brescia 1976, pp. 69-91.

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riconoscimento della logica della gratuità. Per questo, è opportuno che le comunità cristiane esibiscano i criteri del Regno come motivo stesso della loro pro-esistenza91, mostrando che il messaggio cristiano è ragionevole, nel senso che non ama arrampicate irrazionali finalizzate a vette di rarefatta spiritualità, come promettono certe forme di sacro anonimo. Solo in questo modo la fede, nella compagnia con la ragione, può presentarsi in un’alterità che potenzialmente provoca ogni cultura che si rifiuta di aprirsi ad un sistema di senso che non sia da lei promosso. Non sono, per caso, segni di rottura del Regno la logica della fraternità, della solidarietà con e per l’altro, il superamento della paura che blocca l’evento della comunione e la critica delle pulsioni egoistiche sottese all’autoprogetto che l’uomo pensa di essere nell’affermazione isolata della sua autosufficienza? La responsabilità dell’evangelizzazione chiede alla Chiesa di vivere la tensione critico-profetica92 nei riguardi del mondo, non tanto per supplire alle assenze della speranza, con il rischio di non valorizzare e promuovere la maturità della storia umana, quanto per attestare la possibilità del progetto cristologico come luogo di ricerca di una verità e un senso che offrono molto di più di quanto l’uomo non osi sperare. La sua originalità e insostituibilità sta nell’essere funzione di umanità nell’umanità93, almeno ad un duplice livello.

In primo luogo, nella soggettivazione del popolo di Dio94, in cui ogni credente si assume il compito della testimonianza e della comunicazione della fede. Ne deriva che la comunità credente non può non essere evento intersoggettivo, espressione di una comunione che si alimenta nel coinvolgimento dell’esperienza determinante della sequela. Come scrive C. M. Martini: “Una comunità alternativa nel senso del Vangelo non è dunque una setta, né un gruppo autoreferenziale che si distacca orgogliosamente dal tessuto sociale comune, né un’alleanza di alcuni per emergere e contare. Non è perciò necessariamente e sempre visibile come gruppo compatto, perché sa accettare anche la diaspora, può cioè trovarsi, per diverse circostanze storiche, in «dispersione». Ma nell’insieme ha caratteri di visibilità e in ogni caso, visibile o meno, agisce sempre come il lievito, le cui particelle operano in misterioso collegamento fra loro e si sostengono a vicenda per far fermentare la pasta”95.

In secondo luogo, il mettere all’ordine del giorno la questione del rapporto tra il soggetto e il destinatario della fede, vale a dire tra la Chiesa e il mondo, è possibile solo in un’ecclesiologia di relazione (e pneumatologica) consapevole che l’annuncio del Vangelo può essere anche non accolto96. Questo implica una maturità differente, in vista della quale l’esperienza del discepolato deve promuovere adulti nella fede, la cui identità e appartenenza si giocano nel servizio alla Parola e nella disponibilità a vivere le condizioni della sequela. Sta qui la forza profetica di una minoranza qualitativa che sa porre segni di testimonianza più credibili, suscitando la speranza che la promessa della salvezza non dipende dalle capacità predittive di un futuro migliore, ma dall’energia che scaturisce dall’evento pasquale, annuncio del futuro come disdetta del presente. In tal senso, l’alternatività della comunità cristiana sta nell’essere anticipazione effettiva della simbolica del

91 Cf. I. ELLACURÍA, Conversione della Chiesa al Regno di Dio. Per annunciarlo e realizzarlo nella storia, Queriniana, Brescia 1992, pp. 29-69; DUQUOC, «Credo la Chiesa», 284-315; S. MAZZOLINI, Cristo, Regno di Dio e Chiesa, in «Euntes Docete» 55 (2002) pp. 81-99. 92 Cf. C. MILITELLO, Quale profezia?, in G. CALABRESE (ed.), Chiesa e profezia, Edizioni Dehoniane, Roma 1996, pp. 117-148; B. CHENU, La Chiesa, popolo di profeti, in «Parola Spirito e Vita» 41 (2000) pp. 237-248. 93 Cf. J. M. TILLARD, Evangelizzare l’umanità, in «Ad Gentes» 4 (2000) pp. 11-29; A. TORRES QUEIRUGA, Un Dio per oggi. Un nuovo modo di accostarsi all’Ineffabile, Isg – Marga, Vicenza- Barzago 2003, pp. 37-56. 94 Cf. S. DIANICH, Soggettività e Chiesa, in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Teologia e progetto-uomo in Italia, Cittadella Editrice, Assisi 1980, pp. 105-128; ID., Ecclesiologia. Questioni di metodo e una proposta, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1993, pp. 201-255; C. MILITELLO, La Chiesa «Il Corpo crismato», EDB, Bologna 2003, pp. 126-158. 95 MARTINI, Ripartiamo da Dio!, p. 34. Su questa linea cf. le puntuali annotazioni di P. CODA, Traditio-communio-missio, in SERVIZIO NAZIONALE PER IL PROGETTO CULTURALE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Di generazione in generazione. La difficile costruzione del futuro. V Forum del Progetto Culturale, EDB, Bologna 2004, pp. 195-197. 96 Cf. G. RUGGIERI, «Chiesa e mondo», in W. KERN – H.J. POTTMEYER – M. SECKLER (a cura), Corso di Teologia Fondamentale 3 Trattato sulla Chiesa, Queriniana, Brescia 1990, pp. 300-328..

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Regno. I simboli rimarrebbero ineffettuali se non svelassero qualche aspetto della realtà alla ricerca del suo itinerario di senso, pur nella consapevolezza della provvisorietà dei segni, visto che nella distanza tra la promessa e la sua realizzazione è sempre incombente la ferita dell’ingiustizia, dell’infelicità, dell’eccesso di sofferenza. “In ultima analisi, è da pensare che solo se le Chiese particolari possono mostrare di essere il «luogo» dove l’esistenza umana nella sua concretezza storica (cioè nella sua comprensione di senso, nella gioia, nell’amore, nella solitudine, nella sofferenza, nella fatica, nella passione civile, nella contraddizione, nel cammino verso la morte, che sono i costitutivi ineliminabili a tutte le esistenze degli uomini) può essere vissuta nel modo inconfrontabilmente «più felice», possono ridiventare richiamo e attrazione e quindi «compiere» efficacemente l’evangelizzazione. Ed è semplicemente ovvio che la Chiesa debba fare questo. Più radicalmente, non esiste se non per fare questo”97.

L’inevitabile priorità della persona Infine, l’annuncio del Vangelo è possibile se, sulla scia della tradizione ebraico-cristiana,

presenta l’uomo nella sua situazione di interrogante, di ricercatore del senso e della verità, appassionato ermeneuta della propria origine e destinazione. E’ impensabile l’uomo al di fuori di questa ontologia della ricerca che lo proietta nella passione per le domande fondamentali dell’esistenza, pellegrino di quell’Assoluto che nella storia indica il metodo dell’al-di-là delle cose, l’orizzonte dei significati piuttosto che i traguardi delle evidenze. Se Dio si rivolge all’uomo e lo invita ad un’esperienza dialogica unica, ciò sta ad indicare il suo costitutivo essere per la trascendenza, in una creaturalità98 che esige una adeguata interpretazione del suo essere e agire: tutto ciò che riflette, decide, opera sono il segno di una relazionalità strutturale che a partire da Dio si estende all’insieme dei rapporti cosmico-sociali. Ad una concezione antropocentrica come quella postmoderna, può sembrare paradossale che l’identità dell’uomo sia direttamente proporzionale alla sua struttura di dipendenza-relazione con Dio e con gli altri. Eppure, qui si gioca tutta la consistenza dell’essere umano che scopre e riconosce il senso della sua particolare centralità all’interno della creazione, segnale inequivocabile che lo spazio dell’autonomia umana è definito dall’evento dell’incontro e della solidarietà. La novità dell’antropologia biblica è nell’essere immagine di Dio, categoria che esprime un dato: l’uomo sta per qualcosa d’altro e la sua esistenza può fuoriuscire dalle paludi dell’indifferenza nel riferimento ontologico ed etico a quell’Immagine di cui porta i segni. Divenire immagine di Dio significa sperimentare l’orizzonte dell’alterità quale condizione per l’identità che è sempre davanti a Dio99, in cui l’essere dell’uomo è donato come essere-nel-mondo e con altri.

Ma c’è un di più che scaturisce dalla rivelazione cristologica che sorprende l’uomo nei suoi tentativi di autocomprensione e autolegittimazione. Nella forma storica della sua esistenza a vantaggio degli altri e nell’amore come logica ultima e definitiva della vita, emerge la verità dell’uomo come persona, in cui la relazione non è fragile e aporetica tensione dell’io, ma riconoscimento del proprio essere nell’orizzonte del dono, come mostra il paradigma del farsi prossimo (cf. Lc 10, 25-37). E’ questa la preziosa eredità che il Novecento teologico ha (ri)consegnato alla riflessione sull’identità dell’uomo e che investe l’evangelizzazione oggi. Quella

97 COLOMBO, Sulla evangelizzazione, p. 61. Cf. anche C. CALTAGIRONE, Lo Spazio – Tempo della Chiesa. Per una ecclesiologia in prospettiva locale, Edizioni Solidarietà, Caltanissetta 2001, pp. 115-137. 98 Cf. L.F. LADARIA, Antropologia teologica, Piemme, Casale Monferrato 1995, pp. 194-202; G. COLZANI, Antropologia teologica. L’uomo paradosso e mistero, EDB, Bologna 1998, pp. 65-72; 367-405; A. RIZZI, Ermeneutica della creaturalità, in G. FERRETTI (ed.), Ermeneutiche della finitezza. Atti del VII Colloquio su filosofia e religione, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 1998, pp. 185-197. 99 Cf. J.L. RUIZ DE LA PEÑA, Immagine di Dio. Antropologia teologica fondamentale, Borla, Roma 1992, pp. 21-47; W. PANNENBERG, Teologia Sistematica 2, Queriniana, Brescia 1994, pp. 233-267; A. GESCHÉ, L’identité de l’homme devant Dieu, «Revue Théologique de Louvain» 29 (1998) pp. 3-28.

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che è stata definita come svolta antropologica100 costituisce uno degli orizzonti decisivi per la lettura della novità del cristianesimo in ordine alla proposta di un umanesimo cristiano101. Non si tratta di un progetto che sottragga l’uomo alla costruzione della sua identità, al rischio di un’avventura interpretativa che, consapevole delle passioni del finito, elabori un modello antropologico al riparo dal permanente dislivello del suo compito ontologico. Senza cadere nella esasperazione di un soggettivismo teologico, sono condivisibili le intuizioni bultmanniane secondo le quali il cristianesimo è appello all’autenticità di una decisione improrogabile (Entscheidung), che porta l’uomo a dare senso all’esistenza progettandosi nello spazio dell’alterità. E può realizzare ciò solo se percepisce che il rischio della scelta è legittimato dal dono della verità rivelata, in virtù della quale si sente provocato a trasgredire la seducente maschera del proprio io. “L’uomo è autenticamente in se stesso e nei suoi rapporti con altri nella misura in cui sa porsi a distanza da se stesso, sapendo di valere soltanto come maschera di Dio, come campo in cui può risuonare la voce infinita dell’Altissimo”102.

Nell’evidenziare il nesso creaturalità-relazione quale condizione per un’antropologia dell’interpersonalità, la riflessione teologica coglie nella categoria di persona103 un’intenzionalità rivelativa dell’essere dell’uomo; anzi, la sua originaria vocazione che dice l’irripetibilità del cammino di ogni uomo nel suo debito ontologico104, non risarcibile senza il superamento illusorio e narcisistico dell’io. Nell’evento della responsabilità per l’altro che mi viene incontro e che non posso determinare, l’uomo è chiamato ad una risposta a cui non può sottrarsi, nella quale si delineano i lineamenti dell’evento della libertà, almeno secondo la novità del vangelo. Probabilmente, è una delle sfide più ardue dell’evangelizzazione saper condividere una libertà ad alto profilo che, nell’ottica cristiana, diventa esplosione etica di una giustificazione che rinvia alla legge dello Spirito (cf Rm 8, 2) 105, nell’oltrepassamento della paura, della disperazione, del vuoto di senso. La libertà umana segnala una nostalgia di relazione che è alla base di ogni incontro, anche di segno capovolto, perché appella al riconoscimento dell’altro senza il quale la vita diventa insopportabile e insostenibile qualsiasi identità che genera l’illusione di poter essere se stessi al di fuori della dinamica della compagnia e della condivisione106. Essere liberi è, sì, poter disporre di se stessi, ma

100 Il riferimento d’obbligo è a al lavoro di K. RAHNER, di cui si veda, indicativamente, Teologia e antropologia, in ID., Nuovi Saggi III, Paoline, Roma 1969, pp. 45-72. 101 Cf. K. RAHNER,Umanesimo cristiano, in ID., Nuovi Saggi III, Paoline,Roma 1969, 279-304. La proposta di un umanesimo cristiano come nuovo indicatore di senso è un dato ritornato alla ribalta della riflessione teologica, come si può vedere in FORTE, Dove va il cristianesimo?, pp. 114-132; W. KASPER, Teologia e Chiesa 2, Queriniana, Brescia 2001, pp. 217-224; SEQUERI, Sensibili allo spirito, pp. 45-78; L.F. LADARIA, La antropología cristiana propuesta de un nuevo umanismo, ISTITUTO TEOLÓGICO COMPOSTELANO, Antopología y fe cristiana. pp. 193-221. 102 V. MELCHIORRE, Persona ed etica, in ID. (ed.), L’idea di persona, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 162. 103 L’importanza di tale categoria è abbondantemente attestata nella storia della teologia e filosofia. Tra l’abbondante bibliografia cf. A. MILANO, Persona in teologia. Alle origini del significato di persona nel cristianesimo antico, Edizioni Dehoniane, Napoli 1985 e dello stesso Persona, in G. BARBAGLIO – G. BOF – S. DIANICH (edd.), Dizionario di Teologia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, pp. 1138-1157. 104 Ci riferiamo ad alcune annotazioni di M.M. OLIVETTI, La persona come debito ontologico, in «Protestantesimo» 51 (1996) pp. 174-182. 105 Rinviamo a S. LYONNET, Liberté chrétienne et loi de l’Esprit selon saint Paul, in I. DE LA POTTERIE - S. LYONNET, La vie selon l’Esprit condition du chrétien, Édition du Cerf, Paris 1965, pp. 169-195; R. SCHNACKENBURG, Il messaggio morale del Nuovo Testamento. I. Da Gesù alla chiesa primitiva, Paideia, Brescia 1989, pp. 243-249; R. PENNA, L’apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1991, pp. 550-562; A. GESCHÉ, L’invention chétienne de la liberté, in «Revue Théologique de Louvain» 28 (1997) pp. 3-27 106 Scrive acutamente M. DE CERTAU, Mai senza l’altro. Viaggio nella differenza, Qiqajon, Magnano 1993, pp. 16-17 “I cristiani hanno sempre privilegiato il prigioniero, il rifugiato, il povero e lo straniero (...) La fede è posta incessantemente di fronte alla necessità di riconoscere Dio come differente, vale a dire presente nelle regioni (culturali, sociali, intellettuali) in cui lo si credeva assente. Il visitatore - indiscreto e irriconoscibile- delle nostre costruzioni sopraggiunge come un interrogativo venuto dal «di fuori» o di lontano (...) La carità opera il medesimo movimento nella rete di tutte le relazioni umane, essa si compendia, secondo l’evangelo, nell’amore per i nemici. Tensione rivelatrice. Infatti sotto parvenza di amore si è portati a fare come se i nemici non esistessero affatto, a catturarli con la pania dei buoni sentimenti o a gettare su di essi il velo falsamente generoso di una ‘comprensione’ ricuperatrice. Oppure, poiché le divergenze sono irriducibili, il dialogo apparirà impossibile, e allora non resterà che uccidersi a

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solo per rendersi disponibili al dono della vita, all’amore che è sacramento della libertà liberata e liberante, in quanto rende la possibilità esistenziale della libertà come libertà-per qualcuno, dedizione fin nelle radici del proprio essere.

In definitiva, l’immagine dell’uomo come persona è la grande scommessa della proposta cristiana, che nella dimensione cristologico-trinitaria trova tutta la sua significatività e verità: essere persona è partecipare all’evento dell’amore in un’apertura all’altro inesauribile e infinita. Significa piantare nell’humus dell’esistenza la radice ontologica della comunione e l’etica dell’essere-di-fronte all’altro, in uno spazio che supera lo stesso rapporto intersoggettivo. “E’ la caratteristica della persona, del soggetto, il rinunciare al suo isolamento. Moralità, amore, sono appunto questo, abbandonare cioè la propria particolarità, la propria personalità speciale, allargarla alla universalità [...] Ciò che di vero vi è nella personalità sta appunto in questo, nell’ottenerlo con l’immergersi, con l’essere immerso nell’altro”107. Nel tempo in cui ogni assoluto sembra essere relativizzato e ogni verità dimezzata nella sola dimensione del fattuale, l’opzione antropologica cristiana afferma che l’uomo è un assoluto, non prevaricabile da nessun’ altra forma ideologica e idolatrica.

Breve epilogo Può il Vangelo essere profezia di senso in un mondo in continuo cambiamento? Non appare

pretestuoso o, forse, sproporzionato alla complessità della realtà affermare che la proposta cristiana sia in grado di alimentare attese di liberazione e di trasformazione qualitativa dell’esistenza? Ciò che è certo è che il cristianesimo può risvegliare il desiderio di un’umanità nuova, inserendo nella lotta per il senso della vita un progetto che non si accontenta di mezze verità. L’importante è non rinunciare all’alterità del Vangelo108, il quale è per sua natura l’inaudito, il sempre nuovo, il mai banale, anche se può urtare dinamiche culturali e sistemi ideologici curvi su altre logiche109. L’evangelizzazione deve avere il coraggio di testimoniare la radicalità del messaggio cristiano che non ha timore di sembrare segno di contraddizione, ma che all’infuori di tale paradossalità apparirebbe incapace di creare stupore e interesse. Proporsi come invito, motivo, possibilità di uno stile differente, è quanto il cristianesimo può offrire all’attenzione di ogni uomo, in una pedagogia dell’ascolto e della pazienza che non si misura sul successo, a meno che questo non risponda all’opportunità dell’incontro con Gesù Cristo. “L’evangelizzazione richiede una capacità di ricentramento della nostra opera pastorale sul cuore essenziale della fede cristiana e l’elaborazione di un linguaggio creativo e nuovo che non pretenda di comunicare a chi è fuori della Chiesa con gli stereotipi del nostro tradizionale linguaggio cattolico. Ma, oltre a queste particolari esigenze, c’è anche un semplice ma importante problema di stile: solo una fede umile è capace di evangelizzare”110.

vicenda o ignorarsi. La carità articola questi due poli dell’esperienza: da un lato stabilisce la comunità sulla base delle differenze rispettate, ma riconosciute indispensabili le une alle altre; dall’altro fa dell’amore ciò che non cessa di scoprire e di marcare l’originalità dell’altro e degli altri, così che l’unione e la differenziazione crescano insieme”. Cf.anche I. MANCINI, Tornino i volti , Marietti, Genova 1989, pp. 48-69. 107 W. PANNENBERG, Cristologia. Lineamenti fondamentali, Morcelliana, Brescia 1974, pp 227 e 232. 108 Cf. E. SALMANN, Presenza di spirito, Il cristianesimo come gesto e pensiero, EMP, Padova 2000, pp. 7-40; G. RUGGIERI, Il cristianesimo tra religione civile e testimonianza evangelica, in BOTTONI (ed.), Fine della cristianità?, pp. 21-43; M. BELLET, La quarta ipotesi sul futuro del cristianesimo, Servitium, Gorle 2003, pp. 15-56. 109 Cf. C. GEFFRÉ, La prétention de christianisme à l’universel: implications missiologiques, in G. COLZANI – P. GIGLIONI – S. KAROTEMPREL (edd.), Cristologia e Missione oggi. Atti del Congresso Internazionale di Missiologia, Urbaniana Univesrity Press, Città del Vaticano 2001, pp. 47-65. 110 S. DIANICH, Ecclesiologia della parrocchia, in «Il Regno-attualità» 12 (2003) p. 425. Cf. anche A. STAGLIANÒ, Vangelo e comunicazione. Radicare la fede nel nuovo millennio, EDB, Bologna 2001, pp. 169-184.

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