Meccanica celeste

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Meccanica Celeste di Maurizio Maggiani © Giangiacomo Feltrinelli Editore da 1. Un fatto fatto La notte che ho messo incinta la mia donna Barack Obama è stato eletto quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti d’America. Il fatto è avvenuto poco dopo la mezzanotte, assai prima che la notizia fosse sicura, e se la relazione tra i due avvenimenti è naturale, è anche con assoluta certezza priva di alcun significato. È vero però che quella notte sembrava che il mondo intero palpitasse in un’atmosfera di trepidante attesa; persino noi avevamo eccezionalmente sintonizzato il televisore su una stazione che aveva in programma una vigilia elettorale con ospiti. Solo che la cosa si stava facendo lunga e noiosa. L’idea era di salire, metterci a letto e leggiucchiare un po’ mentre gli ospiti davano il peggio, e poi tornare quando si fossero placati, in tempo per il responso. Come il resto del mondo tifavamo per Obama, il nero colmo di profezia, ma anche in quei giorni continuavamo a leggere molto: leggere ci piace e ci fa bene. Ed è il fatto puro e semplice di leggere che ci fa bene. Come la lettura della Bibbia nelle antiche famiglie teneva assieme ogni cosa ben al di là di quello che ognuno sapeva cogliere di sacro dentro a quei venerabili testi, così è per noi l’azione in sé, che ci insegna ogni giorno qualcosa di buono. A portata di mano l’uno dell’altra, con il culo poggiato sullo stesso sofà o, addirittura, sullo stesso materasso, assegnati nello stesso scompartimento, che guardano ognuno al proprio lato del finestrino due paesaggi diversi, assai probabilmente antipodi. E ci guardiamo di sottecchi, e sentiamo di esserci; e forse vorremmo avere il coraggio di presentarci e forse no, forse va bene così: covare l’intimità aspettando che il capotreno spenga le luci per la misteriosa notte boreale. E comunque vada, viaggiare con lo sguardo fisso al finestrino di quello scompartimento, non smettere mai di viaggiare e non smettere mai di guardare, che è più di quanto si possa sperare. Questo nostro leggere ci insegna a vivere assieme, e partire per ogni dove, e poi tornare. Ed è molto eccitante, naturalmente. Di una eccitazione un po’ troppo sottile perché si semplifichi e riduca nell’ovvietà di un coito. Forse è per questa ragione che, tra i molti luoghi della casa adatti alla lettura silenziosa e comune, finiamo per preferire il letto matrimoniale di sopra, per usufruire della castità del luogo e aggiungere un tocco in più di sacralità al nostro trepido viaggiare. Ma intanto il fatto è accaduto. Non previsto e non in sintonia con l’occasione, l’indefinito si è fatto carne, la carne voglia, e la voglia azione. Un “fatto fatto” direbbe la ’Nita. Perché così si usa esprimere nella sua lingua, con la duplicazione, l’inconsueto e l’eccezionale. Un fatto fatto. Ho tolto gli occhiali, ho messo l’orecchia alla pagina e riposto il pesante volume di avventure che in quei giorni mi dava piacere, e ho allungato le mani. Mollemente. Qualcosa nel mio cuore prima ancora che altrove mi ha chiesto di farlo. Da sotto saliva intermittente il frinio degli esperti, ma era chiaro che prima dell’alba nessuno avrebbe avuto niente da dire: cacciate fuori i numeri, santo Dio. Mollemente è una domanda, mollemente è una supplichevole preghiera. La ’Nita non è sorda alle preghiere di un cuore puro, il suo stesso cuore è una costante supplica sotto forma di domanda, nelle forme di una preghiera. Mollemente, giocherellando con la tenera superficie delle nostre reciproche suppliche, ci siamo congiunti. Questo è quello che si dice l’onesto piacere coniugale. Ciò che i padri della chiesa non hanno mai osato negare all’uomo dal fondo sterile dei deserti dove nei millenni trascorsi hanno meditato sulla natura della carne e del divino insito in essa. E hanno emesso sentenze. Il suo libro, un ostile romanzo francese, si agitava scomposto nell’esclusiva consonanza del nostro trambusto; da quel frangente non sarebbe uscito salvo. Noi sì: è per questo che stavamo rotolando come gatti sul tappeto di erba gatta, come bambini continentali nella sabbia del Tirreno, cachi

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Meccanica Celestedi Maurizio Maggiani

© Giangiacomo Feltrinelli Editore

da 1. Un fatto fatto

La notte che ho messo incinta la mia donna Barack Obama è stato eletto quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti d’America. Il fatto è avvenuto poco dopo la mezzanotte, assai prima che la notizia fosse sicura, e se la relazione tra i due avvenimenti è naturale, è anche con assoluta certezza priva di alcun significato. È vero però che quella notte sembrava che il mondo intero palpitasse in un’atmosfera di trepidante attesa; persino noi avevamo eccezionalmente sintonizzato il televisore su una stazione che aveva in programma una vigilia elettorale con ospiti. Solo che la cosa si stava facendo lunga e noiosa.L’idea era di salire, metterci a letto e leggiucchiare un po’ mentre gli ospiti davano il peggio, e poi tornare quando si fossero placati, in tempo per il responso. Come il resto del mondo tifavamo per Obama, il nero colmo di profezia, ma anche in quei giorni continuavamo a leggere molto: leggere ci piace e ci fa bene. Ed è il fatto puro e semplice di leggere che ci fa bene. Come la lettura della Bibbia nelle antiche famiglie teneva assieme ogni cosa ben al di là di quello che ognuno sapeva cogliere di sacro dentro a quei venerabili testi, così è per noi l’azione in sé, che ci insegna ogni giorno qualcosa di buono.A portata di mano l’uno dell’altra, con il culo poggiato sullo stesso sofà o, addirittura, sullo stesso materasso, assegnati nello stesso scompartimento, che guardano ognuno al proprio lato del finestrino due paesaggi diversi, assai probabilmente antipodi. E ci guardiamo di sottecchi, e sentiamo di esserci; e forse vorremmo avere il coraggio di presentarci e forse no, forse va bene così: covare l’intimità aspettando che il capotreno spenga le luci per la misteriosa notte boreale. E comunque vada, viaggiare con lo sguardo fisso al finestrino di quello scompartimento, non smettere mai di viaggiare e non smettere mai di guardare, che è più di quanto si possa sperare. Questo nostro leggere ci insegna a vivere assieme, e partire per ogni dove, e poi tornare. Ed è molto eccitante, naturalmente. Di una eccitazione un po’ troppo sottile perché si semplifichi e riduca nell’ovvietà di un coito.Forse è per questa ragione che, tra i molti luoghi della casa adatti alla lettura silenziosa e comune, finiamo per preferire il letto matrimoniale di sopra, per usufruire della castità del luogo e aggiungere un tocco in più di sacralità al nostro trepido viaggiare.

Ma intanto il fatto è accaduto. Non previsto e non in sintonia con l’occasione, l’indefinito si è fatto carne, la carne voglia, e la voglia azione. Un “fatto fatto” direbbe la ’Nita. Perché così si usa esprimere nella sua lingua, con la duplicazione, l’inconsueto e l’eccezionale.Un fatto fatto.Ho tolto gli occhiali, ho messo l’orecchia alla pagina e riposto il pesante volume di avventure che in quei giorni mi dava piacere, e ho allungato le mani. Mollemente. Qualcosa nel mio cuore prima ancora che altrove mi ha chiesto di farlo. Da sotto saliva intermittente il frinio degli esperti, ma era chiaro che prima dell’alba nessuno avrebbe avuto niente da dire: cacciate fuori i numeri, santo Dio.Mollemente è una domanda, mollemente è una supplichevole preghiera.La ’Nita non è sorda alle preghiere di un cuore puro, il suo stesso cuore è una costante supplica sotto forma di domanda, nelle forme di una preghiera. Mollemente, giocherellando con la tenera superficie delle nostre reciproche suppliche, ci siamo congiunti. Questo è quello che si dice l’onesto piacere coniugale. Ciò che i padri della chiesa non hanno mai osato negare all’uomo dal fondo sterile dei deserti dove nei millenni trascorsi hanno meditato sulla natura della carne e del divino insito in essa. E hanno emesso sentenze.Il suo libro, un ostile romanzo francese, si agitava scomposto nell’esclusiva consonanza del nostro trambusto; da quel frangente non sarebbe uscito salvo. Noi sì: è per questo che stavamo rotolando come gatti sul tappeto di erba gatta, come bambini continentali nella sabbia del Tirreno, cachi

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maturi giù dalla collina della Cascianella. Facevamo l’amore, un amore casto e virginale. Casto, come si dice delle colombe sin dal tempo in cui Cristo le pose a esempio davanti agli occhi degli uomini perché ci dessero un taglio con il loro maligno fornicare. Virginale, della verginità di fanciulli votati: sono arrivato a te vergine, ancora una volta, e per l’ultima volta, a Dio piacendo. E spruzzi di risacca lambivano qua e là le coltri sfrangiate ai piedi del letto, intermittenti schizzi di insulse opinioni risalivano dalle voragini del talk show; un idiota giurò quella notte che Paperoga avesse votato McCain. Ma questo non ci intimidiva. Né avrebbe potuto distrarmi. Infatti è stato sapendo quello che dicevo che ho sussurrato alla ’Nita: posso venirti dentro?Era la prima volta. In tutta la mia vita. Non scherzo.Ci sono uomini, ci sono stati per lo meno, che sanno con precisione ciò che gli appartiene e ciò che no; per naturale indole o per energica educazione, a seconda dei casi. Io sono tra questi, e so che il grembo della ’Nita non mi appartiene. Lo so talmente bene che non ho desiderato altro con tanta intensità fin dalla mia prima erezione, sepolta chissà dove, ormai perduta. Avere le sue interiora feconde, possederle dentro le mie, irrorare con il loro succo la mia vacua maschilità. A sedici anni frugavo nei cumuli di “Reader’s Digest” abbandonati nella cantina di un inglese, in cerca della formula per far partorire i maschi. Come se davvero potessi tenere nella mia pancia il futuro del mondo. Ma non per questo ho mai toccato il ventre di una donna con l’intenzione di prendermi una rivincita. Non ho figli perché nessuna delle donne che mi hanno amato mi ha mai chiesto di averne con lei; non è una maledizione, e non ha neppure l’aspetto della sventura: probabilmente si è trattato solo di afasia. O di ragionevole calcolo: non c’è femmina di qualsivoglia specie animale del Creato che non abbia le sue idee sul maschio a cui concedere la paternità della sua prole. Io non sarei mai stato un buon padre; forse una buona madre, ma non un buon padre. Comunque c’è stato sempre del gran mutismo, quando a volte invece basterebbe provare ad aprire la bocca.Posso venirti dentro?C’è qualcosa di più inadatto da dire a quest’ora della notte? A questo punto della vita? E ancora non si sa con certezza se Paperoga ha votato repubblicano, e fuori fa freddo e c’è vento, e quest’anno non ci saranno più funghi anche se dovesse venire finalmente a piovere.Un detto detto direbbe la ’Nita.Ma l’ho detto così bene che nel sentirlo mi sono riempito di orgoglio. Inaspettatamente, insperato, fossile orgoglio animale. La scimmia antropomorfa ha parlato alla sua donna e le ha chiesto qualcosa di intimo; gentilmente, perché gli animali hanno la facoltà della dolcezza.E ciò che è stato chiesto è di un’intimità talmente struggente che la scimmia antropomorfa ne gode come se si fosse rizzata in piedi, all’improvviso, in un gesto senza esperienza: una cosa che non sapeva di poter fare. Stupendo esemplare adulto.E constata che ci sa restare in quella nuova e così promettente posizione; e a quanto pare, per qualche straordinario motivo che al momento gli sfugge, può restarci quanto gli pare. Forse vorrebbe battersi il petto e ruggire, forse gli viene da guaire, o bramire leccando la sua femmina sul petto. Eppure, con tutto che è solo un animale, sa che mai come in questo momento ciò che deve fare è religiosamente ascoltare, immobile; adesso sì, in perfetto silenzio.Non farti dire cosa devi fare, come se avessi bisogno di insegnarti qualcosa. Vieni.Dove, mia bella?Dentro in questo mio oscuro recesso, nella mia liquida cova. Alla faccia degli opinionisti, vieni. Fermati qui, sei arrivato; come dovresti sapere, più in là di qui non c’è niente.No, infatti. E da lì non siamo più andati avanti di un passo. Dove mai saremmo potuti andare? Visto che la ’Nita è gravida. Gravida di segni, gravida di presagi, gravida di prole e di futura umanità: dov’altro andare? Questa notte nemmeno nella stanza di sotto per vedere i risultati delle elezioni presidenziali, semmai solo per spegnere il televisore. Un po’ di silenzio, per cortesia. […]

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