Maurice Druon - I Re Maledetti Vol.02 - La Regina Strangolata

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Nel 1314, alla morte di Filippo il Bello, si scatenano in Francia brame, ambizioni e interessi privati a lungo sopiti. Il debole regno del nuovo, giovane sovrano segna il declino di antiche fortune e uomini potenti, ma soprattutto determina il destino di Margherita di Borgogna, la bella e orgogliosa sposa del re, condannata alla prigione per adulterio… Un romanzo avvincente, una pagina di storia di grande fascino e suggestione scaturita dalla penna sapiente di un insigne e acclamato accademico di Francia.

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MAURICE DRUONde l’Académie française

I RE MALEDETTI(LIBRO II)

LA REGINA STRANGOLATA

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Traduzione di Marina MigliavaccaLa reine étranglée

Copyright © 1955 by Editions MondialesCopyright © 1966 by Maurice Druon,Librairie Plon et Editions Mondiales© Sperling & Kupfer Editori S.p.A.

I edizione Sperling Paperback s.r.l. Febbraio 1994

ISBN 88-7824-352-386-I-94

Scan e Rielaborazionedi Purroso

RINGRAZIAMENTIL’Autore desidera esprimere la propria più viva riconoscenza a Pierre de Lacretelle, Georges Kessel, Christiane Grémillon, Madeleine Marignac, Gilbert Sigaux e José-André Lacour per la loro preziosa assistenza nell’elaborazione di questo libro e ringraziare la Biblioteca Nazionale e gli Archivi Nazionali di Parigi per l’indispensabile sostegno alle ricerche effettuate.

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«La storia di quest’epocasta tutta nella lotta all’ultimo sangue

tra il legista e il signore feudale.»MICHELET

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PROLOGO

Il 29 novembre 1314, due ore dopo il vespero, ventiquattro messaggeri a cavallo con la livrea francese uscirono al galoppo dal castello di Fontainebleau. La neve imbiancava i sentieri della foresta; il cielo era più scuro della terra. Annottava già; anzi, a causa d’una eclissi era buio dal giorno prima.

I ventiquattro messaggeri non si sarebbero concessi una sosta fino al mattino e avrebbero galoppato ancora tutto il giorno seguente e i giorni dopo, chi verso la Fiandra, chi verso l’Angumese e la Guienna, chi verso Dole en Comté, chi verso Rennes e Nantes, chi verso Tolosa, Lione, Aigues-Mortes, svegliando strada facendo balivi e siniscalchi, prevosti, scabini, capitani, per annunciare a ogni borgo e ogni città che il re Filippo il Bello era deceduto.Da ogni campanile le campane suonavano a morto; una grande ondata sonora,

sinistra, si allargava fino a raggiungere ogni confine.Dopo ventinove anni di governo senza cedimenti, il Re di ferro era morto,

colpito al cervello. Aveva quarantasei anni. Meno di sei mesi prima era morto il guardasigilli Guillaume de Nogaret; e sette mesi prima, il papa Clemente V. Così sembrava avverarsi la maledizione lanciata il 18 marzo dall’alto del rogo dal gran maestro dei Templari, il quale li aveva citati tutti e tre dinanzi al tribunale divino entro un anno.

Sovrano tenace, altero, intelligente e riservato, il re Filippo aveva regnato dominando il suo tempo così bene che si aveva l’impressione, quella sera, che il cuore del regno avesse cessato di battere.

Ma le nazioni non muoiono mai della morte degli uomini, per grandi che essi siano stati; la loro nascita e la loro scomparsa obbedisce a ben altre logiche.

Il nome di Filippo il Bello avrebbe potuto risplendere nella notte dei tempi soltanto al riflesso delle fiamme dei roghi sui quali quel monarca gettava i suoi nemici, allo scintillio delle monete d’oro che faceva stronzare. Si sarebbe presto dimenticato che re Filippo era riuscito a dominare i potenti, a mantenere la pace il più possibile, a riformare le leggi, a costruire fortezze, a unificare province, a raccogliere in assemblea i borghesi, a curare soprattutto l’indipendenza della

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Francia.Non appena la sua mano fu fredda, non appena la sua grande volontà si fu

spenta, interessi privati, ambizioni deluse, rancori, brama di onori, potenza, ricchezza, da sempre repressi e contrastati, si sarebbero prontamente scatenati.

Due gruppi si accingevano a combattere senza misericordia per la conquista del potere: da una parte, la reazione feudale guidata da Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello; dall’altra, le alte cariche amministrative con alla testa Enguerrand de Marigny, coadiutore del defunto re.

Per evitare il conflitto che andava preparandosi da mesi o per poterlo almeno arbitrare ci sarebbe voluto un sovrano forte. Il venticinquenne principe che saliva al trono, Luigi di Navarra, era tanto inadatto a portare la corona quanto sfortunato. Portava l’onere di una reputazione di marito tradito e il triste soprannome di Attaccabrighe.

La vita di sua moglie, Margherita di Borgogna, imprigionata per reato di adulterio, sarebbe divenuta una sorta di posta per le due fazioni rivali.

Ma le conseguenze della lotta sarebbero ricadute anche su coloro che non possedevano niente, non potevano incidere sugli avvenimenti e nemmeno cose impossibili… Come se tutto ciò non fosse bastato, l’inverno del 1314-1315 prometteva di essere un inverno di carestia.

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PARTE PRIMA

L’INIZIO DI UN REGNO

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I • CHÂTEAU-GAILLARD

Posto su di uno sperone roccioso sopra l’abitato del Petit-Andelys,

Château-Gaillard dominava tutta la Haute-Normandie.In quel punto la Senna descrive una larga ansa nelle fertili praterie; Château-

Gaillard sorvegliava dieci leghe1 di fiume, a valle e a monte.Era stato Riccardo Cuor di Leone a farlo erigere, centovent’anni prima, a onta

dei trattati, per sfidare il re di Francia. Vedendolo terminato, ritto sulla faglia, a seicento piedi2 di altezza, tutto bianco, fatto di pietra appena tagliata, con le sue due cinte, le fortificazioni, le saracinesche, i merli, i barbacani, le tredici torri, il grosso torrione, Riccardo aveva esclamato: «Ah! Mi sembra davvero un castello imponente (un château bien gaillard)!»

E la fortezza era stata chiamata così, Château-gaillard. Era stato previsto tutto, nelle difese di quel gigantesco esempio di architettura militare: l’assalto, l’attacco frontale e laterale, l’investimento, la scalata, l’assedio, proprio tutto, insomma, tranne il tradimento.

A sette anni dalla sua costruzione, la fortezza cadeva nelle mani di Filippo Augusto nell’epoca in cui il re stava togliendo al sovrano inglese il ducato di Normandia.

Da allora Château-Gaillard era stato utilizzato più come prigione che come teatro di guerra. Il potere vi rinchiudeva gli avversari che lo stato non poteva lasciare in libertà ma nemmeno poteva mettere a morte per non rischiare di suscitare disordini o creare conflitti con altre potenze. Chi superava il ponte levatoio della fortezza, aveva poche probabilità di rivedere il mondo.

I corvi gracchiavano il giorno intero sotto i tetti; di notte i lupi si avventuravano fin sotto le mura a ululare alla luna.Nel novembre del 1314 Château-Gaillard, i suoi bastioni e l’intera guarnigione

di arcieri avevano l’unico scopo di tenere sotto sorveglianza due donne, una di

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ventun anni, l’altra di diciotto, Margherita e Bianca di Borgogna, principesse di Francia, nuore di Filippo il Bello, condannate alla reclusione perpetua per delitto di adulterio.

Era l’ultimo giorno del mese, all’ora della messa.La cappella era situata entro la seconda cinta, costruita sulla roccia. Era buia,

fredda; i muri disadorni stillavano umidità.Vi erano disposti soltanto tre sedili, due a sinistra destinati alle principesse, uno

a destra per il comandante della fortezza, Robert Bersumée.Dietro, gli armati stavano in piedi, schierati, con l’aria annoiata e indifferente,

come se fossero stati riuniti lì per la corvée del foraggio. La neve rimasta attaccata alle suole fondeva sul pavimento in fiocchi giallastri.

Il cappellano tardava a iniziare la funzione. Volgendo le spalle all’altare, fregava le dita irrigidite dalle unghie scheggiate. Con ogni evidenza, un imprevisto aveva turbato in qualche modo il suo solito, pio trantran.

«Fratelli», esordì, «quest’oggi dovremo innalzare le nostre preghiere con fervore e solennità particolari.»

Si schiarì la voce ed esitò ancora, turbato dall’importanza di quanto stava per annunciare.

«Il Signore Iddio ha chiamato a sé l’anima del nostro amatissimo sovrano Filippo. È un grave lutto per tutto il regno…»

Le due principesse girarono l’una verso l’altra il viso stretto nel soggolo di rozza tela grigia.

«Che coloro i quali gli hanno fatto torto o l’hanno offeso si pentano», proseguì il cappellano. «Che coloro i quali gli serbavano rancore da vivo implorino ora per lui la misericordia della quale ogni uomo che muore, potente o umile, ha egualmente bisogno dinanzi al tribunale di nostro Signore…»

Le due principesse erano cadute in ginocchio, abbassando la testa per nascondere la gioia. Non sentivano più il freddo, non sentivano più l’angoscia, l’infelicità del loro stato. Erano investite da un’immensa ondata di speranza; e se, in silenzio, si rivolgevano a Dio, era per ringraziarlo di averle liberate dal terribile suocero. Dopo sette mesi (e cioè da quando erano state rinchiuse nella fortezza) il mondo di fuori mandava loro per la prima volta una buona notizia.

In fondo alla cappella, gli arcieri si agitavano, sussurravano, muovevano i piedi.«Daranno a ciascuno di noi un soldo d’argento?»«Per via della morte del re?»«È l’uso, mi hanno detto.»«Ma no, non perché è morto; per la consacrazione del nuovo re, semmai.»

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«E adesso come si chiama, il re?»«Chissà se farà la guerra, così andremo un po’ in giro.»Il capitano della fortezza si voltò e disse loro con voce dura: «Pregate!»La novità gli poneva non pochi problemi. La più vecchia delle sue due

prigioniere era la moglie del principe che sarebbe divenuto re. E adesso sono il custode della regina di Francia, rifletteva il capitano.

Essere il carceriere di personaggi di sangue reale non è stata mai una situazione invidiabile. Robert Bersumée aveva passato i momenti più brutti della sua vita proprio a causa di quelle due condannate che gli erano state affidate verso la fine d’aprile, i capelli rasati, portate fin lì su carri coperti di teli neri e sotto la scorta di cento arcieri. Due donne giovani, troppo giovani per non muovere chiunque a compassione… e belle, troppo belle, anche nei loro informi abiti di bigello, per non toccare il cuore a chi avesse avuto la ventura di frequentarle, giorno dopo giorno, per sette lunghi mesi… Se avessero sedotto un sergente della guarnigione, se fossero evase, o se una di loro avesse finito con l’impiccarsi o magari con l’ammalarsi senza rimedio, oppure ancora se la fortuna avesse girato, be’, sarebbe stato comunque lui, Bersumée, a trovarsi dalla parte del torto, rimproverato per eccesso di debolezza o di severità; e in tutti i casi quell’incarico non gli sarebbe stato di nessuna utilità in vista di un possibile avanzamento di carriera. E dal canto suo non era più entusiasta delle sue prigioniere all’idea di finire i suoi giorni in quella fortezza spazzata dai venti, infradiciata dalle brume, costruita per ospitare duemila soldati e che adesso aveva finito con l’averne solo centocinquanta, sopra quella vallata della Senna per la quale la guerra non passava più da un sacco di tempo.

La funzione continuava, ma nessuno pensava a Dio né al re: erano tutti troppo occupati a pensare a se stessi.

«Requiem aeternam dona ei Domine…» cominciò il cappellano.Domenicano in disgrazia che la sorte avversa e una spiccata predilezione per il

vino avevano condotto alla desolazione di quel carcere, il cappellano, intanto che pregava, si chiedeva se il nuovo regno non avrebbe in qualche modo modificato il suo destino. Decise di non bere più per una settimana, tanto per tirare la Provvidenza dalla sua e prepararsi per ogni favorevole evenienza.

«Et lux perpetua luceat ei», rispondeva il comandante. E intanto pensava: Non possono muovermi alcun appunto. Non ho fatto altro che eseguire gli ordini ricevuti, senza incrudelire.

«Requiem aeternam…» ricominciava il cappellano.«Allora ci daranno del vino, anche?» borbottava il soldato Gros-Guillaume al

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sergente Lalaine.Quanto alle due prigioniere, si limitavano a muovere le labbra, ma non osavano

pronunciare alcuna formula di risposta: le loro voci sarebbero suonate troppo alte e troppo felici.

Certo quel giorno nelle chiese di Francia molta gente si era raccolta a piangere re Filippo. Almeno, erano tutti convinti di piangerlo. In realtà l’emozione, anche in questo caso, era solo un’occasione come un’altra per impietosirsi su se stessi. Si asciugavano gli occhi, tiravano su con il naso, scuotevano la testa, perché con Filippo il Bello era il loro tempo e passare, la loro vita, tutti gli anni trascorsi sotto il suo scettro, quasi un terzo di secolo del quale il nome del sovrano sarebbe rimasto il simbolo. Pensavano alla loro giovinezza, si rendevano conto di quanto erano invecchiati, d’improvviso l’indomani si profilava incerto ai loro occhi. Anche quando muore, un re rimane per gli altri una figura emblematica, un simbolo.

Terminata la messa, Margherita di Borgogna passò davanti al comandante della fortezza dirigendosi verso l’uscita e gli disse: «Signore, vorrei parlarvi di cose importanti che vi riguardano».

Bersumée si sentiva agitato ogni volta che Margherita gli parlava, lo guardava negli occhi.

«Sarò da voi, signora, appena terminata la ronda», rispose.Ordinò al sergente Lalaine di portar via le prigioniere, consigliandogli a bassa

voce di raddoppiare i riguardi e la cautela.La torre nella quale Margherita e Bianca erano rinchiuse consisteva di tre

camere tonde poste l’una sopra l’altra e identiche, una per piano, ciascuna con il suo camino e il soffitto a volta. Le stanze erano collegate da una scala a chiocciola scavata nel muro. Un gruppo di guardie occupava stabilmente il pianterreno. Margherita alloggiava nella stanza al primo piano, Bianca in quella del secondo. La notte, le principesse erano separate da porte massicce chiuse con catenacci. Di giorno potevano stare insieme liberamente.

Dopo che il sergente le ebbe riaccompagnate, attesero che cardini e paletti stridessero in fondo ai gradini. Poi si guardarono in viso e corsero l’una verso l’altra contemporaneamente, gridando: «È morto, è morto!»

Si abbracciavano, ridevano, ballavano e piangevano contemporaneamente, gridando: «È morto!»

Si strapparono i soggoli di tela scoprendo i capelli corti di sette mesi.«Uno specchio! La prima cosa che voglio è uno specchio», esclamò Bianca,

come se la dovessero liberare lì per lì e lei non avesse altro in mente all’infuori del proprio aspetto.

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Margherita aveva una testolina di riccioli neri, fitti e crespi. I capelli di Bianca erano cresciuti disordinatamente in ciocche ruvide e pallide, come stoppa. Le due donne si passarono istintivamente le dita sulla nuca.

«Pensi che potrò tornare a essere graziosa come una volta?» chiese Bianca.«Come devo essere invecchiata, perché tu mi faccia una domanda del genere!»

rispose Margherita.Ciò che le due principesse avevano subito dalla primavera, il dramma di

Maubuisson, il giudizio del re, l’orrendo supplizio cui i loro amanti erano stati sottoposti sotto i loro stessi occhi sulla piazza di Pontoise, le grida volgari della folla e poi quei mesi di fortezza, con la canicola dell’estate che surriscaldava le pietre e il freddo glaciale da che era giunto l’autunno, il vento che gemeva senza tregua facendo cigolare il legno, la nera zuppa di grano saraceno che costituiva il loro pasto, le camicie ruvide come crine che venivano loro cambiate ogni due mesi soltanto, i giorni interminabili dietro una finestra stretta come una feritoia e attraverso la quale, in qualunque maniera ci si ponesse, si poteva scorgere soltanto l’elmo di un arciere invisibile che andava su e giù per il cammino di ronda… tutto ciò aveva troppo modificato il carattere di Margherita per non segnarle anche il volto.

Bianca, con i suoi diciott’anni e quella strana leggerezza che la faceva passare da un momento all’altro dalla desolazione all’esaltazione delle più insensate speranze, Bianca che poteva smettere di colpo di singhiozzare perché un uccello cantava dall’altra parte del muro e gridare, meravigliata: «Margherita, senti? Un uccellino!» Bianca che credeva ai presagi, tutti i presagi, che sognava di continuo, come altre donne ricamano, Bianca, forse, se l’avessero fatta uscire da quel carcere, avrebbe ritrovato il suo colorito, il suo sguardo, il suo cuore di una volta; Margherita, mai più.

Dall’inizio della sua prigionia non aveva versato una lacrima, non aveva espresso un pensiero di rimorso. Il cappellano che la confessava ogni settimana era spaventato dalla durezza della sua anima.

Mai, neanche per un momento, Margherita si era riconosciuta responsabile della sua disgrazia; mai, neanche per un momento, aveva ammesso che, come nipote di san Luigi, figlia del duca di Borgogna, regina di Navarra e futura regina di Francia, diventare l’amante di uno scudiero poteva essere un gioco pericoloso, deplorevole, e che poteva costare l’onore e la libertà. Si giustificava con il fatto di essere sposata a un uomo che non amava.

Non si rimproverava di aver rischiato; odiava i suoi avversari, era soltanto contro di loro che volgeva le sue inutili collere: contro la cognata d’Inghilterra che

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l’aveva denunciata, contro la sua famiglia di Borgogna che non l’aveva difesa, contro il regno e le leggi, contro la Chiesa e i suoi comandamenti. E quando sognava la libertà, sognava anche la vendetta.

Bianca le mise le braccia intorno al collo.«Sono sicura, amica mia, che le nostre disgrazie sono terminate.»«Sì», rispose Margherita, «a patto che noi agiamo con intelligenza e

prontezza.»Aveva in mente un progetto ancora impreciso nato durante la messa e che non

sapeva dove l’avrebbe condotta. In ogni caso, voleva trarre profitto dalla situazione.

«Devi lasciarmi parlare a quattr’occhi a quel grande stupido di Bersumée, anche se preferirei vedere la sua testa in cima a una picca, piuttosto che sulle sue spalle», disse.

Un momento dopo, le due donne sentirono che stavano aprendo le porte. Rimisero i loro soggoli. Bianca andò a porsi nel vano della stretta finestra, Margherita prese posto sullo sgabello, l’unico sedile del quale disponeva. Il capitano della fortezza fece il suo ingresso.

«Sono qui, signora, dal momento che me l’avete chiesto», esordì.Margherita esitò, lo squadrò dalla testa ai piedi e disse: «Signor Bersumée,

sapete chi state custodendo, ormai?»Bersumée distolse lo sguardo come se stesse cercando qualche cosa lì intorno.«Lo so, signora, lo so», rispose, «e continuo a pensarci da quando stamattina

sono stato destato dal messaggero che dirigeva verso Criqueboeuf e Rouen.»«Da sette mesi sono rinchiusa qui; non ho biancheria, non ho mobili, non ho

tovaglie, mangio la stessa zuppa dei vostri arcieri e ho soltanto un’ora di fuoco al giorno.»

«Ho obbedito agli ordini del signor de Nogaret, signora», rispose Bersumée.«Guillaume de Nogaret è morto.»«Mi aveva trasmesso gli ordini del re.»«Re Filippo è morto.»Intuendo dove Margherita voleva arrivare, Bersumée replicò: «Ma il signor de

Marigny è ancora vivo, signora, e comanda la giustizia e le prigioni come tutte le altre cose del regno; e io dipendo interamente da lui».

«Il messaggero di stamattina non vi ha dunque recato nuovi ordini?»«Nessuno, signora.»«Non tarderete a riceverne.»«Li sto aspettando, signora.»

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Robert Bersumée sembrava più vecchio dei suoi trentacinque anni. Aveva quell’aria burbera e sul chi vive che assumono spesso i soldati di carriera e che a forza di venir simulata diventa loro naturale. Per il servizio ordinario nella fortezza, portava un berretto di pelo di lupo e una vecchia cotta di maglia un po’ troppo larga e sporca di unto e che gli fluttuava intorno alla cintura. Le sopracciglia si congiungevano sopra il naso.

All’inizio della prigionia, Margherita gli si era offerta quasi apertamente, nella speranza di farsene un alleato. Lui aveva eluso i suoi tentativi più per prudenza che per virtù, ma serbava rancore a Margherita per il brutto ruolo che lo aveva costretto a giocare. Oggi si chiedeva se quella saggia condotta gli sarebbe valsa, a livello personale, favore o rappresaglia.

«Tutto ciò non mi ha fatto per niente piacere, signora», continuò. «Dover trattare così delle donne… e di alto rango come voi.»

«Lo immagino signore, lo immagino», rispose Margherita, «poiché si capisce che voi siete un cavaliere e le cose che vi hanno ordinato di fare hanno dovuto per forza suscitare la vostra ripugnanza.»

Il comandante della fortezza era un plebeo, sentirsi chiamare cavaliere gli fece un certo piacere.

«Il fatto è, signore», proseguì la prigioniera, «che sono stanca di masticare del legno per conservarmi i denti bianchi e ungermi le mani con il lardo della zuppa perché la pelle non mi si rompa per il freddo.»

«Capisco, signora, capisco.»«E vi sarei grata se non mi esponeste più al gelo, alla malattia, e alla fame.»Bersumée abbassò la testa. «Non ho ordini in proposito, signora.»«Sono qui soltanto per l’odio che re Filippo nutriva verso di me e la sua morte

cambierà tutto», replicò Margherita con estrema sicurezza. «Volete aspettare che vi diano ordine di aprirmi le porte per dimostrare qualche riguardo alla regina di Francia? Non credete che questo vorrebbe dire agire stupidamente a detrimento della propria fortuna?»

I soldati sono spesso di natura indecisa ed è ciò che li predispone all’obbedienza e fa loro perdere parecchie battaglie. Bersumée, pur avendo nei confronti dei suoi subordinati l’ingiuria pronta e il pugno lesto, non era gran che portato a prender l’iniziativa di fronte a situazioni impreviste.Tra il risentimento di una donna che a sentir lei sarebbe stata onnipotente già

dall’indomani e la collera del signor de Marigny che era potente oggi, qual era mai il rischio minore?

«Vorrei anche che la signora Bianca e io», proseguì Margherita, «potessimo

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uscire un’ora o due dalla cinta sotto vostra scorta se lo ritenete opportuno, per poter vedere qualcos’altro oltre i merli di questi muri e le picche dei vostri arcieri.»

Ma questo significava voler andare troppo lontano e troppo in fretta. Bersumée intuì l’inganno. Le sue prigioniere cercavano di comunicare con l’esterno e forse persino di scivolargli via tra le dita: quindi non erano così sicure di un loro prossimo ritorno a corte.

«Poiché voi siete regina, signora, comprenderete che sono fedele servitore del regno», dichiarò, «e che non posso infrangere gli ordini che mi sono stati dati.» E se ne andò sui due piedi per evitare di dover discutere ancora.

«È un cane», gridò Margherita non appena fu scomparso, «un cane da guardia che sa soltanto mordere e abbaiare!»

Aveva fatto una mossa falsa e scoppiava di rabbia andando su e giù per la camera rotonda.

Bersumée, da parte sua, non era certo più soddisfatto: bisogna essere pronti a tutto, quando si è il carceriere di una regina, si ripeteva. Ed essere pronto a tutto per un soldato di professione vuol dire prima di tutto esser pronto a un’ispezione.

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II • MONSIGNOR ROBERTO D’ARTOIS

La neve sciolta gocciolava dai tetti. Dappertutto si scopava, dappertutto si

puliva. Il corpo di guardia risuonava di grandi secchiate d’acqua gettate sul pavimento. Si ingrassavano le catene del ponte levatoio, si tirava fuori l’occorrente per far bollire la pece come se la fortezza dovesse essere attaccata da un momento all’altro. Dai tempi di Riccardo Cuor di Leone, Château-Gaillard non aveva mai più conosciuto un bailamme simile.

Temendo una visita imprevista, il comandante Bersumée aveva deciso di mettere la guarnigione in assetto di parata. I pugni sui fianchi e il colletto aperto, andava su e giù per gli accasermamenti, si arrabbiava davanti alle bucce che sporcavano le cucine, indicava furioso con il mento le tele di ragno che pendevano dalle travi, si faceva presentare gli equipaggiamenti al completo. Un arciere aveva perduto la sua faretra. Dov’era quella faretra? E quelle cotte di maglia arrugginite al giromanica? Avanti, che prendessero della sabbia e che strofinassero fino a far brillare tutto quanto!

«Se il signor de Pareilles ci capita fra capo e collo», urlava Bersumée, «non voglio assolutamente mostrargli una truppa di straccioni! Muovetevi!»

E poveretto chi non correva abbastanza in fretta. Il soldato Gros-Guillaume, quello che sperava in una razione di vino supplementare, si prese invece un bel calcio negli stinchi. Il sergente Lalaine era stremato. Sguazzando nel fango nevoso, gli uomini portavano all’interno tanto sporco quanto ne toglievano. Le porte sbattevano. Château-Gaillard sembrava una casa in pieno trasloco. Se le principesse avessero voluto evadere, quello era il momento.

La sera Bersumée non aveva più voce e i suoi arcieri dormicchiavano dietro le feritoie.

Ma quando, due giorni dopo, alle prime ore del mattino, le sentinelle scorsero nel paesaggio bianco lungo la Senna un gruppo di cavalieri che si avvicinava,

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stendardo in testa, sulla strada di Parigi, il comandante della fortezza si congratulò con se stesso delle disposizioni adottate.

Infilò rapidamente la sua cotta di maglia più bella, fissò sugli stivali speroni lunghi una spanna, mise l’elmo di ferro e uscì in cortile. Gli rimaneva qualche istante per osservare con inquieta soddisfazione la guarnigione allineata con le armi luccicanti nella luce lattiginosa dell’inverno.

Almeno non potranno rimproverarmi di aver trascurato il regolamento, si disse, e questo renderà più forte la mia posizione perché io possa lamentarmi dell’esiguità del mio soldo e dei ritardi con cui mi mandano il denaro destinato ai miei uomini.

Già le trombe squillavano in fondo alla faglia rocciosa e si sentivano gli zoccoli dei cavalli risuonare sui sassi.

«Le saracinesche! Il ponte!»Le catene del ponte levatoio vibrarono nelle loro guide e un minuto più tardi

quindici scudieri con le armi reali che circondavano un imponente cavaliere rosso, assiso sulla sua cavalcatura come se impersonasse la propria statua equestre, superavano al galoppo il corpo di guardia per raggiungere la seconda cinta di Château-Gaillard.

È il nuovo re? si chiese Bersumée, precipitandosi a riceverlo. Mio Dio, non sarà di già il re che viene a prendere sua moglie?

Aveva il fiato mozzo per l’emozione. Un momento dopo poté scorgere chiaramente l’uomo dal mantello color sangue di bue che era sceso da cavallo e, gigante di stoffa, di pelliccia, di cuoio e d’argento, si apriva un varco tra gli scudieri. Un intenso vapore biancastro saliva dal manto dei cavalli.

«Servizio del re!» tuonò il gigantesco cavaliere agitando sotto il naso di Bersumée, ma senza lasciargli il tempo di leggere, una pergamena dalla quale pendeva un sigillo. «Sono il conte Roberto d’Artois.»

I convenevoli furono brevi. Monsignor Roberto d’Artois fece piegare Bersumée posandogli la mano sulla spalla per sottolineare quanto fosse poco altero. Poi reclamò del vino caldo per lui e per la sua scorta con una voce che fece girare le sentinelle sui cammini di ronda.Dal giorno prima Bersumée si era preparato a far bella figura, a mostrarsi

governatore perfetto di una fortezza senza macchia, a comportarsi in modo che fosse impossibile non ricordarsi di lui. Aveva preparato persino un bel discorso d’occasione, ma gli restò in gola per sempre. Si sentì balbettare basse adulazioni, si ritrovò invitato a bere il vino che gli veniva chiesto e spinto verso le quattro stanze del suo alloggio, le cui proporzioni parevano all’improvviso rimpicciolire.

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Fino a quel giorno Bersumée si era sempre reputato un uomo piuttosto alto: davanti a quel visitatore, gli sembrava di essere diventato un nano.

«Come stanno le prigioniere?» chiese Roberto d’Artois.«Benissimo, monsignore, stanno benissimo, vi ringrazio», rispose Bersumée

stupidamente, come se gli stessero chiedendo notizie della sua famiglia.E gli andò di traverso il contenuto del bicchiere.Ma già Roberto d’Artois usciva a grandi passi e l’istante dopo Bersumée si

ritrovò a salire dietro di lui la scala della torre dove vivevano le recluse.A un cenno del comandante, il sergente Lalaine aprì i catenacci con dita che

tremavano.Margherita e Bianca aspettavano, in piedi in mezzo alla stanza rotonda. In uno

stesso movimento istintivo, si avvicinarono l’una all’altra e si presero la mano.«Voi, cugino!» disse Margherita.D’Artois si era fermato nel vano della porta che ostruiva completamente.

Socchiuse gli occhi. Dal momento che non rispondeva, troppo occupato a contemplare le due donne, Margherita riprese, con voce subito fattasi più ferma: «Guardateci, sì, guardateci bene, e vedrete in che stato ci hanno ridotte. Almeno avrete uno spettacolo diverso da quelli della corte e dal ricordo che avete di noi. Niente biancheria, niente vestiti, niente da mangiare, persino niente sedie da offrire a un nobile signore come voi!»

Ma sapranno, si chiedeva d’Artois avanzando lentamente nella stanza, sapranno la parte che ho avuto nella loro disgrazia, sapranno di dovere a me la trappola nella quale sono cadute?

«Roberto, è la libertà che ci portate?» gridò Bianca di Borgogna.Si avvicinò al gigante, le mani tese, gli occhi brillanti di speranza.No, non sanno niente, pensò d’Artois. E questo renderà la mia missione più

facile.Si girò di colpo. «Bersumée, non c’è neanche un po’ di fuoco, qui?»«No, monsignore.»«Che si provveda. E niente mobili?»«No, monsignore, gli ordini che ho ricevuto…»«Dei mobili! Che si porti via questo giaciglio, che si metta un letto, delle sedie,

delle tende, dei candelieri. E non dirmi che non ne hai, ho visto tutto il necessario nel tuo alloggio.»

Aveva preso il capitano per il braccio.«E da mangiare», disse Margherita. «Dite al nostro buon guardiano che ci fa

servire un cibo che i porci lascerebbero in fondo al loro trogolo di farci portare

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un pasto degno di questo nome, finalmente.»«E da mangiare certo, cugina!» disse d’Artois. «Dei pasticci e degli arrosti, delle

verdure fresche, delle pere, delle confetture e del vino, Bersumée, molto vino!»«Ma, monsignore…» gemette il capitano.«Hai capito? Te ne sarò grato!» tagliò corto d’Artois, spingendolo fuori.Chiuse l’uscio con un colpo di stivale.«Care cugine», riprese, «mi attendevo di peggio, in verità, ma vedo con sollievo

che questo triste soggiorno non ha nemmeno scalfito i due più bei visi di Francia.»

«Possiamo ancora lavarci», disse Margherita. «Abbiamo acqua a sufficienza.»D’Artois era seduto sullo sgabello e continuava a osservare le prigioniere. Ah,

colombelle mie, si diceva, ecco che cosa succede a volersi procurare doti da regine a spese dell’eredità di Roberto d’Artois! Cercava di indovinare se sotto il bigello dei loro vestiti i corpi delle due giovani donne avevano perduto le belle curve di un tempo. Somigliava a un grosso gatto che si apprestasse a giocare con dei topolini in gabbia.

«Margherita», chiese all’improvviso, «come sono i vostri capelli? Hanno potuto crescere bene di nuovo?» Margherita di Borgogna sussultò come se l’avessero punta.

«In piedi, monsignor d’Artois!» esclamò con una voce piena di collera. «Anche nello stato in cui mi trovate qui, non tollero che un uomo stia seduto in mia presenza quando io non lo sono!»

Lui si rialzò lentamente, tolse il berretto e si inchinò con un ampio gesto ironico. Margherita si girò verso la finestra. Nella lama di luce che ne proveniva Roberto poté distinguere meglio il viso della sua vittima. I lineamenti avevano conservato la loro bellezza; ma ogni dolcezza era scomparsa. Il naso era più sottile, gli occhi più infossati. Le fossette che la primavera prima si delineavano nelle guance ambrate erano diventate piccole rughe. Bene, si disse d’Artois, ha conservato la sua aggressività. Il gioco sarà soltanto più divertente. Gli piaceva dover lottare per vincere.

«Cugina», disse con finta bonomia, «non avevo assolutamente intenzione di offendervi, mi fate torto. Voglio soltanto sapere se i vostri capelli sono lunghi abbastanza perché voi possiate ripresentarvi al mondo.» Margherita non poté frenare un sussulto di gioia. …Ripresentarmi al mondo… vuol dire che sto per uscire di qui? È la grazia? Viene dal trono? No, non può essere questo, me lo avrebbe detto subito… Pensava troppo in fretta e si sentiva vacillare.

«Roberto», disse, «non fatemi languire. Non siate crudele. Che cosa siete

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venuto a dirmi?»«Cugina mia, sono venuto a portarvi…»Bianca lanciò un grido e Roberto pensò che sarebbe svenuta. Aveva lasciato la

frase in sospeso.«…un messaggio», concluse. Si divertì a vedere afflosciarsi le spalle delle due

donne e a sentire i due sospiri di delusione.«Un messaggio di chi?» chiese Margherita.«Di Luigi, vostro marito, nostro re, ormai. E del nostro buon cugino

monsignor di Valois, ma posso parlarne con voi sola. Bianca può ritirarsi?»«Certo», disse Bianca docile, «me ne vado, ma prima, cugino, ditemi… Carlo,

mio marito?»«La morte di suo padre lo ha fatto molto soffrire.»«E di me… che cosa pensa? Parla mai di me?»«Credo che vi rimpianga, anche se ha molto sofferto per voi. Da Pontoise, non

lo si è più visto allegro come un tempo.»Bianca si sciolse in lacrime.«Credete», chiese, «che vorrà concedermi il perdono? Dite, lo credete

possibile?»«Questo dipende molto da vostra cugina», rispose d’Artois, indicando

Margherita.Andò ad aprire la porta, seguì Bianca con lo sguardo finché non la vide salire

al secondo piano e richiuse l’uscio. Poi andò a sistemarsi su uno stretto sedile di pietra murato nel fianco del camino dicendo: «Permettete, adesso, cugina mia?… Bisogna prima di tutto che vi metta al corrente delle cose di corte e di quello che sta succedendo in questo momento».

La corrente d’aria fredda che veniva dalla cappa lo indusse a rialzarsi.«È vero che si gela, qui», riconobbe.E andò a risistemarsi sullo sgabello mentre Margherita sedeva con le gambe

piegate sul pagliericcio che le serviva da letto. D’Artois riprese: «Dagli ultimi giorni d’agonia di re Filippo, Luigi, vostro marito, sembra in piena confusione. Destarsi da re quando si è dormito da principe richiede un periodo d’adattamento. Il suo trono di Navarra l’occupava soltanto di nome e tutto andava avanti senza di lui. Voi mi direte che Luigi ha venticinque anni e a quest’età si può ben regnare, ma sapete quanto me che il giudizio, sia detto senza offesa, non è la sua qualità principale. Dunque in questo primo periodo suo zio Carlo di Valois lo segue in tutto e dirige gli affari del regno con Enguerrand de Marigny. Il problema è che queste due menti eccezionali non si amano e fraintendono quello che l’uno dice

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all’altro. È evidente che presto non si intenderanno più del tutto e allora non si potrà andare avanti, perché il carro del reame non può essere tirato da due cavalli che non vanno d’accordo!»

D’Artois aveva cambiato completamente tono; parlava seriamente, chiaramente. E questo stava a dimostrare che le sue turbolenze erano più che altro tutta commedia.

«Per quanto mi riguarda, lo sapete», riprese, «non mi piace affatto Enguerrand, che è riuscito a farmi molto male, e sostengo di tutto cuore mio cugino Valois di cui sono amico e alleato.» Margherita si sforzava di comprendere quegli intrighi nei quali d’Artois la risospingeva all’improvviso. Non era più al corrente di niente e le sembrava di uscire da un lungo sonno della mente.

«Luigi mi odia sempre?»«Oh, sì, non ve lo nascondo, vi odia, eccome. Riconoscerete che ne ha ben

motivo, il paio di corna del quale gli avete ornato la testa è molto fastidioso volendoci porre sopra la corona di Francia. Guardate, cugina, che se avessero fatto a me una cosa del genere, non avrei tollerato di diventare la favola di tutto il regno e mi sarei comportato in modo da poter vendicare il mio onore. Ma tutto sommato vostro marito e il defunto re vostro suocero hanno giudicato altrimenti e le cose sono a questo punto.» Aveva una bella faccia tosta a deplorare lo scandalo del quale era stato il principale artefice. Proseguì: «La prima idea di Luigi, non appena è morto suo padre, e la sola che abbia in testa per il momento, è di togliersi dagli impicci nei quali si trova per colpa vostra e cancellare l’onta della quale l’avete coperto».

«E che cosa vuole Luigi?» chiese Margherita.D’Artois sollevò la gamba gigantesca e batté due o tre volte il tacco sul

pavimento.«Vuole chiedere l’annullamento del vostro matrimonio», rispose, «e come

vedete spera che sia una cosa rapida: non ha perso tempo a spedirmi qui.»Così non sarei mai la regina di Francia, pensò Margherita. I sogni insensati nei

quali si era cullata il giorno prima erano già svaniti. Un giorno di sogno per sette mesi di prigione… e per tutta la vita!

In quel momento due soldati carichi di legna e di fascine entrarono e accesero il fuoco.

Non appena furono usciti, Margherita tese avidamente le mani verso le fiamme che si levavano, color geranio, sotto la grande cappa di pietra. Restò in silenzio per qualche istante, lasciando che il calore benefico le penetrasse nelle ossa, la scaldasse almeno un poco.

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«Ebbene», disse alla fine con un sospiro, «che chieda l’annullamento, io che ci posso fare?»

«Eh, cugina mia, potete fare parecchio invece e si pensa che siate disposta a qualche dichiarazione che non vi costerebbe gran che. L’adulterio non è motivo sufficiente per l’annullamento, è assurdo ma è così. Potreste aver avuto cento amanti invece che uno, potreste esservi sollazzata in un bordello e ciò non di meno sareste indissolubilmente sposata all’uomo al quale siete stata unita davanti a Dio. Chiedete pure al cappellano o a chi vi pare, io stesso mi sono fatto spiegare queste cose perché non ne so molto di diritto canonico. Un matrimonio non si può rompere e se lo si vuole cancellare bisogna provare che c’era un impedimento nel momento in cui è stato contratto, oppure che non è stato consumato, mi seguite?»

«Sì, sì, vi capisco», rispose Margherita.«Allora, ecco», riprese il gigante, «quello che monsignor di Valois ha pensato

per togliere Luigi dagli impicci.»Esitò, si schiarì la voce. «Voi accettate di riconoscere che vostra figlia Giovanna

non è di Luigi; dichiarate che dal punto di vista fisico vi siete sempre negata a vostro marito e che quindi non c’è stato un vero matrimonio. Dite tutto questo in maniera ufficiale davanti a me e davanti al cappellano che controfirma; si troverà senza problemi in mezzo ai vostri ex servitori o amici qualche testimone compiacente per certificare la cosa. In questo modo il legame non può essere difeso e l’annullamento sarà automatico.»

«E che cosa mi si offre in cambio?»«In cambio?» ripeté d’Artois. «In cambio, cugina mia, vi si offre di essere

condotta in qualche convento del ducato di Borgogna finché l’annullamento non sia stato pronunciato e in seguito di vivere dove vi piacerà o dove piacerà alla vostra famiglia.»

Sulle prime Margherita fu lì lì per rispondere: accetto, dichiaro e firmo tutto quello che volete, a condizione che mi facciate uscire da qui. Ma poi vide che d’Artois la spiava sotto le palpebre semiabbassate sugli occhi grigi con una durezza che non andava per niente d’accordo con il tono bonario che si sforzava di assumere. Io firmerò, pensò lei, e mi terranno in prigione lo stesso. Dal momento che le venivano a proporre uno scambio, significava che avevano bisogno di lei.

«Questo significa chiedermi di dire una grossa bugia», osservò.D’Artois scoppiò a ridere. «Eh, cugina mia! Ne avete detta anche qualche altra,

mi sembra, e senza farvi troppi scrupoli!»

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«Può anche darsi che io sia cambiata, che mi sia pentita. Voglio riflettere, prima di decidere.»

Roberto d’Artois fece una strana smorfia, torcendo le labbra a destra e a sinistra.

«E va bene», disse, «ma riflettete in fretta, perché devo essere a Parigi dopodomani mattina per la messa solenne dei funerali del re Filippo a Notre-Dame: ventitré leghe da percorrere su queste strade nelle quali si affonda di due spanne nel fango. Il giorno finisce presto e si leva tardi, non posso star qui a gingillarmi. Vado a dormire un’oretta e poi tornerò per mangiare con voi. Non sia mai detto che vi lasci sola, cugina mia, il primo giorno nel quale potrete pranzare come si deve. E nel frattempo avrete deciso nel modo migliore, ne sono sicuro!»

Uscì deciso e quasi investì sulle scale l’arciere Gros-Guillaume che saliva tutto sudato e curvo sotto un enorme cofano. Altri mobili si ammucchiavano in fondo ai gradini.

D’Artois si infilò nell’alloggio saccheggiato del comandante della fortezza e si gettò sul solo letto rimasto.

«Bersumée, amico mio, che il pranzo sia pronto tra un’ora», ordinò. «Chiama il mio valletto Lormet che dev’essere insieme con gli scudieri, perché venga a vegliare il mio sonno.» Quel gigante non temeva niente se non di offrirsi inerme ai suoi nemici mentre dormiva e a ogni paggio o baccelliere preferiva come guardia il servitore traccagnotto, quadrato, grigio di capelli che lo seguiva dappertutto e lo serviva in tutto, abile tanto a procurargli delle ragazze che a pugnalare in silenzio un importuno, se qualche faccenda si metteva male in una taverna. Con quell’aria maliziosa che ingannava a meraviglia gli sciocchi, assai più pericoloso di quanto non paresse dal suo aspetto, Lormet era una spia eccellente. Quando gli domandavano per quale motivo nutrisse tanto attaccamento per monsignor Roberto, lui, le guance tonde attraversate da un sorriso al quale mancavano tre denti, rispondeva: «Perché da ciascuno dei suoi vecchi mantelli io posso ricavarne due».

Non appena Lormet fu entrato, Roberto chiuse gli occhi e si addormentò di colpo a braccia aperte e gambe allargate, il ventre che si sollevava nel suo respiro d’orco.

Lormet sedette su uno sgabello, la daga posata di traverso sulle ginocchia, e si mise a vegliare il sonno del gigante.

Un’ora più tardi Roberto d’Artois si svegliò da solo, si stirò come una grossa tigre e si raddrizzò, riposato di corpo e fresco di spirito.

«E adesso tocca a te dormire, mio buon Lormet», disse. «Ma prima vammi a

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chiamare il cappellano.»

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III • L’ULTIMA POSSIBILITÀ DI ESSERE REGINA

Il domenicano in disgrazia arrivò subito, tutto agitato all’idea di esser stato

mandato a chiamare da un così importante nobiluomo.«Fratello», disse d’Artois, «voi conoscete bene Margherita, dal momento che la

confessate. Qual è il suo punto debole?»«La carne, monsignore», rispose il cappellano abbassando gli occhi con

modestia.«Bella novità davvero! Ma c’è qualche particolare sentimento sul quale far

pressione per indurla a capire certe cose che sono nel suo interesse come in quello del regno?»

«Non so, monsignore, non mi pare. Non vedo niente che possa indurla a cedere, salvo il punto che vi ho detto. Questa principessa ha l’anima temprata come una spada di acciaio e anche la prigione non ne ha smussato il filo. Ah, non è affatto una penitente facile, credetemi!» Le mani nelle maniche, la fronte abbassata, si sforzava di mostrarsi contemporaneamente preparato e pio. Non si era rasato di recente e la tonsura sopra la corona di capelli era coperta da una corta peluria beige. La fronte bianca era segnata dalle macchie di vino lavate via in qualche modo.

D’Artois restò in silenzio per un istante, fregandosi la guancia, perché la tonsura del cappellano gli faceva venire in mente la barba che cominciava a crescergli.

«E per quanto riguarda il punto che mi avete detto», riprese, «che cos’ha trovato qui per soddisfare… la sua debolezza, dal momento che voi così chiamate

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questo tipo di forza?»«Che io sappia, niente, monsignore.»«E Bersumée non le fa mai delle visite un po’ troppo lunghe?»«Mai, monsignore, posso garantirlo», esclamò il cappellano.«E con voi?»«Oh, ma monsignore!»«Andiamo, andiamo!» disse d’Artois. «Non è la prima volta. Conosco più d’uno

dei vostri confratelli che, tolto il saio, si sente un uomo come un altro. Da parte mia, non ci vedo niente di particolarmente scandaloso. Anzi, a dirvi la verità ci vedrei piuttosto motivo di lode… e con sua cugina? Le due dame non si consolano un po’ tra di loro?»

«Monsignore!» esclamò il cappellano, simulando sempre di più un pio sgomento. «È un segreto di confessione che voi mi domandate di svelare, adesso!» D’Artois gli diede uno spintone amichevole. «Su, su, cappellano, non scherzate! Se vi hanno destinato a questa prigione, non è per conservare dei segreti, ma per ripeterli a chi di dovere!»

«Né Margherita né Bianca si sono mai accusate con me di essere colpevoli di niente del genere se non in sogno», disse il cappellano abbassando gli occhi.

«Il che non prova che sono innocenti, ma semmai che sono prudenti. Sapete scrivere?»

«Certo, monsignore.»«Bah!» fece d’Artois con un’aria stupita. «Allora non tutti i monaci sono quegli

ignorantoni che si dice!… Dunque, fratello mio, andate a prendere della pergamena, delle penne e tutto il necessario per buttar giù una lettera. E state al pian terreno della torre delle principesse, pronto a salire quando vi chiamerò.»

Il cappellano si inchinò. Voleva dire ancora qualcosa, ma d’Artois, avvolgendosi nel suo mantello scarlatto, era già uscito. Il cappellano lo rincorse.

«Monsignore, monsignore», disse con una voce piena di ossequio, «avreste la grande bontà, se non è offensivo avanzare una simile richiesta, avreste l’immensa bontà…»

«Che cosa? Che bontà?»«Be’, monsignore, di dire a fratello Renaud, il grande inquisitore, se vi capita di

vederlo, che io sono sempre suo figlio obbedientissimo… e anche che non mi dimentichi per troppo tempo in questo castello fortificato dove io servo meglio che posso nel luogo in cui Dio mi ha posto… Ma ho qualche merito, monsignore, come avete potuto vedere, e mi auguro di potere avere impiego altrove.»

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«Ci penserò, glielo dirò», rispose d’Artois, già deciso a non fare assolutamente niente.

Nella camera di Margherita le due principesse terminavano la loro toilette. Si erano lavate con calma davanti al fuoco, assaporando quel piacere dimenticato. I capelli corti erano ancora imperlati di goccioline. Avevano appena indossato grandi camicie bianche, rigide di amido, troppo larghe e chiuse al collo con un nastrino. Quando la porta si aprì, le due donne ebbero lo stesso istintivo movimento, arretrando pudiche.

«Oh, cugine mie», disse Roberto, «non preoccupatevi; restate così, sono della famiglia. E poi quelle camicie vi nascondono meglio dei vestiti che indossavate prima. Sembrate proprio piccole monache. Ma avete un aspetto molto migliore, adesso. E anche il vostro colorito comincia a tornare quello di una volta! Riconoscerete che la vostra sorte non ha tardato a mutare, da quando sono arrivato!»

«Oh, sì, grazie, cugino mio!» esclamò Bianca.La stanza era trasformata. Ci avevano messo un letto, due cassapanche che

formavano un sedile, una sedia con la spalliera, dei cavalletti e una tavola sulla quale erano state disposte le scodelle, i bicchieri e il vino di Bersumée. Era stata accesa una candela poiché, anche se non era ancora suonato mezzogiorno alla campana della cappella, la luce di quel giorno nevoso non bastava più a rischiarare l’interno delle tane. Nel camino ardevano grossi ceppi; l’umidità vi formava sopra delle goccioline che si trasformavano in piccole bolle sibilanti.

Subito dietro Roberto entrarono il sergente Lalaine, l’arciere Gros-Guillaume e un altro soldato che portavano una minestra spessa e fumante, un grosso pane tondo come una torta, un pasticcio da cinque libbre in una crosta dorata, una lepre arrostita, dei quarti d’oca in confettura e qualche pera che Bersumée, minacciando di far radere al suolo il paese, era riuscito a procurarsi a Les Andelys.

«Come!» esclamò d’Artois. «Tutto qui? Avevo chiesto un buon pasto!»«È già un miracolo, monsignore, che si sia riusciti a trovare tutto questo, con la

carestia che c’è in giro», rispose Lalaine.«Tempi di carestia per gli straccioni, forse, che sono così pigri da pretendere

che la terra produca senza che nessuno la lavori ma non per la gente dabbene! Non mangio così poco dai tempi in cui succhiavo il latte dal seno della balia!»

Le prigioniere guardarono con gli occhi sbarrati le vettovaglie che d’Artois mostrava di disprezzare. Bianca sembrava lì lì per mettersi a piangere e anche i tre soldati contemplavano la tavola con sbalordita avidità.

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Gros-Guillaume, che era ingrassato soltanto a forza di zuppa di segale, si avvicinò prudentemente per tagliare il pane, poiché di solito serviva alla tavola del comandante.

«No!» gridò d’Artois. «Non toccare il mio pane con le tue zampe sporche. Ci arrangeremo da soli. Andatevene, prima che mi arrabbi!»

Non appena gli arcieri furono usciti aggiunse, per fare lo spiritoso: «Allora, mi sto abituando alla vita di prigione! Chissà?…» Invitò Margherita a sedere sulla sedia con la spalliera. «Bianca e io prenderemo posto su questa panca», disse. Versò il vino e, levando il bicchiere davanti a Margherita, esclamò: «Viva la regina!»

«Non prendetevi gioco di me, cugino», disse Margherita di Borgogna, «manchereste di carità.»

«Non mi prendo gioco di nessuno. Ascoltate le mie parole e prendetele per quello che valgono. Voi siete regina, in effetti, e io vi auguro di vivere. Ecco tutto.»

Ci fu silenzio poiché si misero a mangiare. Un altro al posto di Roberto si sarebbe sentito commosso a vedere le due donne gettarsi sulle vivande come delle poverette. Non cercavano nemmeno di fingere un minimo di ritegno e divoravano la minestra e mordevano il pasticcio quasi senza nemmeno fermarsi a respirare.

D’Artois aveva infilato la lepre sulla punta della sua daga e l’aveva avvicinata alle braci del camino per riscaldarla. Così facendo, continuava a osservare le cugine e una risata grassa gli saliva alla gola. Se mettessi le loro scodelle per terra si metterebbero a quattro zampe per leccare, pensava.

Bevevano il vino del comandante come se avessero voluto compensare di colpo sette mesi d’acqua del pozzo.Il sangue saliva loro alle gote. Finiranno con lo star male, si diceva d’Artois, e termineranno questa bella giornata vomitando le budella.

Anche lui mangiava per un reggimento. Il suo prodigioso appetito, dote di famiglia, non era leggenda: si sarebbe dovuto tagliare in quattro ciascuno dei suoi bocconi per offrirlo a una persona normale. Divorava l’oca come si rosicchiano i tordi, masticando anche le ossa. Si scusò, modesto, di non comportarsi nello stesso modo con la carcassa della lepre. «Le ossa della lepre», spiegò, «si sbriciolano e lacerano le budella.»

Quando tutti furono sazi, d’Artois fece un segno a Bianca invitandola a ritirarsi. Lei si alzò senza farsi pregare, anche se aveva le gambe un po’ molli, le girava la testa e aveva un gran bisogno di trovare un letto. Roberto allora ebbe in via eccezionale un pensiero gentile: se esce così al freddo, crepa.

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«Hanno acceso il fuoco, da voi?» chiese.«Sì, grazie, cugino», rispose Bianca. «La nostra vita è davvero cambiata

completamente grazie a voi. Ah, come vi voglio bene, cugino mio! Davvero, vi voglio così bene… lo direte a Carlo, glielo direte che l’amo e che mi perdoni perché io l’amo?» Amava tutti, in quel momento. Era un pochino brilla e quasi quasi cadde sulle scale.

Se fossi qui soltanto per divertirmi, pensò d’Artois, questa non mi offrirebbe nessuna resistenza: date a una principessa vino a sufficienza e presto la vedrete comportarsi da puttana. Ma anche l’altra mi sembra cotta a puntino.

Ravvivò il fuoco con un gran ceppo e riempì i bicchieri per Margherita e per se stesso.

«Allora, cugina, avete riflettuto?» chiese. Margherita sembrava ammorbidita dal calore e dal vino.

«Ho riflettuto, Roberto, ho riflettuto e credo che rifiuterò», rispose lei, avvicinando la sedia al focolare.

«Andiamo, cugina mia, parlando così non date prova di buon senso», esclamò Roberto.

«Ma sì, ma sì, penso proprio che rifiuterò», ripeté lei con voce dolce.Il gigante ebbe un moto d’impazienza. «Margherita, ascoltatemi. Avete tutti i

vantaggi ad accettare adesso. Luigi è impaziente di natura, pronto a cedere qualunque cosa per ottenere subito quello che desidera. Non potrete mai più avere un’occasione come questa. Acconsentite a dichiarare quello che vi si chiede: il vostro caso non dovrà finire davanti alla Santa Sede, può essere giudicato da un tribunale episcopale a Parigi. Entro tre mesi sarete tornata padrona di voi stessa, in libertà!»

«Altrimenti?…» Si era piegata un po’ verso il fuoco, le palme offerte alla fiamma, dondolando la testa. Il nastrino che chiudeva il collo della sua lunga camicia si era sciolto e lei mostrava il seno agli sguardi del cugino.

La briccona ha conservato dei bei seni, pensava d’Artois, e non sembra avara di mostrarli.

«Altrimenti?» ripeté lei.«Altrimenti l’annullamento sarà pronunciato in ogni caso, amica mia, poiché si

trova sempre un modo per annullare il matrimonio di un re. Appena ci sarà un papa…»

«Ah, dunque non c’è ancora un papa?» disse Margherita.Roberto d’Artois si morse le labbra. Aveva commesso un errore. Non

immaginava che Margherita di Borgogna potesse ignorare in fondo alla sua

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prigione ciò di cui il mondo intero era al corrente e non sapesse che dalla morte di Clemente V il conclave non riusciva a eleggere un nuovo pontefice. Aveva fornito una buona arma alla sua avversaria la quale, a giudicare dalla rapidità di reazione, non era così malmessa come voleva far credere. Commessa questa sciocchezza, d’Artois tentò di rivoltarla a suo vantaggio giocando il solito gioco della falsa franchezza nel quale era maestro.

«È proprio su questo che dovete puntare!» esclamò. «Ed è appunto quel che voglio farvi capire. Quando quei bricconi di cardinali che tengon mercato di promesse neanche fossero in fiera avranno guadagnato abbastanza vendendo i loro voti per acconsentire a mettersi d’accordo, Luigi non avrà più bisogno di voi e voi avrete ottenuto soltanto che vi odi un po’ di più e che vi tenga chiusa qui dentro per sempre!»

«Capisco bene, ma capisco anche che finché non ci sarà papa nessuno potrà far nulla, senza di me.»

«È una vera sciocchezza ostinarvi, amica mia.»Le andò vicino, le posò sul collo la sua manona pesante e si mise a carezzarle

la spalla sotto la camicia.Il contatto di quella grande mano forte parve turbare Margherita.«E quale interesse avete, Roberto», domandò lei dolcemente, «che io accetti?»Lui si piegò in avanti fino a sfiorare con le labbra i riccioletti neri di lei. Sapeva

di cuoio e di sudore di cavallo, sapeva di fatica, di fango, di selvaggina e di grandi mangiate. Margherita era come avvolta da quel forte odore di maschio.

«Io vi voglio molto bene, Margherita», rispose. «Vi ho sempre voluto molto bene, voi lo sapete. E adesso i nostri interessi sono uniti: bisogna che voi riotteniate la vostra libertà e io voglio accontentare Luigi perché mi favorisca. Eh, vedete bene che dobbiamo essere alleati.»

Nello stesso tempo, affondava la mano nel corsetto di Margherita senza che lei gli opponesse alcuna resistenza. Al contrario, appoggiava la testa contro il braccio del cugino e sembrava abbandonarsi.

«Non è un vero peccato», riprese Roberto, «che un corpo così bello, così tenero, così desiderabile sia privato dei piaceri della natura?… Accettate, Margherita, e vi condurrò con me oggi stesso lontano da questa prigione. Vi porterò prima in qualche ospitale ostello di convento dove potrei venirvi spesso a trovare e vegliare su di voi… che v’importa, in fondo, di dichiarare che vostra figlia non è di Luigi, dal momento che non le avete mai voluto bene?»

Lei alzò lo sguardo. «Se non voglio bene a mia figlia», disse, «non è proprio questa la prova che l’ho avuta da mio marito?»

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Restò un momento soprappensiero, lo sguardo nel vuoto. Nel focolare i ceppi crollarono, illuminando la stanza d’un grande alone giallastro di scintille. Margherita si mise a ridere all’improvviso.

«Che cosa c’è da ridere?» le chiese Roberto.«Il soffitto», rispose lei. «Mi sono appena accorta che somiglia a quello della

torre di Nesle.»D’Artois si raddrizzò stupefatto. Non poteva far a meno di provare una certa

ammirazione per tanto cinismo mescolato a tanta scaltrezza. Questa almeno è una vera donna, pensava.

Lei lo guardava, gigantesco davanti al camino, piantato sulle gambe solide come tronchi d’albero. Le fiamme facevano luccicare gli stivali rossi e scintillare la fibbia che portava alla cintura.

Lei si alzò e lui se la tirò contro.«Ah, cugina mia», disse, «se fossi stato io a sposarvi, oppure se mi aveste scelto

per amante invece di quel giovarle sciocco di uno scudiero, le cose non sarebbero andate nello stesso modo per voi e saremmo stati molto felici.»

«Forse», mormorò lei.La teneva per le reni e aveva l’impressione che da un momento all’altro lei non

sarebbe più stata capace di pensare.«Non è troppo tardi, Margherita», mormorò lui.«Forse no», rispose lei con voce soffocata, speranzosa.«Allora sbarazziamoci prima di tutto di questa formalità della lettera per non

avere poi nient’altro da fare tranne amarci. Facciamo salire il cappellano che aspetta di sotto…»

Lei si svincolò d’un balzo, gli occhi brillanti di collera. «Aspetta dabbasso, davvero? Ah, cugino mio, mi avete creduta così stupida da lasciarmi conquistare dalle vostre moine? Avete cercato di usarmi come fanno di solito le sgualdrine con gli uomini, eccitando i loro sensi per meglio sottometterli alle loro volontà. Ma dimenticate che in queste cose le donne sono più abili e voi non siete che un dilettante, in materia!»

Lo sfidava, nervosa, ritta su tutta la sua statura, e riannodava il collo della camicia.

Roberto le assicurò che si sbagliava completamente, che lui non voleva altro che il suo bene e che era sinceramente innamorato di lei.

Margherita lo studiava con un’aria beffarda. Lui la riprese tra le braccia, anche se lei adesso si difendeva, e cercò di condurla verso il letto.

«No, non firmerò!» gridava Margherita. «Potete violentarmi, se volete, poiché

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siete troppo forte perché io possa resistervi, ma dirò al cappellano, dirò a Bersumée e farò sapere a Marigny che razza di ambasciatore siete mai e come avete abusato di me!»

Lui la lasciò andare, furioso.«Mai, capite», proseguì lei, «non mi farete mai confessare che mia figlia non è

di Luigi, perché se Luigi dovesse morire, cosa che mi auguro con tutto il cuore, allora sarebbe mia figlia a diventare regina di Francia e dovrà bene tener conto che esisto, come regina madre!» D’Artois restò un momento interdetto. Non ragiona male, questa sgualdrina patentata, e forse la sorte potrebbe darle ragione, si disse. Era sconfitto. «Mi sembra una speranza remota, questa», replicò alla fine.

«Non ne ho altre e mi aggrappo a questa!»«Come volete, cugina», tagliò corto lui, raggiungendo la porta. Lo scacco lo

aveva reso furioso. Senza altri convenevoli, scese la scala e trovò il cappellano rosso in viso per il freddo sotto i capelli biondastri che batteva i piedi, con le piume d’oca in mano.

«Siete un bel somaro, fratello», gli gridò Roberto. «Io non so proprio dove diavolo riuscite a scoprire delle debolezze nelle vostre penitenti!» Poi chiamò: «Scudieri, a cavallo!»

Bersumée arrivò di corsa, sempre con il suo elmo di ferro in testa.«Monsignore, desideravate visitare il posto?»«Ah, grazie mille, ma quello che ho visto mi basta e mi avanza!»«Altri ordini, monsignore?»«Quali ordini? Obbedite a quelli che avete ricevuto.» Gli stavano portando il

cavallo e Lormet già gli presentava la staffa.«E per le spese del pasto, monsignore?» chiese ancora Bersumée.«Falle mettere in conto al signor de Marigny. Su, abbassate il ponte levatoio!»D’Artois si mise in sella e spinse il cavallo al galoppo. Seguito dalla sua scorta,

superò il corpo di guardia. Bersumée, le sopracciglia congiunte sulla fronte, le braccia lungo i fianchi, guardò i cavalieri scendere verso la Senna sollevando grandi schizzi gialli di fango.

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IV • SAINT-DENIS

Le fiamme di centinaia di ceri disposti a cespuglio intorno ai pilastri

proiettavano la loro luce tremante sulle tombe dei re. I monumenti sepolcrali di pietra sembravano percorsi da fremiti, come in sogno, e si sarebbero detti un esercito di cavalieri addormentati per magia in mezzo a una foresta di fuoco.

Nella basilica di Saint-Denis, necropoli reale, la corte assisteva alla sepoltura di Filippo il Bello. Davanti alla nuova tomba, tutta la famiglia capetingia in abiti scuri e sontuosi stava allineata nella navata centrale: principi di sangue, pari laici, pari ecclesiastici, membri del consiglio di stato, grandi elemosinieri, connestabili e dignitari1. Accompagnato da cinque funzionari di palazzo, il primo maestro avanzò con passo solenne fino al bordo del sepolcro nel quale il feretro era già stato posto. Gettò nella fossa il bastone scolpito che era l’insegna della sua carica e pronunciò la formula che avrebbe segnato ufficialmente il passaggio da un regno all’altro:

«Il re è morto, viva il re!»E tutti ripeterono: «Il re è morto, viva il re!»

E questo grido da cento petti, ripercosso di campata in campata, d’ogiva in ogiva, risuonò a lungo tra le alte volte.

Il principe dallo sguardo sfuggente, dalle spalle strette e dal petto esile che in quel momento diventava il re di Francia provò una strana sensazione alla nuca, come se delle stelle vi fossero appena esplose. Lo colse l’angoscia, al punto che temette di cadere svenuto.

Alla sua destra i due fratelli, Filippo di Poitiers e Carlo, che non aveva ancora

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appannaggio, guardavano fisso la tomba. Alla sua sinistra c’erano gli zii, il conte di Valois e il conte d’Evreux, due uomini dalle spalle larghe. Il primo aveva superato la quarantina, il secondo vi si avvicinava.

Il conte d’Evreux era assalito da vecchi ricordi. Ventinove anni fa eravamo anche noi tre figli in questo stesso luogo davanti alla tomba di nostro padre, e adesso ecco che il primo di noi se ne va. La vita è già passata. Il suo sguardo si posò sulla statua più vicina, quella del re Filippo III.

Padre, pregò intensamente Luigi d’Evreux, accogliete nel regno dell’aldilà mio fratello Filippo poiché è stato vostro degno successore.

Più lontano c’erano le tombe di san Luigi e i pesanti monumenti sepolcrali degli antenati. Dall’altro lato della navata si scorgevano gli spazi vuoti che si sarebbero aperti un giorno per il giovane, decimo a portare il nome di Luigi, che saliva al trono, e dopo di lui, regno dopo regno, per tutti i re futuri. C’è posto ancora per molti secoli, pensò Luigi d’Evreux.

A braccia incrociate, il mento alto, monsignor di Valois osservava tutto e controllava che la cerimonia si svolgesse come si doveva.

«Il re è morto, viva il re!»Cinque volte ancora il grido risuonò nella basilica man mano che i maestri di

palazzo sfilavano gettando i bastoni che erano insegna delle loro cariche. L’ultimo bastone risuonò sulla bara e poi fu silenzio.

Luigi X fu preso proprio allora da un violento accesso di tosse che nonostante tutti i suoi sforzi non poté dominare. Gli salì alle guance un flusso di sangue e lui continuò per un minuto buono a essere scosso dall’accesso di tosse come se fosse lì lì per sputare l’anima davanti alla tomba di suo padre. I presenti si guardarono l’un l’altro, le mitre si piegarono verso le mitre e le corone verso le corone, ci furono dei sussurri di inquietudine e di compassione. Tutti pensavano: e se anche lui morisse entro qualche settimana?

Tra i pari laici la possente contessa Mahaut d’Artois, alta, grossa, il volto arrossato, osservava il nipote Roberto, più alto di una buona spanna di tutti i presenti. Si chiedeva perché il giorno prima era arrivato a Notre-Dame nel bel mezzo della cerimonia funebre, la barba lunga, infangato fino alla cintura. Da dove veniva, che cosa era andato a fare? Da quando era apparso Roberto c’era aria di intrigo, sembrava tornato nelle grazie del re, adesso, e questo non mancava di angosciare Mahaut, poiché la disgrazia era caduta anche su di lei dopo che le due figlie erano state rinchiuse una a Dourdan e l’altra a Château-Gaillard.

Circondato dai legisti del consiglio Enguerrand de Marigny, coadiutore del sovrano che stavano seppellendo, portava un lutto principesco. Marigny era uno di

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quei rari uomini che possono avere la certezza d’essere entrati vivi nella storia perché l’hanno fatta. Filippo, mio re, pensava, avvicinandosi al sepolcro, quanti giorni abbiamo lavorato a fianco a fianco; la pensavamo allo stesso modo su tutti i soggetti, abbiamo commesso degli errori, li abbiamo emendati… Nei vostri ultimi giorni vi siete un po’ allontanato da me perché il vostro animo era indebolito e gli invidiosi cercavano di separarci. Adesso sarò solo a continuare l’opera, ma vi giuro di difendere ad ogni costo quello che abbiamo fatto insieme.

Bisognava che Marigny si vedesse scorrere davanti tutta la sua prodigiosa carriera e riflettesse da dove era partito e dove era giunto per poter misurare in quel momento la sua potenza e insieme la sua spaventosa solitudine. L’opera di governare non ha mai termine, si diceva. Aveva il fervore dei grandi politici e pensava davvero al regno come se fosse stato un secondo re.

L’abate di Saint-Denis, Egidius de Chambly, in ginocchio sul bordo della fossa, tracciò un ultimo segno di croce; poi si rialzò e sei monaci spinsero la pesante pietra piatta che doveva chiudere la tomba.

Mai più Luigi di Navarra, adesso Luigi X, avrebbe sentito la terribile voce di suo padre intimargli durante i consigli: «Tacete, Luigi!»

Ma ben lungi dal sentirsi liberato, provava una debolezza angosciante. Sussultò quando qualcuno al suo fianco disse: «Su, Luigi».

Era Carlo di Valois che lo invitava a procedere.Luigi X si girò verso lo zio e sussurrò: «Voi l’avete visto diventare re. Che cosa

ha fatto, che cosa ha detto?»«Si è assunto risolutamente le sue responsabilità», rispose Carlo di Valois, «e

aveva diciott’anni.»Sette meno di me, pensò Luigi X. Tutti gli sguardi erano fissi su di lui. Dovette

fare uno sforzo per mettersi a camminare. Al suo seguito la famiglia capetingia, principi, pari, baroni, prelati, militari, tra le siepi di ceri e i monumenti sepolcrali dei re attraversò il cimitero di famiglia.

I monaci di Saint-Denis chiudevano il corteo, le mani nelle maniche, cantando un salmo.Si passò così dalla basilica alla sala capitolare dell’abbazia dove sarebbe stato

servito il pranzo a conclusione delle esequie.«Sire», disse l’abate Egidius, «ora alzeremo una duplice preghiera, una per il re

che Dio ci ha preso, l’altra per quello che ci dona.»«Vi ringrazio, padre», disse Luigi X con voce malferma. Poi sedette con un

sospiro di stanchezza e domandò subito un bicchier d’acqua che vuotò di colpo.Per tutto il pasto restò silenzioso. Gli sembrava di avere la febbre, era sfinito

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nell’anima e nel corpo. Bisogna godere di buona salute per essere re, aveva detto più di una volta Filippo il Bello ai suoi figli quando li aveva visti recalcitrare davanti agli esercizi equestri o all’esercizio delle armi. Bisogna godere di buona salute per essere re, si ripeteva Luigi X in quel primo momento del suo regno. In lui la fatica degenerava in irritazione e pensava con rabbia che colui che ereditava un trono avrebbe anche dovuto ereditare la forza di tenercisi dritto.

Di fatto ciò che il cerimoniale esigeva da un sovrano per la sua incoronazione era davvero stancante.

Dopo aver assistito all’agonia del padre, Luigi aveva dovuto mangiare per due giorni accanto al cadavere imbalsamato; questo perché il principio reale non tollerava sovrapposizioni né cesure nella sua incarnazione, e quindi il re morto era supposto regnare fino alla sua sepoltura e il suo successore a fianco della sua spoglia mangiava, in un certo senso, per lui, al suo posto.

Più ancora che la presenza della grande forma che pareva di cera, vuotata delle interiora e rivestita in abiti di gala, per Luigi era stata penosa la vista di quel cuore, il cuore di suo padre, piazzato accanto al feretro in un vaso di cristallo e di bronzo dorato. Tutti coloro che vedevano quel cuore, le arterie mozzate, dentro il vetro, restavano stupefatti dalla sua piccolezza. Un cuore di bambino o di uccellino, mormoravano i visitatori, e si faceva fatica a credere che un muscolo così piccolo avesse animato un monarca così terribile2.

Poi era stato effettuato il trasporto della salma per via d’acqua da Fontainebleau a Parigi; poi nella capitale stessa si erano succedute cavalcate, veglie, uffici religiosi, processioni interminabili, tutto ciò d’inverno, con un tempo tremendo, sguazzando nel fango ghiacciato mentre un vento subdolo sembrava tagliare il petto e un malizioso nevischio schiaffeggiava il volto.

Luigi X invidiava suo zio Valois che costantemente al suo fianco, decidendo tutto, anticipando la risoluzione dei problemi, infaticabile, volonteroso, sembrava avere lui dei nervi da re.

E già parlando all’abate Egidius Valois cominciava a preoccuparsi della consacrazione di Luigi che avrebbe avuto luogo l’estate seguente, poiché l’abbazia di Saint-Denis non soltanto aveva la custodia delle tombe reali, non soltanto conservava i colori di Francia, ma anche le vesti e gli attributi portati dai re nel corso dell’incoronazione. Valois voleva sapere se tutto era in ordine. Il grande mantello dopo ventinove anni non aveva subito danni? Gli scrigni per trasportare a Reims lo scettro, gli speroni e la mano di giustizia erano in buono stato? E la corona d’oro? Bisognava che gli orefici portassero il più presto il girotesta alla nuova misura.

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L’abate Egidius osservava il giovane re continuamente scosso dalla tosse e pensava: certo prepareremo tutto, ma lui tirerà fino a quel giorno?

Quando il pasto fu pronto, Ugo di Bouville, gran ciambellano di Filippo il Bello, spezzò davanti a Luigi X il suo bastone dorato a significare che aveva terminato il suo ufficio.

Il grosso Bouville aveva gli occhi pieni di lacrime; le sue mani tremavano e dovette ripetere il tentativo tre volte per riuscire a spezzare il suo scettro di legno, immagine e delegazione del grande scettro d’oro. Poi mormorò al primo ciambellano di Luigi, Mathieu de Trye, che doveva succedergli nella carica: «A voi, adesso, signore».

Allora la famiglia capetingia si alzò da tavola e si diresse verso la corte dove i cavalli erano in attesa. Fuori, la folla per gridare «viva il re» era esigua. La gente aveva preso abbastanza freddo il giorno prima a guardare il grande corteo che comprendeva armati, clero di Parigi, docenti d’università, corporazioni; quello di oggi non offriva più niente che potesse interessare.

Cadeva nevischio che attraversava i vestiti fino alla pelle.I soli a salutare il nuovo re erano vagabondi coraggiosi o locali che potevano gridare al passaggio del corteo stando sulla porta, senza bagnarsi troppo.Da quando era bambino, Luigi l’Attaccabrighe aspettava di diventare re. A ogni

rimprovero, a ogni scacco, a ogni contrarietà che la sua mediocrità di spirito e di carattere gli guadagnavano diceva rabbiosamente: quando sarò re… e cento volte si era augurato che la sorte affrettasse la dipartita di suo padre. Ecco che era suonata l’ora tanto auspicata, ecco che lo avevano proclamato re; usciva da Saint-Denis, ma non sentiva niente dentro, nessun cambiamento si era prodotto in lui: avvertiva soltanto una debolezza ancora più forte di quella del giorno prima e pensava soprattutto a quel padre che aveva così poco amato.

A testa bassa, le spalle tremanti, spingeva il suo cavallo tra i campi deserti dove i resti di stoppia foravano i resti di neve. Il crepuscolo si avvicinava rapidamente. Alla porta di Parigi il corteo si fermò per permettere agli arcieri di scorta di accendere le torce.

Il popolo della capitale non fu più entusiasta di quello di Saint-Denis, e che motivo aveva, d’altra parte, per mostrarsi felice? L’inverno precoce ostacolava i trasporti e incrementava la mortalità, gli ultimi raccolti erano stati cattivi, i generi alimentari rincaravano nella misura in cui si facevano rari, c’era aria di carestia. E poi quello che si sapeva del nuovo re non alimentava gran che le speranze. Si diceva che fosse arruffone, attaccabrighe e crudele, e l’opinione pubblica, che già lo chiamava con il suo soprannome, non poteva rammentare

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di lui alcun atto importante o generoso. Era famoso soltanto per il suo infortunio coniugale.È a causa di questo che il popolo non mi testimonia un minimo di affezione,

si diceva Luigi X. A causa di quella sgualdrina che mi ha tradito davanti a tutti. Ma se non vogliono amarmi, farò tanto che tremeranno e grideranno evviva vedendomi, come se mi amassero moltissimo. E prima di tutto voglio risposarmi, voglio avere una regina al mio fianco perché il mio disonore sia cancellato.

Ahimè, il rapporto fattogli il giorno prima da suo cugino Roberto d’Artois al ritorno da Château-Gaillard faceva capire che l’impresa non sarebbe stata facile.

Ma quella sgualdrina cederà. La sottoporrò a un tale regime e a tali tormenti che cederà.

Siccome si era diffusa la voce tra il popolino che il re avrebbe gettato delle monete al suo passaggio, dei gruppi di poveri stavano agli angoli delle strade. Le torce degli arcieri rischiaravano un istante i loro visi magri, i loro occhi avidi, le loro mani tese, ma non cadde alcuna monetina.

Attraverso lo Châtelet e il Pont au Change, il corteo raggiunse il palazzo reale.La contessa Mahaut diede per prima il segnale del rompete le righe

dichiarando che tutti avevano bisogno di caldo e di riposo e che lei tornava a palazzo d’Artois. Prelati e baroni presero ciascuno la strada di casa. I fratelli del nuovo re si ritirarono anche loro e non appena ebbe messo piede a terra Luigi X si ritrovò intorno soltanto i suoi servitori e scudieri personali e i due zii Evreux e Valois, Roberto d’Artois, Marigny e Mathieu de Trye.

Passarono per la Galerie Mercière immensa e quasi deserta a quell’ora. Qualche mercante che finiva di sistemare il banco si tolse il berretto. L’Attaccabrighe avanzava piano piano, le gambe rigide negli stivali troppo pesanti, il corpo ardente di febbre. Guardava a destra e a sinistra le quaranta statue di re messe in alto sulle larghe mensole scolpite che Filippo il Bello aveva scelto di erigere là nell’ingresso dell’abitazione reale, repliche in piedi dei monumenti sepolcrali giacenti di Saint-Denis, affinché il sovrano vivo apparisse a ogni visitatore come la continuazione di una razza sacra designata da Dio per esercitare il potere.

Questa colossale famiglia di pietra dagli occhi bianchi sotto la luce delle torce non faceva che angosciare ancora di più il povero principe di carne che ne raccoglieva la successione.

Un merciaio disse a sua moglie: «Non ha un bell’aspetto, il nostro nuovo re», e la merciaia ridacchiando rispose: «Più che altro ha un aspetto da cornuto».

Non aveva parlato forte, ma la sua voce acuta risuonò nel silenzio. L’Attaccabrighe trasalì, il volto di colpo arrossato di collera, cercando di

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distinguere chi aveva parlato. Tutti al suo seguito guardarono da un’altra parte e fecero finta di non aver sentito.

Da una parte e dall’altra dell’arco a carena che stava sopra l’accesso alla scala principale stavano l’una dinanzi all’altra le statue di Filippo il Bello e di Enguerrand de Marigny, poiché al coadiutore era toccato l’onore unico di vedere la sua effigie nella galleria dei re, onore giustificato dal fatto che la ricostruzione e l’abbellimento del palazzo erano essenzialmente opera sua.

La statua di Enguerrand irritò più di tutti Carlo di Valois, che ogni volta che doveva passargli davanti si indignava che quel borghese fosse stato elevato a tanto onore.

L’astuzia e l’intrigo l’hanno condotto ad avere tanta impudenza che si dà le arie d’esser del nostro stesso sangue, e invece, signor mio, pensava Valois, noi vi tireremo giù da questo piedistallo, questo ve lo giuro, e vi insegneremo ben presto che il tempo della vostra grandezza è ormai passato.

«Signor Enguerrand», disse con alterigia al suo nemico, «credo che adesso il re preferisca restare in famiglia.»

Per evitare uno scontro, Marigny fece finta di non aver sentito la battuta, ma volendo far capire bene che non prendeva ordini che dal re disse, avvicinandosi a quest’ultimo: «Sire, ci sono numerosi affari in sospeso che reclamano la mia presenza, mi date licenza di ritirarmi?»

Luigi aveva la mente altrove. L’insulto della merciaia gli girava e gli rigirava nel cervello. «Andate, signore, andate», rispose con impazienza.

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V • IL RE, GLI ZII E I DESTINI

La madre di Luigi X, la regina Giovanna, erede della Navarra, era morta

nel 1305. A partire dal 1307, cioè dal momento in cui all’età di diciott’anni era stato investito ufficialmente della corona di Navarra, Luigi aveva ricevuto il palazzo di Nesle come residenza personale. Dunque non aveva mai abitato a palazzo reale dai tempi delle innovazioni ordinate dal padre negli anni recenti.

Così in quella sera di dicembre, al ritorno da Saint-Denis, Luigi, entrando negli appartamenti reali per prenderne possesso, non vi trovò nulla che gli potesse ricordare la sua infanzia, una particolare fessura del pavimento conosciuta da sempre o un cigolio di una certa porta da sempre inteso che potesse commuoverlo o intenerirlo. Il suo sguardo non incontrava niente di familiare che gli permettesse di dire: «Mia madre di fronte a questo camino mi prendeva sulle ginocchia», o, «Da questa finestra ho visto la primavera per la prima volta». Le finestre avevano altre forme, i camini erano nuovi. Sovrano economo, quasi avaro in quello che concerneva le spese personali, Filippo il Bello non aveva misura quando si trattava di magnificare l’idea reale. Aveva voluto che il palazzo fosse maestoso, addirittura opprimente all’interno come all’esterno, perché potesse tener testa in un certo modo, nel cuore della capitale, a Notre-Dame. Là la grandezza della chiesa, qui la grandezza dello stato, là la gloria di Dio, qui quella del re.

Per Luigi era la casa del padre, un padre silenzioso, distante, terribile. Di tutte le stanze, la sola familiare gli sembrava essere quella del consiglio, dove tante volte, appena osava esprimere un parere, si era sentito rimbeccare: «Tacete, Luigi».

Passava di sala in sala. I valletti a passi felpati scivolavano lungo i muri, i segretari si nascondevano su per le scale, tutti conservavano un silenzio da veglia funebre.

Fu nella stanza in cui Filippo il Bello stava di solito a lavorare che Luigi finalmente si fermò. Era di dimensioni modeste, ma con un enorme camino in cui

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brillava un fuoco sufficiente a far arrostire un bue. Al fine di poter godere del calore senza l’inconveniente dell’eccessivo ardore delle fiamme, erano stati disposti dinanzi al focolare schermi di vimini intrecciato che un valletto bagnava di tanto in tanto. I candelieri, a foggia di corona a sei candele, offrivano una buona luce.

Luigi si tolse la sopravveste e la posò su uno dei parafuoco. Gli zii, il cugino e il ciambellano l’imitarono. Quasi subito le pesanti stoffe bagnate d’acqua, i velluti, le pellicce, i ricami si misero a fumare intanto che i cinque uomini in camicia e brache si scaldavano le reni al fuoco come cinque contadini che tornassero dopo una sepoltura di campagna.

All’improvviso dall’angolo in cui si trovava lo scrittoio di Filippo il Bello venne un lungo sospiro, quasi un gemito. E Luigi X gridò con una voce acuta: «Cos’è stato?»

«È Lombard, sire», spiegò il valletto incaricato di inumidire i parafuoco.«Lombard? Ma se era a Fontainebleau, con il resto della muta! Come ha fatto

ad arrivare qui?»«Per conto suo, a quanto pare, sire. È giunto tutto pieno di fango l’altro ieri

notte, proprio mentre stavano conducendo le spoglie del nostro defunto sovrano a Notre-Dame. È andato a nascondersi sotto quel mobile e non si è più mosso di lì.»

«Mandatelo via, chiudetelo nelle scuderie!» All’opposto del padre, Luigi detestava i cani; ne aveva paura da quando, bambino, lo avevano morso.

Il valletto si chinò e prese per il collare il grande levriero beige dal pelo incollato alle costole e gli occhi febbricitanti.

Era il regalo del banchiere Tolomei, quel cane, e negli ultimi mesi era sempre rimasto accanto a re Filippo. Faceva resistenza, raschiando il pavimento con le unghie, e Luigi gli assestò una pedata nel fianco.

«Questo animale porta sfortuna. Prima di tutto è arrivato qui proprio il giorno del rogo dei Templari, il giorno in cui…»

Dalla stanza vicina si udirono delle voci. Il valletto e il cane incontrarono sull’uscio una bambina infagottata in un abito da lutto. Una dama di corte la spingeva avanti, dicendo: «Su, Madame Jeanne, andate a salutare il re vostro padre…»

Quella ragazzina di quattro anni appena, dalle guance pallide, dagli occhi troppo grandi, era al momento l’erede al trono di Francia.

Aveva la fronte tonda e bombata di Margherita di Borgogna, ma il colorito e i capelli erano chiari. Camminava guardando fisso davanti a sé con quell’espressione ostinata tipica dei bambini cresciuti senza affetto.

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Luigi X la fermò con un gesto.«Perché l’avete portata qui? Non voglio vederla! Riportatela subito al palazzo di

Nesle. È là che deve stare, dal momento che…»«Nipote, controllatevi», ammonì il conte d’Evreux. Luigi aspettò che la dama

di compagnia e la principessina, la prima a quanto pareva più spaventata della seconda, se ne fossero andate.

«Non voglio più vedere quella bastarda!» dichiarò poi.«Siete sicuro che lo sia, Luigi?» replicò il conte d’Evreux, allontanandosi dal

fuoco per non bruciacchiarsi i vestiti.«Mi basta il dubbio. Non voglio riconoscere niente che sia di una donna che

mi ha tradito.»«Comunque la bambina è bionda come tutti noi.»«Anche Philippe d’Aunay era biondo», rispose Luigi, amaro.Il conte di Valois intervenne ad appoggiare il giovane re: «Luigi ha dei buoni

motivi per parlare come parla, fratello», disse, autoritario.«E poi», riprese Luigi, stavolta gridando, «non voglio più sentire quella parola

che dicono sempre quando passo; non voglio doverla intuire nel cervello della gente; non voglio più dare occasione di pensarla, guardandomi!»

Luigi d’Evreux si trattenne dal replicare: «Se tu avessi un carattere migliore, ragazzo mio, e un cuore più buono, forse tua moglie ti avrebbe amato…» Pensava alla sventurata ragazzina che sarebbe vissuta con intorno soltanto servi indifferenti nell’immenso palazzo di Nesle deserto. E all’improvviso sentì Luigi che diceva: «Ah! Sarò così solo, qui!»

Allora, con una sorta di sbalordita compassione, guardò quel nipote che teneva da conto i suoi rancori come un avaro serba il suo oro, mandava via i cani perché una volta lo avevano morso, mandava via sua figlia perché era stato tradito, e poi si lamentava della propria solitudine.

«Tutti sono soli, Luigi», osservò con gravità. «Ciascuno di noi affronta da solo il momento del trapasso; ed è leggerezza credere che non capiti altrettanto in ogni istante della vita. Anche il corpo della moglie con la quale dormiamo resta un corpo estraneo; anche i bambini che abbiamo generato sono sconosciuti, per noi.Senza dubbio il Creatore ha voluto così perché non si abbia comunione con nessuno all’infuori di Lui… E l’unico rimedio a questo isolamento sta nella compassione e nella carità, cioè nella consapevolezza che gli altri soffrono quanto noi.»

I capelli umidi e spioventi, lo sguardo vago, la camicia incollata ai fianchi scarni, l’Attaccabrighe pareva un annegato appena ripescato dalla Senna. Restò

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un momento in silenzio. Certe parole, come appunto «carità» o «compassione», non avevano senso, per lui, e non le capiva gran che meglio del latino dei preti. Si girò verso Roberto d’Artois.«Allora, Roberto, siete sicuro che lei non cederà?»Il gigante si stava ancora asciugando al fuoco, e le sue brache fumavano come un paiolo in ebollizione. Scosse la testa: «Sire, cugino mio, come vi ho detto ieri sera, ho fatto pressione su vostra moglie in ogni modo, ricorrendo ai miei argomenti più persuasivi. Ma mi sono scontrato con un diniego così netto da potervi assicurare che non sarà possibile cavarne alcunché… Sapete su che cosa fa conto?» aggiunse, perfido. «Spera che moriate prima di lei.»Luigi X toccò istintivamente, attraverso la camicia, il piccolo reliquiario che

portava al collo. Poi si rivolse al conte di Valois: «Ebbene, zio, vedete, le cose non sono facili come avevate promesso; l’annullamento non sembra affatto imminente!»

«Lo vedo, nipote, e ci sto pensando», rispose Valois.«Cugino, se temete di dover fare astinenza», disse allora Roberto d’Artois,

«potrei sempre rifornire il vostro letto di donnine dolci dolci, così orgogliose di servire i piaceri di un re da esser docili e compiacenti…» Ne parlava con avidità, come un buongustaio parla d’un arrosto cotto a puntino o d’una salsa particolare.

Carlo di Valois agitò le dita inanellate. «E d’altra parte, a che vi servirebbe, Luigi, l’annullamento del vostro matrimonio, finché non avrete scelto una nuova moglie? Non datevi tanta pena per l’annullamento: un re riesce sempre a ottenerlo, prima o poi. Adesso invece bisogna scegliere la sposa in grado di starvi al fianco per ben figurare come regina di Francia e darvi degli eredi.» Monsignor di Valois aveva l’abitudine, di fronte a un ostacolo che gli si presentava, di sottovalutare il problema e saltare alla tappa successiva; in guerra, trascurava i piccoli nuclei di resistenza, li aggirava e partiva dritto all’attacco della fortezza successiva. E gli andava anche bene, a volte.

«Fratello», disse d’Evreux, «credete che sia una cosa così facile, nella situazione in cui Luigi si trova, dal momento che non intende prendere una moglie che sia indegna del trono?»

«Ma andiamo! Posso farvi i nomi di almeno dieci principesse, in Europa, che sarebbero disposte a superare le più ardue difficoltà per cingere la corona di Francia. Prendete per esempio, senza andare a cercare chissà dove, mia nipote Clemenza d’Ungheria…» disse Valois, come se l’idea gli fosse venuta proprio allora, mentre invece era una settimana buona che la rimuginava.

Aspettò che la proposta facesse il suo effetto. L’Attaccabrighe aveva rialzato la testa, interessato.

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«Ha il nostro sangue, dal momento che è un’Angiò», proseguì Valois. «Suo padre Carlo Martello, che aveva rinunciato al trono di Napoli-Sicilia per rivendicare quello d’Ungheria, è morto da un pezzo; ecco perché lei non è ancora maritata. Ma il fratello Caroberto è re d’Ungheria e lo zio re di Napoli. Certo ha un poco superato l’età usuale da marito…»

«Quanti anni ha?» chiese Luigi, allarmato.«Ventidue. Ma certo è meglio di quelle ragazzine che vengono condotte a

palazzo quando giocano ancora con la bambola e poi, crescendo, si rivelano cattive, bugiarde e corrotte! Inoltre, nipote, non sarebbe comunque il vostro primo matrimonio.»

Sembra tutto troppo bello, pensava Luigi. Ci dev’essere qualche neo che tentano di nascondermi. Questa Clemenza sarà come minimo orba o gobba.

«E come si presenta… d’aspetto?» chiese, cauto.«Nipote mio, è la donna più bella di Napoli e i pittori, a quanto mi dicono,

cercano di ritrarla quando dipingono nelle chiese il volto della Vergine. Già da piccola, a quel che ricordo, prometteva di diventare una bellezza, e a quanto pare ha mantenuto la promessa…»

«In effetti sembra che sia molto bella», riconobbe Luigi d’Evreux.«E virtuosa», aggiunse Valois. «Ha tutte le qualità di sua zia Margherita

d’Angiò, la mia prima moglie, che Dio la benedica. C’è da aggiungere… ma lo sappiamo tutti, no?… che un altro suo zio e mio cognato, Luigi d’Angiò, altri non era che quel santo arcivescovo di Tolosa il quale rinunciò a regnare per darsi alla vita religiosa. Sulla sua tomba adesso avvengono miracoli.»

«Così avremo presto due san Luigi, in famiglia», sottolineò Roberto d’Artois.«Zio, la vostra è una gran bella idea, mi pare», disse Luigi X. «Figlia di re,

sorella di re, nipote di un re e di un santo, bella e virtuosa… Ah! Non sarà per caso bruna, come la borgognona? Perché in questo caso non potrei proprio…»

«No, no, nipote», si affrettò a rispondere Valois. «Niente paura: è bionda, di buona razza franca!»

«E voi pensate, Carlo, che questa famiglia, se è così pia come la descrivete, acconsentirà al fidanzamento prima che il matrimonio venga annullato?» chiese Luigi d’Evreux.

Monsignor di Valois parve gonfiarsi tutto. «Sono in rapporti troppo buoni con i miei parenti di Napoli perché loro possano rifiutarmi qualcosa», replicò. «E le due imprese possono essere portate avanti in parallelo. La regina Maria, che ha considerato un punto d’onore darmi in sposa una delle sue figlie, mi concederà certo sua nipote per il più caro dei miei nipoti, perché diventi regina del più bel

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regno del mondo. Lasciate fare a me.»«Allora non aspettiamo oltre, zio», disse Luigi. «Mandiamo un’ambasciata a

Napoli. Che cosa ne pensate, Roberto?»Roberto d’Artois si fece avanti d’un passo, come se fosse già pronto a partire

subito per l’Italia.Il conte d’Evreux intervenne ancora. Non era affatto ostile al progetto, ma una

questione del genere era affare di stato oltre che affare di famiglia, e bisognava discuterne in consiglio.

«Mathieu», disse subito Luigi, rivolto al ciambellano, «fate sapere a Marigny che deve convocare il consiglio domattina.»

Pronunciando quelle parole, l’Attaccabrighe avvertì un certo piacere: all’improvviso si sentiva re.

«Perché Marigny?» chiese Valois. «Se volete, posso occuparmene io, o darne incarico al mio cancelliere. Marigny ha troppe incombenze e organizza in fretta e furia dei consigli che hanno l’unica funzione di approvare, senza star tanto a vedere quali siano in realtà i suoi maneggi. Ma tutto questo cambierà, nipote, e io intendo riunire un consiglio assai più degno di servirvi.»

«Molto giusto. Bene, fate pure, zio, fate come dite», rispose Luigi, riprendendo sicurezza, come se l’iniziativa fosse stata sua.

Gli abiti erano asciutti; tutti si rivestirono.Bella e virtuosa, bella e virtuosa… si ripeteva Luigi X. Poi gli venne un nuovo

accesso di tosse e quasi non sentì i saluti di quelli che si stavano congedando.Scendendo le scale, d’Artois disse a Valois: «Ah, cugino, gliel’avete saputa

vendere bene, vostra nipote Clemenza! So di uno che, stasera, si sentirà ardere tra le lenzuola!»

«Ma Roberto!» esclamò Valois, in tono di finta reprimenda. «Non dimenticate che state parlando del re!»

Il conte d’Evreux li seguiva in silenzio. Stava pensando alla principessa che viveva nel castello napoletano e la cui sorte, a sua insaputa, forse si era appena decisa. Monsignor d’Evreux non mancava mai di turbarsi per la maniera fortuita e misteriosa nella quale i destini umani finiscono con il concatenarsi.

E poiché un grande sovrano era morto prematuramente, poiché un giovane re mal sopportava il celibato, poiché suo zio era ansioso di soddisfarlo per rafforzare il dominio che esercitava su di lui, poiché un nome buttato là era stato preso in considerazione, ecco che una ragazza bionda la quale, a cinquecento leghe di distanza, davanti a un mare eternamente blu, pensava di stare vivendo un giorno come tutti gli altri, si ritrovava al centro delle discussioni alla corte di Francia…

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Luigi d’Evreux si sentì preso di nuovo dagli scrupoli. «Fratello», disse a Valois, «ma siete proprio sicuro che la piccola Giovanna sia una bastarda?»

«Ora come ora non ne sono ancora certo, fratello», rispose Valois, posandogli sulla spalla la mano inanellata. «Ma potete scommettere che quanto prima tutti la considereranno tale!»

E il riflessivo conte d’Evreux avrebbe potuto dirsi ancora una volta: poiché una principessa di Francia ha avuto un amante, poiché sua cognata d’Inghilterra l’ha denunciata, poiché un re amante della giustizia ha reso pubblico lo scandalo, poiché un marito umiliato ha voluto vendicarsi su una bambina dichiarandola illegittima…

Le conseguenze si sarebbero viste in futuro, nello svolgersi di una fatalità in costante creazione attraverso il combinarsi della forza delle cose e degli atti degli uomini.

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VI • LA GUARDAROBIERA EUDELINE

La volta del baldacchino in sciamito blu trapunto di gigli d’oro sembrava

un brandello di cielo notturno. Le cortine, realizzate nella stessa stoffa, fremevano alla fioca luce della lampada sorretta in alto da tre catene di bronzo3; la trapunta di broccato d’oro che ricadeva fino al pavimento scintillava di strane fosforescenze.

Erano due ore che Luigi X cercava invano di prendere sonno in quel letto che era appartenuto a suo padre. Soffocava sotto le coltri foderate di pelliccia e tremava di freddo se tentava di uscirne.

Anche se Filippo il Bello era morto a Fontainebleau, Luigi si sentiva a disagio nel letto, come se avvertisse la presenza del cadavere.

Tutte le immagini degli ultimi giorni, tutte le ossessioni dell’incerto futuro cozzavano l’una contro l’altra nella sua mente… Qualcuno gridava «cornuto» in mezzo alla folla; Clemenza di Ungheria rifiutava, oppure si era già fidanzata con un altro; l’austero volto dell’abate Egidius si chinava sulla tomba; «Due saranno le nostre preghiere…»

«Sapete su che cosa fa affidamento? Spera che moriate prima di lei!» Un vaso di cristallo racchiudeva un cuore dalle arterie recise, piccolo come quello d’un agnello…

Si alzò di colpo. Il suo cuore batteva al ritmo del pendolo d’un orologio al quale avessero tolto i pesi. Eppure il medico di palazzo che lo aveva visitato prima che andasse a dormire non gli aveva trovato umori maligni in circolazione. Il sonno avrebbe posto rimedio a una stanchezza più che legittima; se la tosse non si fosse calmata, il giorno dopo gli avrebbe prescritto una tisana al miele, oppure gli avrebbe praticato un salasso… Ma Luigi non aveva fatto parola dei due momenti di crisi nel corso della cerimonia in Saint-Denis, di quel freddo improvviso che aveva sentito nelle ossa, mentre tutto intorno a lui sembrava mettersi a girare. E adesso lo stesso male, al quale non sapeva dare nome, lo

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assaliva di nuovo.

Torturato dalle ossessioni, nella sua lunga camicia bianca sulla quale aveva gettato una veste di pelliccia, l’Attaccabrighe andava su e giù per la stanza, come se lo stessero braccando, come se temesse, fermandosi anche solo per un momento, che la vita potesse abbandonarlo.

Non sarebbe finito come suo padre, colpito dalla mano di Dio? Anch’io, pensava spaventato, ero presente quando hanno bruciato i Templari, davanti a questo palazzo… Chi può prevedere in anticipo la notte nella quale morrà? O impazzirà? E anche se fosse riuscito a superare quella notte tremenda, se avesse visto levarsi la tardiva alba invernale, in che stato di spossatezza avrebbe dovuto presiedere il giorno dopo il suo primo consiglio? Avrebbe esordito: «Signori…» E poi? Che cosa avrebbe dovuto dire? Tutti, nipote, siamo soli al momento del trapasso; ed è leggerezza pensare che non sia così in ogni istante della vita…

«Ah! Zio», esclamò Luigi a voce alta, «perché mi avete detto una cosa simile!»Perfino la sua stessa voce gli suonava estranea. Continuava a camminare, con il

fiato corto, tremante, intorno al grande letto drappeggiato d’ombra.Era quel letto a spaventarlo. Un giaciglio maledetto, non sarebbe mai riuscito a

dormirci. Era il letto del morto. Passerò tutte le notti del mio regno a girare in tondo per non morire? si chiedeva. Ma non c’era modo di andare a dormire da un’altra parte, di chiamare i servi per farsi preparare un altro letto altrove? Dove trovare il coraggio di ammettere: non posso star qui perché ho paura, e presentarsi sfatto, tremante, smarrito ai maestri di palazzo, ai ciambellani?

Era re e non sapeva regnare; era uomo e non sapeva vivere; era sposato e non aveva moglie… E se anche Clemenza d’Ungheria avesse accettato, quante settimane, quanti mesi avrebbe dovuto aspettare prima che una presenza umana venisse a consolare le sue notti? E mi amerà, poi, quella donna? Non farà come l’altra?

All’improvviso si decise. Aprì la porta e svegliò il primo ciambellano che dormiva vestito in anticamera.

«È sempre Eudeline che si occupa della biancheria di palazzo?»«Sì, sire… credo, sire…» rispose Mathieu de Trye.«Bene, vedete di appurarlo. E se è ancora lei, mandatela a chiamare subito.»Sorpreso, insonnolito («Dorme, lui!» pensava Luigi con rancore), il

ciambellano chiese al re se desiderava che fossero cambiate le lenzuola.

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L’Attaccabrighe ebbe un gesto d’impazienza. «Sì, sì. Andate a chiamarla, ho detto!»

Poi tornò in camera sua e ricominciò il suo ansioso va e vieni, chiedendosi: Starà ancora qui, Eudeline? La troveranno?

Dieci minuti dopo Eudeline fece il suo ingresso con una pila di lenzuola e Luigi X sentì subito che non aveva più freddo.

«Monsignor Luigi… voglio dire, sire!» esclamò la guardarobiera. «Lo sapevo, io, che non era il caso di mettere nel letto lenzuola nuove. Ci si dorme male. È stato il signor de Trye a insistere: diceva che questo è l’uso. Io volevo mettere lenzuola già lavate più volte, di tela fine. Sono davvero molto più morbide.»

Era un donnone biondo, fiorente, con un gran seno e un’aria feconda che faceva pensare alla pace, al calore, al riposo. Aveva poco più di trent’anni, ma sul suo viso restava una sorta di stupore adolescenziale, tranquillo. Dal berretto bianco che portava di notte sfuggivano lunghe trecce color dell’oro che ricadevano sulle spalle della camicia. Si era messa in fretta una cappa.

Luigi la guardò un momento in silenzio per il tempo necessario a Mathieu de Trye, lì in piedi, pronto a rendersi utile, per capire che non avevano più bisogno di lui.

«Non è per le lenzuola che vi ho fatta chiamare», confessò alla fine il re.Un tenero rossore d’imbarazzo salì alle gote della guardarobiera. «Oh,

monsignore… cioè, sire… Siete tornato a palazzo e vi siete ricordato di me?…»Era stata la sua prima amante, dieci anni prima. Quando Luigi, a quindici anni,

aveva saputo di dover sposare una principessa di Borgogna, era stato colto da un’improvvisa frenesia di conoscere l’amore e anche da un gran panico all’idea di non sapere come comportarsi con la futura moglie. E mentre Filippo il Bello e Marigny pensavano ai vantaggi politici del matrimonio, il giovane principe era preoccupato soltanto dei misteri della natura. La notte fantasticava che tutte le dame di corte soccombessero ai suoi ardori; ma di giorno, quando le incontrava, non riusciva a parlare e se ne stava lì con le mani che gli tremavano, senza sapere dove guardare.

Poi, un pomeriggio d’estate, si era gettato d’improvviso addosso a quella bella ragazza bionda che, in un corridoio, gli camminava davanti, tranquilla, le braccia cariche di biancheria pulita. Le si era scagliato addosso con violenza, con rabbia, come se gliene volesse per la paura che provava. Era lei o nessuna, ora o mai più… Comunque non l’aveva violentata; l’agitazione, l’ansia, la poca esperienza gliel’avevano impedito. Poi aveva ordinato a Eudeline che gli insegnasse i misteri dell’amore. Dato che non aveva sicurezza da uomo, doveva far ricorso a privilegi

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da principe. E gli era andata bene: Eudeline non si era presa gioco di lui, anzi, si era considerata onorata di arrendersi in un ripostiglio ai desideri di quel figlio di re, lasciandogli credere di provare anche piacere. Da allora si era sempre sentito uomo, con lei.

Certe mattine, mentre si preparava per la caccia o per esercitarsi alle armi, Luigi la mandava a chiamare. Eudeline aveva fatto in fretta a capire che il bisogno d’amore gli veniva solo quando aveva paura. Per molti mesi, prima dell’arrivo di Margherita di Borgogna, e anche dopo, Eudeline aveva aiutato in questo modo Luigi a superare i suoi terrori.

«Vostra figlia dove sta, adesso?» chiese il re.«Da mia madre. È lei che l’alleva. Non ho voluto che restasse con me; somiglia

troppo a suo padre», rispose lei con un mezzo sorriso.«Con lei, almeno», disse Luigi, «posso essere sicuro che il padre sono io.»«Oh! Certo, monsignore! Certo che è vostra!… Cioè, sire. Il suo viso si fa di

giorno in giorno sempre più somigliante al vostro. E vi farebbe sentire a disagio che la gente del palazzo la vedesse.»

Infatti una bimba, poi battezzata Eudeline come la madre, era stata concepita in quegli amori frettolosi. Qualunque donna appena portata all’intrigo si sarebbe assicurata il futuro grazie a quel frutto del proprio grembo, divenendo madre di baroni. Ma l’Attaccabrighe aveva così tanta paura di confessare la cosa a re Filippo che Eudeline, lasciandosi impietosire ancora una volta, aveva preferito tacere.

Suo marito, all’epoca, era al servizio di Nogaret e doveva star dietro al padrone sulle strade di Francia e d’Italia. Trovando, al ritorno, la moglie prossima al parto, contò i mesi sulle dita e cominciò ad arrabbiarsi. Ma di solito le donne sono attirate dallo stesso tipo d’uomo: anche il cancelliere di Nogaret non aveva un grande temperamento. E quando sua moglie gli confessò la provenienza del regalo inatteso, la paura spense la collera come un soffio di vento spegne una candela. Aveva deciso di tacere anche lui ed era morto quasi subito, non tanto di crepacuore quanto d’una tremenda febbre intestinale contratta nelle paludi romane.

Ed Eudeline aveva continuato a sovrintendere i bucati di palazzo per cinque soldi ogni cento tovaglie lavate. Era diventata «prima guardarobiera», e a palazzo questa era una bella carica borghese.

Intanto la piccola Eudeline cresceva, non senza testimoniare la tendenza dei figli adulterini a mostrare nei tratti del viso il loro retaggio illegittimo. Ed Eudeline sperava che un giorno o l’altro Luigi se ne ricordasse. Le aveva promesso così tante volte e con tanta solennità che, una volta diventato re, avrebbe coperto la figlia d’oro e di titoli!

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Quella sera pensava che aveva fatto bene a credergli. Anzi, si meravigliava che fosse stato così rapido a mantenere la promessa. Non è cattivo, si ripeteva. Ha modi scostanti, ma non è affatto cattivo.

Turbata dai ricordi, dalla consapevolezza del tempo che passa, dalle stranezze del destino, guardava quel re che una volta aveva trovato tra le sue braccia il primo soddisfacimento e una virilità inquieta e adesso era là, in camicia, seduto su una poltrona di legno, i capelli che gli ricadevano sulle spalle, le braccia intorno alle ginocchia.

Perché, si domandava, perché è capitato a me?«Quanti anni ha tua figlia?» chiese Luigi X. «Nove, o sbaglio?»«Nove esatti, sire.»«Farò di lei una principessa non appena sarà in età da marito. Ho deciso. E tu

che cosa vuoi?»Aveva bisogno di lei. Era quello il momento giusto per trarne profitto. La

discrezione non paga, con i grandi della terra, e bisogna sforzarsi di esprimere un bisogno, un’esigenza, un desiderio, anche a costo di inventarselo, quando si offrono di soddisfarlo. In seguito si sentono sciolti dall’obbligo di riconoscenza per il semplice fatto d’aver offerto, e dimenticano di dare. Dal canto suo, Luigi avrebbe volentieri passato la notte a dettagliare donazioni generose a patto che Eudeline gli tenesse compagnia fino all’alba. E invece, stupita dalla domanda, lei si limitò a rispondere: «Quel che vorrete, sire».

Subito lui tornò a preoccuparsi di se stesso. «Ah! Eudeline, Eudeline!» gridò. «Avrei dovuto mandarti a chiamare al palazzo di Nesle, dove ho cosi sofferto, in questi mesi…»

«So, monsignore, che la vostra sposa non vi ha voluto bene… Ma non mi sarei mai azzardata a venire: non sapevo che vi avrebbe fatto piacere vedermi, o se al contrario vi avrei dato fastidio…»

Lui la guardava, ma non l’ascoltava più. Il suo sguardo aveva assunto un’inquietante fissità. Eudeline sapeva bene che cosa significava quello sguardo: lo conosceva da quando il giovane re aveva quindici anni.

«Sdraiati», le ordinò, brusco.«Là, monsignore?… Cioè, sire…» mormorò lei un po’ spaventata, indicando il

letto di Filippo il Bello.«Esatto, là!» rispose l’Attaccabrighe con voce sorda.Per un istante lei esitò dinanzi a quello che le pareva un sacrilegio. Ma

dopotutto Luigi era il re, adesso, e quel letto era diventato suo. Si tolse il berretto, lasciò cadere la cappa e la camicia; le sue trecce d’oro non erano più coperte,

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adesso. Era ingrassata un po’, ma conservava la bella linea della vita, la schiena ampia, i fianchi che parevano di seta sui quali la luce giocava… I suoi gesti erano docili, calmi, ed era proprio di docilità che Luigi aveva bisogno. Come lo scaldino scaccia il freddo dalle lenzuola, quel bel corpo avrebbe scacciato i demoni dal letto.

Un po’ inquieta, un po’ orgogliosa, Eudeline scivolò sotto la trapunta d’oro. «Avevo ragione», commentò subito, «sono ruvide, le lenzuola nuove!»

Luigi s’era tolto la camicia con gesti febbrili; magro, le spalle ossute, goffo, si gettò su di lei con una precipitazione disperata, come se l’urgenza pressante non potesse tollerare il benché minimo ritardo.

Fretta vana. I re non comandano proprio su tutto e in certe cose sono esposti a fallimenti come gli altri uomini. I desideri dell’Attaccabrighe erano più che altro complicazioni cerebrali. Aggrappato alle spalle di Eudeline come uno che annega si aggrappa a una boa, si sforzava, per amor di apparenza, di superare un cedimento che lasciava adito a poche speranze. Certo se faceva così con Margherita di Borgogna, pensava Eudeline, c’è da capire che lei abbia finito con il tradirlo.

Tutti i silenziosi incoraggiamenti che lei gli prodigò e tutti gli sforzi che lui fece e che non erano certo degni d’un principe avviato alla vittoria restarono senza esito. Lui si scostò, vinto, vergognoso; tremava, sull’orlo della collera e dei singhiozzi.

Lei cercò di calmarlo.«Avete tanto camminato, oggi! Avete patito tanto freddo, e il vostro cuore è così

triste! È più che naturale, la sera dopo aver seppellito il proprio padre. Può capitare a chiunque, vi pare?»

L’Attaccabrighe contemplava la bella donna bionda, offerta e inaccessibile, distesa là come a voler incarnare qualche castigo infernale, che lo guardava con compassione.

«Tutta colpa di quella sgualdrina, quella puttana…» Eudeline si tirò indietro, credendo che gli insulti fossero indirizzati a lei.

«Io volevo che la mettessero a morte per la sua colpa», continuò Luigi a denti stretti. «Mio padre non ha voluto. Non mi ha vendicato. E adesso io sono come morto, io!… In questo letto che mi ricorda la mia disgrazia, non potrò mai dormire!»

«Ma no, monsignor Luigi», mormorò dolcemente Eudeline, stringendoselo contro. «Se è un così buon letto! È un letto da re. E per scacciare ciò che vi turba, dovete ospitarvi una regina.» Era commossa, umile, senza rancore, senza malizia.

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«Lo credi davvero, Eudeline?»«Certo, monsignor Luigi, ve lo assicuro. In un letto da re, ci vuole una

regina», ripeté lei.«Forse ne avrò una presto. Pare che sia bionda come te.»«È un grande onore, sire», rispose Eudeline.«Dicono che sia bellissima e assai virtuosa. Vive a Napoli…»«Ma certo, monsignor Luigi, certo. Sono sicura che vi farà felice. Adesso però

dovete riposare.»Materna gli offriva l’appoggio di una spalla tiepida che odorava di lavanda, lo

ascoltava fantasticare ad alta voce di quella donna sconosciuta, di quella principessa lontana della quale lei, quella notte, occupava invano il posto. Con i miraggi dell’avvenire lui si consolava delle disgrazie del passato e delle sconfitte del presente.

«Ma sì, monsignor Luigi, è proprio la moglie che vi ci vuole. Vedrete come vi sentirete forte, accanto a lei…»

Alla fine Luigi tacque. E lei restò lì senza osare muoversi, i grandi occhi fissi sulle tre catene della lampada, aspettando l’alba per ritirarsi.

Il re di Francia si era addormentato.

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PARTE SECONDA

I LUPI SI DIVORANO L’UN L’ALTRO

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I • LUIGI L’ATTACCABRIGHE TIENE IL SUO PRIMO CONSIGLIO

Per sedici anni Marigny aveva fatto parte del consiglio ristretto, sette dei

quali sedendo alla destra del re. Per sedici anni aveva servito lo stesso sovrano al fine di portare avanti la stessa politica. Per sedici anni era stato certo di ritrovarvi amici fedeli e subordinati zelanti. E capì subito, quel mattino, appena varcata la soglia del consiglio, che tutto era cambiato.

Intorno al lungo tavolo i consiglieri erano presenti più o meno nello stesso numero del solito e dal camino si diffondeva nella stanza il consueto odore di legno di quercia bruciato. Ma i posti erano distribuiti in modo diverso e c’erano facce nuove.

Accanto a membri per diritto o tradizione quali i principi del sangue o il connestabile Gaucher de Châtillon, Marigny non vide Raoul de Presles, né Nicole le Loquetier, né Guillaume Dubois, eminenti legisti, servitori fedeli di Filippo il Bello. Erano stati rimpiazzati da uomini come Etienne de Mornay, cancelliere del conte di Valois, o Béraud de Mercoeur, feudatario turbolento, uno dei più ostili, da anni e anni, all’amministrazione reale.

Carlo di Valois, dal canto suo, si era preso il posto di Marigny.Dei vecchi uomini di fiducia del re di ferro restava solo, dietro il connestabile,

l’ex ciambellano Ugo di Bouville, che aveva resistito per l’unico motivo che apparteneva all’alta nobiltà. I consiglieri di estrazione borghese erano stati eliminati.

Marigny colse con un solo sguardo tutte le intenzioni di offesa e di sfida del quale faceva testimonianza, nei suoi riguardi, la composizione e la disposizione

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d’un consiglio del genere. Restò un momento immobile, la mano sinistra al collo della veste, sotto il mento largo, il gomito destro stretto sulla borsa dei documenti, come se stesse pensando: «Avanti! È ora di dar battaglia!» e stesse raccogliendo le forze.

Poi, rivolgendosi a Ugo di Bouville, ma parlando in modo che tutti potessero udirlo, domandò: «Il signor de Presles è malato? E i signori de Bourdenai, de Briançon e Dubois hanno avuto qualche contrattempo? Non li vedo. Bisogna considerarli assenti giustificati?»

Il grosso Bouville esitò un istante, poi, abbassando lo sguardo, rispose: «Non ho avuto io l’incarico di riunire il consiglio. Ha provveduto il signor de Mornay».

Girandosi a mezzo sulla sedia che aveva appena occupato, Valois disse allora, con insolenza appena velata: «Non avrete dimenticato, signor de Marigny, che il re convoca a consiglio chi vuole, come vuole e quando vuole! È nei diritti di un sovrano».

Marigny fu lì lì per replicare che se era vero che il re aveva in effetti il diritto di invitare a far parte del consiglio chi voleva, era anche vero che aveva il dovere di scegliere uomini competenti, e le competenze non s’improvvisano dalla sera alla mattina.

Ma preferì tener da conto le sue argomentazioni per un contraddittorio meno ozioso e sedette, apparentemente calmo, davanti a Valois, sulla sedia vuota a sinistra della poltrona reale.

Aprì la borsa dei documenti e ne tolse pergamene e tavolette che dispose in bell’ordine sul tavolo. Le sue mani sottili e nervose contrastavano con la grossezza del corpo. Cercò macchinalmente sotto il tavolo il gancio al quale era solito appendere la borsa; non lo trovò e represse un moto d’irritazione.

Valois conversava con aria di mistero con il nipote Carlo di Francia. Filippo di Poitiers leggeva, avvicinandolo agli occhi miopi, un documento datogli dal connestabile che riguardava un suo vassallo. Luigi d’Evreux taceva. Erano tutti vestiti di nero. Ma monsignor di Valois, nonostante il lutto, era abbigliato con il fasto di sempre: sul vestito di velluto spiccavano ricami d’argento e bordure d’ermellino che lo addobbavano come un carro funebre. Non aveva davanti pergamena né tavolette e lasciava al suo cancelliere il compito subalterno di leggere e scrivere: a lui bastava parlare.

La porta che conduceva agli appartamenti del sovrano si aprì e comparve Mathieu de Trye, annunciando: «Signori, il re».

Valois si alzò per primo e s’inchinò con una deferenza così ostentata da diventare solenne protezione. L’Attaccabrighe esordì: «Scusate, signori, il

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ritardo…»E subito tacque, come se si pentisse di quel che aveva detto. Si era dimenticato

che era il re e doveva quindi arrivare per ultimo al consiglio. Di nuovo di sentì prendere dall’ansia, come il giorno prima in Saint-Denis, come la notte prima nel letto di suo padre.

Era venuto il momento di mostrarsi re. Ma la capacità di regnare non è una disposizione che si manifesta per miracolo. Le braccia penzoloni, gli occhi rossi, stava lì senza muoversi; non si sedeva e non faceva sedere il consiglio.

I secondi passavano; il silenzio diventava penoso.Mathieu de Trye fece l’unica cosa giusta da fare in quel momento: tirò indietro

ostentatamente la poltrona del re. Luigi sedette e mormorò: «Accomodatevi, signori».

Con gli occhi della mente rivide il padre al suo posto e assunse istintivamente la sua posizione, le mani di piatto sui braccioli della poltrona. Ciò gli diede un po’ di sicurezza. Girandosi verso il conte di Poitiers, disse: «Fratello, la mia prima decisione vi riguarda. Non appena sarà terminato il periodo di lutto, intendo conferirvi la parìa per la vostra contea di Poitiers, perché voi possiate essere annoverato tra i pari e mi aiutiate a reggere il peso della corona».

Poi, rivolgendosi al secondo fratello: «A voi, fratello, voglio donare in feudo e appannaggio la contea delle Marche, con i diritti e le rendite relative».

I due principi si alzarono e si avvicinarono, ai due lati del seggio regale, per baciare la mano del primogenito in segno di gratitudine. I provvedimenti che li riguardavano non erano eccezionali né inattesi. L’attribuzione della parìa al primo fratello del re era d’uso; e si sapeva da tempo che la contea delle Marche, riacquistata dai Lusignano per volere di Filippo il Bello, era destinata al giovane Carlo4.Monsignor di Valois assunse un’aria tronfia, come se l’iniziativa fosse venuta da

lui, e indirizzò ai due principi un piccolo gesto che sottintendeva: «Visto? Ho fatto i vostri interessi».

Luigi X, dal canto suo, non poteva dirsi altrettanto soddisfatto: aveva dimenticato di cominciare rendendo omaggio alla memoria del padre defunto e parlando della continuità del potere. Le due belle frasi che si era preparato gli erano uscite di mente e adesso non sapeva più come ricollegarle.

Ci fu di nuovo un silenzio imbarazzato, pesante. C’era un assente, qualcuno di cui si sentiva troppo la mancanza: il morto.

Enguerrand de Marigny guardò il giovane re; era evidente che si aspettava di sentirgli pronunciare le parole di rito: «Signore, vi confermo nelle vostre cariche

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di coadiutore e rettore generale del regno…»Visto che nessuno apriva bocca, Marigny si comportò come se la riconferma

fosse già avvenuta e chiese: «Di quali affari, sire, desiderate essere messo al corrente? Della riscossione delle tasse e delle imposte, delle condizioni del Tesoro, dei decreti del parlamento, della carestia che infuria nelle province, del posizionamento delle guarnigioni, della situazione in Fiandra, delle richieste avanzate dai baroni di Borgogna e di Champagne?»

Il che stava a significare: «Sire, ecco le questioni delle quali mi occupo. Queste e molte altre ancora, potrei andare avanti parecchio a sgranare questo rosario. Pensate di essere in grado di far a meno di me?»

L’Attaccabrighe si girò verso lo zio Valois con l’aria di mendicare aiuto.«Signor de Marigny, il re non ci ha convocati per discutere di questi affari»,

dichiarò Valois. «Ne parleremo in seguito.»«Se nessuno mi mette al corrente sull’ordine del giorno del consiglio,

monsignore, non posso indovinarlo da me», replicò Marigny.«Il re, signori», proseguì Valois senza dare importanza all’intervento polemico

del coadiutore del regno, «vuole sentire la vostra opinione a proposito della prima preoccupazione che ogni buon sovrano deve avere: quella della discendenza e della successione al trono.»

«Esatto, signori», confermò Luigi sforzandosi di assumere un tono solenne. «Il mio primo dovere è quello di assicurare la successione e a questo scopo ho bisogno di una moglie…» E non seppe andare avanti. Valois riprese la parola.

«Il re ritiene dunque di doversi ora accingere alla scelta di una sposa, e la sua attenzione si è rivolta a Clemenza di Ungheria, figlia del re Carlo Martello e nipote del re di Napoli. Vorremmo sentire il vostro parere prima di inviare un’ambasciata.»

Filippo di Poitiers avvicinò il viso al conte d’Evreux.«Ecco perché», mormorò, «hanno cominciato con il darmi il contentino della

parìa.» Poi, ad alta voce: «Qual è il pensiero del signor de Marigny su questo soggetto?»

Comportandosi così, commetteva deliberatamente una scorrettezza nei confronti del fratello maggiore, poiché era diritto del sovrano, e soltanto del sovrano, invitare i membri del consiglio a esprimere la loro opinione. Nessuno avrebbe osato una simile mancanza di rispetto in un consiglio del re Filippo. Ma ormai tutti sembravano comandare; e visto che lo zio del nuovo re si attribuiva la prerogativa di dominare il consiglio, be’, il fratello poteva pure prendersi le stesse libertà.

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Marigny piegò un po’ in avanti il busto massiccio.«Clemenza di Ungheria avrà di certo tutte le qualità necessarie per esser

regina», disse, «altrimenti il re non l’avrebbe presa in considerazione. Ma a parte il fatto che è la nipote di monsignor di Valois, cosa che basta e avanza a farcela amare, non vedo quali vantaggi porterebbe al regno un matrimonio del genere. Suo padre Carlo Martello è morto da molto tempo ed era re d’Ungheria solo di nome; suo fratello Charobert…» a differenza di Carlo di Valois, Marigny pronunciava il nome alla francese, «…suo fratello Charobert è riuscito finalmente l’altr’anno, dopo tre lustri di manovre e spedizioni, a porsi in capo quella corona magiara che ancora non gli sta troppo salda in testa. Tutti i feudi e i principati della casa d’Angiò sono già divisi tra i membri della famiglia, così numerosi che si allargano nel mondo come una macchia d’olio sulla tovaglia. C’è da credere che la famiglia regnante non sia che un ramo della discendenza d’Angiò5. Da un matrimonio del genere non ci si può aspettare alcun accrescimento territoriale, come sempre auspicava re Filippo, né alcun aiuto in caso di guerra, poiché tutti questi principi lontani hanno già abbastanza da fare nei loro domini. In altre parole, sire, sono sicuro che vostro padre si sarebbe opposto a un’unione la cui dote sembra esser composta più di nuvole che di terre.»

Monsignor di Valois era arrossito e agitava le gambe sotto il tavolo. Ogni frase di Marigny conteneva una perfidia al suo indirizzo.

«È facile, per voi», gridò, «è facile per voi, signore, parlare a nome di chi è ormai nella tomba. Vi replicherò, per parte mia, che la virtù di una regina è più importante di una provincia. I bei matrimoni di Borgogna che avete organizzato non hanno avuto esito tale da farvi considerare oggi buon giudice in materia. Vergogna e dolore, ecco che cos’hanno portato!»

«Sì, è così», dichiarò bruscamente Luigi.«Sire», rispose Marigny, con una sfumatura di scoraggiamento e di disprezzo,

«eravate giovanissimo quando il vostro matrimonio fu deciso da vostro padre; e il signor di Valois non sembrava poi tanto ostile al progetto, all’epoca, e neanche in seguito, dal momento che ha voluto far sposare suo figlio con la sorella di vostra moglie per render più stretti i vostri vincoli di parentela.»

Valois accusò il colpo e arrossì ancor di più. Gli era parsa una mossa molto abile, in effetti, unire il figlio maggiore Filippo alla sorella minore di Margherita, quella che chiamavano Giovanna la Piccola, o anche Giovanna la Zoppa, perché aveva una gamba più corta dell’altra6.

Marigny proseguì: «La virtù delle donne è cosa incerta, sire, così come la loro bellezza è cosa passeggera; ma le province, quelle, restano. Il regno, negli ultimi

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tempi, si è ingrandito più con i matrimoni che con le guerre. È così che monsignor di Poitiers ha avuto la Franca Contea; è così che…»

«Questo consiglio», intervenne bruscamente Valois, «è stato convocato con lo scopo di ascoltare il signor de Marigny che tesse le proprie lodi o al fine di portare avanti la volontà del re?»

«Per far questo, monsignore», replicò vivacemente Marigny, «bisogna anzitutto evitare di mettere il carro davanti ai buoi! Si possono sognare per il re tutte le principesse della terra, e comprendo la sua impazienza; ma prima di tutto bisogna scioglierlo dal vincolo che lo lega con la sua attuale sposa. Monsignor d’Artois non vi ha portato da Château-Gaillard le notizie che auspicavate, mi pare. Per ottenere l’annullamento ci vuole prima di tutto un papa…»

«…quel papa che ci andate promettendo da sei mesi e più, Marigny, ma che ancora non è uscito da questo inconcludente conclave. I vostri inviati hanno maltrattato talmente i cardinali a Carpentras che quelli sono scappati a gambe levate per la campagna, sollevando la sottana. Non mi sembra che possiate andare gran che fiero di come avete condotto la faccenda! Se aveste dimostrato più moderazione e maggior rispetto per i ministri di Dio, rispetto che vi è estraneo, si sa, noi non ci troveremmo in questa situazione.»

«Sono riuscito a evitare fino a ora che venga eletto un papa che sia una creatura dell’aristocrazia romana o napoletana; re Filippo voleva giustamente un papa che fosse utile alla Francia.»

Gli uomini innamorati del potere sono spinti innanzi tutto dalla volontà di agire sull’universo, di determinare gli eventi, e d’aver ragione. Ricchezza, onori, premi, sono solo mezzi per poter fare. Marigny e Valois appartenevano entrambi a questa specie d’uomini.

Erano sempre stati ostili e solo Filippo il Bello aveva saputo tenere a bada i due avversari, servendosi al meglio dell’intelligenza politica del legista e delle qualità militari del principe di sangue. Ma Luigi X era sopraffatto dalla disputa, del tutto incapace di arbitrarla.

Il conte d’Evreux intervenne, nel tentativo di riportare la calma, e avanzò una proposta che potesse riconciliare le due posizioni.

«Se contemporaneamente a una promessa di matrimonio con Clemenza d’Ungheria ottenessimo dal re di Napoli un nulla osta per l’elezione al soglio pontificio d’un cardinale francese?»

«Allora sicuramente, monsignore», disse Marigny, più calmo, «un accordo del genere avrebbe un senso; ma dubito assai che si possa ottenere.»

«Non rischiamo niente a provarci. Mandiamo un’ambasciata a Napoli, se

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questo è il volere del re.»«Certo, signori.»«Bouville, il vostro parere?» chiese bruscamente l’Attaccabrighe per dare

l’impressione di prendere in mano la cosa.Il grosso Bouville trasalì. Era stato un ottimo ciambellano, attento alle spese e

ligio maggiordomo, ma i suoi orizzonti non erano gran che ampi; e Filippo il Bello non gli si rivolgeva mai, in consiglio, se non per comandargli di far aprire le finestre.

«Sire», improvvisò, «è una nobile famiglia, quella nell’ambito della quale intendete scegliere la vostra nuova moglie, una famiglia di solide tradizioni cavalleresche. Saremo onorati di servire una regina che…» s’interruppe, cogliendo un’occhiata di Marigny che sembrava voler dire: Mi tradisci, Bouville!

Bouville e Marigny erano amici fedeli, di vecchia data. Marigny aveva cominciato facendo lo scudiero per il padre di Bouville, Ugo II, all’epoca gran ciambellano, che doveva essere ucciso sotto gli occhi di Filippo il Bello a Mons-en-Pévèle. Negli anni della sua straordinaria ascesa, era sempre stato legato al figlio del suo signore d’una volta.

I Bouville appartenevano alla nobiltà più alta. La carica di ciambellano, se non quella di gran ciambellano, era da più di un secolo quasi ereditaria, per loro. Ugo III, succeduto al fratello Giovanni, a sua volta succeduto al padre Ugo II, era, per natura e per tradizione, così devoto servitore della corona, così ammirato della maestà reale, che quando il re parlava, non sapeva far altro che approvare. Che l’Attaccabrighe fosse uno sciocco e un pasticcione non cambiava niente; e dal momento che lui era il re, Bouville riversava su di lui tutto lo zelo testimoniato in precedenza a Filippo il Bello.Questa deferenza diede subito i suoi frutti, perché Luigi X decise di mandare

Bouville come ambasciatore a Napoli. La scelta suscitò un certo stupore, ma nessuna opposizione. Valois, già pensando di sistemare tutto per lettera, in segreto, riteneva che un uomo mediocre ma docile era proprio il tipo di ambasciatore che gli faceva comodo. E Marigny pensava: Sì, sì, mandate pure Bouville. Ha le capacità diplomatiche d’un bambino di cinque anni. Vedrete che bei risultati.

E l’onesto servitore della corona, tutto rosso, si ritrovò così incaricato di un’importante missione che non si aspettava neanche lontanamente.

«Ricordatevi, Bouville, che ci serve un papa», raccomandò il giovane re.«Sire, non penserò ad altro.»Luigi X cominciava d’improvviso ad assumere atteggiamenti autoritari; avrebbe

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voluto vedere il suo messaggero già in viaggio. «Al ritorno passerete da Avignone», ordinò. «E farete in modo da affrettare questo conclave. E poiché sembra che i cardinali siano persone che si possono comperare, vi farete rifornire d’oro da Marigny.»

«E dove dovrei prendere quest’oro?» chiese quest’ultimo.«Ma… dal Tesoro, naturalmente!»«Le casse del Tesoro sono vuote, sire, e resta appena quanto basta per onorare

i pagamenti da qui a san Nicola e aspettare le nuove entrate. Nient’altro.»«Come sarebbe che il Tesoro è vuoto?» esclamò Valois. «E perché non l’avete

detto subito?»«È quello che avrei voluto fare, monsignore. Siete stato voi a impedirmelo.»«E per quale motivo, a vostro parere, ci troviamo in questa situazione?»«Perché è difficile riscuotere le tasse da un popolo affamato. Poiché i baroni,

come voi sapete meglio di me, monsignore, fanno resistenza a pagare le imposte. Perché il prestito concesso dai banchieri lombardi è stato appena sufficiente a pagare a questi stessi baroni le spese dell’ultima spedizione in Fiandra, quella spedizione che avete così caldamente appoggiato…»

«…e che voi avete voluto concludere di testa vostra, signore, prima che i nostri cavalieri avessero potuto incontrarvi la gloria e le nostre finanze avessero potuto trovarvi profitto. Se il regno non ha guadagnato nulla dagli accordi affrettati che siete andato a concludere a Lilla, suppongo comunque che non possa dirsi altrettanto per voi. Non è vostra abitudine dimenticarvi di voi stesso, negli affari che portate avanti. L’ho imparato a mie spese.»

L’ultima frase faceva riferimento allo scambio delle due rispettive signorie di Gaillefontaine e Champrond, avvenuto quattro anni prima, peraltro su richiesta di Valois, che però alla fine si era ritenuto truffato. La loro inimicizia era iniziata allora.

«Ciò non toglie», intervenne Luigi X, «che il signor di Bouville debba mettersi in cammino al più presto.» Marigny non sembrò aver udito le parole del re. Si alzò, e tutti furono certi che stava per accadere qualche cosa d’irreparabile.

«Sire, vorrei che il signor di Valois chiarisse la sua ultima affermazione a proposito dei trattati di Lilla e di Marquette, oppure che ritirasse quel che ha detto.»

Passò qualche istante senza che nessuno parlasse, nella stanza del consiglio. Poi il signor di Valois si alzò a sua volta, facendo ballonzolare le code d’ermellino che gli adornavano il vestito alle spalle e alla vita.

«Vi dico in faccia, signore, quello che tutti mormorano alle vostre spalle, e cioè

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che i fiamminghi vi hanno pagato perché ritiraste le nostre truppe, e che voi avete intascato del denaro destinato al Tesoro.»

Le mascelle contratte, il viso butterato pallido di collera, lo sguardo fisso nel vuoto, Marigny sembrava la sua statua situata nella Galerie Mercière.

«Sire», disse, «ho sentito oggi più di quanto un uomo d’onore dovrebbe tollerare di sentire nella vita intera. Tutti i miei averi li devo soltanto alla bontà del re vostro padre, del quale sono stato in tutto e per tutto servo e vicario per sedici anni. E mi si accusa dinanzi a voi di appropriazione indebita e di connivenza con i nemici del regno. Poiché non una voce, e tanto meno la vostra, sire, si leva qui a difendermi contro un simile affronto, vi chiedo di nominare una commissione che controlli i miei conti, dei quali sono responsabile dinanzi a voi, e a voi solo.»

I principi mediocri tollerano soltanto di aver intorno soltanto adulatori che celino loro la loro stessa mediocrità. L’atteggiamento di Marigny, il suo tono, la sua stessa presenza ricordavano con troppa evidenza al giovane re quanto fosse inferiore a suo padre.Scaldandosi anche lui, Luigi X esclamò: «E sia! La commissione sarà nominata,

signore, dal momento che siete voi a chiederlo».Così dicendo, scavava un abisso tra sé e l’unico uomo in grado di governare al

suo posto e di dirigere il suo regno. La Francia avrebbe pagato per anni e anni quell’alzata d’ingegno.

Marigny raccolse la sua borsa dei documenti, la riempì e si diresse verso la porta. Il suo gesto irritò ancor di più l’Attaccabrighe, che aggiunse: «E fino ad allora, fate in modo di non avere più nulla a che vedere con il nostro Tesoro».

«Sarà mia cura, sire, statene certo», replicò Marigny, già sulla porta.E i suoi passi si allontanarono nell’anticamera.Valois trionfava, quasi sorpreso anche lui dalla rapidità della liquidazione di

Marigny.«Avete sbagliato», gli disse il conte d’Evreux. «Avete sbagliato, fratello. Non si

tratta così un uomo simile.»«Ho fatto benissimo, invece, fratello», replicò Valois, «e me ne sarete grato

quanto prima. Marigny è un brutto neo sul volto del regno, e bisogna far presto a eliminarlo.»

«Zio», disse Luigi, tornando con impazienza alla sua unica preoccupazione, «quando partirà l’ambasciata alla volta della corte di Napoli?»

Non appena Valois gli ebbe promesso che Bouville sarebbe partito in settimana, aggiornò la seduta. Era scontento di tutto e di tutti, perché, in verità, era scontento di se stesso.

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II • ENGUERRAND DE MARIGNY

Preceduto come al solito dai due mazzieri con il bastone a foggia di giglio

di Francia, scortato da segretari e scudieri, Enguerrand de Marigny, tornando a casa, ribolliva di collera. «Quel briccone, quel dannato, accusarmi di aver firmato la tregua dietro compenso! È un appunto quanto meno ridicolo, venendo da lui, che ha passato la vita a vendersi ai migliori offerenti… e quel reuccio dal cervello di gallina, più astioso di una vespa, non ha detto una parola in mia difesa, anzi, è intervenuto per togliermi la gestione del Tesoro!»

Camminava senza vedere nulla, né le strade, né la gente. Governava gli uomini così dall’alto e da così tanto tempo che aveva perso l’abitudine di guardarli. I parigini si tiravano da parte dinanzi a lui, s’inchinavano, facevano grandi scappellate e poi lo seguivano con lo sguardo scambiandosi commenti amari. Non era amato, o almeno, non lo era più.

Giunto al suo palazzo di rue des Fossés-Saint-Germain, attraversò il cortile di buon passo, gettò il suo mantello al braccio più lesto a tendersi e, sempre stringendo la borsa dei documenti, salì la scala ricurva.

Grossi cassoni, grossi candelieri, spessi tappeti, tendaggi pesanti: il palazzo era arredato con cose solide, fatte per durare. Un esercito di valletti lavorava al servizio del padrone e un esercito d’impiegati lavorava al servizio del regno.

Enguerrand spinse la porta della stanza dove sapeva di trovare la moglie. Quest’ultima stava ricamando in un angolo del focolare; sua sorella, la signora de Chanteloup, una vedova chiacchierona, le sedeva accanto. Due vivaci levrierette italiane nane saltellavano ai piedi delle donne.

Vedendo il volto del marito, Madame de Marigny cominciò a preoccuparsi.«Marito mio, che cos’è successo?»Alips de Marigny, nata de Mons, godeva da più di cinque anni della devozione

dell’uomo che l’aveva sposata in seconde nozze e nutriva per lui un affetto

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incrollabile e appassionato.«È successo», replicò Marigny, «che adesso che non c’è più re Filippo con la

frusta a tenerli a bada, i cani si sono lanciati alle mia calcagna.»«Posso far qualcosa per aiutarvi?»Lui la ringraziò, ma con tanta durezza, aggiungendo che sapeva benissimo

cavarsela da solo, che alla giovane donna vennero le lacrime agli occhi. Enguerrand allora si chinò a baciarla in fronte, mormorando: «Vi sono grato, Alips: amo solo voi!»

Poi andò nel suo studio, gettò la borsa dei documenti su un cassettone. Andò su e giù per un po’ da una finestra all’altra, per dare alla ragione il tempo di prendere il sopravvento sulla collera. «M’avete tolto il Tesoro, nuovo re, ma non il resto. Aspettate. Non mi spezzerete così facilmente…»

Suonò un campanello. «Quattro guardie, subito», ordinò all’impiegato che si presentò.

Gli uomini salirono subito dal corpo di guardia. Marigny diede loro disposizioni: «Tu, va’ a cercare Alain de Pareilles al Louvre. Tu raggiungi mio fratello l’arcivescovo che oggi dev’essere al palazzo episcopale. Tu, da messer Dubois e da messer Raoul de Presles. Tu corri dal signor le Loquetier. Se non li trovate a palazzo, datevi da fare a scovarli. E dite a tutti che li aspetto qui seduta stante».

Non appena i quattro uomini se ne furono andati, Marigny scostò una tenda e aprì la porta che dava sulla stanza dei segretari privati.

«Devo dettare una lettera.»Arrivò un impiegato con scriviritto e penne.Girando le spalle al fuoco, Marigny cominciò: «Al potentissimo, amatissimo,

temutissimo sire, re Edoardo d’Inghilterra, duca d’Aquitania… Sire, nello stato in cui mi trovo, poiché Iddio ha richiamato a sé il mio signore, padrone e sovrano, il molto rimpianto re Filippo, il più grande che il regno abbia avuto, mi rivolgo a voi per mettervi a parte di cose che riguardano il bene delle nostre due nazioni…»

S’interruppe per suonare di nuovo il campanello. Riapparve l’impiegato di prima. Marigny gli ordinò di far rintracciare Louis de Marigny, suo figlio. Poi continuò a dettare.

Dal 1308, data del matrimonio di Isabella di Francia con Edoardo II d’Inghilterra, Marigny aveva avuto occasione di fare a quest’ultimo molti favori personali e politici.

La situazione, nel ducato di Aquitania, era sempre difficile e tesa a causa del singolare statuto di quel feudo francese retto da un sovrano straniero. Cent’anni e

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più di guerre, di dispute incessanti, di trattati contestati o smentiti, avevano lasciato il segno.

Quando i vassalli della Guienna, a seconda degli interessi e delle rivalità del momento, si rivolgevano a un sovrano o all’altro, Marigny aveva sempre fatto del suo meglio per evitare conflitti. D’altra parte il ménage di Edoardo e Isabella non era certo un esempio di armonia. Quando Isabella si lamentava dei costumi anormali del marito e gli rimproverava i favoriti con i quali lei viveva in stato di guerra perenne, Marigny raccomandava la calma e la pazienza, per il bene del regno. E poi il Tesoro d’Inghilterra era spesso in difficoltà. Quando Edoardo era a corto di quattrini, Marigny si arrabattava per fargli concedere un prestito.

In segno di gratitudine per tanti favori, Edoardo, l’anno precedente, aveva concesso al coadiutore una pensione di mille lire al mese, a vita7.

Adesso toccava a Marigny rivolgersi al re inglese per chiedere aiuto. Era essenziale per i buoni rapporti tra i due regni che gli affari francesi continuassero a esser gestiti dalla stessa persona.

«È in gioco, sire, più della mia sorte o della mia fortuna; vedrete bene che è in gioco la pace degli imperi, per la quale sono e resto vostro fedelissimo servitore.»

Si fece rileggere la lettera e apportò qualche correzione. «Ricopiatela in bella e portatemela da firmare.»

«Deve partire con i messaggeri, monsignore?» chiese il segretario.«No. Devo apporvi il mio sigillo.»Il segretario uscì. Marigny allentò il bavero del vestito; l’azione gli faceva

gonfiare il collo. Povero regno, pensava. In che pasticci, in che stato miserabile vogliono gettarlo, se non mi oppongo! Non avrò fatto tanto per veder vanificare tutti i miei sforzi?

Gli uomini che hanno esercitato il potere molto a lungo finiscono con l’identificarsi con la propria carica e per considerare ogni offesa alla loro persona un’offesa, un attentato agli interessi del paese. Marigny era esattamente in questa situazione e quindi pronto, senza rendersene neanche conto, ad agire contro il regno, esattamente dal momento in cui l’avevano estromesso dalla piena facoltà di comando.

Fu in questa disposizione di spirito che accolse il fratello arcivescovo.Alto e allampanato nel suo manto violetto, Jean de Marigny aveva sempre

un’aria d’affettazione che non piaceva al coadiutore. A Enguerrand veniva voglia di dire al fratello minore: «Assumi atteggiamenti del genere a beneficio dei tuoi canonici, se vuoi, ma non con me, che ti ho visto sbrodolarti di zuppa e pulirti il naso con le dita».

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In poche parole gli raccontò del consiglio appena conclusosi e gli diede le direttive, nello stesso tono categorico che usava con i suoi impiegati.

«Non voglio papi, per il momento: finché non ci sarà pontefice, quel reuccio è nelle mie mani. Quindi, niente cardinali riuniti ordinatamente e pronti ad accogliere Bouville e starlo a sentire, al suo ritorno da Napoli. Niente pace ad Avignone. Che si discuta, che ci si sbrani. E voi farete in modo, fratello, che sia così.»

Jean de Marigny, che sulle prime si era mostrato indignatissimo udendo il racconto del fratello, si rabbuiò subito quando si cominciò a parlare del conclave. Rifletté un momento, contemplando il suo anello pastorale.

«Allora, fratello? Sto aspettando il vostro consenso», lo esortò Enguerrand.«Fratello mio, sapete che è mio desiderio servirvi; e penso di potervi riuscire

ancor meglio se diventerò cardinale. E a seminare nel conclave più zizzania di quanta già ce ne sia, rischio di alienarmi l’amicizia di qualche papabile, come Francesco Caetani, per esempio, il quale, se in seguito venisse eletto, mi rifiuterebbe il cappello cardinalizio…»

«Il vostro cappello!» esplose Marigny. «Proprio il momento giusto, per parlarne! Il vostro cappello, se mai riuscirete a ottenerlo, mio povero Jean, ve lo metterò in capo io, come già vi ho messo in capo la mitra. Ma se degli stupidi calcoli vi indurranno a tener bordone ai miei avversari, sappiate che vi ritroverete ben presto non soltanto senza cappello, ma anche senza scarpe, come miserabile monacello relegato in qualche remoto convento. Fate troppo in fretta a dimenticare, Jean, quel che mi dovete, e da quale brutta situazione vi ho tirato fuori appena due mesi fa per quell’imbroglio con i beni del Tempio. A proposito…» Il suo sguardo si fece più scintillante, più acuto, sotto le spesse sopracciglia. «A proposito, avete poi potuto distruggere quelle prove lasciate con tanta imprudenza in mano al banchiere Tolomei e delle quali i lombardi si sono serviti per indurmi a cedere?»

L’arcivescovo mosse la testa in un gesto che poteva essere interpretato come un’affermazione; ma subito si mostrò più docile e pregò il fratello di dettagliare meglio le istruzioni.

«Mandate due emissari ad Avignone», disse Enguerrand, «due emissari, uomini di chiesa di sicurezza assoluta, uomini che dipendano completamente da voi, intendo. Mandateli a Carpentras, a Châteauneuf, a Orange, dove sono sparpagliati i cardinali, e diffondete con autorevolezza, come se venisse dalla corte di Francia, assicurazioni una all’opposto dell’altra. Uno dirà ai cardinali francesi che il nuovo re permetterà il ritorno a Roma della Santa Sede; un altro dirà agli italiani che noi

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siamo orientati a stabilire la sede del papato più vicino ancora a Parigi per tenerla meglio sotto controllo. Il che poi corrisponde al vero, in un caso e nell’altro, perché il re non è in grado di giudicare su queste cose, Valois vuole il papa a Roma e io lo voglio in Francia. Il re pensa solo all’annullamento del suo matrimonio e non vede più in là del suo naso. L’otterrà, ma solo quando vorrò io, e da un papa che io sceglierò… Per ora, quindi, ritardiamo l’elezione. Fate in modo che i nostri due inviati non abbiano contatti fra loro; anzi, sarebbe meglio che non si conoscessero nemmeno.»

Ciò detto, congedò il fratello per dare udienza al figlio Louis, in attesa nell’anticamera. Ma quando il giovanotto fu entrato, Marigny restò un momento zitto. Pensava con tristezza, con amarezza: Jean mi tradirà, se appena potrà illudersi di trarne profitto…

Louis de Marigny era un ragazzo magro, ben fatto, che vestiva con eleganza. Somigliava molto, nel fisico, allo zio arcivescovo.

Figlio d’un personaggio dinanzi al quale il regno intero s’inchinava, figlioccio del re, il giovane non aveva mai conosciuto la fatica, la lotta. Se da una parte ostentava, ovviamente, ammirazione e rispetto per il padre, dall’altra soffriva in segreto per l’autorità brutale e le rudi maniere di Enguerrand, che denunciavano le sue origini di uomo arrivato al potere attraverso l’azione. Quasi quasi avrebbe voluto rimproverare al padre i suoi bassi natali.

«Louis, preparatevi», gli disse Enguerrand. «Andrete subito a Londra a consegnare una lettera.»

Il viso del giovanotto s’incupì.«Non si potrebbe aspettare dopodomani, padre, o mandare qualcun altro al

mio posto? Domani devo andare a caccia al bosco di Boulogne… niente di grandioso, dal momento che siamo in periodo di lutto, ma…»

«Cacciare! Non pensate ad altro che andar a caccia!» gridò Marigny. «Non chiedo mai niente ai miei, faccio sempre tutto io, ma come mi azzardo a domandare la più piccola cosa, cominciano a recriminare! Sappiate che adesso è me che stanno cacciando, per togliermi la pelle, e la vostra pelle insieme con la mia! Se fosse stato sufficiente un messaggero qualunque, ci avrei pensato da solo! Vi mando dal re d’Inghilterra affinché una mia lettera sia consegnata a lui personalmente e non ne vengano fatte copie che il vento potrebbe risbattere da queste parti. Questo solletica abbastanza il vostro orgoglio da indurvi a rinunciare alla caccia?»

«Perdonatemi, padre», disse Louis de Marigny. «Obbedirò.»«Dando la lettera a re Edoardo, al quale ricorderete che vi ha conosciuto l’anno

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scorso a Maubuisson, aggiungerete questo, che non ho scritto, e cioè che Carlo di Valois sta trafficando per risposare il nuovo re a una principessa di Napoli, il che farebbe orientare l’asse delle nostre alleanze verso sud piuttosto che verso nord. Ecco. Mi avete capito. E se re Edoardo vi domanda che cosa può fare per questo, ditegli che mi sarebbe di grande aiuto se mi raccomandasse caldamente al cognato re Luigi… Prendete gli scudieri e i credenzieri che vi servono; ma niente lusso principesco. E fatevi dare cento lire dal mio tesoriere.»

Qualcuno bussò alla porta.«È arrivato il signor de Pareilles», disse l’impiegato. «Che entri. Addio, Louis. Il

mio segretario vi porterà la lettera. Che il Signore vegli sul vostro cammino.» Enguerrand de Marigny abbracciò il figlio, contrariamente alle sue abitudini. Poi si volse verso Alain de Pareilles che stava entrando, lo prese per le braccia e mostrandogli una sedia dinanzi al camino lo esortò: «Scaldati, Pareilles».

Il capitano generale degli arcieri aveva i capelli grigio acciaio, il viso duramente segnato dal tempo e dalla guerra, e i suoi occhi avevano veduto tanti combattimenti, colpi di mano, ribellioni, torture ed esecuzioni che non poteva più stupirsi di nulla. Gli impiccati di Montfaucon erano diventati uno spettacolo abituale. Nell’anno in corso aveva condotto i Templari al rogo, i fratelli d’Aunay alla ruota e le principesse reali in prigione.

Comandava il corpo degli arcieri, gli armigeri di tutte le fortezze: l’ordine pubblico del regno era sua responsabilità e anche l’esecuzione dei mandati di giustizia repressiva e criminale. Marigny, che non dava del tu a nessun membro della sua famiglia, dava del tu al vecchio amico, strumento puntuale, senza mancanze né debolezze, del potere dello stato.

«Due missioni per te, Pareilles», esordì Enguerrand, «ed entrambe hanno a che vedere con l’ispezione delle fortezze. Prima di tutto, vai a Château-Gaillard e da’ una scrollata a quel somaro che comanda… come si chiama?»

«Bersumée, Robert Bersumée.»«Ecco. Dirai a questo Bersumée che segua alla lettera gli ordini ricevuti. Ho

saputo che Roberto d’Artois è andato a Château-Gaillard e gli hanno lasciato vedere Margherita di Borgogna. Questo vuol dire disobbedire agli ordini. La regina, ammesso che la si possa definire tale, è condannata alla segregazione a vita. Non c’è salvacondotto che tenga, per avvicinarla, a meno che non porti il mio sigillo o il tuo. Solo il re può visitarla, e non credo proprio che gliene venga voglia. Quindi, niente ambasciate e niente messaggi. E che quel somaro sappia che gli staccherò le orecchie se non obbedirà.»

«Che cosa vorresti che ne fosse, di Margherita di Borgogna, monsignore?»

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chiese Pareilles.«Niente. Che viva. Mi serve come ostaggio e me la devo conservare. Che si

provveda alla sua sicurezza. Che si migliori, se necessario, vitto e alloggio, se il rigore dovesse nuocere alla sua salute… In secondo luogo, non appena ritornato da Château-Gaillard, punterai verso sud con tre compagnie di arcieri e andrai a piazzarti nel forte di Villeneuve, per rinforzare il nostro contingente di fronte ad Avignone. Mi raccomando, fatti vedere, quando arrivi, e ordina agli arcieri di sfilare sei volte di seguito dinanzi alla fortezza, così che dall’altra parte pensino che sono entrati in duemila. La parata è a beneficio dei cardinali, per completare lo scherzetto che ho organizzato già in altro modo. Ciò fatto, torna subito: avrò bisogno di te, qui…»

«…dove l’aria che tira non è delle migliori, per noi, eh, monsignore?»«No, infatti. Addio, Pareilles. Metterò per iscritto i tuoi ordini.»Marigny era più calmo. Le tessere del suo mosaico cominciavano ad andare a

posto. Rimasto solo, rifletté un momento. Poi andò nella stanza dei segretari. Degli stalli di quercia scolpita coprivano i muri fino a mezza altezza, come nel coro di una chiesa. Ogni stallo aveva la sua tavoletta con i pesi per mantener tesa la pergamena e dei corni fissati ai braccioli per metterci gli inchiostri. Dei sostegni girevoli ospitavano registri e documenti. Quindici impiegati lavoravano in quella stanza, in silenzio. Marigny siglò e sigillò la lettera a re Edoardo, passando, e raggiunse la sala seguente, dove i legisti che aveva convocato si trovavano a consiglio, insieme con Bourdenai e Brianfon, accorsi spontaneamente alle novità.

«Signori», disse Marigny, «non siete stati convocati al consiglio di stamane. Allora terremo tra noi una seduta molto ristretta.»

«Manca solo il nostro re Filippo», osservò Raoul de Presles con un sorriso triste.

«Preghiamo perché il suo spirito ci assista», aggiunse Geoffroy de Briançon.E Nicole le Loquetier commentò: «Lui non dubitava di noi».«Sediamo, signori», esortò Marigny.E quando tutti ebbero preso posto: «Prima di tutto debbo mettervi al corrente

di una novità: mi è stata tolta la gestione del Tesoro e il re incaricherà una commissione di controllare i rendiconti. È un’offesa per voi quanto per me. Ma mi raccomando, signori, non date sfogo alla vostra indignazione: abbiamo di meglio da fare. Io intendo presentare conti pulitissimi. E per far ciò…» Esitò e si tirò un po’ indietro sulla sedia. «Per far ciò», riprese, «darete ordine a tutti i prevosti e i gabellieri, in ogni baliato e siniscalcato, di pagare i sospesi immediatamente. Che si paghino i fornitori, che si paghino i lavori in corso, e

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tutto ciò che è stato chiesto dalla corona, senza dimenticare quel che tocca alla casa di Navarra. Che si paghi ovunque fino a esaurimento dell’oro, anche ciò che si potrebbe posticipare. E per il saldo, dichiareremo fallimento.»

I legisti fissarono prima Marigny, poi si guardarono in faccia fra di loro. Avevano capito: e qualcuno non poté fare a meno di sorridere. Marigny fece scricchiolare le falangi, come se stesse rompendo delle noci.«Monsignor di Valois vuole mettere le mani sul Tesoro? S’accomodi! Si

mangerà le unghie e dovrà cercare altrove i soldi per i suoi intrighi!»

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III • PALAZZO VALOIS

La tremenda agitazione che regnava a casa di Marigny, sulla riva sinistra

della Senna; era cosa da nulla al confronto con ciò che stava succedendo sulla riva destra, a palazzo Valois. Là cantavano vittoria, convinti del trionfo, quasi quasi avrebbero messo il pavese alla finestra.

«Hanno tolto il Tesoro a Marigny!»La novità, prima sussurrata, oramai si gridava. Tutti sapevano e volevano

mostrare di sapere: tutti commentavano, tutti facevano conti, tutti facevano previsioni, e si creava intorno un brusio tessuto di vanterie, conciliaboli, adulazioni ipocrite. L’ultimo dei baccellieri ostentava l’autorità di connestabile per rimbrottare i valletti. Le donne comandavano con più decisione, i bambini strillavano con più energia. I ciambellani, dandosi una quantità d’arie, si passavano l’un l’altro con gravità futilissime consegne, e nemmeno l’ultimo degli scrivani rinunciava a mostrarsi solenne quanto un alto dignitario.

Le dame chiocciavano intorno alla contessa di Valois, alta, magra, altera. Il canonico Etienne de Mornay, cancelliere del conte, passava come un vascello tra onde di nuche che si piegavano in segno di rispetto. Tutta una clientela effervescente, infida, entrava, usciva, sostava nei vani delle finestre, esprimeva il proprio parere sugli affari pubblici. L’odore del potere si era sparso per Parigi e tutti cercavano di annusarlo un po’ più da vicino.

Andò avanti così per una settimana intera. Arrivavano fingendo d’essere stati chiamati, o nella speranza d’una convocazione, dal momento che il signor di Valois, chiuso nel suo studio, si consultava con moltissima gente. Apparve perfino, come un fantasma del secolo passato, sorretto da uno scudiero dalla barba bianca, l’anziano signor de Joinville, distrutto e smagrito dall’età. Il siniscalco ereditario di Champagne, compagno di san Luigi nella crociata del 1248, nonché suo turiferario, aveva novantadue anni. Mezzo cieco, le palpebre umide e il senno un

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po’ svanito, portava al conte di Valois la fedeltà della vecchia cavalleria e della società feudale.

Per la prima volta da più di trent’anni, il partito baronale sembrava spuntarla. E si sarebbe detto, dal pigia pigia di coloro che si affrettavano a radunarla, che la vera corte non fosse al Palais de la Cité ma a palazzo Valois.

Dimora di re, d’altro canto. Non c’era trave al soffitto che non fosse scolpita, non c’era cappa di camino che non fosse adorna degli scudi di Francia, d’Angiò, di Valois, Perche, Maine e Romagna, e anche delle armi d’Aragona o degli emblemi imperiali di Costantinopoli dal momento che Carlo di Valois era stato insignito, per breve tempo e solo nominalmente, della corona di Aragona e quella dell’impero latino d’Oriente. Ovunque i pavimenti erano nascosti da lane di Smirne e le pareti da tappeti di Cipro. Sulle credenze e sui tavoli brillava una profusione di ori, smalti e vermeil sbalzato.

Ma questa facciata d’opulenza nascondeva una piaga, la carenza cronica di denaro. Tutte queste meraviglie erano per tre quarti ipotecate per sopperire alle spese spropositate necessarie a mandare avanti la casa. A Valois piaceva far figura. Se gli invitati erano meno di sessanta, la tavola gli pareva vuota. Un menu con meno di venti portate lo considerava roba da quaresima. Lo stesso discorso degli onori e dei titoli valeva per i gioielli, gli abiti, i mobili e le stoviglie: gli serviva troppo di tutto per dargli l’impressione d’aver abbastanza.

Tutti intorno a lui approfittavano di tanto fasto. Mahaut de Châtillon, la terza signora di Valois, aveva un gran da fare ad accumulare vestiti e gioielli, e non c’era principessa di Francia che si adornasse di tante perle e di tante gemme. Filippo di Valois, il figlio maggiore, la cui madre era un’Angió-Sicilia, adorava le armature padovane, gli stivali di Cordova, le lance in legno del nord, le spade tedesche.

Non c’era negoziante, presentatosi a offrire un oggetto raro o lussuoso con l’accortezza di lasciar intuire che qualche altro signore avrebbe voluto comperarlo, che se ne andasse senza aver concluso l’affare.

Le ricamatrici di palazzo e quelle di tutta la città non bastavano a fornire le cotte d’armi, i tappeti da sella, le gualdrappe, gli abiti di monsignore, le sopravvesti della signora.

Il coppiere rubava sul vino, gli scudieri sul foraggio, i ciambellani sulle candele e il cuoco sulle spezie. Come si saccheggiava la biancheria, si scialacquava in cucina. E questo era l’andazzo quotidiano.

Ma il conte di Valois doveva far fronte a ben altro.Padre prolifico, aveva numerosissime figlie nate da tre letti. Ogniqualvolta ne

sposava una, Carlo si vedeva costretto a indebitarsi ulteriormente perché dote e

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festeggiamenti nuziali fossero all’altezza dei troni sui quali sedevano i generi. La sua fortuna si basava su questa rete di alleanze.

Certo aveva domini immensi, i più grandi, dopo quelli del re. Ma le rendite arrivavano appena a coprire gli interessi dei prestiti. E la gente disposta a prestare si faceva più rara di mese in mese. Se avesse avuto meno fretta di restaurare il suo credito, monsignor di Valois avrebbe mostrato meno fretta nell’impicciarsi degli affari del regno.

Ma certe battaglie riducono il vincitore più a mal partito del vinto. Prendendo in mano il Tesoro, Valois stringeva solo del vento. Gli inviati nei baliati e nelle prevosture per raccogliere qualche soldo tornavano con l’aria abbacchiata. Erano regolarmente stati preceduti dagli uomini di Marigny: non restava un centesimo negli scrigni dei prevosti, che, stando agli ordini, avevano saldato ogni sospeso per presentare conti «ineccepibili».

E mentre al pianterreno del palazzo una folla intera si scaldava e si rifocillava a sue spese, Valois, nel suo studio, al primo piano, ricevendo visita dopo visita, cercava il sistema di riempire non più soltanto i suoi forzieri, ma anche quelli dello stato.

Una mattina, verso la fine di quella epica settimana, era a colloquio con il cugino Roberto d’Artois. Aspettavano una terza persona.

«Questo banchiere, questo lombardo, lo avete convocato per stamattina?» diceva Valois. «Vi confesso che non vedo l’ora di vederlo.»

«Eh, cugino», replicò il gigante, «credete, sono impaziente quanto voi. Perché a seconda della risposta che vi darà Tolomei (senz’altro un brigante della peggior specie, ma grande esperto di questioni finanziarie), vi chiederò qualcosa anch’io.»

«Che cosa?»«I miei arretrati, cugino, gli arretrati delle rendite di quella contea di Beaumont

che mi hanno concesso cinque anni fa per far mostra di pagarmi l’Artois, ma dei quali non ho ancora visto un soldo8. Sono in credito di più di ventimila lire, ormai, e su questa somma Tolomei mi presta denaro a usura. Ma dal momento che adesso voi avete il Tesoro…»

Valois alzò le braccia al cielo.«Cugino», esclamò, «il problema da risolvere oggi è trovare il necessario per

mandare Bouville a Napoli. Il re continua a ripetere che vuole che parta, che parta. Dopo di ciò, il primo affare che sistemeremo, ve lo prometto, sarà

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certamente la vostra questione.»A quante persone, da otto giorni a quella parte, aveva dato la stessa garanzia?«Ma questa è l’ultima volta che Marigny riesce a giocarci, anche questo ve lo

prometto. Quel cane renderà il maltolto, e i vostri arretrati li prenderemo dai suoi beni. Perché dove credete che siano finite le rendite della vostra contea? Nella sua cassaforte, cugino, nella sua cassaforte!»

E monsignor di Valois, andando su e giù per il suo ufficio, dava voce una volta in più ai suoi risentimenti nei confronti del coadiutore; un modo come un altro per eludere richieste precise.

Ai suoi occhi, Marigny era il responsabile di tutto. Era stato commesso un furto a Parigi? Marigny non riusciva a far funzionare a dovere le guardie, o forse era addirittura complice dei malfattori. Una delibera del parlamento andava a detrimento di un grande signore feudale? Era stato Marigny a ispirarla.

Mali grandi e piccoli, la mancata sottomissione delle. Fiandre, la carestia di grano, tutto quanto aveva un solo artefice, una sola origine. L’adulterio delle principesse, la morte del re e perfino l’inverno precoce erano colpa di Marigny: Dio puniva così il regno d’aver troppo a lungo tollerato un ministro tanto malvagio!

D’Artois, di solito tanto impulsivo e spaccone, guardava il cugino in silenzio, senza stancarsi mai di quei discorsi. E in effetti, su chi, come lui, vantava qualche tratto del carattere simile a qualche goccia di sangue in comune, monsignor di Valois esercitava un certo fascino.

Personaggio davvero eccezionale, questo principe impaziente e tenace, veemente e scaltro, fisicamente coraggioso ma sensibilissimo alla lode, sempre animato da ambizioni enormi, sempre alle prese con avventure di portata gigantesca e regolarmente vinto dall’incapacità di valutare correttamente la realtà. Se la cavava molto meglio con la guerra che con il governo pacifico.

A ventisette anni, posto da suo fratello al comando delle truppe francesi, aveva devastato la Guienna in rivolta; il ricordo di quest’impresa lo riempiva ancora d’orgoglio. A trentun anni, chiamato da papa Bonifacio e dal re di Napoli per combattere i ghibellini e pacificare la Toscana si era fatto dare indulgenze da crociata nonché il titolo di vicario generale della Cristianità e conte di Romagna. Poi la sua «crociata» era consistita nel saccheggio delle città italiane e nell’estorsione di duecentomila fiorini d’oro ai fiorentini per conceder loro la grazia di andare a saccheggiare altrove.

Questo grande feudatario megalomane dimostrava d’avere tempra d’avventuriero, gusti da tarpano e volontà da fondatore di dinastia. Non c’era al

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mondo scettro libero o trono vacante verso il quale Valois non tendesse la mano. E sempre senza risultato.

E adesso, a quarant’anni compiuti, Carlo di Valois esclamava volentieri: «Mi sono tanto prodigato invano: la sorte mi è sempre stata nemica!»

E ripensando a tutti i suoi sogni svaniti, al sogno di Aragona, al sogno d’un regno d’Arles, al sogno bizantino, al sogno tedesco, li metteva insieme nella grande illusione d’un impero esteso dalla Spagna al Bosforo, come quello romano, mille anni prima, sotto Costantino.

Non era riuscito a dominare l’universo. Ma almeno gli restava la Francia per sfogare la sua turbolenza.

«Pensate davvero che accetti, il vostro banchiere?» chiese d’improvviso a d’Artois.

«Sì, sì. Vorrà delle garanzie, ma accetterà.»«Ecco, vedete a che punto sono ridotto, cugino!» esclamò Valois con una

disperazione niente affatto simulata. «Mi trovo ridotto a dipendere dalla benevolenza d’un usuraio senese per cominciare a rimettere un po’ d’ordine nel regno!»

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IV • IL PIEDE DI SAN LUIGI

Messer Tolomei fu fatto entrare nello studio e Roberto d’Artois si raddrizzò

su tutta la sua struttura per accoglierlo a braccia aperte.«Caro amico banchiere, ho debiti ingenti con voi e ho promesso di restituirvi

quanto vi debbo non appena la sorte mi avesse favorito. Ebbene, quel momento è arrivato!»

«Questa sì che è una bella notizia, monsignore», replicò Spinello Tolomei con un inchino.

«E per prima cosa», proseguì d’Artois, «voglio cominciare con il procurarvi un cliente reale.»

Tolomei s’inchinò di nuovo, ancor più profondamente, dinanzi a Carlo di Valois: «Chi non conosce monsignore, almeno di vista, di nome? Ha lasciato… ricordi notevoli, a Siena…»

Più o meno gli stessi che a Firenze, a parte il fatto che, essendo Siena più piccola, si era accontentato di diciassettemila fiorini per «pacificarla».

«Anch’io ho un ottimo ricordo della vostra città», replicò Valois.«La mia città adesso è Parigi, monsignore.»Il colorito scuro, le guance grasse e pendenti, l’occhio sinistro chiuso che gli

conferiva un’espressione maliziosa, Tolomei aspettava che gli dicessero di sedersi. Valois infatti gli indicò una sedia. Messer Tolomei aveva diritto a qualche attenzione particolare. I mercanti e i banchieri italiani a Parigi lo avevano eletto recentissimamente, alla morte del vecchio Boccanegra, «capitano generale» delle compagnie. Questa carica, che gli permetteva di controllare o perlomeno di conoscere la quasi totalità delle operazioni bancarie sul territorio nazionale, gli dava un potere segreto ma enorme. Tolomei era una specie di connestabile del credito.

«Voi non siete all’oscuro, amico banchiere», riprese d’Artois, «del grande

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trambusto di questi giorni. Il signor de Marigny, che non è vostro amico, credo, così come non è nostro amico, naviga in cattive acque…»

«Lo so…» convenne Tolomei.«Così ho consigliato a monsignor di Valois, dal momento che aveva necessità

di un esperto di finanza, di rivolgersi a voi, poiché so per certo che siete abile quanto fidato.»

Tolomei ringraziò con un sorrisetto di convenienza. Sotto la palpebra chiusa, osservava i due grandi feudatari e pensava: se intendessero offrirmi la gestione del Tesoro, non mi farebbero tante moine.

«In che cosa posso servirvi, monsignore?» domandò, rivolgendosi a Valois.«Be’, in che cosa potrebbe servirmi un banchiere?» replicò lo zio del re con la

sicumera che ostentava ogni volta che si trovava a dover chiedere dei soldi.«Ah, ho capito, monsignore. Avete denaro da investire in merci che

raddoppieranno di valore di qui a sei mesi? Volete entrare nel commercio navale che ha un così grande sviluppo oggigiorno, dal momento che bisogna procurarsi via mare tante cose che mancano? Sarei onorato di servirvi in queste incombenze.»

«No, non si tratta di questo», rispose vivacemente Valois.«Mi dispiace, monsignore. Mi dispiace per voi. I migliori guadagni si

realizzano in tempo di carestia…»«Quello che vorrei adesso è che mi prestiate un po’ di denaro… per il Tesoro.»Tolomei assunse un’espressione desolata.«Ah! Monsignore, vorrei tanto potervi soddisfare: ma questa è proprio l’unica

cosa che non sono in grado di fare. Le nostre compagnie hanno subito un ingente salasso, negli ultimi mesi. Abbiamo dovuto fare al Tesoro un grosso prestito che non ci frutta niente per coprire il costo della guerra di Fiandra…»

«Questo riguarda Marigny.»«Senz’altro, monsignore, ma si tratta del nostro denaro. Dopo questa faccenda i

nostri forzieri si sono un po’ arrugginiti alle serrature. Di quanto avete bisogno?»«Diecimila lire.»In questa cifra Valois aveva calcolato cinquemila lire per l’ambasciata di

Bouville, mille per Roberto d’Artois e il resto per far fronte ai propri debiti più improrogabili.

Il banchiere giunse le mani dinanzi al viso. «Santa Madonna! Ma dove posso trovarli?» esclamò.

Le sue proteste dovevano essere considerate preliminare d’uso. D’Artois aveva preavvisato Valois di questo. Cosi lo zio del re usò il tono d’autorevolezza che di

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solito metteva a malpartito i suoi interlocutori.«Andiamo, andiamo, messer Tolomei! Non meniamo il can per l’aia. Vi ho

convocato perché facciate il vostro mestiere, come avete sempre fatto, e con profitto, penso.»

«Il mio mestiere, monsignore», replicò tranquillamente Tolomei, «il mio mestiere è quello di prestare, non di regalare. E invece, da qualche tempo a questa parte, ho regalato molto, e senza alcun profitto. Non fabbrico denaro di mio e non ho inventato la pietra filosofale.»

«Allora non volete aiutarmi a sbarazzarmi di Marigny? È anche nel vostro interesse, mi pare!»

«Monsignore, pagare un tributo al proprio nemico quando è potente e poi pagare ancora perché non lo sia più è una duplice operazione che, ne converrete, non porta utile alcuno. Almeno bisognerebbe sapere che cosa succederà dopo, per vedere se ci sarà modo di rifarsi.»

Carlo di Valois cominciò subito la grande tirata che riservava a tutti i visitatori, da otto giorni a quella parte. Lui intendeva, se appena ne avesse avuto modo, sopprimere tutte le «novità» introdotte da Marigny e dai suoi legisti borghesi. Intendeva restituire ogni autorità ai grandi feudatari. Intendeva riportare il regno alla prosperità tornando al vecchio diritto feudale che aveva reso grande la Francia. Intendeva ristabilire «l’ordine». Come tutti gli arruffoni politici, si riempiva la bocca di parole alle quali non attribuiva altro significato se non quello delle leggi, dei ricordi, e delle illusioni del passato.

«Vi assicuro che quanto prima si tornerà ai buoni costumi del mio antenato san Luigi!»

Così dicendo mostrava, posto su una specie di altare, un reliquiario a forma di piede che conteneva un osso del tallone del nonno; il piede era in argento, con unghie d’oro.

I resti del santo re, infatti, erano stati divisi tra tutti i membri della famiglia; tutte le cappelle reali avevano voluto conservare una reliquia. La parte superiore del cranio era conservata in un busto, capolavoro d’oreficeria, alla Sainte-Chapelle. La contessa Mahaut d’Artois, nel suo castello di Hesdin, conservava dei capelli e un frammento di mascella; ed erano state distribuite tante falangi, tante schegge e tante briciole che veniva da chiedersi che cosa diamine contenesse la tomba di Saint-Denis. Sempre ammettendo che vi fosse stata tumulata la spoglia giusta… Poiché in Africa si raccontava con insistenza una leggenda secondo la quale il corpo del re francese sarebbe stato sepolto vicino a Tunisi mentre il suo esercito riportava in patria un feretro vuoto o con dentro

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un cadavere qualsiasi9.Tolomei andò a baciare devotamente il piede d’argento e poi chiese: «Come

mai vi servono giusto diecimila lire, monsignore?»

Per Valois fu giocoforza rivelare almeno parte dei suoi progetti più immediati. Il senese ascoltava facendo segno di sì con la testa, come se prendesse nota mentalmente.

«Messer de Bouville a Napoli… sì… sì. Noi commerciamo con Napoli tramite i cugini Bardi… Far sposare il re… sì, sì, capisco, monsignore. Riunire il conclave… Ah! Monsignore, un conclave è più caro di un palazzo, da costruire, e le fondamenta sono meno solide… Sì, monsignore, sì… vi ascolto.»

Alla fine, quando ebbe saputo quel che voleva sapere, il capitano generale dei lombardi dichiarò: «Mi sembra tutto ben programmato, monsignore, e vi auguro il successo con tutto il cuore. Ma niente mi assicura che darete moglie al re, né che avrete un papa, e neanche, se tutto questo accadrà, che rivedrò i miei soldi, sempre ammettendo che io sia in grado di prestarveli».

Valois lanciò un’occhiata irritata a d’Artois. Che razza d’individuo mi avete portato, sembrava voler dire quell’occhiata, non avrò per caso speso tanto fiato per non ottenere niente?

«Su, banchiere», esclamò d’Artois alzandosi. «Andiamo, che interessi vuoi? Che garanzie? Quali franchigie? O che altro?»

«Ma nulla, monsignore, nessuna garanzia», protestò Tolomei. «Niente da voi, lo sapete bene, né da monsignore, la cui protezione mi è troppo cara. Sto solo cercando il modo… il modo di aiutarvi.»

Poi girandosi di nuovo verso il piede d’argento, proseguì con dolcezza: «Monsignor di Valois ha appena detto che intende restituire al regno tutti i buoni usi dei tempi di monsignor san Luigi. Ma che cosa intende, con questo? Proprio tutti gli usi?»

«Ma sicuro», rispose Valois, senza capire dove il senese volesse andare a parare con quel discorso.

«Per esempio, si intende ristabilire il diritto baronale di batter moneta sulle proprie terre? Se venisse ripristinata quest’usanza, monsignore, riuscirei ad aiutarvi meglio.»

Valois e d’Artois si guardarono in faccia. Il banchiere puntava dritto sul più importante provvedimento che Valois meditava, quello che teneva più segreto

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perché era il più dannoso per il Tesoro e poteva essere duramente osteggiato.In effetti l’unificazione della moneta del regno e il monopolio reale di

emissione erano istituzioni di Filippo il Bello. Precedentemente i grandi feudatari coniavano o facevano coniare, in concorrenza con la moneta reale, altre monete d’oro e d’argento che avevano corso nei loro feudi. Traevano da questo privilegio una notevole fonte di profitto. E ne traevano profitto anche coloro che, come i banchieri lombardi, fornivano metallo grezzo e sfruttavano la variazione dei tassi da una regione all’altra. E Valois faceva affidamento appunto su questo «buon uso» per migliorare lo stato delle sue finanze.

«Volete dire, monsignore», proseguì Tolomei, continuando a studiare il reliquiario come se stesse stimando il valore, «volete dire che restaurerete anche il diritto di guerra privata?»

Era un’altra delle prerogative feudali abolite dal re di ferro al fine di impedire ai grandi vassalli di guerreggiare a loro piacimento e insanguinare il regno per regolare contese personali, dar sfogo di vanagloria e cacciare la noia.

«Ah! Che ci sia presto restituito questo buon diritto!» esclamò Roberto. «Non tarderei a riprendere a mia zia Mahaut la contea d’Artois!»

«Se dovrete armare le truppe, monsignore», disse subito Tolomei, «posso mettere al vostro servizio i migliori armaioli toscani.»

«Messer Tolomei, avete appena esposto le cose che intendo realizzare», convenne allora Valois, riprendendo sicurezza. «Quindi, a questo punto, vi chiedo di camminare al mio fianco.»

Gli uomini di finanza non hanno minore immaginazione dei conquistatori e solo chi li conosce male pensa che siano ispirati esclusivamente dalla cupidigia di guadagno. I loro calcoli spesso nascondono miraggi astratti di potenza.

Il capitano generale dei lombardi sognava anche lui, diversamente dal conte di Valois, ma sognava. Si vedeva già intento a fornire di oro grezzo i grandi baroni del regno, a guidare le loro contese fornendo loro l’armamento. Poiché è chi ha l’oro e le armi ad avere il potere vero. Messer Tolomei si gingillava con pensieri di regno…

«Allora», riprese Valois, «siete disposto adesso a procurarmi la somma che vi ho chiesto?»

«Forse, monsignore, forse. Non che io sia in grado di darvela di mio; ma posso senz’altro trovarla in Italia, cosa che andrà benissimo dal momento che è proprio là che è diretta la vostra ambasciata. Per voi, è la stessa cosa.»

«Certo», fu costretto a rispondere Valois.Ma la soluzione del problema era ben lungi dal soddisfare le sue aspettative;

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così gli diventava difficile, per non dire impossibile, attingere al prestito per necessità personali. Vedendo che Valois si rabbuiava, Tolomei pensò di battere il ferro finché era caldo.

«Voi offrirete la garanzia del Tesoro: ma tutti sanno, o comunque noi sappiamo, che le casse del Tesoro sono vuote. Queste voci circolano in fretta da una filiale all’altra. Quindi sarà necessario che uno dei miei accompagni il vostro inviato con delle lettere di cambio per prendere il denaro sotto la sua responsabilità.»

Valois si accigliava sempre di più.«Ehi! Monsignore!» disse Tolomei, «non sono il solo, in quest’affare. Le

compagnie italiane sono ancora più diffidenti delle nostre, e bisogna che io dia loro ogni garanzia che non si ritroveranno gabbate.»

Per la verità, Tolomei voleva avere un uomo di sua fiducia al seguito dell’ambasciata, uno che in nome suo e per suo conto spiasse l’ambasciatore, controllasse l’impiego dei fondi, si facesse mettere al corrente dei progetti di alleanza, venisse a conoscenza dei pensieri dei cardinali e lavorasse nell’ombra nel senso che gli sarebbe stato comandato. Messer Spinello Tolomei regnava già un pochino.

Roberto d’Artois aveva detto a Valois che il senese avrebbe chiesto una garanzia, un pegno: non aveva immaginato che quella garanzia potesse essere una fetta di potere.

Per lo zio del re era giocoforza, per ottenere il necessario a soddisfare Luigi, sottostare alle condizioni del banchiere.

«E chi avete pensato di inviare al seguito dell’ambasciata, qualcuno che non faccia brutta figura accanto al signor di Bouville?» chiese Valois.

«Ci penserò, monsignore, ci penserò. Non ho molta gente a disposizione, in questo momento. I miei migliori uomini sono in viaggio… Quando dovrebbe partire il signor di Bouville?»

«Ma domani stesso, se possibile, o il giorno appresso.»«E quel ragazzo», suggerì d’Artois, «quel ragazzo che era andato in Inghilterra

per mio conto…»«Mio nipote Guccio?» chiese Tolomei.«Sì, vostro nipote. È sempre con voi?… Bene, perché non mandate lui? È

pronto, vivace, di bell’aspetto. Darà una mano al nostro amico Bouville, che certo non parlerà la lingua d’Italia, a sbrigarsela con gli inconvenienti del viaggio. State tranquillo, cugino», aggiunse poi, rivolgendosi a Valois. «Quel ragazzo è in gamba: buon sangue non mente.»

«Mi mancherà molto, qui», sospirò Tolomei. «Ma va bene, monsignore, ve lo

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lascio. È proprio vero che riuscite a ottenere da me tutto quel che volete.»E subito prese congedo.Non appena Tolomei fu uscito, Roberto d’Artois si stiracchiò platealmente e

disse: «Be’, Carlo, mi ero sbagliato?»Come tutti coloro che prendono denaro a prestito dopo un colloquio del

genere, Valois era al tempo stesso soddisfatto e scontento; e assunse un’espressione che non mostrava gran che sollievo né gran che delusione. Fermandosi davanti al piede di san Luigi, dichiarò: «E questo, vedete bene, cugino, è stata la vista di questa santa reliquia che ha fatto decidere il vostro uomo. Bene, si vede che il rispetto delle cose sante è ancora vivo, in Francia; il che fa sperare che questo regno possa essere risanato!»

«Un miracolo, in un certo senso», convenne il gigante, schiacciando l’occhio.Chiesero i loro mantelli e la scorta per andare dal re a portare la buona notizia

della partenza dell’ambasciata.Contemporaneamente Tolomei informava il nipote Guccio Baglioni che

avrebbe dovuto mettersi in viaggio entro due giorni al massimo e gli dettagliava le sue istruzioni. Il ragazzo non mostrò grande entusiasmo.

«Ma come sei strano, figlio mio!» esclamò Tolomei. «La sorte ti offre l’occasione d’un bel viaggio senza dover sborsare un soldino, dal momento che è il Tesoro, alla fin fine, che pagherà. Vedrai Napoli, la corte degli Angioini, conoscerai dei principi e potrai anche, se sarai accorto, farteli amici. E forse ti ritroverai spettatore dei preliminari di un conclave. È una cosa appassionante, sai, un conclave! Ambizioni, pressioni, denaro, rivalità… e anche fede, in alcuni. Ci sono in gioco tutti gli interessi del mondo. Tu vedrai tutto ciò. E mi fai quell’aria da cane bastonato, come se ti avessi messo a parte di una disgrazia. Al posto tuo e alla tua età, farei salti di gioia… anzi, sarei già corso a preparare i bagagli. Per farmi una scena del genere, si vede che hai una ragazza che ti dispiace lasciare. Non sarà la signorina di Cressay, per caso?»

L’incarnato olivastro di Guccio scurì un tantino: era il suo modo di arrossire.«Lei ti aspetterà, se ti ama», lo rassicurò il banchiere. «Le donne sono fatte per

aspettare. Le ritrovi sempre. E se hai paura che ti dimentichi, approfitta di quelle che incontrerai in viaggio. L’unica cosa che non si ritrova più è la giovinezza e l’energia necessaria ad andare in giro per il mondo.»

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V • PRINCIPESSE D’UNGHERIA IN UN CASTELLO DI NAPOLI

Ci sono città più forti dei secoli; il tempo non le muta affatto. Le

dominazioni vi si succedono; le civiltà vi si depositano come alluvioni; ma loro conservano negli anni un carattere, un profumo inconfondibili, un ritmo e un brusio che le distingue da tutte le altre città della terra. Napoli, da sempre, fu tra queste. Com’era stata, così restava e sarebbe rimasta per secoli, metà africana e metà latina, con le sue stradine intrecciate, il suo brulicare chiassone, l’odore d’olio, di zafferano e di pesce fritto, la polvere color del sole, il tintinnare dei sonagli al collo dei muli.

I greci le avevano dato un’organizzazione, i romani l’avevano conquistata, i barbari l’avevano saccheggiata, i bizantini e i normanni vi si erano installati. Napoli aveva assorbito, utilizzato, fuso arti, leggi e vocabolari altrui; l’immaginazione della strada si nutriva di ricordi, riti e miti degli antichi dominatori.Il popolo non era né greco, né romano, né bizantino; era napoletano da sempre e nessun altro al mondo gli somigliava. Sapeva usare la gaiezza come maschera di mimo per dissimulare la tragedia della miseria, sapeva utilizzare l’enfasi per dar pimento alla monotonia quotidiana; la sua apparente pigrizia era dettata dal saggio proposito di non fingere d’aver da fare quando invece non c’è nulla da fare; un popolo che ha amato sempre la vita e la parola, sempre costretto a lottare con il destino, sempre sprezzante nei confronti dell’agitarsi dei militari perché la pace, che ha conosciuto così raramente, non gli è mai venuta a noia.In quel periodo, da circa mezzo secolo, Napoli era passata dalla dominazione

degli Hohenstaufen a quella dei principi d’Angiò. L’insediamento di questi ultimi, auspicato dalla Santa Sede, si era compiuto in mezzo agli assassini, alle repressioni

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e ai massacri che insanguinavano all’epoca l’intera penisola. Gli apporti dei nuovi sovrani si riferivano da un lato alle industrie della lana fondate nei sobborghi per trarne delle rendite, dall’altro nell’enorme costruzione, per metà fortezza e per metà palazzo, che avevano fatto erigere vicino al mare dall’architetto francese Pierre de Chaulnes, il Château-Neuf, gigantesco torrione rosa proteso verso il cielo che i napoletani, un po’ per il loro innato senso dell’umorismo, un po’ in omaggio ai vecchi culti fallici, avevano immediatamente soprannominato «il Maschio Angioino».

Un mattino di gennaio del 1315, in un appartamento ai piani alti del castello, Roberto Oderisi, giovane pittore napoletano allievo di Giotto, contemplava il ritratto appena terminato che stava al centro di un trittico. Immobile davanti al cavalletto, un pennello tra i denti, non riusciva a strapparsi alla contemplazione del dipinto sul quale l’olio ancora fresco brillava in riflessi umidi. Si chiedeva se un tocco di giallo più pallido, o al contrario di giallo un tantino più arancio, non avrebbe reso meglio lo splendore dorato dei capelli, se la fronte era abbastanza chiara, se gli occhi, quei begli occhi azzurri un po’ tondi, avevano un’espressione viva. I lineamenti erano riprodotti esattamente, certo… ma lo sguardo? Da che cosa dipende lo sguardo? Da un puntolino di bianco sulla pupilla? Da un’ombra un po’ più marcata all’angolo di una palpebra? Come arrivare, con dei colori separati e disposti gli uni dopo gli altri, a rendere la realtà d’un viso e le strane variazioni della luce sui contorni delle forme? Forse non era questione di sguardo, tutto sommato, ma di sottigliezza della narice, oppure il riflesso chiaro sulle labbra…

Dipingo troppe madonne, tutte con la stessa inclinazione del volto, tutte con la stessa espressione d’estasi, d’assenza… pensò il pittore.

«Allora, signor Oderisi, è finito?» chiese la bella principessa che gli faceva da modella.

Da una settimana la giovane donna passava tre ore al giorno seduta in quella stanza per posare per il ritratto destinato alla corte di Francia.

Attraverso la grande finestra a ogiva dai vetri spalancati si scorgevano gli alberi delle navi d’Oriente ancorate nel porto, e, più in là, tutta la baia di Napoli, il mare incredibilmente blu sotto un pulviscolo di sole, il profilo triangolare del Vesuvio. L’aria era tiepida, la giornata splendida.

Oderisi si tolse il pennello di bocca.«Ahimè!» rispose. «È finito.»«Come sarebbe a dire ‘ahimè’?»«Sarò privato della gioia di vedervi ogni mattina, donna Clemenza, e mi

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sembrerà che il sole non si levi più.»Era un’usuale formula di cortesia: dichiarare a una donna, principessa o serva,

che il non poterla rivedere sarebbe costato al cavaliere una grave malattia per un napoletano era il minimo. E la dama di compagnia che ricamava in silenzio in un angolo della stanza con l’incarico di vegliare sulla decenza dell’incontro non alzò nemmeno la testa.

«E poi, madonna, e poi… dico ‘ahimè’, sì, perché questo ritratto non va», aggiunse Oderisi. «Non rende giustizia alla vostra bellezza.»

Anche essere umili era cosa socialmente encomiabile; ma in questo caso le parole di Oderisi erano sincere.Provava quel particolare dispiacere di ogni artista che, di fronte all’opera compiuta, si rende conto di non aver saputo far di meglio. Quel ragazzo di diciassette anni dimostrava già tutte le qualità che fanno un grande pittore.

«Posso vedere?» chiese Clemenza d’Ungheria.«Ah! Signora, non infierite su di me. So fin troppo bene che è il mio maestro

che avrebbe dovuto aver l’onore di dipingere questo ritratto.»Avevano chiamato Giotto, infatti, mandandogli un messaggio attraverso l’Italia.

Ma l’illustre pittore toscano, occupato il quel periodo ad affrescare la vita di san Francesco sulle pareti di Santa Croce a Firenze, aveva risposto dall’alto delle impalcature di rivolgersi al suo giovane allievo di Napoli.

Clemenza di Ungheria si alzò e si avvicinò al cavalletto. Alta e bionda, era più imponente che graziosa e forse più aristocratica che femminile. Ma l’impressione di severità del suo aspetto era ingentilita dalla purezza del volto, dall’espressione sempre meravigliata dello sguardo.

«Ma, signor Oderisi», esclamò la principessa, «mi avete ritratta più bella di quanto io non sia!»

«Ho riprodotto fedelmente i vostri lineamenti, donna Clemenza; e ho fatto del mio meglio per dipingere anche la vostra anima.»

«Allora mi piacerebbe che il mio specchio avesse il vostro talento», scherzò lei.Si sorrisero, ringraziandosi l’un l’altra dei complimenti.«Speriamo che quest’immagine piaccia, in Francia… voglio dire, piaccia a mio

zio di Valois», disse lei, un po’ in imbarazzo.Poiché la verità ufficiale, anche se nessuno ci credeva, sosteneva che il ritratto

fosse destinato a Carlo di Valois, per il grande affetto che lo legava alla nipote.Nell’avallare quella bugia, Clemenza arrossì. A ventidue anni, arrossiva ancora

con facilità e se ne faceva un cruccio, come si trattasse di una debolezza. Quante volte la nonna, la regina Maria di Ungheria, le aveva ripetuto: «Clemenza, una

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principessa in procinto di diventar regina non arrossisce!»Ma davvero sarebbe divenuta regina? Lo sguardo volto al mare, sognava quel

cugino lontano, quel re sconosciuto del quale le avevano tanto parlato da venti giorni a quella parte, da quando era giunta da Parigi un’ambasciata ufficiosa…

Il signor di Bouville le aveva descritto Luigi X come un principe infelice, duramente colpito nei suoi affetti, ma con tutte le doti estetiche, intellettuali e morali che potevano piacere a una dama d’alto lignaggio. Quanto alla corte di Francia, era un modello per l’Europa intera, e offriva una perfetta mescolanza di gioie familiari e di maestà regale… Niente poteva piacere di più a Clemenza della prospettiva di curare le ferite nell’anima d’un uomo provato a breve distanza dal tradimento d’una moglie indegna e dalla morte prematura d’un padre adorato. Per Clemenza amore e devozione erano la stessa cosa. E a ciò si aggiungeva l’orgoglio di essere stata scelta dalla Francia… «Certo ho atteso a lungo una sistemazione, al punto che non ci speravo più. E adesso forse Dio mi darà lo sposo migliore e il regno più bello.» Così da tre settimane viveva come in un miracolo e traboccava di riconoscenza verso il Creatore e l’universo intero.

Una tenda ricamata a leoni e aquile si sollevò e un ragazzo minuto, dal naso sottile, gli occhi ardenti e allegri e i capelli nerissimi entrò e si inchinò.

«Oh! Signor Baglioni, eccovi», Io accolse Clemenza in tono felice.Le piaceva molto il giovane senese che faceva da interprete all’ambasciatore: per

lei, era messaggero di felicità.«Principessa», disse Guccio, «il signor di Bouville mi manda a chiedervi se può

venire a trovarvi.»«Certo, mi fa sempre piacere vederlo. Ma adesso avvicinatevi e ditemi che cosa

pensate di questo quadro appena terminato.»«Dico, principessa», dichiarò Guccio dopo un istante di contemplazione

silenziosa, «che questo ritratto vi somiglia in tutto e per tutto, e mostra la più bella dama che io abbia mai veduto.»

Oderisi, le braccia macchiate di ocra e di vermiglio, si beveva ogni lode.«Non amate allora qualche signorina di Francia, come mi era parso di capire?»

chiese Clemenza sorridendo.«Certo, sono innamorato, principessa…»«Allora non siete sincero con lei o con me, messer Guccio: ho sempre sentito

dire che per chi ama non c’è al mondo volto più bello di quello dell’amata.»«La dama che mi è fedele come io sono fedele a lei», rispose Guccio con

slancio, «è certo la più bella che ci sia… dopo di voi, donna Clemenza. E dire il vero non significa essere infedeli o sleali.»

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Da quando era giunto a Napoli e si era trovato coinvolto nel progetto di matrimonio di un re, il nipote del banchiere Tolomei si piccava di assumere arie da eroe cortese, da cavaliere che langue d’amore per la bella lontana. In realtà la sua passione si adattava benissimo alla lontananza, e lui, dal canto suo, non aveva lasciato perdere alcuna occasione di quelle che si offrono al viaggiatore.

La principessa Clemenza si sentiva piena di curiosità e molto ben disposta nei confronti degli altrui amori. Avrebbe desiderato che tutti i ragazzi e le ragazze del mondo fossero felici.

«Se a Dio piacerà che io vada in Francia…» arrossì di nuovo, «sarò lieta di conoscere colei alla quale pensate e che prima o poi sposerete, penso.»

«Ah! Principessa, volesse il cielo che veniate in Francia! Non avreste servitore più fedele di me, state certa, né più devota servente di lei.»

E piegò il ginocchio con il suo stile migliore, come se si fosse trovato in torneo dinanzi alla loggia destinata alle dame. Lei lo ringraziò con un gesto della mano; aveva belle dita affusolate, dalla punta allungata, come quelle dei santi degli affreschi.

Ah! che brava gente, che persone gentili, pensava Clemenza, guardando il piccolo italiano che per lei, in quel momento, rappresentava tutta la Francia.

«Potete almeno dirmi come si chiama, o è un segreto?»«Non è un segreto per voi, se desiderate saperlo, donna Clemenza. Si chiama

Marie… Marie de Cressay.» È di nobile lignaggio. Suo padre era cavaliere. Mi attende nel suo castello, a dieci leghe da Parigi. Ha sedici anni…»

«Bene! Siate felici, ve lo auguro, signor Guccio. Siate felici, voi e la vostra bella Marie de Cressay.»

Guccio uscì e si slanciò per le gallerie quasi a passo di danza. Già vedeva la regina di Francia assistere alle sue nozze. Mancava solo, per realizzare un così bel progetto, che il re Luigi da una parte decidesse si sposare Clemenza, e che la famiglia Cressay dall’altra accordasse a un banchiere italiano la mano di Marie…

Il ragazzo trovò Ugo di Bouville negli appartamenti nei quali li avevano ospitati. L’ex gran ciambellano stringeva uno specchio e cercava la luce migliore, girando su se stesso, per assicurarsi di essere a posto e risistemare le ciocche bianche e nere che lo rendevano simile a un grosso cavallo pezzato. Cominciava a chiedersi se non fosse il caso di tingersi.

I viaggi fanno bene ai giovani; ma capita anche che stravolgano i meno giovani. L’aria italiana aveva inebriato Bouville. Quel brav’uomo, sempre ligio ai suoi doveri, non aveva saputo resistere, da Firenze, alla tentazione di tradire la moglie, e si era subito precipitato in chiesa a confessarsi. A Siena, dove Guccio

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conosceva delle dame galanti, era stato recidivo, già con molto meno rimorsi. A Roma si era comportato come se avesse vent’anni di meno. Napoli, prodiga di facili piaceri a condizione d’avere un po’ di denaro, faceva vivere Bouville in una sorta di incantesimo continuo. Ciò che altrove passava per vizio qui assumeva un’aria naturale, quasi ingenua. Piccoli lenoni dodicenni, cenciosi e abbronzati, decantavano le grazie della sorella maggiore con antica eloquenza e poi se ne restavano seduti tranquilli in anticamera a grattarsi i piedi. E in più si aveva anche l’impressione di fare una buona azione, permettendo a una famiglia intera di sfamarsi per una settimana. E il piacere di andar in giro in gennaio senza mantello! Bouville vestiva all’ultima moda e adesso portava sopravvesti con maniche a due colori a righe trasversali. Certo, era stato derubato praticamente a ogni angolo di strada. Ma era un prezzo minimo per tanto divertimento!«Caro amico», disse, vedendo entrare Guccio, «sapete che sono dimagrito al

punto che può darsi riprenda la corporatura snella di una volta?»La supposizione testimoniava un notevole ottimismo. «Messere», rispose

Guccio, «donna Clemenza è pronta a ricevervi.»«Il ritratto non sarà finito, spero?»«Sì, è finito.»Bouville tirò un sospirone. «Allora dovremo far ritorno in Francia. Vi confesso

che me ne dolgo, perché questo paese mi piace e avrei dato volentieri qualche fiorino al pittore perché tirasse un po’ in lungo il suo lavoro. Pazienza, tutte le cose belle devono finire.»

Si scambiarono un sorriso complice e, per raggiungere gli appartamenti della principessa, il grasso ambasciatore prese affettuosamente Guccio sottobraccio.

Tra quei due uomini così diversi per età, origine e status era nata una vera amicizia, destinata a consolidarsi di tappa in tappa. Agli occhi di Bouville il ragazzo toscano sembrava l’incarnazione stessa di quel viaggio, con le sue libertà, le sue scoperte, e quel senso di giovinezza ritrovata. Inoltre il ragazzo si mostrava zelante, sveglio, discuteva con i fornitori, amministrava le spese, spianava le difficoltà, organizzava le distrazioni. Quanto a Guccio, condivideva con Bouville una vita da gran signore e viveva accanto a principi. Le sue funzioni imprecise di segretario, interprete e tesoriere gli valevano particolari riguardi. E poi Bouville non era avaro di ricordi; durante le lunghe cavalcate, o la sera, a cena negli alberghi o nelle foresterie dei monasteri, aveva raccontato a Guccio moltissime cose su Filippo il Bello, la corte di Francia e le famiglie reali. Così si aprivano l’un l’altro dinanzi orizzonti sconosciuti e si completavano, a meraviglia, formando una

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strana coppia nella quale spesso era il ragazzo a guidare il vecchio.Arrivarono così da donna Clemenza; ma la loro aria sicura svanì non appena

videro, in piedi davanti al quadro, la vecchia regina madre di Ungheria. Inchinandosi ossequiosi procedettero a passo cauto.

La regina aveva settantanni. Vedova del re di Napoli Carlo II lo Zoppo, madre di tredici figli dei quali era già morta circa la metà, doveva alle numerose maternità i fianchi allargati e ai numerosi lutti le lunghe rughe che congiungevano le palpebre alla bocca sdentata. Era alta, con un incarnato grigio e i capelli bianchi. La sua espressione conservava una forza, una decisione, un’autorità che la vecchiaia non aveva attenuato. Portava sempre la corona. Parente di tutte le famiglie d’Europa, aveva rivendicato per la sua discendenza il regno d’Ungheria e dopo vent’anni di lotta aveva finito con l’ottenerlo.

Adesso che suo nipote Carlo Roberto o Caroberto, erede del figlio maggiore di Maria, Carlo Martello, morto prematuramente, occupava il trono di Buda, che la canonizzazione del secondo figlio, il defunto arcivescovo di Tolosa, sembrava cosa certa, che il suo terzo figlio, Roberto, regnava su Napoli e le Puglie, che il quarto era principe di Taranto e imperatore titolare di Costantinopoli, che il quinto era duca di Durazzo, e che le figlie sopravvissute erano una sposata al re di Maiorca e l’altra a Federico d’Aragona, la regina Maria non considerava ancora terminato il suo compito: adesso si occupava della nipote Clemenza, l’orfana, la sorella di Caroberto che lei aveva allevato.

Girandosi bruscamente verso Bouville come un falco che avvista un cappone, gli fece segno di avvicinarsi.

«Dunque, signore», chiese, «che ve ne pare di questo ritratto?»Bouville si sprofondò in meditazione davanti al cavalletto. In realtà guardava

meno il viso della principessa che le due tavole laterali destinate a chiudersi per proteggere il ritratto e sulle quali Oderisi aveva dipinto da una parte il Maschio Angioino e dall’altra il porto e la baia di Napoli visti dall’alto. Guardando il paesaggio che avrebbe presto dovuto abbandonare, Bouville sentiva già nostalgia.

«Non posso eccepire sulla pittura», riconobbe alla fine. «Solo che la cornice mi sembra un po’ troppo semplice per racchiudere un viso così bello. Non pensate che un festone dorato…»

Cercava di guadagnare un giorno o due.«Non importa, messere», tagliò corto la vecchia regina. «Trovate che sia

somigliante? Sì. È questo che conta. L’arte è cosa frivola e mi stupirei se re Luigi si preoccupasse delle ghirlande ornamentali. È il viso che importa, no?»

Non aveva peli sulla lingua e, diversamente dal resto della corte, non cercava

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affatto di celare il motivo dell’ambasciata. Comunque congedò Oderisi dicendo:«Avete lavorato bene, giovanotto; il nostro tesoriere vi pagherà il dovuto.

Adesso tornate a dipingere la nostra chiesa e fate in modo che il diavolo sia ben nero e gli angeli molto splendenti».

E per sbarazzarsi anche di Guccio, gli ordinò di aiutare il pittore a portar via le sue cose. Nello stesso tono disse alla dama di compagnia di andare a ricamare da un’altra parte.

Poi, senza testimoni, si rivolse di nuovo a Bouville. «Adesso, messere, ripartirete per la Francia.»

«Con infinito rimpianto, mia regina, perché tutte le gentilezze che mi hanno usato qui…»

«Comunque», lo interruppe lei, «la vostra missione è finita. O almeno, quasi.»I suoi occhi neri erano fissi in quelli di Bouville.«Quasi, mia regina?»«Voglio dire che la faccenda è risolta in linea di massima, perché il re mio

figlio e io diamo il nostro assenso al progetto. Ma questo assenso, messere…»Strinse la mascella, e i cordoni del collo si tesero.«Questo accordo, non dimenticatelo, dipende da una condizione. Poiché se noi

ci consideriamo molto onorati dalle intenzioni del re di Francia, nostro cugino, e se siamo pronti ad amarlo con fedeltà tutta cristiana e a dargli numerosa discendenza, poiché le donne della nostra famiglia sono feconde, è vero anche che la nostra risposta definitiva resta subordinata all’esigenza che il vostro padrone sia libero dai legami con Margherita di Borgogna in maniera rapida quanto definitiva. Non possiamo accontentarci di un ripudio arrangiato da vescovi compiacenti e che potrebbe venir contestato dalla Chiesa più in alto loco.»

«Otterremo l’annullamento tra poco, mia regina. Ho l’onore di assicurarvelo.»«Messere, siamo a quattr’occhi. Quindi non assicuratemi assurdità.»Bouville tossicchiò per nascondere l’imbarazzo. «Questo annullamento, mia

regina, è la cosa che preoccupa di più monsignor di Valois che sta facendo di tutto per ottenerlo e considera praticamente la cosa già fatta…»

«Sì, sì», borbottò la vecchia regina, «conosco mio genero! A parole, niente gli resiste; i suoi cavalli non si spezzano le zampe, a meno che non li gettino direttamente in un burrone.»

Nonostante sua figlia Margherita fosse morta da quindici anni e Carlo di Valois, da allora, si fosse risposato due volte, lei continuava a chiamarlo «mio genero».

«Resta inteso anche che non daremo terre. La Francia ne ha abbastanza, mi

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pare. D’altra parte, quando nostra figlia sposò Carlo, gli portò in dote l’Angiò; non è cosa da poco. E l’altr’anno, invece, quando una figlia di secondo letto di Carlo si è unita a nostro figlio di Taranto, gli ha portato… Costantinopoli.»

E con la mano gottosa la vecchia regina fece un gesto che voleva significare: questo bel titolo è solo vento.

In un angolo accanto alla finestra aperta, lo sguardo fisso sul mare, Clemenza si sentiva imbarazzata. L’amore doveva accompagnarsi a questi preliminari così simili a discussioni di trattati? Era della sua felicità che si parlava, della sua vita. Avevano rifiutato per lei, senza chiederle niente, così tanti partiti ritenuti non all’altezza! E adesso le offrivano il trono di Francia, quando appena un mese prima lei aveva cominciato a chiedersi se non fosse il caso di prendere il velo! La nonna aveva un tono parecchio brusco. Da parte sua, lei avrebbe preferito trattare più dolcemente, mostrarsi meno puntigliosa sul diritto canonico… Molto lontano dalla baia, una nave alzava le vele verso le coste della Barberia.

«Sulla strada del ritorno, mia regina», disse Bouville, «mi fermerò ad Avignone. Ho le istruzioni di monsignor di Valois. E avremo presto il papa che ci serve.»

«Voglio credervi», rispose Maria di Ungheria. «Ma noi vogliamo che la faccenda sia sistemata per l’estate. Non ci mancano i pretendenti per la mano di Clemenza: altri principi la vorrebbero in sposa. Non possiamo attendere troppo a lungo.» I cordoni del collo si tesero di nuovo. «Sappiate che ad Avignone il cardinale Duèze è nostro candidato. Io mi auguro che sia anche il candidato del re di Francia. Otterrete l’annullamento più in fretta se sarà lui a diventar papa. Ci deve molto ed è una nostra creatura. Inoltre Avignone è un territorio angioino, e noi ne siamo sovrani, sotto il re di Francia, s’intende. Non dimenticatelo. Congedatevi dal re mio figlio e che tutto proceda secondo i vostri desideri… Prima dell’estate, messere, ricordate, prima dell’estate!»

Bouville s’inchinò e se ne andò.«Nonna», disse Clemenza con voce inquieta, «pensate che…»La vecchia regina le diede un colpettino sul braccio.«Tutto è nelle mani di Dio, bambina. Ci capita quello che lui vuole.»E se ne andò anche lei.Il re Luigi potrebbe avere anche lui altre principesse in mente, pensò

Clemenza. Sarà una mossa abile far tanta pressione? Non lo si indurrà a rivolgersi altrove?

Stava davanti al cavalletto, le mani incrociate all’altezza della vita, riassumendo istintivamente la posa del ritratto.

Un re vorrà davvero, si domandò ancora, posare le labbra su quelle mani?

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VI • LA CACCIA AI CARDINALI

Bouville e Guccio s’imbarcarono il mattino di due giorni dopo. Era stato

deciso, in effetti, di tornare in patria via mare, per guadagnare tempo. Nel loro bagaglio portavano un cofanetto borchiato di metallo con l’oro dei Bardi di Napoli; la chiave l’aveva Guccio, appesa al collo. Appoggiati al parapetto del castello di poppa, Bouville e Guccio guardavano melanconici Napoli che si allontanava, il Vesuvio e le isole. Gruppi di vele bianche lasciavano le sponde per la pesca. Poi furono in alto mare.

Il Mediterraneo era calmo; soffiava appena la brezza necessaria a spingere innanzi l’imbarcazione. Guccio, che rammentava la tremenda traversata della Manica dell’anno precedente, si era sentito un po’ agitato all’idea di rimetter piede su una nave; invece stava benissimo, e ne era contento. In capo a due ore si era reso perfettamente conto tanto della stabilità della nave quanto del proprio coraggio; quasi quasi si sarebbe paragonato a messer Marco Polo, il grande navigatore veneziano, il cui Milione, recentemente scritto dopo i suoi viaggi, era molto letto e famoso in quegli anni. Guccio andava e veniva dal castello di prua al castello di poppa, si faceva spiegare i termini marinari e si atteggiava a grande avventuriero, mentre il vecchio gran ciambellano continuava a rimpiangere la città stupenda che era stato costretto a lasciare.

Dopo cinque giorni, approdarono ad Aigues-Mortes. Era da lì che san Luigi era partito per la crociata; ma la costruzione del porto era stata effettivamente portata a termine soltanto sotto Filippo il Bello.

«Andiamo», disse il grosso Bouville, sforzandosi di scuotersi di dosso la nostalgia. «Adesso bisogna dedicarsi alle cose più urgenti.»

Gli scudieri andarono a procurarsi cavalli e muli, i valletti si occuparono dei bagagli, del ritratto di Oderisi imballato in una cassa e del forziere dei Bardi che Guccio non perdeva mai d’occhio.

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Il tempo era brutto, nuvoloso, e Napoli sembrava già soltanto il ricordo di un bel sogno.

Per raggiungere Avignone ci volle un giorno e mezzo di cavalcata, con una sosta ad Arles. Durante il viaggio, messer di Bouville prese freddo. Troppo abituato al sole d’Italia, aveva trascurato di coprirsi a sufficienza. L’inverno in Provenza è breve, ma spesso rigido. Tossendo, sputando e soffiandosi il naso, Bouville imprecava senza sosta contro i rigori invernali d’un paese che non gli pareva più il suo.

L’arrivo ad Avignone, sotto le raffiche del mistral, fu deludente, perché non c’era neanche un cardinale in giro. Cosa quanto meno strana per una città che era sede del papato. Nessuno poté dare delucidazioni all’inviato del re di Francia; nessuno sapeva, o voleva sapere.

Il palazzo pontificio era chiuso, porte e finestre, custodito soltanto da un portiere muto o imbecille10. Bouville e Guccio decisero allora, visto che la notte si avvicinava, di andare ad alloggiare nella fortezza di Villeneuve, dall’altra parte del ponte. Là un comandante molto scontroso e molto avaro di parole spiegò che i cardinali si trovavano senz’altro a Carpentras e che semmai bisognava andarli a cercare laggiù. E diede ai viaggiatori da mangiare e da dormire, ma senza affrettarsi troppo.

«Questo capitano degli arcieri», osservò Bouville, parlando con Guccio, «non si mostra gran che amabile con chi viene in nome del re. Lo farò presente, tornando a Parigi.»

All’alba, tutti in sella per percorrere le sei leghe che separavano Avignone da Carpentras. Bouville aveva ripreso un po’ di speranza. Dal momento che il papa Clemente V aveva disposto come ultima volontà che il conclave avesse luogo a Carpentras, si poteva arguire, se i cardinali vi eran tornati, che il conclave si fosse finalmente riunito, o almeno stesse per riunirsi.

A Carpentras dovettero ricredersi. Neanche l’ombra di un cappello rosso. In compenso si gelava. Il vento che continuava a soffiare s’infilava nei vicoli e tagliava la pelle. A ciò si aggiungeva, nell’animo dei viaggiatori, una vaga sensazione d’insicurezza, un sentore di congiura; poiché non appena Bouville e i suoi avevano lasciato Avignone, il mattino, due cavalieri li avevano superati senza salutarli, galoppando come furie verso Carpentras.

«È strano», aveva osservato Guccio. «Si direbbe che questi tipi non abbiano altro da fare che giungere prima di noi dove noi siamo diretti.»

La città era deserta; sembrava che gli abitanti si fossero rintanati sottoterra o fossero fuggiti chissà dove.

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«Non sarà il nostro arrivo», disse Bouville, «a creare il vuoto davanti a noi? La nostra scorta non è tanto numerosa da far paura.»

Alla cattedrale trovarono solo un vecchio canonico che prima fece finta di capire che si volevano confessare e se li tirò dietro verso la sacrestia. Si esprimeva a balbettii e gesti. Guccio, che temeva un agguato e si preoccupava per i forzieri lasciati sui muli dinanzi alla chiesa, mise la mano sull’impugnatura della daga. Il vecchio canonico, dopo essersi fatto ripetere sei volte le domande, aver riflettuto, scosso la testa e spolverato la mozzetta lisa, si decise finalmente a confidar loro che i cardinali si erano ritirati a Orange. L’avevano lasciato là solo soletto…

«A Orange?» esclamò Bouville.E cominciò a starnutire così rumorosamente che il fragore riecheggiò in tutta

la cattedrale.«Ma perdio, non sono prelati, ma rondini, i vostri cardinali!» disse, non appena

riprese fiato. «Siete sicuro almeno che si trovino proprio a Orange?»«Sicuro…» rispose il vecchio, stravolto dalla bestemmia che aveva appena udito.

«Di che cosa si può essere sicuri, a questo mondo, se non dell’esistenza di Dio? Penso che a Orange, nella peggiore delle ipotesi, potrete raggiungere gli italiani.»

Poi tacque, come se temesse d’aver già detto troppo. Aveva certo altro da aggiungere, ma non si azzardava a esprimersi.

«E va bene, sia! Puntiamo su Orange», decise Bouville con irritata rassegnazione. «Quanto dista? Altre sei leghe? Vada per le sei leghe! In sella, voialtri!»

Non appena Bouville e Guccio si furono avviati sulla strada di Orange, due cavalieri li superarono di nuovo, procedendo a briglia sciolta; e questa volta i viaggiatori non ebbero più dubbi sul fatto che era proprio a causa loro che quei cavalieri erano stati mandati al galoppo.

Bouville, con un sussulto improvviso di spirito guerriero, voleva che si rincorressero i due cavalieri; ma Guccio si oppose fermamente.

«Siamo troppo carichi, messer Ugo, per poterli raggiungere; i loro cavalli sono freschi, i nostri stanchi; e soprattutto non voglio lasciarmi dietro il bauletto.»

«È vero», riconobbe Bouville, «che il mio ronzino è malmesso; me lo sento cedere sotto e vorrei cambiarlo.»

Non si stupirono gran che, una volta arrivati a Orange, nel constatare che i monsignori non c’erano. Comunque Bouville s’infuriò quando si sentì rispondere che semmai doveva andarli a cercare ad Avignone.

«Ma ci siamo passati ieri, da Avignone», gridò al chierico che voleva dargli informazioni, «ed era un deserto! E monsignor Duèze? Dove sta, monsignor

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Duèze?»Il chierico replicò che dal momento che monsignor Duèze era vescovo di

Avignone, conveniva chiedere al suo vescovado. La discussione sembrava inutile.Il prevosto di Orange, per una sfortunata coincidenza, era altrove quel giorno, e

l’uomo incaricato di sostituirlo non aveva disposizione di occuparsi dei nuovi arrivati. Così dovettero passare la notte in un albergo sporchissimo e freddissimo, vicino a delle case in rovina invase dagli sterpi dove il vento ululava. Seduto dinanzi a un Bouville distrutto dalla stanchezza, Guccio pensava che era necessario prender la guida della spedizione, se si voleva far ritorno a Parigi, con o senza risultati.

Un uomo della scorta, togliendo il basto ai muli, aveva avuto la gamba fratturata da un calcio d’un animale, e bisognava lasciarlo là. Due cavalli sanguinavano al garrese; altri avevano bisogno di venir ferrati. A Bouville colava il naso da far pietà. Mostrò così poca energia, l’indomani, e fu così disperato di rivedere le mura di Avignone, che Guccio non ebbe grandi difficoltà quando si sostituì a lui.

«Non oserei mai presentarmi al re», gemeva Bouville. «Ma come si fa a far un papa, dico io, quando tutti quelli che portan la sottana scappano come lepri al nostro arrivo! Non siederò mai più in consiglio, mai più. Con questa sola missione, ho perduto i meriti d’una vita intera dedicata alla corona…»

Era tutto preso da preoccupazioni assurde. Il ritratto di donna Clemenza era ben sistemato? Non si sarebbe sciupato in viaggio?

«Lasciate fare a me, messer Ugo», rispondeva Guccio in tono autoritario. «La prima cosa è alloggiarvi al caldo; mi sembra proprio che ne abbiate un gran bisogno.»

Guccio andò dal capitano della città e assunse immediatamente l’atteggiamento che avrebbe dovuto tenere Bouville fin dall’inizio; fece risuonare così solennemente, nel suo marcato accento italiano, i titoli del suo padrone e quelli che attribuiva a se stesso, espresse le sue esigenze con tanta naturalezza che in capo a un’ora aveva ottenuto che gli vuotassero una casa e gliela mettessero a disposizione. Guccio ci sistemò i suoi uomini e mise Bouville in un letto ben riscaldato. Poi, quando l’omone, che accampava ipocritamente la scusa del raffreddore per non dover prendere più alcuna decisione, si fu rifugiato sotto le coperte, Guccio gli disse: «Quest’aria di congiura che soffia intorno a noi non mi piace neanche un po’ e adesso vorrei mettere al sicuro il nostro oro. Qui c’è un agente dei Bardi; è a lui che intendo affidare il forziere. In seguito mi sentirò molto più tranquillo e mi metterò a cercare quei dannati vostri cardinali».

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«I miei cardinali, i miei cardinali!» borbottò Bouville. «Non sono affatto i miei cardinali e questo loro modo di menarmi per il naso fa più rabbia a me che a voi. Ne parleremo dopo che avrò riposato un pochino, se volete, perché mi sento tutto infreddolito. Siete sicuro almeno del vostro lombardo? Possiamo aver fiducia in lui? Questo denaro, dopotutto, appartiene al re di Francia…»

Guccio rispose con sussiego: «Siate certo, messer Ugo, che mi prendo cura di questo denaro come se appartenesse alla mia famiglia!»

E si recò in banca, nel quartiere di Saint-Agricol. L’agente dei Bardi, cugino del capo della potente compagnia, ricevette Guccio con la cordialità dovuta al nipote d’un grande confratello e andò di persona a sistemare il forziere nella camera di sicurezza. Ci fu uno scambio di firme; poi il lombardo condusse l’ospite nel salone, per ascoltare il racconto delle sue difficoltà.

Un uomo magro e un po’ curvo che stava dinanzi al camino si girò al loro ingresso ed esclamò: «Guccio Baglioni! Perbacco, sei tu? Che piacere rivederti!»

«Carissimo Boccaccio, che fortuna! Che fai qua?» Sono sempre gli stessi a ritrovarsi strada facendo perché sono sempre gli stessi, a quanto pare, che viaggiano. E non c’era niente di strano nel fatto che Boccaccio si trovasse là, dal momento che era il messo più importante della compagnia dei Bardi.

Ma le amicizie nate per caso in viaggio tra gente che si muove molto sono più rapide, più entusiaste e spesso più solide di quelle tra sedentari.

Boccaccio e Guccio si erano conosciuti un anno prima sulla strada di Londra; a Parigi si erano rivisti, qualche volta, e ormai si consideravano amici da sempre. La loro gioia si esprimeva nel colorito parlar toscano, ricco di grossolanità eppure ricercato. Un ascoltatore ignaro delle abitudini fiorentine non sarebbe riuscito a capire perché degli amici tanto contenti di rivedersi si chiamassero affettuosamente «bastardo», «sodomita» o peggio.

Mentre il Bardi d’Avignone mesceva loro vino speziato, Guccio raccontò della spedizione, delle disavventure degli ultimi giorni a caccia di cardinali, dello stato miserevole di Bouville.

Ben presto Boccaccio non poté più trattenere l’ilarità. «La caccia ai cardinali, la caccia ai cardinali! Vi hanno preso per il culo, i monsignori!»

Poi, tornando serio, diede a Guccio qualche delucidazione. «Non mi stupisce affatto che i cardinali si nascondano. Hanno raccomandato loro la prudenza e nei confronti di tutto ciò che viene dalla corte di Francia, o sembra venire da lì, preferiscono scappare. L’estate scorsa, Bertrand de Got e Guillaume de Budos, nipoti del defunto papa, sono arrivati quaggiù, spediti dal tuo caro amico Marigny, sostenendo di voler soltanto riportare a Bordeaux il cadavere dello zio.

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Avevano con loro cinquecento armati, e ammetterai che sono parecchi, per trasportare un cadavere! La loro missione era quella di preparare l’elezione di un cardinale francese, e come argomento persuasivo non hanno scelto la dolcezza. Un bel mattino le case dei cardinali furono assaltate; intanto veniva assediato il convento di Carpentras dove aveva luogo il conclave. E i cardinali se la svignarono attraverso una breccia nel muro e scapparono in campagna per metter la pelle al sicuro. Senza la breccia offerta loro dalla divina provvidenza, si sarebbero trovati a malpartito. Certi hanno continuato a correre una buona lega, con le sottane sollevate. Oppure sono andati a nascondersi nei fienili. Se lo ricordano ancora.»

«Inoltre», intervenne il cugino Bardi, «hanno rinforzato la guarnigione di Villeneuve, e i cardinali si aspettano che gli arcieri passino il ponte da un momento all’altro. Vi hanno visti andare a Villeneuve e tornare, tanto basta… E sapete chi sono i cavalieri che vi hanno più volte superati al galoppo? Uomini dell’arcivescovo Marigny, ci giurerei. Girano nei paraggi, di questi tempi. Non capisco bene per chi lavorino, ma di certo non per voi.»

«Non otterrete un bel nulla, tu e Bouville», riprese Boccaccio, «presentandovi come inviati del re di Francia. Anzi, rischiate, una sera o l’altra, di ritrovarvi a mangiare una minestra cucinata in modo tale da non offrirvi possibilità di risveglio, la mattina dopo. L’unica raccomandazione possibile, al momento, presso i cardinali… be’, presso qualche cardinale… è di presentarsi in nome del re di Napoli. Venite da là, m’hai detto.»

«Sì», rispose Guccio. «Abbiamo anche la benedizione della regina Maria di Ungheria per incontrare il Cardinal Duèze.»

«Eh! Perché non l’hai detto subito? Lo conosciamo! È nostro cliente da vent’anni. Strano tipo, questo monsignore. Sembrava molto ben sistemato, a Carpentras, per diventar papa.»

«E come mai non l’hanno eletto? È francese.»«Di nascita, sì. Ma è stato cancelliere di Napoli, ecco perché Marigny non lo

vuole. Posso farti avere un incontro quando vuoi, domani stesso, se ti va.»«Allora sai dove trovarlo?»«Non si è mai mosso di qui», replicò ridendo Boccaccio. «Torna al tuo

alloggio, ti farò sapere qualcosa prima di sera. Se poi avete qualche soldo, come dicevi, l’incontro risulterà ancora più facile. Il cardinale è spesso a corto di quattrini e ci deve una bella sommetta.»

Tre ore più tardi Boccaccio bussava alla porta della casa dov’era sistemato Bouville. Portava buone nuove. Il cardinale Duèze si sarebbe recato l’indomani

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verso l’ora nona a fare una passeggiatina a una lega a nord di Avignone, in un posto chiamato Pontet per via d’un ponticello che stava là. Il cardinale avrebbe incontrato come per caso messer di Bouville, se quest’ultimo si fosse trovato a passare nelle vicinanze, a condizione che il francese non fosse accompagnato da più di sei uomini. Le scorte sarebbero dovute rimanere ai due lati d’un campo mentre Duèze e Bouville parlavano in mezzo a questo campo, lontano da occhi e orecchi indiscreti. Ci avrebbe pensato il cardinale di curia a organizzare la recita.

«Guccio, ragazzo mio, lo sapete, vi sarò grato in eterno», dichiarò Bouville, il cui stato di salute, con il ritorno della speranza, aveva registrato un notevole miglioramento.

L’indomani mattina dunque Bouville, con Guccio, Boccaccio e quattro scudieri, andò a Pontet. C’era una forte bruma che sfumava suoni e contorni e il posto era deserto come auspicato. Bouville si era messo tre mantelli uno sopra l’altro. Dovettero aspettare un bel po’.

Alla fine un gruppetto di cavalieri emerse dalla foschia. In mezzo stava un giovanotto in groppa a una mula bianca. Saltò giù veloce dalla sua cavalcatura. Portava una cappa scura sotto la quale s’intravedevano abiti rossi e aveva in testa un berretto foderato di pelo. Venne avanti con un’andatura vivace, quasi saltellante, nell’erba ghiacciata. Allora videro tutti che il ragazzo era il cardinale Duèze. Sua Adolescenza aveva settant’anni. Solo il viso, dalle guance e dalle tempie scavate, con le sopracciglia bianche e la pelle secca, rivelava l’età. Gli occhi avevano conservato la vivacità e l’intelligenza della giovinezza.

Bouville s’incamminò a sua volta per raggiungere il cardinale vicino a un muretto. I due uomini si studiarono un momento, reciprocamente sorpresi. Bouville, nel suo rispetto innato per la chiesa, si era aspettato un prelato pieno di maestà, con un po’ di unzione, magari, non quel folletto che saltellava nelle nebbie. E il cardinale di curia, che credeva di trovarsi alle prese con un guerriero del tipo di Nogaret o Bertrand de Got, considerava perplesso l’omone vestito a strati come una cipolla che si soffiava rumorosamente il naso.

Fu il cardinale a parlare per primo. La sua voce non mancava mai di sorprendere chi la udiva per la prima volta. Attutita come un tamburo funebre, e tuttavia viva, rapida e soffocata, non sembrava venire da lui, ma da qualcun altro che si trovasse lì in giro e che veniva istintivo di cercare con lo sguardo.

«Dunque, messer di Bouville, voi venite da parte del re di Napoli, che mi onora della sua cristiana fiducia. Il re di Napoli… il re di Napoli», ripeté. «Benissimo. Ma siete anche un inviato del re di Francia. Eravate gran ciambellano di re Filippo, il quale non mi aveva molto in simpatia… e non so bene perché,

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dal momento che avevo operato a suo favore fuori del concilio di Vienne per far sopprimere i Templari.»

Bouville capì che il colloquio scivolava su temi politici e si sentì, lì in piedi in un prato di Provenza, come se lo interpellassero per un parere nel consiglio ristretto. Si augurò che la sua memoria riuscisse a fornirgli una risposta sensata.

«Mi pare, monsignore, che voi vi siate opposto quando si trattò di dichiarare eretico papa Bonifacio. Il re Filippo non l’aveva dimenticato.»

«Messere, questo era davvero chiedermi troppo. I re non si rendono conto di quello che esigono. Quando si fa parte del collegio nell’ambito del quale si eleggono i papi, ripugna creare simili precedenti. Un re, quando sale al trono, non proclamerà mai che suo padre era traditore, adultero e ladro, anche se spesso è la verità. Papa Bonifacio è morto pazzo, lo sappiamo, rifiutando i sacramenti e proferendo bestemmie orrende. Ma era diventato folle perché lo avevano schiaffeggiato in trono. Che cosa ci avrebbe guadagnato, la chiesa, a render pubblica questa vergogna? Quanto alle bolle emesse da papa Bonifacio prima di diventar pazzo, l’unica eresia che contenessero era quella di dispiacere al re di Francia. E in questo soggetto il giudizio sta al papa più che al re. E Clemente V, il mio venerabile benefattore… sapete che debbo a lui d’essere il poco che sono… papa Clemente, dicevo, era dello stesso avviso. Anche monsignor de Marigny non mi ama gran che. Ha fatto tutto il possibile per osteggiarmi, da quando il trono di Pietro è vacante. E quindi non capisco proprio. Perché avete voluto vedermi? Marigny è ancora potente, in Francia, o fa mostra di esserlo soltanto? Si dice che non comandi più, eppure tutti continuano a obbedirgli!»

Davvero un tipo curioso quel cardinale che giocava d’astuzia per non vedere un ambasciatore, poi per incontrarlo, e dal primo momento andava al nocciolo delle questioni come se conoscesse da sempre il suo interlocutore.

«La verità, monsignore», rispose Bouville, che non intendeva affatto discutere su Marigny, «la verità è che vengo a esprimervi il desiderio di re Luigi e quello di monsignor di Valois d’aver un papa al più presto.»

Le sopracciglia bianche del cardinale si sollevarono.«Bel desiderio davvero, dal momento che m’impediscono, per prudenza, per

denaro o per forza, d’essere eletto da più di nove mesi! Non che io mi stimi degno di una così alta missione… ma chi lo è mai, ditemi! Non sono più avido di altri di una tiara della quale conosco fin troppo bene il peso, anzi. Il vescovado di Avignone mi dà abbastanza da fare, e altrettanto dicasi per i trattati ai quali dedico tutti i ritagli di tempo. Ho iniziato un Thesaurus pauperum, un Art transmutatoire sulle ricette di alchimia e anche un Elixir des Philosophes; sono tutti a buon

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punto e vorrei vederli finiti prima di morire… Forse che a Parigi hanno cambiato avviso per quel che mi riguarda? E adesso vorrebbero vedermi papa?»

Bouville realizzò in quel momento che le istruzioni di monsignor di Valois erano, come al solito, tanto imperative quanto vaghe. Gli aveva detto: «Un papa».

«Ma certo, monsignore», replicò debolmente. «Perché non voi?»«Allora, questo significa che mi chiederete qualcosa d’importante… voglio dire,

quando sarò eletto. Che cosa dovrei fare?»«Il fatto è, monsignore, che il re ha necessità di far annullare il suo

matrimonio…»«… per potersi risposare con Clemenza di Ungheria?» indagò il cardinale.«Siete al corrente del progetto?»«Non vi siete fermato tre settimane a Napoli? Non portate con voi un ritratto di

donna Clemenza?»«Siete molto bene informato, monsignore.»Il cardinale non rispose e si mise a osservare il cielo come se ci vedesse passare

degli angeli.«Annullare…» disse con la sua voce soffocata che si dissolveva nella bruma.

«Certo si può sempre annullare. Le porte della chiesa erano aperte per bene, il giorno del matrimonio? Voi assistevate… e non rammentate. Può darsi che altri ricordino che erano state sbadatamente chiuse… Il vostro re è cugino ben prossimo alla moglie! Forse hanno omesso di chiedere la dispensa. Si potrebbero liberare dal vincolo matrimoniale tutti i principi d’Europa per questo motivo: sono imparentati a destra e a manca, e basta vedere i frutti dei loro matrimoni per rendersene conto. Uno è zoppo, l’altro è sordo, l’altro ancora si sforza senza successo di darsi ai piaceri della carne. Se non capitasse ogni tanto un peccatuccio o un matrimonio con gente di ceto inferiore, le dinastie si estinguerebbero di scrofola o di mal sottile.»

«La famiglia di Francia», replicò Bouville, punto sul vivo, «gode di ottima salute, e i nostri principi di sangue sono forti come tori.»

«Sì, sì… ma quando la malattia non prende il corpo, colpisce la testa. E poi i bambini muoiono così piccoli… No, davvero, non ho gran desiderio di diventar papa.»

«Ma se diverrete papa, monsignore», disse Bouville, ansioso di riprendere il filo del discorso, «l’annullamento vi parrebbe cosa fattibile… prima dell’estate?»

«Annullare è cosa meno difficile», replicò amaramente Duèze, «che riguadagnare i voti che m’han fatto perdere!»

La discussione girava in tondo. Bouville, vedendo i suoi che battevano i piedi

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per scaldarsi ai bordi del prato, rimpiangeva di non poter chiamare Guccio, oppure quel Boccaccio che pareva così in gamba. La bruma era meno densa e lasciava intuire, pallido pallido, un sole invernale. Non c’era vento. Bouville di godeva la pausa; ma era stanco di stare in piedi e i tre mantelli cominciavano a pesargli. Sedette macchinalmente sul muretto di pietre e chiese: «Insomma, monsignore, il conclave a che punto è?»

«Il conclave? Ma non c’è nessun conclave. Il cardinale d’Albano…»«Volete dire messer Arnaud d’Auch, che a Parigi, l’anno scorso…»«…in qualità di legato condannò il gran maestro del Tempio. Sì, lui. Come

cardinale camerlengo, spetta a lui riunirci. Ma fa del suo meglio per evitarlo, da quando messer de Marigny, del quale dicono sia una creatura, gliel’ha vietato.»

«Ma se, a la fin fine…»In quel momento Bouville si rese conto di essersi seduto mentre il cardinale

stava in piedi e si alzò di scatto dal muretto, profondendosi in scuse.«Ma no, messere, vi prego…» si schermì Duèze, costringendolo a risedersi. E

sedette anche lui agilmente sul muretto.«Se il conclave fosse finalmente riunito», continuò Bouville, «che cosa

accadrebbe?»«Niente. Mi pare evidente.»Evidente, certo, per un cardinale che, come tutti i candidati a un’elezione, rifà

ogni giorno il conto dei suffragi eventuali; meno evidente per Bouville che ebbe qualche difficoltà a seguire la spiegazione di Duèze, il quale continuava a parlare con il suo tono da confessionale.

«Il papa dev’essere eletto dai due terzi dei votanti. Noi siamo ventitré: quindici francesi e otto italiani. Di questi otto, cinque sono per il cardinale Caetani, nipote di Bonifacio… irriducibili. Non li tireremo mai dalla nostra. Vogliono vendicare Bonifacio, odiano la corona di Francia e tutti coloro che, direttamente o attraverso il mio benefattore papa Clemente, hanno potuto servirla.»

«E gli altri tre?»«…odiano Caetani; si tratta dei due Colonna e dell’Orsini. Rivalità ancestrali.

Visto che nessuno dei tre può sperare per se stesso, mi sono favorevoli nella misura in cui io sono di ostacolo per Francesco Caetani. A meno che… a meno che si prometta loro di riportare la Santa Sede a Roma, cosa che potrebbe sull’istante metter d’accordo gli italiani, salvo poi farli assassinare tra di loro.»

«E i quindici francesi?»«Ah! Se i francesi votassero d’accordo, avreste un papa da un bel po’! All’inizio

sei erano dalla mia parte; erano persone nei confronti delle quali, per mio tramite,

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il re di Napoli si era mostrato generoso.»«Sei francesi», contò Bouville, «e tre italiani, fanno nove.»«Eh, sì, messere, fanno nove. E ce ne vogliono sedici per farcela. Notate che

anche gli altri nove francesi non sono comunque in numero sufficiente nemmeno per avere il papa che vuole Marigny.»

«Allora si tratta di guadagnare altri sette voti. Pensate che si possano ottenere con del denaro? Ho modo di lasciarvi qualche fondo. Quanto calcolate ci voglia, per ogni cardinale?»

Bouville pensava di aver condotto la trattativa con grande abilità. Con sua grande sorpresa, Duèze non parve interessato alla proposta.

«Non credo», rispose, «che i cardinali francesi che ci mancano siano sensibili a questo argomento. Non che l’onestà sia la loro maggiore virtù, né che vivano nell’austerità. Ma la paura che ispira loro messer de Marigny ha la meglio sulle lusinghe del mondo. Gli italiani sono già più duri, ma l’odio tiene il posto della coscienza.»

«Così», disse Bouville, «tutto dipende da Marigny e sul potere che esercitaci cardinali francesi?»

«Tutto dipende da questo, messere, oggi come oggi… Domani potrà dipendere da altro. Di quanto denaro potete disporre?»

Bouville spalancò gli occhi. «Ma se mi avete appena detto che il denaro non vi serve a niente!»

«Non mi avete compreso, signore. Questo denaro non mi aiuterà a guadagnare nuovi sostenitori, ma mi sarà quasi indispensabile per conservare quelli che ho e ai quali, finché non sarò eletto, non potrò fare alcun favore. Sarebbe bello se, quando mi avrete procurato i voti che mi mancano, avrò perduto nel frattempo quelli che ho adesso!»

«Di quale somma vorreste poter disporre?»«Se il re di Francia è tanto ricco da potermi dare seimila lire, penso io a

impiegarle come si deve.»In quel momento Bouville dovette soffiarsi il naso. Il cardinale interpretò il

gesto a modo suo e temette d’aver sparato una cifra troppo alta. Fu il solo punto a favore di Bouville nel corso dell’intero colloquio.

«Anche con cinquemila», sussurrò Duèze, «sarei in grado di farcela… almeno per un po’.»

Già sapeva che quei soldi in gran parte sarebbero rimasti nella sua borsa o semmai sarebbero serviti a pagare qualche debito.

«La somma», disse Bouville, «vi sarà fatta recapitare dai Bardi.»

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«Che la tengano in deposito», rispose il cardinale. «Ho un conto da loro. Vi attingerò a seconda delle necessità.»

Dopo di che si mostrò ansioso di risalire in groppa alla sua mula. Assicurò a Bouville che avrebbe pregato per lui e che gli avrebbe fatto piacere rivederlo. Tese all’omone l’anello da baciare e se ne andò saltellando nell’erba com’era venuto.

Strano papa che avremo, adesso: si occupa di alchimia quanto di cose di chiesa, pensava Bouville, guardandolo allontanarsi. Sarà adatto all’ufficio che ha scelto?

Ma tutto sommato Bouville non era scontento di sé. L’avevano incaricato di vedere i cardinali? Almeno con uno si era incontrato… Di trovare un papa? Questo Duèze pareva non chieder di meglio che di diventarlo… Di distribuire un po’ di soldi? Era cosa fatta.

Quando tornò da Guccio e gli raccontò soddisfatto l’esito dell’incontro, il nipote di Tolomei esclamò: «Ma così, messer Ugo, avete comperato e a caro prezzo proprio il solo cardinale che fosse già dalla nostra parte!»

E il denaro che i Bardi di Napoli avevano, attraverso Tolomei, prestato al re di Francia, tornò ai Bardi di Avignone per rimborsarli di quanto avevano prestato al candidato del re di Napoli.

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VII • UNA FIRMA IN CAMBIO D’UN PAPA

Le gambe magre, la sagoma d’airone, il mento sporgente, Filippo di

Poitiers stava in piedi davanti a Luigi X.«Sire, fratello mio», disse con una voce fredda, tagliente, che ricordava un po’

quella di Filippo il Bello, «vi ho portato le conclusioni del nostro esame. Non potete chiedermi di rinnegare l’evidenza, quand’è tanto palese.»

La commissione nominativa per verificare i conti di Enguerrand de Marigny aveva terminato i lavori il giorno prima.

Per settimane Filippo di Poitiers, i conti di Valois, d’Evreux e di Saint-Pol, il gran camerario Luigi di Borbone, l’arcivescovo Jean de Marigny, il canonico Etienne de Mornay e il ciambellano Mathieu de Trye, riuniti sotto la presidenza cavillosa del conte di Poitiers, avevano esaminato riga per riga il libro dei conti del Tesoro per un periodo di sedici anni; avevano chiesto spiegazioni e si eran fatti portare pezze giustificative e documenti d’archivio, senza omettere alcunché. Questa inchiesta severa effettuata in un clima di rivalità e spesso di odio, poiché la commissione si divideva quasi equamente tra avversari e fautori di Marigny, non aveva fatto emergere niente a carico di quest’ultimo. La sua amministrazione dei beni della corona e dei fondi pubblici si rivelava esatta e scrupolosa. Se era ricco, lo doveva alla generosità del defunto re e alla sua personale abilità finanziaria. Ma niente permetteva di supporre che avesse mai confuso i suoi interessi con quelli dello stato, e ancor meno che avesse rubato al Tesoro. Valois, in preda alla delusione furiosa del giocatore che ha puntato sul cavallo sbagliato, si era accanito quasi fino al punto di negare l’evidenza; e solo il suo cancelliere Mornay l’aveva sostenuto, sia pure di malavoglia, in una insostenibile posizione.

Luigi X era dunque in possesso delle conclusioni della commissione, pronunciate con sei voti favorevoli e due contrari, e tuttavia esitava ad accettarle. Era questa situazione a ferire profondamente il fratello.

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«I conti di Marigny sono giusti; ve ne porto la prova», riprese Filippo di Poitiers. «Se desiderate conclusioni diverse da queste, che non siano la verità, allora bisognerà che designiate qualcun altro a recarvele.»

«I conti… i conti…» replicò Luigi X. «Lo sanno tutti che ai conti si può far dire quel che si vuole. E lo sanno tutti che state dalla parte di Marigny.»

Poitiers studiò il fratello con calmo disprezzo. «Io in questo caso non sto dalla parte di nessuno, se non da quella del regno e della giustizia; ecco perché vi presento da firmare il documento che è giusto dare a Marigny.» Tutte le diversità di carattere che c’erano tra Filippo il Bello e Carlo di Valois riapparivano tra Luigi X e Filippo di Poitiers. Ma i ruoli, stavolta, erano invertiti. Prima, il fratello re possedeva in abbondanza tutte le qualità d’un re e Valois accanto a lui pareva una brutta copia. Adesso era la brutta copia a regnare e il minore a mostrare doti di sovrano. Per ventinove anni Valois aveva pensato: Ah! Se fossi il primogenito! E adesso Poitiers cominciava a dirsi, con ragione: Starei certo meglio al posto nel quale il diritto di nascita ha messo mio fratello.

«E poi, i conti non sono tutto. Ci sono altre cose che non mi vanno», disse Luigi. «Come quella lettera che ho ricevuto dal re d’Inghilterra, con la raccomandazione di continuare ad avere per Marigny la stessa fiducia di nostro padre, e la lode dei servigi resi ai due regni… Non mi piace che mi si suggerisca quel che devo fare.»

«E così, per il fatto che nostro cognato vi dà un saggio consiglio, bisogna per forza che rifiutiate di seguirlo?»

Luigi X distolse lo sguardo e si agitò un po’ sulla poltrona. Cercava di eludere le domande e voleva con ogni evidenza guadagnare tempo.

«Prima di pronunciarmi voglio aspettare di sentire Bouville, il cui ritorno mi è stato annunciato come ormai prossimo», disse.

«Ma che cosa c’entra Bouville con la vostra decisione?»«Voglio avere notizie da Napoli, voglio sapere qualcosa del conclave», rispose il

re, teso. «Non intendo andar contro nostro zio Carlo nel momento in cui mi trova moglie e mi fa un papa.»

«Così siete pronto a sacrificare agli umori di nostro zio un funzionario integro, ad allontanare dal potere il solo uomo in grado, oggi come oggi, di portare avanti le cose! Attento, fratello mio: non potrete tenere il piede in due staffe. Avete ben visto che, mentre noi eravamo intenti a spulciare i conti di Marigny come quelli di un cattivo servitore della corona, tutti in Francia han continuato a obbedirgli come prima. Sarà necessario o restituirgli ogni potere oppure abbatterlo del tutto giudicandolo colpevole di crimini inventati e castigandolo di essere stato fedele.

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Scegliete. Marigny forse impiegherà un altro anno prima di darvi un papa: ma lo sceglierà in conformità agli interessi del regno. Nostro zio Carlo vi promette un pontefice al giorno; lo farà eleggere certo più in fretta, ma vi troverà qualche Caetani ansioso di ripartire per Roma a eleggersi da laggiù i vostri vescovi e spadroneggiare su tutto a casa vostra.»

Prese il documento che aveva preparato e se lo avvicinò agli occhi, perché era molto miope, per rileggere un’ultima volta.

«…così approvo, accetto e ricevo i conti del signor Enguerrand de Marigny e lo considero libero, lui e i suoi eredi, da ogni obbligazione derivante dalle riscossioni fatte per conto del Tesoro del Tempio, del Louvre e del re.»

Mancava alla pergamena solo la sigla reale e l’apposizione del sigillo.«Fratello», riprese Poitiers, «mi avete assicurato che sarò fatto pari alla fine del

periodo di lutto e che devo quindi considerarmi già tale. In quanto pari del regno vi consiglio di firmare. È compiere un atto di giustizia.»

«La giustizia appartiene solo al re!» esclamò l’Attaccabrighe, con la violenza improvvisa che manifestava quando si sentiva a malpartito.

«No, sire», replicò calmo Filippo. «No, sire; è il re che appartiene alla giustizia, per esserne espressione e farla trionfare.»

Lo stesso giorno, più o meno alla stessa ora, Bouville e Guccio arrivavano a Parigi. La capitale cominciava a intorpidirsi nel freddo e nel buio precoce delle sere d’inverno.

Mathieu de Trye aspettava i viaggiatori a porta Saint-Jacques. Aveva avuto incarico di accogliere Bouville in nome del re e condurlo subito a palazzo.

«Ma come? Senza riposare neanche un pochino?» protestò Bouville. «Sono distrutto quanto sporco, amico mio, e sto in piedi per miracolo. Non ho più l’età per imprese del genere. Non potrei mettermi in ordine e dormire un momentino, prima?»

Era irritato per la fretta. Pensava di poter cenare con Guccio un’ultima volta nella saletta riservata di qualche buona locanda, per potersi dire tutte le cose che non avevano avuto modo di confidarsi in sessanta giorni di viaggio e che si prova il bisogno di dire l’ultima sera, come se l’occasione non dovesse ripresentarsi mai più.

Invece furono costretti a separarsi in mezzo alla strada, senza espansività, perché la presenza di Mathieu de Trye li imbarazzava. Bouville si sentiva il cuore gonfio; sentiva la melanconia delle cose che hanno termine. Guardando Guccio che si allontanava, vedeva allontanarsi i bei giorni di Napoli, quel miracoloso momento di giovinezza del quale la sorte aveva voluto gratificare il suo autunno.

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Ormai il secondo fieno era stato falciato e non sarebbe mai più ricresciuto.Non ho detto grazie come dovevo a questo caro compagno di viaggio per tutti

i servigi che mi ha reso e per il piacere della sua vicinanza, pensava Bouville.Non faceva neanche caso, tanto la cosa gli pareva naturale, che Guccio si fosse

portato via il forziere con il rimanente denaro dei Bardi; piccola somma, del resto, tolte le spese di spedizione e l’obolo al cardinale Duèze, ma che permetteva almeno alla compagnia Tolomei di riscuotere la sua commissione.

Questo non impediva a Guccio di sentirsi anche lui commosso a lasciare il grasso Bouville; nelle persone ben dotate per gli affari, il senso del denaro non ostacola il gioco dei sentimenti.

Entrando a palazzo, Bouville notò dei dettagli che non gli piacquero affatto. I servitori sembravano aver perduto lo zelo attento che aveva saputo imporre loro, dal tempo di re Filippo, e quell’aria deferente e cerimoniosa che testimoniava, in ogni gesto, che appartenevano alla casa reale. Il cambiamento era palese.

Tuttavia, quando l’ex gran ciambellano fu in presenza di Luigi X, dimenticò ogni pensiero di critica. Era dinanzi al re e non aveva più altra preoccupazione all’infuori di quella d’inchinarsi abbastanza profondamente.

«Allora, Bouville», disse l’Attaccabrighe, dopo aver concesso al suo ambasciatore un rapido abbraccio, «allora, com’è la signora d’Ungheria?»

«Notevole, sire; mi ha fatto tremare. Ha ancora un grande spirito davvero, nonostante l’età.»

«Ma l’aspetto, il volto?»«Molto maestosa ancora, sire, nonostante i denti che le mancano.»Luigi X si tirò indietro, inquieto. Carlo di Valois, che assisteva all’udienza,

scoppiò a ridere.«Ma no, Bouville», intervenne. «Il re non vi sta chiedendo della regina Maria,

ma di donna Clemenza.»«Oh! Scusate, sire!» esclamò Bouville, arrossendo. «Donna Clemenza? Adesso

ve la mostro.»E fece portare il quadro di Oderisi. Lo tolsero dalla cassa e lo posarono su un

ripiano. Le antine che proteggevano il ritratto furono aperte e furono portate delle candele.

Luigi avanzò cauto, come se temesse l’incontro; poi sorrise all’indirizzo di suo zio.

«Che bel paese, laggiù, sire, sapeste!» esclamò Bouville, rivedendo Napoli sulle due antine laterali del trittico. «Il sole splende tutto l’anno; la gente è allegra e ovunque si sente cantare…»

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«Allora, nipote mio, vi avevo forse ingannato?» esclamò Valois. «Guardate che incarnato, che capelli color del miele, che bell’atteggiamento di nobiltà! E il seno, nipote, che bel seno che ha!»

Anche lui, che non vedeva la giovane principessa da una decina d’anni almeno, si sentiva rassicurato e contento di sé.

«E devo dire al re», rincarò Bouville, «che donna Clemenza è ancor più avvenente nella realtà che sul dipinto…»

Luigi taceva; pareva che avesse dimenticato la loro presenza. La fronte tesa in avanti, la schiena un po’ curva, era tutto preso in uno strano tête-à-tête con il ritratto. Non si limitava a guardarlo: lo interrogava e si interrogava. Negli occhi azzurri di Clemenza di Ungheria ritrovava qualcosa dello sguardo di Eudeline, una sorta di pazienza sognante, di bontà pacificatrice. E il sorriso, i colori stessi suggerivano in qualche modo una somiglianza con la bella guardarobiera di palazzo… Una Eudeline, insomma, ma nata da re, per esser regina.

Per un istante Luigi tentò di sovrapporre al ritratto con la forza della memoria il viso di Margherita di Borgogna, la sua fronte tonda e bombata, i capelli neri ricciuti, la pelle bruna, gli occhi dallo sguardo spesso ostile… e poi quel volto svanì; riapparve quello di Clemenza, trionfante nella sua calma bellezza. E Luigi si convinse che accanto a quella principessa il suo corpo non avrebbe più conosciuto sconfitte.

«Ah! È bella, è veramente bella!» disse finalmente. «Zio, avete avuto una buona idea, anche a voler commissionare questo ritratto. Ve ne sarò molto grato. E voi, messer Bouville, riceverete duecento lire dal Tesoro… il giorno delle nozze.»

«Oh, sire», mormorò Bouville, riconoscente, «l’onore di servirvi mi ricompensa già a sufficienza.»

Il re andava su e giù, tutto agitato.«Così siamo fidanzati», osservò. «Siamo fidanzati… Devo riuscire a separarmi

dalla moglie che ho.»«Sì, sire, e bisogna che ci riusciate prima dell’estate. È la condizione che hanno

posto perché possiate sposarvi con donna Clemenza.»«Spero di non dover attendere tanto a lungo. Ma chi ha posto questa

condizione?»«La regina Maria, sire. Ha altri partiti per la nipote, e benché voi siate

senz’altro il più nobile ai suoi occhi e il più augurabile, tuttavia non vuole impegnarsi oltre quella data.»

Luigi X si girò perplesso verso Valois che assunse a sua volta un’espressione di stupore.

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Durante l’assenza di Bouville Valois, che, in contatto epistolare con Napoli, si dava le arie di poter sistemare tutto, aveva rassicurato il nipote: l’affare andava avanti bene e si sarebbe concluso in modo definitivo, senza condizioni.

«La regina d’Ungheria vi ha parlato di questa condizione all’ultimo momento?» chiese a Bouville.

«No, monsignore; ne ha parlato più volte e l’ha riconfermata all’ultimo momento.»

«Bah! È un modo come un altro per metterci fretta e per farsi valere. Se per caso, eventualità comunque improbabile, dovessimo attendere oltre l’annullamento, Maria di Ungheria aspetterà.»

«Non so, monsignore. La cosa era espressa in termini chiari, seri, decisi.»Valois non si sentiva molto a suo agio e tamburellava con le dita sui braccioli

della poltrona.«Prima dell’estate», mormorò Luigi, «prima dell’estate… e a che punto è il

conclave?»Bouville si lanciò allora nel resoconto della sua spedizione ad Avignone, senza

insistere troppo sulle disavventure personali; riportò le informazioni raccolte da Guccio, narrò dell’incontro con il cardinale Duèze e insistette sul fatto che l’elezione del papa dipendeva soprattutto da Marigny.

Luigi X ascoltava con attenzione, guardando di tanto in tanto il ritratto di Clemenza d’Ungheria.

«Duèze…sì», disse, «perché non Duèze? È disposto a concedere l’annullamento… Gli mancano sette voti francesi… Così siete sicuro, Bouville, che solo Marigny può risolvere questa faccenda?»

«Ne sono assolutamente convinto, sire.» L’Attaccabrighe si avvicinò lentamente al tavolo sul quale era stato posato l’atto di proscioglimento preparato da Filippo di Poitiers. Prese la penna d’oca e l’intinse nell’inchiostro.

Carlo di Valois impallidì. «Nipote», esclamò slanciandosi verso il re, «non vorrete prosciogliere quel mascalzone?»

«A parte voi, zio, tutti gli altri dichiarano che i conti sono giusti. Sei dei baroni designati a far parte della commissione sono di questo avviso; solo il vostro cancelliere sta dalla vostra parte.»

«Nipote, vi supplico di attendere… Quest’uomo vi sta ingannando come ha ingannato vostro padre!»

Bouville avrebbe desiderato ardentemente essere altrove.Luigi X fissò lo zio con occhi ostinati, cattivi. «Vi avevo detto che mi serviva

un papa», dichiarò.

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«Ma Marigny osteggia Duèze!»«Ebbene, che se ne scelga un altro!»Per prevenire ulteriori obiezioni, aggiunse del tutto a sproposito, ma con

grande solennità: «Ricordate che il re appartiene alla giustizia… per farla trionfare». E firmò il documento.

Valois prese congedo senza nascondere il suo disappunto. Ribolliva di rabbia. Avrei fatto meglio a trovargli una ragazza storpia e brutta di viso, si diceva. Sarebbe stato meno frettoloso. Sono stato giocato: Marigny tornerà a corte grazie alle macchinazioni che avevo architettato per farlo scacciare per sempre.

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VIII • LA LETTERA DELLA DISPERAZIONE

Una raffica di vento colpì la stretta finestra e Margherita di Borgogna si tirò

indietro di colpo, come se qualcuno dall’alto dei cieli avesse cercato di schiaffeggiarla.

La luce del giorno cominciava a levarsi, incerta, sulla campagna normanna. Era l’ora in cui il primo turno di guardia aveva inizio dietro le feritoie di Château-Gaillard. La tempesta dell’ovest spingeva nuvole enormi che portavano nel grembo scuro montagne d’acqua; e i pioppi, lungo la Senna, piegavano le schiene nude.

Il sergente Lalaine disserrò le porte che, sulla scala a chiocciola, separavano le due principesse; l’arciere Gros-Guillaume depositò nella camera di Margherita due scodelle di legno piene di zuppa fumante; poi uscì senza aprir bocca, trascinando i piedi.

«Bianca…» chiamò Margherita, avvicinandosi al pianerottolo.Nessuna risposta.«Bianca!» ripetè, più forte.Il silenzio che seguì la riempì d’angoscia. Alla fine sentì un lento scalpiccio di

zoccoli di legno sui gradini. Bianca entrò, barcollante, disfatta; gli occhi chiari, nella luminosità grigia che riempiva la stanza, avevano un’inquietante espressione d’assenza e di ostinazione insieme.

«Hai dormito un pochino?» chiese Margherita. Bianca si avvicinò senza rispondere alla brocca d’acqua posata su uno sgabello, s’inginocchiò e, inclinando la brocca verso la bocca, bevve a lunghi sorsi. Da qualche tempo assumeva strani atteggiamenti per compiere i gesti più comuni della giornata.

Dei mobili di Bersumée non restava più niente, nella stanza. Il comandante della fortezza li aveva recuperati tre mesi prima, subito dopo la visita piuttosto rude di Alain de Pareilles che era venuto a ricordargli le istruzioni di Marigny. Una volta partito de Pareilles, i cassoni e le sedie portati lì in onore di monsignor

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d’Artois erano scomparsi; ed era scomparsa anche la tavola alla quale la regina prigioniera aveva cenato insieme con il cugino. Solo qualche rozzo pezzo d’arredamento di quello fornito alla truppa riempiva la cella tonda. Il letto aveva un materasso riempito di baccelli di piselli secchi. In compenso, dato che Pareilles aveva sottolineato quanto la salute di Margherita stesse a cuore a Marigny, Bersumée da allora faceva in modo che le due donne disponessero di coperte a sufficienza. Ma le lenzuola non erano mai state cambiate e il fuoco veniva acceso soltanto quando si gelava.

Le due donne sedettero l’una di fianco all’altra sul bordo del letto con la scodella sulle ginocchia.

Bianca cominciò a leccare la pappa di grano saraceno direttamente dalla scodella, senza usare il cucchiaio. Margherita non mangiava; si scaldava le dita appoggiandole alla scodella di legno. Era uno dei pochi momenti belli della giornata, l’ultimo piacere sensuale che le restasse. Chiuse gli occhi, tutta concentrata nella misera soddisfazione di raccogliere un po’ di calore nel palmo della mano.

All’improvviso, Bianca si alzò in piedi e gettò la sua scodella dall’altra parte della stanza. La pappa si sparse sul pavimento, dove sarebbe rimasta a inacidire per almeno una settimana.

«Ma che cos’hai?» chiese Margherita.

«Voglio morire, voglio ammazzarmi!» urlò Bianca. «Mi getterò giù dalle scale… e tu resterai sola, sola!» Margherita sospirò e affondò il cucchiaio nella pappa. «Non usciremo mai di qui a causa tua», riprese Bianca, «perché non hai voluto scrivere la lettera che Roberto ti ha chiesto. È colpa tua, è tutta colpa tua. Star qui non è vivere. Ma io morirò. E tu resterai sola.»

La speranza delusa è fatale per i prigionieri. Bianca aveva creduto, alla notizia della morte di Filippo il Bello e soprattutto all’arrivo di Roberto d’Artois, che l’avrebbero liberata. E invece non era successo niente, a parte il fatto che erano stati loro tolti gli agi recati dal passaggio del cugino e durati qualche giorno appena. Da allora, Bianca sembrava diventata un’altra. Non si lavava più. Dimagriva a vista d’occhio. Passava da improvvisi accessi di rabbia a improvvisi accessi di pianto che le lasciavano lunghe strisce grigiastre sulle guance sporche. I capelli un tantino ricresciuti spuntavano appiccicosi, aggrovigliati, dal soggolo di tela. Era piena di astio e di rancore nei confronti di Margherita e le rinfacciava di

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continuo l’accaduto. La considerava l’unica responsabile, l’accusava di averla spinta tra le braccia di Gautier d’Aunay, l’insultava. Poi pretendeva pestando i piedi che scrivesse a Parigi per accettare la proposta che le avevano fatto. E l’odio diventava compagno delle due donne che potevano trovar conforto solo nella vicinanza l’una dell’altra.

«E allora crepa, se non hai più il coraggio di lottare!» rispose Margherita.«Perché lottare? Lottare contro i muri… Perché tu sia regina? Perché tu speri

ancor di poter diventare regina! La regina, la regina! Guardatela, la regina!»«Se anche avessi ceduto, probabilmente avrebbe liberato me, non te.»«Sola, sola, resterai sola!» ripeteva Bianca.«Tanto meglio! È l’unica cosa che desidero, restar sola!»Anche lei era stata più provata dalle ultime settimane che da tutti i primi sei

mesi di reclusione. Il suo volto era indurito, smagrito, spellato. I giorni si susseguivano ai giorni senza novità e la stessa incessante domanda continuava a tormentarle l’anima. Aveva fatto bene a rifiutare la proposta di Roberto?

Bianca si slanciò verso la scala. Margherita pensò: Che vada a sfracellarsi! Almeno non la sentirò più gemere e urlare! Non riuscirà ad ammazzarsi, ma se non altro la porteranno via, lontano da qui! E corse dietro alla cognata, le mani protese, come per spingerla giù dalle scale.

Bianca si girò. Per un istante si sfidarono con lo sguardo. All’improvviso Margherita si appoggiò, come se non riuscisse più a reggersi in piedi, al muro della stanza.

«Stiamo impazzendo tutte e due…» disse. «Sì, penso che bisognerà scrivere quella lettera. Non ce la faccio più neanch’io.»

E piegandosi verso le scale chiamò: «Guardie! Guardie, chiamate il cappellano!»Le rispose solo il vento dell’inverno che staccava le tegole dal tetto.«Vedi…» mormorò Margherita, alzando le spalle. «Lo farò chiamare quando ci

porteranno da mangiare.»Ma Bianca discese la scala e si mise a tempestare sulla porta in fondo ai

gradini, urlando che voleva vedere il capitano. Gli arcieri di guardia smisero di giocare ai dadi nella sala al pianterreno e si sentì che qualcuno stava arrivando.

Bersumée fece il suo ingresso un momento dopo, il berretto di lupo calato fino alle sopracciglia. Ascoltò la richiesta di Margherita.

Il cappellano? Non c’era, quel giorno. Delle penne, della carta? Le prigioniere

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non avevano il diritto di comunicare con nessuno, né a voce, né per iscritto. Questi erano gli ordini del signor de Marigny.

«Devo scrivere al re», dichiarò Margherita.Al re? Ah! Ecco, questo poneva un bel problema a Bersumée. In quel

«nessuno» bisognava annoverare anche il re?Margherita parlò con tanta autorevolezza e si scaldò talmente che il capitano si

lasciò convincere.«Su, non indugiate!» lo esortò lei.Bersumée le portò il necessario per scrivere.Quando dovette cominciare la lettera, Margherita ebbe un ultimo sussulto di

rivolta, di rifiuto. Mai più, se il suo caso fosse stato riaperto, per chissà quale miracolo, avrebbe potuto dichiararsi innocente e sostenere che i fratelli d’Aunay avevano detto il falso sotto tortura. E avrebbe tolto a sua figlia ogni diritto alla corona…

«Su, avanti!» la esortava Bianca.«Niente, in effetti, può essere peggio di quel che stiamo vivendo», mormorò

Margherita.E scrisse la sua rinuncia.«…Riconosco e confesso che mia figlia Giovanna non è vostra. Riconosco e

confesso di aver sempre rifiutato di unirmi a voi nel corpo, così che l’unione carnale non ha mai avuto luogo tra noi… Riconosco e confesso di non aver diritto di ritenermi vostra moglie… Attendo, come mi è stato promesso a nome vostro dal signor d’Artois, in caso avessi reso confessione sincera delle mie colpe, che siate toccato dal mio dolore e dal mio pentimento e mi mandiate in un convento in Borgogna…»

Bersumée le stette accanto, sospettoso, per tutto il tempo; poi prese la lettera e la studiò un momento, tanto per far scena perché non sapeva leggere gran che.

«Questo scritto deve essere recapitato al più presto a monsignor d’Artois.»«Ah! Madame, questo cambia tutto. Avevate assicurato che era destinata al re!»«… A monsignor d’Artois perché la consegni al re!» urlò Margherita. «Sta

anche scritto lì davanti! Siete cieco, per non riuscire a vederlo?»«Ah! Sì. E chi porterà la lettera?»«Voi.»«Non ho ordini in merito.»In tutta la giornata non riuscì a decidere il da farsi e preferì attendere l’arrivo

del cappellano per domandargli un parere.La lettera non era sigillata e il cappellano se la lesse.

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«Riconosco e confesso. Riconosco e confesso… O mente quando si confessa con me, o mente quando scrive», osservò, grattandosi il cranio marroncino.

Era un po’ brillo e sapeva di sidro. Ciò nondimeno ricordava benissimo che monsignor d’Artois lo aveva fatto attendere tre ore al freddo per scrivere una lettera di Margherita e poi se n’era andato senza lettera, insultandolo ferocemente… Convinse Bersumée a stappare una bottiglia e, dopo molti commenti, consigliò di recapitare il plico, cominciando a intravedere nella faccenda qualche barlume di speranza personale.

Bersumée era anche lui propenso a recapitare la lettera, per motivi altrettanto personali. Si ripeteva ovunque, a Les Andelys, che Marigny era caduto in disgrazia: si diceva perfino che il re voleva mandarlo sotto processo. Una cosa era certa: anche se Marigny continuava a fargli avere ordini, non gli faceva però avere più denaro. Bersumée aveva ricevuto all’improvviso tutti gli arretrati della sua paga, tre mesi prima. E poi più nulla. E si avvicinava il momento in cui non avrebbe più avuto il necessario per dar da mangiare ai suoi uomini e alle prigioniere. Era l’occasione buona per informarsi di persona su quel che stava succedendo.

«Al posto tuo, capitano, farei recapitare la lettera al grande inquisitore, che è anche il confessore del re. Lei ha scritto: «Confesso». È una faccenda che riguarda la Chiesa e riguarda il re. Se è un fastidio, per te, me ne occupo io. Conosco il grande inquisitore: viene dal mio convento di Poissy…»

«No, andrò di persona», rispose Bersumée.«Allora ricordati dì parlare di me, se vedrai il grande inquisitore.»Il giorno dopo, passate le consegne al sergente Lalaine, Bersumée, con il suo

elmo in testa, in groppa al suo ronzino migliore, si mise in viaggio per Parigi.Arrivò il giorno dopo, a metà pomeriggio, e pioveva a catinelle. Pieno di fango

fino agli occhi, la casacca fradicia, entrò in una taverna nei pressi del Louvre per bere qualcosa e riflettere un po’. Per tutto il lungo tragitto si era sentito inquieto. Come faceva a capire con certezza se così facendo era bene o male, se agiva pro o contro i suoi interessi? Doveva andare da Marigny oppure dal signor d’Artois? A disobbedire agli ordini del primo, che meriti avrebbe acquisito agli occhi del secondo? Marigny… d’Artois… d’Artois o Marigny? Oppure il grande inquisitore, perché no?

La provvidenza qualche volta veglia sugli sciocchi. Mentre Bersumée si asciugava la pancia davanti al fuoco, una tremenda manata sulle spalle lo strappò alle sue meditazioni.

Era il sergente Quatre-Barbes, ex compagno di guarnigione, che lo aveva

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riconosciuto entrando. Non si vedevano da sei anni almeno. Si abbracciarono, fecero un passo indietro per guardarsi meglio e reclamarono vino a gran voce per celebrare l’incontro.

Quatre-Barbes, un uomo alto e magro dai denti anneriti e le pupille curiosamente dislocate agli angoli degli occhi, era sergente degli arcieri al Louvre; era cliente abituale della taverna. Bersumée lo invidiava perché risiedeva a Parigi, Quatre-Barbes, dal canto suo, invidiava Bersumée che era salito di grado più rapidamente e comandava una fortezza. Tutto per il meglio, dunque, dal momento che l’uno si riteneva oggetto d’invidia per l’altro!

«Come? Sei tu che hai in custodia la regina Margherita? Dicono che avesse cento amanti. Deve avere il fuoco sotto le sottane, e scommetto che non hai modo di annoiarti nemmeno tu, vecchio mascalzone!»

«Ah! Non dirlo neanche per scherzo!»Dalle battute passarono ai ricordi, poi ai problemi del momento. Cosa c’era di

vero nelle voci che correvano sulla presunta disgrazia di Marigny? Quatre-Barbes doveva saperlo, visto che viveva nella capitale. Bersumée seppe così che il signor de Marigny era uscito vincitore dalle dispute che aveva dovuto affrontare; il re tre giorni prima lo aveva fatto chiamare, lo aveva abbracciato in presenza di numerosi baroni e adesso era più potente che mai…

Eccomi sistemato in una botte di ferro, con questa lettera in mano, pensava Bersumée.

La lingua sciolta dal vino, Bersumée scivolò nel confidenziale. Dopo aver fatto giurare a Quatre-Barbes di mantenere un segreto che lui stesso si stava dimostrando incapace di mantenere, gli rivelò la ragione del suo viaggio.

«Al mio posto, che cosa faresti?»Dopo aver dondolato un momento il naso sull’orlo del bicchiere, Quatre-

Barbes rispose: «Al tuo posto, andrei a prendere ordini dal signor de Pareilles. È il tuo superiore. Almeno ti sarai parato le spalle».

«Buona idea. Farò così.»Il pomeriggio era trascorso a parlare e a bere. Bersumée era un po’ ubriaco, e

soprattutto sollevato perché qualcun altro aveva deciso per lui. Ma era troppo tardi per seguire il consiglio di Quatre-Barbes subito. E l’amico sergente quella sera non era di guardia. I due compagni cenarono alla taverna. L’oste si scusò di aver soltanto salsicce e piselli da offrire loro e andò avanti un bel po’ a lamentarsi delle difficoltà che doveva affrontare per far provvista. Solo il vino non mancava.

«Ve la cavate sempre meglio di noi, in campagna; ancora un po’ e ci metteremo a vendere la scorza degli alberi», replicò Bersumée.

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Poi la baldoria non ebbe freni. Quatre-Barbes trascinò il capitano nei vicoli dietro Notre-Dame, dalle donne perdute che, per un’ordinanza risalente al tempo di san Luigi, continuavano a portare i capelli tinti di color del rame per distinguerle dalle donne oneste.

All’alba, Quatre-Barbes invitò l’amico a darsi una sistemata da lui, al Louvre; e verso la nona Bersumée, spazzolato, tirato a lucido, rasato, si presentò al corpo di guardia di palazzo e chiese del signor de Pareilles.

Il capitano generale degli arcieri non mostrò alcuna esitazione dopo che Bersumée ebbe spiegato la faccenda. «Da chi prendete ordini?»

«Da voi, signore.»«Chi, al di sopra di me, comanda tutte le fortezze reali?»«Monsignor de Marigny, signore.»«A chi dovete render conto in tutto e per tutto?»«A voi, signore.»«E al di sopra di me?»«A monsignor de Marigny.»Bersumée ritrovava quel senso dell’onore unito a un certo sentimento di

protezione che il buon soldato prova regolarmente di fronte a qualcuno che porta un grado più alto e che gli dà un qualsivoglia ordine.

«Quindi», concluse de Pareilles, «è al signor de Marigny che dovete consegnare questa lettera. Ma fate in modo di consegnarla a lui personalmente.»

Una mezz’ora più tardi in rue de Fossés-Saint-Germain annunciarono a Marigny, che stava lavorando nel suo studio, che un certo capitano Bersumée, venuto da parte del signor de Pareilles, chiedeva insistentemente di potergli parlare.

«Bersumée… Bersumée…» ripetè Enguerrand. «Ah! È quel somaro che comanda Château-Gaillard. Fatelo passare.»

Tutto agitato all’idea di trovarsi di fronte a un così augusto personaggio, Bersumée ebbe qualche difficoltà a tirar fuori da sotto la casacca e la cotta la lettera destinata a monsignor d’Artois. Marigny la lesse subito con grande attenzione, senza che il suo volto mostrasse la minima emozione.

«Quando è stata scritta?»«L’altroieri, monsignore.»«Avete fatto la cosa più giusta, consegnandomela. Complimenti. Assicurate a

Margherita di Borgogna che la sua lettera sarà recapitata a chi di dovere. E se per caso ne scrivesse altre, fate in modo che seguano la stessa strada… Come sta la signora di Borgogna?»

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«Come si sta in prigione, signore. Ma resiste certo meglio della signora Bianca, che pare andare un po’ fuori di testa.»

Marigny ebbe un gesto vago, come a voler significare che della testa delle prigioniere gli importava pochino.

«Badate che non si ammalino. Devono mangiare e stare al caldo.»«Monsignore, conosco i vostri ordini; ma ho soltanto grano saraceno da dar

loro, perché me ne rimane ancora un po’ di scorta. Per la legna, mi tocca mandare i miei arcieri a tagliarla. E non si possono pretendere troppe corvée da uomini che non mangiano abbastanza.»

«E come mai?»«Mi manca il denaro, a Château-Gaillard. Non ho ricevuto più niente per

pagare il soldo agli uomini, né per comprare le provviste, con quello che costano, come sapete, monsignore, in questo periodo così brutto.» Marigny si strinse nelle spalle.

«Non mi dite niente di nuovo», replicò. «È così dappertutto. Non sono stato io, negli ultimi mesi, ad amministrare il Tesoro. Ma tutto tornerà in ordine. L’ufficiale pagatore del vostro baliato vi porterà il denaro entro una settimana. Di quanto siete in arretrato, per quel che vi riguarda personalmente?»

«Quindici lire e sei soldi, monsignore.»«Ne avrete subito trenta.»E Marigny chiamò un segretario per riaccompagnare alla porta Bersumée dopo

avergli pagato il prezzo della sua obbedienza.Rimasto solo, Marigny rilesse la lettera di Margherita, rifletté un momento e la

gettò nel fuoco. Poi restò dinanzi al camino finché non fu completamente ridotta in cenere.

In quel momento si sentiva davvero l’uomo più potente del regno: aveva in mano i destini di tutti, compreso quello del re.

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PARTE TERZA

LA PRIMAVERA DEI DELITTI

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I • LA CARESTIA

La miseria dei francesi fu la più grande, quell’anno, da un secolo a quella

parte, e fece la sua ricomparsa il flagello dei tempi passati: la carestia.A Parigi, il prezzo del sale al boisseau3 raggiunse i dieci soldi d’argento e il

frumento si vendette addirittura a sessanta soldi il sestier4, prezzo mai raggiunto prima. Questo rincaro anormale era certo il risultato, in primo luogo, del disastroso raccolto dell’estate precedente; ma era dovuto in buona parte anche alla disorganizzazione amministrativa, alle agitazioni provocate in molte province dalle leghe baronali che rendevano difficoltosi gli scambi, al panico di coloro che avevano riempito i granai per paura di restare a secco, infine all’avidità degli speculatori.

Negli anni di carestia il mese più terribile è febbraio. Le ultime provviste autunnali sono alla fine, e altrettanto dicasi per la resistenza dei corpi e degli spiriti. Il freddo si aggiunge alla fame. È il mese in cui la mortalità è più alta. La gente dispera di poter rivedere la primavera e questa disperazione in alcuni diventa accasciamento, in altri odio. A furia di prendere il sentiero che conduce al cimitero, tutti cominciano a domandarsi quando verrà il loro turno.

Nelle campagne, si mangiavano i cani che non si riusciva più a nutrire, e si dava la caccia ai gatti, ritornati selvatici. Il bestiame moriva per mancanza di foraggio e la gente si disputava i resti degli animali squartati. Le donne strappavano l’erba gelata per divorarla. Era cosa nota che la scorza del faggio dava una farina migliore di quella della quercia. Ogni giorno c’erano bambini che finivano annegati sotto il ghiaccio degli stagni nel tentativo di prendere del pesce. Non c’erano quasi più vecchi.I falegnami, pallidi e sfatti, inchiodavano una bara dopo l’altra. I mulini erano immobili. Madri pazze blateravano di bambini morti. Qualche volta si assediava un monastero; ma l’elemosina non serviva a niente quando non rimaneva da

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comperare altro che sudari. A volte orde incerte salivano dai campi verso i centri abitati nella vana illusione di farsi dare un po’ di pane; ma incontravano altre orde affamate provenienti dalla città che parevano dirette verso il Giudizio universale.

Questo capitava tanto nelle regioni ritenute ricche quanto in quelle povere, in Artois come in Auvergne, nel Poitou come nella Champagne, nella Borgogna come nella Bretagna, e nell’Île-de-France. Era lo stesso a Neauphle e Cressay.

La maledizione che da un anno gravava sulla famiglia reale sembrava essersi estesa durante l’inverno a tutto il regno.

Quando era tornato da Avignone a Parigi al seguito di Bouville, Guccio si era trovato in mezzo a tanta miseria. Ma alloggiando nelle prevosture o nei castelli reali e con in tasca buon oro per pagare i prezzi esorbitanti delle locande, aveva potuto guardare alla carestia con un certo distacco.

E non se ne preoccupava gran che neanche una settimana dopo il suo ritorno, trottando sulla strada che portava da Parigi a Neauphle. Il mantello foderato di pelliccia era caldo, il cavallo pieno di vita, e stava correndo verso la donna che amava. Preparava le frasi per raccontare alla bella Marie di Cressay come aveva parlato di lei a Clemenza di Ungheria, che presto sarebbe potuta diventare la regina di Francia, e del fatto che il suo ricordo non l’aveva abbandonato un momento… il che, d’altra parte, corrispondeva a verità. Poiché le scappatelle fortuite non impediscono di pensare, a chi si sta tradendo, anzi: ed è questa la maniera più diffusa tra gli uomini di esser fedeli. E poi avrebbe descritto a Marie le bellezze di Napoli… si sentiva nobilitato dal prestigio del viaggio compiuto e della importante missione: com’era possibile non amarlo?

Fu soltanto nei pressi di Cressay, dal momento che conosceva bene il paese e nutriva una certa affezione nei suoi confronti, che Guccio cominciò ad aprire gli occhi su altre cose all’infuori dei problemi personali.

I campi deserti, i casolari silenziosi, i rari camini accesi sulle case, l’assenza di animali, la magrezza e la sporcizia dei pochi passanti e soprattutto il loro sguardo diedero al giovane toscano un senso di malessere e insicurezza. E quando entrò nel cortile del vecchio castello, al di là del ruscello della Mauldre, ebbe un presagio di disgrazia.Neanche un gallo sul letamaio, neanche un muggito dalla parte delle stalle,

neanche un abbaiare di cane. Il giovanotto procedeva senza che nessuno, servo o padrone, venisse a riceverlo. La casa sembrava morta. Sono andati via tutti? si domandava. Non avranno sequestrato ogni cosa, mentre ero via? Che cos’è successo? Non ci sarà stata la peste, da queste parti?

Legò le redini del cavallo a un anello al muro ed entrò negli appartamenti. Si

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trovò di fronte Madame de Cressay.«Oh! Messer Guccio!» gridò la donna. «Mi pareva… mi pareva… Eccovi,

dunque…»Aveva le lacrime agli occhi; si appoggiò a un mobile, come se la sorpresa la

facesse barcollare. Era più magra di venti libbre e più vecchia di dieci anni. Nuotava nel vestito che un tempo le fasciava ben stretto i fianchi e il petto; aveva un colorito grigiastro, le guance scavate sotto il soggolo da vedova.

Guccio, per nascondere la sua sorpresa al vederla tanto cambiata, lasciò scorrere lo sguardo nel salone intorno a lui. Una volta si avvertiva una certa dignità feudale a dispetto dei pochi mezzi finanziari a disposizione; oggi tutto parlava di miseria incurabile, di povertà disordinata e polverosa.

«Non siamo nelle migliori condizioni per accogliere un ospite», disse tristemente Eliabel.

«Dove sono i vostri figli?»«A caccia, come ogni giorno.»«E la signorina Marie?» domandò Guccio.«Ahimè!» rispose Eliabel abbassando gli occhi.«Che cos’è successo?»Eliabel si strinse nelle spalle in un gesto di desolata rassegnazione. «Sta così

male», rispose, «è così debole che non ho più speranza che possa riprendersi e nemmeno che arrivi fino a Pasqua.»

«Ma che malattia ha?» chiese Guccio con impazienza ansiosa.«La malattia che abbiamo tutti e a causa della quale ne muoiono a centinaia! La

fame, signor Guccio. Pensate un po’ se un corpo robusto com’era il mio può essere così distrutto dalla fame, pensate a cosa può succedere a delle figliole ancora nell’età della crescita!»

«Ma, perdio, io credevo che la carestia colpisse soltanto i poveri!»«E che altro credete che siamo? Dei poveri! Non è certo perché vantiamo il

titolo di cavalieri o un maniero che sta crollando che possiamo dirci più fortunati. Tutto quel che abbiamo noi piccoli feudatari ci viene dai nostri servi e dal loro lavoro. Come potremmo pretendere che ci sfamino, dal momento che non hanno da mangiare neanche per loro e vengono a morire davanti alla nostra porta con la mano tesa? Abbiamo dovuto ammazzare tutto il bestiame per dividerlo con loro. Aggiungete a questo che il prevosto ci ha costretti a fornirgli provviste, su ordine del re, ha detto, certo per dar da mangiare ai suoi uomini, che sono sempre ben pasciuti… Quando tutti i nostri contadini saranno morti, che cosa potremo fare, se non seguirli nella tomba? La terra non vale niente; ha valore fintantoché la si

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lavora, e non saranno certo i cadaveri a renderla fertile… Non abbiamo più valletti né serve. Il nostro povero zoppo…»

«Quello che definivate ‘il vostro scalco’?»«Sì, il nostro scalco», convenne lei con un sorriso triste. «Bene, è finito al

cimitero la settimana scorsa. Finiremo tutti così.»Guccio scosse la testa con aria impietosita. Ma una sola persona gli stava a

cuore in tutto questo dramma.«Dov’è Marie?» chiese.«Lassù, in camera sua.»«Posso vederla?»«Venite.»Guccio la seguì su per le scale che lei salì a passo lento, un gradino dopo

l’altro, aiutandosi con una corda di canapa che pendeva da un sostegno in cima alla rampa.

Marie de Cressay era distesa su un lettuccio angusto di stile antico; le coperte non erano rimboccate e materassi e cuscini erano molto sollevati all’altezza del busto, così che una persona sdraiata sembrava posta su un piano inclinato che precipitasse verso terra.

«Messer Guccio… Messer Guccio…» mormorò Marie.Gli occhi erano dilatati da un alone blu tutt’intorno; i lunghi capelli castano

dorato erano sparsi su un cuscino di velluto consumato fino a mostrare la trama. Le guance smagrite, il collo fragile, erano di una trasparenza inquietante. L’impressione di luminosità solare che dava una volta era svanita, come se una grande nuvola bianca l’avesse avvolta.

Donna Eliabel si ritirò per evitare di mostrare le sue lacrime.«Marie, mia bella Marie», disse Guccio avvicinandosi al letto.«Eccovi, finalmente: siete tornato. Avevo tanta paura, oh, così tanta paura di

morire senza rivedervi!»Guardava intensamente Guccio e nei suoi occhi brillava una domanda

inespressa e inquieta. Inclinata com’era per il curioso assetto del materasso, non sembrava più del tutto reale, ma come ritagliata da qualche affresco, o meglio, da qualche vetrata dalla prospettiva falsata.

«Che cosa vi sentite, Marie?» chiese Guccio.«Mi sento debole, mio adorato, molto debole. E avevo tanta paura che mi

aveste abbandonato.»«Sono dovuto andare in Italia per conto del re e la partenza è stata tanto

improvvisa che non ho avuto modo di avvertirvi.»

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«Al servizio del re…» ripetè lei con voce flebile.La grande domanda muta era ancora in fondo al suo sguardo. E Guccio si

sentì all’improvviso pieno di vergogna per la sua ottima salute, i suoi vestiti imbottiti, le settimane spensierate passate in viaggio: pieno di vergogna perfino del sole di Napoli, e soprattutto della vanità della quale era pieno fino a un’ora prima per essere stato accanto ai potenti del mondo.

Marie allungò la bella mano smagrita; e Guccio la prese. Le loro dita fecero conoscenza di nuovo, si interrogarono e finirono per riunirsi, intrecciate in quel gesto nel quale l’amore si promette con più certezza che un bacio, come se le mani di due creature si unissero in una identica preghiera.

La domanda muta sparì allora dallo sguardo di Marie. Chiuse gli occhi e restarono un momento così senza parlare.

«Mi sembra che tenendovi la mano io riacquisti forza», commentò lei alla fine.«Marie, guardate che cosa vi ho portato!»Tolse dalla borsa due lamine d’oro incise, incrostate di pietre tagliate a

cabochon, quegli ornamenti che le classi abbienti all’epoca erano solite portare al collo dei mantelli. Marie prese i gioielli e se li portò alle labbra. Guccio si sentì stringere il cuore: un gioiello, anche se opera del più abile artigiano di Firenze o Venezia, non può calmare la fame. Un vaso di miele o di frutta caramellata sarebbe stato un regalo più adatto, pensò. E sentì dentro una gran fretta di agire.

«Vado a procurarmi il necessario per guarirvi», esclamò.«Che voi siate qui, che mi pensiate, non chiedo altro… Andate già via?»«Sarò di ritorno tra poche ore», promise, già sulla porta. «Vostra madre… sa?»

domandò a bassa voce.Marie fece segno di no. «Non ho voluto disporre di voi. Siete voi che dovrete

disporre di me, se Dio vorrà che io viva.»Scendendo nel salone, Guccio trovò Eliabel insieme con i due figli appena

tornati dalla caccia. Il volto smagrito, gli occhi segnati dalla fatica, i vestiti strappati e mal ricuciti, Pierre e Jean de Cressay portavano addosso i segni della miseria. Dimostrarono a Guccio tutta la gioia di chi rivede un amico. Ma non potevano far a meno di provare un po’ d’invidia e di amarezza vedendo il bell’aspetto del giovane lombardo. Decisamente la finanza regge meglio della nobiltà, pensava Jean de Cressay.

«Nostra madre vi ha detto, e poi avete visto Marie…» disse Pierre. «Guardate le nostre prede del mattino: un corvo che si era rotto una zampa e un topo di campagna. Bel pranzo per una famiglia intera si potrà mettere insieme con questo! Che volete? È tutto pieno di trappole. Si ha un bel promettere il bastone ai

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contadini che cacciano per loro conto. Preferiscono buscarsi le bastonate e mangiare selvaggina. Al loro posto faremmo altrettanto. Abbiamo ancora solo tre cani…»

«I falconi milanesi che vi ho portato l’anno scorso vi servono a qualche cosa, almeno?» chiese Guccio.

I due fratelli abbassarono la testa, imbarazzati. Poi Jean il maggiore, si decise a dire, tormentandosi la barba: «Abbiamo dovuto cederli al prevosto Portefruit perché ci lasciasse il nostro ultimo maiale. Del resto non avevamo più niente da dar loro da mangiare».«Avete fatto benissimo», li rassicurò Guccio. «Vorrà dire che alla prossima

occasione ve ne procurerò degli altri.»«Quel dannatissimo prevosto», esclamò Pierre de Cressay, «non è migliorato

neanche un po’ da quella volta che ci avete sottratti alle sue sgrinfie. E l’unica cosa peggiore della carestia, e la rende due volte più penosa.»

«Ho vergogna, messer Guccio, della povera cena che posso offrirvi», disse la vedova.

Guccio declinò l’invito con molto tatto, dichiarando che era atteso nella sua filiale di Neauphle.

«Vedrò anche di fare il possibile per procurarvi delle provviste», aggiunse. «Non potete andare avanti così, soprattutto vostra figlia.»

«Noi vi siamo grati oltre ogni dire del vostro pensiero», rispose Jean de Cressay, «ma non troverete niente, tranne l’erba sui bordi dei sentieri, forse.»

«Ma no, andiamo!» esclamò Guccio battendo sulla borsa che portava al fianco. «Non potrei dirmi un vero lombardo se non ci riuscissi.»

«Perfino il denaro non serve più.»«È quel che vedremo.»Sembrava ormai fatale che Guccio, ogni volta che andava a trovare quella

famiglia, dovesse giocare il ruolo del salvatore invece di quello del creditore. Non si ricordava neanche più del debito di trecento lire mai estinto dopo la morte del signore di Cressay.

Puntò verso Neauphle, convinto che gli impiegati della filiale Tolomei lo avrebbero tratto d’impaccio. Se li conosco, si diceva, avranno prudentemente messo via del grano, oppure sanno dove ci si può rifornire quando si ha modo di pagare.

Invece trovò i tre impiegati stretti intorno a un fuoco di torba; avevano la faccia pallida e il naso tristemente puntato verso terra.

«Da due settimane, signor Guccio, è cessato ogni traffico», dichiarò il

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responsabile della filiale. «Non si fa neanche un’operazione al giorno. Nessuno paga i debiti e non ci sarebbe niente da far sequestrare, anche volendo. Quanto alle provviste… roba da mangiare…» Si strinse nelle spalle. «Facciamo un banchetto con una libbra di castagne e andiamo avanti a leccarci i baffi per tre giorni. Avete ancora sale, a Parigi? È soprattutto la mancanza di sale che ci fa deperire. Se poteste farcene arrivare un po’! Il prevosto di Montfort ne ha, ma non vuole distribuirlo. Ah! Non si priva di niente, lui, state certo. Ha saccheggiato i dintorni come se fosse in un paese di guerra.»

«Ma è un autentico flagello, questo Portefruit!» esclamò Guccio. «Voglio andare a parlargli io. L’ho già sistemato una volta, quel ladro.»

«Signor Guccio…» disse il responsabile della filiale, nel tentativo di raccomandare a Guccio la prudenza.

Ma Guccio era già risalito a cavallo. Un sentimento di odio mai conosciuto prima d’allora gli gonfiava il petto. Dal momento che Marie de Cressay era sul punto di morire di fame, passava dalla parte dei poveri e dei sofferenti: e da questo soltanto si sarebbe potuto arguire che il suo amore era sincero.

Lui, il lombardo, il ragazzino ricco, prendeva d’improvviso posizione per il partito della miseria. Adesso si accorgeva che i muri delle case parevano trasudare morte. Si sentiva solidale con la gente barcollante che seguiva le bare, quegli uomini dalla pelle tesa sugli zigomi e dagli sguardi divenuti sguardi d’animale.

Avrebbe affondato la sua spada nella pancia del prevosto Portefruit: aveva deciso. Intendeva vendicare Marie, vendicare la provincia intera e compiere un atto di giustizia. Lo avrebbero arrestato, certo. Voleva che lo arrestassero, così la faccenda si sarebbe risaputa. Lo zio Tolomei avrebbe mosso cielo e terra; messer di Bouville e monsignor di Valois sarebbero stati messi al corrente. Il processo avrebbe avuto luogo davanti al parlamento di Parigi, alla presenza del re. E Guccio avrebbe esclamato: «Sire, ecco perché ho ucciso il vostro prevosto…»

Una lega e mezzo di galoppo gli calmò un tantino l’immaginazione. «Ricordati, ragazzo, che un cadavere non è mai utile a nessuno», aveva sentito ripetere dagli zii banchieri fin da quando era piccolissimo. In fin dei conti, ciascuno si batte meglio con le armi che gli son proprie; Guccio, come tutti i toscani di un certo ceto, sapeva all’occasione cavarsela egregiamente con le lame corte, ma non era proprio la sua specialità.

Arrivando a Montfort-l’Amaury rallentò l’andatura, calmò il cavallo e lo spirito e si presentò al prevosto. Dal momento che l’uomo di guardia non mostrava la sollecitudine auspicata, Guccio tirò fuori da sotto il mantello il salvacondotto con il sigillo reale che Valois gli aveva fatto rilasciare per superare ogni eventuale

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difficoltà nel corso della missione napoletana.La formulazione del testo era così vaga («Si richiede che ogni balivo, siniscalco

e prevosto presti aiuto e assistenza…») che Guccio poteva ancora farne uso tranquillamente.

«Servizio del re!» esclamò.Alla vista del sigillo reale, la guardia della prevostura si fece subito cortese e

zelante e si precipitò ad aprire le porte.«Da’ da mangiare al mio cavallo», gli ordinò Guccio.Le persone sulle quali si ha avuto la meglio una volta si considerano di solito

già vinte in partenza quando capita loro di ritrovarsi davanti a noi. Anche se volessero resistere, non cambierebbe niente: l’acqua scorre sempre nello stesso senso. E così era tra Portefruit e Guccio.

Le sopracciglia tonde, le guance tonde, la pancia tonda, il prevosto, un po’ inquieto, rotolò piuttosto che camminare in direzione del visitatore.

La lettura del salvacondotto lo agitò ulteriormente. Quali potevano mai essere i segreti incarichi del giovane italiano? Era lì per indagare, ispezionare? Anche il re Filippo il Bello aveva agenti segreti che con il paravento d’un’attività innocente viaggiavano per il regno e poi gli facevano rapporto. E spesso si aprivano i cancelli di un carcere…

«Ah! Messer Portefruit, prima di tutto voglio rassicurarvi: non ho parlato in alto loco della faccenda delle tasse di successione dei signori di Cressay», esordì Guccio, «in occasione della quale ci siamo conosciuti l’anno scorso. Penso che da parte vostra si sia trattato, in fondo, di un errore involontario. Questo per la vostra tranquillità.»

Bel modo davvero di rassicurare il prevosto! Era come dire chiaro e tondo, fin dall’inizio: Attento, ricordati che ti ho colto in delitto flagrante e all’occorrenza posso render nota la cosa.

La faccia da luna piena del prevosto impallidì un tantino, il che evidenziò per contrasto la voglia color vino che gli copriva la tempia e parte della fronte.

«Vi sono grato, messer Baglioni, d’aver deciso in questo senso», rispose. «Si era effettivamente trattato di un errore. Ho fatto subito sistemare i libri.»

«Perché, avevano bisogno di essere sistemati?»L’altro capì d’aver detto una sciocchezza pericolosa. Decisamente quel giovane

italiano aveva il dono di confondere le idee.«Stavo giusto per mettermi a tavola», disse Portefruit, per cambiare argomento

in fretta. «Mi farete l’onore di dividere…»Cominciava a mostrarsi ossequioso. La logica suggeriva a Guccio di accettare:

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le persone sono molto più loquaci, a tavola. E poi era dalla mattina che Guccio non toccava cibo. E aveva galoppato parecchio. Così, nonostante fosse partito da Neauphle per ammazzare il prevosto, Guccio si ritrovò comodamente seduto dinanzi a lui e si servì della daga soltanto per tagliare un cosciotto di maiale da latte arrostito a puntino e bagnato di un buon sugo dorato.

Il pranzo del prevosto nel bel mezzo di un paese oppresso dalla carestia era qualcosa di scandaloso. Se penso, si diceva Guccio, che sono venuto qui a cercare il necessario per dar da mangiare a Marie e sono io che m’ingozzo! Ogni boccone accresceva il suo odio; e più il prevosto, per ingraziarsi il visitatore, faceva portare le sue provviste migliori e i vini pregiati, più Guccio, a ogni boccale che lo pregavano di accettare, si ripeteva: «Dovrà rendere conto di tutto questo, il delinquente. Farò in modo che si ritrovi a danzare appeso a una corda!» Mai pasto fu divorato con più appetito da parte dell’ospite e con minor beneficio per l’anfitrione. Guccio non si lasciava sfuggire la più piccola occasione di mettere Portefruit in difficoltà.

«Ho saputo che vi siete procurato dei falconi, messer Portefruit», buttò là all’improvviso. «Avete diritto di caccia come i signori feudali?»

Al prevosto andò di traverso il vino. «Vado a caccia con i signori dei dintorni, quando loro hanno la bontà di invitarmi», rispose vivacemente.

Cercò di nuovo di cambiare argomento e osservò: «Mi sembra che voi viaggiate parecchio, messer Baglioni. O sbaglio?»

«Molto, in effetti», convenne Guccio con distacco. «Torno ora dall’Italia, dove ho dovuto recarmi per conto del re alla corte di Napoli.»

A Portefruit venne in mente che la prima volta che lo aveva incontrato era di ritorno da una missione alla corte d’Inghilterra. Quel giovanotto doveva essere molto importante se passava il suo tempo a viaggiare da una regina all’altra. E poi sapeva sempre un sacco di cose di quelle che si preferisce tener nascoste…

«Mastro Portefruit, gli impiegati della filiale di mio zio qui a Neauphle sono ridotti molto a malpartito. Li ho trovati indeboliti dalla fame e mi hanno detto che da queste parti non si riesce più a procurarsi da mangiare», disse Guccio all’improvviso. «Come spiegate che in questo paese in preda alla carestia voi pretendiate decime in natura e sequestriate tutto quel che resta da metter sotto i denti?»

«Eh! Signor Baglioni, è un bel problema per me, e un grande dolore, ve lo garantisco. Ma devo obbedire agli ordini di Parigi. Ogni settimana devo mandare tre carri di provviste, come tutti i prevosti del circondario, perché monsignor de Marigny teme una rivolta popolare e vuole tenere la capitale sotto controllo. Come

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sempre, è la campagna a rimetterci.»«E quando i vostri uomini razziano il necessario a riempire i tre carri, possono

sempre riempirne un quarto, così che voi rie teniate uno.»L’angoscia strinse nella sua morsa il cuore del prevosto. Ah! che pranzo

tremendo!«Ma giammai, signor Baglioni, giammai! Come potete pensarlo?»«Su, su, prevosto! Tutto questo ben di Dio da dove arriva?» esclamò Guccio,

indicando la tavola imbandita. «I prosciutti, che io sappia, non vengono ad appendersi da soli al batacchio della vostra porta. E i vostri uomini non sarebbero tanto ben pasciuti se si limitassero a leccare il giglio di Francia scolpito sui loro bastoni.»

Se avessi saputo, pensava Portefruit, non lo avrei trattato così bene.«Il fatto è», rispose il prevosto, «il fatto è, vedete, che per mantenere l’ordine

del regno bisogna dar da mangiare a sufficienza a chi ha l’incarico di provvedere in merito.»

«Ma certo», convenne Guccio, «ma certo. Dite bene. Un uomo con una funzione come la vostra non può ragionare come la gente comune, e non potrebbe mai comportarsi come loro.»

D’improvviso si era fatto amichevole, approvante, e sembrava condividere completamente i punti di vista del suo interlocutore. Il prevosto che aveva bevuto a sufficienza per ritrovare un po’ di coraggio, stava cadendo in trappola.

«E così per le imposte…»«Le imposte?» chiese il reverendo.«Ma sì! Le avete in appalto, no? Ora, bisogna pure che viviate, che paghiate gli

impiegati… Per forza dovete incassare più di quanto il Tesoro vi richiede. Come fate? Raddoppiate l’imposta, vero? A quel che so io, i prevosti fanno tutti così.»

«Più o meno», riconobbe Portefruit, lasciandosi andare perché pensava di aver a che fare con un tipo esperto. «Siamo praticamente obbligati a far così. Già per ottenere la carica ho dovuto ungere parecchio un impiegato di Marigny.»

«Un impiegato di Marigny? Davvero?»«Eh, sì… e continuo a passargli un bel gruzzoletto ogni anno a San Nicola.

Poi bisogna dividere con il mio gabelliere, per non parlare di quel che pretende il balivo che sta sopra di me. In fin dei conti…»

«…non resta gran che per voi, lo capisco benissimo. Allora, prevosto, se mi darete una mano vi proporrò un affare vantaggioso. Sono preoccupato per i miei impiegati. Ogni settimana farete loro avere sale, farina, fave, miele e carne, fresca o secca, a seconda dei loro bisogni; vi pagheranno al prezzo più alto della capitale,

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con un’aggiunta di tre soldi la libbra. Da parte mia, vi lascerò venti lire d’anticipo», concluse, facendo tintinnare il contenuto della borsa del denaro.

Il rumore delle monete eliminò definitivamente ogni traccia di sospetto dall’animo del prevosto. Discusse un po’, tanto per salvare le apparenze, di pesi e prezzi. Si stupì delle quantità richieste da Guccio.

«I vostri impiegati sono solo tre! Che cosa se ne fanno di tutto quel miele e quelle prugne secche? Oh! Sì, certo sono in grado di procurare quanto chiedete…»

Poiché Guccio voleva portar via subito qualche provvista, il prevosto lo accompagnò nella sua dispensa, che pareva più che altro un vero e proprio emporio.

Ora che l’affare era fatto, a che pro fingere? In un certo senso il prevosto era orgoglioso di mostrare (impunemente, credeva lui) i suoi tesori mangerecci. Il naso all’aria, le braccine corte, si agitava tra sacchi di lenticchie e piselli secchi, annusava i formaggi, carezzava con lo sguardo le file di salsicce.

Nonostante avesse passato almeno un paio d’ore a tavola, sembrava già avere di nuovo appetito.

Questo disgraziato meriterebbe che lo venissero ad aggredire con tanto di forconi, pensava Guccio. Un servo preparò un grosso involto di viveri, lo nascose in un telo e Guccio lo fece assicurare alla sella.

«E se per caso», disse il prevosto, accompagnando il suo ospite al cavallo, «aveste bisogno anche voi di qualcosa, a Parigi…»

«Grazie, prevosto, me ne ricorderò. Ma senza dubbio non tarderò a farmi vivo comunque. In ogni modo, parlerò di voi come è giusto, statene pur certo.»

E Guccio si rimise in cammino per Neauphle, dove consegnò agli impiegati sbalorditi con l’acquolina in bocca una metà del bottino.

«Riceverete altrettanto ogni settimana», spiegò loro. «Sono d’accordo con il prevosto. Quello che arriverà lo dividerete a metà: una parte per voi e una parte che verrà a ritirare qualcuno dei Cressay, o che porterete voi, con molta cautela. Mio zio ha molto a cuore questa famiglia, che ha una posizione migliore di quanto sembri; quindi pensate voi a rifornirla.»

«Pagheranno subito le provviste oppure bisognerà aggiungere queste cifre al debito che già hanno nei nostri confronti?» chiese il responsabile della filiale.

«Farete un conto a parte che io terrò d’occhio.» Dieci minuti più tardi Guccio arrivava a Cressay e posava al capezzale di Marie miele e frutta secca e candita.

«Giù dabbasso ho consegnato a vostra madre del maiale sotto sale, farina, sale…»

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Gli occhi dell’ammalata si riempirono di lacrime.«Ma come avete fatto? Oh, messer Guccio, siete forse un mago? Del miele?

Oh! Del miele…»«Farei ben altro per vedervi riprendere le forze, per la gioia di essere amato da

voi. Ogni settimana riceverete altrettanto dai miei impiegati. Credetemi», aggiunse sorridendo, «è comunque cosa meno complicata che riuscire a rintracciare un cardinale ad Avignone.»

Ciò gli fece venire in mente di non essersi recato a Cressay al solo scopo di nutrire gli affamati. Così, approfittando del fatto che erano soli, chiese a Marie se quanto le aveva affidato l’autunno scorso si trovava sempre al suo posto, nella cappella.

«Non l’ho mai toccato», rispose lei. «Temevo di morire senza sapere cosa farne.»

«Non dovete più preoccuparvene, adesso. Me lo riprendo. E di grazia, se mi amate, cacciate ogni pensiero di morte!»

«Ma certo, adesso sì», rispose lei, sorridendo di rimando.E la lasciò mentre si mangiava il miele direttamente dal vaso, a piccole

cucchiaiate, con un’aria beata.Tutto l’oro del mondo, tutto l’oro del mondo per vedere quell’espressione di

felicità sul suo viso! Vivrà, ne sono certo. Ha sofferto la fame, sì, ma soprattutto ha sofferto della mia lontananza, pensava Guccio, con leggerezza tutta giovanile.

Discese nel salone e prese da parte Eliabel per spiegarle che aveva riportato dall’Italia delle reliquie potentissime e desiderava pregarci sopra, solo nella cappella, per impetrare la guarigione di Marie. La vedova si meravigliò che un giovanotto così altruista, così prestante, così in gamba fosse anche così devoto.

Ottenuta la chiave, Guccio scese nella cappella e si chiuse dentro; non faticò molto a ritrovare la lastra mobile, vicino all’altare. La sollevò e, accanto alle ossa sbriciolate d’un antico signore di Cressay, trovò l’astuccio di piombo che conteneva, oltre ai conti del re d’Inghilterra e di monsignor d’Artois, il documento che provava le malversazioni dell’arcivescovo Jean de Marigny. Questa sì che è un’efficacissima reliquia per i mali del regno, si disse.

Risistemò la lastra mobile, ci sparse sopra un po’ di polvere e uscì, assumendo un’espressione dolce e pia.

Poco dopo, con il viatico dei ringraziamenti, i baci e gli abbracci nonché le benedizioni della castellana e dei suoi figli, si rimise in cammino.

Non aveva ancora superato la Mauldre che già i Cressay si precipitavano in cucina.

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«Aspettate figlioli, aspettate almeno che vi prepari qualcosa!» diceva Eliabel. Ma non poté impedire ai due fratelli di tagliarsi delle belle fette di salsiccia stagionata.

«Non pensate che Guccio sia innamorato di Marie, per prendersi tanto a cuore la nostra sorte?» osservò Pierre de Cressay. «Non ci sollecita a pagare il nostro debito, non chiede interessi, anzi, ci copre di doni…»

«Ma no!» rispose vivacemente Eliabel. «Vuol bene a tutti noi, ecco la verità, ed è onorato della nostra amicizia.»

«Comunque non sarebbe un cattivo partito», insistette Pierre.Jean, il maggiore, borbottò qualcosa tra sé. Per lui, che era difatto il

capofamiglia, concedere sua sorella in moglie a un banchiere italiano andava contro a tutte le tradizioni della cavalleria.

«Se le intenzioni di Guccio fossero queste, non potrei mai accettare…»Ma dal momento che aveva la bocca piena, non diede voce al suo pensiero. In

certi momenti e in certe circostanze scrupoli e principi impallidiscono. E Jean de Cressay masticava soprappensiero.

Da parte sua Guccio, cavalcando verso Parigi, si domandava se aveva fatto bene a partire così in fretta, e se non sarebbe stata invece l’occasione buona per chiedere la mano di Marie.

No, sarebbe stato indelicato. Non si possono chiedere cose del genere a gente affamata. Sarebbe parso che volessi approfittare della loro miseria. Aspetterò che Marie stia bene.

La verità era che gli era mancato il coraggio, e cercava scuse per giustificarsi.Al calar della sera, la stanchezza lo costrinse a fermarsi. Dormì qualche ora a

Versailles, piccolo villaggio triste e isolato in mezzo ad acquitrini insalubri. Anche là i contadini morivano di fame.

L’indomani mattina Guccio arrivò in rue des Lombards; subito si appartò con lo zio al quale raccontò indignato quanto aveva veduto. Continuò a parlare per un’ora buona. Seduto davanti al fuoco, Tolomei lo stava ad ascoltare tranquillo.

«Ho fatto bene, a proposito della famiglia Cressay? Sei d’accordo, vero, zio?»«Certo che sono d’accordo, figliolo. D’altra parte, è inutile discutere con un

innamorato… Mi hai portato la ricevuta dell’arcivescovo?»«Sì, zio», rispose subito Guccio tendendogli l’astuccio di piombo.«Allora tu dici che il prevosto di Montfort ha dichiarato di riscuotere imposte

doppie delle quali versa una parte a un impiegato di Marigny. Sai quale?»

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«No, ma non mi sarà difficile. Quel mascalzone ormai mi crede un amico.»«E dice che gli altri prevosti fanno lo stesso?»«Altroché. Non è una vergogna? Speculano in maniera disgustosa sulla fame

altrui e ingrassano come porci mentre intorno a loro la gente crepa. Il re non dovrebbe esser messo al corrente?»

L’occhio sinistro di Tolomei, quell’occhio che restava sempre coperto dalla palpebra abbassata, si era aperto all’improvviso, e tutto il suo viso aveva cambiato espressione, assumendo un’aria al tempo stesso ironica e inquietante. Il banchiere sfregava l’una contro l’altra le mani paffute e appuntite.

«Eh! Mi hai portato delle buone notizie, Guccio mio caro, proprio delle buone notizie», disse sorridendo.

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II • I CONTI DEL REGNO

Spinello Tolomei non era un impulsivo. Rifletté due giorni buoni; poi, il

terzo, dopo aver messo la cappa sopra il mantello foderato di pelo poiché pioveva a catinelle, andò a palazzo Valois. Fu subito ricevuto dal conte di Valois e monsignor d’Artois, entrambi piuttosto abbattuti, pieni di rancore. Avevano digerito male la sconfitta e cercavano di escogitare vaghi piani di vendetta.

Il palazzo sembrava più tranquillo che nei mesi passati e si avvertiva chiaramente che il vento favorevole aveva ripreso a soffiare dalla parte di Marigny.

«Signori», disse Tolomei ai due baroni, «in queste ultime settimane vi siete comportati in modo tale che, se possedeste una banca o praticaste un commercio, avreste dovuto chiuder bottega.»

Poteva permettersi quel tono di rimprovero: si era guadagnato tale diritto con diecimila lire che non aveva versato di tasca propria ma per le quali si era fatto garante.

«Non mi avete nemmeno chiesto un parere; quindi non ve l’ho dato», riprese. «Ma avrei potuto assicurarvi fin dall’inizio che un uomo potente e accorto come messer Enguerrand non si diverte senz’altro a metter le mani negli scrigni del re. I conti sono puliti? Lo credo bene. Se ha intrallazzato per conto suo, lo ha fatto in qualche altro modo.»

Poi, rivolgendosi direttamente al conte di Valois: «Ho fatto in modo di procurarvi un po’ di denaro, monsignor Carlo, per farvi salire nella stima e nella fiducia del re. Ma quel denaro dev’essere restituito. Subito».

«Ma lo sarà, messer Tolomei, lo sarà.»«E quando, monsignore? Non oserei mai mettere in dubbio la vostra parola e

sono certo che riavrò il denaro. Ciò nonostante vorrei sapere quando e in che modo verrò rimborsato. Non avete più la gestione del Tesoro, che è tornata a Marigny. E non mi pare che nel frattempo sia stata preparata alcuna ordinanza

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sull’emissione della moneta, cosa che ci stava assai a cuore, né alcun atto volto a ristabilire il diritto di guerra privata. Marigny si oppone.»

«E che cos’avete da proporre per arrivare finalmente a spuntarla con questo porco schifoso?» esclamò Roberto d’Artois. «Ci teniamo quanto voi, credete, e se avete in mente qualcosa di meglio, benissimo! In questa caccia c’è un gran bisogno di cani di riserva.»

Tolomei si lisciò le pieghe del vestito e incrociò le mani sul ventre.«Signori, non sono cacciatore», rispose, «ma sono toscano di nascita e so che

quando non si riesce a vincere il nemico attaccandolo di fronte bisogna riprovarci su un lato. Voi siete stati troppo aperti, nella lotta. Smettetela di accusare Marigny e di ripetere a destra e a manca che è un ladro, poiché il re ha stabilito che non lo è affatto. Fate mostra per un po’ di accettare che governi; fingete perfino di riconciliarvi con lui; e poi, di nascosto, fate svolgere indagini nelle province. Non incaricatene gli ufficiali del re, che sono creature di Marigny, e che sono proprio quelli ai quali lui vi indirizza. Ma dite ai nobili, grandi e piccoli, sui quali avete influenza, che vi mettano al corrente dell’operato dei prevosti. In molti posti solo la metà delle tasse riscosse finisce nelle casse del Tesoro. Chi non prende soldi, prende viveri che poi rivende a prezzi proibitivi. Fate investigare, vi dico. E intanto ottenete dal re che convochi tutti i prevosti, i gabellieri, gli agenti delle imposte per far esaminare i libri contabili. Da chi? Da Marigny, assistito s’intende dai baroni e dai consiglieri alle finanze. Contemporaneamente produrrete i risultati delle vostre indagini private. Allora salteranno fuori delle malversazioni così enormi che potrete tranquillamente darne la colpa a Marigny, senza più preoccuparvi di sapere, a questo punto, se lui sia innocente o colpevole. Così facendo, signori, avrete i nobili dalla vostra parte, poiché a loro dà un gran fastidio trovarsi sulle proprie terre gli uomini di Marigny che ficcano il naso dappertutto; e avrete anche l’appoggio del popolino che crepa di fame e come sempre cerca dei responsabili del proprio stato di miseria. Ecco, monsignori, il consiglio che mi sento di dare a voi e che darei al re se fossi al vostro posto… Sappiate inoltre che le compagnie dei lombardi, con le loro filiali sparse un po’ dappertutto, potrebbero aiutarvi, se lo vorrete, nella vostra inchiesta.»

Valois rifletté un momento.«La cosa più difficile sarà convincere il re, che per il momento è tutto preso da

Marigny e da suo fratello, l’arcivescovo, dal quale aspetta un papa.»«Per quanto riguarda l’arcivescovo, niente paura», replicò il banchiere. «Ho a

disposizione una museruola fatta apposta per lui e della quale mi sono già servito una volta: gliela rimetterò sul muso al momento buono.»

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Quando Tolomei fu uscito, d’Artois disse a Valois: «Mi sa che questo brav’uomo è decisamente più forte di noi».

«Più forte… più forte…» rispose Valois. «Cioè, diciamo che ci dettaglia nel suo linguaggio da mercante cose che peraltro noi già pensavamo!»

Ma si affretto già dal giorno seguente a seguire i consigli del capitano generale dei lombardi il quale, per una fideiussione su diecimila lire sborsate dai compagni italiani, si era concesso il lusso di governare la Francia.

Ci volle un mese buono d’insistenza perché monsignor di Valois riuscisse a convincere il re. Invano Valois continuava a ripetere al nipote: «Ricordatevi le ultime parole di vostro padre. Ricordate che vi ha detto: Luigi, mettetevi al corrente al più presto degli affari del regno. Ebbene, è convocando prevosti e gabellieri che potrete conoscere davvero come stanno le cose. E inoltre il nostro santo antenato del quale portate il nome vi mostra la via seguire: lui stesso ordinò un’inchiesta analoga nel 1247…»

Marigny non era contrario per principio a una convocazione del genere; gli sembrava l’occasione buona per riprendere il controllo completo sugli agenti e i funzionari del re. Anche lui era al corrente della rilassatezza dell’amministrazione. Ma gli pareva più saggio differire la convocazione. Sosteneva che il momento era sbagliato, proprio adesso che la miseria inaspriva il popolo e le leghe dei baroni si agitavano, per allontanare di colpo dalle loro sedi tutti i funzionari del re.

Non si poteva negare che, dalla morte di Filippo il Bello, l’autorità centrale era andata progressivamente indebolendosi. In effetti due poteri si opponevano l’uno all’altro, si intralciavano a vicenda, si annullavano l’un l’altro. Si obbediva o a Marigny, o al re. Conteso tra le due opposte fazioni, male informato, non in grado di distinguere la calunnia dalla verità e soprattutto incapace per natura di tagliar corto e imporsi con decisione, Luigi X riponeva la sua fiducia un po’ a destra e un po’ a sinistra, nell’illusione di governare mentre invece si limitava a subire.

Cedendo alla prepotenza delle leghe baronali e su voto della maggioranza del suo nuovo consiglio, Luigi, il 19 marzo di quell’anno 1315, e cioè dopo tre mesi e mezzo di regno, firmò il documento che gli era stato richiesto dai feudatari normanni, al quale sarebbe seguito quasi subito quello dei signori di Linguadoca, Borgogna, Champenois e Piccardia, l’ultimo dei quali interessava in modo particolare il conte di Valois e Roberto d’Artois. Questi editti cancellavano completamente tutte le disposizioni, scandalose agli occhi dei privilegiati, con le quali Filippo il Bello aveva vietato tornei, guerre private e duelli. Era di nuovo lecito ai gentiluomini «…guerreggiare gli uni contro gli altri, cavalcare, andare,

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venire e portare le armi»… In altri termini, la nobiltà francese si era riguadagnata il suo diritto ancestrale e diletto di rovinarsi in battaglie vere o false, di massacrarsi, e di devastare all’occasione il reame intero per risolvere questioni personali. Che re tremendo, davvero, la cui memoria meritava d’esser coperta d’ignominia, quello che per trent’anni l’aveva privata di questo onesto passatempo!

Nello stesso modo i signori potevano di nuovo distribuire terre e creare nuovi vassalli, e quindi spesso nuovi profitti, senza doverne render conto al re. Per ogni controversia, i nobili dovevano comparire solo davanti a tribunali nobili. I sergenti o i prevosti reali non potevano più arrestare i criminali o portarli in giudizio senza il permesso del feudatario locale. I borghesi e i contadini liberi non avevano più diritto, tranne casi eccezionali, di lasciare le terre del loro signore per reclamare la giustizia del re. In materia di sussidi militari e coscrizioni, i baroni tornavano ad acquisire una certa indipendenza che permetteva loro di decidere se partecipare o no alle guerre nazionali e, in caso affermativo, quanto volevano farsi pagare.

Marigny riuscì a far inserire in calce al documento una vaga formula a proposito dell’autorità suprema reale e di tutto ciò che «per antica consuetudine era di competenza del sovrano e di nessun altro». Questa formula di diritto avrebbe dato la possibilità a un monarca deciso di riprendersi pezzo per pezzo tutto quello che era stato ceduto. Valois non fece obiezioni perché per lui «antica consuetudine» era sinonimo di «san Luigi». Ma Marigny non si faceva molte illusioni; nello spirito e nella lettera, le istituzioni del Re di ferro venivano di fatto cancellate. E uscì dal consiglio del 19 marzo dichiarando che era stato preparato il terreno per un periodo di tremendi problemi.

Intanto la convocazione di prevosti, tesorieri e gabellieri fu finalmente decisa. In ogni baliato e siniscalcato furono spediti investigatori ufficiali chiamati «riformatori», ma senza accordare loro un lasso di tempo sufficiente per una seria indagine, poiché la data della riunione era stata fissata per la metà del mese successivo. Quando si trattò di decidere il luogo dell’assemblea, Carlo di Valois propose Vincennes, in ricordo di san Luigi.

Il giorno stabilito Luigi l’Attaccabrighe, i suoi pari, i suoi baroni, i dignitari e i più importanti funzionari della corona, i membri del consiglio e dell’amministrazione, si recarono in sfarzoso corteo al maniero di Vincennes. La maestosa processione attirò la gente sulla porta; i bambini seguivano i cavalieri, gridando: «Viva il re!» nella speranza di ricevere una manciata di confetti. Si era sparsa la voce che il re aveva chiesto ai gabellieri di render conto del loro operato e non c’era niente, a parte il pane, che potesse soddisfare di più il popolo in quel momento.

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L’aprile era mite con nuvole lievi che si rincorrevano nel cielo sopra le foreste di querce; un bel tempo primaverile che ridava speranza. Se la carestia non cessava, almeno non faceva più tanto freddo, e si sperava che il prossimo raccolto sarebbe stato buono, se il ghiaccio non avesse fatto morire il grano nuovo.

Vicino al maniero reale era stata eretta una grande tenda, come in occasione di una festa o di un solenne matrimonio, e duecento gabellieri, tesorieri e prevosti erano lì allineati, alcuni su banchi di legno, altri per terra, seduti a gambe larghe.

Sotto un baldacchino ricamato con le armi di Francia, il giovane re, corona in testa e scettro in mano, prese posto sul trono che gli era stato preparato, una sorta di discendente pieghevole della seggiola curule che, fin dagli albori della monarchia francese, fungeva da trono ai sovrani in trasferta. I braccioli del trono erano scolpiti a teste di levriero e sul sedile c’era un cuscino di seta rossa.

Pari e baroni presero posto ai due lati del sovrano e i consiglieri finanziari si sistemarono dietro i lunghi tavoli appoggiati a dei cavalletti. I funzionari reali, ciascuno con il suo registro, furono chiamati insieme con i «riformatori» che si erano recati nella rispettiva circoscrizione. Per quanto affrettate, le indagini avevano permesso di raccogliere un buon numero di denunce da parte dei locali, e un rapido controllo aveva rivelato la veridicità della maggior parte di esse. Quasi tutti i conti dimostravano l’esistenza di sperperi, sprechi e malversazioni, soprattutto negli ultimi mesi, soprattutto dalla morte di Filippo il Bello, soprattutto da quando l’autorità di Marigny era stata indebolita.

I baroni cominciarono a rumoreggiare, come se fossero stati, dal canto loro, esempi di onestà, o come se avessero dovuto registrare quelle perdite sui loro conti personali. Tra i funzionari cominciava a serpeggiare la paura, e alcuni preferirono eclissarsi furtivamente in fondo alla tenda, rimandando a più tardi le spiegazioni. Quando si arrivò a prevosti e gabellieri delle regioni di Montfort l’Amaury, Dourdan e Dreux, a proposito dei quali Tolomei aveva fornito ai «riformatori» atti d’accusa precisi e circostanziati, intorno al re ci fu una grande agitazione. Ma il più indignato di tutti i baroni, quello che lasciò esplodere con maggior violenza la propria collera, fu Marigny. La sua voce coprì tutte le altre; parlò ai suoi subordinati con veemenza tale da far piegare loro la schiena. Esigeva restituzioni, prometteva castighi.

Monsignor di Valois si alzò all’improvviso, togliendogli la parola di bocca.«Bella recita che state improvvisando a nostro beneficio, messer Enguerrand»,

gridò. «Ma non serve a niente tuonare tanto contro questi disgraziati, perché siete stato voi a conferir loro la carica, sono creature vostre, e tutto denuncia che siete loro complice!»

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A quella pubblica accusa, si fece un tale silenzio che si sentì un gallo cantare lontano lontano, in campagna. L’Attaccabrighe, palesemente sbalordito, guardava di qua e di là. Tutti trattenevano il fiato mentre Marigny si avvicinava a Valois.

«Signore», replicò Enguerrand con voce rauca, «se riuscite a trovare in mezzo a tutte queste canaglie…» e indicò con la mano il gruppo dei prevosti, «… se ne trovate uno, uno solo, in mezzo a questi cattivi servitori del regno, che affermi in coscienza e giuri di avermi pagato in qualche modo, o di avermi fatto avere la più piccola parte del denaro riscosso, ebbene, che venga fuori.»

Spinto dalla manona di Roberto d’Artois, avanzò il prevosto di Montfort, del quale stavano esaminando i conti.

«Che cos’avete da dire? Siete venuto a cercare il capestro?» gli chiese Marigny.Tutto tremante, la faccia tonda segnata dalla voglia color vino, il prevosto

restava muto. Eppure era stato istruito con cura, da Guccio prima e da Roberto d’Artois poi, che gli aveva promesso il giorno prima di risparmiargli ogni punizione a patto che testimoniasse contro Marigny.

«Dunque, che avete da dire?» gli chiese a sua volta il conte di Valois. «Non abbiate paura di confessare la verità, poiché il nostro amato sovrano è qui per ascoltarla, e rendere giustizia.»

Portefruit posò un ginocchio a terra davanti a Luigi X e, incrociando le braccia corte, cominciò: «Sire, sono un gran mascalzone; ma sono stato obbligato da un impiegato del signor de Marigny, che ogni anno esigeva un quarto delle imposte per conto del suo padrone».

«Che impiegato? Dite il suo nome, e che si faccia avanti!» urlò Enguerrand. «Che somme gli avete consegnato?»

Il prevosto allora si perse d’animo, cosa molto prevedibile, poiché era praticamente impossibile che un uomo che si era lasciato impressionare da Guccio non si sciogliesse in presenza di Marigny. Fece il nome di un impiegato morto da cinque anni, poi si diede la zappa sui piedi citando un altro nome, solo che era quello di un impiegato del conte di Dreux, non di Marigny. Non riuscì a spiegare in che misterioso modo i soldi rubati al Tesoro potessero arrivare a Enguerrand. La sua deposizione era palesemente falsa. Marigny vi mise fine.

«Sire, come potete constatare, non c’è una sillaba di verità nella deposizione delirante di costui. È un ladro che per salvarsi ripete quello che gli hanno insegnato, e male, i miei nemici. Che mi si rimproveri pure d’aver avuto fiducia in mascalzoni simili, la cui disonestà è palese; che mi si rimproveri pure di non aver fatto finire sulla ruota almeno una dozzina di costoro, riconoscerò la fondatezza del rimprovero, anche se è vero che da quattro mesi a questa parte mi è stata tolta

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in gran parte ogni possibilità di agire su di loro. Ma che non mi si accusi di furto. È la seconda volta che il signor di Valois si azzarda a farlo, e non intendo più permetterlo.»

Signori e magistrati compresero allora che la grande contesa stava per aver fine.In tono drammatico, una mano sul cuore, l’altra tesa verso Marigny, Valois

replicò, rivolto al re: «Sire, nipote mio, siamo tratti in inganno da un malvagio che da troppo tempo sta in mezzo a noi, e le cui malefatte hanno attirato la maledizione su di noi. È lui la causa delle malversazioni che lamenta; è lui che, per i soldi ricevuti, ha concesso tregue su tregue ai fiamminghi. A causa di ciò vostro padre era caduto in un tale stato di melanconia da trapassare anzitempo. È Enguerrand la causa della sua morte. Da parte mia, sono disposto a provare che è ladro e che è un traditore del regno, e se non lo farete arrestare subito giuro su Dio che non metterò più piede a corte e al consiglio».

«Avete mentito abbastanza, adesso!» esclamò Marigny.«Perdio, siete voi a mentire, Enguerrand!» rispose Valois.Il furore li lanciò l’uno contro l’altro. Si afferrarono per il collo. E si videro

quei due principi, trasformati in due tori infuriati, uno dei quali aveva portato la corona di Costantinopoli mentre l’altro poteva ammirare la sua statua nella galleria dei re, battersi, vomitando ingiurie come scaricatori di porto, davanti alla corte e all’amministrazione del paese al completo.

I baroni si erano alzati in piedi; prevosti e gabellieri si erano tirati indietro, facendo cadere le panche. Luigi X ebbe una reazione del tutto imprevedibile; seduto sul suo trono, cominciò a ridere divertito.Indignato per quelle risate quanto dallo spettacolo indecoroso offerto dai due

contendenti, Filippo di Poitiers si fece avanti e, con forza sorprendente in un uomo così magro, separò i due avversari e li tenne lontani con le lunghe braccia. Marigny e Valois ansimavano, il volto arrossato, i vestiti in disordine.

«Zio», disse Poitiers, «come vi permettete? Marigny, riprendete il controllo, ve lo ordino. Rincasate subito e aspettate che tutti siano tornati calmi.»

La decisione, la forza che si sprigionavano da quel ragazzo di ventiquattro anni si imposero sui due uomini che avevano più o meno il doppio della sua età.

«Andatevene, Marigny, ho detto!» ripeté Filippo di Poitiers. «Bouville, accompagnatelo.»

Marigny si lasciò portar via da Bouville e raggiunse l’uscita del maniero di Vincennes. Tutti si scostavano al suo passaggio come se stessero riportando al recinto un toro da combattimento.

Valois non si era mosso. Tremava di rabbia e continuava a ripetere: «Lo farò

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impiccare. Quant’è vero che mi chiamo Valois, lo farò impiccare!»Luigi X non rideva più. L’intervento del fratello gli aveva dato una lezione di

autorità. E poi si rendeva conto all’improvviso che gli avevano giocato un tiro mancino. Ficcò lo scettro in mano al ciambellano e disse duramente a Valois: «Zio, voglio parlarvi subito. Venite con me!»

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III • DAL BANCHIERE ALL’ARCIVESCOVO

Mi avevate assicurato, zio», gridava Luigi l’Attaccabrighe misurando a

grandi passi nervosi una delle sale del castello di Vincennes, «mi avevate assicurato che non avreste più fatto accuse a Marigny. E invece! Questo vuol dire infischiarsene della mia volontà.»

Giunto in fondo alla stanza, girò vivacemente su se stesso e il mantello corto con il quale aveva sostituito quello lungo da cerimonia fece la ruota all’altezza dei polpacci.

Valois, ancora stravolto dallo scontro, il viso tumefatto, il collo lacerato, rispose: «Ditemi voi, nipote, com’è possibile non andare in collera davanti a tanta impudenza!»

Era quasi in buona fede; ormai era persuaso d’aver ceduto a un impulso del momento, mentre invece la commedia era stata preparata da tempo.

«Sapete meglio di ogni altro quanto ci serve un papa», riprese l’Attaccabrighe, «e sapete anche perché in questo momento non possiamo alienarci Marigny. Bouville è stato chiaro!»

«Bouville! Bouville! Credete a quanto ha raccontato Bouville che non ha visto niente e capisce ancor meno. Il giovane italiano al suo seguito per sovrintendere al denaro dei Bardi mi ha detto più di Bouville sulle faccende avignonesi. Il papa potrebbe essere eletto anche domani, e pronunciare l’annullamento il giorno dopo, se Marigny, e Marigny soltanto, non vi ponesse ostacolo in ogni modo. Credete che lavori a vostro favore? Anzi, sta rallentando tutto, perché ha capito benissimo il motivo per il quale lo mantenete al suo posto. Non vuole un papa angioino; non vuole che prendiate una moglie angioina; e mentre vi tradisce, si assicura d’aver in mano tutti i poteri concessigli da vostro padre. Dove sarete stasera, nipote?»

«Ho deciso di non muovermi di qui», rispose Luigi con prepotenza.

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«Allora prima di stasera vi porterò delle prove che schiacceranno Marigny; e penso che alla fine lo dovrete lasciare a me.»

«Meglio per voi, zio, se sarà così; altrimenti dovrò prendere sul serio la vostra promessa di non farvi vedere mai più né a corte né al consiglio.»

Il tono di Luigi X era quello dell’ultimatum. Valois, allarmato dalla piega che stavano prendendo le cose, si mise in viaggio per Parigi, trascinandosi dietro Roberto d’Artois, e gli scudieri necessari per scorta.

«Oramai tutto dipende da Tolomei», disse, montando in sella.Per strada incontrarono il convoglio di carri che portava a Vincennes letti,

cassoni, tavole e stoviglie, tutto il necessario perché il re si fermasse per una notte.Un’ora più tardi, mentre Valois tornava al suo palazzo per cambiarsi d’abito,

Roberto d’Artois faceva irruzione dal capitano generale dei lombardi.«Amico banchiere», esordì entrando, «è venuto il momento di consegnarmi

quel documento del quale mi avete parlato che prova le malversazioni dell’arcivescovo Marigny. Sapete, la museruola… Monsignor di Valois ne ha bisogno subito.»

«Subito, subito… Che pretese, monsignor Roberto.Mi state chiedendo di rinunciare a qualche cosa che mi ha già salvato una volta, me e tutti i miei amici. Se vi darà modo di abbattere definitivamente Marigny, ne sarò molto avvantaggiato. Ma se per disgrazia fosse Marigny a spuntarla, sono un uomo morto. E poi, e poi, ho molto riflettuto, monsignore…»

Roberto d’Artois friggeva durante tutto questo preambolo, perché Valois lo aveva supplicato di fare del suo meglio, e sapeva benissimo quanto valeva ogni istante perduto.

«Sì, ho riflettuto molto», stava dicendo Tolomei. «Gli usi e le ordinanze di san Luigi che stanno rimettendo in vigore sono certo eccellenti per il regno; ma preferirei che si facesse eccezione per quanto concerne le ordinanze sui lombardi, perché all’epoca essi furono spogliati dei loro beni e poi per un certo periodo cacciati anche da Parigi. Il ricordo di tutto questo è ancora vivo, le nostre compagnie ci hanno messo degli anni a risollevarsi. E quindi, san Luigi… san Luigi… i miei amici cominciano ad agitarsi, e vorrei poterli rassicurare.»

«Andiamo, banchiere! Monsignor di Valois ve l’ha pur detto: sta dalla vostra parte, vi protegge!»

«Sì, sì, a parole, ma noi preferiremmo aver qualcosa di scritto. E così abbiamo

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presentato al re una richiesta, perché riconfermi i nostri privilegi d’uso; e in questo periodo, visto che il re firma tutti i documenti che gli mettono davanti, speriamo che approvi anche il nostro. Dopodiché sarò ben lieto, monsignore, di mettere nelle vostre mani il documento che vi permetterà di spedire alla forca o al rogo, a vostra scelta, Marigny il giovane o Marigny il vecchio, o anche tutti e due assieme… Una firma, un sigillo. È una cosa che si può sistemare in una giornata, due giorni al massimo, se monsignor di Valois se ne occupa. Il testo è pronto…»

Il gigante batté la mano sul tavolo e la stanza intorno tremò.«Basta così, Tolomei. Vi ho detto che non possiamo aspettare. Il vostro

documento sarà firmato domani, m’impegno di persona. Ma datemi subito quell’altra carta. Siamo nella stessa barca: una volta tanto, dovete aver fiducia!»

«Monsignor di Valois non può aspettare neanche un giorno?»«No.»«Allora questo significa che ha perduto il favore del re, e del tutto

inaspettatamente», osservò il banchiere scuotendo la testa. «Che cos’è accaduto esattamente a Vincennes?»

Roberto d’Artois gli fornì un breve resoconto dell’assemblea e della sua conclusione. Tolomei ascoltava, continuando a scuotere la testa. Se Valois cade in disgrazia e lo allontanano dalla corte, pensava, e Marigny resta al suo posto, allora addio documento, franchigia e privilegi vari. Il pericolo adesso è grave…

Si alzò e disse: «Monsignore, quando un principe arruffone come il nostro s’incapriccia davvero di un servitore, si ha un bel denunciare le sue malefatte, le perdonerà, gli troverà delle scusanti, e non si farà in tempo ad attaccarlo che lui già l’avrà opportunamente difeso».

«Salvo provare a quel principe che i crimini del malvagio servitore sono stati compiuti a suo danno. Non si tratta di denunciare l’arcivescovo, ma di farlo cantare… sempre con la museruola davanti al naso.»

«Capisco, capisco. Volete servirvi del fratello contro il fratello. Sì, può essere. L’arcivescovo, per quel che so io, non è un cuor di leone… Su! Bisogna pure rischiare, a volte.»

E consegnò a Roberto d’Artois il documento che Guccio aveva riportato da Cressay.

Nonostante fosse arcivescovo di Sens, Jean de Marigny risiedeva più spesso a Parigi, principale diocesi della sua giurisdizione. Gli era riservata un’ala del palazzo episcopale. E fu là, in una bella sala con il soffitto a volta che odorava d’incenso che fu sorpreso dall’improvviso sopraggiungere del conte di Valois e di Roberto d’Artois.

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L’arcivescovo tese ai visitatori l’anello da baciare. Valois fece finta di non notare il gesto e d’Artois portò la mano dell’arcivescovo verso le labbra con tanta disinvolta impudenza che si sarebbe potuto credere che volesse gettarsela oltre le spalle.

«Monsignor Jean», esordì Carlo di Valois, «sarebbe opportuno che ci spiegaste per quale motivo vostro fratello vi induce a fare così ferma opposizione all’elezione del cardinale Duèze ad Avignone, tanto che ormai questo conclave sembra un’assemblea di fantasmi.»

Jean de Marigny impallidì un poco, poi, in tono pieno di unzione, replicò: «Non capisco questo appunto, monsignore, né le motivazioni che vi stanno dietro. Io non mi sto opponendo ad alcuna elezione. Mio fratello fa del suo meglio, ne sono certo, per favorire gli interessi dello stato, e anch’io cerco di servirli, nei limiti del mio sacerdozio. Ma il conclave dipende dai cardinali, non dai nostri desideri».

«La prendete in questo modo? E va bene!» rispose Valois. «Allora, dal momento che la cristianità può far a meno di un papa, l’arcidiocesi di Sens potrà bene far a meno d’un arcivescovo!»

«Non capisco le vostre parole, monsignore; l’unica cosa che comprendo è che esse suonano come una minaccia contro un ministro di Dio.»

«È stato Dio, per caso, messer arcivescovo, a ordinarvi di rubare certi beni dei Templari?» chiese d’Artois. «E pensate che il re, il quale è rappresentante di Dio sulla terra, possa tollerare che sulla cattedra episcopale della sua città più importante sieda un prelato disonesto? Riconoscete questo?»

E gli tese, stretta nel pugno enorme, la ricevuta di Tolomei.«È un falso!» gridò l’arcivescovo.«Se è un falso», replicò Roberto, «affrettiamoci a far trionfare la giustizia.

Bisognerà organizzare un processo alla presenza del re perché salti fuori il falsario…»

«La dignità della chiesa non avrebbe nulla da guadagnarci…»«… e voi tutto da perdere, immagino, monsignore.»

L’arcivescovo si era seduto su una imponente cattedra. Non si fermeranno davanti a niente, pensava. Il suo crimine risaliva a più di un anno addietro; i guadagni erano stati spesi già tutti. Duemila lire delle quali aveva avuto necessità… e tutta la sua vita doveva venire rovinata da questo? Il cuore gli martellava nel petto; si sentiva madido di sudore sotto i panni violetti.

«Monsignor Jean», disse allora Carlo di Valois, «siete ancora molto giovane e avete uno splendido avvenire davanti, negli affari della chiesa quanto in quelli del

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regno. Quel che avete fatto…» e tolse con superbia il documento dalla mano di Roberto d’Artois, «… è un errore scusabile di questi tempi nei quali la morale vacilla ovunque. Avrete senz’altro agito perché siete stato mal consigliato. Se non vi avessero dato ordine di condannare i Templari, non avreste nemmeno avuto modo di impossessarvi dei loro beni. Sarebbe un vero peccato se per un errore (e dopotutto si tratta soltanto di denaro!) si dovesse offuscare lo splendore della vostra attuale posizione e vi trovaste costretto a sparire dal mondo. Perché se questo documento finisse nelle mani del consiglio dei pari e contemporaneamente di un tribunale ecclesiastico, con nostro grande dolore finireste dritto nella cella di un convento… Per la verità, monsignore, la vostra mancanza più grave è stata quella di assecondare le manovre di vostro fratello contro i voleri del re. È questo che vi rimprovero maggiormente. E se accetterete di confessare questo secondo errore, sarò lieto di dimenticare il primo.»«Che cosa mi chiedete di fare?» chiese l’arcivescovo.«Lasciate il partito di vostro fratello, che ormai non vale più nulla, e rivelate a re Luigi tutto quel che sapete a proposito delle disposizioni da lui impartite per ritardare il conclave.»

Il prelato era fatto di pasta frolla. La viltà gli veniva naturale nei momenti difficili. La sua paura era tale da non lasciargli neanche il tempo di pensare al fratello al quale doveva tutto: si preoccupò solo di se stesso. E questa mancanza di esitazioni gli permise di conservare un’apparenza di dignità anche in quel frangente.

«Avete ridestato la mia coscienza», dichiarò, «e sono pronto, monsignore, a emendare il mio errore nel modo che riterrete opportuno. Vorrei soltanto che mi fosse reso quel documento.»

«È presto fatto», rispose Valois, consegnandogli la ricevuta. «Basta che monsignor d’Artois e io lo si sia veduto. La nostra testimonianza è valida in tutto il regno. Verrete subito con noi a Vincennes; un cavallo vi aspetta dabbasso.»

L’arcivescovo si fece portare il mantello, i guanti ricamati e il berretto e scese lentamente, maestosamente, la scala, precedendo i due baroni.

«Mai», mormorò d’Artois a Carlo di Valois, «non ho mai visto nessuno al mondo strisciare con tale alterigia.»

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IV • SMANIA DI VEDOVANZA

Ogni re, come ogni uomo, ha i suoi divertimenti preferiti che, più di ogni

altra cosa, rivelano le tendenze nascoste della sua natura. Luigi X manifestava scarsa predilezione per la caccia, le giostre, i passi d’arme e, in generale, per ogni svago che implicasse un certo margine di rischio. Da quando era piccolo preferiva giocare a pallacorda con le palle di cuoio; ma si sfiatava e si scaldava subito. Il suo divertimento preferito consisteva nel mettersi, con l’arco in mano, in un giardino recintato, e cercare di prendere al volo, molto da vicino, uccelli, piccioni o colombi, che uno scudiero liberava uno alla volta da un cesto di vimini.

Approfittando del fatto che le giornate si eran fatte più lunghe, il re si stava dedicando a questo svago crudele in un piccolo cortile di Vincennes, chiuso come un chiostro, quando lo zio e il cugino, verso la fine del pomeriggio, arrivarono con l’arcivescovo.

L’erba verde e rasata che copriva il terreno del cortile era sporca di piume e di sangue. Una colomba, inchiodata per l’ala a una colonna del deambulatorio, continuava a dibattersi e a stridere; altri uccelli, colpiti con più precisione, giacevano qua e là, le zampine magre rigide e contratte. L’Attaccabrighe lanciava un’esclamazione di gioia ogni volta che una sua freccia raggiungeva un uccello.

«Un altro!» ordinava subito allo scudiero.Se la freccia sbagliava il bersaglio e andava a spuntarsi contro il muro, Luigi

accusava lo scudiero di aver liberato la colomba al momento sbagliato o nella direzione non giusta.

«Sire, nipote mio», disse Carlo di Valois, «mi sembrate più in forma oggi che mai; ma se vorrete interrompervi un momento, vi parlerò di quelle cose importanti che sapete.»

«Cosa? Che altro c’è, adesso?» sbuffò impaziente il re.Aveva la fronte umida e le gote arrossate. Scorse l’arcivescovo e fece segno allo

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scudiero di allontanarsi.«Allora, monsignore», disse al prelato, «è vero che mi state impedendo di avere

un papa?»«Ahimè, sire!» esclamò Jean de Marigny. «Sono qui per rivelarvi cose che

credevo comandate da voi e che invece apprendo con sgomento esser contrarie alla vostra volontà.»

E lì per lì, con l’aria più sincera del mondo e una certa enfasi, spiattellò al re le manovre di Enguerrand per ritardare la riunione del conclave e vanificare ogni candidatura, tanto quella di Duèze che quella di qualsivoglia cardinale romano.

«Per quanto sia terribile, sire», concluse l’arcivescovo, «svelarvi le malefatte di mio fratello, è ancor più terribile vederlo andar contro gli interessi del regno e della chiesa insieme, e far del suo meglio per tradire contemporaneamente il suo signore in terra e il suo Dio in cielo. Quindi non lo considero più della mia famiglia, poiché un uomo come me non ha altra famiglia se non quella del suo Dio e del suo re.»

Quasi quasi questo bel tipo arriva a commuovere, pensava Roberto d’Artois. Bisogna riconoscere che il furfante sa adoperare la lingua!

Una colomba dimenticata era andata a posarsi sul tetto della galleria. L’Attaccabrighe scoccò una freccia che, trapassando l’uccello, fece tremare le tegole.

Poi, scaldandosi bruscamente, gridò: «E a che mi serve quanto mi venite a raccontare, adesso? Gran bella cosa denunciare il male quand’è ormai fatto! Andatevene, messer arcivescovo, perché mi sto irritando!»

Roberto d’Artois si portò via l’arcivescovo che ormai aveva recitato la sua parte. Valois restò solo con il re.

«Eccomi sistemato proprio bene!» stava dicendo Luigi. «Enguerrand mi ha ingannato, e va bene! E voi siete tutto contento. Ma che cosa me ne viene, dalla vostra vittoria? Siamo a metà di aprile; l’estate è vicina. Vi ricordate, zio, le condizioni poste dalla regina d’Ungheria? ‘Prima dell’estate.’ In otto settimane riuscirete a farmi un papa?»

«In tutta onestà, nipote mio, non credo che sia possibile.»«Allora non avete proprio motivo di gonfiarvi tanto d’orgoglio,»«È da quest’inverno che vi ripeto di mandar via Marigny.»«Ma visto e considerato che non è stato così», urlò Luigi X, «la cosa migliore

non resta quella di sfruttare Marigny? Lo farò chiamare, lo rimprovererò, lo minaccerò: dovrà pure obbedire, alla fin fine!»

Furioso quanto testardo, l’Attaccabrighe continuava a considerare Marigny la

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sua unica salvezza. Misurava il cortile a grandi passi disordinati, le piume bianche incollate alla suola delle scarpe.

In effetti tutti avevano portato avanti così bene il proprio gioco personale, il re, Valois, Marigny, d’Artois, Tolomei, i cardinali, e anche la regina di Napoli, da ritrovarsi in posizione di stallo collettivo, volti a ferirsi l’un l’altro, ma senza riuscire ad avanzare di un passo.

Valois se ne rendeva conto benissimo, così come si rendeva conto che gli era indispensabile, per conservare il vantaggio tanto faticosamente guadagnato, trovare a ogni costo una via d’uscita. E in fretta…

«Ah! Davvero, nipote», esclamò, «se penso che io sono rimasto vedovo già due volte, e di due mogli esemplari, mi viene da concludere che è un vero peccato che voi non lo siate di una sposa indegna.»

«Certo, certo», convenne Luigi, «se quella sgualdrina morisse, almeno…»Interruppe di colpo il suo nervoso va e vieni, guardò Valois e capì che lo zio

non aveva voluto parlare tanto per dire, o per deplorare in generale l’ingiustizia delle umane sorti.

«L’inverno è stato freddo; le prigioni sono posti micidiali per la salute delle donne», insinuò Carlo di Valois, «e mi pare che sia già parecchio che Marigny non ci dà notizie di Margherita. Mi stupisce che sia riuscita a resistere ai rigori ai quali l’hanno condannata… Forse Marigny… Tutto sommato sarebbe nel suo stile… magari vi nasconde che è prossima alla fine. Bisognerebbe andare a dare un’occhiata.»

Avvertirono chiaramente entrambi il silenzio che li circondava come un’entità materiale. È importante, tra principi, capirsi così bene che le parole non siano neanche più necessarie…

«Mi avete promesso, nipote», si limitò a dire Valois dopo un po’, «che mi avreste dato in mano Marigny il giorno in cui avreste avuto un papa.»

«Potrei darvelo anche, zio, il giorno che sarò vedovo», rispose l’Attaccabrighe abbassando la voce.

Valois si passò le dita inanellate sulle guance rosse. «Bisognerà che mi diate prima Marigny, perché è lui che comanda tutte le fortezze e vieta a chiunque di aver accesso a Château-Gaillard.»

«Sia», convenne Luigi. «Gli tolgo la mia protezione. Dite pure al vostro cancelliere di presentarmi da firmare tutti gli ordini che riterrete utili.»

Quella sera stessa, dopo cena, Enguerrand de Marigny era chiuso nel suo studio a redigere il memoriale che aveva deciso di mandare al re per chiedere, secondo le nuove ordinanze, il permesso di sfidare Valois. In effetti intendeva

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affrontare il conte in singolar tenzone, e finiva così con l’essere il primo a domandare l’effettiva applicazione delle norme contenute in quelle «carte dei feudatari» contro le quali aveva tanto lottato. Fu allora che gli annunciarono l’arrivo di Ugo di Bouville, che ricevette immediatamente. L’ex gran ciambellano di Filippo il Bello aveva una faccia cupa e sembrava combattuto tra opposti sentimenti.

«Enguerrand, sono venuto ad avvisarti», disse fissando il tappeto. «Non dormire in casa, stanotte, perché verranno ad arrestarti. Lo so per certo.»

«Arrestarmi? Sono parole al vento: non oseranno mai», rispose Marigny. «E chi dovrebbe venire ad arrestarmi, di’ un po’? Alain de Pareilles? Alain non obbedirebbe mai a un ordine del genere. Piuttosto sarebbe disposto a sostenere un assedio nel mio palazzo con i suoi arcieri…»

«Fai male a non darmi retta, Enguerrand, e hai fatto male anche a comportarti come ti sei comportato negli ultimi mesi. Quando si occupano posti come i nostri lavorare contro il re, quale che sia il re, vuol dire lavorare contro se stessi. E anch’io sto lavorando contro il re, in questo momento, per l’amicizia che ti porto, e perché ti vorrei salvare.»

Il grosso Bouville era davvero amareggiato. Servitore leale del sovrano, amico fedele, funzionario integro, rispettoso dei comandamenti di Dio e delle leggi del regno, si rendeva conto che all’improvviso i sentimenti che lo animavano, tutti egualmente sinceri, si eran fatti inconciliabili.

«Quello che ti ho appena detto», proseguì, «Enguerrand, l’ho saputo da monsignor di Poitiers, che ormai è il tuo solo e ultimo sostenitore. Monsignor di Poitiers vorrebbe tenerti lontano dai baroni. Ha consigliato al fratello di mandarti a governare qualche terra lontana. Cipro, per esempio.»

«Cipro», esclamò Marigny. «Lasciarmi esiliare su quell’isola in mezzo al mare, dopo aver comandato la Francia? È là che mi vogliono mandare? O continuerò a essere padrone in Francia, o ci morrò!»

Bouville scosse tristemente le ciocche bianche e nere. «Dammi retta, stanotte non dormire qui», ripetè. «Se la mia casa ti pare asilo sufficientemente sicuro, disponine. Comunque, fa’ come vuoi: io ti ho avvertito.»

Appena uscito Bouville, Marigny andò dalla moglie e dalla cognata Chanteloup per metterle al corrente delle ultime novità. Aveva bisogno di parlare, di sentirsi vicini i suoi cari. Le due donne dissero che la cosa più opportuna era partir subito per qualche loro terra, ai confini normanni, e poi da là, se la situazione fosse precipitata, raggiungere un porto e rifugiarsi dal re d’Inghilterra.

Ma Enguerrand si arrabbiò.

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«Dunque ho intorno soltanto donnette e vigliacchi!» E andò a dormire come tutte le altre sere. Accarezzò il suo cane preferito, si fece spogliare dal cameriere e lo osservò sistemare i pesi dell’orologio, oggetto ancora poco diffuso, anche nei palazzi dei nobili, e da lui acquistato a caro prezzo. Rigirò per un poco nella mente le ultime frasi del memoriale per il re e se le annotò; si avvicinò alla finestra, aprì le tende e contemplò i tetti della città buia. Le guardie di ronda passavano in rue des Fossés-Saint-Germain ripetendo ogni venti passi in tono incolore: «È la ronda… È mezzanotte… dormite in pace…»

Come sempre, erano in ritardo di un quarto d’ora sull’orologio…Enguerrand fu destato all’alba da un gran rumore di stivali nel cortile e dai

colpi battuti alla porta. Uno scudiero tutto agitato gli disse che gli arcieri erano giù dabbasso. Enguerrand si fece portare gli abiti, si vestì in fretta e, in anticamera, si scontrò con la moglie e il figlio che arrivavano di corsa, sconvolti.

«Avevate ragione, Alips», disse alla donna baciandola in fronte. «E io non vi ho dato retta. Partite oggi stesso con Louis.»

«Sarei partita con voi, Enguerrand. Ma ora non mi posso certo allontanare dal luogo dove vi faranno soffrire.»

«Il re è il mio padrino», esclamò Louis de Marigny. «Vado subito a Vincennes…»

«Il tuo padrino ha un cervello di gallina, e la corona gli sta larga», rispose Marigny con rabbia.

Poi, vedendo che sulle scale era buio, gridò: «Servi! Delle lampade! Che mi si faccia luce!»

E quando i servitori furono accorsi, fece tra le torce una discesa da re.Il cortile era affollato di armati. Nel vano della porta un’alta sagoma in cotta di

maglia si stagliava sul grigiore del mattino.«Come hai potuto accettare, Pareilles… Come hai osato?» chiese Marigny

alzando la mano.«Non sono Alain de Pareilles», rispose il soldato. «Messer de Pareilles non ha

più il comando degli arcieri.»E si tirò da parte per lasciar passare un uomo in veste talare che era il

cancelliere Etienne de Mornay. Come Nogaret, otto anni prima, si era recato di persona ad arrestare il gran maestro dei Templari, Mornay veniva di persona, oggi, a prendere in consegna l’ex rettore del regno.

«Messer Enguerrand», disse, «vi prego di seguirmi al Louvre dove ho ordine di rinchiudervi!»

In quello stesso momento tutti i grandi legisti borghesi del regno precedente,

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Raoul de Presles, Michel de Bourdenai, Guillaume Dubois, Geoffroy de Briançon, Nicole le Loquetier, Pierre d’Orgemont, venivano arrestati nelle loro case e condotti in diverse prigioni, mentre un gruppo di soldati veniva inviato a Chalons per prendere in consegna il vescovo Pierre de Latille, l’amico di gioventù di Filippo il Bello, che quest’ultimo aveva così tanto reclamato al suo capezzale negli ultimi istanti.

Con loro, tutto il regno del Re di ferro finiva in prigione.

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V • GLI ASSASSINI NELLA PRIGIONE

Quando, in piena notte, Margherita di Borgogna sentì che veniva calato il

ponte levatoio di Château-Gaillard e che entro le mura risuonavano zoccoli di cavalli, sulle prime pensò di stare sognando.

Aveva tanto atteso, tanto desiderato quell’istante, da quando aveva inviato la sua lettera a Roberto d’Artois, con la quale riconosceva la sua sconfitta, rinunciava a tutti i diritti, tanto i suoi quanto quelli di sua figlia, in cambio di una liberazione che non arrivava mai!

Nessuno le aveva risposto, né Roberto, né il re. Non si era fatto vivo nessun messaggero. Le settimane si susseguivano in un silenzio più tremendo della fame, più spossante del freddo, più degradante della malattia. Margherita ormai non si muoveva quasi più dal letto, in preda a una febbre le cui cause erano da ricercarsi nell’anima quanto nel corpo, che la teneva in uno stato di semincoscienza. I grandi occhi spalancati nella tenebra della torre, ascoltava il suo cuore battere a un ritmo troppo rapido. Il silenzio si popolava allora di rumori inesistenti; l’ombra era invasa da minacce tragiche che non venivano più da questo mondo, ma dall’aldilà. Il delirio dell’insonnia le turbava la ragione… Philippe d’Aunay, il bel Philippe, non era morto; camminava, le gambe spezzate, il ventre sanguinante, di fianco a lei; lei gli tendeva le braccia e non riusciva a raggiungerlo. E tuttavia lui la portava con sé sulla strada che va dalla terra a Dio, senza più aver coscienza della terra e senza mai vedere Dio. E questo cammino atroce sarebbe durato per l’eternità, fino al Giudizio universale. Forse era proprio quello, dopotutto, il purgatorio…

«Bianca!» gridò. «Arrivano!»Poiché catenacci, paletti, porte cigolavano davvero ai piedi della torre e i passi

di molti uomini risuonavano sui gradini di pietra.«Bianca! Li senti?»

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Ma la voce flebile di Margherita, arrestata dalle porte massicce che separavano nottetempo le due celle, non riuscì ad arrivare al piano superiore.

La luce di un’unica candela accecò la regina prigioniera. Degli uomini si accalcavano sulla soglia. Margherita non li distinse chiaramente, vedeva soltanto il gigante dal mantello rosso, dagli occhi chiari e dal pugnale d’argento che avanzava verso di lei.

«Roberto!» mormorò. «Roberto! Eccovi, finalmente.»Dietro d’Artois un soldato portava un sedile che depositò accanto al letto.«Allora, cugina,» esordì d’Artois sedendosi, «la salute vi dà qualche problema,

a quanto mi dicono e a quanto posso constatare. Che cos’avete?»«Tutto», rispose Margherita. «Non so più se sono viva o no.»«Era ora che arrivassi. Presto tutto sarà finito. I vostri nemici sono vinti. Siete in

condizione di scrivere?»«Non so», rispose Margherita.D’Artois fece avvicinare la candela e osservò più da vicino il viso distrutto,

disseccato, le labbra assottigliate della prigioniera, gli occhi neri infossati di una strana brillantezza, i capelli incollati dalla febbre sulla fronte bombata.

«Se non altro, potrete dettare la lettera che il re sta aspettando. Cappellano!» chiamò schioccando le dita.

Una tonaca bianca, sciupata e macchiata, e un cranio beige si materializzarono dalla penombra.

«L’annullamento è stato pronunciato?» chiese Margherita.«Come sarebbe possibile, cugina, dal momento che avete rifiutato di dichiarare

quello che vi è stato chiesto?»«Ma io non ho rifiutato. Ho accettato. Tutto quanto… Non lo so più. Non

capisco…»«Portate subito un boccale di vino per darle un po’ di forza», ordinò d’Artois

da sopra la spalla.Dei passi si allontanarono nella stanza e scesero per le scale.«Raccogliete le vostre energie, cugina», riprese d’Artois, «è venuto il momento

di accettare i miei consigli.»«Ma io vi ho scritto, Roberto. Vi ho scritto una lettera per farvela consegnare a

Luigi, nella quale dichiaravo… tutto quello che mi avevate detto di dichiarare… che mia figlia non era di mio marito…»

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I muri, i volti sembravano fluttuare intorno a lei.«Quando?» chiese d’Artois.«Ma molto tempo fa… settimane… due mesi, mi pare. È da allora che attendo

di essere liberata…»«A chi avete consegnato la lettera?»«Ma… a Bersumée.»E subito Margherita, si chiese, spaventata: Ho scritto davvero? È tremendo,

non lo so più… non capisco più niente.«Domandate a Bianca», aggiunse in un sussurro.E ci fu gran trambusto vicino al letto. Roberto d’Artois si era alzato in piedi e

scuoteva per la collottola qualcuno, gridando così forte che Margherita quasi non riusciva a capire le parole.

«Ma sì, monsignore, di persona… l’ho portata…» rispondeva la voce alterata di Bersumée.

«A chi l’hai data? A chi?»«Lasciatemi andare, monsignore, lasciatemi! Mi state strangolando. A

monsignor de Marigny… Ho obbedito agli ordini…»Il comandante della fortezza non riuscì a schivare il pugno che lo colpì in

pieno viso, un vero e proprio colpo di mazza, sotto il quale gemette e barcollò.«Perché, io mi chiamo Marigny, per caso?» urlava d’Artois. «Quando ti danno

un plico per me, è a me che lo devi consegnare, non a qualcun altro!»«Ma, monsignore, mi avevano detto…»«Taci, animale! Mi occuperò di te più tardi. Dal momento che sei tanto fedele a

Marigny, comunque, ti spedirò a tenergli compagnia nella sua prigione, al Louvre», disse d’Artois.

Poi si rivolse di nuovo a Margherita. «Io non ho mai ricevuto la vostra lettera, cugina. Marigny se l’è tenuta.»

«Ah! Bene», rispose lei. Era più tranquilla. Almeno era sicura di aver scritto davvero.

In quel momento arrivò il sergente Lalaine con il boccale di vino chiesto da Roberto. Il gigante si risedette e guardò bere Margherita.

Perché poi non ho portato con me del veleno, si rimproverava. Sarebbe stato il sistema più semplice. Che stupido a non averci pensato… E così, lei aveva accettato e noi non lo sapevamo. Già, tutta questa faccenda è ridicola, in realtà. Ma ormai è troppo tardi per modificare alcunché. E in ogni caso, nello stato in cui è, non le resterebbe comunque molto da vivere.

Aveva sfogato la sua rabbia contro Bersumée e adesso sentiva un certo distacco,

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una specie di tristezza. Stava lì, imponente, le mani posate sulle cosce, circondato da armati, al capezzale di una donna sfinita. Eppure aveva così tanto odiato Margherita quando era regina di Navarra ed erede al trono di Francia! Non aveva tramato per distruggerla, sommando intrighi a intrighi, viaggi, coalizzando ai suoi danni la corte d’Inghilterra e quella di Francia? Anche l’inverno passato, quando lui era un potente barone e lei una miserabile prigioniera, l’avrebbe stritolata con le sue mani di tutto cuore vedendola resistere alle sue insistenze. Adesso il suo trionfo lo portava più lontano di quanto avesse auspicato. Non provava pietà, solo una sorta di indifferenza disgustata, di amara stanchezza. Tanti mezzi mobilitati contro un corpo smagrito e malato, una mente senza più difesa! L’odio, in Roberto, si era spento all’improvviso, perché non incontrava più una resistenza commisurata alla sua forza.

Si sorprendeva adesso a rimpiangere sinceramente che non gli fosse mai arrivata la famosa lettera, e considerava sconsolato l’assurdità del concatenarsi delle sorti. Senza lo zelo ottuso di quel somaro di Bersumée, Luigi X, ormai, poteva già essere in condizione di risposarsi, Margherita sistemata in qualche tranquillo convento e Marigny senz’altro ancora in libertà, se non addirittura al potere. Nessuno sarebbe stato costretto a rimedi estremi e anche lui, Roberto d’Artois, non si sarebbe trovato là con l’incarico di giustiziare una moribonda.

«La vedovanza è necessaria, ma deve compiersi nel segreto della famiglia», gli aveva detto Carlo di Valois.

E Roberto aveva accettato la missione, soprattutto perché gli avrebbe dato in mano un potere enorme sul re e su Valois. Servizi del genere si pagano in eterno… E poi la sorte, a ben guardare, era assurda soltanto in apparenza. Ciascuno, agendo secondo la propria natura, aveva dato un contributo affinché le cose andassero esattamente come erano andate.

Non sono stato io a iniziare questo pasticcio l’anno scorso a Westminster? Quindi tocca a me portarlo a termine. Ma avrei dato il via a tutto questo gioco se Marigny, per concludere i matrimoni di Borgogna, non mi avesse privato della contea d’Artois a favore della zia Mahaut? E Marigny, adesso, è nelle prigioni del Louvre.

Il destino seguiva una certa logica.Roberto si accorse che tutti, nella stanza, lo stavano guardando, Margherita dal

suo letto, Bersumée che si strofinava la mascella offesa, Lalaine che si era ripreso il vino, il valletto Lormet appoggiato al muro nella penombra, il cappellano che si stringeva al petto il necessario per scrivere. Parevano tutti sbalorditi di vederlo meditare.

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Il gigante si scosse.«Vedete, cugina», disse, «quanto Marigny vi è ostile, quanto è ostile a tutti noi.

La sottrazione della lettera ne fornisce prova ulteriore. Senza Marigny, scommetto che non sareste mai stata accusata né trattata così. Quel vigliacco ha fatto del suo meglio per nuocervi, e anche per nuocere al re e al regno. Ma ormai è in prigione e io sono venuto a raccogliere le vostre accuse contro di lui per accelerare sia il corso della giustizia del re sia la vostra liberazione.»

«Che cosa devo dichiarare?»Il vino che aveva bevuto le faceva battere il cuore ancora più forte; respirava

con affanno e si premeva il petto con la mano.«Detterò io per voi al cappellano», rispose Roberto. Il domenicano in disgrazia

sedette per terra, la tavoletta rigida posata sulle ginocchia; la candela posta al suo fianco rischiarava dal basso i tre volti.

Roberto tirò fuori dalla borsa un foglio piegato con un testo scarabocchiato che lesse al cappellano.

«Sire, marito mio, sto morendo di dispiacere e di malattia. Vi supplico di perdonarmi, perché se non lo farete presto…»

«Un momento, monsignore, non riesco a starvi dietro», protestò il cappellano. «Non vado veloce come i vostri segretari di Parigi.»

«…perché, se non lo farete presto, sento che mi resta ben poco da vivere e la mia anima se ne sta andando dal mio corpo. È tutta colpa del signor di Marigny che ha voluto farmi perdere la vostra stima e quella del defunto re con una denuncia della quale giuro la falsità e che mi ha ridotta in questo stato miserevole sottoponendomi a un odioso trattamento…»

«Monsignore… un minuto ancora.»Il cappellano cercava il raschietto per togliere un’imperfezione dal foglio.Roberto dovette aspettare un momento, prima di riprendere e concludere:

«Tutto è stato opera di quell’uomo malvagio. Vi prego ancora una volta di togliermi da questa condizione nella quale verso e vi assicuro di essere sempre stata vostra moglie obbediente nella volontà di Dio».

Margherita si era sollevata un po’ sul suo giaciglio. Non riusciva assolutamente a capire per quale enorme contraddizione adesso volevano che si proclamasse innocente.

«Ma allora, cugino, allora… tutte le confessioni che mi avevate chiesto?…»«Non servono più, cugina», replicò Roberto. «Basterà che firmiate questo

documento.»In effetti in quel momento la cosa più importante per Carlo di Valois era di

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raccogliere il maggior numero possibile di testimonianze, vere o false, a carico di Enguerrand. Questa era l’esigenza fondamentale, e offriva inoltre il vantaggio di lavare almeno formalmente l’onta del re, e soprattutto di far annunciare alla regina stessa l’imminenza del proprio trapasso. In effetti monsignor d’Artois e monsignor di Valois erano persone piene di immaginazione!

«E di Bianca che cosa sarà? Hanno pensato a Bianca?»«Non preoccupatevi», la rassicurò Roberto, «penseremo anche a lei.»Margherita scrisse il suo nome in fondo al foglio. Allora Roberto d’Artois si

alzò e si piegò su di lei. Gli astanti si erano ritirati verso il fondo della stanza. Il gigante posò la mano sulla spalla di Margherita.

Al contatto di quella grande mano, Margherita sentì un gradevole calore tranquillizzante scenderle nel corpo. Incrociò le dita scarne su quelle di Roberto, come se temesse di vederlo ritirare la mano troppo in fretta.

«Addio, cugina», disse Roberto, «addio. Riposate bene.»«Roberto», disse lei a bassa voce girando la testa per guardarlo negli occhi,

«l’altra volta che siete stato qui e avreste voluto possedermi, mi desideravate davvero?»

Nessun uomo è cattivo fino in fondo. Roberto d’Artois trovò in quel momento una delle rare manifestazioni verbali di compassione che gli fossero mai passate sulle labbra.

«Sì, mia bella cugina. Mi siete sempre piaciuta molto.»Sentì che lei si rilassava sotto la sua mano, tranquillizzata, quasi felice. Essere

amata, essere desiderata: ecco la vera ragione di vita di quella regina. Più di ogni corona.

Vide che il cugino si allontanava e la luce se ne andava con lui; pareva irreale tanto era grande, e faceva venire in mente, nella penombra, gli invincibili eroi delle antiche leggende.

La tonaca bianca del domenicano e il berretto di lupo di Bersumée sparirono. Roberto spingeva via la sua gente. Restò un momento immobile sulla soglia, come se esitasse, come se avesse ancora qualcosa da dire. Poi la porta si richiuse, l’oscurità tornò completa e Margherita si rese conto con stupore di non udire il solito stridio di catenacci.

Così non la rinchiudevano più! E il fatto che non avessero serrato le porte per la prima volta da trecentocinquanta giorni a quella parte le parve una promessa di libertà.

Il giorno dopo l’avrebbero lasciata scendere per andare a passeggiare a suo piacimento per Château-Gaillard; e quanto prima sarebbe arrivata una lettiga per

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condurla verso gli alberi, le città e gli uomini… Potrò reggermi in piedi? si domandava. Ne avrò la forza? Oh! Sì, la forza tornerà…

Sentiva di avere la fronte, il seno, le braccia ardenti; ma sarebbe guarita, ne era sicura. Ed era altrettanto sicura che non sarebbe riuscita a prender sonno. Ma la speranza le sarebbe stata compagna fino all’alba!

D’improvviso avvertì un rumore impercettibile, neanche un rumore, quasi, quel fruscio nel silenzio, il respiro trattenuto d’un essere vivente. C’era qualcuno nella stanza.

«Bianca!» gridò. «Sei tu?»Forse avevano aperto anche le porte del piano di sopra. Eppure non le pareva

che la porta si fosse aperta. E perché poi sua cugina sarebbe dovuta venir avanti con tanta cautela? A meno che Bianca non fosse impazzita di colpo…

«Bianca!» ripetè Margherita in tono angosciato.Ci fu di nuovo silenzio e lei pensò che forse era stata la febbre a inventarsi

presenze inesistenti. Ma subito dopo sentì di nuovo quel respiro soffocato, un po’ più vicino, e un lieve raspare sul pavimento, come quello delle unghie d’un cane. C’era qualcuno di fianco a lei. Magari era davvero un cane, il cane di Bersumée che era entrato con il suo padrone e che avevano dimenticato lì. Oppure dei topi… dei topi con i loro passettini, i loro fruscii, il loro indaffarato complottare, la loro strana abitudine di lavorare nottetempo a misteriosi compiti. Più volte i topi avevano fatto la loro comparsa nella torre e Bersumée aveva portato il suo cane proprio per ammazzarli. Ma non si sentono respirare i topi.

Margherita si sollevò di colpo sul suo giaciglio, il cuore in gola; un oggetto di metallo, arma o fibbia, aveva sfiorato il muro di pietra. Gli occhi spalancati nel buio, Margherita scrutava nella tenebra che le stava intorno.

«Chi è là?» gridò.Di nuovo fu silenzio. Ma ormai lei sapeva di non essere sola. Tratteneva anche

lei il fiato, ma invano. Un’angoscia mai conosciuta prima le stringeva l’anima. Stava per morire, ne era insopportabilmente certa; e all’orrore che provava nell’attesa dell’inaccettabile si aggiungeva l’orrore di non sapere come sarebbe morta, dove l’avrebbero colpita, né quale fosse la presenza invisibile che si avvicinava strisciando contro il muro.

Una forma tonda, un po’ più scura della tenebra della notte, urtò il letto all’improvviso. Margherita lanciò un urlo che Bianca di Borgogna, al piano di

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sopra, avvertì nettamente attraverso la pietra e che non avrebbe mai più dimenticato. Il grido fu subito soffocato.

Due mani avevano alzato il lenzuolo sulla bocca di Margherita e glielo stringevano intorno alla gola. La testa premuta contro un petto solido, le braccia che si agitavano nel vuoto e tutto il corpo che si contorceva per tentare di liberarsi, Margherita emetteva rantoli soffocati. La tela che le stringeva il collo si serrava sempre di più, come un collare di piombo ardente. La regina soffocava; i suoi occhi si riempirono di fuoco; enormi campane di bronzo presero a rintoccare nelle sue tempie. Ma l’assassino aveva una particolare abilità: la corda delle campane si spezzò di colpo e Margherita precipitò nell’abisso di tenebra, senza pareti e senza fine.

Qualche minuto più tardi, nel cortile di Château-Gaillard, Roberto d’Artois, che ingannava il tempo bevendo un boccale di vino con i suoi scudieri, vide Lormet che si avvicinava e faceva finta di risistemare i finimenti del suo cavallo. Le torce erano state spente: era quasi giorno. Uomini e cavalli fluttuavano nella nebbia grigiastra.

«Fatto, monsignore», mormorò Lormet.«Qualche traccia?» domandò Roberto a bassa voce.«Non credo, monsignore. Il volto non sarà nero: le ho rotto l’osso del collo. E

ho rimesso in ordine il letto.»«Non sarà stato un lavoro facile.»«Sapete che sono come le civette, monsignore: ci vedo anche al buio.»D’Artois montò in sella e chiamò Bersumée.«Ho trovato Margherita di Borgogna in pessime condizioni», disse. «Ho paura,

visto il suo stato, che non tiri fino alla fine della settimana. Se venisse a mancare, gli ordini sono questi: corri a Parigi più presto che puoi e presentati da monsignor di Valois per informarlo per primo. Lui, e solo lui. Da monsignor di Valois, mi hai capito bene? Stavolta cerca di non bussare alla porta sbagliata e fa’ in modo di tenere il becco chiuso. Ricordati che il tuo monsignor de Marigny è in prigione e potresti trovar posto anche tu nell’infornata di gente che sta per essere giudicata dal re.»

L’alba cominciava a sorgere dietro la foresta di Les Andelys, accentuando con una luminosità lieve lieve, tra il grigio e il rosato, la linea di alberi. In basso, il fiume mormorava piano.

Roberto d’Artois, scendendo il pendio di Château-Gaillard, sentiva sotto di sé il movimento regolare del cavallo, i cui fianchi tiepidi fremevano contro i suoi stivali. Aspirò una gran boccata d’aria del mattino.

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«È una gran bella cosa esser vivi», mormorò.«Sì, monsignore, una gran bella cosa», convenne Lormet. «E poi sarà

senz’altro una splendida giornata di sole.»

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VI • SULLA STRADA DI MONTFAUCON

Nonostante l’angusta feritoia, Marigny poteva scorgere, tra le grosse sbarre

in croce, il tessuto sontuoso del cielo trapunto di stelle d’aprile.Non cercava nemmeno di dormire. Ascoltava i pochi rumori notturni di Parigi,

il grido della ronda, il rotolare delle ruote delle carrette campagnole dirette al mercato… Questa città della quale aveva allargato le strade, abbellito gli edifici, sedato le rivolte, questa città nervosa nella quale si sentiva costantemente battere il cuore del regno e che era stata per sedici anni al centro dei suoi pensieri e delle sue preoccupazioni, lui aveva preso, da due settimane, a odiarla come si odia una persona.

Questo risentimento risaliva per l’esattezza al mattino in cui Carlo di Valois, temendo che Marigny potesse avere dei complici al Louvre, aveva deciso di trasferirlo alla torre del Tempio. A cavallo, circondato da sergenti e arcieri, Marigny, attraversando la città, si era reso conto che il popolo, del quale da tanti anni vedeva solo le schiene curve nell’ossequio, lo aveva sempre detestato. Gli insulti lanciati al suo passaggio, le esplosioni di gioia nelle strade, i pugni tesi, le battute, le risate, le minacce di morte, tutto questo aveva rappresentato per l’ex rettore del regno una delusione peggiore del suo stesso arresto.

Quelli che hanno governato a lungo gli uomini, sforzandosi di agire per il bene comune, e sanno la fatica che questo è loro costata, quando si rendono conto di colpo di non essere mai stati amati né capiti ma soltanto subiti provano un’immensa amarezza, e cominciano a interrogarsi sul senso della loro vita.

Gli onori li ho avuti tutti, ma la felicità mai, perché non ho mai pensato

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neanche per un momento di aver terminato il mio compito. Ma valeva la pena di fare tanto per gente che mi detestava così?

Quel che era seguito si era rivelato anche peggiore. Enguerrand era stato ricondotto a Vincennes, stavolta non per sedere tra i grandi del regno, ma per comparire in giudizio davanti a un tribunale di feudatari e prelati, a sentire Jean d’Asnières, in qualità di procuratore, dar lettura dell’atto d’accusa.

«Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo…» aveva esordito l’avvocato.In nome del Signore lesse contro Marigny quaranta capi d’accusa: concussione,

tradimento, prevaricazione, rapporti segreti con i nemici del regno, tutte accuse basate su asserzioni quanto meno strane. Si rimproverava a Marigny di aver fatto piangere di dolore Filippo il Bello, di aver ingannato monsignor di Valois sulla stima delle terre di Gaillefontaine, d’esser stato visto parlare a quattr’occhi con Luigi di Nevers, figlio del conte di Fiandra…

Enguerrand aveva chiesto la parola e gliel’avevano rifiutata; aveva chiesto di sfidare Valois e gli era stato egualmente negato. Lo si dichiarava colpevole senza lasciargli la possibilità di difendersi, come se si stesse processando un morto.

Tra i membri del tribunale c’era Jean de Marigny. Enguerrand immaginava fin troppo bene l’ignobile scambio concluso dal fratello per riuscire a tenersi l’arcidiocesi che lui gli aveva fatto avere! Per tutta la durata di quel processo senza dibattimento, Enguerrand aveva cercato di incrociare lo sguardo del fratello minore, ma era riuscito solo a vedere un volto impassibile, gli occhi fissi altrove, le belle mani che lisciavano con un gesto lento i nastri che reggevano la croce pettorale.

«Dovrai ben guardarmi, Giuda! Dovrai pur guardarmi, Caino», ripeteva Enguerrand tra sé e sé.

Se perfino suo fratello si era schierato con tale cinismo dalla parte dei suoi accusatori, come attendersi qualche manifestazione di lealtà e gratitudine da altri?

Non erano presenti né il conte di Poitiers né il conte d’Evreux che non potevano manifestare altrimenti il loro disaccordo nei confronti di quella parodia di processo.

Gli schiamazzi della folla avevano accompagnato di nuovo Marigny sulla via del ritorno da Vincennes al Tempio dove stavolta, le catene alle caviglie, si era visto rinchiudere nella stessa segreta che aveva ospitato Jacques de Molay. La catena era stata assicurata allo stesso anello al quale era stata assicurata allora la catena del gran maestro e sui muri erano ancora visibili i segni tracciati dal vecchio Templare per contare i giorni.

Sette anni! L’abbiamo condannato a passare qui dentro sette anni e poi lo

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abbiamo mandato sul rogo. E io, che sono in prigione da una settimana soltanto, già capisco quanto deve aver sofferto.

Gli uomini di stato, esercitando il loro potere dall’alto attraverso tribunali, forze dell’ordine ed eserciti, non vedono l’uomo nel condannato che destinano alla prigione o alla morte; per loro si tratta di eliminare un’opposizione. Marigny si ricordava come si era sentito mentre i Templari bruciavano all’Île aux Juifs, comprendendo solo allora che non si trattava di astratte potenze ostili, ma di esseri in carne e ossa, di propri simili. E per un momento quella notte, rimproverandosene come se si fosse trattato di una debolezza, si era sentito solidale con i suppliziati. E adesso si ritrovava in fondo a una segreta. Davvero dobbiamo esser stati tutti maledetti per quel che abbiamo fatto, si disse.

E poi Marigny era stato portato di nuovo a Vincennes per assistere alla più sinistra, alla più abietta dimostrazione di odio e bassezza. Come se tutte le accuse a suo carico non fossero state ancora sufficienti, come se fosse indispensabile cancellare ogni dubbio dalla coscienza del regno, si provvide ad accusarlo di crimini decisamente stravaganti, provati da una stupefacente sequela di testimoni falsi.

Monsignor di Valois si vantava d’aver scoperto un complotto stregonesco ispirato naturalmente da Enguerrand de Marigny. La moglie di Marigny e la di lei sorella, Madame di Chanteloup, avevano effettuato incantesimi criminali su bambole di cera con le fattezze del re, del conte di Valois stesso e del conte di Saint-Pol. Così almeno dichiararono individui venuti da rue des Bourdonnais, dove c’erano botteghe particolari nelle quali si praticavano arti magiche con il tacito consenso delle forze dell’ordine. Fu trascinata in tribunale una zoppa, con ogni evidenza una creatura del demonio, e un certo Paviot, condannati di recente per una faccenda analoga. Non ebbero difficoltà a confessarsi complici della moglie di Marigny, però mostrarono uno sbalordimento doloroso all’apprendere che sarebbero stati comunque condannati al rogo. Perfino i falsi testimoni erano stati ingannati, in quel processo burla!

Alla fine fu comunicata la morte di Margherita di Borgogna e nella commozione generale suscitata dalla notizia fu data lettura della lettera che la regina, poco prima di morire, aveva indirizzato al marito.

«L’hanno ammazzata!» gridò Marigny, che finalmente ci vedeva chiaro.Ma le guardie che gli stavano intorno l’avevano fatto tacere, mentre Jean

d’Asnières aggiungeva un nuovo elemento alla sua requisitoria.Invano, i giorni precedenti, il re d’Inghilterra era di nuovo intervenuto per

lettera presso il cognato per scongiurarlo di risparmiare Enguerrand. Invano Louis

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de Marigny s’era gettato ai piedi del re, suo padrino, per supplicarlo di concedere la grazia, di far davvero giustizia. Quando sentiva pronunciare il nome di Marigny, Luigi X diceva soltanto: «Gli ho tolto la mia protezione». E lo ripetè pubblicamente un’ultima volta a Vincennes.

E così Enguerrand si era sentito condannare alla forca, mentre sua moglie sarebbe stata messa in prigione e i loro beni confiscati.

Ma Valois continuava ad agitarsi; non si sarebbe concesso una tregua finché non avesse visto pendere Marigny da una corda. E per prevenire ogni tentativo di evasione aveva spedito il suo nemico in una terza prigione, quella dello Châtelet.

Era appunto da una segreta dello Châtelet che Marigny, la notte del 30 aprile 1315, contemplava il cielo attraverso una feritoia.

Non aveva paura di morire; si trattava di accettare l’inevitabile. Ma l’idea della maledizione lo tormentava; l’iniquità che lo circondava era così totale che era fin troppo facile scorgere, attraverso e al di sotto l’improvvisa rabbia degli uomini, il segno manifesto di una volontà ben più alta. Era davvero la collera divina che si esprimeva per bocca del gran maestro? Davvero siamo stati tutti maledetti, anche quelli che lui non ha nominato, per il solo fatto d’esser lì? E tuttavia abbiamo agito per la salvezza del regno, per il bene della Chiesa, per la purezza della fede. Che cosa può aver provocato questa vendetta del cielo contro ciascuno di noi?

Adesso che solo qualche ora lo separava dal supplizio, ripensava alle fasi del processo dei Templari, come se cercasse proprio in quell’episodio, piuttosto che in altri momenti della sua vita pubblica o privata, la spiegazione estrema che aveva bisogno di trovare prima di morire. E risalendo lentamente i gradini della memoria con la cura che aveva sempre impiegato in ogni cosa da lui fatta, giunse a una soglia sulla quale vide d’improvviso la luce e capì tutto.

La maledizione non veniva da Dio. Veniva da lui stesso e prendeva origine dai suoi stessi atti. E questo valeva anche per tutti gli altri uomini e per tutti i castighi possibili.

I Templari non mostravano più rispetto per la loro regola; trascuravano il servizio della cristianità per occuparsi di questioni di denaro; i vizi s’insinuavano tra le loro file corrompendo l’antica grandezza; veniva da questo la loro maledizione, ed era giusto sopprimere l’Ordine. Ma per farla finita con i Templari, ho fatto nominare arcivescovo mio fratello, uomo ambizioso e disonesto, perché li condannasse accusandoli di crimini falsi; non devo quindi stupirmi se mio fratello sedeva tra i membri del tribunale che mi ha condannato con false accuse. Non devo rimproverargli il suo tradimento: sono stato io a istigarlo… Perché Nogaret aveva torturato troppi innocenti per

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estorcere loro le confessioni che riteneva necessarie al bene pubblico, e i suoi nemici hanno finito con l’assassinarlo… E Margherita di Borgogna era stata sposata per motivi politici con un principe che non amava, e così lo ha tradito; e a seguito dell’adulterio è stata scoperta e imprigionata. Io ho bruciato la sua lettera che avrebbe potuto rendere libero da ogni vincolo re Luigi, e così ho condannato Margherita e anche me stesso… E adesso che Luigi l’ha fatta assassinare scaricando poi su di me ogni responsabilità, che cosa succederà? E che cosa ne sarà di Carlo di Valois che stamattina mi farà impiccare per dei crimini fasulli? E che ne sarà di Clemenza di Ungheria se accetterà, per diventare regina di Francia, di sposare un assassino? Anche se siamo puniti per colpe inventate, ci sono sempre validi motivi dietro la nostra punizione. Ogni ingiustizia, anche se commessa a fin di bene, porta con sé una maledizione.Una volta giunto a questa conclusione, Enguerrand de Marigny cessò di odiare

gli altri e ritenerli responsabili della sua sorte. Aveva pronunciato una sorta di atto di pentimento, ma assai più efficace di quello sancito dalle formule ortodosse. Si sentiva in pace, e come in armonia con Dio, dal momento che accettava che il destino si compisse come doveva.

Restò calmissimo fino all’alba, e gli parve di non abbandonare la soglia luminosa sul limitare della quale la meditazione lo aveva appena condotto.

Verso la prima, sentì rumoreggiare oltre le mura. Quando vide entrare il prevosto di Parigi, l’inquisitore di giustizia e il procuratore, si alzò lentamente in piedi e aspettò che gli togliessero le catene. Prese il mantello scarlatto che indossava il giorno dell’arresto e se lo mise sulle spalle. Provava una strana sensazione di forza e si ripeteva quella verità improvvisamente conquistata: Ogni ingiustizia, anche se commessa a fin di bene…

«Dove mi portate?» chiese.«A Montfaucon, messere.»«Benissimo. Ho fatto ricostruire il patibolo. Finirò dunque impiccato sulla forca

che io ho fatto erigere.»Uscì dallo Châtelet in una carretta a quattro cavalli, preceduto, seguito e

circondato da compagnie di arcieri e di sergenti di guardia. Quando ero alla testa del regno, mi accontentavo di tre uomini di scorta, pensò. Adesso ne ho trecento per andare a morte…

Agli urli della folla Marigny, in piedi sulla carretta, rispondeva: «Brava gente, pregate Dio per me».

Il corteo fece una sosta in rue Saint-Denis, al convento des Filles-Dieu. Invitarono Marigny a scendere e lo condussero nel cortile, ai piedi di un crocifisso

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di legno posto sotto un baldacchino. È vero, è così che fanno, si disse. Ma guarda, non avevo mai assistito. Eppure ne ho mandata, di gente, al patibolo… Ho avuto sedici anni di felicità per ripagarmi del bene che posso aver fatto e sedici giorni di miseria e un mattino di morte per punirmi del male. Dio è stato misericordioso, con me.

Sotto il crocifisso, il cappellano del convento recitò dinanzi a Marigny inginocchiato le preghiere dei morti.Poi le suore portarono al condannato un bicchiere di vino e tre pezzi di pane che lui masticò lentamente, gustando un’ultima volta i cibi di questo mondo. In strada i parigini continuavano a schiamazzare. Il pane che mangeranno sembrerà loro comunque meno buono di quello che mi hanno appena offerto, pensò Marigny risalendo sulla carretta.

Il corteo superò le mura della città. Dopo un quarto di lega, traversati i sobborghi, apparve, eretto su una collinetta, il patibolo di Montfaucon.

Ricostruito negli ultimi anni, al posto della vecchia forca che risaliva a san Luigi, Montfaucon pareva un mercato coperto non terminato, privo del tetto. Sedici pilastri in muratura, ritti contro il cielo, si levavano da una vasta piattaforma quadrata che a sua volta era posata su grossi blocchi di pietra grezza. Al centro della piattaforma c’era una larga fossa che serviva da ossario; e le forche erano allineate sui bordi della fossa. I pilastri in muratura erano collegati da doppie travi e catene di ferro alle quali venivano assicurati i corpi dopo l’esecuzione; li si lasciava lì a marcire al vento e ai corvi per fungere da esempio e ispirare il giusto rispetto della giustizia reale.

Quel giorno vi si trovavano appesi circa una dozzina di corpi, alcuni nudi, altri vestiti fino alla cintola e con le reni coperte soltanto da un brandello di tela, a seconda se i boia avevano avuto diritto a tutti o solo a una parte dei vestiti. Qualche cadavere era già ridotto uno scheletro; altri cominciavano a decomporsi soltanto allora, la faccia verde o nerastra, liquidi rivoltanti che trasudavano dalla bocca o dalle orecchie, brandelli di carne strappati dal becco degli uccelli che eran ricaduti sui vestiti. Tutt’intorno si sentiva un puzzo tremendo.

Una folla mattiniera, numerosa, era accorsa ad assistere al supplizio; gli arcieri facevano cordone per contenerne l’ondeggiare.

Non appena Marigny scese dalla carretta, un prete gli si avvicinò per cercare di convincerlo a confessare i crimini per i quali era stato condannato.

«No, padre», rispose Marigny.Negò di aver voluto stregare Luigi X o qualche altro principe reale, negò

d’aver rubato al Tesoro, negò tutti i capi d’accusa a suo carico e riaffermò che

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tutte le azioni che gli si rimproveravano erano state comandate o approvate dal defunto re, suo signore.

«Tuttavia ho compiuto a fin di bene delle ingiustizie, e di ciò ora mi pento.»Preceduto dal capo dei carnefici, salì la rampa di pietra che conduceva alla

piattaforma e, con il suo solito tono autorevole, chiese, indicando le forche: «Quale?»

Come se fosse su di un podio, gettò un’ultima occhiata alla folla urlante. Non volle che gli legassero le mani.

«Non voglio essere immobilizzato.»Sollevò lui stesso i capelli e piegò in avanti la testa per infilarla nel nodo

scorsoio che gli presentavano. Respirò profondamente per trattenere più a lungo possibile la vita nei polmoni e strinse i pugni. La corda, tirata da sei braccia, lo sollevò di due tese dal suolo.

La folla, nonostante non attendesse altro, lanciò un’immensa esclamazione di stupore. Per parecchi minuti si vide Marigny torcersi, gli occhi che uscivano dalle orbite, la faccia che diventava blu, e poi violetta, la lingua fuori, le braccia e le gambe che si agitavano come per aggrapparsi a un palo invisibile. Poi le braccia ricaddero, le convulsioni diminuirono, cessarono. E gli occhi non videro più.

E la folla, sempre sorprendente perché sempre sorpresa, tacque.Valois aveva ordinato che il condannato restasse completamente vestito per

esser meglio riconoscibile. I boia tirarono giù il corpo e lo trascinarono per i piedi attraverso la piattaforma. Poi, appoggiando le scale sul davanti del patibolo, dalla parte di Parigi, appesero il cadavere alle catene per lasciare marcire tra le carogne di comuni malfattori uno dei più grandi ministri che la Francia avesse mai avuto11.

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VII • LA STATUA ABBATTUTA

Nell’oscurità di Montfaucon dove le catene stridevano, dei ladri, la notte

successiva, tirarono giù il morto illustre per spogliarlo; al mattino, trovarono il corpo di Marigny disteso sulla nuda pietra.

Monsignor di Valois, che era ancora a letto quando corsero ad avvertirlo, diede ordine di rivestire il cadavere e di riappenderlo. Poi si vestì anche lui e, vivo e vegeto, più vivo che mai, tutto pieno di forza, andò a mescolarsi al movimento della città, al via vai di uomini, alla potenza dei re.

In compagnia del canonico di Mornay, suo ex cancelliere che aveva fatto nominare guardasigilli di Francia, arrivò a palazzo.

Nella Galerie Mercière mercanti e perditempo osservavano i quattro muratori arrampicati su di una piattaforma che stavano rimuovendo la grande statua di Enguerrand de Marigny. Era attaccata al muro non soltanto per il basamento, ma anche per le spalle. Picconi e scalpelli facevano volare tutt’intorno schegge bianche di pietra.

Si aprì una finestra che dava sulla galleria; Valois e il cancelliere apparvero al davanzale. I curiosi, vedendo i nuovi padroni, si scappellarono doverosamente.

«Guardate, brava gente, guardate pure; stanno facendo un gran bel lavoro», disse loro Valois parlando alla piccola folla con un gesto d’invito.

Poi, girandosi verso Mornay, gli chiese: «Avete terminato l’inventario dei beni di Marigny?»

«L’ho terminato, monsignore, e il conto è notevole.»«Non ne dubitavo», disse Valois. «Così il re ha a disposizione un po’ di denaro

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per ricompensare coloro che gli sono stati utili in questa faccenda», osservò Valois. «Prima di tutto chiederò che mi ridiano la mia terra di Gaillefontaine che quel furfante mi aveva preso con l’inganno in uno scambio fraudolento. E questa non è una ricompensa, si tratta solo di far giustizia. D’altra parte sarebbe ora che mio figlio Filippo disponga di un suo palazzo e viva per conto suo. Marigny aveva due case, una in Fossés-Saint-Germain e un’altra in rue d’Autriche. Preferirei la seconda… So anche che il re vuole ricompensare in qualche modo Henriet de Meudon, il suo maestro di caccia, che gli procura i suoi cesti di colombe. Tenetelo presente. Ah! Soprattutto non dimenticate che monsignor d’Artois aspetta da cinque anni le rendite della sua contea di Beaumont. È il momento di fargliene avere almeno una parte. Il re deve molta riconoscenza a nostro cugino d’Artois.»

«Il re dovrà anche», osservò il cancelliere, «offrire alla nuova sposa i doni d’uso, e sembra orientato, con l’amore che le porta, alla più grande generosità. Ma la sua cassa personale non può sostenere queste spese. Non si potrebbe prendere dai beni di Marigny il necessario per la nuova regina?»

«Buona idea, Mornay. Preparate una lista di suddivisione e mettete mia nipote d’Ungheria in testa all’elenco dei beneficiari. Il re firmerà senz’altro.»

Parlando, Valois seguiva con lo sguardo il lavoro dei muratori.«Ovviamente, monsignore», riprese Mornay, «mi guarderò bene dal chieder

qualcosa per me…»«E farete bene, Mornay, perché altrimenti offriremmo il destro a della gente

cattiva di mormorare che, osteggiando Marigny, noi cercavamo soltanto il nostro profitto. Aumentate un po’ la mia parte, così che poi vi possa compensare in misura dei vostri meriti… Ah! Si è mossa!» esclamò, indicando la statua.

La grande statua di Marigny ormai era completamente staccata dal muro; le avevano legato intorno delle corde. Valois posò la mano inanellata sul braccio del cancelliere.

«L’uomo è davvero una strana creatura», disse. «Sapete che di colpo sento come un vuoto dentro? Ero così abituato a detestare quel mascalzone che adesso è come se mi venisse a mancare…»

Dentro il palazzo, Luigi X, nello stesso momento, terminava di farsi sbarbare. Vicino a lui c’era Eudeline, rosa e fresca, che teneva per mano una bambina di dieci anni, bionda, un po’ magrolina, timida, che non sapeva che il re al quale stavano asciugando il mento con teli caldi era suo padre.

La prima guardarobiera di palazzo aspettava, emozionata, piena di speranza, di sapere il motivo per il quale il re aveva mandato a chiamare lei e sua figlia.

Il barbiere uscì portando via bacinella, rasoi e unguenti.

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Il re di Francia si alzò, scosse i capelli lunghi fino al collo e domandò: «Il mio popolo è contento, vero, Eudeline, che io abbia fatto impiccare Marigny?»

«Certo, monsignor Luigi… Volevo dire, sire. Tutti pensano che ormai i periodi brutti siano finiti…»

«Bene, bene, è quel che voglio.» Luigi X attraversò la stanza, si piegò su uno specchio, osservò per qualche istante il suo volto riflesso e poi si girò.

«Ti avevo promesso una sistemazione per la bambina. Si chiama Eudeline, come te…»

Lacrime di commozione salirono agli occhi della guardarobiera; strinse leggermente la spalla della figlia.La piccola Eudeline s’inginocchiò per udire dalla bocca del re l’annuncio della propria fortuna.

«Sire, questa bambina vi benedirà finché avrà vita, vi ricorderà nelle sue preghiere…»

«È proprio quello che ho deciso per lei», rispose Luigi. «Che preghi. Si farà monaca nel convento di Saint-Marcel che è riservato alle fanciulle nubili; là si troverà meglio che da qualsiasi altra parte.»

Lo stupore si dipinse sui lineamenti di Eudeline madre.«È questo, dunque, sire, che volete per lei? Chiuderla in un chiostro?»«Perché? Non è un’ottima soluzione?» esclamò il re. «E poi bisogna che sia

così. Non può restare in circolazione. È bene, per la nostra salvezza e per la sua, che riscatti con una vita dedicata a Dio la colpa della sua nascita. Quanto a te…»

«Monsignor Luigi, non vorrete chiudere anche me in convento?» domandò Eudeline, spaventata.

Quanto era cambiato in così poco tempo, il re! Non riconosceva più in quel sovrano che impartiva ordini perentori né l’adolescente inquieto al quale aveva insegnato ad amare né il povero principe che tremava di freddo, d’impotenza e di angoscia e che lei aveva riscaldato tra le braccia una sera dell’inverno passato. Solo gli occhi conservavano la stessa espressione sfuggente.

«Ti darò l’incarico di sovrintendere alla biancheria e al mobilio a Vincennes, perché tutto sia pronto ogni volta che verrò.»

Eudeline scosse la testa. L’allontanamento da palazzo, la destinazione a una residenza secondaria li viveva come un’offesa. Non era soddisfatto del suo lavoro? In un certo senso, avrebbe accettato più di buon grado di finire in convento: il suo orgoglio sarebbe stato meno ferito.

«Sono serva vostra e obbedirò», disse fredda.Fece rialzare la figlia e le prese la mano.

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Già sulla porta, vide il ritratto di Clemenza di Ungheria posato su una credenza e chiese: «È lei?»

«È la futura regina di Francia», rispose Luigi non senza alterigia.«Siate felice, sire», si congedò Eudeline uscendo.Non lo amava più.Certo, certo che sarò felice, si ripeteva il re andando su e giù per la stanza nella

quale penetravano i raggi del sole.Per la prima volta da quando era salito al trono, si sentiva completamente

soddisfatto e sicuro di sé. Si era sbarazzato della moglie infedele, del troppo potente ministro di suo padre; aveva allontanato da Parigi la sua prima amante e spedito in convento la figlia illegittima12.

Ripuliti per bene tutti i camini, poteva accogliere tranquillamente la bella principessa napoletana, e già si vedeva vivere al suo fianco un lungo regno di gloria.

Suonò per chiamare il ciambellano di servizio.«Ho fatto mandare a chiamare messer de Bouville. È arrivato?»«Sì, sire; attende i vostri ordini.»In quel momento i muri del palazzo vibrarono a un colpo sordo.«Cos’è stato?» chiese il re.«La statua, penso, sire… la statua che è caduta.»«Bene… fate entrare Bouville.»E si accinse a ricevere l’ex gran ciambellano.Nella Galerie Mercière, la statua di Enguerrand era rovinata al suolo. Le corde

erano scivolate via un po’ troppo in fretta e i venti quintali di pietra avevano toccato terra brutalmente. I piedi si erano rotti.

Tra i curiosi della prima fila, Spinello Tolomei e suo nipote Guccio Baglioni contemplavano il colosso abbattuto.

«Chi l’avrebbe mai detto, che avrei potuto assistere a una cosa simile…» mormorava il capitano dei lombardi.

Non ostentava, come monsignor di Valois alla finestra, un trionfo autocelebrativo; ma la sua gioia non era venata di malinconia. Provava una soddisfazione semplice e senza sfumature. Troppe volte, sotto Marigny, i banchieri italiani avevano tremato per i loro beni e addirittura per le loro vite! Messer Tolomei, un occhio semichiuso, respirava aria di libertà.

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«Quell’uomo non era certo un nostro alleato», disse. «I baroni si attribuiscono il merito di averlo abbattuto; ma noi abbiamo avuto buona parte in quest’impresa. E tu, Guccio, mi hai dato un validissimo aiuto. Voglio ricompensarti, renderti più partecipe ai nostri affari. Che cosa desideri?»

Si erano messi a camminare tra le bancarelle. Guccio abbassò il naso magro e le ciglia scure.

«Zio Spinello, vorrei occuparmi della filiale di Neauphle.»«Come!» esclamò Tolomei, sbalordito. «Tutte qui, le tue ambizioni? Una filiale

di campagna con tre impiegati peraltro più che sufficienti al poco lavoro che c’è? Hai sogni ben modesti!»

«A me la filiale piace», rispose Guccio, «e sono sicuro che potrei ingrandirla…»

«Io invece sono sicuro», replicò Tolomei, «che è l’amore, non la filiale ad attirarti… La signorina di Cressay, eh? Ho dato un’occhiata ai conti. Non soltanto i Cressay ci devono sempre dei soldi, ma in più li manteniamo, anche.»

Guccio guardò lo zio e vide che stava sorridendo.«È bella come nessun’altra, zio, e nobile, per giunta.»«Ah!» sospirò il banchiere, alzando una mano. «Una ragazza nobile! Ti troverai

in un mare di guai. La nobiltà è dispostissima ad accettare il nostro denaro, ma non a mescolare il suo sangue con il nostro. La famiglia è d’accordo?»

«Ma sì, zio, sono sicuro. I fratelli de Cressay mi trattano in tutto e per tutto da pari a pari.»

Trascinata da cavalli da tiro, la statua di Marigny lasciava la Galerie Mercière. I muratori avvolsero le loro corde e la folla si disperse.

«Marie mi ama quanto l’amo io», continuò Guccio, «e pretendere di farci vivere separati vuol dire farci morire! Con i guadagni che spero di ricavare dalla filiale di Neauphle, potrei sistemare il castello, che è bello, credetemi, e merita che ci si investa qualcosa. Così verrete a vivere in un nobile maniero, zio, come un vero signore!»

«Mah, sai, a me non piace la campagna», disse Tolomei. «Le rare volte che mi capita di aver da fare a Grenelle o a Vaugirard, mi sembra di stare in capo al mondo e d’esser vecchio di cent’anni… Avrei preferito per te un altro matrimonio, con una figlia dei nostri cugini Bardi…»

S’interruppe un momento.«Ma non è un bel modo di voler bene ai nostri cari costringerli a fare per forza

quel che noi reputiamo sia vantaggioso per loro. Va’ pure, figliolo, va’ pure a Neauphle. E sposa chi vuoi. I senesi sono uomini liberi e dev’essere il cuore a

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dettare la scelta di una moglie. E porta la tua bella a Parigi appena puoi: sarà la benvenuta sotto il mio tetto.»

«Oh, grazie, zio Spinello!» esclamò Guccio saltandogli al collo.Il conte di Bouville, uscendo da palazzo, passava proprio allora per la galleria.

L’omone avanzava con passo deciso, come sempre quando il re si degnava di impartirgli un ordine.

«Ah! Guccio, amico mio!» esclamò, scorgendo i due italiani. «Che fortuna incontrarvi qui! Avrei dovuto mandare uno scudiero a cercarvi, altrimenti.»

«In che cosa posso esservi utile, messer Ugo?» chiese il giovanotto. «Mio zio e io siamo a vostra disposizione.»

Bouville sorrideva a Guccio con amicizia sincera.«Una buona notizia: sì, una buonissima notizia. Ho raccontato al re tutto quel

che avete fatto, come mi siete stato utile…»Guccio s’inchinò in segno di gratitudine.«Allora, Guccio, amico mio, si riparte per Napoli!»

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REPERTORIO BIOGRAFICO

ANGIÒ (san Luigi d’) (1275-1299).Secondo figlio di Carlo II d’Angiò detto lo Zoppo, re di Sicilia, e di Maria

d’Ungheria. Rinunciò al trono di Napoli per darsi alla vita religiosa. Vescovo di Tolosa. Canonizzato sotto Giovanni XXII nel 1317.

ANGIÒ - SICILIA (Margherita d’), contessa di Valois (1270 circa-31 dicembre 1299).

Figlia di Carlo II d’Angiò detto lo Zoppo e di Maria d’Ungheria. Prima moglie di Carlo di Valois e madre del futuro Filippo VI re di Francia.

ARTOIS (Mahaut, contessa di Borgogna e poi d’) (?-27 novembre 1329).Figlia di Roberto II d’Artois, sposò nel 1291 il conte palatino di Borgogna

Ottone IV (morto nel 1303). Contessa-pari d’Artois per volere reale (1309). Madre di Giovanna di Borgogna, moglie di Filippo di Poitiers, futuro Filippo V, e di Bianca di Borgogna, moglie di Carlo di Francia, futuro Carlo IV.

ARTOIS (Roberto III d’) (1287-1342).Figlio di Filippo d’Artois e nipote di Roberto II d’Artois. Conte di Beaumont-

le-Roger e signore di Conches (1309). Sposò nel 1318 Giovanna di Valois, figlia di Carlo di Valois e di Caterina di Courtenay. Pari del regno per la contea di Beaumont-le-Roger (1328). Esiliato dal regno nel 1332, si rifugiò alla corte di Edoardo III d’Inghilterra. Ferito mortalmente a Vannes, fu seppellito nella cattedrale londinese di San Paolo.

ASNIÈRES (Jean d’).Avvocato al parlamento di Parigi. Pronunciò l’atto d’accusa contro Enguerrand

de Marigny.

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AUCH (Arnaud d’) (?-1320).Vescovo di Poitiers (1306). Nominato cardinale vescovo di Albano da Clemente

V nel 1312. Legato papale a Parigi nel 1314. Cameriere del papa fino al 1319. Morto ad Avignone.

AUNAY (Gautier d’) (?-1314).Figlio maggiore di Gautier d’Aunay, signore di Moucy-le-Neuf, Mesnil e Grand

Moulin. Baccelliere del conte di Poitiers, secondogenito di Filippo il Bello. Riconosciuto colpevole d’adulterio (affare della torre di Nesle) con Bianca di Borgogna, fu giustiziato a Pontoise. Era sposato con Agnès di Montmorency.

AUNAY (Philippe d’) (?-1314).Fratello minore di Gautier d’Aunay. Amante di Margherita di Borgogna, moglie

di Luigi di Navarra detto l’Attaccabrighe. Giustiziato con il fratello a Pontoise.

BAGLIONI (Guccio) (1295 circa -1340).Banchiere senese imparentato con la famiglia Tolomei. Nel 1315 gestiva una

filiale a Neauphle-le-Vicux. Sposò in segreto Marie de Cressay. Suo figlio Giannino (1316) fu scambiato appena venuto alla luce con Giovanni I il Postumo. Morto in Campania.

BERSUMÉE (Robert).Comandante della fortezza di Château-Gaillard, fu carceriere di Margherita e di

Bianca di Borgogna. Venne sostituito, dopo il 1316, da Jean de Croisy e poi da André Thiart.

BOCCACCIO DI CHELINO

Banchiere fiorentino della compagnia dei Bardi. Da un’amante francese ebbe un figlio adulterino (1313), il famoso Boccaccio, autore del Decamerone.

BORBONE (Luigi, signore, poi duca di) (1280 circa-1342).Primogenito di Roberto, conte di Clermont (1256-1342) e di Beatrice di

Borgogna, figlia di Giovanni, signore di Borbone. Nipote di san Luigi. Gran camerario di Francia dal 1312. Duca e pari nel settembre 1327.

BORGOGNA (Agnese di Francia, duchessa di) (1268 circa-1325 circa). Ultima degli

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undici figli di san Luigi. Sposata nel 1273 a Roberto III di Borgogna. Madre di Ugo V e di Eude IV, duchi di Borgogna; di Margherita, moglie di Luigi X l’Attaccabrighe, re di Navarra e poi di Francia; e di Giovanna detta la Zoppa, moglie di Filippo VI di Valois.

BORGOGNA (Bianca di) (1296 circa-1326).Figlia minore di Ottone IV, conte palatino di Borgogna, e di Mahaut d’Artois.

Sposa nel 1307 di Carlo di Francia, terzogenito di Filippo il Bello. Riconosciuta colpevole di adulterio (1314) insieme con Margherita di Borgogna, fu rinchiusa a Château-Gaillard, poi nel maniero di Gournay, nei pressi di Coutances. Dopo l’annullamento del matrimonio prese il velo nell’abbazia di Maubuisson.

BOURDENAI (Michel de).Cancelliere e consigliere di Filippo il Bello. Fu imprigionato e si vide privare

dei suoi beni sotto Luigi X, ma riebbe averi e cariche sotto Filippo V.

BOUVILLE (Ugo III, conte di) (? - 1331).Figlio di Ugo II di Bouville e di Maria di Chambly. Ciambellano di Filippo il

Bello. Sposò nel 1293 Marguerite des Barres dalla quale ebbe Carlo, in seguito ciambellano di Carlo V e governatore del Delfinato.

BRIANÇON (Geoffroy de).Consigliere di Filippo il Bello e suo tesoriere. Fu imprigionato con Marigny

sotto il regno di Luigi X. Sotto Filippo V fu reintegrato nelle sue cariche e gli furono restituiti i suoi beni.

CAETANI (Francesco) (? - marzo 1317).Nipote di Bonifacio VIII e da lui fatto cardinale nel 1295. Coinvolto in un

affare di stregoneria ai danni del re di Francia (1316). Morto ad Avignone.

CARLO DI FRANCIA, poi Carlo IV, re di Francia (1294-1° febbraio 1328).Terzogenito di Filippo il Bello e di Giovanna di Champagne. Conte con

appannaggio delle Marche (1315). Successe al fratello Filippo V con il nome di Carlo IV (1322). Sposò successivamente Bianca di Borgogna nel 1307, Maria di Lussemburgo nel 1322 e Giovanna d’Evreux nel 1325. Morì a Vincennes senza lasciare eredi maschi, ultimo sovrano della discendenza capetingia in linea diretta.

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CARLO MARTELLO, re titolare d’Ungheria (1273 circa-1296).Primogenito di Carlo II d’Angiò detto lo Zoppo, re di Sicilia, e di Maria

d’Ungheria. Nipote di Ladislao IV, re d’Ungheria, e pretendente alla sua successione. Re titolare d’Ungheria dal 1291 fino alla morte. Padre di Clemenza d’Ungheria, seconda moglie di Luigi X, re di Francia.

CARLO ROBERTO detto CAROBERTO, re d’Ungheria (1290 circa-1342).Figlio di Carlo Martello e di Clemenza d'Asburgo. Fratello di Clemenza

d’Ungheria. Pretendente al trono d’Ungheria alla morte del padre (1296), fu riconosciuto re solo nel 1310.

CHAMBLY (Egidius de) (?-gennaio 1326).Detto anche Egidius de Pontoise. Cinquantesimo abate di Saint-Denis.

CHÂTILLON (Gaucher V di) conte di Porcien (1250 circa-1329).Connestabile della Champagne (1284), poi di Francia dopo Courtrai (1302).

Figlio di Gaucher IV e d’Isabeau de Villhardouin, detta di Lizines. Fu l’artefice della vittoria di Mons-en-Pélève. Fece incoronare re di Navarra Luigi l’Attaccabrighe a Pampelune (1307). Fu poi esecutore testamentario di Luigi X, Filippo V e Carlo IV. Partecipò alla battaglia di Cassel (1328) e morì l’anno seguente dopo esser stato, connestabile di Francia sotto cinque re. Aveva sposato Isabelle de Dreux, Mélisinde de Vergy e infine Isabeau de Rumigny.

CHÂTILLON (Guy V di) conte di Saint-Pol (?-6 aprile 1317).Secondo figlio di Guy IV e di Mahaut di Brabante, vedova di Roberto I

d’Artois. Gran coppiere di Francia dal 1296 alla morte. Sposò nel 1292 Maria di Bretagna, figlia del duca Giovanni II e di Beatrice d’Inghilterra, da cui ebbe cinque figli. La maggiore delle figlie, Mahaut, fu la terza moglie di Carlo di Valois.

CHÂTILLON-SAINT-POL (Mahaut di), contessa di Valois (1293 circa- 1358).Figlia di Guy di Châtillon, gran coppiere di Francia, e di Maria di Bretagna.

Terza moglie di Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello.

CLEMENTE V (Bertrand de Got o Goth), papa (?-20 aprile 1314).Nato a Villandraut (Gironde). Figlio del cavaliere Àrnaud-Garsias de Got.

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Arcivescovo di Bordeaux (1300). Eletto papa (1305) dopo la morte di Benedetto XI. Incoronato a Lione. Fu il primo papa avignonese.

CLEMENZA DI UNGHERIA, regina di Francia (1293 circa-12 ottobre 1328).Figlia di Carlo Martello d’Angiò, re titolare d’Ungheria, e di Clemenza

d’Absburgo. Nipote di Carlo di Valois tramite la prima moglie Margherita d’Angiò-Sicilia. Sorella di Carlo Roberto o Caroberto, re d’Ungheria, e di Beatrice, moglie del delfino Giovanni II. Sposò Luigi X l’Attaccabrighe, re di Francia e Navarra, il 13 agosto 1315, e fu incoronata con lui a Reims. Vedova nel giugno seguente, mise al mondo un figlio, Giovanni I, in novembre. Morì al Tempio.

COLONNA (Giacomo) (?-1318).Membro della celebre famiglia romana dei Colonna. Creato cardinale nel 1278

da Niccolò III. Principale consigliere alla corte romana sotto Niccolò IV. Scomunicato da Bonifacio VIII nel 1297 e reintegrato nella dignità cardinalizia nel 1306.

COLONNA (Pietro).Nipote del cardinale Giacomo Colonna, fu fatto cardinale nel 1288 da Niccolò

IV. Scomunicato da Bonifacio VIII nel 1297, come lo zio, fu reintegrato nel suo ufficio nel 1306.

COURTENAY (Caterina di), contessa di Valois, imperatrice titolare di Costantinopoli (?-1307).

Seconda moglie di Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello. Nipote ed erede di Baldovino, ultimo imperatore latino di Costantinopoli (1261). Alla sua morte, i diritti ereditari passarono alla figlia maggiore, Caterina di Valois, moglie di Filippo d’Angiò, principe d’Acaia e di Taranto.

CRESSAY (madama Eliabel de).Castellana di Cressay, vicino a Neauphle-le-Vieux, nella prevostura di Montfort-

l’Amaury. Vedova del cavaliere Jean de Cressay. Madre di Jean, Pierre e Marie de Cressay.

CRESSAY (Jean de) e Cressay (Pierre de).Fratelli di Marie, entrambi armati cavalieri da Filippo VI di Valois all’epoca della

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battaglia di Crécy (1346).

CRESSAY (Marie de) (1298 circa-1345).Figlia di Eliabel e del cavaliere Jean de Cressay. Sposata in segreto con Guccio

Baglioni e madre (1316) d’un bambino scambiato in fasce con Giovanni I il Postumo, di cui era nutrice. Fu seppellita nel convento agostiniano vicino a Cressay.

DUBOIS (Guillaume).Cancelliere e tesoriere di Filippo il Bello. Imprigionato sotto Luigi X, ma

reintegrato nei suoi averi e nelle sue cariche da Filippo V.Duèze (Jacques) vedere Giovanni XXII, papa.

EDOARDO II PLANTAGENETO, re d’Inghilterra (1284-21 settembre 1327).Nato a Carnarvon. Figlio di Edoardo I e di Eleonora di Castiglia. Primo

principe di Galles. Duca d’Aquitania e conte di Ponthieu (1303). Armato cavaliere a Westminster (1306). Re nel 1307. Sposa a Boulogne-sur-Mer il 22 gennaio 1308 Isabella di Francia, figlia di Filippo il Bello. Incoronato a Westminster il 25 febbraio 1308. Detronizzato (1326) da una rivolta baronale guidata dalla moglie, fu imprigionato e morì assassinato nel castello di Berkeley.

EUDELINE, figlia naturale di Luigi X (1305 circa-?) Religiosa al convento di Saint-Marcel, poi abbadessa delle clarisse.

EVREUX (Luigi di Francia, conte di) (1276-1319).Figlio di Filippo III l’Ardito e di Maria di Brabante. Fratellastro di Filippo il

Bello e di Carlo di Valois. Conte di Evreux (1298). Sposò Margherita d’Artois, sorella di Roberto III d’Angiò, dalla quale ebbe Giovanna, terza moglie di Carlo IV il Bello, e Filippo, marito di Giovanna, regina di Navarra.

FILIPPO IV detto il Bello, re di Francia (1268-29 novembre 1314).Nato a Fontainebleau. Figlio di Filippo III l’Ardito e di Isabella d’Aragona.

Sposò nel 1284 Giovanna di Champagne, regina di Navarra. Padre dei re Luigi X, Filippo V e Carlo IV e di Isabella di Francia regina d’Inghilterra. Acclamato re a Perpignano (1285) e incoronato a Reims (6 febbraio 1286). Morto a Fontainebleau e sepolto nella chiesa abbaziale di Saint-Denis.

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FILIPPO, conte di Poitiers, poi Filippo V detto il Lungo, re di Francia (1291-gennaio 1322).

Figlio di Filippo IV il Bello e di Giovanna di Champagne. Fratello dei re Luigi X, e Carlo IV e di Isabella d’Inghilterra. Conte palatino di Borgogna, signore di Salins per il suo matrimonio (1307) con Giovanna di Borgogna. Conte con appannaggio di Poitiers (1311). Pari di Francia (1315). Reggente alla morte di Luigi X, poi re alla morte del figlio postumo di quest’ultimo (novembre 1316). Morto a Longchamp senza lasciare eredi maschi. Seppellito a Saint-Denis.

FILIPPO conte di Valois, poi Filippo VI, re di Francia (1293-22 agosto 1350).Primogenito di Carlo di Valois e della prima moglie Margherita di Angiò-

Sicilia. Nipote di Filippo IV il Bello e primo cugino di Luigi X, Filippo V e Carlo IV. Divenne reggente alla morte di Carlo IV il Bello, poi re alla nascita della di lui figlia postuma (aprile 1328).Consacrato a Reims il 29 maggio 1328. La sua ascesa al trono, contestata dall’Inghilterra, fu l’origine della seconda Guerra dei Cent’Anni. Sposò in prime nozze (1313) Giovanna di Borgogna, detta la Zoppa, sorella di Margherita, che morì nel 1348; in seconde nozze (1349) Bianca di Navarra, nipote di Luigi X e di Margherita.

GIOVANNA DI BORGOGNA, contessa di Poitiers, poi regina di Francia (1293 circa-21 gennaio 1330).

Figlia maggiore di Ottone IV, conte palatino di Borgogna, e di Mahaut d’Artois. Sorella di Bianca, moglie di Carlo di Francia, futuro Carlo IV. Sposa nel 1307 Filippo di Poitiers, secondogenito di Filippo il Bello. Riconosciuta colpevole di complicità nell’adulterio della sorella e della cognata (1314) fu rinchiusa a Dourdan e poi liberata nel 1315. Madre di tre figlie, Giovanna, Margherita e Isabella, mogli rispettivamente del duca di Borgogna, del conte di Francia e del delfino dì Viennois.

Giovanna di Francia, regina di Navarra (1311 circa-8 ottobre 1349).Figlia di Luigi di Navarra, futuro Luigi X l’Attaccabrighe, e di Margherita di

Borgogna. Presunta bastarda. Esclusa dalla successione al trono di Francia, ereditò la Navarra. Moglie di Filippo, conte d’Evreux. Madre di Carlo il Malvagio re di Navarra e di Bianca, seconda moglie di Filippo VI di Valois.

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GIOVANNI XXII (Jacques Duèze) papa (1244-dicembre 1334).Figlio di un borghese di Cahors. Studiò a Cahors e Montpellier. Arciprete di

Saint-André di Cahors. Canonico di Saint-Front de Perigueux e d’Albi. Arciprete di Sarlat. Nel 1289 si recò a Napoli dove divenne presto intimo di re Carlo d’Angiò, che prima gli affidò le segreterie dei consigli segreti e poi lo nominò suo cancelliere. Vescovo di Frejus (1300) poi d’Avignone (1310). Segretario del concilio di Vienne (1311). Cardinale vescovo di Porto (1312). Divenne papa nell’agosto del 1316 e prese il nome di Giovanni XXII. Fu incoronato a Lione in settembre. Morì ad Avignone.

GOT O GOTH (Bertrand de).Visconte di Lomagne e d’Auvillars. Marchese d’Ancona. Nipote e omonimo di

papa Clemente V. Intervenne a più riprese al conclave del 1314-1316.

HIRSON O HIREÇON (Béatrice d’).Nipote del seguente. Dama al seguito della contessa Mahaut.

HIRSON O HIREÇON (Thierry Larchier d’) 1270 circa-17 novembre 1328). Dapprima al seguito di Roberto II d’Artois, accompagnò Nogaret ad Anagni e Filippo il Bello gli affidò numerose missioni. Canonico di Arras (1299). Cancelliere di Mahaut d’Artois (1303). Vescovo di Arras (aprile 1328).

ISABELLA DI FRANCIA, regina d’Inghilterra (1292-23 agosto 1358).Figlia di Filippo IV e di Giovanna di Champagne. Sorella del re Luigi X,

Filippo V e Carlo IV. Sposò Edoardo II d’Inghilterra (1308). Prese la guida (1325) con Roger Mortimer della rivolta dei baroni inglesi che portò alla deposizione del marito. Soprannominata «la lupa di Francia», governò dal 1326 al 1328 in nome del figlio Edoardo III. Allontanata da corte (1330). Morì nel castello di Hertford.

JOINVILLE (Jean sire de) (1224-24 dicembre 1317).Siniscalco ereditario di Champagne, seguì Luigi IX alla VII crociata e con lui

fu fatto prigioniero. A ottant’anni scrisse una Histoire de Saint Louis che lo fa annoverare tra i grandi cronisti medievali.

LATILLE (Pierre de) (?-15 marzo 1328).Vescovo di Châlons (1313). Membro della Camera dei Conti. Guardasigilli reale

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alla morte del Nogaret. Imprigionato da Luigi X (1315) e liberato da Filippo V (1317), tornò al vescovado di Châlons.

LE LOQUETIER (Nicole).Cancelliere e consigliere di Filippo il Bello. Incarcerato da Luigi X, fu

reintegrato nelle sue cariche e riebbe i suoi beni da Filippo V.

LUIGI X detto l’Attaccabrighe, re di Francia e Navarra (ottobre 1289-5 giugno 1316).

Figlio di Filippo IV il Bello e di Giovanna di Champagne. Fratello del re Filippo V e Carlo IV e di Isabella, regina d’Inghilterra. Re di Navarra (1307). Re di Francia (1314). Sposò (1305) Margherita di Borgogna, dalla quale ebbe una figlia, Giovanna, nata verso il 1311. Dopo lo scandalo della torre di Nesle e la morte di Margherita si risposò (agosto 1315) con Clemenza d’Ungheria. Incoronato a Reims (agosto 1315). Morto a Vincennes. Suo figlio Giovanni I il Postumo nacque cinque mesi dopo (novembre 1316).

MARGHERITA DI BORGOGNA, regina di Navarra (1293 circa-1315).Figlia di Roberto II, duca di Borgogna, e di Agnese di Francia. Sposò nel 1305

Luigi re di Navarra, primogenito di Filippo il Bello, futuro Luigi X, dal quale ebbe una figlia, Giovanna. Riconosciuta colpevole di adulterio (affare della torre di Nesle, 1314) fu rinchiusa a Château-Gaillard dove morì assassinata.

MARIA D’UNGHERIA, regina di Napoli (1245 circa-1325).Figlia dì Stefano d’Ungheria, sorella ed erede di Ladislao IV d’Ungheria. Sposò

Carlo II d’Angiò, detto lo Zoppo, re di Napoli e di Sicilia, da cui ebbe tredici figli.

MARIGNY (Enguerrand Le Portier de) (1265 circa-30 aprile 1315).Nato a Lyons-la-Fóret. Sposò in prime nozze Jeanne de Saint-Martin, in

seconde Alips de Mons. Prima scudiero del conte di Bouville, fu poi accanto alla regina Giovanna, moglie di Filippo il Bello, e successivamente al castello d’Issoudun (1298). Ciambellano (1304), fatto cavaliere e conte di Longueville, intendente alle finanze e all’edilizia, sovrintendente del Louvre, nel primo periodo di regno di Filippo il Bello ne fu il più autorevole consigliere. Dopo la morte del re fu accusato di aver sottratto del denaro, condannato e impiccato a Montfaucon. Riabilitato nel 1317 da Filippo V e seppellito nella chiesa dei Certosini, fu poi

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traslato alla collegiata d’Écouis da lui fondata.

MARIGNY (Jean o Philippe o Guillaume de) (?-1325).Fratello minore del precedente. Segretario del re (1301). Arcivescovo di Sens

(1309). Fu membro del tribunale che condannò il fratello Enguerrand. Un terzo fratello Marigny, anch’egli di nome Jean, conte vescovo di Beauvais dal 1312, sedeva tra gli stessi giudici e conservò la carica fino al 1350.

MARIGNY (Louis de) signore di Mainneville e Boisroger.Primogenito di Enguerrand de Marigny. Sposò nel 1.309 Roberte de Beaumetz.

MERCOEUR (Béraud de).Signore di Gévaudan. Ambasciatore di Filippo il Bello presso papa Benedetto

XI nel 1304. Si inimicò il re che ordinò un’inchiesta giudiziaria sulle sue proprietà (1309). Rientrato nel consiglio reale con l’avvento di Luigi X nel 1314, ne fu riallontanato nel 1318 da Filippo V.

MEUDON (Henriet de).Maestro di caccia di Luigi X nel 1313 e nel 1315. Ricevette parte dei beni di

Marigny dopo la morte di quest’ultimo.

MOLAY (Jacques de) (1244 circa-18 marzo 1314).Nato a Molay (Haute-Saône). Entrò dell’ordine dei Templari a Beaune (1265).

Fu in Terrasanta. Eletto gran maestro dell’ordine nel 1295. Arrestato nell’ottobre del 1307, fu condannato e salì al rogo a Parigi.

MORNAY (Etienne de) (?-31 agosto 1332).Nipote di Pierre de Mornay, vescovo di Orléans e Auxerre. Cancelliere di Carlo

di Valois, poi di Francia dal gennaio 1315. Allontanato dal governo sotto Filippo V, entrò al parlamento sotto Carlo IV.

NEVERS (Luigi di) (?-1322).Figlio di Roberto di Béthune, conte di Fiandra, e di Jolanda di Borgogna.

Conte di Nevers (1280). Conte di Rethel per il suo matrimonio con Jeanne de

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Rethel.

NOGARET (Guillaume de) (1265 circa-maggio 1314).Nato a Saint-Félix de Caraman, nella circoscrizione di Tolosa. Allievo di Pierre

Flotte e di Gilles Aycelin. Insegnò diritto a Montpellier (1291). Giudice reale del siniscalcato di Beaucaire (1295). Divenne celebre per il suo intervento nelle controversie tra la corona di Francia e la Santa Sede. Capeggiò la spedizione di Anagni contro Bonifacio VIII (1303). Guardasigilli dal settembre 1307 alla morte, istruì il processo contro i Templari.

ODERISI (Roberto).Pittore napoletano. Allievo di Giotto durante il di lui soggiorno a Napoli, subì

anche l’influenza di Simone Martini. Capo della scuola napoletana della seconda metà del XIV secolo. La sua opera più importante sono gli affreschi dell’incoronata di Napoli.

ORSINI (Napoleone) detto «degli Ursini» (?-1342).Fatto cardinale da Nicola IV nel 1288.

PAREILLES (Alain de).Capitano degli arcieri sotto Filippo il Bello.

PRESLES (Raoul I de) o De Prayeres (?-1331).Signore di Lizy-sur-Ourcq. Avvocato. Segretario di Filippo il Bello (1311).

Imprigionato alla morte di quest’ultimo, riabilitato verso la fine del regno di Luigi X. Al conclave di Lione del 1316. Insignito di titolo nobiliare da Filippo V, cavaliere al seguito del re e membro del consiglio. Fondò il collegio di Presles.

ROBERTO, re di Napoli (1278 circa-1344).Terzo figlio di Carlo II d’Angiò detto lo Zoppo e di Maria d’Ungheria. Duca

di Calabria nel 1296, principe di Salerno (1304). Vicario generale del regno di Sicilia (1296). Erede del regno di Napoli (1297). Re nel 1309. Incoronato ad Avignone da papa Clemente V. Principe erudito, poeta e astrologo, sposò in prime nozze Jolanda (o Violante) d’Aragona, morta nel 1302; e poi Sancia, figlia del re di Maiorca (1304).

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TOLOMEI (Spinello).Capo in Francia della compagnia senese dei Tolomei fondata nel XII secolo da

Tolomeo Tolomei e arricchitasi con rapidità grazie al commercio internazionale e al controllo delle miniere toscane d’argento. A Siena c’è tuttora il palazzo Tolomei.

TRYE (Mathieu de).Signore di Fontenay e di Plainville-en-Vexin. Gran dispensiere (1298) e poi

ciambellano di Luigi X l’Attaccabrighe, e gran ciambellano di Francia dal 1314.

VALOIS (Carlo di) (12 marzo 1270-dicembre 1325).Figlio di Filippo III l’Ardito e della prima moglie, Isabella d’Aragona. Fratello

di Filippo IV il Bello. Cavaliere a quattordici anni. Investito del regno d’Aragona per legato papale lo stesso anno, non poté mai prenderne possesso e rinunciò al titolo nel 1295. Conte con appannaggio d’Angiò, Maine e Perche (marzo 1290) dal suo primo matrimonio con Margherita d’Angiò-Sicilia. Imperatore titolare di Costantinopoli dal secondo matrimonio (gennaio 1301) con Caterina di Courtenay. Fu creato conte di Romagna dal papa Bonifacio VIII. Sposò in terze nozze Mahaut di Châtillon-Saint-Pol. Dai tre matrimoni ebbe numerosissimi figli; il maggiore fu Filippo VI, primo re della dinastia Valois. Condusse una campagna in Italia per conto del papa nel 1301, due in Aquitania (1297 e 1324) e fu pretendente all’impero di Germania. Morto a Nogent-le-Roi, fu seppellito nella chiesa dei Giacobini a Parigi.

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1La lega, antica unità di misura, corrisponde grosso modo a quattro chilometri odierni. (N.d.T.).2Il piede, antica misura di lunghezza, corrisponde all’incirca a m. 0,324. (N.d.T.).1All’inizio del XIV secolo, i tre principali funzionari della corona erano: il connestabile di Francia, capo supremo degli eserciti; il cancelliere di Francia che amministrava la giustizia, gli affari ecclesiastici e gli affari esteri; il maestro di palazzo di casa reale.

Il connestabile sedeva di diritto nel consiglio ristretto, aveva alloggio a corte e doveva seguire il re in tutti i suoi spostamenti. Riceveva in tempo di pace, oltre ai compensi in natura, venticinque soldi parisis al giorno e dieci lire nei giorni di festa. In tempo di guerra o semplicemente durante i viaggi del re, il suo compenso era raddoppiato. Inoltre, per ogni giorno di combattimento in cui il re cavalcava con l’esercito, il connestabile riceveva cento lire supplementari.

Tutto ciò che si trovava dentro le fortezze o i castelli conquistati al nemico apparteneva al connestabile, a eccezione dell’oro e dei prigionieri, che spettavano al re. Aveva diritto di scelta sui cavalli presi al nemico subito dopo il re. Se quest’ultimo non era presente al momento della presa di una fortezza, vi si issava la bandiera del connestabile. Sul campo di battaglia, lo stesso re non poteva decidere di caricare né di attaccare senza essersi consultato con il connestabile. Era sempre lui che assisteva obbligatoriamente alla consacrazione del sovrano, cerimonia in cui portava la spada dinanzi al re.

Sotto il regno di Filippo il Bello e dei suoi tre figli, come pure durante il primo anno di regno di Filippo VI di Valois, connestabile di Francia fu Gaucher de Châtillon, conte di Porcien, che sarebbe morto ottuagenario nel 1329.

Il cancelliere di Francia, assistito da un vicecancelliere e da notai che erano chierici della cappella reale, aveva l’incarico di redigere gli atti e di apporvi il sigillo del re di cui era custode, donde il titolo di guardasigilli.

Sedeva al consiglio ristretto e all’assemblea dei pari. Era il capo della magistratura, presiedeva tutte le commissioni giudiziarie e parlava in nome del re nei letti di giustizia.

Il cancelliere, per tradizione, era un ecclesiastico. Allorché, nel 1307, Filippo il Bello destituì il suo cancelliere, il vescovo di Narbonne, e creò guardasigilli Guillaume de Nogaret, costui, non essendo uomo di chiesa, non ricevette più il titolo di cancelliere, ma quello, creato apposta per lui, di «segretario generale del regno», mentre Marigny veniva nominato «coadiutore e rettore generale del regno».

Cancelliere di Luigi X fu, all’inizio del 1315, Etienne de Mornay, canonico di Auxerre e di Soissons, precedentemente cancelliere del conte di Valois.

Il maestro di palazzo, più tardi chiamato gran maestro di Francia, comandava tutto il personale nobile e plebeo al servizio del sovrano; aveva ai suoi ordini il tesoriere, che teneva i conti della casa reale e l’inventario dei mobili, del corredo e del guardaroba. Sedeva in consiglio.

Venivano poi, tra i più importanti funzionari della corona: il gran maestro dei balestrieri, che dipendeva dal connestabile, e il gran ciambellano.

Il gran ciambellano si occupava delle armi e del guardaroba del re. Doveva stargli accanto giorno e notte «quando non c’era la regina». Era il custode del sigillo

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segreto, riceveva omaggi in nome del re e faceva prestare giuramento di fedeltà. Organizzava le cerimonie nel corso delle quali il re armava nuovi cavalieri, amministrava la cassa privata, assisteva all’assemblea dei pari. Poiché era incaricato di aver cura del guardaroba reale, aveva giurisdizione su tutti i commercianti e i fabbricanti di articoli di abbigliamento e comandava un funzionario chiamato «il re dei merciai» che verificava pesi e misure, bilance e aune (un’auna era pari a circa m. 1,20 odierni).

Le altre cariche infine, sopravvivenza di funzioni ormai cadute in disuso, erano soltanto onorifiche anche se spesso davano accesso al consiglio del re; tali erano le cariche di gran camerario, gran coppiere e gran dispensiere, rette rispettivamente nell’epoca in esame da Luigi I di Borbone, dal conte di Châtillon-Saint-Pol e da Bouchard de Montmorency.

2Filippo il Bello aveva lasciato in legato per testamento il suo cuore, insieme con la grande croce d’oro dei Templari, al monastero dei domenicani di Poissy. Croce e cuore furono distrutti, la notte del 21 luglio 1695, in un incendio causato da un fulmine.

3Era d’ uso, durante il Medio Evo, tenere una lampada accesa vicino al letto, di notte. Questa pratica era destinata ad allontanare gli spiriti malvagi.

4Le lettere patenti che conferivano l’appannaggio delle Marche a Carlo di Francia e la parìa a Filippo di Poitiers furono emesse rispettivamente nel marzo e nell’agosto del 1315.

5La casa d’Angiò-Sicilia è così legata alla storia della monarchia francese del XIV secolo e interverrà così di frequente nel corso di questo racconto che ci sembra necessario fornire al lettore alcune precisazioni in merito.

Nel 1246 Carlo, conte con appannaggio di Valois e Maine, figlio di Luigi VIII e settimo fratello di san Luigi, aveva sposato la contessa Beatrice che gli portò, secondo l’espressione di Dante, «la gran dote di Provenza». Scelto dalla Santa Sede come difensore della chiesa in Italia, fu incoronato re di Sicilia in San Giovanni in Laterano nel 1265.

Questa fu l’origine del ramo della famiglia capetingia conosciuta con il nome di «d’Angiò-Sicilia», i possedimenti e le alleanze del quale presto si estesero su tutta l’Europa.

Il figlio di Carlo I d’Angiò, Carlo II detto lo Zoppo (1250-1309), re di Napoli, di Sicilia, di Gerusalemme, duca delle Puglie, principe di Salerno, di Capua e Taranto, sposò Maria, sorella ed erede di re Ladislao IV d’Ungheria.

Da questa unione nacquero:-- Margherita, prima moglie di Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello;-- Carlo Martello, re titolare d’Ungheria;-- Luigi d’Angiò, vescovo di Tolosa;-- Roberto, re di Napoli;-- Filippo, principe di Taranto;

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-- Raimondo Berengario, conte d’Andria;-- Giovanni Tristano, entrato in convento;-- Giovanni, duca di Durazzo;-- Pietro, conte di Eboli e Gravina;-- Maria, moglie di Sancio di Aragona, re di Maiorca;-- Bianca, maritata prima al marchese d’Este e poi al conte Bertrand de Baux;-- Eleonora, moglie di Federico d’Aragona.Il primogenito di Carlo lo Zoppo, Carlo Martello, sposato a Clemenza d’Absburgo

(ragione per la quale la regina Maria reclamava l’eredità d’Ungheria), morì nel 1296. Lasciò un figlio, Carlo Roberto detto Caroberto, che dopo quindici anni di lotta cinse la corona d’Ungheria, e due figlie, la prima delle quali, Beatrice, sposò il delfino di Viennois, Giovanni II, mentre la seconda, Clemenza, doveva diventare la seconda moglie di Luigi X di Francia.

Il secondo figlio di Carlo lo Zoppo, Luigi d’Angiò, rinunciò a tutti i suoi diritti di successione per darsi alla vita religiosa. Vescovo di Tolosa, morì al castello di Brignoles, in Provenza, all’età di ventitré anni. Sarebbe stato canonizzato nel 1317 sotto il pontificato di Giovanni XXII.

Alla morte di Carlo lo Zoppo, nel 1309, la corona di Napoli passò al terzo figlio, Roberto.

Il quarto figlio, Filippo, prìncipe di Taranto, diventò imperatore titolare di Costantinopoli grazie al matrimonio con Caterina di Valois-Courtenay, figlia di secondo letto di Carlo di Valois.

Incredibilmente feconda e attiva, la casata dei d’Angiò-Sicilia totalizzerà, prima di estinguersi, duecentonovantanove corone sovrane e dodici beatificazioni.

6I1 matrimonio tra Filippo di Valois e Giovanna di Borgogna, sorella di Margherita, detta Giovanna la Zoppa, era stato celebrato nel 1313.

7Nulla è più difficile da stabilire né offre più motivi di dibattito della comparazione dei valori della moneta attraverso i secoli. Sono così tante le variazioni, le svalutazioni e le misure governative più disparate che hanno influito sui corsi che gli specialisti non riescono a mettersi d’accordo. Non ci si può basare gran che sui prezzi delle derrate alimentari, anche di prima necessità, perché i prezzi variavano considerevolmente anche da un anno all’altro in proporzione al grado di abbondanza o di penuria dei prodotti, e anche a seconda delle tasse che lo stato imponeva su di essi. I periodi di carestia erano frequenti e i prezzi citati dai cronisti sono spesso prezzi di mercato nero, cosa che non permette di stabilire il potere di acquisto effettivo. Inoltre certi prodotti di uso corrente al giorno d’oggi erano poco diffusi nel Medio Evo e quindi di prezzo elevato. Al contrario, in ragione del basso costo della manodopera artigiana, i prodotti manifatturieri erano relativamente a buon mercato.

Il valore relativo dell’oro a peso potrebbe sembrare il riferimento migliore; sennonché anche ai giorni nostri l’oro viene mantenuto artificialmente a un prezzo di molto superiore al suo valore reale.

Abbiamo già qualche difficoltà a fare calcoli di equivalenza per esempio con il

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franco del 1914; come potremmo pretendere di dare un’esatta valutazione della lira del 1314?

Dopo aver confrontato diverse pubblicazioni specializzate proponiamo al lettore per comodità, e senza che egli ignori che il margine di errore può esser compreso tra la metà e il doppio, una equivalenza di cento franchi odierni per una lira dell’inizio del XIV secolo (circa ventimila lire italiane). Le spese del reame ai tempi di Filippo il Bello, salvo che negli anni di guerra, erano in media di cinquecentomila lire che grosso modo equivarrebbero a un budget di cinquanta milioni di nuovi franchi, o di cinque miliardi di vecchi.

I vecchi e nuovi franchi presenteranno d’altra parte pericolosi tranelli per gli storici futuri.

8Il giudizio del 1309, che intendeva regolare la successione d’Artois, aveva accordato a Roberto sull’eredità dei nonni soltanto la castellania di Conches, possedimento normanno portato agli Artois da Amicie de Courtenay, moglie di Roberto II. In compenso Mahaut era tenuta a versare a Roberto entro due anni un indennizzo di ventiquattromila lire; inoltre una rendita di cinquemila lire era assicurata a Roberto su diverse terre del dominio reale che, riunite alla castellania di Conches, avrebbero costituito la contea di Beaumont-le-Roger.

La creazione della contea fu procrastinata per molti anni, durante i quali Roberto riscosse solo una minima parte delle sue rendite. Doveva diventare realmente conte di Beaumont solo a partire dal 1319. Gli arretrati dovutigli gli furono versati soltanto sotto Filippo V nel 1321 e sotto Filippo VI, nel 1329, la contea fu proclamata parìa.

9I1 culto delle reliquie fu uno degli aspetti più rimarchevoli e stupefacenti della vita religiosa del Medio Evo. La fede nelle virtù dei resti sacri degenerò in culto superstizioso e universalmente diffuso; tutti volevano possedere grandi reliquie per tenersele in casa e piccole reliquie per portarsele al collo. Il possesso delle reliquie era commisurato alla ricchezza dei singoli. La vendita delle reliquie diventò un vero e proprio commercio, uno dei più redditizi durante il secolo XI, XII e XIII. Tutti ne facevano traffico. Gli abati, per aumentare le rendite dei loro conventi ovvero per attirarsi il favore dei grandi, cedevano frammenti d’ossa di santi di cui erano custodi. I mercanti ebrei avevano una sorta di rete internazionale per la vendita di reliquie e gli orefici incoraggiavano fortemente questo mercato perché si ordinavano loro cassette e reliquiari, che erano i più begli oggetti del tempo e che testimoniavano tanto dell’abbienza quanto della religiosità dei loro possessori.

Le reliquie più rinomate erano i pezzettini della santa Croce, i frammenti di legno della Mangiatoia, le spine della santa Corona (per quanto san Luigi avesse comperato, per la Sainte Chapelle, una santa Corona sedicente intatta), le frecce di san Sebastiano, e molte pietre, anche, pietre del Calvario, del santo Sepolcro, del Monte degli Ulivi. Si arrivò perfino a vendere gocce del latte della Vergine.

Allorché un contemporaneo era canonizzato, ci si affrettava a commerciarne le spoglie. Parecchi membri della famiglia reale possedevano, o erano convinti di possedere, frammenti di san Luigi. Nel 1319, il re Roberto di Napoli, assistendo a Marsiglia alla traslazione dei resti del fratello Luigi d’Angiò, da poco canonizzato,

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richiese la testa del santo per portarsela a Napoli.

10Non era ancora il famoso «palazzo dei Papi» che si conosce e si visita e che fu costruito soltanto nel secolo successivo. La prima residenza dei papi avignonesi fu il palazzo episcopale un poco ampliato.

3Il boisseau era un’antica misura per aridi, corrispondente a litri 12,5. (N.d.T.).4Il sestier era un’antica misura di capacità per aridi e liquidi. Si valuta corrispondesse a una quantità compresa tra i 150 e i 300 litri. (N.d.T.).

11Il patibolo di Montfaucon si trovava su di un poggio isolato, a sinistra dell’antica strada di Meaux, che corrisponde grosso modo all’attuale strada della Grange-aux-Belles.

Enguerrand de Marigny fu il secondo di una lunga serie di ministri, e in particolare di ministri delle Finanze, che terminarono la loro carriera a Montfaucon. Prima di lui vi era stato impiccato Pierre de la Brosse, tesoriere di Filippo III l’Ardito; dopo di lui, Pierre Rémy e Macci dei Macci, rispettivamente tesoriere e cambiavalute di Carlo IV il Bello, René de Siran, responsabile della Zecca di Filippo VI, Olivier le Daim, favorito di Luigi XI, Beaune de Samblançay, sovrintendente delle finanze di Carlo VIII, Luigi XII e Francesco I, subiranno la stessa sorte. Il patibolo cessò di essere utilizzato nel 1627.

12Questa Eudeline, figlia illegittima di Luigi X, e religiosa al convento delle clarisse di Saint Marcel a Parigi, sarebbe stata autorizzata, con una bolla di papa Giovanni XXII del 10 agosto 1330, a diventare, nonostante la sua nascita irregolare, badessa di Saint Marcel ovvero di ogni altro monastero di clarisse.