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MATERIALI LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI ANNO ACCADEMICO 2012/2013 NARRATIVA

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MATERIALI LABORATORIO DI

LETTERATURA ITALIANA

PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI ANNO ACCADEMICO 2012/2013

NARRATIVA

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MATERIALI LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI ANNO ACCADEMICO 2012/2013

DINO BUZZATI IL COLOMBRE (su rivista 1961) In Il Colombre, Mondadori, 1966 (qui Mondadori 1991).

Quando Stefano Roí compí i dodici anni, chiese in regalo a suo padre, capitano

di mare e padrone di un bel veliero, che lo portasse con sé a bordo.

«Quando sarò grande» disse «voglio andar per mare come te. E comanderò

delle navi ancora più belle e grandi della tua. »

« Che Dio ti benedica, figliolo » rispose il padre. E siccome proprio quel giorno il

suo bastimento doveva partire, portò il ragazzo con sé.

Era una giornata splendida di sole; e il mare tranquillo. Stefano, che non era mai

stato sulla nave, girava felice in coperta, ammirando le complicate manovre delle

vele. E chiedeva di questo e di quello ai marinai che, sorridendo, gli davano tutte le

spiegazioni.

Come fu giunto a poppa, il ragazzo si fermò, incuriosito, a osservare una cosa

che spuntava a intermittenza in superficie, a distanza di due-trecento metri, in

corrispondenza della scia della nave. Benché il bastimento già volasse, portato da un

magnifico vento al giardinetto, quella cosa manteneva sempre la distanza. E, sebbene

egli non ne comprendesse la natura, aveva qualcosa di indefinibile, che lo attraeva

intensamente. Il padre, non vedendo Stefano più in giro, dopo averlo chiamato a

gran voce invano, scese dalla plancia e andò a cercarlo.

« Stefano, che cosa fai lì impalato? » gli chiese scorgendolo infine a poppa, in

piedi, che fissava le onde.

« Papà, vieni qui a vedere. »

Il padre venne e guardò anche lui, nella direzione indicata dal ragazzo, ma non

riuscì a vedere niente.

« C'è una cosa scura che spunta ogni tanto dalla scia » disse « e che ci viene

dietro. »

« Nonostante i miei quarant'anni » disse il padre « credo di avere ancora una

vista buona. Ma non vedo assolutamente niente. »

Poiché il figlio insisteva, andò a prendere il cannocchiale e scrutò la superficie

Dino Buzzati IL COLOMBRE

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del mare, in corrispondenza della scia. Stefano lo vide impallidire.

« Cos'è? Perché fai quella faccia? »

« Oh, non ti avessi ascoltato » esclamò il capitano. « Io adesso temo per te.

Quella cosa che tu vedi spuntare dalle acque e che ci segue, non è una cosa. Quello è

un colombre. È il pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni mare del mondo. È

uno squalo tremendo e misterioso, più astuto dell'uomo. Per motivi che forse

nessuno saprà mai, sceglie la sua vittima, e quando l'ha scelta la insegue per anni e

anni, per una intera vita, finché è riuscito a divorarla. E lo strano è questo: che

nessuno riesce a scorgerlo se non la vittima stessa e le persone del suo stesso

sangue. »« Non è una favola? »

«No. Io non l'avevo mai visto. Ma dalle descrizioni che ho sentito fare tante

volte, l'ho subito riconosciuto. Quel muso da bisonte, quella bocca che

continuamente si apre e chiude, quei denti terribili. Stefano, non c'è dubbio,

purtroppo, il colombre ha scelto te e finché tu andrai per mare non ti darà pace.

Ascoltami: ora noi torniamo subito a terra, tu sbarcherai e non ti staccherai mai più

dalla riva, per nessuna ragione al mondo. Me lo devi promettere. Il mestiere del mare

non è per te, figliolo. Devi rassegnarti. Del resto, anche a terra potrai fare fortuna.»

Ciò detto, fece immediatamente invertire la rotta, rientrò in porto e, col pretesto di

un improvviso malessere, sbarcò il figliolo.

Quindi ripartì senza di lui.

Profondamente turbato, il ragazzo restò sulla riva finché l'ultimo picco

dell'alberatura sprofondò dietro l'orizzonte. Di là dal molo che chiudeva il porto, il

mare restò completamente deserto. Ma, aguzzando gli sguardi, Stefano riuscì a

scorgere un puntino nero che affiorava a intermittenza dalle acque: il "suo"

colombre, che incrociava lentamente su e giù, ostinato ad aspettarlo.

Da allora il ragazzo con ogni espediente fu distolto dal desiderio del mare. Il

padre lo mandò a studiare in una città dell'interno, lontana centinaia di chilometri. E

per qualche tempo, distratto dal nuovo ambiente, Stefano non pensò più al mostro

marino. Tuttavia, per le vacanze estive, tornò a casa e per prima cosa. appena ebbe

un minuto libero, si affrettò a raggiungere l'estremità del molo, per una specie di

controllo, benché in fondo lo ritenesse superfluo. Dopo tanto tempo, il colombre,

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ammesso anche che tutta la storia narratagli dal padre fosse vera, aveva certo

rinunciato all'assedio.

Ma Stefano rimase là, attonito, col cuore che gli batteva. A distanza di due-

trecento metri dal molo, nell'aperto mare, il sinistro pesce andava su e giù,

lentamente, ogni tanto sollevando il muso dall'acqua e volgendolo a terra, quasi con

ansia guardasse se Stefano Roi finalmente veniva. Così, l'idea di quella creatura

nemica che lo aspettava giorno e notte divenne per Stefano una segreta ossessione.

E anche nella lontana città gli capitava di svegliarsi in piena notte con inquietudine.

Egli era al sicuro, sì, centinaia di chilometri lo separavano dal colombre. Eppure egli

sapeva che, di là dalle montagne, di là dai boschi, di là dalle pianure, lo squalo era ad

aspettarlo. E, si fosse egli trasferito pure nel più remoto continente, ancora il

colombre si sarebbe appostato nello specchio di mare più vicino, con l'inesorabile

ostinazione che hanno gli strumenti del fato.

Stefano, ch'era un ragazzo serio e volonteroso, continuò con profitto gli studi e,

appena fu uomo, trovò un impiego dignitoso e rimunerativo in un emporio di quella

città. Intanto il padre venne a morire per malattia, il suo magnifico veliero fu dalla

vedova venduto e il figlio si trovò ad essere erede di una discreta fortuna. Il lavoro, le

amicizie, gli svaghi, i primi amori: Stefano si era ormai fatto la sua vita, ciononostante

il pensiero del colombre lo assillava come un funesto e insieme affascinante

miraggio; e, passando i giorni, anziché svanire, sembrava farsi più insistente.

Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora

più grande è l'attrazione dell'abisso. Aveva appena ventidue anni Stefano, quando,

salutati gli amici della città e licenziatosi dall'impiego, tornò alla città natale e

comunicò alla mamma la ferma intenzione di seguire il mestiere paterno. La donna, a

cui Stefano non aveva mai fatto parola del misterioso squalo, accolse con gioia la sua

decisione.

L'avere il figlio abbandonato il mare per la città le era sempre sembrato, in cuor

suo, un tradimento alle tradizioni di famiglia.

E Stefano cominciò a navigare, dando prova di qualità marinare, di resistenza

alle fatiche, di animo intrepido. Navigava, navigava, e sulla scia del suo bastimento, di

giorno e di notte, con la bonaccia e con la tempesta, arrancava il colombre. Egli

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sapeva che quella era la sua maledizione e la sua condanna, ma proprio per questo,

forse, non trovava la forza di staccarsene. E nessuno a bordo scorgeva il mostro,

tranne lui.

« Non vedete niente da quella parte? » chiedeva di quando in quando ai

compagni, indicando la scia. « No, noi non vediamo proprio niente. Perché? » « Non

so. Mi pareva... »

« Non avrai mica visto per caso un colombre » facevano quelli, ridendo e

toccando ferro.

« Perché ridete? Perché toccate ferro? » « Perché il colombre è una bestia che

non perdona. E se si mettesse a seguire questa nave, vorrebbe dire che uno di noi è

perduto. »

Ma Stefano non mollava. La ininterrotta minaccia che lo incalzava pareva anzi

moltiplicare la sua volontà, la sua passione per il mare, il suo ardimento nelle ore di

lotta e di pericolo.

Con la piccola sostanza lasciatagli dal padre, come egli si sentì padrone del

mestiere, acquistò con un socio un piccolo piroscafo da carico, quindi ne divenne il

solo proprietario e, grazie a una serie di fortunate spedizioni, poté in seguito

acquistare un mercantile sul serio, avviandosi a traguardi sempre più ambiziosi. Ma i

successi, e i milioni, non servivano a togliergli dall'animo quel continuo assillo; né

mai, d'altra parte, egli fu tentato di vendere la nave e di ritirarsi a terra per

intraprendere diverse imprese.

Navigare, navigare, era il suo unico pensiero. Non appena, dopo lunghi tragitti,

metteva piede a terra in qualche porto, subito lo pungeva l'impazienza di ripartire.

Sapeva che fuori c'era il colombre ad aspettarlo, e che il colombre era sinonimo di

rovina. Niente.

Un indomabile impulso lo traeva senza requie, da un oceano all'altro. Finché,

all'improvviso, Stefano un giorno si accorse di essere diventato vecchio, vecchissimo;

e nessuno intorno a lui sapeva spiegarsi perché, ricco com’era, non lasciasse

finalmente la dannata vita del mare. Vecchio, e amaramente infelice, perché l’intera

esistenza sua era stata spesa in quella specie di pazzesca fuga attraverso i mari, per

sfuggire al nemico. Ma più grande che le gioie di una vita agiata e tranquilla era stata

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per lui sempre la tentazione dell'abisso.

E una sera, mentre la sua magnifica nave era ancorata al largo dei porto dove

era nato, si sentì prossimo a morire. Allora chiamò il secondo ufficiale, di cui aveva

grande fiducia, e gli ingiunse di non opporsi a ciò che egli stava per fare. L'altro,

sull'onore, promise.

Avuta questa assicurazione, Stefano, al secondo ufficiale che lo ascoltava

sgomento, rivelò la storia del colombre, che aveva continuato a inseguirlo per quasi

cinquant'anni, inutilmente.

« Mi ha scortato da un capo all'altro del mondo » disse « con una fedeltà che

neppure il più nobile amico avrebbe potuto dimostrare. Adesso io sto per morire.

Anche lui, ormai, sarà terribilmente vecchio e stanco. Non posso tradirlo. »

Ciò detto, prese commiato, fece calare in mare un barchino e vi sali, dopo

essersi fatto dare un arpione. « Ora gli vado incontro » annunciò. « E’ giusto che non

lo deluda. Ma lotterò, con le mie ultime forze. » A stanchi colpi di remi, si allontanò

da bordo. Ufficiali e marinai lo videro scomparire laggiù, sul placido mare, avvolto

dalle ombre della notte.

C'era in cielo una falce di luna.

Non dovette faticare molto. All'improvviso il muso orribile del colombre emerse

di fianco alla barca.

« Eccomi a te, finalmente » disse Stefano. « Adesso, a noi due! » E, raccogliendo

le superstiti energie, alzò l'arpione per colpire.

« Uh » mugolò con voce supplichevole il colombre « che lunga strada per

trovarti. Anch'io sono distrutto dalla fatica. Quanto mi hai fatto nuotare. E tu fuggivi,

fuggivi. E non hai mai capito niente. » « Perché? » fece Stefano, punto sul vivo. «

Perché non ti ho inseguito attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal re del

mare avevo avuto soltanto l'incarico di consegnarti questo. » E lo squalo trasse fuori

la lingua, porgendo al vecchio capitano una piccola sfera fosforescente.

Stefano la prese fra le dita e guardò. Era una perla di grandezza spropositata. E

lui riconobbe la famosa Perla del Mare che dà, a chi la possiede, fortuna, potenza,

amore, e pace dell'animo. Ma era ormai troppo tardi.

« Ahimè! » disse scuotendo tristemente il capo.

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« Come è tutto sbagliato. Io sono riuscito a dannare la mia esistenza: e ho

rovinato la tua.»

« Addio, pover'uomo » rispose il colombre. E sprofondò nelle acque nere per

sempre. Due mesi dopo, spinto dalla risacca, un barchino approdò a una dirupata

scogliera. Fu avvistato da alcuni pescatori che, incuriositi, si avvicinarono. Sul

barchino, ancora seduto, stava un bianco scheletro: e fra le ossicine delle dita

stringeva un piccolo sasso rotondo.

Il colombre è un pesce di grandi dimensioni, spaventoso a vedersi,

estremamente raro. A seconda dei mari, e delle genti che ne abitano le rive, viene

anche chiamato kolomber, kahloubrha, kalonga, kalu-balu, chalung-gra. I naturalisti

stranamente lo ignorano. Qualcuno perfino sostiene che non esiste.

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ITALO CALVINO IL PICCIONE COMUNALE (su rivista 1952) In Marcovaldo ovvero le stagioni in città, Einaudi, 1963 (qui Mondadori 1991).

Gli itinerari che gli uccelli seguono migrando, verso sud o verso nord, d'autunno

o a primavera, traversano di rado la città. Gli stormi tagliano il cielo alti sopra le

striate groppe dei campi e lungo il margine dei boschi, ed ora sembrano seguire la

ricurva linea di un fiume o il solco d'una valle, ora le vie invisibili del vento. Ma girano

al largo, appena le catene di tetti d'una città gli si parano davanti.

Pure, una volta, un volo di beccacce autunnali apparve nella fetta di cielo d'una

via. E se ne accorse solo Marcovaldo, che camminava sempre a naso in aria. Era su un

triciclo a furgoncino, e vedendo gli uccelli pedalò più forte, come andasse al loro

inseguimento, preso da una fantasticheria di cacciatore, sebbene non avesse mai

imbracciato altro fucile che quello del soldato.

E così andando, cogli occhi agli uccelli che volavano, si trovò in mezzo a un

crocevia, col semaforo rosso, tra le macchine, e fu a un pelo dall'essere investito.

Mentre un vigile con la faccia paonazza gli prendeva nome e indirizzo sul taccuino,

Marcovaldo cercò ancora con lo sguardo quelle ali nel cielo, ma erano scomparse.

In ditta, la multa gli suscitò aspri rimproveri.

– Manco i semafori capisci? – gli gridò il caporeparto signor Viligelmo. – Ma che

cosa guardavi, testavuota?

– Uno stormo di beccacce, guardavo... – disse lui.

– Cosa? – e al signor Viligelmo, che era un vecchio cacciatore, scintillarono gli

occhi. E Marcovaldo raccontò.

– Sabato prendo cane e fucile! – disse il caporeparto, tutto arzillo, dimentico

ormai della sfuriata. – É cominciato il passo, su in collina. Quello era certo uno

stormo spaventato dai cacciatori lassù, che ha piegato sulla città... –

Per tutto quel giorno il cervello di Marcovaldo macinò, macinò come un mulino.

«Se sabato, coni'è probabile, ci sarà pieno di cacciatori in collina, chissà quante

beccacce caleranno in città; e se io ci so fare, domenica mangerò beccaccia arrosto».

Il casamento dove abitava Marcovaldo aveva il tetto fatto a terrazzo, coi fili di

Italo Calvino IL PICCIONE COMUNALE

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ferro per stendere la roba ad asciugare. Marcovaldo ci salì con tre dei suoi figli, con

un bidone di vischio, un pennello e un sacco di granone. Mentre i bambini

spargevano chicchi di granone dappertutto, lui spennellava di vischio i parapetti, i fili

di ferro, le cornici dei comignoli. Ce ne mise tanto che per poco Filippetto, giocando,

non ci restò lui appiccicato.

Quella notte Marcovaldo sognò il tetto cosparso di beccacce invischiate

sussultanti. Sua moglie Domitilla, più vorace e pigra, sognò anatre già arrosto posate

sui comignoli. La figlia Isolina, romantica, sognava colibrì da adornarsene il cappello.

Michelino sognò di trovarci una cicogna.

Il giorno dopo, a ogni ora, uno dei bambini andava d'ispezione sul tetto: faceva

appena capolino dal lucernario, perché, nel caso stessero per posarsi, non si

spaventassero, poi tornava giù a dare le notizie. Le notizie non erano mai buone.

Finché, verso mezzogiorno, Pietruccio tornò gridando: – Ci sono! Papà! Vieni!

Marcovaldo andò su con un sacco. Impegolato nel vischio c'era un povero

piccione, uno di quei grigi colombi cittadini, abituati alla folla e al frastuono delle

piazze. Svolazzando intorno, altri piccioni lo contemplavano tristemente, mentre

cercava di spiccicare le ali dalla poltiglia su cui s'era malaccortamente posato.

La famiglia di Marcovaldo stava spolpando le ossicine di quel magro e tiglioso

piccione fatto arrosto, quando sentirono bussare.

Era la cameriera della padrona di casa: – La signora la vuole! Venga subito!

Molto preoccupato, perché era indietro di sei mesi con la pigione e temeva lo

sfratto,Marcovaldo andò all'appartamento della signora, al piano nobile. Appena

entrato nel salotto vide che c'era già un visitatore: la guardia dalla faccia paonazza.

– Venga avanti, Marcovaldo, – disse la signora. – Mi avvertono che sul nostro

terrazzo c'è qualcuno che dà la caccia ai colombi del Comune. Ne sa niente, lei?

Marcovaldo si sentì gelare.

– Signora! Signora! – gridò in quel momento una voce di donna.

– Che c'è, Guendalina?

Entrò la lavandaia. – Sono andata a stendere in terrazzo, e m'è rimasta tutta la

biancheria appiccicata. Ho tirato per staccarla, ma si strappa! Tutta roba rovinata!

Cosa mai sarà? Marcovaldo si passava una mano sullo stomaco come se non riuscisse

a digerire.

Italo Calvino IL PICCIONE COMUNALE

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ITALO CALVINO L’AVVENTURA DI DUE SPOSI In I racconti, Einaudi, 1958 (qui Einaudi 1975).

L’operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte, quello che finisce alle sei.

Per rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione, in

tram nei mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette, cioè

alle volte un po’ prima alle volte un po’ dopo che suonasse la sveglia della moglie,

Elide.

Spesso i due rumori: il suono della sveglia e il passo di lui che entrava si

sovrapponevano nella mente di Elide, raggiungendola in fondo al sonno, il sonno

compatto della mattina presto che lei cercava di spremere ancora per qualche

secondo col viso affondato nel guanciale. Poi si tirava su dal letto di strappo e già

infilava le braccia alla cieca nella vestaglia, coi capelli sugli occhi. Gli appariva così, in

cucina, dove Arturo stava tirando fuori i recipienti vuoti dalla borsa che si portava con

sé sul lavoro: il portavivande, il termos, e li posava sull’acquaio. Aveva già acceso il

fornello e aveva messo su il caffè. Appena lui la guardava, a Elide veniva da passarsi

una mano sui capelli, da spalancare a forza gli occhi, come se ogni volta si

vergognasse un po’ di questa prima immagine che il marito aveva di lei entrando in

casa, sempre così in disordine, con la faccia mezz’addormentata. Quando due hanno

dormito insieme è un’altra cosa, ci si ritrova al mattino a riaffiorare entrambi dallo

stesso sonno, si è pari.

Alle volte invece era lui che entrava in camera a destarla, con la tazzina del

caffè, un minuto prima che la sveglia suonasse; allora tutto era più naturale, la

smorfia per uscire dal sonno prendeva una specie di dolcezza pigra, le braccia che

s’alzavano per stirarsi, nude, finivano per cingere il collo di lui. S’abbracciavano.

Arturo aveva indosso il giaccone impermeabile; a sentirselo vicino lei capiva il tempo

che faceva: se pioveva o faceva nebbia o c’era neve, a secondo di com’era umido e

freddo. Ma gli diceva lo stesso: – Che tempo fa? – e lui attaccava il suo solito

brontolamento mezzo ironico, passando in rassegna gli inconvenienti che gli erano

occorsi, cominciando dalla fine: il percorso in bici, il tempo trovato uscendo di

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fabbrica, diverso da quello di quando c’era entrato la sera prima, e le grane sul

lavoro, le voci che correvano nel reparto, e così via.

A quell’ora, la casa era sempre poco scaldata, ma Elide s’era tutta spogliata, un

po’ rabbrividendo, e si lavava, nello stanzino da bagno. Dietro veniva lui, più con

calma, si spogliava e si lavava anche lui, lentamente, si toglieva di dosso la polvere e

l’unto dell’officina. Così stando tutti e due intorno allo stesso lavabo, mezzo nudi, un

po’ intirizziti, ogni tanto dandosi delle spinte, togliendosi di mano il sapone, il

dentifricio, e continuando a dire le cose che avevano da dirsi, veniva il momento della

confidenza, e alle volte, magari aiutandosi a vicenda a strofinarsi la schiena,

s’insinuava una carezza, e si trovavano abbracciati.

Ma tutt’a un tratto Elide: – Dio! Che ora è già! – e correva a infilarsi il reggicalze,

la gonna, tutto in fretta, in piedi, e con la spazzola già andava su e giù per i capelli, e

sporgeva il viso allo specchio del comò, con le mollette strette tra le labbra. Arturo le

veniva dietro, aveva acceso una sigaretta, e la guardava stando in piedi, fumando, e

ogni volta pareva un po’ impacciato, di dover stare lì senza poter fare nulla. Elide era

pronta, infilava il cappotto nel corridoio, si davano un bacio, apriva la porta e già la si

sentiva correre giù per le scale.

Arturo restava solo. Seguiva il rumore dei tacchi di Elide giù per i gradini, e

quando non la sentiva più continuava a seguirla col pensiero, quel trotterellare

veloce per il cortile, il portone, il marciapiede, fino alla fermata del tram. Il tram lo

sentiva bene, invece: stridere, fermarsi, e lo sbattere della pedana a ogni persona che

saliva. “Ecco, l’ha preso”, pensava, e vedeva sua moglie aggrappata in mezzo alla folla

d’operai e operaie sull’”undici”, che la portava in fabbrica come tutti i giorni.

Spegneva la cicca, chiudeva gli sportelli alla finestra, faceva buio, entrava in letto.

Il letto era come l’aveva lasciato Elide alzandosi, ma dalla parte sua, di Arturo,

era quasi intatto, come fosse stato rifatto allora. Lui si coricava dalla propria parte,

per bene, ma dopo allungava una gamba in là, dov’era rimasto il calore di sua moglie,

poi ci allungava anche l’altra gamba, e così a poco a poco si spostava tutto dalla parte

di Elide, in quella nicchia di tepore che conservava ancora la forma del corpo di lei, e

affondava il viso nel suo guanciale, nel suo profumo, e s’addormentava.

Quando Elide tornava, alla sera, Arturo già da un po’ girava per le stanze: aveva

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acceso la stufa, messo qualcosa a cuocere. Certi lavori li faceva lui, in quelle ore

prima di cena, come rifare il letto, spazzare un po’, anche mettere a bagno la roba da

lavare. Elide poi trovava tutto malfatto, ma lui a dir la verità non ci metteva nessun

impegno in più: quello che lui faceva era solo una specie di rituale per aspettare lei,

quasi un venirle incontro pur restando tra le pareti di casa, mentre fuori

s’accendevano le luci e lei passava per le botteghe in mezzo a quell’animazione fuori

tempo dei quartieri dove ci sono tante donne che fanno la spesa alla sera.

Alla fine sentiva il passo per la scala, tutto diverso da quello della mattina,

adesso appesantito, perché Elide saliva stanca dalla giornata di lavoro e carica della

spesa. Arturo usciva sul pianerottolo, le prendeva di mano la sporta, entravano

parlando. Lei si buttava su una sedia in cucina, senza togliersi il cappotto, intanto che

lui levava la roba dalla sporta. Poi: – Su, diamoci un addrizzo, – lei diceva, e s’alzava,

si toglieva il cappotto, si metteva in veste da casa. Cominciavano a preparare da

mangiare: cena per tutt’e due, poi la merenda che si portava lui in fabbrica per

l’intervallo dell’una di notte, la colazione che doveva portarsi in fabbrica lei

l’indomani, e quella da lasciare pronta per quando lui l’indomani si sarebbe svegliato.

Lei un po’ sfaccendava un po’ si sedeva sulla seggiola di paglia e diceva a lui cosa

doveva fare. Lui invece era l’ora in cui era riposato, si dava attorno, anzi voleva far

tutto lui, ma sempre un po’ distratto, con la testa già ad altro. In quei momenti lì, alle

volte arrivavano sul punto di urtarsi, di dirsi qualche parola brutta, perché lei lo

avrebbe voluto più attento a quello che faceva, che ci mettesse più impegno, oppure

che fosse più attaccato a lei, le stesse più vicino, le desse più consolazione. Invece lui,

dopo il primo entusiasmo perché lei era tornata, stava già con la testa fuori di casa,

fissato nel pensiero di far presto perché doveva andare.

Apparecchiata tavola, messa tutta la roba pronta a portata di mano per non

doversi più alzare, allora c’era il momento dello struggimento che li pigliava tutti e

due d’avere così poco tempo per stare insieme, e quasi non riuscivano a portarsi il

cucchiaio alla bocca, dalla voglia che avevano di star lì a tenersi per mano. Ma non

era ancora passato tutto il caffè e già lui era dietro la bicicletta a vedere se ogni cosa

era in ordine. S’abbracciavano. Arturo sembrava che solo allora capisse com’era

morbida e tiepida la sua sposa. Ma si caricava sulla spalla la canna della bici e

Italo Calvino L’AVVENTURA DI DUE SPOSI

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scendeva attento le scale.

Elide lavava i piatti, riguardava la casa da cima a fondo, le cose che aveva fatto il

marito, scuotendo il capo. Ora lui correva le strade buie, tra i radi fanali, forse era già

dopo il gasometro. Elide andava a letto, spegneva la luce. Dalla propria parte,

coricata, strisciava un piede verso il posto di suo marito, per cercare il calore di lui,

ma ogni volta s’accorgeva che dove dormiva lei era più caldo, segno che anche Arturo

aveva dormito lì, e ne provava una grande tenerezza.

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UMBERTO ECO COME VIAGGIARE CON UN SALMONE (su rivista 1986) In Il secondo diario minimo, Bompiani, 1992 (qui Bompiani 2006).

A leggere i giornali, due sono i problemi che assillano il nostro tempo:

l'invadenza dei computers, e la preoccupante avanzata del Terzo mondo. È vero e io

lo so.

Il mio viaggio dei giorni scorsi era breve: un giorno a Stoccolma e tre a Londra. A

Stoccolma mi è avanzato il tempo per comperare un salmone affumicato,

enorme, a prezzo stracciato. Era accuratamente avvolto in plastica, ma mi

hanno detto che se ero in viaggio avrei fatto bene a tenerlo al freddo. Facile a dirsi.

Fortunatamente a Londra il mio editore mi aveva prenotato un albergo di lusso,

fornito di frigobar. Arrivato all'albergo, ho avuto l'impressione di essere

in una legazione di Pechino durante la rivolta dei Boxers.

Famiglie accampate nell'atrio, viaggiatori avvolti in coperte che dormono sui

loro bagagli... Mi informo dagli impiegati, tutti indiani, più qualche malese. Mi dicono

che proprio il giorno prima quel grande albergo aveva installato un sistema

computerizzato il quale, per difetto di rodaggio, era entrato in panne da due ore. Non

si poteva sapere quale camera fosse libera e quale occupata. Occorreva attendere.

Verso sera il computer è stato riparato e sono riuscito a entrare nella mia camera.

Preoccupato per il mio salmone, l'ho estratto dalla valigia e ho cercato il frigobar.

Di solito i frigobar degli alberghi normali contengono due birre, due minerali, alcune

bottigliette mignon, qualche succo di frutta e due pacchetti di noccioline. Quello del

mio albergo, grandissimo, conteneva cinquanta bottigliette tra whisky, gin,

Drambuie, Courvoisier, Grand Marnier e Calvados, otto bottigliette di Perrier, due di

Vitelloise e due di Evian, tre bottiglie di media grandezza di champagne, varie lattine

di Stout, Pale Ale, birre olandesi e tedesche, vino bianco italiano e francese,

noccioline, salatini, mandorle, cioccolatini e Alka-Seltzer. Non c'era posto per il

salmone. Ho aperto due capaci cassetti e vi ho messo tutto il contenuto del frigobar,

poi ho sistemato il salmone al fresco, e me ne sono disinteressato. Quando sono

rientrato il giorno dopo alle quattro, il salmone stava sul tavolo, e il frigobar era stato

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nuovamente riempito sino all'orlo con prodotti pregiati. Ho aperto i cassetti e ho

visto che tutto il materiale nascostovi il giorno prima era ancora là. Ho telefonato in

portineria e ho detto di avvertire il personale ai piani che se trovavano il frigo vuoto

non era perché avessi consumato tutto, ma era per via del salmone. Mi hanno

risposto che occorreva fornire l'informazione al computer centrale, anche perché la

maggior parte del personale non parlava inglese e non poteva ricevere ordini a voce,

ma solo istruzioni in Basic.

Ho aperto altri due cassetti e vi ho trasferito il nuovo contenuto del frigobar, in

cui ho poi alloggiato il mio salmone. Il giorno dopo alle quattro il salmone era sul

tavolo, e già emanava un odore sospetto.

Il frigo era brulicante di bottiglie e bottigliette, e i quattro cassetti ricordavano la

cassaforte di uno speak-easy durante il proibizionismo. Ho telefonato in portineria e

mi hanno detto che c'era stato un nuovo incidente al computer. Ho suonato il

campanello e ho cercato di spiegare il mio caso a un tizio che portava i capelli raccolti

a crocchia sulla nuca: ma parlava solo un dialetto che, come un collega antropologo

mi ha spiegato dopo, veniva praticato solo nel Kefiristan ai tempi in cui Alessandro il

Grande impalmava Rossane.

La mattina seguente sono andato per firmare il conto. Era astronomico.

Risultava che avevo consumato in due giorni e mezzo alcuni ettolitri di Veuve

Clicquot, dieci litri di whisky diversi, compresi alcuni malti rarissimi, otto litri di gin,

venticinque litri tra Perrier ed Evian, più alcune bottiglie di San Pellegrino, tanti succhi

di frutta quanti ne sarebbero bastati a mantenere in vita tutti i bambini assistiti

dall'UNICEF, tante mandorle, noci e noccioline da far vomitare un addetto

all'autopsia dei personaggi della Grande bouffe. Ho cercato di spiegare, ma

l'impiegato, sorridendo coi denti anneriti dal betel, mi ha assicurato che il computer

diceva così. Ho chiesto un avvocato e mi hanno portato un mango.

Il mio editore ora è furioso e mi crede un parassita. Il salmone è immangiabile.

I miei figli mi hanno detto che dovrei bere un po' meno.

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BEPPE FENOGLIO LA SPOSA BAMBINA (1953) In Un giorno di fuoco, Garzanti 1963 (qui Einaudi 1988).

Catinina del Freddo era di quella razza che da noi si marchia col nome di

mezzi zingari perché mezza la loro vita la passano sotto l’ala del mercato.

Proprio sotto l’ala si trovava, a tredici anni giusti, a giocare coi maschi a tocco

e spanna, quando sua madre le fece una chiamata straordinaria.

Lasciami solo più giocare queste due bilie! – le gridò Catinina, ma sua madre

fece la mossa di avventarsi e Catinina andò, con ben più di due bilie nella tasca del

grembiale.

A casa c’era suo padre e sua sorella maggiore, tra i quali vennero a mettersi

lei e sua madre, e così tutt’insieme fronteggiavano un vecchio che Catinina

conosceva solo di vista, con baffi che gli coprivano la bocca e nei panni un cattivo

odore un po’ come quello dell’acciugaio. I suoi di Catinina stavano come sospesi

davanti al vecchio, e Catinina cominciò a dubitare che fosse venuto per farsi

rendere ad ogni costo del denaro imprestato e i suoi l’avessero chiamata perché il

vecchio la vedesse e li compatisse.

Invece il vecchio era venuto per chiedere la mano di Catinina per il suo nipote

che aveva diciotto anni e già un commercio suo proprio.

Sua madre si piegò e disse a Catinina: – Neh che sei contenta di sposare il

nipote di questo signore?

Catinina scrollò le spalle e torse la testa. Sua madre la rimise in posizione: –

Neh che sei contenta, Catinina? Ti faremo una bella veste nuova, se lo sposi.

Allora Catinina disse subito che lo sposava e vide il vecchio calar

pesantemente le palpebre sugli occhi. – Però la veste me la fate rossa, – aggiunse

Catinina.

– Ma rossa non può andare in chiesa e per sposalizio. Perché ti faremo una

gran festa in chiesa. Avrai una veste bianca, oppure celeste.

A Catinina la gran festa in chiesa diceva poco o niente, quella veste non rossa

già le cambiava l’idea, per lo scoramento si lasciò piombare una mano in tasca e

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fece suonare le bilie.

Allora la sorella maggiore disse che le avrebbero portato tanti confetti; a

sentir questo Catinina passò sopra alla veste non rossa e disse di sì su tutto. Anche

se quei confetti non finivano in bocca a lei.

Si sposarono alla vicaria di Murazzano, neanche un mese dopo. Lo sposo dava

alla vista meno anni dei suoi diciotto dichiarati, aveva una corona di pustole sulla

fronte, più schiena che petto, e certi occhi grigi duretti.

Fecero al Leon d’Oro il pranzo di nozze, pagato dal vecchio e dopo vespro

partirono. C’era tutto il paese a salutar Catinina, e perfino i signori ai loro

davanzali.

Lo sposo, che era padrone di mula e carretto, aveva giusto da andare fino a

Savona a caricar stracci, che era il suo commercio, e ne approfittava per fare il

viaggio di nozze con Catinina.

Alla sposa venne da piangere quando, salita sul carretto, dominò di lassù

tutta quella gente che rideva, ma le levò quel groppo un cartoccio di mentini che

le offrì una donna anche lei della razza dei mezzi zingari.

Alla fine partirono, ma ancora a San Bernardo avevano il tormento di quei

bastardini che fino a ieri giocavano alle bilie con la sposa. Quantunque lo sposo

non tardasse a girare la frusta.

Viaggiavano sulla pedaggera e ne avevano già ben macinata di ghiaia, e

Catinina non aveva ancora aperto la bocca se non per infilarci quei mentini uno

dopo succhiato l’altro, e lo sposo le sue quattro parole le aveva dette alla mula.

Ma passato Montezemolo lo sposo si voltò e le disse: – Voi adesso la

smettete di mangiare quei gommini verdi –, e Catinina smise, ma principalmente

per lo stupore che lo sposo le aveva dato del voi.

Veniva su la luna, e dopo un po’ fu un mostro di vicinanza, di rotondità e

giallore, navigava nel cielo caldo a filo del greppo della langa, come li volesse

accompagnare fino in Liguria.

Catinina toccò il suo sposo e gli disse: – Guarda solo un momento che luna.

Ma quello le si rivoltò e quasi le urlò: – Voi avete a darmi del voi, come io lo

do a voi!

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Catinina non rifiatò, molto più avanti disse semplicemente che il listello di

legno l’aveva tutta indolorita dietro, dopo ore che ci stava seduta. E allora lui parlò

con una voce buona, le disse che al ritorno sarebbe stata più comoda, lui l’avrebbe

aggiustata sugli stracci.

Arrivarono a Savona verso mezzogiorno.

Lo sposo disse: – Quello lì davanti è il mare, – che Catinina già ci aveva

affogati gli occhi.

Che bestione, – diceva Catinina del mare, – che bestione!

Tutte le volte che pascolava le pecore degli altri in qualche prato sotto la

strada del mare e sentiva d’un tratto sonagliere, si arrampicava sempre sull’orlo

della strada e da lì guardava venire, passare e lontanarsi i carrettieri e le loro

bestie in cammino verso il mare con grandi carichi di vino e di farine. Qualche

volta li vedeva anche al ritorno, coi carri adesso pieni di vetri di Carcare e di Altare

e di stoviglie d’Albisola, e si appostava per fissare i carrettieri negli occhi, se

ritenevano l’immagine del mare.

Ora se lo stava godendo da due passi il mare, ma lo sposo le calò una mano

sulla spalla e si fece accompagnare a stallare la bestia. Ma poi le fece vedere un

po’ di porto e poi prendere un caffellatte con le paste di meliga. Dopodiché

andarono a trovare un parente di lui.

Questo parente stava dalla parte di Savona verso il monte e a Catinina

rincresceva il sangue del cuore distanziarsi dal mare fino a non avercene

nemmeno più una goccia sotto gli occhi.

Ce ne volle, ma alla fine trovarono quel parente. Era un uomo vecchiotto ma

ancora galante, e quando si vide alla porta i due ragazzi sposati fece subito venire

vino bianco e paste alla crema ed anche dei vicini, ridicoli come lui.

Mangiarono, bevettero e cantarono. Catinina in quel buonumore prese a

snodarsi e a rider di gola e ad ammiccare come una donna fatta, e teneva bene

testa al parente galante ed ai suoi soci; lo sposo le era uscito di mente ed anche

dagli occhi, non lo vedeva, seduto immobile, che pativa a bocca stretta e col

bicchiere sempre pieno posato in terra fra i due piedi.

Quando si ritirarono per la notte in una stanza trovata dal parente, allora

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riempì di schiaffi la faccia a Catinina. E nient’altro, tanto Catinina non era ancora

sviluppata.

Al mattino Catinina aveva per tutto il viso delle macchie gialle con un’ombra

di nero, lo sposo venne a sfiorargliele con le dita e poi scoppiò a piangere. Proprio

niente disse o fece Catinina per sollevarlo, gli disse solo che voleva tornare a

Murazzano. E sì che si sarebbe fermata un altro giorno tanto volentieri per via di

quel parente così ridicolo, ma ora sapeva cosa le costava il buonumore, e poi il

mare le diceva molto meno.

Lo sposo caricò in fretta i suoi stracci, la fece sedere sul molle e tornarono.

La mattina dopo, il panettiere di Murazzano, che si levava sempre il primo di

tutto il paese, uscito in strada a veder com’era il cielo di quel nuovo giorno, trovò

Catinina seduta sul selciato e con le spalle contro il muro tiepido del suo forno.

Ma sei Catinina? Sei proprio Catinina. E cosa fai lì, a quest’ora della mattina?

Lei gli scrollò le spalle.

Cosa fai lì, Catinina? E non scrollarmi le spalle. Perché non sei col tuo uomo?

– Me no di sicuro!

– Perché te no?

Allora Catinina alzò la voce. – Io non ci voglio più stare con quello là che mi dà

del voi!

– Ma come non ci vuoi più stare? Invece devi stargli insieme, e per sempre. È

la legge.

– Che legge?

– O Madonna bella e buona, la legge del matrimonio!

Catinina scrollò un’altra volta le spalle, ma capiva anche lei che scrollar le

spalle non bastava più, e allora disse: – Io non ci voglio più stare con quello là che

mi dà sempre del voi. E poi che casa mi ha preparata che io c’entrassi da sposa?

Una casa senza lume a petrolio e senza il poggiolo!

L’uomo sospirò, la fece entrare nel suo forno, disse piano al suo garzone: –

Attento che non scappi, ma non beneficiartene altrimenti il mestiere vai a

impararlo da un’altra parte, – e uscì. Quando tornò, c’era con lui l’uomo di

Catilina. Col panettiere testimone, le promise il lume a petrolio per subito e di

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farle il poggiolo, tempo sei mesi.

Catinina il lume a petrolio l’ebbe subito, e poi anche il poggiolo, ma dopo un

anno buono, che lei aveva già un bambino sulle braccia. Perché Catinina non era la

donna che per aver la grazie dei figli deve andarsi a sedere sulla santa pietra alla

Madonna del Deserto e pregare tanto. Questo primo figlio, dei nove che ne

comprò nella sua stagione, l’addormentava alla meglio in una cesta e poi subito

correva sotto l’ala a giocare a tocco e spanna con quei maschi di prima. Dopo un

po’ il bambino si svegliava e strillava da farsi saltare tutte le vene, finché una vicina

si faceva sull’uscio e urlava a Catinina:

– O disgraziata, non senti la tua creatura che piange? Vieni a cunarlo, o mezza

zingara!

– Lasciatemi solo più giocare questa bilia!

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Beppe Fenoglio PIOGGIA E LA SPOSA In I ventitre giorni della città di Alba, Einaudi, 1952 (qui Einaudi 2006).

Fu la peggior alzata di tutti i secoli della mia infanzia. Quando la zia salì alla mia

camera sottotetto e mi svegliò, io mi sentivo come se avessi chiusi gli occhi solo un

attimo prima, e non c'è risveglio peggiore di questo per un bambino che non abbia

davanti a sé una sua festa o un bel viaggio promesso.

La pioggia scrosciava sul nostro tetto e sul fogliame degli alberi vicini, la mia

stanza era scura come all'alba del giorno.

Abbasso, mio cugino stava abbottonandosi la tonaca sul buffo costume che i

preti portano sotto la vesta nera e la sua faccia era tale che ancor oggi è la prima cosa

che mi viene in mente quando debbo pensare a nausea maligna. Mia zia, lei stava

sull'uscio, con le mani sui fianchi, a guardar fuori, ora al cielo ora in terra. Andai

semisvestito dietro di lei a guardar fuori anch'io e vidi, in terra, acqua bruna lambire il

primo scalino della nostra porta e in cielo, dietro la pioggia, nubi nere e gonfie come

dirigibili ormeggiati agli alberi sulla cresta della collina dirimpetto. Mi ritirai con le

mani sulle spalle e la zia venne ad aiutarmi a vestirmi con movimenti decisi. Ricordo

che non mi fece lavare la faccia.

Adesso mio cugino prete stava girandosi tra le mani il suo cappello e dava fuori

sguardate furtive, si sarebbe detto che non voleva che sua madre lo sorprendesse a

guardar fuori in quella maniera. Ma lei ce lo sorprese e gli disse con la sua voce per

me indimenticabile: – Mettiti pure il cappello in testa, ché andiamo. Credi che per un

po' d'acqua voglio perdere un pranzo di sposa?

– Madre, questo non è un po' d'acqua, questo è tutta l'acqua che il cielo può

versare in una volta. Non vorrei che l'acqua c'entrasse in casa con tutti i danni che

può fare, mentre noi siamo seduti a un pranzo di sposa.

Lei disse: – Chiuderò bene. –Non vale chiuder bene con l'acqua, o madre!

– Non è l'acqua che mi fa paura e non è per lei che voglio chiudere bene.

Chiuderò bene perché ci sono gli zingari fermi coi loro cavalli sotto il portico del

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Santuario. E anche per qualcun altro che zingaro non è, ma cristiano.

Allora il prete con tutt'e due le mani si mise in testa il suo cappello nero.

Nemmeno lui, nemmeno stavolta, l'aveva spuntata con sua madre, mia zia. Era

(perché da anni si trova nel camposanto di San Benedetto e io posso sempre, senza

sforzo di memoria vedere sottoterra la sua faccia con le labbra premute) era una

piccolissima donna, tutta nera, di capelli d’occhi e di vesti, ma io debbo ancora

incontrare nel mondo il suo eguale in fatto di forza d'imperio e di immutabile

coscienza del maggior valore dei propri pensieri a confronto di quelli altrui. Figurarsi

che con lei io bambino di allora sette anni, avevo presto perduto il senso di quel

diritto all'indulgenza di cui fanno tanto e quasi sempre impunito uso tutti i bambini.

Devo però ricordare che la zia non mi picchiò mai, nemmeno da principio quando,

per non conoscerla ancor bene, non temevo di peccare contro i suoi comandamenti;

suo figlio il prete sì, più d'una volta mi picchiò, facendomi un vero male.

Non si aveva ombrelli, ce n'era forse uno di ombrelli in tutto il paese. La zia mi

prese per un polso e mi calò giù per i gradini fino a che mi trovai nell’acqua fangosa

alta alle caviglie, e lì mi lasciò per risalire a chiudere bene. La pioggia battente mi

costringeva a testa in giù e mi prese una vertigine per tutta quell’acqua che mi

passava grassa e pur rapida tra le gambe. Guardai su a mio cugino e verso lui tesi una

mano perché mi sostenesse. Ma lui stette a fissarmela un po' come se la mia mano

fosse una cosa fenomenale, poi parve riscuotersi e cominciò ad armeggiare per

tenersi la tonaca alta sull'acqua con una sola mano e reggermi con l'altra, ma prima

che ci fosse riuscito la zia era già scesa a riprendermi. Poi anche il prete strinse un

mio polso e così mi trainavano avanti. A volte mi sollevavano con uno sforzo

concorde e mi facevano trascorrere sull'acqua per un breve tratto, e io questo non lo

capivo, fosse stato per depositarmi finalmente sull'asciutto, ma mi lasciavano

ricadere sempre nell'acqua, spruzzando io cosi più fanghiglia e più alta sulle loro vesti

nere.

Mio cugino parlò a sua madre sopra la mia testa: – Forse era meglio che il

bambino lo lasciavamo a casa.

– Perché? Io lo porto per fargli un regalo. Il bambino non deve avercela con me

perché l'ho uscito con quest'acqua, perché io lo porto a star bene, lo porto a un

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pranzo di sposa. E un pranzo di sposa deve piacergli, anche se lui viene dalla città –.

Poi disse a me: – Non è vero che sei contento di andarci anche con l'acqua? – ed io

assentii chinando il capo.

Più avanti, la pioggia rinforzava ma non poteva farci più danno a noi ed ai nostri

vestiti di quanto non n'avesse già fatto, io domandai cauto alla zia dov'era la casa di

questa sposa che ci dava il pranzo. – Cadilù, – rispose breve la zia, e io trovai barbaro

il nome di quel posto sconosciuto come cosi barbari più non ho trovati i nomi d'altri

posti barbaramente chiamati. La zia aveva poi detto: – Prendiamo per i boschi.

Scoccò il primo fulmine, detonando così immediato e secco che noi tre

ristemmo come davanti a un improvviso atto di guerra. – Comincia proprio sulle

nostre teste, – disse il prete rincamminandosi col mento sul petto.

Dal margine del bosco guardando giù al piano si vedeva il torrente straripare,

l'acqua scavalcava la proda come serpenti l'orlo del loro cesto. A quella vista mio

cugino mise fuori un gran sospiro, la zia scattò la testa a guardarlo ma poi non gli

disse niente, diede invece uno strattone al mio polso.

Lassù i lampi s'erano infittiti, in quel fulminio noi arrancavamo per un lucido

sentiero scivoloso. Per quanto bambino, io sapevo per sentito dire da mio padre che

il fulmine è più pericoloso per chi sta o si muove sotto gli alberi, cosi incominciai a

tremare ad ogni saetta, finii col tremare di continuo, e i miei parenti non potevano

non accorgersene attraverso i polsi che sempre mi tenevano.

Dopo un tuono, la zia comandò a suo figlio: – Su, di' una preghiera per il tempo,

una che tenga il fulmine lontano dalle nostre teste.

Io m'atterrii quando il prete le rispose gridando: – E che vuoi che serva la

preghiera! – mettendosi poi a correr su per il sentiero, come scappando da noi.

– Figlio! –urlò la zia fermandosi e fermandomi: – Adesso si che il fulmine cadrà

su noi! Io lo aspetto, guardami, e sarai stato tu... !

– Nooo, madre, io la dirò! – gridò lui tornando a salti giù da noi, – la dirò con

tutto il cuore e con la più ferma intenzione. E mentre io la dico tu aiutami con tutto lo

sforzo dell'anima tua. Ma ... – balbettava,– io non so che preghiera dire ... che si

confaccia ...

Lei chiuse gli occhi, alzò il viso alla pioggia e a bassa voce disse come a se stessa:

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– Il Signore mi castigherà, il Signore mi darà l'inferno per l'ambizione che ho avuta di

metter mio figlio al suo servizio e il figlio che gli ho dato è un indegno senza fede che

non crede nella preghiera e così nemmeno sa le preghiere necessarie –. Poi gli gridò:

– Recita un pezzo delle rogazioni! – e si mosse trascinandomi.

Dietro ci veniva il prete con le mani giunte e pregando forte in latino, ma

nemmeno io non credevo al buon effetto della sua preghiera, perché la sua voce era

piena soltanto di paura, paura soltanto dì sua madre. E lei alla fine gli disse: – Se il

fulmine non ci ha presi perché di lassù il Signore ha visto tra noi due questo

innocente, –e suo figlio chinò la testa e le mani disintrecciate andarono a sbattergli

contro i fianchi.

Eravamo usciti dal bosco e andavamo incontro alle colline, ma il mio cuore non

s'era fatto men greve, perché quelle colline hanno un aspetto cattivo anche nei giorni

di sole. Da un po' di tempo la zia mi fissava la testa, ora io me la sentivo come

pungere dal suo sguardo frequente. Non reggendoci più alzai il viso al viso di mia zia,

e vidi che gli occhi di lei insieme con la sua mano sfioravano i miei capelli fradici, e la

sua mano era distesa e tenera stavolta come sempre la mano di mia madre, e pure gli

occhi mi apparivano straordinariamente buoni per me, e meno neri. Allora mi sentii

dentro un po' di calore ed insieme una voglia di piangere. Un po' piansi, in silenzio, da

grande, dovevo solo badare a non singhiozzare, per il resto l'acqua irrorava la mia

faccia.

La zia disse a suo figlio: – Togliti il cappello e daglielo a questo povero bambino,

mettiglielo tu bene in testa.

Era chiaro che lui non voleva, e nemmeno io volevo, ma la zia disse ancora: –

Mettigli il tuo cappello, la sua testa è la più debole e ho paura che l'acqua arrivi a

toccargli il cervello –. Doveva ancor finir di parlare che io vidi tutto nero, perché il

cappello m'era sceso fin sulle orecchie, per la larghezza e per il gesto maligno del

prete. Me lo rialzai sulla fronte e mi misi a guardar nascostamente mio cugino: si

ostinava a ravviarsi i capelli che la pioggia continuamente gli scomponeva, poi l'acqua

dovette dargli un particolare fastidio sul nudo della chierica perché trasportò là una

mano e ce la tenne.

Diceva: – A quanto vedo, siamo noi soli per strada. Non vorrei che lassù

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trovassimo che noi soli ci siamo mossi in quest'acqua per il pranzo, e la famiglia della

sposa andasse poi a dire in giro che il prete e sua madre hanno una fame da sfidare il

diluvio.

E la zia, calma: – Siamo soli per questa strada perché del paese hanno invitato

noi soli. Gli altri vanno a Cadilù dalle loro case sulle colline. Ricordati che dovrai

benedire il cibo.

Gli ultimi lampi, io li avvertivo per il riflesso giallo che si accendeva prima che

altrove sotto l'ala nera del cappello del prete, ma erano lampi ormai lontani e li

seguiva un tuono come un borborigmo del cielo. Invece la pioggia durava forte.

Poi la zia disse che c'eravamo, che là era Cadilù, e io guardai alzando gli occhi e il

cappello. Vidi una sola casa su tutta la nuda collina. Bassa e storta, era di pietre

annerite dall'intemperie, coi tetti di lavagna caricati di sassi perché non li strappi il

vento delle colline, con un angolo tutto guastato da un antico incendio, con un'unica

finestra e da quella spioveva foraggio. Chi era l'uomo che di là dentro traeva la sua

sposa? E quale poteva essere il pranzo nuziale che avremmo consumato fra quelle

mura?

Ci avvicinavamo e alla porta si fece una bambina a osservar meglio chi veniva

per dare poi dentro l'avviso: stava all'asciutto e rise forte quando vide il bambino

vestito da città arrivare con in testa il cappello del prete. Fu la prima e la più cocente

vergogna della mia vita quella che provai per la risata della bambina di Cadilù, e mi

strappai di testa il cappello, anche se cosi facendo scoprivo intero il mio rossore, e

malamente lo restituii al prete.

Pioggia e la sposa: non altro che questo mi balzò dalla memoria il giorno ormai

lontano in cui da una voce sgomenta seppi che mio cugino, il vescovo avendolo

destinato a una chiesa in pianura e sua madre non potendovelo seguire, una volta

solo e lontano dagli occhi di lei, s'era spretato, e lassù in collina mia zia era subito

morta per lo sdegno.

Beppe Fenoglio PIOGGIA E LA SPOSA

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PRIMO LEVI LILÌT (su rivista 1979) In Lilìt e altri racconti, Einaudi 1981

Nel giro di pochi minuti il cielo si era fatto nero ed aveva cominciato a

piovere. Poco dopo, la pioggia crebbe fino a diventare un acquazzone ostinato, e

la terra grassa del cantiere si mutò in una coltre di fango profonda un palmo; non

solo lavorare di pala, ma addirittura reggersi in piedi era diventato impossibile. Il

Kapo interrogò il capomastro civi le, poi si volse a noi : che ognuno andasse a

ripararsi dove voleva. C'erano sparsi in giro diversi spezzoni di tubo di ferro,

lunghi cinque o sei metri e del diametro di uno. Mi infilai dentro uno di questi, ed

a metà tubo mi incontrai col Tischler, che aveva avuto la stessa idea ed era

entrato dall'altra estremità. «Tischler» vuoi dire falegname, e fra noi il Tischler

non era conosciuto altrimenti che cosi. C'erano anche il Fabbro, il Russo, lo

Scemo, due Sruti (rispettivamente «il Sarto» e «l'altro Sarto»), il Galiziano e il

Lungo; io sono stato a lungo «l'Italiano», e poi indifferentemente Primo o Alberto

perché venivo confuso con un altro.

Il Tischler era dunque Tischler e nulla più, ma non aveva l'aspetto del

falegname, e tutti noi sospettavamo che non lo fosse affatto; a quel tempo era

comune che un ingegnere si facesse schedare come meccanico, o un giornalista

come tipografo: si poteva cosi sperare in un lavoro migliore di quello del

manovale, senza scatenare la rabbia nazista contro gli intellettuali. Comunque

fosse, il Tischler era stato messo al bancone dei carpentieri, e col mestiere non se

la cavava male. Cosa inconsueta per un ebreo polacco, parlava un po' d'italiano:

glielo aveva insegnato suo padre, che era stato fatto prigioniero dagli italiani nel

1917 e portato in un campo, sì, in un Lager, da qualche parte vicino a Torino.

La maggior parte dei compagni di suo padre erano morti di spagnola, e

infatti ancora oggi i loro nomi esotici, nomi ungheresi, polacchi, croati, tedeschi,

si possono leggere su un colombario del Cimitero Maggiore, ed è una visita che

riempie di pena al pensiero di quelle morti sperdute. Anche suo padre si era

ammalato, ma era guarito.

Primo Levi LILÌT

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L'italiano del Tischler era divertente e difettivo: consisteva principalmente di

brandelli di libretti d'opera, di cui suo padre era stato fanatico. Sovente, sul

lavoro, lo avevo sentito canticchiare «sconto col sangue mio» è «libiamo nei lieti

calici». La sua lingua madre era lo yiddisch, ma parlava anche tedesco, e non

faticavamo ad intenderei. Il Tischler mi piaceva perché non cedeva all'ebetudine:

il suo passo era svelto, malgrado le scarpe di legno; parlava attento e preciso, ed

aveva un viso alacre, ridente e triste. Qualche volta, a sera, dava spettacolo in

yiddisch raccontando storielle o recitando filastrocche, e a me spiaceva di non

capirlo. A volte cantava anche, e allora nessuno applaudiva e tutti guardavano a

terra, ma quando aveva finito lo pregavano di ricominciare.

Quel nostro incontro a quattro gambe, quasi canino, lo aveva rallegrato:

magari avesse piovuto tutti i giorni cosi!

Ma quello era un giorno speciale: la pioggia era venuta per lui, perché quello

era il suo compleanno: venticinque anni. Ora, il caso voleva che quel giorno

compissi venticinque anni anch'io: eravamo gemelli. Il Tischler disse che era una

data da festeggiare, poiché difficilmente avremmo festeggiato il compleanno

successivo. Trasse di tasca mezza mela, ne tagliò una fetta e me la donò, e fu

quella, in un anno di prigionia, l'unica volta che gustai un frutto.

Masticammo in silenzio, attenti al prezioso sapore acidulo come ad una

sinfonia. Nel tubo di fronte al nostro, frattanto, si era rifugiata una donna:

giovane, infagottata in panni neri, forse un'ucraina della Todt. Aveva un viso

rosso e largo, lucido di pioggia, ci guardava e rideva; si grattava con indolenza

provocatoria sotto la giubba, poi si sciolse i capelli, si pettinò con tutta calma e

incominciò a rifarsi le trecce. A quel tempo capitava di rado di vedere una donna

da vicino, ed era un 'esperienza dolce e feroce, da cui si usciva affranti.

Il Tischler si accorse che io la stavo guardando, e mi chiese se ero sposato.

No, non lo ero; lui mi fissò con severità burlesca, essere celibi alla nostra età è

peccato. Tuttavia si voltò e rimase per un pezzo a contemplare la ragazza anche

lui. Aveva finito di farsi le trecce, si era accovacciata nel suo tubo e canterellava

dondolando il capo.

- È Lilìt, - mi disse il Tischler ad un tratto.

Primo Levi LILÌT

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La conosci? Si chiama cosi?

Non la conosco, ma la riconosco. È lei Lilìt, la prima moglie di Adamo. Non la

sai, la storia di Lilìt? Non la sapevo, e lui rise con indulgenza: si sa bene, gli ebrei

d'Occidente sono tutti epicurei, «apicorsim», miscredenti.

Poi continuò: Se tu avessi letto bene la Bibbia, ricorderesti che la faccenda

della creazione della donna è raccontata due volte, in due modi diversi: ma già, a

voialtri vi insegnano un po' di ebraico a tredici anni, e poi finito…

Si andava delineando una situazione tipica ed un gioco che mi piaceva, la

disputa fra il pio e l'incredulo, che è ignorante per definizione, ed a cui

l'avversario, dimostrandogli il suo errore, « fa digrignare i denti ». Accettai la mia

parte, e risposi con la doverosa insolenza: Si, è raccontata due volte, ma la

seconda non è che il commento della prima.

Falso. Così intende chi non va sotto alla superficie. Vedi, se leggi bene e

ragioni su quello che leggi, ti accorgi che nel primo racconto sta solo scritto «Dio

li creò maschio e femmina»: vuoi dire che li ha creati uguali, con la stessa

polvere. Invece, nella pagina dopo, si racconta che Dio forma Adamo, poi pensa

che non è bene che l'uomo sia solo, gli toglie una costola e con la costola fabbrica

una donna; anzi, una «Männin», una uomessa, una femmina d'uomo.

Vedi che qui l'uguaglianza non c'è più: ecco, c'è chi crede che non solo le due

storie, ma anche le due donne siano diverse, e che la prima non fosse Eva, la

costola d'uomo, ma fosse invece Lilit. Ora, la storia di Eva è scritta, e la sanno

tutti; la storia di Lilit invece si racconta soltanto, e cosi la sanno in pochi ; anzi le

storie, perché sono tante. Te ne racconterò qualcuna, perché è il nostro

compleanno e piove, e perché oggi la mia parte è di raccontare e di credere:

l'incredulo oggi sei tu.

La prima storia è che il Signore non solo li fece uguali, ma con l'argilla fece

una sola forma, anzi un Golem, una forma senza forma. Era una figura con due

schiene, cioè l'uomo e la donna già congiunti; poi li separò con un taglio, ma

erano smaniosi di ricongiungersi, e subito Adamo volle che Lilìt si coricasse in

terra. Lilìt non volle saperne: perché io di sotto? non siamo forse uguali, due

metà della stessa pasta? Adamo cercò di costringerla, ma erano uguali anche di

Primo Levi LILÌT

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forze e non riuscì, e allora chiese aiuto a Dio: era maschio anche lui, e gli avrebbe

dato ragione. Infatti gli diede ragione, ma Lilìt si ribellò: o diritti uguali, o niente;

e siccome i due maschi insistevano, bestemmiò il nome del Signore, diventò una

diavolessa, partì in volo come una freccia, e andò a stabilirsi in fondo al mare. C'è

anzi chi pretende di saperne di più, e racconta che Lilìt abita precisamente nel

Mar Rosso, ma tutte le notti si leva in volo, gira per il mondo, fruscia contro i

vetri delle case dove ci sono dei bambini appena nati e cerca di soffocarli.

Bisogna stare attenti ; se lei entra, la si acchiappa sotto una scodella capovolta, e

non può più fare danno. Altre volte entra in corpo a un uomo, e l'uomo diventa

spiritato; allora il miglior rimedio è di portarlo davanti a un notaio o a un

tribunale rabbinico, e fare stendere un atto in debita forma in cui l'uomo dichiara

che vuole ripudiare la diavolessa. Perché ridi? Certo che non ci credo, ma queste

storie mi piace raccontarle, mi piaceva quando le raccontavano a me, e mi

dispiacerebbe se andassero perdute. Del resto, non ti garantisco di non averci

aggiunto qualcosa anch'io: e forse tutti quelli che le raccontano ci aggiungono

qualche cosa, e le storie nascono cosi.

Si sentì uno strepito lontano, e poco dopo ci passò accanto un trattore

cingolato. Si trascinava dietro uno spartineve, ma il fango spartito si

ricongiungeva immediatamente alle spalle dell'arnese: come Adamo e Lilìt,

pensai. Buono per noi; saremmo rimasti in riposo ancora per parecchio tempo.

- Poi c'è la storia del seme. È golosa di seme d'uomo, e sta sempre in

agguato dove il seme può andare sparso: specialmente fra le lenzuola. Tutto il

seme che non va a finire nell'unico luogo consentito, cioè dentro la matrice della

moglie, è suo: tutto il seme che ogni uomo ha sprecato nella sua vita, per sogni o

vizio o adulterio. Tu capisci che ne riceve tanto, e cosi è sempre gravida; e non fa

che partorire. Essendo una diavolessa, partorisce diavoli, ma questi non fanno

molto danno, anche se magari vorrebbero. Sono spiritelli maligni, senza corpo:

fanno girare il latte e il vino, corrono di notte per i solai e annodano i capelli alle

ragazze. Però sono anche figli d'uomo, di ogni uomo: figli illegittimi, ma quando il

loro padre muore vengono al funerale insieme con i figli legittimi, che sono i loro

fratellastri. Svolazzano intorno alle candele funebri come le farfalle notturne,

Primo Levi LILÌT

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stridono e reclamano la loro parte d'eredità. Tu ridi, perché appunto sei un

epicureo, e la tua parte è di ridere: o forse non hai mai sparso il tuo seme. Ma

può capitare che tu esca di qui, che tu viva, e che tu veda che in certi funerali il

rabbino col suo seguito fa sette giri intorno al morto: ecco, fa barriera intorno al

morto perché i suoi figli senza corpo non vengano a dargli pena.

Ma mi resta da raccontarti la storia più strana, e non è strano che sia strana,

perché è scritta nei libri dei cabalisti, e questi erano gente senza paura. Tu sai che

Dio ha creato Adamo, e subito dopo ha capito che non è bene che l'uomo sia

solo, e gli ha messo accanto una compagna. Ebbene, i cabalisti dicevano che

anche per Dio stesso non era bene essere solo, ed allora, fin dagli inizi, si era

preso per compagna la Shekinà, cioè la sua stessa presenza nel Creato; cosi la

Shekinà è diventata la moglie di Dio, e quindi la madre di tutti i popoli. Quando il

Tempio di Gerusalemme è stato distrutto dai Romani, e noi siamo stati dispersi e

fatti schiavi, la Shekinà è andata in collera, si è distaccata da Dio ed è venuta con

noi nell'esilio. Ti dirò che questo qualche volta l'ho pensato anch'io, che anche la

Shekinà si sia fatta schiava, e sia qui intorno a noi, in questo esilio dentro l'esilio,

in questa casa del fango e del dolore.

Cosi Dio è rimasto solo; come succede a tanti, non ha saputo resistere alla

solitudine e alla tentazione, e si è preso un'amante: sai chi? Lei, Lilìt, la

diavolessa, e questo è stato uno scandalo inaudito. Pare insomma che sia

successo come in una lite, quando a un 'offesa si risponde con un'offesa più

grave, e cosi la lite non finisce mai, anzi cresce come una frana. Perché devi

sapere che questa tresca indecente non è finita, e non finirà tanto presto: per un

verso, è causa del male che avviene sulla terra; per un altro verso, è il suo effetto.

Finché Dio continuerà a peccare con Lilit, sulla Terra ci saranno sangue e dolore;

ma un giorno verrà un potente, quello che tutti aspettano, farà morire Lilit, e

metterà fine alla lussuria di Dio e al nostro esilio. Si, anche al tuo e al mio,

Italiano: Maz'l Tov, Buona Stella.

La Stella è stata abbastanza buona per me, non per il Tischler: ma

veramente mi è capitato di assistere, molti anni dopo, a un funerale che si è

svolto come lui mi aveva descritto, con la danza difensiva intorno al feretro. Ed è

Primo Levi LILÌT

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inesplicabile che il destino abbia scelto un epicureo per ripetere questa favola pia

ed empia, intessuta di poesia, di ignoranza, di acutezza temeraria, e della

tristezza non medicabile che cresce sulle rovine delle civiltà perdute.

Primo Levi LILÌT

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PRIMO LEVI TITANIO (su rivista 1948) In Il sistema periodico, Einaudi, 1975 (qui Einaudi 2005).

In cucina c’era un uomo molto alto, vestito in un modo che Maria non aveva mai

visto prima. Aveva in testa una barchetta fatta con un giornale, fumava la pipa e

dipingeva l’armadio di bianco.

Era incomprensibile come tutto quel bianco potesse stare in una scatoletta così

piccola, e Maria moriva dal desiderio di andare a guardarci dentro. L’uomo ogni tanto

posava la pipa sull’armadio stesso, e fischiava; poi smetteva di fischiare e cominciava

a cantare; ogni tanto faceva due passi indietro e chiudeva un occhio, e andava anche

qualche volta a sputare nella pattumiera e poi si strofinava la bocca col rovescio della

mano. Faceva insomma tante cose così strane e nuove che era interessantissimo

starlo a guardare: e quando l’armadio fu bianco, raccolse la scatola e molti giornali

che erano per terra e portò tutto accanto alla credenza e incominciò a dipingere

anche quella.

L’armadio era così lucido, pulito e bianco che era quasi indispensabile toccarlo.

Maria si avvicinò all’armadio, ma l’uomo se ne accorse e disse: – Non toccare. Non

devi toccare. – Maria si arrestò interdetta e chiese: – Perché? – al che l’uomo rispose:

– Perché non bisogna. – Maria ci pensò sopra, poi chiese ancora: – Perché è così

bianco? – Anche l’uomo pensò un poco, come se la domanda gli sembrasse difficile,

e poi disse con voce profonda: – Perché è titanio. –

Maria si sentì percorrere da un delizioso brivido di paura, come quando nelle

fiabe arriva l’orco, guardò con attenzione, e constatò che l’uomo non aveva coltelli,

né in mano né intorno a sé: poteva però averne uno nascosto. Allora domandò: – Mi

tagli che cosa? – e a questo punto avrebbe dovuto rispondere: “Ti taglio la lingua”.

Invece disse soltanto: – Non ti taglio, titanio. –

In conclusione, doveva essere un uomo molto potente: tuttavia non pareva in

collera, anzi piuttosto buono e amichevole, Maria gli chiese: – Signore, come ti

chiami? – Lui rispose: – Mi chiamo Felice – ; non si era tolto la pipa di bocca, e

quando parlava la pipa ballava su e giù eppure non cadeva. Maria stette un po’ di

Primo Levi TITANIO

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tempo in silenzio, guardando alternativamente l’uomo e l’armadio. Non era per nulla

soddisfatta di quella risposta ed avrebbe voluto domandare perché si chiamava

Felice, ma poi non osò, perché si ricordava che i bambini non devono mai chiedere

perché. La sua amica Alice si chiamava Alice ed era una bambina, ed era veramente

strano che si potesse chiamare Felice un uomo grande come quello. Ma a poco a

poco incominciò invece a sembrarle naturale che quell’uomo si chiamasse Felice, e le

parve anzi che non avrebbe potuto chiamarsi in nessun altro modo.

L’armadio dipinto era talmente bianco che in confronto tutto il resto della

cucina sembrava giallo e sporco. Maria giudicò che non ci fosse nulla di male

nell’andarlo a vedere da vicino: solo vedere senza toccare. Ma mentre si avvicinava in

punta di piedi avvenne un fatto imprevisto e terribile: l’uomo si voltò, con due passi

le fu vicino; trasse di tasca un gesso bianco, e disegnò sul pavimento un cerchio

intorno a Maria.

Poi disse: – Non devi uscire di lì dentro. – Dopo di che strofinò un fiammifero,

accese la pipa facendo colla bocca molte smorfie strane, e si rimise a verniciare la

credenza.

Maria sedette sui calcagni e considerò a lungo il cerchio con attenzione: ma

dovette convincersi che non c’era nessuna uscita. Provò a fregarlo in un punto con un

dito, e constatò che realmente la traccia di gesso spariva; ma si rendeva benissimo

conto che l’uomo non avrebbe ritenuto valido quel sistema.

Il cerchio era palesemente magico. Maria sedette per terra zitta e tranquilla;

ogni tanto provava a spingersi fino a toccare il cerchio con la punta dei piedi e si

sporgeva in avanti fino quasi a perdere l’equilibrio, ma vide ben presto che mancava

ancora un buon palmo a che potesse raggiungere l’armadio o la parete con le dita.

Allora stette a contemplare come a poco a poco anche la credenza, le sedie e il tavolo

diventavano belli e bianchi.

Dopo moltissimo tempo l’uomo ripose il pennello e lo scatolino e si tolse la

barchetta di giornale dal capo, ed allora si vide che aveva i capelli come tutti gli altri

uomini. Poi uscì dalla parte del balcone, e Maria lo udì tramestare e camminare su e

giù nella stanza accanto. Maria cominciò a chiamare: – Signore! – dapprima

sottovoce, poi più forte, ma non troppo, perché in fondo aveva paura che l’uomo

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sentisse.

Finalmente l’uomo ritornò in cucina. Maria chiese: – Signore, adesso posso

uscire? –

– L’uomo guardò in giù a Maria e al cerchio, rise forte e disse molte cose che

non si capivano, ma non pareva che fosse arrabbiato. Infine disse: – Sì, si capisce,

adesso puoi uscire –. Maria lo guardava perplessa e non si muoveva: allora l’uomo

prese uno straccio e cancellò il cerchio ben bene, per disfare l’incantesimo. Quando il

cerchio fu sparito Maria si alzò e se ne andò saltellando, e si sentiva molto contenta e

soddisfatta.

Primo Levi TITANIO

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Luigi Malerba IL GIOCO DELLO SCIPPO In Dopo il pescecane, Bompiani, 1979.

I quindici anni sono una età molto incerta e confusa, lo vedo da mio figlio.

Sempre agitato, e sempre distratto come se vivesse in mezzo alle nuvole. Certi giorni

si mette davanti al televisore spento e resta lì per delle ore, chissà che cosa pensa,

dico, e chissà che cosa immagina di vedere su quello schermo nero senza immagini.

Sono preoccupato per lui e mi sembra di avere tutte le ragioni. Non so mai per quale

verso prenderlo perché ogni volta che provo a parlargli mi risponde a vanvera,

oppure, se l'argomento non gli piace, si innervosisce e va a chiudersi nella sua camera

e non lo vedo più fino alla mattina dopo quando esce per andare a scuola.

Ho parlato con i genitori di alcuni suoi compagni e mi è parso che più o meno

con i loro figli si trovano o trovino? nelle mie condizioni, c'è la stessa incomprensione,

lo stesso distacco e indifferenza che ci sono tra me e mio figlio. Non capisco che cosa

hanno in testa questi ragazzi. Ho perfino provato a spiarli quando stanno insieme e

ho scoperto che si dicono delle gran parolacce, ma un vero discorso filato non l'ho

sentito. Insomma non sanno parlare nemmeno tra di loro.

Mi preoccupa soprattutto il vuoto in cui vivono. Mi preoccupa che mio figlio

guardi la televisione spenta, mi preoccupa che non abbia un dialogo con nessuno, la

sua mancanza di interessi e di entusiasmo, i suoi silenzi. Non legge i giornali, non va al

cinema, non va a ballare. Io ero molto diverso, ma si sa che oggi è tutto cambiato.

Qualcuno mi dice prova con le sberle, ma io sono contrario alla maniera forte, sono

un genitore moderno e non me la sento di prendere a sberle mio figlio solo perché

guarda il televisore spento o perché fra noi non c'è dialogo. Senza contare che, a

quindici anni, è già alto un metro e settantacinque e non vorrei che gli venisse in

mente di mettermi le mani addosso, non si sa mai.

È un po' di tempo che gli dico tròvati un hobby tanto per distrarti, oppure un

gioco come il tennis o il calcio o il salto con l'asta, insomma uno sport divertente e

che faccia bene alla salute. Mi andrebbe bene anche il biliardo piuttosto che niente,

ma lui si è messo a ridere come se avessi detto una cosa molto strana e ridicola. Se

Luigi Malerba IL GIOCO DELLO SCIPPO

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non ti piace il biliardo perché non provi con il bowling, lo skateboard, il frisbee? E così

gli ho fatto vedere che sono più aggiornato di quanto lui creda e che non c'è mica

tanto da ridere. Io so che quando un ragazzo prende passione a un gioco, anche se

trascura la scuola almeno ha la testa occupata da qualcosa e non corre rischi

peggiori. Sto pensando alla droga naturalmente. La droga è l'incubo di tutti i genitori

come un tempo le malattie veneree. Oggi si cura anche la sifilide ma pare che con la

droga, quella pesante, non c'è niente da fare.

Sarà passato un mese da quando mio figlio mi ha chiesto di comprargli la

lambretta. A tutta prima sono rimasto sorpreso, ma mi sono detto meglio la

lambretta che la droga. Con una certa cautela per non irritarlo, gli ho fatto qualche

domanda. Mi ero ricordato di una mia cugina che qualche anno fa aveva comprato la

motocicletta a suo figlio e quello era partito e non si era visto più. Ogni tanto manda

una cartolina da Baden Baden, da Amburgo, da Marsiglia, da Amsterdam e tutto

finisce lì. Tanti baci e basta. Un mese fa è arrivata una cartolina da Helsinki. Che cosa

farà a Helsinki? Non vorrei che succedesse qualcosa di simile anche a me con mio

figlio, mi sono detto, e così gli ho comprato una lambretta usata, piuttosto malridotta

come motore anche se di fuori era stata rimessa a nuovo. Con questa può andare

poco lontano, ho pensato.

Non aveva nessuna intenzione di scappare da casa. Anzi, da quando gli ho

comprato la !ambretta si direbbe che ha superato lo schifo di parlare con me, ogni

tanto mi rivolge la parola. Mi ha anche spiegato a che cosa gli serve la lambretta, mi

ha raccontato che fa il gioco dello scippo insieme a un suo amico. Meno male, mi

sono detto, se gli prende la passione per un gioco finalmente potrò stare tranquillo,

forse gli passa questo atteggiamento negativo, forse sarà più sereno, forse forse

finirà per farmi le sue confidenze come usava un tempo fra padri e figli.

Una sera è arrivato a casa tutto sudato e con uno strappo nella giacca. Si è

seduto di fronte a me e mi ha raccontato che si era divertito come un pazzo. Così

sono venuto a sapere in che cosa consiste il gioco dello scippo. Mi ha spiegato che si

fa in due: uno si mette alla guida della lambretta e l'altro dirige il gioco. Vanno in giro

per le stradine intorno a Campo dei Fiori dove non c'è mai la polizia e strappano la

borsetta alle donne che passano da quelle parti. Da principio per esercitarsi hanno

Luigi Malerba IL GIOCO DELLO SCIPPO

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incominciato a portare via la borsa alle vecchiette che non possono correre e quindi il

rischio è ridotto al minimo. Dopo un mese di esercizio si sono buttati sulle turiste, di

preferenza le turiste straniere.

Ho domandato che cosa ne fanno delle borsette e lui mi ha spiegato che le

restituiscono per posta quando nei documenti trovano l'indirizzo, altrimenti le vanno

a gettare nel Tevere. Dice che ne hanno spedita una a Minneapolis negli Stati Uniti e

ne hanno spedite altre nel Canada, nel Brasile e perfino in Australia e in Giappone. E i

soldi, che cosa ne fate dei soldi? Quelli ce li teniamo noi, mi ha risposto, altrimenti il

gioco perde ogni senso e non ci divertiamo più. E poi i soldi servono anche per le

spese, la miscela per la Lambretta, le riparazioni, la spedizione delle borsette alle

legittime proprietarie e via dicendo. Tieni conto, mi ha detto, che spesso troviamo

soldi esteri e ci perdiamo molto con il cambio clandestino.

Spesso le donne scippate si mettono a strillare e a inseguirei e questo è molto

emozionante, ha detto mio figlio. Quando finalmente arriviamo in un posto sicuro e

lontano ci facciamo delle gran risate e poi andiamo in pizzeria o al cinema. I soldi ce li

dividiamo sempre a metà io e il mio compagno, anche le spese le dividiamo a metà.

Alla guida ci stanno una volta per uno e la vittima viene scelta da quello che sta

dietro e deve strapparle via la borsetta, questa è la regola del gioco. Insomma pare

che si divertono moltissimo, beati loro.

Da quando gioca allo scippo mio figlio è molto migliorato. La mattina va a

scuola, ritorna a casa dopo l'una a mezzo, fa i compiti e poi esce con la Lambretta.

Qualche volta porta a casa anche il suo amico e fanno i compiti insieme prima di

uscire. Altre volte è mio figlio che va a casa sua, soprattutto quando hanno i compiti

di matematica perché il padre è ingegnere e li aiuta a fare le equivalenze, le

equazioni e a risolvere i problemi. Io di matematica non me ne intendo, ma gli

ascolto volentieri le poesie che devono imparare a memoria, Valentino del Pascoli,

"Oh! Valentino vestito di nuovo, come le brocche dei biancospini!", Pastori d'Abruzzo

di D'Annunzio, "Settembre, andiamo. È tempo di migrare", L'infinito di Leopardi,

"Sempre caro mi fu quest'ermo colle", bellissimo. A me sono sempre piaciute le

poesie e molte le ricordo ancora dal tempo della scuola, così posso aiutarli nel

ripasso senza nemmeno guardare il libro.

Luigi Malerba IL GIOCO DELLO SCIPPO

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Spesso mio figlio ritorna a casa molto tardi la sera, quando io sono già a letto,

ma se torna presto ci mettiamo davanti al televisore e guardiamo insieme uno

spettacolo e alla fine ci scambiamo le nostre impressioni. Sono lontani i tempi che

restava per ore davanti allo schermo spento. Se alla televisione non c'è niente di

interessante mi parla del gioco dello scippo, sempre con molto entusiasmo. Una sera

mi ha detto che erano riusciti a scippare cinque borsette, lui e il suo amico. Ogni

tanto gli faccio qualche raccomandazione perché ho sempre paura che durante le

fughe in quei vicoletti pieni di traffico possano cadere o investire qualcuno. Mi sono

fatto promettere che con i soldi del prossimo scippo si pagano l'assicurazione. Mi

hanno detto che la faranno senz'altro, sono due bravi ragazzi e, da un po' di tempo,

anche allegri e spensierati come devono essere alla loro età.

L’altra sera sono arrivati a casa più allegri del solito e mi hanno annunciato che

hanno comprato una Kawasaki. Ho dovuto scendere nel cortile per vederla. Mi hanno

detto di stare tranquillo che avevano già sistemato tutto sia per l’assicurazione che

per la patente. Io su una Kawasaki non ci salirò mai, però devo ammettere che è

proprio un bell’oggetto.

Luigi Malerba IL GIOCO DELLO SCIPPO

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ANNA MARIA ORTESE LA CITTÀ È VENDUTA (su rivista 1957) In Silenzio a Milano, Laterza, 1958 (qui Mondadori 1999).

Attraverso il Parco in taxi, diretta a una zona periferica, una campagna piatta e

smorta, lacerata dal fischio dei treni. Non lascio Milano, solo mi trasferisco da una

periferia a un’altra. Non sono triste né allegra. Ammiro, dai vetri della macchina , questo

splendido giardino tutto velato, come in autunno, da un sottilissimo immobile sipario di

nebbia. Quale calma, maestà, bellezza! Dietro questo velo, come dietro un cristallo

appena opaco, le ombre degli alberi (le curve dei viali, il folto del fogliame), hanno la

vastità e la nobiltà di uno scenario . È nobile, Milano, mi sorprendo a pensare. La

macchina fugge come una freccia, e ora, al di sopra degli alberi e delle aiuole, intravvedo

nitide prospettive di palazzi nuovi, e il vetro, e il marmo delle facciate, e penso al lusso e

alla calma di quelle case.

Siamo già alla stazione Nord, a via Dante, corriamo verso il centro, la foresta del

traffico dove, grande macchia bianca, si disegna la mole del Duomo; entriamo nel Corso,

e qui ancora palazzi, palazzi, palazzi, e più in là, a San Babila; palazzi, palazzi, palazzi, un

accecante mare di marmo, di vetro, di materiali pregiati. È ricca, Milano, mi sorprendo a

pensare. Lo penso senza nessun sottinteso polemico, solo con stupore. Com'è ricca,

splendida!

Scendo davanti a una casa di corso Buenos Aires, perché devo ritirare altre valige.

Entro in un andito, poi in un altro. Qui tutto è vecchio, corroso, con effetti allucinanti.

Per le scale, dai gradini neri e rotti, foglie di cavolo e una grossa zampa di gallina, gialla

come il sole, che devo spingere in là col piede. Una balconata cadente gira tutto intorno

al primo piano, come un corridoio scoperto, e vi si affacciano alcune porte e finestre

munite di sbarre, espressione di una rovina e una solitudine che ha qualcosa di fiabesco.

Anche qui ho abitato, in quella stanza in fondo.

Introduco una chiave nella porta, la spingo, e subito m’investe un odore indefinibile

di cose guaste: forse legno, libri, indumenti, chissà. Uno scarafaggio, in quella penombra,

cerca di raggiungere la porta, ed esattamente la porta della mia vecchia stanza. Si regge

a malapena, forse colpito dalle polverine bianche sparse per la casa, comunque si regge

Anna Maria Ortese LA CITTÀ È VENDUTA

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e va verso la porta. Perline di sudore, benché non faccia niente caldo, mi coprono la

fronte, e chiudo gli occhi e vorrei bere qualcosa. Ma no, no, è passato.

Raccolgo la mia roba, in fretta, e ritorno nel corridoio; qui, mentre sto per uscire,

avverto, dietro una tenda che divide l'ingresso dalla cucina, un respiro uniforme, che a

momenti si ferma del tutto, e poi riprende con lo stesso fruscio stanco della risacca sulla

spiaggia. Ma è una risacca umana. C'è la signora Elisa là di dietro, infermiera

cinquantenne: morti il marito e il figlio in Germania, distrutta la casa, vive come può, e la

notte veglia i malati e il giorno riposa, e cosi la sua vita passa: qui a Milano. Apro

discretamente la tenda :

« Signora Elisa! », chiamo.

« Son qua! son qua! », ecco cosa risponde svegliandosi di soprassalto, la sua voce

incolore ..

« La saluto, vado via »

« Ah, va via, va! »

Intravvedo il letto, tra l'acquaio e il fornello a gas. Intorno, le sue valige. Su una

mensola unta, coperta da un giornale, due cornici, una più grande una più piccola, due

immagini sfocate: il marito, il figlio.

« Signora Elisa », vorrei dirle, « ma lei che fa qui? Prenda le valige, prenda i ritratti,

presto, venga via. »

« Dormivo », fa dolcemente, tirandosi su col capo tutto grigio, spettinato,

guardandomi con due occhi celesti, franchi eppure tenuamente velati, come il cielo della

città. « Non sapevo più dov'ero. L'orologio non va più » .

No, non va più, nessun orologio va più, in certe zone della città. La notte succede

alla notte, l'inverno all'inverno : e non c'è giorno, mai il grande e luminoso giorno, né

primavera : ma solo, da fuori, talvolta arrivano rumori e luci.

« Verrò a trovarla, signora Elisa », mentisco, « verrò a trovarla qualche volta, la

domenica, e prenderemo il caffè. Ma intanto si metta giù, e dorma. Mi scusi, se per

salutarla l'ho svegliata».

E ho rimorso di andar via, mentre i suoi occhi gentili sorridono con amicizia,

chiudendosi. Ho rimorso, perché la signora Elisa non andrà via più, da questa casa, da

questo freddo cuore, morto cuore di Milano.

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Fuggo, questa volta, e, uscendo, la luce mi sembra impercettibilmente più chiara, e

l'aria più asciutta, forse per il contrasto con quelle tenebre e quell'umidore. Passando

davanti alla portineria, nella luce fioca dello sgabuzzino, scorgo il portinaio. È un uomo

giallo, allampanato, con un sorriso curioso: per metà attento, e metà indifferente, come

se qualcosa, in lui, di originariamente vivo, fosse stato sopraffatto dalla vita, il costume,

le dure leggi economiche della città. È come quando sull'occhio avanza il velo di una

cataratta: così è quell'indifferenza su quella attenzione.

« Signor Carlo, la saluto » dico affacciandomi.

« Ah, così lei va via, va! »

« Vado via, sì » dico timidamente.

« Trovato casa, dove? »

« Due stanzette, in fondo a Viale Corsica. »

« Non è vicino! », dice con un piccolo sorriso.

È un buon uomo, ma è giusto che sia contento se io non ho trovato di meglio.

Perché avrei dovuto trovare di meglio, io? Carlo e io lo sappiamo com'è duro vivere

nell'ombra, da tanti anni, dall'infanzia, forse : e sempre, sotto i piedi, pavimenti logori, e

intorno muri corrosi, e sulla testa soffitti pieni di macchie, di bolle; e mai, davanti, una

terrazza, quelle vetrate e quel marmo che usano tanto, e il sole e la luce. Mai per Carlo e

per me il sole e la luce. Mai per Carlo, per me e per milioni di persone come noi, il sole e

la luce.

« C’è sole? C'è luce? », chiede.

« Fuori sì», dico contenta di farlo contento. « Da me no, un finestrino sotto il

soffitto. E anche un balcone: ma guarda su un muro»

« Sempre muri! Muri! » dice.

Ora, improvvisamente, mi guarda con un occhio strabico. Il suo occhio indifferente

si è spento, e una collera è apparsa dietro l'attenzione dell'altro. Per la collera, l'occhio si

è fatto strabico.

« Muri? Ah, muri? Perché muri? » dice, e quasi mi viene contro, come se gli avessi

detto qualcosa d'irritante.

Io non so che dire.

« Bisogna contentarsi » dico.

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« Ma i muri no », dice. « Eh no, i muri non ci vogliono. I muri stanno esagerando. »

« Calmati, Carlo », dice la moglie intervenendo, « non sono cose che ci riguardano.

» Mi porge una bolletta. « Questa è per lei, la luce. »

È una donna anziana, forte. Ha l'occhio indifferente del marito, con una punta di

ferocia.

« L'occhio di quelli che sono arrivati », penso. Eppure non è arrivata. Anche l'occhio

dell'uomo, ora è tornato indifferente. Si è aperto ed è indifferente.

« I muri... la luce! », dice scioccamente.

Neppure lui uscirà più di qui.

L'autista, fuori, è impaziente. Guarda qua e là, immusonito per il mio ritardo. Mette

subito in moto. E la città ricomincia a fuggire. Se ne vanno, a poco a poco, gli ultimi

palazzo di marmo, le case della luce, scompaiono i balconi e le terrazze di vetro e viene

avanti il mare gonfio e scuro, sinistro e scuro dei quartieri periferici, dove abita il vecchio

popolo di Milano.

Ci sono periferie aperte e periferie chiuse, periferie per ricchi e periferie per poveri,

periferie per uomini e periferie per non-uomini. Questa è una periferia per non-uomini.

Anche le case recenti hanno un che di vecchissimo. Il fumo e la polvere hanno

sùbito coperto di una crosta grassa le giovani facciate; le finestre sono strette come

fessure; davanti alle case, non piccoli giardini, ma squallidi marciapiedi, campi sterrati

dove dormono i cani. Qualche bambino gioca solitario tra le pietre. Passiamo davanti a

una fila di baracche circondate da un lungo campo malinconico, un poco orto un poco

cortile. Nuvole di fumo denso e grasso le avvolgono come sollevate da un invisibile

incendio; invece è solo un monticello di rifiuti che brucia senza fuoco in un angolo del

campo. Una giovane donna vestita di rosso, la faccia piccola come un pugno, stende

della biancheria a una corda. Un vecchio dall'aria stupita è seduto su una sedia sbilenca,

davanti a una soglia. Dei ragazzi sono intenti a trasportare lentamente della legna.

Lentamente, è la parola giusta. Tutto è lento, pressoché immobile in questo quadro,

come se non vi fosse più nulla da sperare, da fare, da possedere. Tutto immobile, chiuso,

finito. Come in certi giorni di Napoli, come in tanti giorni d'Italia.

« Quella casa è la mia », mi dice improvvisamente l’autista. « Dove c’è quell’albero

». La corsa rallenta, e io guardo la casa e l’albero. La casa è una baracchetta grigia, col

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tetto di lamiera spiovente, la facciata in origine azzurra, ora stinta dalla pioggia e dal

sole. L'albero è un vero albero, un fragile, delicato, meraviglioso albero pieno di piccoli

fiori rosa che alzano, come bocche, i calici al cielo. Sembrano ansiosi di respirare, di

aprirsi, di splendere; ma, a piede dell'albero, la terra è pietra, la polvere erba.

« Anche l'albero? », chiedo. Non ha capito.

« A Milano c'è sempre posto » dice come ripetendo una lezione. «Un tetto c'è

sempre. »

Io non ho nulla da ribattere. In qualche modo, è anche vero: c'è sempre posto, un

tetto c'è sempre.

« Però ... », dice.

I suoi occhi neri, pesanti, antichi, guardano intorno con l'espressione particolare di

chi osserva qualcosa di nuovo, di chi riflette lentamente.

« È come se ci spingessero sempre più indietro », dice come parlando a se stesso,

soprappensiero. « La città si allarga, e noi sempre più indietro. Una volta eravamo più

vicino, o mi sbaglio? Ora le nostre case s'allontanano sempre più dalla città. Ma chi c'è

nella città? È stata venduta? Per chi costruiscono? Davvero ... »

« Perché costruiscono intensamente, giorno e notte lavorano a innalzare case di

marmo, e il rumore delle fabbriche va fino il cielo », rispondo stupidamente. « Come se

fosse stata comprata... venduta. »

« Comprata ... Venduta ... » L'uomo si mette a ridere. « A chi, poi? »

Ma subito tace, non aggiunge altro.

Gli vedo, di spalla, un orecchio rosso come una macchia di sangue sulla giacca di

tela nera. Ora corre, vola come un pazzo. Come chi ha capito qualcosa di triste, chi è

umiliato e ha vergogna.

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GIUSEPPE PONTREMOLI AUTOPRESENTAZIONE In Rabbia Birabbia, Nuove Edizioni Romane, 1991.

A me piace molto il mare. E mi piace anche se a Milano, dove lavoro, il mare

proprio non c’è – non ce n’è nemmeno l’ombra, e neppure il sudore. E anche a Sesto

S. Giovanni. Dove abito, e a Parma, dove sono nato, sempre la stessa storia; mare

niente, né qui né lì né là. E comunque il mare mi piace. Però c’è un problema; io non

so nuotare, e così tutte le volte che vado al mare combino qualche guaio. Una volta,

per esempio, al mare ho conosciuto un uomo una donna e una bambina e, parlando

parlando, ho detto loro che di mestiere faccio il maestro. A sentire questa notizia

l’uomo e la donna erano allegri e incuriositi; la bambina invece ha detto « Ecco,

rovinata la serata ». A me è dispiaciuto molto; da allora, dato che non voglio rovinare

a nessuno né le serate né le giornate, non dico più che faccio il maestro, e così non lo

dirò nemmeno qui. No, non lo dirò, mi terrò la notizia come un imbarazzante segreto.

Il mare, però, non è la cosa che mi piace di più. Più di tutto mi piacciono il vento,

la musica e le storie. Storie ne leggo proprio tante; le leggo e le rileggo e poi le

racconto anche in giro. E quando ce n’è qualcuna che mi sembra bellissima ne parlo e

ne scrivo. Così, leggendo leggendo, in una storia raccontata da un bravissimo

narratore che si chiama Isaac Bashevis Singer, ho trovato alcune parole di cui mi

piace servirmi per dire come sono io: « Si avvicinava ormai ai trentacinque anni, ma

la sua irrequietezza non accennava a calmarsi ».

Basta, mi fermo qui, perché non vorrei che vi venisse una barba come la mia.

Ah, dimenticavo di dire che certe poche volte porto gli occhiali, e forse me ne

dimenticavo perché spesso dimentico di infilarli; e forse me ne dimentico perché non

mi piace metterli; e forse non mi piace metterli perché… Non, no, avevo già detto

“basta” e poi, tra l’altro, questa è un’altra storia.

Giovanni Pontremoli AUTOPRESENTAZIONE