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DIALOGOI rivista di studi comparatistici anno 3 /2016

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DIALOGOIrivista di studi comparatistici

anno 3 /2016

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DIALOGOIRivista di Studi comparatisticianno 3/2016

Direttore editorialeGiuseppe GrilliUniversità degli Studi Roma Tre

Direttore responsabileNicola PalladinoSeconda Università degli Studi di Napoli

Comitato scientifico internazionaleVictoria Cirlot Universitat Pompeu Fabra, Barcelona

Gabriel Moshe RosenbaumUniversità Ebraica di Gerusalemme

Jocelyn Wogan–Browne Fordham University, New York

Verner Egerland Lunds Universitet, Svezia

Patricia Stablein GilliesUniversity of Essex

Paolo TortoneseUniversité Paris III

Comitato editorialeFausta Antonucci, Corrado Bologna, Maria Del Sapio, Paola Faini, Dora Faraci, Francesco Fiorentino, Mara Frascarelli, Giuliano Lancioni, Stefania Nuccorini, Salvador Pippa, Aurelio Principato, Chiara Romagnoli.

EditoreAracne editrice

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Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale

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via Sotto le mura, 5400020 Canterano (RM)(06) 45551463

I diritti di traduzione, di memorizzazioneelettronica, di riproduzione e di adattamentoanche parziale, con qualsiasi mezzo, sonoriservati per tutti i Paesi.Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: dicembre 2016

ISBN 978–88–548–9844–8ISSN 2420–9856

La rivista adotta un sistema di valutazione dei testi basato sulla revisione paritaria e anonima (peer-review).

In collaborazione con il Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere dell'Università degli Studi Roma Tre

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Modernità senza moderniModerni senza modernità

Monografico a cura di Giuseppe Grilli

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Indice

9 Introduzione15 “Cosa sappiamo veramente del linguaggio?”. Paul de Man vindice della modernità Francesca Pagano

25 Traducir El Quijote al italiano. Tradicionalidad y actuali- dad de los refranes Maria Lalicata

41 Nel labirinto del verso Fausto Pellecchia

53 Collecting memories. Objects and Nostalgia in Bruce Chatwin and Jonathan Safran Foer

Paola Di Gennaro

69 Zu einer ‚modernen‘ Emanzipationsgeschichte der Spätromantik von Bettina und Gisela von Arnim Ute Weidenhiller

83 Romanticisme i viatge. Verdaguer “a la porta d'un altre món” Enric Bou

103 Futurismos / Futurismo Daniele Corsi

129 Fedra moderna y postmoderna entre Unamuno y Llorenç Villalonga

Nancy De Benedetto

141 Federico Garcia Lorca: un Poeta in equilibrio tra antico e moderno Nicola Palladino

155 La lingua come personaggio: emblema di Modernità in ángel Vázquez Daniela Natale

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165 La letteratura come visione: introduzione a Mircea Cartarescu Giovanni Bitetto

175 The Precariousness of Spectatorship in Punchdrunk’s The Drowned Man José Ramón Prado-Pérez

189 Pere Gimferrer al llindar Giuseppe Grilli

Varia comparata199 “Cogliam d’amor la rosa”. Variazioni della modernità nella poesia spagnola e altrove Maria Cristina Assumma

239 Andrej Belyj e il modernismo nella letteratura russa. Il sismografo del tempo. Elena Catristelli

253 Il populismo come ontologia Gabriele D'Arienzo

275 Recensioni

Testi309 Una trecentesca serie proverbiale. Tal par con passi lenti Andrea Giannetti

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Introduzione

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Questo monografico dedicato a Modernità senza mo-derni, moderni senza modernità (2016) completa la trilogia iniziata con Una frase, un rigo appena (2014) e proseguita con Viaggi rari (2015). Se il collegamento tra le diversità del Moderno è immediatamente collegato, collegabile, all’i-dea di viaggio, in tutte le sue proiezioni, è parimenti vero che la brevitas costituisce la manifestazione primordiale di ogni modernità. In realtà proprio con la concettualizza-zione del segmento, della concisione, in un piccolo spazio e in una temporalità definita, ha origine ciò che poi abbia-mo definito moderno. Un moderno che si afferma già tra gli antichi, i quali immediatamente si sentono nuovi e per-tanto moderni non appena sfuggono o intendono sfuggi-re a un continuum in cui l’indistinzione è prevalente se non direttamente fondante. A questo proposito è oggi sempre più insistente la consapevolezza — nella scia tracciata da Claudio Guillén — che in un tempo che assegniamo al tramonto del Medioevo, tra prima e recente modernità, è impossibile stabile uno iato. Se in piena età barocca, insu-perabile e indistinguibile dalla prima modernità, il primo manifestarsi del romanzo romantico è La princesse de Clève, esso è premessa ineludibile di tutti gli sviluppi che carat-terizzano i moderni descrittori del romanzo di genere, e principalmente del sottogenere di adulterio. Da Tolstoj a Leopoldo Alas, passando per Flaubert e Fontane, le palpi-tazioni della passione sono state lette come sintomatiche di una modernità in cui la compenetrazione tra destino individuale e politica identifica modernamente la mora-le sociale. Ute Weidenhiller ha messo adeguatamente in chiaro questo torbido intreccio ottocentesco che rigetta tanto l’ascrizione alla prima o precoce modernità, quanto la sua riduzione a singulto postromantico e predecadente, magari pompier.

Parimenti sarebbe ingenuo ignorare che insieme a una astoricità e ciclicità dei concetti di moderno e di moder-

InTRoduzIone

giuseppe grilli

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nità, affiancati o contrapposti, indissolubili o discontinui, esiste una prevalenza (e preminenza) di una soggettività. I moderni hanno spesso tacciato di passatisti coloro che, per genealogie e programmi, si dichiaravano vindici della Modernità. È questa la storia di tanti integranti dei diversi futurismi, cronologicamente o geograficamente dispersi e differenziati. E in tal senso le precipue caratterizzazioni iberiche hanno svolto un ruolo chiarificatore. Salvat Pa-passeit a Barcelona o Ramón Gómez de la Serna a Madrid probabilmente esprimono una modernità retrograda, se li confrontiamo con Pessoa. Ma sarebbe veramente difficile immaginare come un campione moderno Mossèn Verda-guer, il protoviaggiatore occidentale (Ultima Tule, come egli stesso scrive nel suo poema maggiore, L’Atlàntida), nella Russia che presto sarebbe stata sovietica, così come ri-proposto, o meglio proposto, da Enric Bou? Quanta di-stanza moderna lo allontana da Bruce Chatwin e Jonathan Safran Foer riletti da Paola Di Gennaro? Siamo davvero si-curi che l’essenza della Modernità risieda negli sperimen-talismi ultimi, come li definisce Prado Pérez, descrivendo fenomeni recenti di teatralità contemporanea?

La cifra della precarietà contemporanea si esprime in-fatti emblematicamente nel teatro britannico; ne è esem-pio un testo partecipativo,  The Drowned Man; alla base dell’analisi della spettacolarità (moderna, postmoderna) della performace di una compagnia come Punchdrunk, il modello teorico di Foucault e Nussbaum consente di in-dividuare il capovolgimento della precarietà indotta dalla proiezione ideologica neoliberista, opprimente sul piano sociale in una direzione autoriflessiva e liberatoria, in chia-ve neoumanistica.

Una complessità convergente la esprime il grande ru-meno delle decadi ultime, Mircea Cărtărescu. L’ossessività è protagonista delle sue storie fiume, in cui l’autonomia del testo si ritorce in una proiezione da saga, quasi a con-trastare il crollo delle certezze ideologiche proprie della grandi narrazioni novecentesche. La proliferazione delle pagine è infatti l’uscita di sicurezza, e una svolta verso le libertà della narratio. Lo esprime bene Giovanni Bitetto nel descrivere “il destino di Mircea a partire dagli antenati vissuti in un Medioevo leggendario”. In verità, la cesura tra Medioevo e modernità alla quale accennavo prima tor-na a essere messa in questione proprio a partire dalla flui-dità della postmodernità. Se non c’è frattura tra le diverse modernità, forse anche la scissione tra classicità e medio-evo perde di pregnanza. La fine dell’umanesimo, l’autun-no del Medioevo e le altre grandi razionalizzazioni della discontinuità come essenza della Modernità, hanno finito per indurre il sospetto che questa modernità fosse carente

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proprio dei moderni, o che essi si rendessero autonomi più che da un passato mitico e lontano, dalla loro stretta contemporaneità.

D’altronde l’esercizio del paradosso (che era la chiave della brevitas) è costante: la lingua regressiva — la magnifica yaquetía — di Ángel Vázquez. L’antico ladino diventa così espressione del disagio della modernità, della poliedricità delle lingue, delle culture, delle identità. L’espressione ge-ografica, Tangeri, soglia e liminare mobile, si ricompone in una lingua che corre sul filo dell’idioletto rigorosamen-te individualistico, e sulla nostalgia della comunicazione che rafforza l’identità condivisa. In effetti in questa zona iberica due modernità tutt’altro che confluenti si innesta-no. Il ritorno del mito di Fedra tra Unamuno e Villalon-ga, malgrado le affermazioni “gridate” di modernismo, in chiave borghese e pirandelliana in Unamuno, o in versione sperimentalistica e aggressiva in Villalonga, si dispongono esattamente all’opposto della modernizzazione lorchiana della tragedia classica. Nella disamina che Palladino com-pie della travagliata elaborazione (e pubblicazione) del li-bro maggiore, Poeta en Nueva York, autoriflessivo, in piena consonanza con la cultura degli anni Trenta del Novecen-to, si specchia l’idea stessa di una modernità che oggi ci appare datata, e cristallizzata in un isolamento splendido. Anche se, lorchianamente, fulgido.

Se la triade Pessoa Lorca Foix è quella che Gimferrer pone a fondamento della sua fuoriuscita dalla gabbia do-rata di una modernità senza alternativa — e il suo esor-dio come poeta è nel segno della rivendicazione diretta del modernismo a cavallo tra Ottocento e Novecento, mai rinnegata — tutto il suo operato, come ho scritto in vari momenti, è intriso del superamento dei generi, delle epo-che, e delle lingue storico–naturali intese come barriere.

La tensione monografica in effetti vive in una sorta di discrasia tra un’aspirazione a non vincolarsi e una ineso-rabile fissazione storiografica. Ciò spiega anche che il nu-mero sulla Modernità e i Moderni si sdoppi in una sorta di replica del prologo o dell’avvio. Francesca Pagano ne scandaglia le ragioni di attualità attraversando la riflessio-ne di Paul de Man, mentre Maria Lalicata ci ricorda che tutto inizia con Miguel de Cervantes. Con un Cervantes al bivio tra la novità assoluta dell’insieme che propone, e la tradizionalità delle componenti che convoca al suo rin-novato banchetto platonico.

Ma per la natura stessa del programma proposto, la trat-tazione del tema Modernità senza moderni, moderni senza modernità deborda e invade anche le atre sezioni della rivi-sta. Maria Cristina Assuma, con il suo lungo e complesso intervento “Cogliam d’amor la rosa. Variazioni della moder-

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nità nella poesia spagnola e altrove”, riallaccia Tasso e Lor-ca; Elena Catristelli in “Andrej Belyj e il modernismo nella letteratura russa” ritrae quel gorgo che vagamente già lo scopritore delle potenze moderne della lingua catalana negletta o disdetta aveva rivisto in Russia. Il sismografo del tempo ricongiunge la mitografia dell’altrove russo con quella del modernismo agognato ovunque. Infine Gabrie-le D’Arienzo, riprendendo un motivo di attualismo gior-nalistico, ricorda che la categoria di popolo (e populismo), è un altro dei tratti della Modernità, anche se quasi senza collocarsi sul polo opposto a quello dei veri moderni. Per-sino la sezione dei testi non sfugge a questa costrizione, e Andrea Giannetti con una selezione di proverbi “medieva-li” ci mostra il ponte fantastico, ideale, illusorio che mette in collegamento popolare e colto, collettivo e individuale.

Giuseppe GrilliUniversità degli Studi Roma Tre

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Modernità senza moderniModerni senza modernità

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La parola non è la cosa, ma la luce alla quale la si scorge.J. Jeacques Rousseau

Chiamato a redigere la voce “teoria della letteratura” per il volume Introduction to Scholarship in Modern Language and Literature curato dalla Modern Language Association (MLA), dopo essersi esercitato sul tema ed aver cercato di dare una risposta concreta alla richiesta della MLA, Paul de Man si arrese davanti ad una ineluttabile verità: “il prin-cipale interesse teoretico che si può trarre dagli studi di te-oria della letteratura consiste proprio nel fatto che di essi non si può dare una definizione soddisfacente”1.

Il testo, per ovvie ragioni, non fu accettato dalla MLA. In ogni caso, la dichiarazione di De Man, uno dei fonda-tori stessi della disciplina generalmente chiamata “teoria della letteratura”, è sorprendente, e sembra quasi confer-mare l’accusa che da molte parti, nel corso degli ultimi trent’anni, è arrivata a carico della stessa: una disciplina oscura nei fini e nei mezzi.

Nel saggio che uscirà con il titolo La resistenza alla teo-ria, De Man non spreca tuttavia l’occasione, e così, partito a parlare di filosofia, scienze umane, ordinamento accade-mico ed estetica, arriva parlare di letteratura e di linguag-gio

Già, ma noi cosa sappiamo veramente del linguaggio?Molto poco, effettivamente, e questo poco è anche mol-

to antico. Siamo dunque così moderni come crediamo? Quale dei due casi del titolo del presente numero mono-grafico è il nostro: moderni senza modernità o modernità senza moderni?

Si può tendere un filo, secondo De Man, tra ricerca

1 P. De Man, The resistance to theory, Minnesota UP, Min-neapolis 1985. Trad. it. a cura di Stefano Rosso, Sulla resistenza alla teoria, «Nuova Corrente» XXXI 1984, pp. 7-34

Cosa sappIaMo VeRaMenTe del lInguaggIo?paul de Man VIndICe della ModeRnITà

francesca pagano

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(scholarship), teoria e insegnamento. Per ciò che concerne la ricerca in letteratura, si hanno due aree complementa-ri: da una parte i fatti storici e filologici, propedeutici alla comprensione; dall’altra parte, i metodi di lettura o inter-pretazione. La teoria deve essere collocata in questa se-conda parte. Il suo merito e la sua insegnabilità consistono nel fatto che essa trasmette una “consapevole riflessione sulla formazione del metodo”2.

In questa architettura del sapere letterario, che è anche un’“archeologia”3, secondo la critica tradizionale vi è un errore: la teoria non merita interesse accademico perché non fa altro che segnare la distanza tra se stessa e il proprio oggetto di studio.

“Un metodo che non riesce a conseguire la verità del proprio oggetto può insegnare solo la delusione”4, convie-ne De Man, ma evidentemente non è questa “delusione” che la teoria insegnerebbe. Tale critica, continua De Man, compare ogni volta che, in letteratura, si accusa la teoria in nome di valori estetici o etici, ma non è la principale. Al-tri critici, con più pertinenza, accusano la teoria di essere un ostacolo alla ricerca, e dunque all’insegnamento.

Ed ecco una delle prime domande a bruciapelo poste dal saggio: siamo sicuri di sapere cosa deve fare veramente un discorso sulla letteratura, cioè non solo la teoria, ma anche la filologia, la storia della letteratura, e tutte le di-scipline del testo?

Qualsiasi discorso sulla letteratura comincia definendo cosa essa sia, distinguendola da altri linguaggi verbali non artistici, spiegandone il carattere peculiare e così via: è, questa, la prospettiva ingenua di un discorso sulla lette-ratura. Vi sarebbe poi l’approccio fenomenologico, che privilegia o l’aspetto della scrittura, o quello della lettura.

Il fatto è, secondo De Man, che molti dei concetti utiliz-zati funzionalmente allo studio della letteratura, dovreb-bero essere in realtà l’oggetto di studio: cosa sono “scrit-tura”, “lettura”, “linguaggio”, “linguaggio artistico”, etc. Di conseguenza, nessuna di queste prospettive può essere presa in considerazione.

Posto che qualsiasi disciplina deve essere insegnabile, pena la sua impossibilità ad entrare nel mondo dell’acca-demia (e dunque della ricerca, scholarship), a partire dalla seconda metà del secolo scorso in tutto il mondo anglo-sassone si è scorta una notevole propensione ad interes-sarsi di teoria. Ciò è avvenuto anche, e non solo, grazie

2 Ivi, p. 4.3 Michel Foucault, L’Archéologie du savoir, Paris, Gallimard 1969 (trad. it. Giovanni Bogliolo, Archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971).4 Paul De Man, op. cit., p. 8

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all’estrema ricettività del mondo accademico anglosas-sone nei confronti del pensiero di molti autori cosiddetti “continentali”. Il canone tracciato è sotto gli occhi di tutti: Auerbach, Croce, Jakobson, e più tardi Barthes, Saussure, Levi-Strauss, Althusser. Un certo grado di cosmopoliti-smo, sostiene De Man, è d’uopo nella ricerca universitaria. Senza contare che molti di questi autori avevano, proprio come lui, spostato la propria residenza negli Stati Uniti in seguito ai nefasti eventi della seconda guerra mondiale.

Questo interesse era in parte disgiunto da un discorso politico alla “europea”, cioè diviso tra la destra anche in-tellettualmente conservatrice, se non retrograda, e la sini-stra sperimentale e progressista, che portava su di sé il far-dello più generale dell’antifascismo. La «Partisan Review» è un esempio di questo clima fecondo e super partes, testi-monianza reale di un interesse americano nei confronti di questi sofisticati transfughi europei.

D’altronde, l’accademia americana non era per parte propria del tutto estranea a concetti di teoria della lette-ratura. Il New Criticism utilizzava volentieri concetti qua-li tono, forma organica, allusione, tradizione, e aveva già prodotto testi interessanti quali la Teoria della letteratura di Wellek e Warren5, che era appunto diventato uno dei testi base. Accademia, ricerca e teoria potevano andare a braccetto per i viali spazzati dal vento freddo dell’Atlanti-co, tra il giallo e il rosso degli aceri in autunno. Esempio emblematico di questo sinolo è la figura di T. S. Elliot, tan-to provocatore e borderline nella poesia, quanto distinto e stimato rappresentante della società a cui apparteneva.

Quando questa unione si è spezzata? Secondo De Man, la colpa, si fa per dire, sarebbe dell’estetica. Essa, partita in sordina sulla scorta della riflessione romantica, dopo aver acquisito importanza nella filosofia kantiana, si è ricavata una posizione di supremazia all’interno della filosofia oc-cidentale. La ragione di questa importanza via via conqui-stata risiede nel fatto che l’estetica si occupa non di cerca-re il significato, ma di descriverne l’effetto. Ciò non solo, ovviamente, in riferimento alle arti figurative e artistiche in generale, ma in generale ovunque vi sia un significato da percepire.

Nietzsche stesso, nel costruire l’impalcatura del proprio pensiero, ha utilizzato la sua personale accezione di este-tica come grimaldello per rivoluzionare tutta una serie di pilastri della tradizione ritenuti inscalfibili. Lo stesso tipo di utilizzo rivoluzionario dell’estetica come descrizione

5 René Wallek, Austin Warren, Theory of Literature, New York, Harcourt, Brace, and Company 1949 (trad. it. Pier Luigi Con-tessi, Teoria della letteratura, Il Mulino, Bologna 1956; n. ed. a cura di Luciano Bottoni, ivi, 1981.

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dell’effetto di significato è alla base della fenomenologia husserliana, e dell’ampia meditazione di Martin Heideg-ger.

Riflettendo sui modi di produzione del significato, e sulla percezione del suo effetto, l’estetica ha necessaria-mente utilizzato un armamentario concettuale non omo-geneo all’oggetto di volta in volta studiato. Ha dovuto cioè fare astrazione dei mezzi per poter raggiungere i fini (in termini di discorso filosofico e di definizione della di-sciplina). Tuttavia il suo statuto all’interno della storia del-la filosofia, la sua insegnabilità, e la sua possibilità di inse-gnare qualcosa, non sono mai state messe in discussione. Pur indagando un metodo, una produzione e un effetto, e pur facendolo con un linguaggio non proprio all’oggetto, il suo ruolo è rimasto ben saldo nel corso degli ultimi due-centocinquanta anni.

La teoria non è stata altrettanto fortunata: ciò perché qualsiasi studio del significato, nella maggior parte dei casi, non può prescindere da un “a priori”6 che permette l’esistenza del significato stesso. Qualsiasi disciplina, an-che filosofica, e dunque conseguentemente letteraria, nel-la ricerca del significato, pone le proprie basi altrove.

Il problema con la teoria è nato nel momento in cui essa ha deciso di non considerare limpido e trasparente il proprio strumento di indagine, cioè il linguaggio.

Anche in questo caso, non è stata la prima. Già la semi-ologia ha incominciato a far sorgere dei dubbi sulla carat-teristica prima del linguaggio, cioè la referenza. De Man cita come esempio Barthes, e quello che quest’ultimo de-finisce “cratilismo”7 in rapporto all’utilizzo del linguaggio di Proust. Leggendo Proust, sostiene infatti Barthes, si ha l’impressione che per l’autore parola e significato coinci-dano perfettamente, in quanto viene sfruttata ampiamen-te la corrispondenza tra “suono–segno” e significato. Que-sto effetto, non sfugge a De Man, si può chiamare di certo cratilismo, come ha preferito Barthes, ma ha anche un al-tro nome. Una parola per definirlo al meglio già esiste, ed è una figura retorica: la paranomasia.

Infatti, continua incalzando De Man, a cosa hanno in effetti condotto i più raffinati studi di semiologia? Hanno condotto ad uno studio approfondito della retorica. La se-miologia, come la teoria, si è lanciata nel difficile compito di sospendere la referenza, non darla cioè come un dato acquisito, ed ha cominciato ad interpretare il testo come un codice, all’interno del quale, in ottemperanza ai detta-mi dello strutturalismo, ogni elemento non vale di per sé

6 In italiano nel testo, n.d.r.

7 Paul De Man, op. cit., p. 9.

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ma in relazione al posto che occupa nel sistema. Gli studi semiologici quindi, hanno, proprio come la teoria, sospe-so il giudizio, cartesianamente parlando, sul significato, e ne hanno invece messo in luce l’effetto e la produzione. Nel fare ciò, però, si sono imbattuti in una bestia ben nota, la retorica.

La retorica di un testo ne spiega essenzialmente i tropi; non spinge necessariamente l’analisi fino alla comprensio-ne del significato, così come non guida nell’interpretazio-ne, ma esclusivamente ripete e descrive come il significato si produce. Lo studio semiologico così inteso è accettabile, sia dal punto di vista della ricerca (scholarship), sia dal pun-to di vista del metodo, che è decisamente insegnabile: non è altro che la buona vecchia ars loquendi. Così declinata, la semiologia è una raffinatissima estetica letteraria: descri-ve gli artifici della retorica sottesa a ciascun testo. Non si espone all’interpretazione, proprio perché fornisce quelli che secondo De Man sono i risultati di un’ottima lettura che non crea scandali: il commento, la chiosa, la parafrasi. Queste sono di sicuro le letture più attente e precise del testo, proprio perché non ne svelano nulla, né hanno la pretesa di farlo. Accademicamente sono le migliori: preci-se, insegnabili, trasmissibili, inconfutabili.

Se questo è il paradigma, ebbene De Man è disposto a correre un rischio: meglio insegnare qualcosa di com-plesso che difficilmente raggiungerà la verità del proprio oggetto, piuttosto che insegnare qualcosa di assolutamen-te condivisibile ed apprezzabile, ma che non aggiungerà nulla a ciò che già si sa.

La teoria non ritiene che la referenza sia la caratteri-stica principale del linguaggio; studia il linguaggio con il linguaggio ritenendolo fin da subito un mezzo opaco, inaffidabile e fondamentalmente retorico. A tutto questo, si aggiunga che non fa riferimento ad alcun “a priori” che fondi se stessa e garantisca il proprio statuto. Lo scandalo è questo: esercita il dubbio sull’uso scientifico del linguag-gio nello studio della letteratura.

Vanifica pertanto circa un secolo di riflessioni atte a ren-dere lo studio della letteratura una disciplina realmente scientifica. Si rifiuta di pensare che una bell’anima come T. S. Elliot possa interpretare senza la necessaria scaltrezza un testo, facendo riferimento solo ai concetti di significato e interpretazione, giacché l’autore come protagonista del discorso letterario era stato conciato già per le feste dallo strutturalismo europeo…

Non sarà ozioso qui ricordare che il primo grande spi-raglio aperto nel mondo anglosassone circa i problemi dell’interpretazione e delle scienze umane fu proprio un convegno che nel titolo già citava lo strutturalismo: The

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Structuralist Controversy. The Languages of Criticism and the Sciences of Man8. Organizzato da R. Macksey e E. Donato, è unanimemmente considerato il momento nel quale la critica continentale e le Humanities americane hanno avuto il primo e più decisivo incontro–scontro. Tra gli interven-ti più prestigiosi (Kermode, Barthes, Goldmann, Girard tanto per citarne alcuni), ricordiamo il celebre discorso di Jacques Derrida, La scrittura il segno e il gioco nelle scienze umane (in seguito pubblicato con in Ecriture et difference)9, nel quale Derrida decostruisce Levi–Strauss aprendo il di-battito post–strutturalista.

Il problema è dunque uno solo: il linguaggio. Come Derrida ha dimostrato più e più volte nel corso della sua ricchissima produzione, un testo, di per se stesso, è già retorico. Anche quando fa di tutto per non esserlo. L’e-sempio lampante di questo concetto si trova nella deco-struzione che egli fa sia del pensiero di Martin Heidegger, sia addirittura di quello di Hegel10. Sono molti infatti i la-vori che il filosofo francese dedica ai suoi colleghi, e tutti volti alla dimostrazione di un’evidenza: anche il discorso filosofico più scientifico, anche quando, cioè, il linguag-gio dovrebbe essere nudo e puro per parlare di pensiero, ebbene, prorio allora ecco spuntare la solita conoscenza: la retorica nella sua figura più amata e odiata, la metafo-ra. Derrida non ha dubbi: ogni filosofia, anche quella del nudo riflettere sulle parole á la Hediegger, cede al fascino della “metafora del fondamento”, in greco arché. Su que-sto concetto cardine si sono fondate le prime astrazioni umane. Tuttavia, la metafora del fondamento per “fonda-re”(!) una filosofia non è altro che la propaggine estrema di un fenomeno che egli chiama catacresi della metafora. La catacresi di una metafora avviene ogni volta in cui que-sta, utilizzata in alcuni casi anche per secoli, perde di ef-ficacia retorica per il parlante, che non percepisce più il sovrassenso dato dalla figura. In riferimento alla metafora del fondamento, si può dire che la retorica abbia di gran lunga segnato lo scacco vincitore: illusa di trattare la filo-sofia in termini scientifici, la cultura occidentale ha invece utilizzato figure retoriche.

8 Structuralist Controversy. The Languages of Criticism and the Sciences of Man, edited by E. Donato R., Macksey, The John Hopkins University Press, Baltimore MD 1970 (tr. it. La controversia struttura-lista, Liguori, Napoli 1975).9 Jacques Derrida, Ecriture et differance, Paris, Gallimard 1969 (tr. it. di Gianni Pozzi, intr. di Gianni Vattimo, La scrittura e la differ-enza, Einaudi, Torino 2002). 10 Id., Marges de la philosophie, Paris, Édition de Minuit 1972 (tr. it. e intr. di Manlio Iofrida, Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997).