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Istituto di Studi Bioetici «Salvatore Privitera» Master in Bioetica La comunità politica tutoredella natura umana: il caso dell’eugenetica in Jürgen Habermas Elaborato finale di Rocco Gumina Anno Accademico 2013-2014

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Istituto di Studi Bioetici «Salvatore Privitera»

Master in Bioetica

La comunità politica “tutore” della natura umana:

il caso dell’eugenetica in Jürgen Habermas

Elaborato finale di Rocco Gumina

Anno Accademico 2013-2014

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«La nuova frontiera… siamo noi stessi»

Gregory Stock

«Il primo uomo che determinasse a propria discrezione un altro uomo

nella sua costituzione naturale, non distruggerebbe forse anche quelle

uguali libertà che sussistono tra pari proprio per assicurare la loro diversità?»

Jürgen Habermas

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- Introduzione

Il XX secolo è stato, senza alcun dubbio, un breve periodo della storia umana che ha notevolmente

mutato la condizione d’esistenza dell’uomo ad ogni livello. Infatti nel corso di cent’anni, il progresso -

ottenuto attraverso la scienza, i mezzi di comunicazione ed interazione su scala mondiale, la

globalizzazione - ha raggiunto mete prima inimmaginabili. Inoltre, il secolo appena trascorso ha prodotto

cambiamenti e sviluppi di ordine sociale e culturale di grande portata come le due guerre mondiali, il

Concilio Vaticano II, la stagione del ’68, l’espansione della globalizzazione, l’invenzione del computer e

della rete virtuale di internet. Sembra piuttosto evidente che tutti questi processi di sviluppo e di

miglioramento della condizione umana, sono chiamati a riproporre, garantire ed estendere la centralità

dell’uomo e dei suoi diritti inviolabili e fondamentali. In particolare, il progresso scientifico ha comportato

la grande evoluzione della tecnologia la quale - applicata alla vita umana - ha donato all’uomo poteri

prima non prevedibili. Quest’ultimi, fanno dell’uomo una sorta di nuovo con-creatore della natura umana.

Infatti, l’applicazione della tecnologia nella diagnosi pre-impianto, pre-natale e sugli embrioni permette

oggi di indirizzare verso mete non annunciate l’esito del processo naturale della trasmissione della vita

che in tal modo può subire manipolazioni. Dinanzi a tali problematiche che riguardano tutti gli uomini

abitanti e protagonisti della comunità politica, non occorrono approcci superficiali di facili entusiasmi per

il progresso o riottose, fondamentalistiche e frenanti polemiche contro la scienza di stampo astorico.

Necessita, invece, riflettere sull’uomo, sulle proprie potenzialità e suoi rispettivi limiti. Infatti, bisogna

sempre partire e terminare - nella riflessione politica e sociale - dal fondamento primo che è rappresentato

dall’uomo con la sua natura e identità che nelle democrazie attuali trova difesa, riconoscimento e tutela

nei diritti fondamentali.

Fra gli studiosi contemporanei cha hanno riflettuto su tematiche riguardanti la nostra società

complessa e i problemi socio-politici ed etici ad essa collegati, si distingue indubbiamente Jürgen

Habermas. Il filosofo tedesco è un riconosciuto e apprezzato intellettuale a livello mondiale, noto per aver

elaborato la proposta dell’etica del discorso la quale accompagna la comunità politica all’agire

comunicativo in vista dell’inclusione dell’altro. Occorre precisare che Habermas tratta di temi riguardanti

la bioetica, e pertanto l’eugenetica, solo in maniera incidentale. Infatti, egli si interroga da filosofo e da

sociologo della politica sui rischi di un’eugenetica liberale, positiva e spregiudicata poiché essa può

mettere in seria crisi l’identità della natura umana la quale, invece, può trovare difesa nella comunità

politica. Questa tramite l’agire comunicativo, riconosce la centralità dell’uomo e dei suoi diritti. Pertanto,

alla luce del personale interesse per la riflessione legata alla filosofia politica, in occasione della

realizzazione dell’elaborato finale per il conseguimento del Master in bioetica nell’anno accademico

2013/2014 presso l’Istituto di Studi Bioetici “Salvatore Privitera” di Palermo, mi è parso opportuno

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approfondire la prospettiva filosofico-politica-sociologica habermasiana legata alle questioni bioetiche da

contestualizzare nel più ampio orizzonte della medesima filosofia politica avanzata dallo studioso tedesco.

L’oggetto proposto dall’elaborato, concerne il ragionamento sulla comunità politica in qualità di

tutore della natura umana dinanzi agli abusi dell’eugenetica così come emerge dal pensiero del filosofo

cresciuto nella scuola di Francoforte. Per sviluppare tale prospettiva, è stato necessario studiare e

presentare il pensiero di Habermas sulla comunità politica con il metodo analitico-critico e con il quasi

esclusivo utilizzo di opere dello stesso autore. Da queste affiora il progetto di una società complessa e

animata da pluralismi ideologici e religiosi, la quale attraverso l’agire comunicativo giunge al

riconoscimento e all’inclusione dell’altro. In chiave bioetica, simile analisi si declina nell’ottica del

riconoscimento - da parte dell’intera comunità politica - della natura umana che occorre custodire nei

confronti del possibile abuso dello sviluppo tecnologico operato con l’eugenetica. L’elaborato intende

sviluppare le tematiche sovraesposte tramite un’argomentazione articolata in tre capitoli seguiti da

conclusioni riepilogative e critiche:

- 1) nel primo capitolo dal titolo La pluralità della comunità politica come mezzo di riconoscimento

della natura umana, si presenta la prospettiva habermasiana dell’agire comunicativo. Questa

visione - nella società complessa e plurale contemporanea - fonda il riconoscimento, la tutela e

l’inclusione delle diversità. Suddetto quadro è da considerare come base propedeutica per ben

interpretare la riflessione di Habermas sull’eugenetica;

- 2) la seconda parte del lavoro intitolata I rischi di un’eugenetica liberale per Jürgen Habermas,

espone con metodo analitico-critico la riflessione habermasiana sui problemi del progresso

tecnologico applicato all’eugenetica. Queste problematiche inducono ad una considerazione sulla

centralità dell’uomo da riconoscere e tutelare per evitare di violare la natura umana attraverso un

uso spregiudicato del potere tecnologico;

- 3) nel terzo capitolo si sviluppa il pensiero habermasiano de Il senso comune della comunità

politica in vista della tutela della natura umana. In questa sezione della ricerca, si desidera legare

la riflessione socio-politica di Habermas a quella sull’eugenetica. Questo tentativo, conduce a

individuare nell’elaborazione discorsiva e giuridica della comunità politica l’unico strumento per

l’odierna società - dopo la fine delle visioni metafisiche e religiose sul mondo - per favorire la

tutela della natura umana.

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- 1. La pluralità della comunità politica come mezzo di riconoscimento della natura umana

Per avviare una considerazione sulla pluralità della comunità politica come mezzo di

riconoscimento della natura umana, è anzitutto necessario registrare che: «La riflessione filosofica sulla

società ha da sempre avuto come riferimento l’indagine sullo statuto relazionale dell’uomo, sui bisogni

umani e sui fini dello stare insieme»1. Da questo assunto, emerge una sorta di antropologia della

dipendenza relazionale la quale valorizza la relazionalità fra i diversi soggetti della comunità umana che

nella prassi politica realizza il convivere civile nella forma della democrazia. Pertanto, possiamo dedurre

che la genesi della società odierna è dialogica e si esprime in maniera pratica nel riconoscimento e nella

garanzia dei diritti fondamentali dell’uomo. Per garantire tale dimensione polifonica dell’attale sistema

sociale, non basta una semplice riduzione concettuale (sia filosofica sia giuridica) relativistica o

individualistica, bensì occorre provare a tracciare percorsi basati sulla ragione pubblica: «occorrono

percorsi di riconoscimento delle differenze culturali, attenti però a non svincolarsi dai canoni propri della

civiltà democratica e dei suoi fondamenti costituzionali. Un modello inclusivo capace di porosità

culturale, di apertura dialogica, di gestione della diversità che guardi all’interesse generale»2. Jürgen

Habermas3, è certamente uno di quei studiosi contemporanei che ha riflettuto sui temi appena citati,

elaborando una riflessione fondata sull’utilizzo nella società dell’agire comunicativo il quale conduce

all’inclusione dell’altro. Questa prospettiva - basata sulla pluralità della comunità politica come mezzo di

riconoscimento della natura umana - è il punto di partenza per sviluppare, nel successivo capitolo, la

questione dei rischi della genetica liberale e del ruolo della società plurale a garanzia della natura umana.

In questa sezione, dunque, occorre anzitutto sviluppare e presentare criticamente la visione habermasiana

della comunità politica.

La società odierna ha dinanzi a sé alcune sfide che riguardano tematiche legate all’etica. Tale

questione è dovuta al fatto che nelle moderne comunità sociali sono presenti diversità di visioni e di

interpretazioni sul bene spesso provocate dalla presenza di minoranze. Infatti, nel contesto socio-politico

attuale esistono diversi profili identitari che propongono varie formulazioni di bene le quali producono il

multiculturalismo in atto nelle nostre società. In questa cornice, Habermas: «preferisce parlare di

inclusione dell’altro per comprendere in quale senso va intesa la richiesta avanzata dalle minoranze

culturali»4. Suddetta riflessione, dovrebbe condurre al rispetto reciproco delle diversità presenti nel nostro

tempo. Non si tratta di un atteggiamento di assimilazione o di relativismo, ma all’indomani del tramonto

1 F. Mazzocchio, Intersoggettività e ragione pubblica. Note sulla società complessa, in Anthropologica (2010), p. 187. 2 Ib., p. 192. 3 Jürgen Habermas è uno dei più importanti e noti intellettuali della Germania post-bellica. Nato a Düsseldorf nel 1929,

si è interessato di filosofia, storia, psicologia, letteratura tedesca, economia. Un resoconto bibliografico e tematico

aggiornato si trova in S. Petrucciani, Introduzione a Habermas, Laterza, Roma-Bari 2000. 4 C. Caltagirone, Ragioni per stare insieme. Profili etici per il convenire umano, Sciascia, Caltanissetta-Roma 2005, p.

310.

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del pensiero metafisico - che permetteva un’unica idea di bene concepita dall’alto dei valori universali -

la comunità politica e sociale è chiamata a proporre dal basso una visione condivisa del bene: «la base di

una comunità inclusiva sensibile alle differenze viene individuata da Habermas nella realizzazione di una

società, di matrice democratica, fondata su principi largamente condivisi da tutti i cittadini entro un

progetto costituzionale, in grado di regolamentare le intenzioni fra i diversi soggetti che prendono parte

alla vita della società stessa»5. Questo sviluppo, conduce alla nascita di una società capace di dibattere

razionalmente tramite l’agire comunicativo e di includere tutte le istanze. Quindi è opportuno, per

Habermas, procedere verso un’etica del discorso in vista dell’ottenimento di accordi procedurali in grado

di permettere ai vari soggetti e gruppi della società di convivere nel rispetto e nel riconoscimento di tutti.

Pertanto, non si tratta di rendere omogenea verso il ribasso la questione dell’etica, bensì di realizzare un

perenne confronto costruttivo per formulare norme universalmente condivise.

In questo orizzonte, la nazione, il popolo, l’identità non sono più elementi chiusi poiché: «si rivela

in tutta la sua significatività, la necessità dell’inclusione dell’altro, in grado di valorizzare sia le

uguaglianze, sia le diversità»6. Quindi, i moderni Stati nazionali democratici sono chiamati a divenire enti

capaci di avere sensibilità per le differenze. In tale quadro, l’identità dipenderà dal riconoscimento di tutti

i cittadini: «l’integrità di ciascun singolo, in sede sia giuridica che morale, dipende dall’intatta struttura

dei rapporti di riconoscimento reciproco»7. Così la valorizzazione delle diversità socio-culturali va

sviluppata e assicurata attraverso costituzioni dallo spirito universalistico e transnazionale: «per Habermas

la costituzione, che può essere intesa come un progetto storico che ogni generazione di cittadini ricomincia

a portare avanti, in un contesto di pluralismo, all’interno del quale si sviluppano problematiche connesse

ad un conflitto identitario, costituisce una risposta di stabilità del riconoscimento»8. Si deduce che il diritto

rappresenta l’unico mezzo per garantire la solidarietà fra estranei. In conseguenza di ciò, l’ammissione

dell’altro non risiede solamente nel principio della pari dignità, ma anche nella conciliazione delle diverse

idee e istanze del bene. Il contraltare di questa prospettiva è rappresentato dalla tesi etno-nazionalista

desiderosa di preservare - quasi in un guscio chiuso - le identità di gruppi omogenei e circoscritti. Inoltre,

nella società contemporanea abbiamo la presenza di diversi raggruppamenti culturali e religiosi anche in

piccoli territori regionali. Dunque, non si può persistere sulla preservazione del particolarismo a scapito

del riconoscimento delle diversità.

Dalla prospettiva dell’inclusione dell’altro, ne deriva uno Stato che non è più capace di

incoraggiare una visione particolare di bene, poiché esso è obbligato a restare neutrale. Simile neutralità

5 Ib., p. 310-311. 6 Ib., p. 314-315. 7 J. Habermas, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, in ID. - Taylor C., Multiculturalismo. Lotte per

il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 2010, p. 63. 8 C. Caltagirone, Ragioni per stare insieme, op. cit., p. 316.

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conduce all’imparzialità e all’ascolto della diversità: «è possibile rilevare che anche all’interno della

prospettiva habermasiana la priorità del giusto sul bene è condizione fondamentale per la risoluzione di

conflitti di interessi»9. Habermas, con tale convinzione, sembra sposare parte delle istanze dei liberali e

dei comunitari per avanzare il progetto di un sistema democratico dominato da continue procedure di

consultazione e di deliberazione in grado di realizzare praticamente la socializzazione comunicativa delle

diversità. Questa procedura, a parere del filosofo tedesco, rispetta le varie diversità culturali e religiose

presenti nella società contemporanea. Analogo sfondo, se è valido per lo Stato nazionale, lo è ancor di più

nell’ottica di federazioni transnazionali: «dato il carattere multietnico e multiculturale, le istituzioni

sovranazionali non possono avvalersi di alcuna identità collettiva, però rimangono unite in virtù della

solidarietà cosmopolita frutto dell’universalismo morale dei diritti umani e segno della possibilità di

allargamento della solidarietà nazionale»10.

Nel riconoscere l’importanza della pluralità valoriale, culturale e religiosa della società

contemporanea, un ruolo molto importante viene interpretato dal tramonto della metafisica. Nel suo

ragionamento, Habermas evita sia il disfattismo sia il ritorno acritico al pensiero metafisico e prospetta

una sorta di terza via in grado di rispondere alle esigenze della realtà culturale e sociale odierna. Senza

dubbio, il pensiero post-metafisico è contraddistinto dalla razionalità procedurale la quale è l’unica a

stabilire e distinguere il vero dal falso. Tale visione ha prodotto: «quel contenuto normativo del Moderno,

che non dev’essere identificato con l’accecata soggettività dell’automantenimento o del disporre di se

stessa»11. Altresì per lo studioso tedesco, il lavoro filosofico è contiguo a quello scientifico, ma

nell’odierna situazione i criteri di verità non sono più a disposizione della filosofia la quale ha

abbandonato la pretesa di essere la prima scienza. Infatti, per Habermas: «la filosofia non può disporre,

secondo una struttura gerarchica che valuti ciò che ha più o meno valore, le totalità delle diverse forme di

vita che si presentano soltanto al plurale; essa si limita quindi a comprendere in generale le strutture

universali dei modi di vita. Questi sono aspetti entro i quali, dopo Kant, non è più possibile che si dia una

metafisica nel senso di concezioni conclusive e integranti»12. Da ciò deduciamo che il pensiero totalizzate

dell’uno e dell’integrale della metafisica è in crisi e viene sostituito dalla razionalità procedurale che

permette di svuotare la trascendenza da concetti fondamentali e stabilire norme sociali valide per tutti.

Poiché, per il filosofo tedesco: «le moderne scienze sperimentali e una morale divenuta autonoma

confidano ormai soltanto nella razionalità del proprio modo di agire e della propria procedura, vale a dire

nel metodo della conoscenza scientifica o in quell’astratto punto di vista che rende possibili le cognizioni

morali»13. Quindi, il posto della metafisica sembra assunto dalla procedura della sintesi linguistica e

9 Ib., p. 320. 10 Ib., p. 327. 11 J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, Laterza, Roma 2006, p. 16. 12 Ib., p. 22. 13 Ib., p. 38.

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culturale. Ancora, il pensiero post-metafisico può coesistere con l’elemento religioso dal momento che

questo rimane l’unico in grado di dare valore extra-quotidiano alla vita umana. Nonostante tale

consapevolezza, il sapere attualmente esistente è contestuale ai temi e alle questioni in gioco. In suddetta

situazione, l’agire comunicativo riesce a trovare una sintesi attraverso il consenso globale di fondo che i

membri della società sono chiamati a condividere: «cioè la convinzione che il linguaggio costituisca il

medium delle incarnazioni storico-culturali dello spirito umano e che un’analisi metodologicamente

attendibile dell’attività dello spirito dovrebbe applicarsi alle sue espressioni linguistiche, piuttosto che

immediatamente ai fenomeni coscienziali»14. A questo procedimento, il significato viene dato dall’agire

comunicativo il quale è compreso con una parvenza trascendentale capace anzitutto di qualificare come

essenziale tutto ciò che è individuale: «l’individuazione non viene rappresentata come l’autorealizzazione

di un processo spontaneo, portata a termine in solitudine e libertà, bensì come processo di socializzazione

mediato linguisticamente, e nello stesso tempo come processo di costituzione di una biografia di se

stessa»15. In tal modo, la comprensione etica del soggetto abitante una società plurale - priva

dell’argomentazione metafisica - si poggia sul rapportarsi individuale all’altro che conduce alla reciproca

inclusione.

Habermas avanza la prospettiva di una morale del pari rispetto per chiunque all’interno della

società. Con essa la comunità deve includere tutti i soggetti nel reciproco riconoscersi e accettarsi. Questa

visione deriva dall’etica del discorso e dunque è dotata di un contenuto cognitivo credibile poiché

razionale. In questo modo abbiamo una fondazione morale priva di rimandi trascendentali, ma sostenuta

solamente da riflessioni intramontane: «i comandamenti morali dopo il crollo di una visione “cattolica”

onnivincolante del mondo e con l’emergere delle società multiculturali - non sono più giustificabili

pubblicamente a partire da un punto di vista divino e trascendente. Questo punto di vista era posto al di là

del mondo e da esso il mondo si lasciava oggettivare totalmente. Ora “il punto di vista morale” deve

ricostruire questa prospettiva in una maniera intramontana»16. Quindi con il pluralismo culturale, non

possiamo più fondare la morale sulla visione religiosa della società, poiché essa è argomentabile solo

attraverso un processo cognitivo: «il patto sociale nasce dall’idea che qualunque candidato debba

necessariamente avere motivi razionali per diventare membro del collettivo e sottoporsi liberamente alle

sue norme e procedure»17. In questo processo, il linguaggio funziona da principale medium per il

coordinamento delle teorie e della prassi e permette una sorta di ricerca cooperativa della verità. Per

Habermas, la conseguenza di ciò è che: «l’intersoggettività così intesa prende il posto di ciò che prima

era dato per via trascendente. Ora sono le pretese reciproche a definire la forma morale. Si potrebbe anche

14 Ib., p. 170. 15 Ib., pp. 187-188. 16 ID., L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano 2008, p. 19. 17 Ib., p. 28.

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dire: dal momento che l’oggetto del contendere non è nient’altro che il rispetto di ciò che tutti vogliono,

ora è il contenuto a doversi adattare alla forma»18. In suddetto orizzonte, i membri della comunità si

rispettano l’un l’altro attraverso l’esercizio della giustizia che significa in questo caso anche solidarietà

reciproca. Così notiamo il ruolo dell’etica del discorso, la quale risolve le questioni etiche con forme di

argomentazione che tengono in considerazione sia la giustizia sia la solidarietà: «l’etica del discorso

intensifica inoltre la separazione intellettualistica del giudizio morale dall’azione per il fatto stesso di

collocare il punto di vista morale in discorsi razionali»19. A parere di Habermas, però, non dobbiamo

credere che esista un ordinamento morale precostituito poiché questo è formulato tramite l’auto-

legislazione. In tal modo, la morale avrà una fondazione discorsiva che produce un’eticità comune:

«L’eguale rispetto per chiunque, richiesto da un universalismo sensibile alle differenze, prende allora la

forma di una “inclusione dell’altro” che ne salvaguardi le diversità senza né livellare astrattamente né

confiscare totalitariamente»20. Si deduce che la prassi dibattimentale rimane l’unica risorsa disponibile

per giudicare imparzialmente le norme morali. I protagonisti di tale processo devono possedere dei

presupposti: «che i cittadini siano persone morali dotate di a) senso di giustizia; b) una propria concezione

del bene; c) un interesse a sviluppare queste predisposizioni»21. Pertanto, l’etica del discorso presuppone

l’ideale assunzione da parte di ogni membro della comunità di un ruolo in grado di comprendere la

prospettiva dell’altro. In tale rete, secondo il filosofo tedesco, trova collocazione e sviluppo l’identità

personale.

Nella proposta habermasiana, i cittadini reciprocamente sono chiamati ad attribuirsi una coscienza

morale insieme ad un senso di giustizia poiché: «la validità morale della concezione della giustizia non è

più fondata su una ragione pratica universalmente vincolante, ma sulla fortunata convergenza di visioni

del mondo ragionevoli che si sovrappongono quanto basta nelle loro componenti morali»22. Infatti, solo a

partire dal punto di vista del proprio sistema interpretativo, i membri della comunità politica possono

convincersi di una concezione della giustizia valida per tutti. Così la ragione moralmente persuasiva

produce un consenso sociale-politico e pertanto un relativo modus vivendi. Alla luce di ciò possiamo

dedurre, per Habermas, che ogni persona ragionevole sarà utile nel processo in vista di una concezione

comune della giustizia. Questo è naturalmente possibile solo tramite l’utilizzo di una ragione pratica che

genera un consenso di base: «i discorsi etici obbediscono agli standard di una riflessione ermeneutica

intorno a ciò che per me o per noi è (in generale) “bene”»23. Ma bisogna tenere presente che per il filosofo

tedesco il concetto di ragione pratica non potrà mai svuotarsi completamente dal nucleo della riflessione

18 Ib., p. 37. 19 Ib., p. 49. 20 Ib., p. 55. 21 Ib., p. 66. 22 Ib., p. 96. 23 Ib., p. 112.

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morale. In questo procedimento che fonda la democrazia, nel quale la prassi razionale formula una

possibile morale collettiva, bisogna distinguere il confine tra privato e pubblico. Anzitutto i cittadini

devono sperimentare l’importanza dell’uso dei propri diritti. Questo spinge verso l’integrazione poiché

l’identità razionale è caratterizzata dal superamento dei vincoli del particolare soggettivo, ma per

Habermas occorre considerare che: «Il concetto democratico di eguaglianza è un concetto politico e si

riferisce alla possibilità di fare distinzioni»24. Quindi la democrazia, impedisce che si laceri la rete di

solidarietà civica e propone una nozione di cittadinanza che in seguito a processi di socializzazione forma

l’identità, poiché: «il multiculturalismo ha anche bisogno che esista una cultura comune. I membri di tutti

i gruppi culturali dovranno acquisire linguaggio politico e convenzioni di condotta comuni per poter

partecipare effettivamente, in un’arena politica condivisa, alla competizione per le risorse e alla protezione

degli interessi, sia individuali che di gruppo»25. Pertanto a parere di Habermas, i cittadini tra loro estranei

creano un nesso solidaristico basato sulla questione dei diritti dell’uomo. Questi esistono sin dalla loro

fondazione di natura giuridica e l’aspetto morale che producono è dovuto al senso di validità dei medesimi.

Ai diritti, poi, occorre legare la questione della sovranità popolare la quale assicura la scelta e l’autonomia

pubblico-privata dei cittadini. In questo modo, per lo studioso tedesco, i diritti e la sovranità popolare si

presuppongono a vicenda e plasmano l’intero nesso democratico dello Stato: «La prima ragion d’essere

dello stato non è dunque la difesa di eguali diritti privati, bensì la garanzia di quell’inclusivo processo di

formazione dell’opinione e della volontà in cui cittadini liberi ed eguali si mettono d’accordo sugli scopi

e sulle norme d’interesse comune»26. In simile contesto, bisogna altresì aggiungere che nei sistemi

democratici sono presenti anche i processi di auto-chiarimento etico attraverso il bilanciamento degli

interessi di gruppi e di singoli. Questa procedura basata sulla ricerca del compromesso, dovrebbe condurre

a risultati ragionevoli e accettati da tutti: «A partire da questa cooriginaria implicazione di diritto e

democrazia, libertà e cittadinanza, autonomia privata e pubblica, Habermas può simmetricamente

ricondurre all’autoaccertamento morale e giuridico della modernità sia i diritti dell’uomo sia il

patriottismo costituzionale»27.

Sia a livello nazionale sia nell’ottica cosmopolita, si avanza spesso l’accusa di voler innescare

processi filosofico-giuridici in grado - tramite l’argomentazione - di moralizzare la comunità politica.

Questo presupposto, per Habermas, è errato per il fatto che chi non rispetta la norma giuridica garantita

dalla legislazione comune e condivisa da tutti non urta contro la morale, bensì è manchevole nei confronti

della legge comunitaria. L’integrazione dovuta al consenso di base dato alla legge ci spiega come:

«l’eticità oggettiva, per il fatto di subentrare al posto dell’astratto bene, riesca a “decongestionare”, tramite

24 Ib., p. 148. 25 Ib., p. 158. 26 Ib., p. 238. 27 L. Ceppa, Postfazione, in Habermas, L’inclusione dell’altro, op. cit., p. 263.

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doveri concreti chiaramente definiti, la buona volontà e l’intelligenza del singolo individuo (che altrimenti

sarebbe fatto oggetto di pretese eccessive)»28. Dunque per il filosofo cresciuto alla scuola di Francoforte,

la prospettiva antropologica va sviluppata nell’ottica di una teoria delle istituzioni le quali se sono forti,

credibili e condivise riescono a regolare l’istinto esclusivamente egoistico dei membri della società. Ciò

è possibile poiché ogni cittadino è titolare di diritti soggettivi messi in relazione alla comunità dai quali

deriviamo che la forma più adeguata del processo costituente è il discorso pubblico che prende le mosse

dalle relazioni orizzontali dei cittadini. In tale procedimento, gioca un ruolo chiave la tolleranza che

rappresenta: «il prezzo che dobbiamo pagare per il rispetto astratto che i membri di una comunità solidale,

fondata sul diritto costituzionale, possono aspettarsi l’uno dall’altro al di là delle loro divisioni culturali»29.

Così, la proposta antropologica trova una maturità nell’affermare che: «l’uomo è un animale che solo

grazie al suo originario inserimento in una pubblica rete di relazioni sociali sviluppa le competenze che

fanno di lui una persona»30. Quindi, noi apprendiamo l’uno dall’altro in un ambiente culturalmente e

socialmente stimolante nel quale non ci poniamo mai solo come semplici organismi viventi, ma in qualità

di persone agenti in uno spazio pubblico abitato da altri ed eguali soggetti. Secondo Habermas, per

giungere a questa consapevolezza l’uomo non si serve di un’autocoscienza originaria che non si ritrova

dalla nascita, bensì la matura nel tempo tramite le relazioni: «i soggetti che agiscono comunicativamente

si incontrano in qualità di parlanti e ascoltatori nel ruolo di prime e seconde persone guardandosi

letteralmente negli occhi. Nell’intendersi circa qualcosa nel mondo oggettivo e assumendo la stessa

relazione col mondo, essi entrano in un rapporto interpersonale. In tale atteggiamento performativo l’un

verso l’altro essi fanno contemporaneamente, sullo sfondo di un mondo della vita intersoggettivamente

condiviso, esperienze comunicative l’un con l’altro»31. Tutto ciò viene compreso in vista di una comunità

ordinata razionalmente all’interno di un mondo condiviso, senza dimenticare che: «La procedura

legislativa deve comunque venire istituzionalizzata giuridicamente, per garantire la pari inclusione di tutti

i membri della comunità politica nella formazione dell’opinione e della volontà democratica. Lo stesso

principio democratico è costituito nel linguaggio del diritto, esso assume forma positiva nei pari diritti di

partecipazione politica di tutti in cittadini. Naturalmente, i cittadini dello Stato devono essere anche capaci

di giudizi morali»32.

Nella riflessione di Habermas, risulta evidente che l’attuazione dell’inclusione dell’altro passi da

una sfera pubblica vitale capace di sfruttare massimamente i diritti fondamentali attraverso una specifica

consapevolezza: «Chi entra nel discorso politico dev’essere pronto a cambiare la propria opinione di

partenza per l’esclusivo effetto delle informazioni (anche: argomenti, intuizioni, proposte) eventualmente

28 J. Habermas, Tempo di passaggi, Feltrinelli, Milano 2004, p. 42. 29 Ib., p. 106. 30 ID., La condizione intersoggettiva, Laterza, Roma 2007, p. 6. 31 Ib., pp. 44-45. 32 Ib., p. 104.

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avanzate dall’avversario. La discussione serve infatti a modificare ragionevolmente le opinioni dei

partecipanti attraverso il meccanismo riflessivo del roletaking, cioè attraverso quell’adozione

immaginaria del “punto di vista altrui” che rende davvero responsabile la nostra presa di posizione. In

questo senso, secondo Habermas, la comunicazione democratica è guidata dalla verità e non dalla

propaganda»33. Quindi prima di esprimersi, il cittadino deve farsi un’idea di ciò di cui si occupa. In questo

modo, il filosofo tedesco sembra privilegiare una dimensione legata alla razionalità comunicativa anziché

alla sola razionalità pratica, poiché il linguaggio non è solo un medium aggregante ma permette altresì di

stabilire norme comuni. Infatti: «L’uso linguistico orientato all’intesa - su cui poggia l’agire comunicativo

- funziona in modo tale che i partecipanti o si mettono d’accordo circa la pretesa validità delle loro azioni

linguistiche, oppure accertano dissensi di cui tener conto in maniera concorde nell’ulteriore sviluppo

dell’azione. Ogni atto linguistico avanza pretese di validità criticabili, che mirano al riconoscimento

intersoggettivo»34. In simile ambito, le ragioni argomentative sono un’arma a doppio taglio perché

possono produrre o mettere in crisi una convinzione comune. Le società attuali, però, spesso sono prive

di possibilità globali di comunicazione la quale sembra destinata a svilupparsi realmente solo nei piccoli

gruppi omogenei fra loro. E pertanto, senza un adeguato dibattito sociale anche il diritto può essere messo

in discussione insieme alla stessa prassi democratica. Per Habermas, invece, la libertà comunicativa

permette il riconoscimento intersoggettivo che porta alla produzione di una legge la quale non può essere

presentata sotto la forma di un paternalismo giuridico che prende il posto della metafisica. Il diritto è,

piuttosto, il medium per trasformare il potere comunicativo in potere amministrativo:

«Nell’istituzionalizzare le forme di comunicazione necessarie a una ragionevole formazione politica della

volontà, il procedimento democratico deve simultaneamente sottostare a diverse condizioni. La

legislazione si realizza in una complessa rete di processi d’intesa e di pratiche negoziali»35. Con questa

precomprensione, il diritto assume i contorni di uno strumento di integrazione sociale il quale, però, non

deve cedere ad una visione teleologica di sé. Di conseguenza, i diritti fondamentali intervengono nel

processo pubblico di formazione dell’opinione realizzando una socializzazione pulsionale che costringe

il sistema politico a tenere in considerazione ogni membro della società.

Dal pensiero di Habermas, notiamo che la pluralità della comunità politica - come mezzo di

riconoscimento della natura umana - si poggia su di una esplicita antropologia relazionale la quale evita

di prestare eccessivamente il fianco a derive e a speculazioni individualistiche e relativistiche. In una

società come la nostra, che ha dinanzi alcune sfide etiche importanti, tale assunto autorizza a dare un

indirizzo preciso alla nostra riflessione. Poiché, nella comunità sociale odierna sono presenti diversi profili

culturali, sociali e religiosi che hanno condotto al multiculturalismo. Per discutere al meglio, in vista del

33 L. Ceppa, Nota del traduttore, in J. Habermas, Fatti e norme, Laterza, Roma 1996, p. XXI. 34 J. Habermas, Fatti e norme, op. cit., p. 27. 35 Ib., p. 203.

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tentativo di trovare soluzioni comuni alle questioni etiche, Habermas avanza la teoria dell’agire

comunicativo in grado di includere la prospettiva dell’altro. Tale processo, nel privilegiare il dibattito

sociale maturo, si serve del diritto come mezzo per trasformare l’opinione pubblica condivisa in

giurisprudenza. Cosi, in una comunità politica non più edificata su di un pensiero metafisico che stabilisce

dall’alto verso il basso il bene, quest’ultimo non viene prefissato dallo Stato ma orientato dalle dinamiche

comunicative della stessa società plurale. Dunque, circa il merito delle questioni riguardanti la natura

umana e perciò inerenti all’etica della vita, il pensiero filosofico, sociologico e giuridico di Habermas

riconduce debolmente e implicitamente ad un’idea comune di natura umana da tutelare alla luce dei diritti

fondamentali della persona che rappresentano il presupposto del vivere nella società. In questo modo, ad

una lettura critica del pensiero del filosofo tedesco, sembra che se non è più possibile la condivisione

dell’idea di bene unitaria e globale derivante dall’alto della metafisica, questa può essere riscoperta e

proposta dal basso a partire dall’agire comunicativo che induce all’inclusione dell’altro. Infatti, a parere

dello studioso tedesco, i diritti fondamentali - come vedremo nel secondo capitolo - vengono messi in

discussione da un’eugenetica positiva e liberale - la quale attraverso la propria spregiudicatezza -

relativizza la natura umana condivisa come principio primo all’interno della società a sua volta deliberato

dall’agire comunicativo e dall’inclusione dell’altro.

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- 2. I rischi di un’eugenetica liberale per Jürgen Habermas

Pare evidente che il nostro tempo sia radicalmente orientato dalla tecnica in tutte le sue forme,

evoluzioni e varianti. Infatti, siamo ormai coscienti che il potere concesso all’uomo tramite la tecnologia

è talmente grande da poter mutare persino la sua stessa natura originaria, generando il timore che oggi:

«con l’applicazione della biotecnologia agli essere umani e alla loro stessa natura, ci siamo davvero

incamminati verso una nuova frontiera che pone problemi del tutto inediti»36. In questo scenario, il

compito dell’etica e della politica non può essere semplicemente legato alla descrizione dei fenomeni in

atto, ma all’apertura di orizzonti di progresso che tutelino e riconoscano l’uomo: «Gli odierni processi

legati allo sviluppo della tecnica, della scienza, della globalizzazione, fanno risorgere un necessario

percorso di responsabilità: l’etica del postmoderno potremmo definirla come l’etica del confronto,

dell’apertura rispettosa dell’altro, l’etica della responsabile presenza nel mondo. Vi è una irriducibilità

della morale che emerge nella domanda sul futuro della natura umana, riemerge la passione per

l’universale umano guidata da una nuova sorpresa per l’altro»37. Quindi, il linguaggio è chiamato a

motivare una nuova etica universale che sia in grado di superare sia il potere isolato della tecnica sia il

singolo profilo morale di ciascun gruppo per elaborare risposte valide per tutti.

È noto che il dibattito sulla convivenza fra i diversi gruppi sociali, culturali e religiosi è divenuto

negli ultimi decenni sempre più complesso e difficile soprattutto sui temi che riguardano la bioetica e la

biopolitica. Su questo sfondo, riemerge a parere di Mazzocchio: «la domanda filosofico-antropologica

sulla natura-essenza dell’uomo e sulla sua destinazione. Del resto neppure una filosofia scettica e

nichilistica (che oggi pare vincente) può sfuggire pienamente alla sfida del senso, proprio perché a questo

sapere costitutivamente spetta il domandare radicale sul perché e il significato di tutte le cose»38. Nel

dibattito odierno su questi temi, ogni tentativo di unificazione e integrazione di visioni diverse rimane

insabbiato dall’indisponibilità comunicativa delle medesime. Secondo Habermas, però: «il discorso sulla

natura umana (classicamente sulla definizione dell’uomo e dei suoi caratteri essenziali), pur su un piano

esplicitamente postmetafisico e postreligioso, non può essere eluso o lasciato al regime delle preferenze

private: filosofia, scienze umane e scienze della natura devono interrogare ancora oggi il mistero che

l’uomo rappresenta a se stesso. Abitare queste domande pone le condizioni irrinunciabili per accedere, in

modo pur sempre fallibile, ad un alveo problematico significativo, attraverso la forza teoretica e normativa

di un logos non autoreferenziale, nutrito dalla relazione comunicativa che innerva il vissuto e

36 S. M. Kampowski, Una libertà più grande: la biotecnologia, l’amore e il destino umano, Cantagalli, Siena-Roma 2010,

p. 11. 37 F. Mazzocchio, Tecnica e morale. Due modelli a confronto, in Bio-ethos 14 (2012/1), p. 9. 38 ID., La natura umana tra disincanto postmetafisico e indisponibilità antropologica, in Aa. Vv., Della natura umana (a

cura di V. Cuccio e A. Li Vigni), Mimesis, Milano 2009, p. 115.

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l’intelligenza dell’animale razionale»39. Tuttavia, bisogna ricordare che nello spazio sociale odierno non

si possono proporre forme di vita vincolanti per tutti poiché la società deve garantire la libera proposta -

purché non distruttiva - della vita. Quindi, è evidente l’impossibilità di scindere totalmente la morale dal

piano socio-politico.

La proposta habermasiana è quella della libertà del poter essere se stessi, la quale via: «aprirebbe

la strada per rinnovare dalle fondamenta ogni riflessione etica»40 poiché: «Nel logos del linguaggio

s’incarna una potenza intersoggettiva che precede e fonda la soggettività dei parlanti. In una versione

debole e proceduralista dell’Altro noi recuperiamo il senso fallibilistico, e nello stesso tempo antiscettico,

dell’incondizionato. Questa mossa concettuale garantisce che il logos sia sottratto, al di là delle pratiche

strumentali, al potere di disposizione e manipolazione dei partner della comunicazione»41. A partire da

questa consapevolezza, dovrebbe nascere una riflessione sullo sviluppo del processo tecnologico il quale

preoccupa non tanto per il possibile uso terapeutico quanto per il probabile abuso di tipo migliorativo e

manipolativo della natura umana, la quale: «è l’elemento che ci conferisce un senso morale, ci fornisce le

qualità sociali necessarie a integrarci nella comunità e costituisce la base di ragionamenti filosofici più

complessi riguardanti giustizia, diritti e moralità. La posta che le biotecnologie mettono in gioco riguarda

la stessa base del senso morale umano, che ha rappresentato una costante fin dall’inizio della storia

dell’uomo»42. Su tale questione bisogna domandarsi se è immaginabile agire liberamente senza limiti,

oppure scegliere attraverso norme condivise a tutela dell’uomo. Ovviamente quest’ultime non possono

riproporre una visione sacrale dell’uomo. Occorre, invece, capire e argomentare il motivo per il quale la

morale è chiamata a restare connessa ai processi storici che viviamo, evitando così di neutralizzare la

questione etica. Dunque, la riflessione della comunità politica dovrebbe concentrarsi su cammini che

propongono l’indisponibilità e l’inviolabilità della natura umana, la quale viene riconosciuta dall’agire

comunicativo. Così: «Va salvaguardato eticamente e politicamente lo spazio di questa indisponibilità

naturale o primaria, proprio a garanzia di una soggettività che si autointerpreta come segnata al principio

da una contingenza liberante. La persona non può pensarsi come disposta e programmata

asimmetricamente da terzi, perché il sé di quel fine in sé che ogni uomo rappresenta risponde ad una

specifica auto-finalità fondata sull’iniziale libertà originaria»43. In questo modo, si profila il punto di

partenza della prospettiva habermasiana da cui bisogna riflettere circa le questioni sulla natura umana:

un’essenza umana indisponibile e inviolabile la quale non può essere messa a rischio dallo sviluppo

biotecnologico. Insomma l’uomo è invitato a vegliare sullo sviluppo della tecnica affinché questa rispetti

39 Ib., p. 116. 40 Ib., p. 118. 41 Ib., p. 119. 42 F. Fukuyama, L’uomo oltre l’uomo. Le conseguenze della rivoluzione biotecnologica, Mondadori, Milano 2002, p. 140. 43 F. Mazzocchio, La natura umana tra disincanto postmetafisico e indisponibilità antropologica, cit., p. 125.

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l’autentica umanità, altrimenti il rischio sarebbe quello di imporre la nostra immagine alle future

generazioni.

Habermas - senza rinunciare all’orizzonte post-metafisico - interviene nei dibattiti sulla diagnosi

pre-impianto e sugli embrioni che scaldano gli animi soprattutto quando si profila una sorta di eugenetica

selettiva della razza umana. Secondo lo studioso tedesco, l’odierna società: «lascia libere tutte le persone

di decidere “che uso fare” del tempo della loro vita. A ciascuno essa garantisce pari libertà di sviluppare

un’autocomprensione etica, al fine di realizzare una concezione personale di “vita buona” in base alle

proprie possibilità e preferenze»44. Tuttavia, anche in questa visione della comunità, la filosofia è chiamata

a porsi la domanda etica sul perché “dovremmo essere morali”. A tale interrogativo, la risposta nella

società pluralista odierna tarda ad arrivare. Per Habermas, un riscontro potrebbe delinearsi attraverso: «il

concetto postmetafisico del “poter essere se stessi”»45 ovvero in una forma etica di autoriflessione

proiettata alla riuscita del proprio progetto di vita. Questa ricerca non è un potere assoluto nelle mani del

singolo, bensì è di natura trans-soggettiva. Per il filosofo cresciuto alla scuola di Francoforte, suddetta

etica post-metafisica: «soddisfa alle condizioni del pluralismo ideologico nella misura in cui si astiene dal

giudicare (non tanto la modalità esistenziale) quanto la particolare direzione dei progetti di vita individuali

e collettivi»46. In realtà, il problema etico del nostro tempo risiede nel fatto che l’uomo stesso ricade nella

sfera di un programma perfettibile e perciò mutabile. In questo modo la natura umana non è più

semplicemente data - da e per sempre - ma anche modificabile, di conseguenza si superano confini mai

oltrepassati e forse conosciuti prima d’ora. Pertanto, dipende dall’uomo la gestione responsabile o

arbitraria della propria potenza: «Come dobbiamo intendere questa possibilità, concettualmente nuova, di

intervenire sul genoma umano? Come una crescita di libertà che chiede di essere disciplinata sul piano

normativo, oppure come l’autorizzazione (che l’uomo si darebbe da solo) a produrre (in base alle proprie

preferenze soggettive) trasformazioni che non hanno bisogno di nessuna autolimitazione? Solo dopo aver

optato per la prima alternativa, potremo discutere sui limiti di una genetica negativa, orientata senza

equivoci alla semplice eliminazione dei danni»47.

Con lo sviluppo tecnico-scientifico applicato all’uomo, quello che sino a ieri era indisponibile

oggi è manipolabile. Ne deriva che con la possibilità di “programmare” la natura umana viene meno la

distinzione fra le cose manipolabili e l’umanità indisponibile. Poiché una persona nata da una

progettazione genetica, sarà sottoposta per l’intera sua vita alla libertà dei propri programmatori che hanno

scelto di “realizzarla” in quel modo. Attraverso queste problematiche circa la domanda sulla via giusta da

44 J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002, p. 6. 45 Ib., p. 9. 46 Ib., p. 14. 47 Ib., p. 15.

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percorrere, comprendiamo come riemerge con forza la questione antropologica che viene così a collocarsi

al centro del dibattito della comunità politica. Per Habermas, anzitutto, bisogna distinguere fra

un’eugenetica negativa, la quale è legittima per via delle finalità terapeutiche, da un’eugenetica positiva

volta alla manipolazione programmata dell’uomo. Di certo la diagnosi pre-impianto e la ricerca sulle

cellule staminali confluiscono sulle prospettive dell’ottimizzazione della natura umana che genera un

fenomeno inquietante il quale consiste: «nel venir meno del confine tra la natura che noi siamo e la

dotazione organica che noi ci diamo. La questione di che cosa significhi l’indisponibilità dei fondamenti

genetici della nostra esistenza corporea - in ordine alla propria condotta di vita e alla nostra

autocomprensione di essere morali - forma la prospettiva da cui presentare l’attuale discussione sul

bisogno di regolamentazione dell’ingegneria genetica»48. È evidente, in questo modo, come la

manipolazione genetica riguardi problemi relativi all’identità di genere dell’uomo.

Probabilmente le possibilità che la scienza ci ha messo tecnicamente a disposizione, devono

nuovamente essere rese indisponibili attraverso un controllo della morale da esercitare nella comunità

politica. Nella visione habermasiana, ciò non deve condurre ad una ri-sacralizzazione della natura umana,

ma la società plurale contemporanea non può sbarazzarsi della morale - chiamata a tutelare l’essenza della

natura umana - per prediligere uno spregiudicato sviluppo tecnologico che lavora in vista del mutamento

dell’uomo. Poiché per Habermas: «L’ingegneria genetica potrebbe, a questo punto, modificare la nostra

autocomprensione di “esseri di genere” nel senso che essa potrebbe intaccare, assieme alle moderne

concezioni del diritto e della morale, anche i non aggirabili fondamenti normativi dell’integrazione

sociale. Questa sorta di riorientamento gestaltico nel nostro modo di percepire la modernizzazione getta

una luce diversa sullo sforzo “moralizzatore” di chi ora vorrebbe che fossero i progressi dell’ingegneria

genetica ad adeguarsi, da parte loro, a quelle strutture comunicative del mondo di vita che sono finalmente

emerse in tutta chiarezza. Questa intenzione non mira affatto a un re-incantamento. Mira piuttosto al “farsi

riflessiva” di una modernità che viene in chiaro dei propri limiti»49. Insomma, l’ingegneria genetica ci

pone dinanzi a questioni intime che riguardano l’uomo, la sua scelta e il suo agire morale. Allora, per lo

studioso tedesco, la domanda di fondo sarà sulla tecnologia genetica capace di aumentare la libertà umana

o di cancellare il rispetto fra gli uomini. Giacché con il potere tecnico oggi a disposizione, si mette in

gioco la vita dell’uomo con possibili e gravi strumentalizzazioni. Invece, l’immettere in questo contesto

la questione della dignità umana condivisa da tutti, porta a riconoscere l’inviolabilità dell’uomo il quale

è chiamato a concepire il feto che cresce nell’utero o il bimbo già nato come realtà unica e insostituibile

per la sua unicità. Per Habermas, questa consapevolezza, dona vita ad una comunità che: «non costituisce

48 Ib., p. 25. 49 Ib., p. 29.

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affatto un “regno dei fini” collocato in un al di là noumenale. Si tratta sempre di una comunità che resta

inserita dentro forme di vita concrete e dentro l’ethos che le caratterizza»50.

Bisogna ulteriormente registrare che lo statuto di genere dell’uomo non è riducibile a quello

dell’essere vivente in generale, perciò dinanzi alla creazione di chimere sorgono dei dubbi sulla positività

dell’uso spregiudicato del progresso tecnico-scientifico. Dato che tale sviluppo incontrollato potrebbe

modificare i nostri requisiti naturali e la nostra stessa dimensione morale. Inoltre, se pare legittimo vantarsi

della pluralità presente e operante nelle nostre comunità socio-politiche, sembra altrettanto doveroso non

poter disporre della vita umana pre-personale. Infatti, per Habermas: «L’autolimitazione normativa del

trattamento della vita embrionale non implica una condanna pregiudiziale di ogni intervento genetico in

quanto tale. Ciò che costituisce un problema non è ovviamente l’ingegneria genetica, ma la modalità e lo

spettro delle sue applicazioni»51. Per quanto concerne il mondo animale, ad esempio, il rivoluzionamento

genetico delle pratiche selettive di allevamento non risponde più alla dinamica interna del miglioramento

della natura, ma alla sua modificazione. Ora la ricerca del fine dell’uomo, l’essere se stesso ovvero la sua

piena realizzazione, non prevedrà mai il suo utilizzo come un mezzo: «Perciò, al soggetto del giudizio

morale il proprio “poter essere se stessi” è altrettanto importante quanto “l’essere sé” degli altri al soggetto

dell’azione morale. Nel poter dire di no che caratterizza i partecipanti al discorso, deve prendere voce la

spontanea comprensione di Sé e del mondo che è tipica di individui che non possono mai delegare altri a

parlare in loro vece»52. Infatti, l’essere personale richiede un punto di riferimento prospettico che

trascende sempre il profilo biografico dei singoli. Invece, l’eugenetica liberale: «non comprometterebbe

soltanto il libero poter essere se stessi della persona programmata. Questo tipo di prassi produrrebbe anche

una relazione interpersonale per la quale non esistono precedenti. Quando una certa persona prende una

decisione irreversibile sull’auspicabile composizione del genoma di una seconda persona, allora nasce tra

i due soggetti un tipo di relazione che mette a repentaglio un presupposto - finora dato per scontato -

dell’autocomprensione morale di persone autonomamente agenti e giudicanti. Una comprensione

universalistica del diritto e della morale parte sempre dal presupposto che non esistano impedimenti di

principio ad un ordinamento egualitario dei rapporti interpersonali»53. Dunque, per Habermas, nessuno

può dipendere dall’altro in maniera pregiudiziale.

La programmazione genetica consolida la dipendenza delle persone e crea un vero e proprio corpo

estraneo di tipo morale e giuridico sino ad ora mai verificatosi. Così, se si rinunzia alla moralizzazione di

suddette questioni e problematiche circa la natura umana, potremmo veder nascere generazioni con una

50 Ib., p. 40. 51 Ib., p. 45. 52 Ib., p. 58. 53 Ib., p. 64-65.

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logica propria e diversa da quelle precedenti: «Il fatto che noi dovremmo agire moralmente è cosa

implicita alla struttura deontologica della morale in quanto tale… Non varrebbe più la pena di vivere in

una sorta di vuoto morale, in una forma di vita in cui nemmeno il cinismo morale sarebbe più

immaginabile. In questo giudizio si esprime semplicemente l’impulso a preferire un’esistenza che sia

degna dell’uomo rispetto alla freddezza di forme di vita impermeabili agli scrupoli morali»54. Secondo

Habermas, va anche considerato che se l’intervento genetico non offende il diritto di una persona esistente,

potrebbe però compromettere lo status di una persona futura con due possibili conseguenze: «a) che le

persone programmate non possano più considerarsi come gli autori indivisi della loro storia di vita; b) e

che esse non possano più, nel loro rapporto con le generazioni precedenti, illimitatamente concepirsi come

persone eguali per nascita e valore»55. In tal modo, potrebbe svanire nel rapporto fra le generazioni, quella

scansione e presa di distanza che consente al giovane di separarsi dai genitori. Pertanto, potrà essere messo

in discussione la forma moderna dell’universalismo egualitario.

La consapevolezza di essere noi gli autori di ciò che facciamo si basa su di una fede scientista che

non è scienza, poiché nessuna scienza potrà mai dileguare il senso comune del giudicare la vita umana.

Infatti, a parere del filosofo tedesco: «Il commom sense democraticamente illuminato deve temere anche

l’omologazione mediatica e la trivializzazione logorroica delle differenze specifiche. Sensazioni morali

finora adeguatamente espresse solo dal linguaggio religioso potrebbero trovare una risonanza generale

non appena si trovasse una formulazione capace di recuperare quel qualcosa che è semidimenticato ma

anche implicitamente rimpianto. Una secolarizzazione non distruttiva potrebbe realizzarsi nella modalità

della traduzione»56. Dunque, al liberalismo genetico che minaccia il fondamento biologico della persona,

Habermas contrappone una moralizzazione della natura umana intesa come affermazione del senso

comune circa una certa comprensione del genere umano: «Non si tratta naturalmente di una

risacralizzazione antimoderna della vita, ma di un’autocomprensione mirante a salvaguardare il gioco

linguistico della morale»57. Alla luce di ciò, si potrebbe prospettare uno sviluppo dell’ingegneria genetica

chiamato ad adeguarsi alla morale del senso comune della società: «tra i cittadini come stipulatori del

patto politico e i cittadini come eredi di un destino storico (ossia la tensione giusrazionalistica tra l’idealità

universale della costituzione e la contingenza storica dei confini nazionali) si ripresenta adesso sul piano

della regolamentazione giuridica dell’ingegneria genetica»58. Dunque, per Habermas, la socializzazione

della persona è il destino della natura umana il quale permette di legare la particolarità culturale con

l’universalismo morale. Così, la secolarizzazione democratica non implica lo schierarsi con il partito della

54 Ib., p. 73. 55 Ib., p. 80. 56 Ib., p. 111. 57 L. Ceppa, Postfazione, in J. Habermas, Il futuro della natura umana, op. cit., p. 115. 58 Ib., p. 118.

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scienza contro quello della fede, visto che i contenuti religiosi vengono riguadagnati sul piano morale,

giuridico e multiculturale.

Da quanto si deduce sopra, nella riflessione habermasiana si avanzano riserve circa la legittimità

morale della progettazione genetica - secondo schemi individuali - degli esseri umani del futuro. La

situazione dello sviluppo tecnologico, però, rende attualmente impossibile tracciare confini precisi in sede

di pensiero morale poiché è quasi impossibile distinguere tra un’eugenetica volta alla terapia e una in vista

della selezione umana. Nonostante questo, occorre essere consapevoli che: «l’ingegneria genetica

potrebbe modificare l’autocomprensione umana, cioè potrebbe incidere in modo determinante sul modo

in cui l’essere umano concepisce se stesso, la sua umanità, i suoi rapporti con gli altri all’interno di una

società organizzata e la propria visione del mondo»59. Quindi, l’eugenetica negativa - a differenza di quella

positiva - consente all’uomo di considerarsi pur sempre responsabile della propria vita. Ma per il filosofo

tedesco, solo la pratica dell’agire comunicativo: «rende gli uomini più consapevoli del loro destino e del

loro futuro, protagonisti, sul fondamento e nel tramite di una intersoggettività comunicativa, della

comunità dei parlanti»60. Di conseguenza a parere di Habermas, per comprendere le questioni del

miglioramento genetico bisogna come prima cosa utilizzare l’agire comunicativo con il quale l’individuo

diviene soggetto in un contesto comunicativo con gli altri. Così la prospettiva habermasiana, esprime bene

come l’identità umana sia costituita dalla nostra origine e dal nostro destino. Per sapere chi sono, occorre

che io sappia da dove vengo e dove vado, pertanto la mia origine è una componente costitutiva

dell’identità di essere umano. La natura umana è relazione e le questioni sull’eugenetica avanzano la paura

che: «alla fine la tecnologia, in qualche modo, ci faccia perdere la nostra umanità. La natura umana è

l’elemento che ci conferisce un senso morale, ci fornisce le qualità sociali necessarie a integrarci nella

comunità e costituisce la base di ragionamenti filosofici più complessi riguardanti giustizia, diritti e

moralità»61.

Nell’attuale società plurale dove vengono riconosciute e messe in dialogo le diversità in vista della

formulazione di norme valide per tutti, avanza sempre più il potere della tecnica in grado sia di manipolare

l’uomo sia di rimettere al centro del dibattito pubblico la questione antropologica. Dinanzi alla forza

esplosiva dello sviluppo tecnologico, la riflessione etica e la comunità socio-politica non possono restare

a guardare e a stupirsi di uno spettacolo che invece sono chiamate ad indirizzare verso la tutela della

natura umana. Per Habermas, il linguaggio dell’agire comunicativo dovrebbe produrre una rinnovata etica

universale non in vista di una ri-sacralizzazione dell’uomo ma della sua garanzia. Infatti, attraverso un

59 C. Caltagirone, La comunità dei parlanti. L’istanza etica del «parlare» secondo Jürgen Habermas, Sciascia,

Caltanissetta-Roma 2005, p. 212. 60 Ib., p. 228. 61 F. Fukuyama, L’uomo oltre l’uomo, op. cit., p. 140-141.

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logos condiviso, occorre tutelare l’uomo nel rispetto della libertà di essere se stesso e di trovare piena

realizzazione di sé. Tale questione, adattata alle problematiche generate dallo sviluppo tecnologico, per

lo studioso cresciuto alla scuola di Francoforte deve condurre ad una genetica volta alla terapia e non alla

manipolazione e programmazione dell’uomo. In queste modalità, si salvaguarda - attraverso il potere

linguistico e decisionale della comunità politica - l’indisponibilità e l’inviolabilità della natura umana.

Dunque, comprendiamo come lo sviluppo tecnologico capace di programmare l’uomo, riguardi l’essere

morale della comunità politica chiamata ad orientare la stessa tecnica tramite un percorso riflessivo

dell’intera società. Così, il senso comune della società sarà capace di riprendere e argomentare questioni

morali sulla natura dell’uomo in vista della sua tutela.

.

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- 3. Il senso comune della comunità politica in vista della tutela della natura umana

Per riflettere sull’importanza del senso comune della comunità politica in vista della tutela della

natura umana, anzitutto occorre riconoscere che il XX sec. è stato il periodo storico dell’affermazione

globale della democrazia e dell’inviolabilità dei diritti fondamentali dell’uomo. Infatti, la democrazia:

«ostacola la tirannia e l’assolutismo, tende alla pace e alla prosperità, garantisce (o quanto meno si sforza

di garantire) i diritti fondamentali - sociali, civili, politici -, aiuta nello sviluppo delle libertà individuali e

nella realizzazione del proprio progetto di vita, promuove il progresso umano, aiuta nella formazione alla

libertà di coscienza e alla responsabilità morale, si impegna nella sostanziale realizzazione

dell’uguaglianza e della partecipazione politica»62. Quindi, la democrazia sembra avere una sorta di

vocazione antropologica per via della propria tensione alla solidale socialità, alla scoperta del bisogno

dell’altro, tanto che il compito di una politica democratica sembra essere diventato quello di rendere più

fraterna la vita nella comunità politica. Poiché: «la grande sfida della democrazia risiede, da un lato,

nell’affidare alle responsabilità dei cittadini le scelte per la gestione politica del loro convivere e,

dall’altro, nel creare le condizioni affinché questa convivenza, non solo trovi gli strumenti per porre un

limite alla conflittualità insita in ogni umano consorzio, ma si esprima in modo cooperativo e tendente al

bene comune»63.

La democrazia va considerata in un concetto di laicità dell’istituzione, la quale è chiamata ad

operare e promuovere la convivenza e il benessere sociale dei cittadini. La prassi democratica, animata

da tale spirito del senso comune, è altresì impegnata a trovare vie praticabili per le questioni bioetiche ed

a evitare su questi temi scontri o posizioni manichee: «Lo Stato moderno nasce e si sviluppa come

dispositivo giuridico-politico in grado di promuovere la coesistenza tra diversi e di inverare il principio

di tolleranza»64. Perciò, una visione solo procedurale della democrazia non potrebbe assicurare stabilità e

coesione alla vita della comunità politica. Invece, necessita aprire un: «pubblico dibattito sulla vita giusta

e sul bene autentico della persona. In quest’ottica, filosoficamente non basta porsi la domanda sul perché

essere morali; ma serve ancorarla all’effettività dei processi storici e declinarla nella domanda sulla

responsabilità che vincola il nostro destino di socializzazione e i processi dell’altro»65. Così, può

realizzarsi un comune senso illuminato in grado di prospettare una strada condivisa. Infatti, con la via del

reciproco ascolto si avanza una mentalità pubblica dialogica e polifonica che realizza la cooperazione

riconoscitiva. Pertanto, nessun ragionamento dogmatico può trovare spazio nella democrazia: «Tollerare

tutte le prospettive è condizione ineliminabile del percorso che conduce alla scoperta del vero e, allo stesso

62 Cf. F. Mazzocchio, Democrazia, persona, logos: un legame indisponibile, in Cosmopolis VI (2/2011). 63 Ib. 64 F. Mazzocchio, Riconoscimento e cooperazione. Böckenförde, Habermas e il rapporto sfera pubblica-religione, in Aa.

Vv., Custodire la laicità nel tempo del pluralismo (a cura di G. Palumbo), FrancoAngeli, Milano 2009, p. 90. 65 Ib., p. 92.

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tempo, base etica dell’autonomia individuale. La ricerca della verità, sempre costitutivamente pubblica e

discorsiva, fa leva sulla tolleranza democratica perché richiede la continua possibilità di critica e, allo

stesso tempo, dell’ineliminabile confronto sulle tesi sostenute, in vista di una diminuzione delle possibilità

d’errore»66.

Il dialogo verso un senso comune è coessenziale alla democrazia, ma non potrà mai scadere nel

dogmatismo e/o relativismo. Una secolarizzazione vissuta con tale fondamento, rappresenta un banco di

prova riflessivo in vista di un distanziamento critico dalla proprie certezze verso la condivisione pubblica

di principi e norme della comunità politica a tutela della natura umana. Per Habermas: «Nel pensare che,

nonostante tutto, sia ancora possibile nella società il processo dell’intesa e della formazione di identità sta

il vantaggio della teoria comunicativa e il suo merito nei confronti delle sociologie funzionalistiche»67.

Questo approccio, indebolisce ma non esclude la responsabilità della filosofia di argomentare perfino

verso un’idea quasi metafisica dei processi comunicativi umani, anche se: «lo sviluppo del diritto, i

problemi della democrazia non possono essere affrontati che a partire da premesse postmetafisiche, quasi

sottintendendo che una filosofia a base ontologica e personalistica non sia in grado di sostenere le

responsabilità antropologiche e morali connesse all’impatto sociale della tecnica e alla sua crescente

penetrazione antropologica»68. Di conseguenza, la filosofia deve rinunciare alla pretesa della verità

ultima. Ma per Possenti, bisogna anche interrogarsi se: «la traduzione laicizzata dell’universalismo, della

fratellanza egualitaria (il prossimo del Vangelo) e dell’amore agapico che sgorgano dalla rivelazione

ebraico-cristiana possa continuare a nutrire l’etica secolarizzata nel momento in cui questa cerca di

riappropriarsene, lasciandone programmaticamente fuori la sorgente»69. Ciò può portare alla deriva della

riduzione morale del cristianesimo quasi come in una - kantianamente intesa - religione entro i limiti

della sola ragione. In realtà, Habermas esprime: «la definizione analitica di ragione laica, grazie alla quale

egli intende promuovere il discorso interculturale, finalizzato alla buona politica, dunque alla giustizia tra

i popoli e nei popoli»70. Ne deriva uno Stato informato alla convinzione democratica che impone un

comportamento di collaborazione che superi i confini ideologici. In altre parole: «lo spazio pubblico

democratico (in quanto democratico) sussiste solo e soltanto se un numero sufficiente di cittadini si

comporta - al di là delle loro reciproche divergenze d’opinione o religiose - secondo ciò che, in

democrazia, si intende per civiltà, convivenza civile»71.

66 Ib., p. 102. 67 V. Possenti, Nichilismo e metafisica. Terza navigazione, Armando Editore, Roma 2004, p. 219. 68 Ib., p. 223. 69 Ib., p. 234. 70 V. Alberti, Nuovo umanesimo, nuova laicità, Lateran University Press, Città del Vaticano 2012, p. 42. 71 Ib., p. 52.

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La questione del senso comune della comunità politica in vista della tutela della natura umana, ci

conduce a riflettere sul fatto che non è la società ad esistere per la tecnica e per l’economia, ma

quest’ultime sussistono per la società a sua volta disponibile per l’uomo. Così, la convivenza sociale degli

uomini va organizzata in un modo tale da consentire loro di vivere bene: «La strategia habermasiana al

riguardo consiste nell’introdurre come regola argomentativa dei discorsi pratici un “principio di

universalizzazione”, che poi viene fondato partendo dai presupposti pragmatici dell’argomentazione in

genere»72. Infatti, per Habermas: «Il parlante, quando dice qualche cosa entro un contesto quotidiano, non

si riferisce soltanto a qualcosa nel mondo oggettivo, bensì anche a qualcosa nel mondo sociale e a qualche

cosa nel proprio mondo soggettivo»73. Dunque, il tentativo di fondare l’etica nella forma logica

dell’argomentazione ha successo solo se legato alla produzione di precetti e norme condivise. Ciò si spiega

in quanto: «le pretese di verità hanno la loro sede soltanto in azioni linguistiche, mentre le pretese di

validità normativa l’hanno in prima istanza nelle norme e solo in un modo derivato nelle azioni

linguistiche»74. Nell’argomentazione morale, i soggetti parlanti assumono un carattere riflessivo allo

scopo di stabilire un consenso. Questo porta ad un accordo che genera volontà comune. L’imparzialità,

pertanto, è tipica solo del giudizio finale più che della volontà dei singoli partecipanti al dibattito:

«L’argomentazione come procedimento intersoggettivo è necessaria soltanto perché, se si vuole stabilire

un modo d’agire collettivo, si devono coordinare le intenzioni individuali e perciò si deve giungere a una

decisione comune. Ma si può considerare giustificata la norma decretata soltanto se la risoluzione è il

risultato di argomentazioni, ossia se ha luogo secondo le regole pragmatiche di un discorso. Si deve, cioè,

assicurare che ciascuno dei soggetti coinvolti aveva la possibilità di dare liberamente il suo consenso»75.

Senz'altro, l’accordo fra le parti è di tipo razionale e allora ciò che di buono ne deriva non riguarda

egualmente ogni singolo membro della società, bensì la comunità politica integralmente. In questo modo:

«Con l’introduzione del principio di universalizzazione si è compiuto un primo passo verso la fondazione

di un’etica del discorso»76. La teoria del discorso conduce al principio di universalizzazione e nel delineare

la sfera di validità delle norme, delimita l’ambito di ciò che è moralmente valido rispetto a quello dei

contenuti dei valori culturali. I partecipanti al discorso devono avere sia la competenza che occorre per

un dibattito maturo, sia la flessibilità d’intendersi su qualcosa che divenga comune: «L’attrezzatura socio-

cognitiva deve essere ristrutturata in modo tale che si possa introdurre un meccanismo di coordinazione

dell’azione non strategica, e cioè orientata verso l’intesa; meccanismo indipendente tanto dalla relazione

autoritaria verso concrete persone di riferimento, quanto alla relazione diretta con i propri interessi»77.

72 E. Agazzi, Introduzione, in J. Habermas, Etica del discorso, Laterza, Roma 2009, p. XXIX. 73 J. Habermas, Etica del discorso, op. cit., p. 29. 74 Ib., p. 68. 75 Ib., p. 80. 76 Ib., p. 85. 77 Ib., p. 163.

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Nella visione habermasiana, i conflitti sociali vanno risolti a partire da un punto di vista morale

universalizzato e cioè capace di essere condiviso da tutti: «la forma universale e astratta delle leggi si

giustifica come veramente razionale solo collocandosi nella prospettiva di siffatti principi moralmente

ricchi di contenuto»78. Bisogna, però, tenere pur sempre presente che i discorsi giuridici, per quanto

collegati al diritto vigente, non possono muoversi nell’universo chiuso di regole giuridiche fissate una

volta per tutte: «La legittimità della legalità, in altri termini, è dovuta allo strutturale intrecciarsi di

procedimenti giuridici con un’argomentazione morale ubbidiente alla propria specifica razionalità

procedurale»79. Poiché il diritto non possiede una struttura intrinseca, ma può essere pensato come un

guscio malleabile che si adatta a qualsiasi operazione amministrativa: «Oggi la costituzione si presenta a

noi come una totalità dinamica, dove i conflitti tra bene individuale e bene collettivo devono venire ogni

volta conciliati alla luce di superiori principi costituzionali e nel quadro di una interpretazione olistica

della costituzione»80. Dunque, l’universale etico si realizza con una procedura che garantisce

l’imparzialità in un contesto in cui la morale si ritira sempre più nella sfera privata. Allora tocca alle norme

giuridiche assorbire responsabilità prima non previste. Ciò produce un’etica della responsabilità che

partendo dalla prassi giuridica si rafforza e trova valore comune: «Sia le finalità collettive sia i

provvedimenti politici d’implementazione sono debitori solo “alla forma del diritto” della loro forza

vincolante. In questo senso il diritto si colloca a metà strada tra la politica e la morale»81. Di conseguenza

un diritto esteriore e una morale interiore possono completarsi a vicenda. Per tale via si realizzano solo

regolamenti in grado di incontrare l’autonomo consenso da parte di tutti. Quest’idea ci dice come la

ragione del diritto naturale moderno sia la ragione pratica, ovvero quel discorso che conduce ad una

morale autonoma e post-tradizionale, ma: «Il sistema giuridico non conquista la sua autonomia soltanto

per sé. Autonomo esso lo è soltanto nella misura in cui le procedure istituzionalizzate della legislazione e

della giurisdizione garantiscano un’imparziale formazione del giudizio e della volontà, facendo così

penetrare nella politica non meno che nel diritto una razionalità procedurale di tipo morale. L’autonomia

del diritto non può esistere senza la realizzazione della democrazia»82. In quest’ultima, bisogna precisare

che diritti dell’uomo non entrano in concorrenza con la sovranità popolare, ma s’identifica con le

condizioni costitutive di una prassi che si limita alla luce di alcuni fondamenti. Nonostante questo, la

costituzione ha perso ogni forma di staticità, infatti anche quando la lettera delle norme resta invariata le

interpretazioni mutano. Ma nei cittadini rimane sempre la convinzione di: «regolare la loro convivenza a

partire da principi che, in quanto riguardano in egual misura gli interessi di ciascuno, possano incontrare

la fondata approvazione di tutti»83. Pertanto per Habermas, il diritto acquista: «una funzione chiave: esso

78 ID., Morale, Diritto, Politica, Einaudi, Torino 2007, p. 13. 79 Ib., p. 18. 80 Ib., p. 27. 81 Ib., p. 35. 82 Ib., p. 76. 83 Ib., p. 111.

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consente di tradurre effettivamente l’impegno morale della coscienza privata post-convenzionale dentro

ai meccanismi sociali del potere amministrativo, economico, tecnologico. Il potere della comunicazione

“assedia” il potere dell’amministrazione: trasferendo la morale universalistica dentro ai meccanismi

dell’integrazione e della trasformazione sociale»84. Solo in tal modo può essere messa in luce la funzione

di cerniera che il diritto svolge tra l’agire comunicativo del mondo della vita e l’agire degli apparati

istituzionali.

A parere di Habermas, bisogna tenere in considerazione che il nostro principio morale non

rispecchia solo i pregiudizi del mitteleuropeo di oggi dotato di alcune caratteristiche. Invece, il principio

morale deve dedursi da presupposti argomentativi includenti e universali. Nel discorso pubblico

includente, la diversità non spezza il legame sociale della comune appartenenza, anche se il patto richiesto

a tutti trascende i confini di ogni comunità concreta. Inoltre, il discorso politico richiede l’inclusione di

tutti gli interessi toccati di volta in volta e si deve estendere persino ad un esame critico

dell’interpretazione degli stessi. Spesso mancano, però, istituzioni particolari che rendono socialmente

attendibile una formazione discorsiva. Ora un modo di agire è moralmente giusto quando è autorizzato da

un sistema di regole d’azioni universali a sua volta derivate da un accordo informato: «i presupposti

necessari dell’agire comunicativo costituiscono una infrastruttura di possibile intesa contenente un nucleo

morale - l’idea della intersoggettività senza costrizione»85. Per il filosofo tedesco, il programma di

fondazione etico-discorsiva si pone come obiettivo quello di trovare la razionalità tramite una regola

argomentativa sui discorsi che possono fondare le norme morali. Di conseguenza: «chi voglia osservare

qualcosa dal punto di vista morale non deve farsi escludere dal contesto intersoggettivo dei partecipanti

alla comunicazione che possono contrarre relazioni interpersonali e comprendersi come destinatari di

norme vincolanti unicamente in questo atteggiamento performativo»86. Dunque, le asserzioni valide

debbono potersi difendere con ragioni che possono convincere chiunque in qualsiasi momento e in tutti i

luoghi. Tale situazione è concretizzabile solo in comunità democratiche garantite da istituzioni forti,

radicate e credibili per la società.

Le moderne costituzioni derivano dall’idea che siano gli stessi cittadini a decidere in maniera

autonoma di riunirsi in comunità di soggetti liberi ed eguali. Da tale presupposto viene fuori il diritto

soggettivo del quale ogni membro della società è titolare. Pertanto nella comunità, ciò che conta è

riconoscere l’integrità del soggetto individuale che può concretizzarsi solo in una struttura di rapporti

intersoggettivi. Tale riconoscimento intersoggettivo mira: «non tanto a eguagliare le condizioni sociali

dell’esistenza, quanto a tutelare l’integrità delle forme di vita e delle tradizioni in cui si riconoscono i

84 L. Ceppa, Postfazione, in J. Habermas, Morale, Diritto, Politica, op. cit., p. 143. 85 J. Habermas, Etica del discorso, Laterza, Roma 2009, p. 99. 86 Ib., p. 159.

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membri di gruppi discriminati. Certo il misconoscimento culturale è quasi sempre legato a grossolane

discriminazioni sociali, e le due cose si potenziano a vicenda»87. Da questo presupposto ne dovrebbe

derivare una politica rispettosa sia delle differenze culturali sia dell’universalizzazione dei diritti

soggettivi. Perciò se si prende sul serio questo legame interno tra diritto e democrazia allora: «diventa

subito chiaro il perché il “sistema dei diritti” non possa essere cieco né verso le condizioni sociali diseguali

né verso le differenze culturali»88. Quindi per Habermas, la formazione politica dell’opinione pubblica

orientata all’idea di realizzare i diritti, non può ridursi all’auto-chiarimento etico bensì occorre procedere

verso norme condivise da tutti: «Ogni persona va infatti riconosciuta anche come membro di una comunità

che è integrata intorno a una certa concezione del bene. Di conseguenza l’integrazione etica dei diversi

gruppi e subculture, ognuno dotato di una sua propria identità, deve sganciarsi dal livello della

integrazione politica astratta che ricomprende in egual misura tutti i cittadini»89. Pertanto secondo il

filosofo tedesco, l’integrazione dei cittadini produce un lealismo nei confronti della comunità politica:

«L’universalismo dei principi giuridici si riflette così in un consenso procedurale che, attraverso una sorta

di patriottismo costituzionale, deve pur sempre inserirsi nel contesto di una cultura politica storicamente

delimitata»90.

Nella formazione della comunità politica che tuteli la natura umana, Habermas riconosce al

linguaggio religioso la capacità di custodire ed esprimere delle ragioni che il discorso pubblico non può

ignorare. Di conseguenza la ragione secolare e quella religiosa devono cooperare in una società che è alla

ricerca di forme migliori di vita buona: «comprendere la secolarizzazione culturale e sociale come un

processo di apprendimento doppio, che obbliga tanto la tradizione dell’Illuminismo, quanto la tradizione

della dottrina religiosa a riflettere sui propri rispettivi limiti»91. A parere del filosofo cresciuto alla scuola

di Francoforte, i fondamenti che legittimano il potere di uno Stato neutrale trovano la propria origine nelle

correnti filosofiche profane del Seicento e del Settecento. Dunque, lo Stato possiede da sé i presupposti

per garantire la propria esistenza, ma: «La compenetrazione reciproca di cristianesimo e metafisica greca

non ha prodotto solo la forma spirituale della dogmatica teologica e una, non sempre benefica,

ellenizzazione del cristianesimo. Tale compenetrazione ha favorito anche, dall’altro, l’appropriazione di

contenuti genuinamente cristiani, da parte della filosofia… tradurre l’idea di un uomo creato ad immagine

e somiglianza di Dio nell’idea di un’eguale dignità di tutti gli uomini, da rispettarsi incondizionatamente,

costituisce un esempio di una tale traduzione salvante»92. Pertanto per Habermas, dobbiamo fare i conti

87 ID., Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, in ID. - Taylor C., Multiculturalismo, op. cit., pp. 66-

67. 88 Ib., p. 69. 89 Ib., p. 93. 90 Ib., p. 95. 91 J. Habermas, I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale, in ID. - Ratzinger J., Etica, religione e Stato liberale,

Morcelliana, Brescia 2012, p. 22. 92 Ib., pp. 35-36.

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globalmente con la persistente vitalità delle religioni del mondo: «le maggiori religioni mondiali hanno

impresso nel corso dei secoli una grande forza culturale non ancora del tutto perduta. Come in occidente,

anche in Estremo oriente, in Medio oriente e persino in Africa queste “forti” tradizioni hanno aperto la

strada allo sviluppo di modelli culturali che oggi si scontrano, per esempio, nella disputa sulla corretta

interpretazione dei diritti umani. La nostra autocomprensione occidentale della modernità è il risultato del

confronto con le nostre tradizioni peculiari»93. In tal modo, la civile frequentazione di cittadini di fedi

diverse o non credenti, può dare una grande spinta al processo di apprendimento collettivo per il

riconoscimento delle diversità. Occorre tuttavia ricordare che il potere politico è fondato su di una

giustificazione secolare non religiosa: «la natura laica dello Stato costituzionale democratico non mostra

alcuna debolezza inerente al sistema politico in quanto tale, e quindi interna, che comprometta un’auto-

stabilizzazione dal punto di vista cognitivo e motivazionale»94. Se ne deduce che in uno Stato liberale, i

cittadini laici o credenti sono chiamati a realizzare processi di apprendimento complementare per

rispondere alle sfide del pluralismo religioso e di visioni del mondo: «Soltanto con lo sviluppo di

un’associazione di cittadini liberi ed eguali, fondata su norme proprie e autodeterminata, si crea la base di

riferimento per un uso pubblico della ragione»95. Difatti, lo Stato liberale è interessato all’ammissione di

voci religiose nella sfera pubblica politica, come alla partecipazione politica delle organizzazioni

religiose. Per questo motivo a parere di Habermas: «Se la risposta liberale al pluralismo religioso possa

essere accettata dai cittadini stessi come la risposta giusta, dipende non da ultimo dalla disponibilità dei

cittadini religiosi e di quelli laici ad impegnarsi, ciascuno dal suo punto di vista, in un’interpretazione del

rapporto tra scienza e fede il quale soltanto rende possibile, nella sfera pubblica politica, una reciproca

relazione autoriflessivamente illuminata»96. Così le religioni sono tollerate a partire dal riconoscimento

nella comunità democratica della reciproca libertà di culto: «Il pluralismo di visioni del mondo e la

battaglia per la tolleranza religiosa non solo sono state le forze che hanno favorito la nascita dello Stato

costituzionale democratico, ma ancora oggi danno l’impulso al suo coerente sviluppo»97. Ne consegue il

fatto che la libertà religiosa nello Stato liberale non ha soltanto disinnescato il pericolo politico che la

comunità sociale venga dilaniata dai conflitti tra le varie visioni del mondo, ma ha anche dato ai gruppi

religiosi un quadro di interazione istituzionale.

Dalla prospettiva habermasiana appena esposta, emerge un vivere sociale dell’uomo che tiene

conto delle sue parole in quanto essere chiamato a rispondere con le parole alle parole: «l’uomo in quanto

persona, è essere nella parola ed essere della parola. Infatti, l’uomo in quanto soggetto personale, non

cade mai semplicemente in uno stato, in un codice o in una “langue” ma in una dynamis… in un linguaggio

93 ID., Le religioni e la politica. Espressioni di fede e decisioni pubbliche, EDB, Bologna 2013, pp. 6-7. 94 ID., Tra scienza e fede, Laterza, Roma 2005, p. 11. 95 Ib., p. 26. 96 Ib., p. 50. 97 Ib., p. 156.

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che già parla, che è già parlante»98. Il compito del parlare costituisce la cifra della natura umana e tramite

l’agire comunicativo si generano processi di interazione orientati all’intesa tra gli uomini mediante l’atto

del parlare: «Sotto questo profilo è possibile aprire lo spazio dell’incontro tra gli uomini mediante la

creazione di forme di governo democratico, nelle quali viene incoraggiata la partecipazione attiva di tutti

i cittadini e si cerca di organizzare forme di convivenza civile basata sui concetti di eguaglianza e

solidarietà fra gli uomini»99. Dunque, alla luce di un dialogo fra soggetti che partecipano a prassi

discorsive, Habermas propone un concetto di trascendentale non idealizzato ma concreto ed espresso nelle

prassi comunicative quotidiane volte alla tutela e allo sviluppo della natura umana. Per giungere a ciò, i

processi di socializzazione devono concretizzarsi all’interno di istituzioni democratiche che in quanto tali

garantiscono i diritti umani inviolabili e perciò facilitano un universalismo etico capace di tutelare la

natura umana. Pertanto a parere di Habermas, una convivenza sociale-politica volta al vivere bene

dell’umano dovrà garantire dei limiti non oltrepassabili circa lo sviluppo della tecnica applicata

all’eugenetica.

98 C. Caltagirone, La comunità dei parlanti, op. cit., p. 9. 99 Ib., p. 15.

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- Conclusioni

Dal pensiero habermasiano presentato nei capitoli precedenti, possiamo dedurre che la comunità

politica si edifica su di un’esplicita antropologia relazionale la quale conduce a riconoscere e tutelare

l’inviolabilità della natura umana. L’antropologia relazionale costruita attraverso l’etica del discorso che

fonda l’agire comunicativo, non presta il fianco a derive individualistiche o relativistiche, ma nel

riconoscere la pluralità della società attuale giunge all’accordo circa la tutela della natura umana. Pertanto,

nell’odierna comunità politica plurale perché globale, la prospettiva di Habermas sui temi legati alla

bioetica privilegia e alimenta un dibattito maturo affinché l’inviolabilità dei diritti umani fondamentali sia

condivisa e garantita dall’intera opinione pubblica e perciò tradotta in prassi giuridica. Da queste

argomentazioni, possiamo ricavare che per il filosofo tedesco se il nostro è il tempo nel quale si è estinto

l’orizzonte metafisico che faceva discendere dall’alto l’idea di bene, quest’ultima è derivata dal basso

della prassi discorsiva che porta all’inclusione dell’altro. Secondo lo studioso tedesco, è ormai evidente

che un’eugenetica positiva e spregiudicata possa calpestare alcuni diritti inviolabili e fondamentali

dell’uomo come la libertà. Per questo motivo la comunità politica dopo aver maturato tramite l’agire

comunicativo un’idea condivisa di natura umana legata alla sua stessa identità, è chiamata a tutelarla e

garantirla sia moralmente sia giuridicamente.

Nel XX secolo il potere della tecnologia è giunto a mete prima non prevedibili. Infatti, nel nostro

tempo la tecnica è capace di manipolare l’uomo sin dal suo concepimento. A parere di Habermas, questa

situazione deve ricondurre la comunità politica a riconoscere la centralità della questione antropologica.

In tal modo, la riflessione etica e della stessa società plurale non può rimanere stupita dinanzi al progresso

tecnico-scientifico applicato all’uomo, ma è interpellata ad operare per evitare abusi sulla natura umana.

Per lo studioso cresciuto alla scuola di Francoforte, ciò sarà possibile tramite l’utilizzo nella comunità

politica di un logos condiviso che nel rispetto della pluralità garantisca l’uomo verso la piena realizzazione

di sé ed eviti un pensiero verso la ri-sacralizzazione del concetto di natura umana. Tale presupposto,

conduce Habermas a privilegiare l’eugenetica per uso terapeutico rispetto a quella positiva e liberale in

grado di manipolare l’uomo. Pertanto nel nostro tempo, la comunità politica ha il compito di riportare

all’indisponibilità sull’uomo lo sviluppo della tecnologia che potrebbe - con un uso non idoneo del suo

potere - cancellare il volto dell’umano così come si è prefigurato sino ad oggi. Di conseguenza nei

confronti della tecnica, la comunità politica dovrà rappresentare un potere che frena lo sviluppo non

attraverso un moralismo astorico e risacralizzante, ma tramite argomentazioni condivise volte alla tutela

dell’intimità indisponibile dell’umano.

Nello sviluppo del pensiero habermasiano, la questione della bioetica legata all’eugenetica

sembrerebbe una sorta di incidentale da ricondurre all’alveo della sua riflessione filosofico-sociologica

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sulla politica. In quest’ultima, emerge un vivere sociale dell’uomo che tiene conto delle sue parole in

quanto essere chiamato a rispondere con le parole alle parole. Infatti, per lo studioso tedesco, il parlare

rappresenta lo specifico dell’uomo il quale deve orientarlo a processi di intesa per la pacifica convivenza

e per il rispetto della diversità da includere. Ne deduciamo che in Habermas è presente un concetto di

trascendentale non metafisico ma concreto e caratterizzato da prassi comunicative che sulle problematiche

bioetiche devono guidare allo sviluppo ma anche alla tutela della natura umana. Per giungere a ciò, occorre

una prassi democratica matura con istituzioni e cittadini che garantiscano un livello alto e produttivo del

dibattito. In questa visione, possiamo riscontrare un profilo eccessivamente idealista e positivo della

proposta filosofico-sociologica della politica di Habermas, poiché la condizione delle attuali democrazie

occidentali sembra destinata non alla piena maturità bensì all’inesorabile regresso.

Circa il tema in oggetto in questo lavoro, bisogna - in conclusione - prendere consapevolezza del

fatto che - alla luce della riflessione habermasiana sulla comunità politica come tutore della natura umana

- il senso comune, presente generalmente nella nostra dimensione politica, ci incanala: ad una

comprensione del nostro essere morale; alla degna esistenza che dobbiamo condurre in quanto uomini;

alla solidarietà fra estranei. Ne consegue che la comunità è chiamata a frenare uno sviluppo tecnologico

in chiave eugenetica che priverebbe l’uomo della sua identità e quindi della sua libertà. Pertanto, la

comunità politica intesa nella logica dello scambio e del confronto fra i diversi pluralismi ideologici

esistenti, si prefigura come l’unica “tutore” della natura umana nel contesto storico attuale post metafisico

e post cristiano.

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- Petrucciani S., Introduzione a Habermas, Laterza, Roma-Bari 2000.

- Possenti V., Nichilismo e metafisica. Terza navigazione, Armando Editore, Roma 2004.

Page 33: Master in Bioetica · riconoscimento della natura umana - è il punto di partenza per sviluppare, nel successivo capitolo, la questione dei rischi della genetica liberale e del ruolo

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Indice

- Introduzione p.3

- 1. La pluralità della comunità politica come mezzo di riconoscimento della natura umana p.5

- 2. I rischi di un’eugenetica liberale per Jürgen Habermas p.14

- 3. Il senso comune della comunità politica in vista della tutela della natura umana p.22

- Conclusioni p.30

- Bibliografia p.32