Marzo 2007 N° 94

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rassegna dell’ordine degli avvocati di torino la P azienza Pubblicazione trimestrale - Spediz. in abb. postale 70% - Filiale di Torino- Anno XXIV n. 1 - 1° trimestre - 10138 Torino, Corso Vittorio Emanuele II 130 - Contiene I.P. Ingresso della Fondazione “Fulvio Croce” e busto in memoria MARZO 2007 94

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DIRETTORE RESPONSABILE

Mauro RONCO

COMITATO DI REDAZIONE

Luigi CHIAPPERO

Anna CHIUSANO

Stefano COMMODO

Paolo DAVICO BONINO

Vincenzo ENRICHENS

Giulia FACCHINI

Silvana FANTINI

Pier Giuseppe MONATERI

Davide MOSSO

Elena NEGRI

Carlo PAVESIO

Manuela STINCHI

Filippo VALLOSIO

Romana VIGLIANI

Registrato al n. 2759 del Tribunale

di Torino in data 9 giugno 1983

IMPAGINAZIONE

Studio Beta - TO

FOTOCOMPOSIZIONE

Smile Grafica - TO

STAMPA

MARIOGROS - Torino

Per le riproduzioni pubblicate

su questo numero, si ringrazia

l’archivio de La Stampa

la Pazienzarassegna dell’ordine degli avvocati di torino

Editoriale

7 di Mauro Ronco

8 Quel 1977 di Angelo D’Orsi

12 Il sacrificio di Fulvio Croce nel contesto storico dell’anno (1977) orribiledi Mauro Ronco

16 Dal memoriale di Guido Barbaro, intitolato: “50 anni di Toga”con nota introduttiva di Manuela Stinchi

La Voce degli Avvocati: 1977-2007

20 Era il 28 aprile 1977 di Aldo Albanese

22 Il ruolo dell’Avvocatura torinese nel processo alle Br di Anna Chiusano

24 Il valore delle scelte di Silvana Fantini

25 Un omicidio premoderno di Fulvio Gianaria e Alberto Mittone

27 1977-2007. Un dialogo immaginario con i giovani colleghi di Elena Negri

30 Fulvio Croce: cerimonia commemorativa a venticinque anni dalla sua morte di Antonio Rossomando

33 C’era una volta di Marcello Tardy

35 Le Istituzioni torinesi dedicate a Fulvio Croce di Marco Weigmann

La voce delle vittime

37 Associazione Vittime del terrorismo di Maurizio Puddu

Le iniziative del Consiglio dell’Ordine

38 “Avvocato!” il film sul processo di Torino al nucleo storico delle Brigate Rosse di Alessandro Melano

42 “Avvocato!”: grazie Alessandro, grazie Marino di Mario Napoli

43 “Fedeltà istituzionale e passione civile dell’avvocato” in ricordo di Fulvio Croce, Brochure del Convegno del 4-5 maggio 2007

44 Ricordi

In copertina:foto di Arianna Enrichens

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Questo numero de la Pazienza è dedicato alricordo di Fulvio Croce, trucidato dalle

Brigate Rosse il 28 aprile 1977 a causa dell’adem-pimento del suo dovere di Presidente dell’Ordinedegli Avvocati di Torino. Nel trentennale del suosacrificio il Consiglio torinese intende additare ilsuo esempio di giustizia e di fortezza a tutti i colle-ghi, soprattutto a quelli appartenenti alle giovanigenerazioni, nonché alla cittadinanza e all’interacomunità civile.

Per svolgere questo servizio il Consigliodell’Ordine ha organizzato un Convegno, che siterrà nei giorni 4 e 5 maggio 2007, sul tema:“Fedeltà istituzionale e passione civile dell’avvo-cato: in ricordo di Fulvio Croce”. Inoltre presso ilocali della Fondazione Croce è stata organizzatauna mostra fotografica per rammentare con la forzadelle immagini la drammaticità degli eventi chesconvolsero Torino e l’Italia trent’anni addietro.Infine, grazie all’impegno profuso dall’avvocatoAlessandro Melano e dai suoi collaboratori, su ini-ziativa già decisa dal Consiglio dell’Ordine presie-duto dall’avv. Antonio Rossomando, è stato pro-dotto un film, dalla Capris s.r.l. società di servizidel Consiglio dell’Ordine, che ricorda l’omicidio

di Fulvio Croce ed il successivo processo alleBrigate Rosse. Questo film verrà diffuso, grazie aun accordo siglato con l’editrice La Stampa in cor-rispondenza con l’anniversario della morte delPresidente Croce.

Il Consiglio ritiene che queste iniziative sianoutili per sottolineare la rilevanza del ruolo dell’av-vocatura nell’attuale momento storico per la pro-mozione e la difesa dello Stato di diritto nonché perla migliore difesa dei diritti dei cittadini.

La redazione de la Pazienza si è rivolta allo sto-rico delle idee politiche dell’Università di Torino,Prof. Angelo d’Orsi per ottenere un inquadramentoscientifico di quel tragico periodo della storia ita-liana. Il suo prezioso intervento viene pubblicatoquale articolo introduttivo di questo numeromonografico.

Inoltre, si ringraziano sentitamente la moglie,sig.ra Annalisa e la figlia, dott.ssa Maria BenedettaBarbaro per aver consegnato all’Avvocatura tori-nese il memoriale scritto di pugno dal Presidenteprof. Guido Barbaro, che la Pazienza pubblica inquesto numero in un breve estratto.

Mauro Ronco

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Editoriale

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Annus mirabilis, ma anche annushorribilis, quel 1977: nel cuore

di una grande stagione di lotte sociali,che produssero risultati importanti sulpiano anche della legislazione – nuovodiritto di famiglia, divorzio, statuto deilavoratori, sindacato di polizia... – eche, fino al successivo, ancor più tra-gico 1978, aprì il Paese a una nuovastagione politica, interrotta tragica-mente dal rapimento di Aldo Moro,concluso con la sua “esecuzione” daparte dei brigatisti. Una perversa folliasembrò impadronirsi della società ita-liana, quasi a contraltare di quelleesperienze progressive, di quellemisure di ammodernamento istituzio-nale, sociale e culturale che si eranoavviate, pur tra mille esitazioni eincertezze. La violenza politica, nonnuova nella vicenda storica italiana, siaffacciò con prepotenza sulla scena.“Rossi” contro “neri”, “neri” contro“rossi”, stragisti neofascisti e terroristi

neocomunisti, servizi segreti “devia-ti”, agenti Cia e di altre agenzie stra-niere... Il Paese divenne terra di scor-rerie, di agguati, di rapimenti, di assas-sinî: un clima di incertezza, venato ditimori via via più gravi, si impadronìdelle persone: si aveva paura di essereaggrediti in certi quartieri (per esem-pio a San Babila a Milano) se il mani-festo o l’Unità occhieggiavano dallatasca della giacca, oppure in altri quar-tieri (per esempio San Lorenzo aRoma), se si mostravano simboli delladestra. Naturalmente, non era unoscontro fra gli uni e gli altri con equaripartizione di responsabilità: diversele tecniche, diverse le logiche, diversele misure. E se ci furono aggressioni dimilitanti di destra, da parte di estremi-sti di sinistra, assai più numerose, egravi, furono quelle di senso contrario.In ogni caso, a sinistra non si giunsemai allo stragismo, che, fin dal 1969,con Piazza Fontana, aveva inaugurato

la tristissima stagione delle bombecontro innocenti, del massacro indi-scriminato, del terrorismo nel sensoproprio del concetto. Quel terrorismonon fu mai di sinistra, come non lo eramai stato in precedenza nella storia.

Di sinistra fu un altro terrore, ebisogna riconoscerlo con la franchez-za necessaria. Una vicenda che halasciato una traccia non spenta nellacoscienza civica degli italiani, masoprattutto una traccia di dolore, eanche di incredulità per la follia cheanimava chi sparava, chi organizzavaattacchi, chi gettava molotov.

Le Brigate Rosse, Prima Linea, iNuclei Combattenti, i Proletari per ilComunismo e altre sigle, scaturiteall’interno del “movimento”, o megliodi suoi settori sciagurati passati allaclandestinità, nella convinzione dipoter riproporre la lotta armata comeera accaduto trent’anni prima, contro inazifascisti – significativi i richiami,anche nelle denominazioni, allaResistenza – erano dunque nate a sini-stra: una sinistra la cui esistenza si fecefatica ad accettare, perché in fondoavrebbe comportato, per la sinistra“ufficiale”, quella che lottava alla lucedel sole, il riconoscimento di unasconfitta, di una perdita di contattocon frammenti, ancorché di ridottaentità, del suo bacino di voti e soprat-tutto, che era ben più grave, delle sueclassi sociali di riferimento. Negliambienti del Partito Comunista, cheera ormai alla soglia delle famosestanze dei bottoni, non pochi militantie dirigenti non potevano accoglierecon facilità l’idea che potessero esseredavvero “rosse” quelle “brigate”, chescimmiottavano le gloriose formazio-ni partigiane. Troppo estranee erano leloro tecniche e la loro filosofia dallatradizione del movimento operaio ita-liano. Le “sedicenti Brigate Rosse” fuespressione che divenne usuale; l’e-spressione, del resto, tra sospetti e cer-

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QUEL 1977

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tezze, coglieva collusioni oggettive, etalora soggettive, con poteri statuali,come sarebbe stato poi dimostrato;ma, certo, il motto “Né con lo Stato, nécon le Brigate Rosse”, fu ambiguo ereticente, frutto di analisi discutibili eforiero di errori. Quelle parole per untratto di tempo furono la divisa di unasinistra extraistituzionale che tenevaalla sua indipendenza di giudizio,rischiando tuttavia di mostrarsi subor-nata da coloro che intanto, con unaimplacabile strategia del terrore,sequestravano, “gambizzavano” (iltristo neologismo è di quell’epoca),“giustiziavano”, ergendosi a giudicidella vita e della morte di quanti veni-vano dichiarati “nemici del popolo”,in una logica imperscrutabile, quantofunesta e spesso ai limiti – e oltre ilimiti – della paranoia.

Furono gli “anni di piombo”.Eppure erano quei “Grandi AnniSettanta”, salutati da Mao Zedong, chevidero sorgere grandi progetti ai confi-ni dell’utopia e concrete realizzazionisociali all’insegna di un onesto rifor-mismo progressivo... Vite sospese,esistenze bruciate, incertezza sul futu-ro, paura del presente, terrore, morte, eun pesante clima di sospetto che inqui-nava i rapporti tra cittadini, vennero asovrapporsi e intrecciarsi con battagliedi civiltà e di progresso di cui furonoprotagonisti partiti e movimenti del-l’area progressista, ivi compreso l’esi-gua, pugnace pattuglia radicale, allorainequivocamente collocata a sinistra.Gli anni di piombo furono anche annidella tenerezza, con le donne chereclamavano il loro posto nellasocietà, lontano dai fornelli ma anchedal ciclostile, o, intrinseche agli uni eall’altro, se ciò nasceva da una liberascelta. Fu una rivolta, quella femmini-sta, dentro la rivolta, nella quale la teo-ria abbracciò la pratica sociale e deicomportamenti privati: anzi, nellerivendicazioni di una linea femminilealla politica il privato, scacciato rumo-rosamente dalla porta dal movimento,rientrò silenziosamente, ma con cre-scente forza e, peraltro, con effetticontraddittori, dalla finestra.

Furono gli anni del consolidamentodegli esiti importanti delle lotte politi-che, sindacali e culturali – gli studenti,gli intellettuali, la scuola nel suo com-plesso, il cinema (si pensi alla conte-

stazione della Mostra del Cinema diVenezia, si pensi al cinema “politico”e in specie a quello che scopriva infinela classe operaia)... – avviate nei tardianni Sessanta. Ma proprio quei risulta-ti corsero il rischio di essere vanificatiper sempre dall’arroganza e dall’im-politicità dei “brigatisti”.

Epicentro del nuovo terrore fuTorino, grande capitale industriale,capitale del movimento operaio, cittàdi élites intellettuali, uno dei piùfecondi laboratori politici e una tra lepiù produttive fucine culturali delPaese, la città che era stata, per oltre undecennio decisivo, la patria adottiva diAntonio Gramsci, e prima di lui deirifugiati della lotta risorgimentale, lacittà di Ruffini, degli Einaudi, diSolari, la città de L’Ordine Nuovo, unastraordinaria avventura politico-cultu-rale del Primo Dopoguerra, ma anche,poi, la città “medaglia d’oro dellaResistenza”, la città scelta da LeoneGinzburg, ma anche la città dei Foa,dei Mila, dei Galante Garrone, deiBobbio, degli Agosti..., tutti in qual-che modo operanti sulla scia di PieroGobetti, meteora prodigiosa che avevasolcato il cielo grigio subalpino,lasciando una traccia indelebile: e viaseguitando, in una collana di perle chenon ha l’eguale nella storia italiana deltempo. Vale la pena di ricordare, inuna rivista di avvocati, che allievi emaestri, ricevettero prevalentemente,la loro formazione nella Facoltà giuri-dica, dove, fin dalla metà del XIXsecolo, a partire dall’arrivo degli esuli

del Regno delle Due Sicilie, si comin-ciò ad impartire ai discenti un insegna-mento non meramente tecnico-erudi-to: non solo giuristi, ma innanzituttocittadini attenti alla vita della polis, siformavano su quegli scranni.

Tesaurizzando quel passato, nel1967, ossia un decennio prima dei fattidi cui parliamo, Torino era stata l’epi-centro fondamentale della rivolta stu-dentesca. Non furono soltanto, anzinon furono tanto le occupazioni e leassemblee a segnare quella stagione,se non sul piano esteriore; assai piùimportante fu la dimostrazione di unatensione positiva allo studio, che sem-brava connettersi a una specie digenius loci, che era stato impersonatoe forse costruito da quelle grandi figu-re, da Solari a Bobbio, uniti in qualchemodo proprio dalla tensione a cono-scere, ad apprendere, a riflettere, a stu-diare, in una sola parola: lo scandalofu che gli studenti universitari urlava-no il loro diritto allo studio, sia sulpiano materiale, ossia delle condizio-ni; sia su quello dei contenuti, ossia sulpiano ideale: sì, si pretendevano auto-ri contemporanei, e periodi contempo-ranei, e temi contemporanei; si recla-mava più politica; si gridava alla con-nessione perduta con il mondo deibisogni e del lavoro; ma ilSessantasette, il lungo movimento chesarebbe durato esattamente un decen-nio, appunto, fino al Settantasette,ebbe inizio con Marcuse, e con il suoUomo a una dimensione, che parve ilritratto perfetto delle contraddizioni

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della società del benessere, una ine-guagliata denuncia della “falsalibertà”, per citare un autore cinesesconosciutissimo che cominciò adiventare improvvisamente popolare,Lu Hsun, la cui raccolta di scrittiapparve da Einaudi nel mitico 1968.Nello stesso anno, medesima collana(la bellissima NUE), Norberto Bobbio,che aveva la contestazione in casa,editò quel testo sconvolgente peracume filosofico e forza letterariachiamato Manoscritti economico-filo-sofici del 1844. Autore? Tale KarlMarx. Con lui, Rousseau, qualchecinese, e l’intera Scuola diFrancoforte, furono i livres de chevetdegli studenti più avvertiti e più impe-gnati, per i quali la battaglia era innan-zitutto culturale: i “controcorsi” neespressero, ingenuamente, ma concreativa capacità di testimonianza, lavoglia di fare, che era e doveva essere,come insegnava un altro personaggio“scoperto” in quegli anni, RosaLuxemburg (amata anche per la suafine tragicamente coraggiosa), soprat-tutto una volontà di studiare.

Anche i gesti simbolici ebbero laloro importanza, naturalmente, ma sitrattò a lungo di azioni nonviolente,secondo i metodi, benché non neces-sariamente per i princìpi, della non-violenza, resi famosi dalle lotte controla guerra del Vietnam dagli studentidei campus americani. Fra i gesti sim-bolici, il primo e principale fu l’occu-pazione di Palazzo Campana, una sedeuniversitaria intitolata, non a caso, aun ormai dimenticato eroe dellaResistenza. Era un simbolo di conti-nuità nella voglia di lotta, ma quellastagione, felicemente contagiosa oltrela linea del Po, e comunque, con tutti isuoi limiti e i suoi errori, produttiva diimportanti risultati culturali e sociali,ebbe il suo cul-de-sac, con uno spap-polarsi del movimento, e il progressi-vo manifestarsi di rivoli violenti, dirumorose tentazioni di una libertàribelle intesa come pura, spesso scon-siderata anomia, di rigurgiti di sempli-ce odio verso quel che poteva sembra-re, per un verso o per l’altro, connessoal potere, al denaro, al dominio. “Larévolution attire les effusifs, les confu-sifs, les diffusifs”, è stato scritto;anche quel moto per molti aspetti rivo-luzionario attrasse come calamita la

limatura ferrosa di imperizia politica,di sprovvedutezza culturale, di impa-zienza pronta all’eversione, persino dipiccola delinquenza: tutti rivoli e rivo-letti che nel corso del tempo si trasfor-marono in una piccola fiumana. Nelmovimento, non dal movimento, nac-quero, in seno a tale fiume, i fanaticidella lotta armata.

Torino fu dunque non solo coinvol-ta, ma fu, assai più duramente dellealtre grandi città, colpita dal terrori-smo. La prima vittima fu, sotto laMole, un “questurino”, un giovanebrigadiere, Giuseppe Ciotta, uccisosotto casa, all’alba: una modalità ope-rativa che divenne presto tipica deibrigatisti dal passamontagna. Fu subi-to emergenza, come dimostrò la sedu-ta congiunta dei consigli degli organiistituzionali locali: Regione,Provincia, Comune. Era metà marzo:la città entrò davvero nel tunnel dellapaura, con un susseguirsi impressio-nante di episodi di violenza, che sce-glieva le sue vittime (gli “obiettivi”)secondo schemi di lucida irragionevo-lezza. Poliziotti, carabinieri, magistra-ti, giornalisti, avvocati, dirigenti d’im-presa, e gli stessi lavoratori...Minacce, intimidazioni, ferimenti,rapimenti, assassinii. Nulla fu rispar-miato.

Così cadde anche Fulvio Croce, ilquale rappresentando un’intera cate-goria, quella forense, appunto, erafinito nel mirino dei terroristi: perchémai? Nella risposta si palesa la logicafolle di quelle menti, le quali, in ungrottesco risiko, toglievano dallapedana del gioco ad una ad una le loropedine: gli avvocati furono “condan-nati” in quanto “servi del sistema”,naturalmente; ma più specificamenteperché la linea degli imputati – ossia ibrigatisti arrestati e portati a processo– fu quella, inusuale, di rifiutare idifensori d’ufficio cui avevano diritto,proclamando il diritto all’autodifesa.Ma tale pratica – ossia il rifiuto delladifesa d’ufficio e l’autodifesa – venneconcepito come una forma di lottaestrema, che dall’intimidazione passòimmediatamente alle vie di fatto. Erail 28 aprile: il presidente dell’ordineforense di Torino, l’avvocato Croce,fu “giustiziato” senza pietà: la suacolpa era di rappresentare una profes-sione che, al di là di come i singoli la

potessero esercitare, aveva la suaragion d’essere proprio nella tuteladelle garanzie di tutti, brigatisti com-presi, e che dunque, proprio per questaragione, era vista come un gangliodello Stato, inteso nel senso lato.Quello Stato contro il quale i nuoviincappucciati dichiaravano di essereinsorti: “portare l’attacco al cuoredello Stato!”, si chiudevano inesora-bilmente, stucchevolmente, i lorovolantini di propaganda.

Torino, e l’Italia tutta, ma special-mente i grandi centri del Nord, si tro-varono d’improvviso a vivere unasituazione affatto nuova, qualcosa chesomigliava a una guerra civile stri-sciante. Si aprivano i giornali, al mat-tino, chiedendosi a chi fosse toccato:ossia, l’identità della vittima della seraprima.

E tanti cittadini, rappresentantidelle più diverse categorie e dei piùvari ceti sociali, che per una ragione oper l’altra potevano essere finiti nellalista nera del Terrore, vivevano nel-l’angoscia. La paura contagiò lacomunità, minandone profondamentela fiducia: primum vivere!, si mormo-rava o si pensava. Questo senso diinsicurezza e di timore per se stessi, lapropria famiglia, le proprie cose, fecesì che le giurie popolari che avrebberodovuto giudicare gli imputati per cri-mini legati alle azioni dei brigatisti,fossero decimate da certificati mediciattestanti improvvisi malesseri deigiurati. Nessuno voleva rischiare: era,davvero, la débâcle dello Stato, losfaldamento del senso vivo di apparte-nenza a una comunità, che preannun-ciava la disintegrazione della stessa.La politica della repressione, e un ina-sprimento della legislazione, in sensoantigarantista, mise, d’altro canto, esull’opposto versante, a repentaglio lastessa dinamica democratica. Anchequesto si deve al terrorismo; così comeun altro terrorismo, quello internazio-nale contemporaneo, ha procurato unaserie di gravi lacerazioni nello stessotessuto delle garanzie fondamentalidei cittadini. Occasioni, in qualchecaso pretesti, che “giustificavano”,allora come oggi, la perdita secca dispazi di democrazia nelle nostresocietà. Sicché, invece di realizzarel’eguaglianza, si produceva l’illibertà:anche dando per vere le parole dei bri-

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gatisti e prendendo per autentici i lorosentimenti di giustizia, gli esiti cheraggiunsero furono diametralmenteopposti, contribuendo, non sempreconsapevolmente – ma sovente sì: siveda il caso Moro – a che la società ela politica nazionale rimanessero bloc-cate, o addirittura facessero passi aritroso, perdendo buona parte deirisultati di una lunga stagione di lotteche aveva funzionato da elemento pro-pulsore nella vita del nostro Paese. Nelnovembre, meno di sette mesi dopol’assassinio dell’avvocato Croce, l’as-sassinio del vicedirettore de LaStampa – Carlo Casalegno –, un pas-sato da resistente e da “azionista”, undifensore dello Stato di diritto, bollatocome “servo dello Stato” – segnò ilpunto di non ritorno nell’imbarbari-mento della vita politica italiana, dicui Torino, in una mesta parodia dellesue glorie di città-laboratorio, si impo-se definitivamente come centro “d’a-vanguardia”. Altre morti che vennerodefinite poi, con dubbio gusto, a parti-re da un film di Elio Petri (interprete ilgrande, e rimpianto, Gian MariaVolontè, uno dei volti del cinema poli-tico di quella stagione straordinariaanche su questo piano), “eccellenti”,seguirono, prima e dopo quella diAldo Moro: una vittima per tutte,Vittorio Bachelet, vicepresidente delCsm, ucciso a Roma il 12 febbraio1980.

A Torino, il rapimento del capo delpersonale Fiat Auto, Ettore Amerio,

l’uccisione dell’ingegnere CarloGhiglieno e del capofficina PietroCoggiola, mostrarono in modo crudo,evidente, che quello che accadevaall’ombra della Mole aveva pur a chefare con la lotta di classe, sia pure informe estreme, esasperate, teratologi-che. Non si può dimenticare che nel-l’azione del brigatismo ebbe un ruolopropulsore anche la crisi energeticadei primi anni Settanta, con le sue con-seguenze non solo economiche masociali. Nelle officine il malcontentocresceva, e di pari passo andava lacrisi della rappresentanza operaia. Sideterminò una spirale fatta di sfiducianelle organizzazioni tradizionali –partito e sindacato – ma altresì divoglia di ribellione, di insofferenza, didisperate decisioni di tagliare con laspada i nodi. Tutto ciò si incrociavacon i licenziamenti padronali, con ilrifiuto delle mediazioni, con l’inaspri-mento di sanzioni e di azioni repressi-ve. In tempi di ritrovata, e, ben inteso,difficoltosa “concertazione”, quell’e-poca appare un incubo, che, tuttavia,basta poco a far ritornare presente,come episodi degli ultimi anni e mesi,hanno dimostrato, con morti, agguati,processi e sentenze che vorrebberoessere “esemplari”, ossia aspramente,forse esageratamente “punitive”,mentre altre sentenze mostrano le falledello Stato. Quello Stato che i brigati-sti volevano distruggere, ma che, con isuoi limiti e, ahimè, i suoi eccessi, è ilprincipale strumento di tutela del bene

comune, a cominciare dalla civile con-vivenza.

Allora come oggi, a ben vedere, ilterrorismo “di sinistra”, finisce persortire essenzialmente l’effetto para-dossale di danneggiare coloro chedovrebbero esserne i “beneficiari”, iproletari; e, d’altro canto, rischia, adogni sua sortita, di rendere più greve ilclima istituzionale, procurando limita-zioni dei diritti di libertà dei cittadini.Eppure, rimane vero, che la rispostadegli “operatori” (dai magistrati aipolitici, dagli avvocati ai giornali-sti...), difficilmente va oltre lo sdegnoe la condanna: per affrontare un avver-sario, occorre interrogarsi sulle suemotivazioni, e tentare di smontarle,nella pratica sociale, nelle azioni isti-tuzionali, nei processi educativi, e, piùin generale, nella azione culturale.Interrogandosi al riguardo sul compitodegli intellettuali, non si può non sot-tolineare che a loro tocca sempre eancora il ruolo di suscitatori di dubbiocritico, ossia di coloro che non posso-no accontentarsi di viaggiare nelmainstream, e debbono invece lavora-re indefessamente, coraggiosamente,quali che siano i ruoli da loro ricoper-ti, per smascherare le false verità e for-nire elementi, dati, ragionamenti utilia un’autentica comprensione del pre-sente, sempre (sia consentito dire)sotto la luce della Storia, senza laquale nessuna conoscenza è possibile.

Angelo D’Orsi

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Angelo d’Orsi, allievo di Norberto Bobbio, è professore di Storia del pensiero politico nella Facoltà di ScienzePolitiche dell’Università di Torino, dove è presidente del Corso di Laurea in Scienze Politiche.

Ha fondato HISTORIA MAGISTRA, Associazione per il Diritto alla Storia, che presiede, e FESTIVALSTORIA (di cui è diret-tore, e che nel 2007 giunge alla sua terza Edizione). È inoltre presidente del Comitato Scientifico della FondazioneSalvatorelli (Marsciano, PG), membro della Commissione per l’Edizione Nazionale delle Opere di Antonio Gramsci, e diquella per l’Edizione Nazionale delle Opere di Antonio Labriola, appena avviata. Dirige i «Quaderni di Storiadell’Università di Torino» e la collana “Piccole Storie” per l’editore Nino Aragno (Torino). Collabora, oltre che a rivistescientifiche, al quotidiano La Stampa e ad altre testate giornalistiche.

È stato “professore invitato” in varie sedi universitarie parigine: Paris I Sorbona, Ecole Pratique des Hautes Etudes,Ecole Normale Supérieure, ecc.

Si occupa di storia delle idee, con particolare interesse per le idee politiche, di storia della cultura e degli intellettuali.La sua bigliografia è vastissima e i suoi titoli innumerevoli.Nell’ottobre scorso è stato gradito ospite della Fondazione Croce, nella sede di Palazzo Capris, ove ha presentato in

anteprima l’edizione 2006 del FestivalStoria con titolo “il Processo nei secoli”. In considerazione di quell’incontro e quel-la conoscenza si è reso quindi disponibile a redigere l’articolo soprastante quale introduzione alla monografia in memo-ria del compianto avv. Fulvio Croce, del che gli siamo veramente grati.

Manuela StinchiConsigliere della Fondazione Croce

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1. IntroduzionePer ricordare Fulvio Croce sottraen-

dosi a ogni retorica agiografica, èopportuno delineare, sia pur brevemen-te, l’atmosfera politico-sociale in cuimaturò il tragico evento.

Per gran parte degli avvocati iscrittiall’Albo torinese parlare oggi delle“Brigate Rosse” (da qui in avanti defi-nite con l’acronimo Br) può sembrareun’esercitazione passatista. La recenteondata di arresti di militanti dell’orga-nizzazione che si definisce “PartitoComunista Politico-Militare” dimo-stra che le cose non stanno propria-mente così. Questo gruppo costituisceuna filiazione diretta delle Br. Nel1984, quando esse dovettero ricono-scere la sconfitta politica e l’impossi-bilità dell’insurrezione armata, si veri-ficò una scissione nei quadri militanti.Da un canto si formò una frazione,attestata su posizioni definite “movi-mentiste”, di cui sono eredi i militantirecentemente arrestati; da un altrocanto si formò un’ala “militarista”, lecosiddette “nuove Br – PartitoComunista Combattente”, che si è resaresponsabile, dal 1999 in avanti, degliomicidi di Massimo D’Antona e diMarco Biagi e, il 2 marzo 2003, del-l’uccisione di Emanuele Petri, sovrin-tendente della Polizia Ferroviaria, inuno scontro a fuoco sul treno Roma-Firenze.

Questi avvenimenti di cronaca siintrecciano con una fitta pubblicisticaapparsa in occasione del trentesimoanniversario del “Settantasette”, chesegna l’inizio della stagione storicacaratterizzata dal dilagare in Italia dellalotta armata.

Nell’ambito della pubblicistica trovaun posto di rilievo il memoriale auto-biografico di Lucia Annunziata, che nelsuo “1977. L’ultima foto di famiglia”

(Einaudi, 2007) restituisce atmosfere eprotagonisti di quel periodo, spesso glistessi protagonisti dell’Italia di oggifotografati nella loro giovinezza, schiz-zando il ritratto della sinistra comuni-sta, vuoi istituzionale vuoi radicale, e ildialogo impossibile tra chi intendevaconquistare le istituzioni e chi, al con-trario, intendeva abbatterle. Affioranelle pagine di Annunziata “la psicosidifensiva dei dirigenti di scuola comu-nista che nei contestatori e nei violentinon vedono mai dei figli ribelli, ma uncomplotto delle forze della reazione”(Massimo Gramellini, Una sessantotti-na tra vecchi ed eterni bambini, LaStampa, 16 gennaio 2007).

2. La violenza come cifra tragicadel 1977

Il 1977 non rappresentò, come dice iltitolo di un libro scritto, tra gli altri, daLuigi Manconi “uno strano movimentodi strani studenti” (Lerner, Manconi,Sinibaldi, Uno strano movimento distrani studenti: composizione, politicae cultura dei non garantiti, Feltrinelli,Milano, 1978), né costituì la fioritura,come suggerirebbe la denominazionedi “indiani metropolitani”, usata taloraper caratterizzare i contestatori di queigiorni, di una ludica pulsione alla crea-tività, bensì espresse qualcosa di ben

più emblematicamente, e poi fattual-mente, tragico.

Il 1977 fu tragico anzitutto nelle pre-messe culturali, quali sono oggi rico-struibili con rattristata memoria tramiteun indicatore: il 1977 è l’«anno boom»delle morti per eroina in Italia (trenta-quattro; raddoppieranno l’anno succes-sivo, triplicheranno nel 1979 e nel 1980saranno oltre 200). Gli apprendisti stre-goni dell’insurrezionalismo cercaronodi incanalare questa tragedia in unabolsa interpretazione ideologica. ToniNegri, per esempio, affermò su ReNudo che un “eroinizzato [...] lo con-vinci solo se interpreti l’intensità delsuo odio e dai alla ricchezza del suodesiderio una speranza di espansionecollettiva”.

Il 1977 fu tragico anche e soprattuttonelle conseguenze che i giovani piùcoerenti vollero trarre dalle premesseculturali. Se è vero che il movimentodel “Settantasette”, come in parte quel-lo del “Sessantotto”, nasceva da undisagio profondo del mondo giovanile(così, tra gli altri, Fasanella ePellegrino, La guerra civile, Rizzoli,2005, p. 82), è anche vero che la cifraesatta del 1977 va identificata nel lin-guaggio della violenza. Qualche datorelativo a questa triste contabilità: nel1977 furono compiuti 2128 attentati, 11persone furono assassinate e 32 personefurono “gambizzate” dai militanti deigruppi armati di P38.

Umberto Eco, che pure aveva difeso,e talora cavalcato, le pulsioni del movi-mento, riflettendo da semiologo sullatristemente celebre istantanea del gio-vane in passamontagna, che, piegato, agambe divaricate e a braccia tese, puntala pistola ad altezza d’uomo, non poténascondere il suo sgomento interpreta-tivo, rilevando, su l’Espresso del 29maggio 1977, che: “Quella foto non

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IL SACRIFICIO DI FULVIO CROCENEL CONTESTO STORICO DELL’ANNO (1977) ORRIBILE

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assomiglia a nessuna delle immagini incui si era emblematizzata l’idea di rivo-luzione. Mancava l’elemento colletti-vo, vi tornava in modo traumatico lafigura dell’eroe individuale [...] Questaimmagine evocava altri mondi, altretradizioni narrative e figurative”.

La violenza del 1977 e i conati insur-rezionalisti che la caratterizzarono tras-sero alimento da una serie di congiuntu-re che per brevità possono compendiar-si in tre fattori: (a) La sinistra costitu-zionale, rappresentata dal PartitoComunista Italiano, aveva ottenuto,alle elezioni politiche del 20 giugno1976, il suo massimo storico, incana-lando il 34,5% dei voti, mentre il cartel-lo elettorale della sinistra extraparla-mentare, radunato sotto le insegne diDemocrazia proletaria (in cui eranoconfluiti il Partito di Unità Proletaria eAvanguardia operaia) non aveva supe-rato la modesta percentuale dell’1,5%.Ciò aveva accelerato, tra l’altro, la finedi Lotta Continua, che, dopo sette annid’intensa attività, aveva deciso la chiu-sura della propria esperienza alCongresso di Rimini del novembre1976; (b) Il progetto terroristico di“lotta armata al cuore dello Stato”, con-dotto dalle Br, che fin dal 1970 avevateorizzato la valenza strategica dellaviolenza armata, si era dimostrato ingrado di espandersi, perché aveva attec-chito, in misura non irrilevante, nell’a-rea più estrema del movimento studen-tesco e del mondo delle fabbriche; (c) Ilplesso di contestazioni violente iniziatenel 1977 venne dilatato all’interno diun’area, l’Autonomia, in cui confluiro-no vari movimenti della sinistra extra-parlamentare e rivoluzionaria, PotereOperaio e Lotta Continua fra tutti,scioltisi dopo il fallimento delle orga-nizzazioni nate dalle esperienze delMovimento Studentesco.

3. I “movimentisti” e i “militari-sti”: Autonomia e Br nel 1977

In forza di questi fattori venne acostituirsi una galassia di gruppi emovimenti disponibili alla lotta armata,che, rivendicando le esperienze dellelotte studentesche e operaie dei primiAnni ’70, era attraversata, non senzacontraddizioni, da un duplice riferi-mento ideologico, per un verso di ispi-razione marxista-leninista e, per unaltro, anarco-libertaria. Tra i leader ditale movimento vanno ricordati, tra glialtri, Franco Piperno, Oreste Scalzone,Toni Negri, Daniele Pifano, FrancoBerardi.

La cronaca dell’anno 1977 è un

lugubre bollettino di scontri, un matti-nale di polizia che registra il progres-sivo avvelenarsi degli animi, la faci-lità con cui cominciano a circolareordigni esplosivi e armi, “il rapidodissolversi delle ultime illusioni rivo-luzionarie dentro l’acido muriaticodel rancore e degli odi” (Annunziata,op. cit., p. 53).

Simbolicamente, la parola passa allearmi con gli episodi del 17 febbraio1977, quando si compie un parricidioall’interno della sinistra italiana. Il Pci,dopo l’elaborazione teorica dell’euro-comunismo, pur ancora in mezzo alguado tra “strappo” e “dipendenza”(economica soprattutto) dall’UnioneSovietica, intendeva mettere a frutto lastrategia del “compromesso storico”.Decise perciò d’intervenire, conimprovvida autorità, nello scontro poli-tico aperto dall’occupazionedell’Università di Roma da partedell’Autonomia. Nel cortile de “LaSapienza” il segretario generale del sin-dacato Cgil, Luciano Lama, tenne uncomizio finalizzato alla cessazione deimoti interni. La dialettica fra il serviziod’ordine comunista e i militantidell’Autonomia degenerò in scontrofisico, sino alla cacciata di Lama, con leconseguenti violenze degli Autonomicontro le forze dell’ordine. Ciò radica-lizzò la loro lotta e contribuì a far pre-valere, all’interno dell’Autonomia, lacorrente favorevole ad “alzare il livellodello scontro”, ossia a passare alla lottaarmata.

La città di Torino fu nel 1977 uno deipiù importanti epicentri degli episodi disangue. Nella stessa giornata del 17febbraio Torino fu la quinta di fattidelittuosi ancor più gravi: alla sera èferito alle gambe dalle Br il direttore delpersonale Fiat di Rivalta MarioScoffone; nella notte esplode unabomba davanti a Mirafiori e successi-vamente le “Squadre Operaie Armate”feriscono alle gambe il caporeparto diuna sezione Fiat di Mirafiori, BrunoDiotti. Un bollettino, stilato dalConsiglio Regionale del Piemonte(“Elenco dei principali atti di terrori-smo, aggressione e violenza politica,avvenuti a Torino e in Piemonte”,1978), fornisce una serie impressionan-te di delitti a sfondo eversivo concadenza pressoché quotidiana nelbimestre marzo/aprile 1977: dai 20 feri-ti negli scontri a Palazzo Nuovo del 2marzo, all’assalto con bombe molotov,lo stesso giorno, delle sedi diComunione e Liberazione edell’Unione Monarchica; dalla sparato-

ria degli autonomi al Liceo Avogadrodel 4 marzo alle bottiglie incendiariecontro la sezione Dc di Via Volpianodell’11 marzo; dalla bomba contro unCommissariato di polizia del 2 aprilealle molotov dentro la Chiesa di SantaGiulia durante una funzione religiosa il5 aprile; dall’attentato contro il Palazzodella Regione in Via Palazzo di Cittàdel 17 aprile agli otto colpi di pistolasparati dalle Br contro il Cancellierecapo della Procura Generale, DanteNotaristefano, il 20 aprile; e così via,giorno dopo giorno.

Alla violenza diffusa di piazzadell’Autonomia, che scandisce quoti-dianamente le maggiori città italiane, siaccompagna l’intensificarsi della lottaarmata organizzata, al cui centro sta lastrategia della “lotta per la conquistadel potere”. Come ricorda il leader bri-gatista Mario Moretti in un’intervistapoco nota a Claudio Del Bello, il temadella conquista del potere non è unargomento: ma è “[...] l’argomento”. Idue “discorsi delle armi” – quellodell’Autonomia e quello delle organiz-zazioni armate tra cui, soprattutto, le Br– proseguiranno nel corso del 1977 un“dialogo a distanza”, fino a quando il“movimento del Settantasette” nongiungerà al suo epilogo, con conse-guenze ancor più drammatiche di quel-le accumulate durante l’infausto anno.Come ammette lo stesso Moretti, “amolti di quel movimento la scelta delleBR parve l’unica possibile dopo lebatoste prese”.

Il bilancio di tali conseguenze, lettoa posteriori, assomiglia a un bollettinodi guerra: 128 persone uccise dalleorganizzazioni armate di sinistra, di cui74 a opera delle Br, 20 di Prima Linea,sigla di frange uscite prevalentementeda Lotta Continua, e 34 per mano diulteriori diciannove sigle; i terroristideceduti sono stati 68; 4.087 gli inqui-siti (con un’area di contiguità che èstata valutata in alcune migliaia di mili-tanti e un rapporto decuplicato di sim-patizzanti); solo fra il 1976 e il 1982 gliepisodi di violenza politica da partedella sinistra extraparlamentare, orga-nizzata o meno, rivendicati o ascrivibi-li, sono stati 4.649.

4. Gli episodi che segnano l’alzarsidel livello dello scontro tra Br esocietà civile

Sabato 12 marzo, a Torino, in ViaGorizia 70, nel quartiere popolare diSanta Rita, alle 7.55, il brigadiere dellaDigos Giuseppe Ciotta, 29 anni, sposa-to, con una figlia di due anni, è freddato

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con nove colpi di pistola mentre sale inauto per recarsi al lavoro e sta salutandola moglie affacciata alla finestra. Ciottaè la prima vittima del terrorismo aTorino e la seconda in Piemonte, dopol’omicidio di Francesco Cusano, vice-questore di Biella, ucciso il 1° settem-bre 1976.

L’intreccio che, nel 1977, associa idue livelli di violenza, rispettivamentedell’Autonomia e del terrorismo arma-to, è rivelato dai fatti del 22 aprile, eTorino ne è la capitale. Poco dopo le8.30 cinque bombe molotov vengonolanciate contro il Provveditorato di ViaCoazze. Quasi contemporaneamentealtri ordigni vengono fatti esplodere inun bar di Via Po e presso un ufficiodella Curia, in Via Arcivescovado. Allasera, poco dopo le 22, tre bottiglieincendiarie devastano gli uffici del quo-tidiano La Stampa in Via Marenco,ferendo un impiegato, e un’ora dopoaltre due bombe di Prima Linea interes-sano il Commissariato di polizia“Barriera di Milano”. Infine, le stesseBr imprimono il loro marchio a questa“giornata di ordinaria follia”, ferendoalle gambe con tre colpi di pistolaAntonio Munari, capo officina dellaFiat.

Tra gli innumerevoli episodi di vio-lenza del 1977 vanno ricordati ancora ilferimento di Maurizio Puddu, 45 anni,impiegato in Comune, ceto medio –vive al settimo piano in un appartamen-to torinese di Corso Unione Sovietica,in zona Mirafiori –, un’intera carrierad’impegno nelle fila della DemocraziaCristiana (ex vicesegretario regionale,ex assessore provinciale, vice capo-gruppo in Provincia). Nulla può salvar-lo dalla vendetta di classe, e così il 13luglio 1977 tre brigatisti rossi (NadiaPonti, Dante Di Blasi, LorenzoBetassa) gli scaricano sui glutei e sullegambe sedici colpi di pistola: settevanno a bersaglio, e da allora Puddu èinvalido civile.

Né può dimenticarsi l’omicidio diCarlo Casalegno. Nel mese di novem-bre, come tragico sigillo dell’annushorribilis, l’intellettuale torinese vice-direttore de La Stampa viene uccisodalle Br. Si trattò dell’atto finale di unacampagna contro il libero giornalismo,secondo il programma definito daldocumento interno delle Br sul tema:“Colpire la stampa di regime strumentodella guerra psicologica”. Nella realiz-zazione di questo programma il 1° giu-gno 1977, a Genova, era stato ferito allegambe il vicedirettore del Secolo XIX,Vittorio Bruno. Il giorno successivo fu

la volta di Milano: alle 10.10 un nucleobrigatista “gambizza” il direttore delGiornale Nuovo, Indro Montanelli.L’indomani toccò a Emilio Rossi, diret-tore politico del Tg1, colpito a Romacon dodici colpi alle gambe davanti allasede della Rai. La parabola dell’anno siconclude proprio a Torino, con l’atten-tato a Carlo Casalegno, gravementeferito con quattro colpi di pistola il 16novembre 1977. Casalegno moriràdopo tredici giorni di agonia, il 29novembre 1977.

5. Il processo alle BrQuesto è il clima in cui venne cele-

brato innanzi alla Corte di Assise diTorino il processo ai “capi storici” delleBr: 53 imputati, di cui 20 detenuti, fracui alcuni dei fondatori carismatici:Alfredo Buonavita, AlbertoFranceschini, Prospero Gallinari,Renato Curcio, Roberto Ognibene,Maurizio Ferrari, imputati di costitu-zione di banda armata, sequestro di per-sona, lesioni personali, furto e altridelitti. Si tratta del primo grande pro-cesso alle Br, anche se in esso non vifigura ancora il delitto di omicidio. Ilprocesso sarà variamente definito: “Peri brigatisti, il processo impossibile; pergli avvocati, il processo che non cono-sce precedenti; per i giornalisti, il pro-cesso contro la paura; per molti, il pro-cesso politico più importante celebratoin Italia; per qualcuno, il primo proces-so speciale” (“Cinque definizioni perun processo”, Gazzetta del Popolo, 24giugno 1978).

Il dibattimento, aperto nel 1976,deve riprendere il 3 maggio 1977, dopomolti mesi di rinvii. Il 9 giugno 1976,data della settima udienza, il clima erastato sconvolto per l’omicidio aGenova, a opera delle Br, delProcuratore Generale Francesco Coco.

Il Presidente della Corte di AssiseGuido Barbaro, di fronte alla difficoltàdi designare avvocati di ufficio cheassumano il mandato, affida a FulvioCroce, Presidente dell’Ordine torine-se, l’incarico di difensore d’ufficio aisensi dell’art. 130, 2° co. del codice dirito. Croce accetta. È consapevole dicorrere il pericolo di essere ucciso. Il24 aprile egli confida agli amici piùintimi: “Questa volta mi ammazzano.Sono sempre pedinato”. Ed è vero.Giovedì 28 aprile 1977, giornata pio-vosa, alle 15 sta per accedere al suoufficio. Rocco Micaletto, che saràcomponente dell’esecutivo delle Brall’epoca del sequestro Moro, lo avvi-cina e gli scarica addosso cinque colpi

della sua Nagant 7.62 silenziata:“Ritornava al suo studio legale, unpomeriggio, come tutti i giorni, masti-cando il solito mezzo toscano, tenendole mani dietro la schiena” (Emilio R.Papa, Il processo alle Brigate Rosse,Torino 1979, p. 84).

La città è sconvolta. I giudici popo-lari, convocati per il 3 maggio, dichiarano in maggioranza la loro indi-sponibilità motivata da sindromidepressive che nascondono la paura.L’avvocatura torinese, dopo un attimodi incertezza, contrassegnato da unlucido e animato dibattito interno, rea-gisce con coraggio e determinazione.Dalle sue fila escono alcuni tra i rappre-sentanti più prestigiosi, cui si associanosubito molti valorosi colleghi, cheaccettano il mandato di ufficio conferi-to dal Presidente Barbaro. Gli Avvocatiche parteciparono in qualità di difenso-ri di ufficio in questa fase decisiva delprocesso furono: Aldo Albanese,Giovanni Avonto, Luigi Balestra,Gianfranco Bonati, Vittorio Chiusano,Geo Dal Fiume, Valerio Durante,Antonio Foti, Gian Vittorio Gabri,Fulvio Gianaria, Francesco Gilardoni,Bianca Guidetti Serra, Maria MagnaniNoya, Graziano Masselli, CarloUmberto Minni, Alberto Mittone,Vittorio Negro, Emilio Papa, ElenaSperanza, Gian Paolo Zancan.

Formatasi anche la giuria – meritaricordare che il trend quasi inarrestabi-le di astensioni venne interrotto dallacoraggiosa accettazione dell’ufficio digiurato da parte della leader radicaleAdelaide Aglietta, poi prematuramen-te scomparsa – il processo può così ini-ziare all’udienza del 9 marzo 1978. Sisarebbe protratto, tra innumerevolidifficoltà, per alcuni mesi, fino allasentenza, pronunciata, nel più rigorosorispetto dei diritti di difesa e di interlo-cuzione, anche politica, degli imputa-ti, il 21 giugno 1978. Il corso del pro-cesso fu scandito dal verificarsi diefferati episodi di sangue. Tra essi i piùdrammatici furono l’eccidio degliuomini di scorta dell’on. Aldo Moro, ilsuo lungo sequestro e infine il suo cru-dele omicidio.

In certi momenti la struttura dellacomunità politica italiana parve vacilla-re. La tentazione della resa e dellosconforto pervase molti ambienti politi-ci e sociali. Né mancarono coloro cheaccusarono lo Stato, nonostante l’ag-gressione di cui l’intera società civileera vittima, di condurre una repressioneingiusta e brutale contro l’opposizionepolitica. Il 5 luglio 1977 il quotidiano

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Lotta continua pubblicò un appello, lecui sottoscrizioni vennero raccolte aParigi da Gad Lerner, firmato, tra glialtri, da Jean-Paul Sartre, RolandBarthes, Gilles Deleuze, MichelFoucault, Félix Guattari, MariaAntonietta Macciocchi, nel quale sidenuncia: “Vogliamo attirare l’atten-zione sui gravi avvenimenti che si svol-gono attualmente in Italia e più partico-larmente sulla repressione che si staabbattendo sui militanti operai e sui dis-sidenti intellettuali in lotta contro ilcompromesso storico”. Tale appellocostituì il fondamento del successivoorientamento del Governo francese,conservato fin quasi a oggi, di offrireasilo politico a tutti i componenti deigruppi terroristici, anche a quelli con-dannati con sentenza definitiva perdelitti di sangue.

Degno di nota fu il dibattito apertosiall’interno dell’avvocatura torinese sulsignificato della difesa tecnica nelloStato di diritto. Le semplificazioniaffrettate, che vorrebbero distingueresuperficialmente tra gli avvocati“coraggiosi” (quelli che accettarono ilmandato) e quelli “timorosi” (che lorifiutarono) debbono essere accurata-mente evitate.

Se non v’è dubbio che l’eserciziodella giurisdizione, soprattutto penale,realizza la tutela della società secondoil principio fondamentale del contrad-dittorio, tra parti uguali davanti al giu-dice terzo e imparziale, rispettando intal modo la dignità inconcutibile dellapersona umana, è anche vero che nellastoria non sono rari i momenti in cui lagiurisdizione è costretta ad abbandona-re il campo, lasciando spazio alla guer-ra. Quando ciò sventuratamente acca-da, coloro che intendono distruggerel’ordine costituito, per sostituirlo conun altro, non possono non avvertire lacelebrazione del processo nei loro con-fronti come una ipocrita sopraffazione.In queste situazioni l’avvocato d’uffi-cio rischia obiettivamente di tramutarsiin difensore del potere costituito, nelruolo esclusivo di chi garantisce allasocietà la possibilità materiale di cele-brare il processo. Né va dimenticatoche l’attenzione per i problemi dellaπóλíς, cioè la propensione politica, èpropria anche di ciascun avvocato, chenon può facilmente rinunciare a unaparte di se stesso per identificarsi esclu-sivamente nella sua professionalità tec-nica.

Non v’è da stupirsi, pertanto, chenon pochi avvocati rifiutarono il man-dato di ufficio non per paura, bensì per

ragioni meritevoli di attenta conside-razione. Taluni ritennero, infatti, chedi fronte al rifiuto violento del proces-so e della difesa tecnica, occorresseprendere atto di ciò e provvedere a unariforma legislativa, che contemplassela possibilità di celebrazione del pro-cesso anche al di fuori delle forme digaranzia previste dal codice di rito.Tal’altri rifiutarono il mandato difen-sivo ritenendo in ogni caso prevalenteil profilo di incompatibilità che nasce-va dal rifiuto degli imputati di esseredifesi e dall’aberrazione delle tesipolitiche poste dai brigatisti a sostegnodi questo rifiuto.

La posizione degli avvocati cheaccettarono il mandato fu, invece,diversa. Sia pure oggetto di forte dibat-tito all’interno del collegio difensivo, laposizione ufficialmente espressa fuispirata fondamentalmente a due prin-cipi: per un verso, quello della primaziadell’autodifesa rispetto alla difesa tec-nica, con la prevalenza delle ragionidella prima sulla seconda; per un altroverso, quello dell’identificazione delruolo del difensore come mero garantedella legalità processuale, di soggettoche controlla sul piano rigorosamentetecnico che il giudice rispetti le regoleche lo Stato di diritto si è date, senzaprevaricare mai alle regole per il conse-guimento di fini di prevenzione genera-le ovvero di annichilimento politicodegli imputati, impropriamente visticome nemici politici.

La scelta del Collegio difensivo fuconsegnata in vari documenti, sia rela-tivi all’eccezione di incostituzionalitàdelle norme che non consentivano l’e-splicazione dell’autodifesa come unicaforma di difesa, ove la difesa tecnicaera ravvisata come un limite al dirittoreale di difesa tutelato dall’art. 24 dellaCostituzione, sia relativi alle conclusio-ni finali, in cui non vennero affrontatiproblemi di merito, ma si preferì un rin-vio alle dichiarazioni espresse nel pro-cesso dagli imputati.

6. ConclusioneIl sacrificio di Fulvio Croce non fu

inutile. Anzitutto perché egli dette unesempio luminoso di giustizia e di for-tezza. La prima virtù lo indirizzò acompiere senza tentennamenti ciò checostituiva l’oggetto del suo dovereistituzionale. Non pretendendo di inse-gnare agli altri ciò che spettava a lui –e a lui soltanto – di fare, egli compì ilsuo dovere senza ergersi su alcun pie-distallo e senza impugnare alcun alto-parlante, offrendo così testimonianza

preclara, oltre che di giustizia, anchedi umiltà. La fortezza gli consentì diandare incontro alla sua sorte senzafarsi travolgere dalla paura e senzafarsi prendere dalle illusioni, offrendocosì testimonianza, assai rara alloracome oggi, di realismo, di fedeltà alleistituzioni e al suo giuramento di avvo-cato. Anche se il suo sacrificio nonfosse utilitaristicamente servito anulla, esso avrebbe comunque accre-sciuto il patrimonio di bene e di giustoche l’umanità ha saputo costruire, nelsuo misterioso cammino lungo la sto-ria, pur tra miserevoli cadute e abomi-nevoli delitti.

Se è vero che il sangue dei martiri èseme dei cristiani, è anche vero che ilsangue degli uomini onesti è seme dicittadini rispettosi del diritto e dellagiustizia.

Ma anche sul piano della concretez-za storica il suo sacrificio fu pregno difrutti preziosi. Il tragico evento fecerisuonare negli animi degli avvocatitorinesi le note dell’onore, del dovere edel coraggio. Il loro valoroso rialzarsi,dopo il colpo inferto al Presidente chetutti li rappresentava, consentì l’avviodel processo nel rispetto della legalità,senza che alcuna ferita venisse recata altessuto dell’ordinamento giuridico.Forse non si è riflettuto abbastanza sulfatto che, se il processo non si fossepotuto celebrare nella legalità, soltantodue vie, entrambe foriere di lutti e gua-sti ulteriori, sarebbero ancora stateaperte: o il cedimento al piano strategi-co delle Br oppure la proclamazionedello stato di guerra.

La risposta coraggiosa dell’avvoca-tura torinese pose le basi per la sconfit-ta del progetto insurrezionale, cui con-corsero naturalmente molti altri fatto-ri, di rilievo politico e sociale, che nonè possibile in questa sede esaminare.Ma la preservazione della legalità, chefu garantita da una classe forensesostenuta dal fulgido esempio del suoPresidente, costituì la pietra miliare diun processo che evitò al nostro paesedi precipitare nel baratro della guerracivile.

Per questi motivi non è vano ancoroggi, a trent’anni di distanza, ricordarealla cittadinanza e alle giovani genera-zioni, soprattutto alle nuove schieredegli avvocati, il sacrificio di un uomoche, dopo aver condotto con rettitudinela sua vita, venne trovato pronto nelmomento in cui la campana per luisuonò.

Mauro Ronco

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Colgo l’occasione per comunicar-le che verrà ucciso”.

Questa è la frase di chiusura di unalettera di auguri pasquali inviatami nel1977 dal Questore di Torino. Questa erala reazione e la tutela delle istituzionialla prevedibilità dei primi accadimentiche in quel periodo si presentavanoquale effetto, ad esempio, del ritrova-mento di appunti, annotazioni, fotogra-fie nelle basi di organizzazioni terrori-stiche, che all’epoca stentatamente riu-scivamo a processare, dopo che, nel set-tembre 1974, alcuni dei capi delleBrigate Rosse erano stati catturati gra-zie a brillante e tradizionale operazionedi polizia, idonea quanto meno a bilan-ciare le tragicomiche inerzie che all’ini-zio ho ricordato.

Ma non è in occasione di questa, onon solo di questa situazione checominciai a far scorta di considerazioniche mi avrebbero poi reso inattaccabileda quel senso di tristezza che diconoassalire al momento in cui si viene rag-giunti dai limiti di età e mandati a casa.

Ho conquistato tale immunità convin-cendomi, giorno dopo giorno, che ilmestiere di tanti anni cominciava a nonpiacermi più come una volta.

I passi segnati verso questa conclu-sione amara sono stati lenti ma molti.

La maturità anagrafica dei 50 anni(26 dei quali già da magistrato) mi sipose quale ricevitore materiale di tantifalconi racchiusi in armadi metallici cheimpegnavano le pareti dell’ampio localeadibito a Cancelleria al piano terra dellaCuria Maxima, vecchio palazzo di epocaAlbertina le cui finestre erano sbarrateda cancellate in ferro che non prevede-vano quindi via d’uscita alternativa allaporta dell’angusto corridoio al cui presi-dio era addetto un appuntato dellaPubblica Sicurezza in borghese, onesto eprobo dipendente concesso a prestito,ma sulle cui garanzie operative era leci-to nutrire dubbi, posto che egli stessoaveva dichiarato che preferiva, per pro-pria cautela, rimanere disarmato.

Quei fascicoli contenevano gli attiraccolti nella istruttoria compiuta in

conseguenza dell’assegnazione aTorino dell’indagine riferita al seque-stro del sostituto procuratore di Genovadott. Mario Sossi, avvenuto nell’apriledel 1974.

Era il dicembre 1975 quando, presaesteriore visione del volume cartaceoche quegli armadi contenevano, dovettimanifestare in volto tale preoccupazio-ne (non per il contenuto ma per la diffi-coltà di apprendimento) da provocareuna reazione di conforto delCancelliere: “Presidente, non facciacosì, vedrà che ce la farà”.

Mi dedicai dunque, oltre che allosfoglio degli atti per raccogliere i primiappunti che mi avrebbero consentito lostudio del processo (il tanto vituperatoCodice Rocco lo prevedeva), a cercaregaranzia per la custodia adeguata deifascicoli stessi. Era infatti recente l’e-sperienza di quanto accaduto alTribunale di Milano, ove era statoappiccato il fuoco alla cancelleria della3a Corte d’Assise con la distruzione diimportanti fascicoli.

DAL MEMORIALE DI GUIDO BARBARO, INTITOLATO: “50 ANNI DI TOGA”

Ho conosciuto Maria Benedetta Barbaro per il tramite di un’amica comune qualche anno fa.In occasione del convegno in corso di predisposizione in memoria dell’avv. Fulvio Croce ho ritenuto dunque di contat-

tarla per chiederle un ricordo di suo padre che fu di quel processo il Magistrato eccellente che presiedette la Corte e cheunitamente agli altri protagonisti rese possibile la celebrazione del processo stesso.

È dunque con vera sorpresa ed emozione che ho saputo da Maria Benedetta dell’esistenza di una testimonianza direttadi suo padre di quei tempi e di quel processo, rinvenuta da lei e dalla madre tra le sue carte dopo la sua morte e mai in pre-cedenza divulgata.

Con sincera gratitudine, ringrazio dunque Maria Benedetta per avermi fatto l’onore di dare a me le note del suo papà,autorizzandomi a porle a disposizione di tutti i colleghi pubblicandole sulla nostra rivista.

Ritengo le parole del dott. Barbaro non emendabili in alcun modo e dunque le trascriviamo qui di seguito, come leabbiamo ricevute, nella parte più strettamente riguardante l’omicidio dell’avv. Fulvio Croce e il successivo processo alleBrigate Rosse.

Manuela Stinchi

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Segnalate le esigenze del caso allapresidenza della Corte d’Appello e nonavendo ricevuto riscontro alcuno,assunsi l’iniziativa di chiedere aiuto aidirigenti dell’Istituto Bancario SanPaolo, i quali misero a disposizione delmio ufficio – a titolo di beneficenza alloStato – una cassetta di sicurezza in cuivennero custodite le microfilmature ditutti gli atti che lo stesso Istituto provvi-de ad effettuare. Di questa iniziativa,che non mi appariva rischiosa assunzio-ne di responsabilità personale, nonritenni di farmi vanto presso “i superio-ri uffici”, dai quali tuttavia ebbi notizia,dopo il processo, che la cautela adottatanon aveva ragion d’essere, tanto dapotersi disdire la gratuita locazionedella cassetta di sicurezza, non essendosuccesso niente. Non ho mai saputodove le microfilmature (tecnica allorad’avanguardia) siano poi finite, datoche, per fortuna, non dovettero esseresfruttate.

La menzione di questo preliminareepisodio mi sembra doverosa sia perrendere postumo e pubblico atto alledisponibilità dimostrate dall’istitutobancario (che contestualmente non eraprudente fare per non divulgare la noti-zia), sia per ricordare che ebbi a ralle-grarmi del fatto che l’episodio interlo-cutorio si chiuse senza che mi venissefatto addebito del pagamento dei cano-ni, ma solo di un larvato rimprovero!

Gli ostacoli da superare ebbero daciò soltanto inizio, poiché macchinosofu l’iter di avvio del processo. Benchéall’esterno (stampa, salotti borghesi ecircoli benpensanti sempre alla fine-stra) si andasse proclamando che eral’ora di processare i brigatisti, mai nes-sun sollecito istituzionale mi pervenneperché il processo venisse fissato. Fumia cura decidere per la data del 17maggio 1976, compilando personal-mente le liste delle parti offese e deitesti da citare, che al provvedimento dirinvio a giudizio non erano allegate.Inutile fu la citazione di vari Ministeri,poiché in quella prima fasel’Avvocatura dello Stato non ebbedisposizione di intervenire.

Fummo noi soli, quindi, non sorret-ti da altri interventi processuali, adaffrontare l’imprevedibile reazioneche gli imputati ritennero di adottare,usando un mezzo processuale maiprima riscontrato e caratterizzato datale finezza giuridica che ancora ogginon riesco ad attribuire alle loro cono-scenze tecniche, se non suggerito daelementi esperti e capaci nel campodel diritto.

Mi riferisco alla dichiarazione direvoca dei difensori di fiducia e di inti-mazione ad altri avvocati che avesseroaccettato la difesa d’ufficio che sareb-bero stati uccisi. Le minacce di morte(il nostro processo non prevedeva reati

di omicidio) si rivelarono al di là disemplici affermazioni (quale la notiziafornita dall’avv. Gabri, durante un suotentativo di colloquio in carcere tantocoraggioso quanto processualmentevano, che si era creato un partitocomunista armato) quando l’8 giugno1976 venne ucciso a Genova ilProcuratore Generale Francesco Coco,che si era opposto a scarcerazioni con-cesse dalla Corte d’Assise di Appellodi quella città a componenti la bandaXXII Ottobre.

Quando, pur in esito a macchinoselungaggini, respinta l’adozione dell’au-todifesa invocata da un esperto gruppodi legali ma mai richiesta dagli imputa-ti, che disconoscevano la legittimitàdella giurisdizione sventolando lo slo-gan “la rivoluzione non passa attraver-so i Tribunali”, si riuscì a costituire e adimporre ai riottosi imputati un collegiodifensivo (peraltro individuato trapenalisti di indiscusso valore tecnicooltre che di provato civismo e corag-gio), io ritenni per tutto lo svolgimentodel processo, compreso il dibattimentosvoltosi dal 9 marzo al 23 giugno 1978per 51 udienze, di dar libero ingressoalle parole e agli interventi degli impu-tati, che direttamente poterono esercita-re i loro diritti processuali fino alla pro-posizione di domande ai testimoni. Equi bisognava non lasciarsi travolgereda quanto l’intervento diretto portava arealizzare: una sorta di botta e rispostaallorché le domande non risultavanopertinenti all’oggetto del giudizio, poi-ché spesso gli imputati inserivano argo-menti propagandistici per le loro tesipolitiche o vere e proprie aggressiveconsiderazioni sulla personalità dellesingole parti offese.

Adottando il sistema di far verbaliz-zare la domanda e di rispondere condecisione pure verbalizzata e sempremotivata sulla ammissibilità o meno diessa, ritenni di fornire agli imputati laprova che nessun pregiudizio prelimi-nare animava la Corte nei loro confron-ti e credo di avere ottenuto riconosci-mento di serenità mediante tale siste-ma, poiché grave per la conduzione delprocesso si sarebbe rivelato un compor-tamento di scontro quale fu quello pro-vocato dal Pubblico Ministero in udien-za, che alle invettive degli imputati

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(mai ve ne furono violente per la Corte)era solito lasciarsi andare a reazioni dieguale inammissibile carattere.

L’ulteriore percorso del processo sisviluppò in altalenanti e spesso dram-matiche vicende.

L’intervento dei difensori d’ufficio,e per loro del Presidente del Consigliodell’Ordine avvocato Fulvio Croce esuoi delegati, che richiesero termini adifesa per lo studio degli atti, comportòla concessione di un congruo periodofino al 16 settembre 1976 con provvedi-mento che intervenne il 9 giugno, gior-no successivo all’omicidio delProcuratore Coco, al cui verificarsi gliorgani di stampa (e alcuni malevolicommentatori non convinti della nostradeterminazione) vollero attribuire lapavida ragione di rinvio.

Di nuovo il 16 settembre intervenne-ro ragioni tecniche che ostavano al pro-sieguo, dovendosi attendere il soprag-giungere di uno spezzone di atti che,per determinazione della Cassazione,anch’essa lontana dalle nostre ambasce,dovevano essere trasmessi dalla Corted’Assise di Milano, con contestazionedi ulteriori reati e con aumento delnumero degli imputati.

Il 28 aprile 1977, una settimanaprima del giorno fissato per la ripresa,veniva ucciso l’avvocato Croce e i giu-dici popolari convocati per il 4 maggiodichiararono in maggioranza la loroindisponibilità, motivata da incontrol-labili ragioni di salute che, sotto il ter-mine tecnico di “sindrome depressiva”,mascheravano il reale stato psicologi-co: la paura. Del che io direttamentenon ebbi dubbi quando una giovanesignora cadde lunga distesa al suolo,pur se sorretta dal vigile consorte, qualesegno di risposta alla convocazione nelmio ufficio.

Anche da qui si scatenò una impieto-sa iniziativa giornalistica che tacciavadi pavidità i cittadini torinesi, ma forseciò riuscì a provocare una ripresa dicoscienza nella cittadinanza, promossae sostenuta dai rappresentanti dell’am-ministrazione comunale, che consentìla formazione della giuria per l’udienzadel 9 marzo 1978, secondo l’innovataprocedura che prevedeva le convoca-zioni non più nella imminenza del pro-cesso ma con anticipazione congrua.

Oggi che si parla di norme specialiapplicate “in danno” di terroristi ormaipentiti o scarcerati, io devo ricordareche fu questo il solo intervento legisla-tivo straordinario avutosi in riferimen-to al processo. Tutto il resto in talcampo fu solo espressione di atteggia-mento di singoli, fra i quali non possodimenticare l’intervento dell’on.Luciano Violante, allora addetto alministero di Grazia e Giustizia, che sidichiarò disponibile a risolvere il pro-blema dei difensori, e quello dell’on.Ugo Spagnoli, che sarebbe poi statoVice Presidente della CorteCostituzionale, che mi portò la solida-rietà del suo partito di appartenenza. Eparticolare ricordo merita la signoraAdelaide Aglietta, la quale accettòl’incarico di giudice supplente in unmomento in cui imperversava la pole-mica fra i politici, con asserzione deisegretari di partito della propria dispo-nibilità in caso di sorteggio, senza peròmenzionare il fatto che tutti costoroerano anche parlamentari e quindiesclusi per legge dal ruolo di giudicepopolare.

Non fu tuttavia inattivo il periodosuccessivo all’ultimo rinvio del 3 mag-gio 1977, dovuto alla già descritta pos-sibilità di costituire il collegio giudi-cante.

Non posso certo dire che questotempo e quello ulteriore abbia vistomaggior partecipazione degli organidello Stato, eccezion fatta per iCarabinieri, particolarmente impegnatiperché il processo avesse svolgimento,anche perché direttamente e più voltecolpiti da azioni criminose esterne (fragli altri, il 10 ottobre 1974 in Robianodi Mediglia era stato ucciso il mare-sciallo Maritano, rinunziante al riposoper partecipare ad una cattura, nel cuifiglio avrei riconosciuto anni dopo unsottotenente di un reparto in servizioall’aula) e quotidianamente oggetto diaggressioni non soltanto verbali che idetenuti rivolgevano agli uomini dellascorta: e ciò si aggiungeva ovviamenteal senso istituzionale dell’Arma e deisuoi uomini chiamati a svolgere il ser-vizio.

E valgano alcuni esempi sui partico-lari atteggiamenti degli organi pubblicicentrali.

a) La modifica del sistema di estra-zione dei giudici popolari, ottenuta inuna urgente notturna alla riunione mini-steriale dal Sindaco della città Novelli edal Presidente della Giunta RegionaleViglione, che io avrei dovuto applicaresolo due giorni dopo, mi fu resa notadagli stessi in via telefonica all’una dinotte e mai mi fu trasmesso in via diret-ta il testo normativo, che avrei quindipotuto trarre dalla Gazzetta Ufficiale dialcuni giorni dopo.

b) Il giorno prima dell’apertura delprocesso, essendo stata negata aiCarabinieri l’autorizzazione a perquisi-re locali prospicienti all’edificio del-l’aula in cui erano state notate apparec-chiature sospette, dovette intervenire ilSindaco per far murare nel giro di dueore una finestra la cui luce poteva costi-tuire tramite per un attentato.

c) Dovendosi reperire un’aula adat-ta, dopo l’omicidio Croce, per contene-re in sicurezza l’aumentato numero diimputati, lo Stato Maggioredell’Esercito negò l’utilizzo dell’areasu cui sorgevano due caserme non ope-rative e dove ora sorge il nuovo palazzodi Giustizia, cessate le ragioni di ...imbarazzo.

d) Improvvisamente, senza preavvi-so e senza motivazione, non ebbi più lascorta che seguiva la mia auto privatanel recarmi presso l’aula: alla mia deci-sione di uscire di casa da solo feceriscontro la diligenza, e forse l’amiciziainsorta, di un capitano dei Carabinieriche, per evitarmi almeno l’impegnodella guida, mi fornì un carabiniere inborghese quale autista, fino a che nonseguì il ripristino del servizio. Di esso –non ho mai perso occasione di ripeterlo– sono grato all’Arma che, unicaIstituzione dello Stato, mi è stata sem-pre vicina, di valido conforto e di con-creta cooperazione, con capacità pro-fessionali di cui sempre con commozio-ne ricordo alcuni episodi.

Quando dovetti per la prima voltadare ordine di sgombro all’aula fuicolto da un pur brevissimo momento diansia fino a che, pur essendomi sempresincerato, con un cenno all’Ufficialeresponsabile, che l’ordine poteva essereeseguito nella sua completezza, nonebbi contezza visiva della puntualeoperatività, espressa con il sopraggiun-

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gere di un nugolo di divise, dapprimanon presenti e non visibili perchéammassate nei sotterranei, che provve-deva a sgomberare il tumultuante pub-blico, mentre altra scorta allontanava idetenuti, liberi da ferri, dal settore nonancora per necessità ripristinato a gab-bia.

Per evitare inopportuni e non auspi-cabili scontri disposi poi che ai detenu-ti non fossero tolti i ferri, il che provocòreazioni silenziose, rotto dal provocatotintinnar di catene. Spiegai agli imputa-ti che la cautela era necessitata dal lorostesso comportamento e forse allora perla prima e unica volta vi fu un cenno diintesa con un incrocio di occhiate conCurcio, che dovette comprendere l’in-vito, anche qui motivato, poiché il tin-tinnio cessò e ciò mi consentì il ripristi-no delle forme di libertà degli imputatiin aula, come previste dalle usualinorme di rito.

e) Dovetti sospendere le formalità diinizio di una udienza dopo le prelimina-ri proteste dei giornalisti accreditati aiquali, per sopraggiunta disposizionedel Ministero dell’Interno, la Poliziaaddetta al servizio esterno dell’aula viaveva negato l’accesso.

Ritenendo questa una palese e inam-missibile violazione della pubblicitàdelle udienze, che era fra i principi chespettava a me tutelare e fare osservareesclusa la discrezionalità di un qualsia-si ministro, non diedi inizio all’udienza

finché da Roma non giunse la revocadel divieto alla Polizia.

L’ordine era motivato forse da quel-la volontà che da Roma mi veniva tra-smessa anche per tramite del ConsiglioSuperiore, organo preposto anche allatutela dei magistrati: dovere io evitareche gli imputati inveissero “contro que-sta disgraziata Italia”, come se fossestato in mio potere divinatorio la previ-sione di quanto sarebbe stato detto.Potevo sì interrompere una dichiarazio-ne, come avvenne nel tentativo dellarivendicazione dell’omicidio Coco il 9giugno 1976, ma non di più. Mi guardaibene dal prendere atto di questi segnali,lanciati da persone che forse un’aulapenale non avevano mai neppure visto,poiché ero io – non certo novello DonAbbondio – che ogni giorno “vedevoquelle facce e sentivo quelle voci”, inciò confortato dal parere del magnificoPresidente in carica della Corted’Appello Attilio Rossi, da cui alloradipendeva la Corte d’Assise, che mionorava di amicizia e stima e che fu l’u-nico punto d’appoggio provenientedagli organi giudiziari.

f) E non sapevo allora quanto conestrema amarezza e indignazione avreiappreso molti anni dopo con senso diironica rabbia, e cioè che il comunicatoBr n. 7, che nell’aprile 1978 segnalavala presenza dell’onorevole Moro in unlago ghiacciato dell’Abruzzo e che con-teneva la postilla “stiano attenti i vari

Sossi e Barbaro che sono soltanto inlibertà provvisoria”, era stato redattoper determinazione dei servizi alledipendenze di quello stesso Ministrodell’Interno. Si andò poi dicendo chequell’iniziativa avrebbe provocato unsondaggio alle reazioni dell’opinionepubblica alla notizia dell’uccisione del-l’onorevole Moro. Quale esito il son-daggio avrebbe avuto non è dato sape-re, né a noi ciò interessava, in quantoimpegnati non già a manipolare docu-menti in stanze segrete, ma a svolgereun difficile compito in difesa dellasocietà e dell’ordine costituito, alla lucedel sole e nella chiarezza applicativadel diritto.

Tutti gli ostacoli di cui sopra furonocomunque vinti allorché, a conclusio-ne di 51 udienze, il Presidentedell’Ordine degli Avvocati poté legge-re il documento difensivo finale firma-to dai 19 difensori d’ufficio, che gliimputati cosiddetti irriducibili noncontrastarono né interruppero. Io subiiin quei lunghi minuti l’emozione diveder conclusa una faticosa e doverosaavventura e mi si profilò quasi allavista dal fondo dell’aula, a mano amano che l’avvocato Gabri indicava ilnome di ciascun difensore, e questoalzandosi esponeva la sua toga, l’om-bra dell’avvocato Croce e degli altri 16morti durante lo svolgimento del pro-cesso.

Dei cinque giorni e quattro notti dicamera di consiglio nulla posso dire peril vincolo del segreto, ricordando solol’impegno preliminare mio e del colle-ga togato Giovanni Mitola (uomo diesemplare serenità e saggezza) per con-vincere alcuni dei giurati della differen-za fra la banda armata e la banda musi-cale, peraltro giustificatamene ignoratapoiché nel corso della lunga vigenza delcodice penale Rocco mai vi erano statiprocessi per tale reato.

Alla lettura della sentenza, nel caldopomeriggio del 21 giugno 1978, ebbi lasoddisfazione di notare fra i banchidegli avvocati, con essi in piedi, anchequattro colleghi, Marcello Maddalena,Mario Cicala, Edoardo Denaro,Francesco Scisciot, e di poter abbrac-ciare, rientrando verso la stanza che erastata camera di consiglio, il presidentedella Corte d’Appello Attilio Rossi.

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20la Pazienza

Una giornata come tante altre per gliavvocati torinesi, almeno fino al

primo pomeriggio, ore 15.00-15.30.Molti avvocati erano già in ufficio edaltri si accingevano a raggiungere ilproprio studio.

All’improvviso i telefoni di tutti glistudi cominciarono a squillare comuni-cando un’agghiacciante notizia.L’avvocato Fulvio Croce, Presidentedell’Ordine degli Avvocati di Torino,che avrebbe dovuto designare i difenso-ri d’ufficio per i brigatisti rossi, imputa-ti di vari reati, e che avevano revocato idifensori di fiducia, per l’imminenteprocesso fissato per il 3 maggio dellostesso anno, veniva ucciso proditoria-mente con diversi colpi di pistola sottoil proprio ufficio sito a Torino in ViaPerrone n. 15.

L’avvocato Fulvio Croce era solo e

fu vigliaccamente colpito alle spalle.Questa notizia si sparse in un attimo

dopo l’assassinio e fu immediatamenteconvocata un’assemblea degli avvocatiper il giorno 29 aprile 1977.

Allora, essendo in pochi, ci si cono-sceva tutti, sia chi si occupava di causecivili che, a maggior ragione, di causepenali e nello stesso pomeriggio si riu-scì ad informare la stragrande maggio-ranza degli avvocati di Torino.

All’assemblea del 29 aprile, aulagremita di magistrati, avvocati, cancel-lieri e stampa, si iniziò a discutere sulda farsi per l’apertura dell’imminentedibattimento fissato per il giorno 3maggio.

C’era anche chi sosteneva che aTorino questo processo non poteva esse-re elaborato poiché tutti gli avvocatierano parti offese essendo stato ucciso il

loro presidente, chi sosteneva che biso-gnava rinviare gli atti al TribunaleMilitare essendosi dichiarati i brigatistiprigionieri dello Stato ed in lotta con loStato stesso e chi, come l’avvocato AldoAlbanese e l’avvocato Antonio Foti, conlucido intervento, sostennero che il pro-cesso andava fatto e che solo la sentenzacontro i brigatisti sarebbe stata la vera eprofonda commemorazione del com-pianto presidente Fulvio Croce.

In effetti l’assemblea era divisa ebisognava nominare i vari difensori daparte del presidente della Corted’Assise che avrebbero dovuto presen-tarsi all’udienza del 3 maggio 1977.

Moltissimi avvocati torinesi noncondivisero assolutamente la presa diposizione del consiglio dell’ordinedegli avvocati di Torino che all’incircasuonava del seguente tenore: “Data la

La voce degli Avvocati:1977-2007

ERA IL 28 APRILE 1977

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lunga consuetudine di lavoro, di vita incomune e dei particolari sentimenti diamicizia e di affetto intercorsi e scaturi-ti fra i consiglieri ed il presidente, mai iconsiglieri medesimi avrebbero potutoassumere un qualsiasi incarico chefosse a difesa di coloro che avevanorivendicato l’assassinio del Presidentedell’Ordine degli Avvocati”.

Naturalmente molti fummo in disac-cordo, perché la decisione delConsiglio dell’Ordine degli Avvocati diTorino sostanzialmente significava undare ragione ai terroristi i quali neivolantini di rivendicazione del barbaroassassinio sostenevano che le BrigateRosse non potevano essere processate eche chiunque avesse accettato di assu-mere la loro difesa, sarebbe stato equi-parato ai servi di regime con assunzio-ne dei rischi connessi alla funzione.

Intanto arriva il 3 maggio, giorno delprocesso; il presidente della Corted’Assise dr. Guido Barbaro in aula alle11.45, in compagnia del giudice dr.Giovanni Mitola comunicava che nonera riuscito a formare la giuria popolare.

Molti cittadini estratti avevano crisidepressive, molti altri accampavano

crisi depressive della propria consor-te!!!

Il processo salta ed è una sonorasconfitta per la Giustizia.

Subito dopo il presidente della Corteincomincia a nominare direttamente inuovi difensori d’ufficio e le autoritàcomunali provvedono all’attrezzaturadi un’aula apposita, la caserma LaMarmora, dove si svolgerà il processofissato per l’8 marzo 1978.

Per trovare i giudici popolari furonosorteggiati circa 150 nominativi, primache 6 accettassero di fare i giudicipopolari effettivi ed altri 10 di fare igiudici supplenti.

Si arriva, dunque, all’8 marzo congli avvocati seguenti: Aldo Albanese,Giovanni Avonto, Luigi Balestra,Gianfranco Bonati, Vittorio Chiusano,Geo Dal Fiume, Valerio Durante,Antonio Foti, Fulvio Gianaria,Francesco Gilardoni, Bianca GuidettiSerra, Maria Magnani Noya, GrazianoMasselli, Carlo Umberto Minni,Alberto Mittone, Vittorio Negro,Emilio Papa, Elena Speranza e GianPaolo Zanzan; a questi si aggiunse, congrande senso istituzionale, il nuovo

Presidente del Consiglio dell’Ordinedegli Avvocati di Torino, che nel frat-tempo era stato completamente rinno-vato, avvocato Gian Vittorio Gabri.

Era un ruolo veramente difficile pergli avvocati, un ruolo inedito: gli impu-tati minacciavano i difensori e rifiuta-vano la loro opera.

Molti intendevano sostenere un’ar-ringa difensiva tradizionale sottoli-neando che erano difensori di un impu-tato e non delle Brigate Rosse.

E, per la prima volta in Italia, sidefinì un ruolo di garanzia del collegiodifensivo nel processo al nucleo storicodelle Brigate Rosse.

Fu redatta una corposa memoria, allafine da tutti condivisa, e all’udienzaconclusiva fu letta dal presidente avvo-cato Gian Vittorio Gabri e tutti i difen-sori si alzarono in piedi appena citatidal presidente, in segno di presenza.

La vittoria sulle Brigate Rosse fu otte-nuta in data 23 giugno 1978 alle ore 16.30quando il presidente della Corte d’Assisedr. Guido Barbaro riuscì a leggere ildispositivo della sentenza con la qualefurono inflitti oltre 200 anni di carcere.

Aldo Albanese

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22la Pazienza

Il 4-5 maggio si terrà nell’AulaMagna del Tribunale di Torino

un convegno organizzato dalConsiglio dell’Ordine nel quale siricorderà Fulvio Croce, nel trente-simo anno della sua morte.

Riveste per me un grande signi-ficato scrivere su quanto accaddenel nostro Foro in merito ad unodei temi più delicati della storiagiudiziaria e di come alcuni avvo-cati, tra cui mio padre, affrontaro-no la difficile e tormentata temati-ca dell’autodifesa.

Nel corso del maggio 1976,mentre a Torino, innanzi allaCorte di Assise, si celebrava il pro-cesso agli esponenti delle BrigateRosse, accadde un fatto senza pre-cedenti. Questi, infatti, revocaro-no il mandato ai difensori di fidu-cia e, dichiarandosi “prigionieripolitici”, rifiutarono i difensorinominati d’ufficio, intimandoloro, con minacce, di non assume-re l’incarico.

Veniva, così, allo scoperto unodei nodi cruciali del conflitto inatti: il rapporto tra la norma del-l’art. 24 Cost. che connota diinviolabilità e di irrinunciabilitàil diritto alla difesa e la rivendi-cazione degli imputati, dichiara-tisi “prigionieri politici” di rifiu-tare qualsivoglia assistenza nelprocesso, giustificata dalla radi-cale contrapposizione allo Statoe, al sistema che legittimava ilprocesso.

Il pensiero degli imputati nonpoteva essere equivocato. Infatti,mediante il comunicato n. 9, pre-sentato alla Corte di Assise, gliimputati, ribadite le loro idee poli-tiche, scrivevano: “In questo qua-dro emerge con assoluta chiarezzala ragione per cui non accettiamoe non accetteremo mai qualsiasitipo di avvocato di regime, edanche perché ogni tentativo diinsistere sulla via della loro impo-sizione è destinato a fallire e a tro-vare la più dura risposta del movi-mento rivoluzionario: con l’azio-ne Croce il discorso non si è chiu-so, né questa linea di combatti-mento potrà esaurirsi prima dellasoluzione definitiva della contrad-dizione agonistica che ci opponeagli avvocati di regime”.

I difensori dell’epoca si trova-rono innanzi ad un atroce dilem-ma: quale doveva essere il lororuolo?

Per comprenderlo appieno ènecessario confrontarsi con larealtà di quel processo. Vi era l’as-soluta intransigenza di quegliimputati nel disconoscere lo Stato,dalla quale discendeva, per fermacoerenza, la volontà di essere essisoltanto interpreti di se stessi,rifiutando qualunque mediatore.

Innanzi a tale categorica asser-zione gli avvocati come dovevanoraffrontarsi?

Avrebbero dovuto essere sem-plicemente presenti al processo,

senza esplicare in alcun modo laloro funzione – semplici figure dicontorno – così assicurando l’ap-parente rispetto del dettato costi-tuzionale e, allo stesso tempo,assecondando la volontà degliimputati di non essere fattivamen-te assistiti, ovvero dovevano con-trastare i desideri degli interessatiimponendo, di fatto, la difesa tec-nica, senza tenere conto delle loroposizioni ideologiche e conse-guentemente correre rischi altissi-mi per l’incolumità propria.

Ci si interrogava ancora se fosseutile nonché legittima l’assegna-zione di un difensore nonostantela contraria volontà dell’imputato.

Era difficile trovare un equili-brio tra l’esigenza di consentire lafunzione primaria dello stato didiritto, l’operare nell’interessedell’imputato e il rispetto delladignità professionale.

Per tutte queste ragioni alcuni diquegli avvocati eccepirono laincostituzionalità dell’art. 24Cost. rispetto agli artt. 125-128c.p.p. vecchio rito: la c.d. auto-difesa degli artt. 125-128 c.p.p.vecchio rito relativamente all’art.24 Cost.

La questione di legittimitàcostituzionale fu respinta dallaCorte di Assise che – pur ricono-scendo la dignità degli argomen-ti – addusse la irrilevanza deglistessi atteso che gli imputati nonavevano manifestato in modo

IL RUOLO DELL’AVVOCATURATORINESE NEL PROCESSO ALLE BR

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esplicito la volontà di autodifen-dersi.

Tale assunto incontrò il dissen-so di questi difensori i quali con ladichiarazione del 29/3/1978 scri-vevano che non si capiva conquale maggiore chiarezza gliimputati avrebbero potuto manife-stare la loro volontà di autodifen-dersi.

Tale desiderio trovò esplicitoriscontro nell’esperienza dibatti-mentale.

Infatti, gli imputati stessi, neimomenti cruciali dell’istruttoria,avrebbero svolto una fondamenta-le attività attraverso la produzionedi documenti, contestazioni inoccasione di testimonianze pro-cessuali, istanze di accertamentoistruttorio messe a verbale, ecc.

Quelle attività furono ampia-mente consentite dalla Corte maproprio per questo chi proposel’eccezione di autodifesa ribadivacon forza l’errore in cui era incor-sa la Corte nel rigettarla.

Fu proprio attraverso la dichiara-zione menzionata che gli avvocatitrovarono o meglio cercarono quel-l’equilibrio di contemperamento diquelle opposte esigenze, che sisostanziò nell’«interpretare la fun-

zione del difensore d’ufficio comegaranzia di correttezza del rapportoprocessuale contro eventuali devia-zioni del rito riservandosi di con-trollare, in ogni momento cheappariva necessario, la verifica dicompatibilità con il dettato costitu-zionale della normativa vigenteproponendo in caso di violazione,articolata denuncia».

L’estrinsecazione di questainterpretazione si manifestò invari modi quali la presenza a tuttele udienze, nel rinnovare agliimputati l’offerta di una difesa tec-nica, nel chiedere alla Corte diinterpellare gli imputati se deside-ravano ad esempio esibire aldifensore designato il decreto dicitazione per consentirgli l’esamee gli eventuali rilievi di nullità, nelchiedere alla Corte di interpellaregli imputati circa la volontà di farevalere la nullità stessa. Insiemequegli avvocati rivolsero istanzeal Presidente della Corte affinchéchiedesse agli imputati, in occa-sione di deposizioni testimoniali,se avessero domande da formularee così via.

Il problema si ripresentò al ter-mine del processo relativamentealla discussione, quando venne

posta la questione se fosse corret-to limitarsi a presentare le con-clusioni ovvero se fosse, invece,necessario esporre le linee difen-sive.

Alla fine attraverso la compara-zione delle norme di cui agli artt.468 e 470 c.p.p. vecchio rito, siarrivò alla decisione che il difen-sore esplica il diritto di difesa siaquando svolge le proprie conclu-sioni nel merito, sia quando ritienedi rimettersi al Giudice intenden-do in tale modo sollecitare l’obbli-go giuridico e morale delMagistrato all’esame di tutti glielementi processuali.

I difensori, quindi, il 17 giugno1978 al termine del giudizio rasse-gnarono alla Corte d’Assise diTorino un documento nel qualeracchiusero tutte le argomentazio-ni che ho qui sinteticamente ripor-tato e dal quale emerge con estre-ma chiarezza il forte turbamentoche li aveva investiti nel risolveretale tematica e il convincimento diaver adempiuto onestamente eliberamente al dovere ad essidemandato dalla legge.

Ritengo doveroso riportare peresteso un brano del citato docu-mento dal quale si evince quale fula linea guida di quegli avvocatinell’interpretare il loro ruolodefensionale:

“Il più sicuro attestato didemocrazia e libertà di un ordi-namento lo si trae dalla misura incui si consente agli imputati‘politici’ la conservazione dellaloro personalità in ciò differen-ziandosi dagli ordinamenti auto-ritari ...”, “ebbene questi difenso-ri nel momento stesso in cui, con-sapevolmente mortificandosi,rimettono in discussione il pro-prio stesso ruolo attestano, da unlato, la loro indipendenza elibertà e, dall’altro lato, garanti-scono l’unica autentica e quindianche migliore difesa”.

Anna Chiusano

la Pazienza La voce degli Avvocati: 1977-2007 23

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24la Pazienza

Il ricordo della barbara uccisionedel Presidente dell’Ordine avvoca-

to Fulvio Croce, avvenuta trenta annifa ci induce a riflettere in un confron-to tra ieri e oggi, non politico e di con-testo sociale, ma umano.

Viene spontaneo chiedersi qualipaure hanno provato, quali pensierihanno avuto, a quali motivazioni ideo-logiche, o ideali, si sono ispirati i col-leghi che hanno vissuto come protago-nisti quei giorni, quei mesi, quegli anni“di piombo”, accettando i rischi perso-nali ed anche le accuse di connivenzache la pur doverosa difesa d’ufficio deibrigatisti comportava, o facendo unpasso indietro e rifiutando.

Accettazione o rifiuto sono statiresi in un processo che, per il solofatto che si sia celebrato e che siagiunto a regolare conclusione, puòdirsi l’emblema di uno Stato che ha inquel tempo faticosamente riconqui-stato se stesso.

E l’ha fatto, come spesso avviene,non per la capacità dei vertici, ma gra-zie al lavoro dei suoi “servitori perife-rici”.

Difficile intuire con quali pensieriil Presidente Fulvio Croce tornava apiedi da solo in studio andando incon-tro alla morte; difficile immaginarecon quale consapevolezza vivesse ilsuo essere simbolo: simbolo di coe-renza istituzionale, simbolo di orgo-glio di una funzione che esercita chi,pur non essendo un dipendente delloStato e quindi non usufruendo deidiritti e delle garanzie che da ciòdiscendono, svolge un ruolo insosti-tuibile nell’interesse comune dellagiustizia e presta un giuramento delquale nei momenti delle scelte nonpuò non ricordarsi.

Ma è proprio sulle scelte che sem-bra opportuno riflettere.

Scelte necessarie ieri ed oggi nellosvolgere la professionalità, scelte chesono forse oggi meno importanti perla vita del singolo e dello Stato, mapesanti da sostenere di continuo e che

lasciano il segno con il passar deglianni in chi fa questo “mestiere” nonperché in qualche modo bisogna purprocurarsi da vivere, ma perché pocoo tanto “ci crede”.

Crede nei valori costituzionalidella difesa e si attiva perché ne pos-sano concretamente godere ogni gior-no donne e uomini, con le lorodevianze, con i loro casi, piccoli,grandi, atroci o commoventi rispettoai quali a volte è difficile mantenere ilgiusto distacco.

Crede nel decoro di una toga,indossando la quale trova a volte laforza di argomentazioni che altrimen-ti non saprebbe e non avrebbe ilcoraggio di esprimere.

Sciopera, perlopiù, non per difen-dere i propri interessi di bottega, maper mantenere garanzie comuni.

Oggi i passi degli avvocati torinesipiù non risuonano sotto volte maesto-se, tra velluti consunti o nello scric-chiolio di pavimenti di legno chesanno d’antico, ma si disperdono incorridoi affollati, ma deserti di faccenote, in aule troppo larghe o troppostrette, in luoghi in cui il rumore diautogrill del bar toglie il piacereanche alla pausa caffè.

Gli studi di ieri erano rigorosamen-te soggetti a gerarchie e di fatto gesti-ti da segretarie factotum rispettose edimplacabili.

Oggi sono per la maggior partesostituiti da uffici sempre più affollatidi titolari che applicano una condivi-sione di spese, che spesso non contem-pla nemmeno quella dello stipendioalla segretaria, sostituita da volentero-si quanto sottoimpiegati praticanti.

Eppure, anche se il decoro ed ilprestigio sono minori, se il numerodegli iscritti all’Albo stempera alcunivalori deontologici e tende a parifica-re la professione ad un normaledisbrigo di pratiche d’ufficio, la diffi-coltà delle scelte è pur sempre grande:

• essere ammortizzatori tra giudi-cante e giudicato;

• essere spesso soli ed incompresidagli stessi assistiti nell’insistere perl’applicazione delle regole che costitui-scono la garanzia di uno stato di diritto;

• sentire e subire il fastidio palpa-bile di chi, in udienza, mal sopporta ilnostro lavoro, soprattutto se scrupo-loso ed attento;

• essere consapevoli che nell’im-maginario collettivo l’avvocato ècolui che, “prezzolato”, pone intralcialla punizione esemplare dei colpevo-li, qualificati così prima di tutto dallecronache.

Dobbiamo scegliere ogni giornotra l’interesse del cliente committenteed il dovere di probità, verità e lealtà;

• tra la repulsione per l’enormitàdi una colpa di chi ci ha nominato edil suo diritto di difesa;

• tra la difesa facile e scontata (intutti i sensi) del patteggiamento equella del completo e difficile eserci-zio del contraddittorio.

Gli esiti delle scelte, che non sonomai totalmente giuste o sbagliate,costituiscono un bagaglio insostituibi-le, ma a volte difficilmente sostenibile:un lampo di umanità che per un attimoabbiamo visto brillare in chi è si èmacchiato in gravi delitti; il restareattoniti dinnanzi ad una ingiusta sen-tenza di condanna della quale in ognicaso non riusciamo a non sentirci col-pevoli; il rimanere interdetti dinnanziad una assoluzione che sappiamoingiusta e della quale siamo artefici.

Gioiamo per la forza dell’intelli-genza ed inghiottiamo il saporeamaro dell’umiliazione per la nostra oper l’altrui incapacità o ottusità.

Ci rimproveriamo patteggiamenticome se fossero negligenze e dibatti-menti come se fossero inutili ed arro-ganti battaglie.

Il peso delle scelte, grandi, estremeo piccole e quotidiane è imprescindibi-le bagaglio della cui dignità dobbiamoavere ogni giorno consapevolezza.

Silvana Fantini

IL VALORE DELLE SCELTE

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25la Pazienza

Il 17 maggio del 1976 iniziavadavanti alla Corte di Assise di

Torino il processo contro i capidell’organizzazione BrigateRosse, imputati di costituzione dibanda armata e di altri reati con-nessi. Il primo atto degli imputa-ti detenuti, in apertura del dibat-timento, fu la revoca del manda-to ai difensori di fiducia prece-dentemente nominati.

In loro sostituzione ilPresidente della Corte nominavaun gruppo di difensori di ufficioche furono immediatamente“invitati” dagli imputati a nonaccettare l’incarico, a “non colla-borare con il regime” e a non

accettare il terreno di scontro scel-to dalla “legalità borghese” percriminalizzarli.

Il comunicato n. 1 dell’organiz-zazione proclamava che “gliimputati non hanno niente da cuidifendersi” mentre gli accusatori“hanno da difendere la pratica cri-minale antiproletaria dell’infameregime che essi rappresentano. Pertogliere ogni equivoco revochia-mo perciò ai nostri avvocati ilmandato per la difesa e li invitia-mo a rifiutare ogni collaborazionecon il potere”.

Nel comunicato n. 4 il pensie-ro del gruppo veniva ancormeglio chiarito: “In qualunque

processo l’avvocato (nel testooriginale maiuscolo!) ha la fun-zione di mediatore tra l’imputatoe il giudice, è l’altra faccia delgiudice. In un processo politicoquesta funzione diviene ancorapiù palese: tenta di stabilire unterreno di mediazione tra rivolu-zione e contro rivoluzione... que-sto è il difensore di regime... e ildifensore di regime è un nemicodichiarato delle forze rivoluzio-narie”.

Ciò detto, i legali di ufficio,dopo aver sollecitato invano laCorte a valutare la correttezzacostituzionale delle norme cheimpongono la difesa tecnica,restarono al loro posto.

Il 28 aprile 1977 l’avvocatoFulvio Croce, un galantuomopresidente dell’Ordine degliAvvocati di Torino, simbolo suomalgrado della figura del difen-sore imposto, venne assassinatoda un gruppo di fuoco terroristi-co nell’androne dello stabile incui aveva studio.

Era rimasto al suo posto senzarinunciare alla sua funzione esenza cedere alla paura: deve esse-re affiancato alla poco numerosaschiera degli eroi borghesi.

Se a distanza di molti anni sivuole ritornare ai quei tragici gior-ni per inserire quanto accaduto,accantonando le emozioni, nellastoria del processo penale si sareb-be tentati di collocare quel medita-to atto di violenza nella sperimen-tata pratica del processo cosiddet-to di rottura.

Sarebbe forse un errore. Se è

UN OMICIDIO PREMODERNO

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la Pazienza26

vero infatti che le condotte proces-suali di rottura hanno spesso carat-terizzato i processi politici mar-cando la loro distanza dalla con-dotta di connivenza adottata nellagrande maggioranza dei giudizipenali, è altrettanto vero che que-sta rottura attiene essenzialmenteai ruoli che i vari protagonistiassumono all’interno del proces-so, ma non implica comportamen-ti violenti.

L’imputato rifiuta lo schemache lo vuole processato e pretendedi giudicare; non riconosce al giu-dicante la legittimazione che glideriva dal sistema processuale e loconsidera, al pari di tutti i compri-mari del rito, un nemico; usa ilproprio diritto di parola per accu-sare rivolgendosi ad una plateaesterna per ottenerne ascolto econsenso.

Ciò nonostante non rinuncia apartecipare al gioco processualeperché preferisce utilizzarlo comeoccasione per illustrare la propriaposizione, preferisce amplificarnela risonanza extra processuale sce-gliendolo come strumento di lottapolitica.

Paradossalmente il processoche si dichiara di voler rifiutare sitraduce in un benvenuto strumen-to che serve a far emergere loscontro politico dall’opacità e daiconfini nei quali il potere costitui-to vorrebbe contenerlo.

Per altro verso, la eliminazionefisica del presunto “complice delrito”, quale quella che ricordiamoin queste pagine, sembra evocaremotivazioni e strategie molto piùprimordiali e sembra riportare alogiche che precedono il concettostesso di processo politico.

Ci spieghiamo meglio.Nel dire comune, la giustizia (e

dunque la sua amministrazione) ela politica sembrano appartenerea campi estranei se non contrap-posti.

Se infatti la giustizia evoca la

neutralità rispetto alle parti ecomunque la ricerca di un’equi-distanza che favorisca l’impar-zialità, la politica sembra pro-porsi come lotta che ammette lafaziosità e consente il suo usovolto al raggiungimento delsuccesso.

Al di là della concreta e praticarealizzazione dei principi propridei due diversi campi, le geome-trie concettuali che li governanosono rappresentate in modo chia-ro e contrapposto. Come giusta-mente ricorda la bella introdu-zione al libro di Demandt(Processare il nemico, Einaudi1996), la metafora della spadarappresenta il campo dell’agonepolitico mentre quella dellabilancia rappresenta il terrenoregolato della giustizia.

Anche se è vero che nel corsodel tempo i due campi si sonosovrapposti, così come quando lostrumento giudiziario viene utiliz-zato per indebolire il nemico ocome quando il dibattito politicosi alimenta di virtuosi contraddit-tori proposti alle scelte degli elet-tori, è innegabile che la motivazio-ne originaria dell’amministrazio-ne giudiziaria sembra doversiindividuare nello sforzo di regola-re il conflitto formalizzandolo in

procedure che allontanino il ricor-so alla spada.

È vero che quanto più aspro è ilconfronto fra i contendenti tanto èpiù difficile salvaguardare dalla“violenza legale” quello spazio dineutralità che i processi di civiliz-zazione hanno voluto riservare aiconflitti costringendoli alla cele-brazione del rito, ma è anche veroche quella del confronto proces-suale è stata una delle vie chehanno sottratto l’esito degli scon-tri politici al prevalere della vio-lenza e del potere incontrollato.

In questo senso, l’assassinio diFulvio Croce può essere definito“barbaro”: non tanto e non soloperché si decide di togliere la vitaal presunto avversario, ma perchési adotta la pratica premoderna dirifiutare il terreno della giurisdi-zione.

Dunque non la sfida alle istitu-zioni che utilizza il processocome cassa di risonanza per leproprie ragioni ideali, ma la vio-lenza come simbolo del rifiuto ecome scelta di isolamento e soli-tudine.

Per questa sfiducia nella forzadella parola il nostro Presidente èstato ucciso trent’anni fa.

Fulvio GianariaAlberto Mittone

La voce degli Avvocati: 1977-2007

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27la Pazienza

Qualche volta ho pensato ad undialogo immaginario con col-

leghi che hanno iniziato da poco laprofessione o addirittura giovanilaureati incerti sulla strada da intra-prendere: avrei avuto voglia di direloro come mi è capitato di essereavvocato, come l’ho vissuto e lovivo oggi, cosa ha significato esoprattutto avrei voluto ascoltare ilracconto delle loro esperienze,aspettative, concezioni diversedella professione, anche per capireinsieme se 25 o 30 anni, in unmondo che sembra correre semprepiù in fretta, possono trasformarenel profondo l’essere avvocato.

Al dialogo si accompagnava pre-sto l’impressione che molti dei gio-vani colleghi affrontassero la pro-fessione come uno dei tanti lavoripossibili, da sperimentare cauta-mente, per tante ragioni, alcunesenz’altro in grado di giustificarepreoccupazioni o incertezze, mache finivano col renderli precariogni giorno di più, rischiando di pri-varli di quelle emozioni, curiosità epersino timori che io ricordo cosìforti e belli quando ho iniziato lapratica nelle aule bunker delleVallette dove si tenevano i processialle Brigate Rosse e Prima Linea.

Ed allora, sempre immaginando,mi chiedevo se al di là della miaimpressione i loro primi passi daavvocato fossero in fondo moltosimili ai miei o se invece, tutti colo-ro che i cinquant’anni hanno giàcompiuto, si fossero distratti e nonvedessero come nuove generazioni,

magari più agiate economicamentee con abitudini di vita a vent’annisimili a quelle da noi conosciutemagari più tardi, non riuscissero inrealtà a vivere bene la professione, asentirla, a chiederle soddisfazionima anche a dedicarle momenti inte-ri della propria vita, con il rischio diavere un approccio rabbuiato da undistacco simile all’indifferenza, dauna scarsa convinzione per la fun-zione svolta, da una sua valutazionestrettamente economica facilmenteinsoddisfacente dopo anni di studioe di pratica (ancora svolta o si èsempre più costretti ad essere auto-didatti?) e così via.

Se così fosse, ma spero di no, cro-giolarsi in inutili sensi di colpagenerazionali o magari da condivi-dersi con la “categoria”, il “siste-ma” o altro ancora, servirebbe apoco: meglio capire come stannodavvero le cose e se possibile farqualcosa di utile, ma per questo ildialogo da immaginario devediventare reale ed oggi, il ricordocommosso dell’assassinio di FulvioCroce a 30 anni di distanza anchedalla celebrazione dei primi proces-si alle Brigate Rosse, potrebbe darea tutti insieme quella voglia di dire equella capacità di ascoltare i piùgiovani che non è facile trovarenegli altri giorni dell’anno.

Quando vado con la memoria aquegli anni, dal 1975 ai primi Anni’80, rivedo i miei studi di dirittoall’Università prepotentementeinterrotti ad un passo dalla laureadalla passione per i diritti civili,

l’autodeterminazione della donna,l’abrogazione di leggi che si ritene-vano superate dal tempo e dai costu-mi e rivedo giornate molto intense,piene di discussioni accese, passio-ne, iniziative politiche spesso dura-mente criticate per magari essereapprezzate dieci anni dopo, insom-ma anni vissuti con molta partecipa-zione in una Torino che vivevaanche momenti molto bui, in cui laviolenza spesso la faceva da padro-na e non riuscivano ad avere spaziole tante proteste o proposte certa-mente alternative alle politiche del-l’epoca, ma altrettanto alternative aquella lotta violenta che ben prestoper alcuni è diventata armata conl’immediato effetto di ottenereenorme spazio sulla stampa edun’involuzione legislativa davveropreoccupante (Legge Reale, decretiantiterrorismo, legge sul fermo dipolizia, ecc.) tali per cui ancora oggimi domando se qualcuno non abbiafinito col fare proprio il loro gioco.Quasi subito si comprese che digioco non si trattava affatto: gam-bizzazioni, omicidi, un linguaggiotruce, comunicati che erano bolletti-ni di guerra. Ad un certo punto lacittà apparirà quasi occupata mili-tarmente e non ci sarà che spazioper il “movimento armato” da unaparte ed il “partito della fermezza” ela ragion di Stato, dall’altra.

In questo contesto si doveva cele-brare il primo processo ai “capi sto-rici” delle Brigate Rosse per il reatodi banda armata: un processo neces-sariamente dovuto e voluto dallo

1977-2007: UN DIALOGO IMMAGINARIO CON I GIOVANI COLLEGHI

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Stato anche se ad un certo puntoconterà più la celebrazione in sé e lasua rapida conclusione che non il“come”, ma anche voluto dalleBrigate Rosse che diranno in undocumento “il processo si devefare: questo è quello che noi voglia-mo e lo vogliamo per dimostrareche il processo alla rivoluzione pro-letaria non si può fare”.

Dunque un processo di rottura,direbbe Jacques Vergés, in cui l’av-vocato è considerato “di regime” ecome tale inutile o dannoso e noncerto da scegliere o addiritturavedersi imposto in nome di un pre-teso interesse dell’imputato.

Quell’avvocato che si è trovatoad aver davanti tante strade possibi-li da imboccare, poco tempo perscegliere, la propria coscienza, lafedeltà alle istituzioni richiamataanche dal nostro giuramento, la pas-sione civile, senso di responsabilitàma anche timori, magari diversi inciascuno, come diversi possonoessere i sentimenti dell’uomo (edelle donne presenti non nel primoma nel secondo collegio di difesacon un ruolo significativo).

Qui posso solo accennare a quelprimo importante passo del proces-so che ha visto sollevata l’eccezionedi illegittimità costituzionale relati-va alla obbligatorietà della difesatecnica, eccezione ritenuta infonda-ta; è seguito il rinvio del processo anuovo ruolo, con grande difficoltàdi ripresa poiché né nel 1976 né nel1977 si riuscì a formare la giuriapopolare. L’avvocatura si interroga-va animatamente sul ruolo deldifensore, sull’autodifesa e la previ-sione della Convenzione Europea,sull’istituto della difesa d’ufficio esul progetto di legge per una suarevisione.

Ma cadde il silenzio quel 28 apri-le 1977 con l’assassinio dell’avvo-cato Fulvio Croce che, comePresidente del Consigliodell’Ordine, il meccanismo proce-durale rendeva simbolo viventedella garanzia di difesa nel proces-so, garanzia considerata dai brigati-sti parte di un armamentario “bor-ghese”, ma evidentemente così

verità va detto, le sono stati ricono-sciuti soltanto anni dopo ed in parti-colare quando non era più in vita.

Un’avventura da me vissutaanche un po’ grazie all’incoscienzache l’età consentiva, decisiva nellamia formazione, che mi ha fattorespirare, seppur a distanza, lo sfor-zo dei molti avvocati del collegio didifesa in quel processo, comprende-re il senso profondo della difesainnanzitutto del diritto di difesa,decisiva, dopo la conclusione delprocesso, per fortuna anche perchiedere la tesi (sulla legislazione intema di ordine pubblico negli anni’75-’78) passo necessario perdiventare un giorno poi avvocatopenalista, cercare di essere avvoca-to e non soltanto fare l’avvocato.

Questa bellissima professione nonè un’attività come un’altra! Non puòessere vissuta part-time né avere lecadenze di un normale impiego.Questo non vuol dire che si debbatrascorrere l’esistenza ossessionatidal lavoro, chiusi nel proprio studioma che, anche viaggiando o ammi-rando un’opera d’arte, non si smettedi essere avvocati: preparando ladiscussione di un processo mi è statopiù utile soffermarmi su un gioco disovrapposizioni tra apparenza erealtà di Magritte che non su alcunepagine di dottrina!

Tornando a quel processo, vadetto che la scelta e la capacità didifendere individuando quel peri-metro entro cui stavano il rispettodel ruolo dell’avvocato e al contem-po dell’identità degli imputati checontinuavano a rifiutare i difensorianche con minacce pesantissime,giunse alla fine di un percorsotutt’altro che facile e condiviso. Maproprio dal confronto serrato enonostante contrapposizioni interneall’avvocatura nacque quel docu-mento che rappresentava sia la deci-sione di non prestarsi a recitaresecondo un copione (da molti, nelpaese, auspicato) che la passionecivile di avvocati tra loro diversi performazione culturale, orientamentopolitico, ma autenticamente liberi.

A chi rilegga le carte dell’epocama anche gli articoli di stampa spes-

La voce degli Avvocati: 1977-2007

forte che per superarla avevanodovuto uccidere.

Ho letto e sentito raccontare deldolore, della rabbia, della paura,dell’incredulità di quei giorni nelmondo forense perché io continua-vo ancora a rimandare il tempodella laurea e ad occuparmi sempredi più del “movimento di liberazio-ne della donna”, delle conseguenzedrammatiche della Legge Reale,delle nuove leggi speciali in tema diordine pubblico, del progetto per lacosiddetta Legge Reale bis chequanto a eccezionalità e profili diincostituzionalità lascio a voi giudi-care. Continuava ad essere riman-data per l’indisponibilità di oltrecento cittadini estratti, paura o rifiu-to che fosse, anche la costituzionedella giuria popolare e dunque laripresa del processo.

Non era più soltanto un processodi rottura, ma venivano minate lefondamenta della convivenza civilee democratica che, se ressero allaviolenza terroristica ed anche alleinquietanti “infiltrazioni” (studiateper sconfiggerlo?) ed al tentativo dicriminalizzare qualsivoglia opposi-zione, significa che dovevano esse-re ben solide.

Fu così che una sera mi trovaicoinvolta in un’animata discussionesu una frase di Leonardo Sciasciatanto illuminante per comprendereil clima di quei giorni quanto stra-volta da qualcuno nella lettera e nelsuo significato profondo: “Per que-sto Stato non farei il giudice popo-lare. Se fossi estratto a sorte accet-terei per coerenza nei confronti dime stesso e dei valori nei qualicredo”, velenosamente trasformatanella semplificazione né con loStato né con le Brigate Rosse. Ma lapassione che anima talvolta ladiscussione sull’ipotetico, lasciòbruscamente il passo ad altri pensie-ri allorquando una delle quattro per-sone che si erano trovate a discuterequella sera venne estratta davvero.

Ebbe così inizio, forse per caso,un’avventura della vita: molto sof-ferta da Adelaide Aglietta, ma vissu-ta con grande responsabilità, impe-gno e generosità che, per amor di

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la Pazienza 29

so critici verso gli avvocati che locondivisero (la solitudine insiemeal peso della responsabilità è un’al-tra compagna assidua del difensore,ma in quel processo credo davveroparticolare), e a chi ascolti il raccon-to di chi allora era presente, vorreidire che quella esperienza non èaltro da lui e dal suo tempo. Saràanche la sua, in processi menodrammatici, nella quotidianità: ladifficoltà del ruolo dell’avvocatoche può avere un’ottima retorica marischiare di recitare un copione, chepuò ridursi ad una comparsa in unsimulacro di processo, che perprimo può svilire la propria funzio-ne, è qualcosa che riguarda tutti noiin ciascuna difesa, anche in quellad’ufficio di uno sconosciuto clande-stino che mai verserà un soldo (eraforse prevista la parcella per i difen-sori d’ufficio all’epoca di quel pro-cesso?).

Questo non significa che ogniprocesso debba trasformarsi in bat-taglia o richiedere gesti eclatantiperché bisognerà anche sapermediare o contenere il danno perl’assistito, ma la consapevolezzadel nostro ruolo, il rispetto per lanostra indipendenza e la capacità didifendere i diritti anche del“mostro”, valgono in ogni tempo ein ogni luogo. E valgono a maggiorragione in un tempo in cui la crisidel processo è anche crisi dellanostra professione, in cui fattoridiversi come il rischio di delegitti-mazione della magistratura o lacelebrazione dei processi attraversoi mass media finiscono col metterein crisi la nostra identità e dunquerendere il percorso professionaledei giovani più complesso.

So di essere stata privilegiata peraver potuto accostarmi alla profes-sione respirando quell’aria e con iprimi anni di vita professionale nellostudio dove quel documento eranato, in particolare con uno degliavvocati intellettualmente più viva-ci, e più tardi condividendo lo studiocon uno dei quattro interlocutori diquella famosa sera di fine febbraio’78, tra i più appassionati delle operee del pensiero di Leonardo Sciascia.

Da parecchi anni, per un giovanepraticante, la collocazione in unostudio che davvero gli forniscaalmeno alcuni degli strumenti indi-spensabili nella professione appareun miraggio. O mi sbaglio?

Sono certa che state trovandocomunque altre forme di condivi-sione delle prime esperienze di dife-sa. Oggi c’è maggiore attenzioneistituzionale per la formazione del-l’avvocato, l’associazionismoforense fornisce occasioni perscambi di idee e nuove iniziative.

Sull’indipendenza, in certa misu-ra anche dal proprio assistito, var-rebbe la pena soffermarsi tanto piùin tempi in cui il difensore è mag-giormente esposto al rischio di con-tiguità attraverso quel delicato com-pito che sono le indagini difensive,al contatto diretto con la prova a cuinon è giusto sottrarsi, ma che com-porta serie difficoltà nel rapportocon il cliente, se interpretato corret-tamente (le nuove modalità di... par-tecipazione alla prova stanno tra-sformando il ruolo del difensore?).

Un’indipendenza che pone seriinterrogativi in tempi in cui qualcheavvocato indossa per il suo assistitoal lunedì la toga e al martedì i pannidel legislatore (un nuovo ruolo? ouna diversa professione?).Conviene guardare alle tante sceltequotidiane frutto del continuo inter-rogarsi di questo o quel collega,magari lontano dalle luci dellaribalta, che saranno per voi un aiutoprezioso, evitando confusione tral’essere avvocato e apparire, appa-rire, apparire, ...( è la malattia delnostro tempo? e dov’è il confinecon una giusta esigenza di informa-zione nell’interesse dell’avvocato edei possibili assistiti?).

Ad anni di distanza da quel pro-cesso ho avuto un altro grande inse-gnamento: difendere il “mostro” ocomunque colui che è già condan-nato in partenza non deve farci sen-tire né inutili né sconfitti. Voi saretelì innanzitutto per la difesa dei suoidiritti (meno facili da riconoscereper chi non è convinto che proprioin quella garanzia affondi le radici ilsenso stesso della sentenza, altri-

menti esercizio di superbia o meroarbitrio) e non è un paradosso dirviche tanto più ho avvertito l’imputa-to distante culturalmente, politica-mente, per abitudini di vita o per laprobabilità che avesse commesso ilreato contestato, tanto più mi haconsentito di sentirmi davvero indi-pendente e pienamente avvocato.Infatti non ho spesso apprezzatol’uso “politico” che si è fatto di unprocesso, anche da parti diverse,non perché non possa essere validoquando a farlo sia un avvocato peresempio nell’interesse delle particivili, ma perché si rischia di snatu-rarlo e la tentazione di processareun “fenomeno” a scapito dei singoliche devono essere giudicati soltantoper le loro condotte è molto forte.

Nel congedarmi dai miei interlo-cutori immaginari sento qualcunoche a voce alta mi dice: “Comodoparlare dell’essere avvocato, mal’avere è un tabù? Cosa ci sta dandola professione?”. Non è un tabù,neppure in questa circostanza: sobene che siamo tanti e voi giovani,tantissimi. Ma intanto considerateche l’avere dalla professione nonsarà rappresentato solo da ciò che èmonetizzabile e comunque que-st’ultimo aspetto con cui pure biso-gna confrontarsi dipenderà anche dacircostanze esterne (momenti dicrisi economica o di relativo benes-sere, cliente facoltoso o indigenteecc.). L’assistito comprende megliodi quanto si creda quando il nostrointervento è stato prezioso o assaifungibile, con ogni conseguenza sulpiano strettamente retributivo (leeccezioni non mancano!).Proviamo inoltre a domandarci: “Sefossi un imputato, mi scegliereicome avvocato difensore? E per-ché?”. Le risposte ci saranno in ognicaso di grande aiuto!

Prima dell’avere viene comun-que l’essere, non solo nella gerar-chia dell’etica, ma anche in quelladella logica, per questo vi domandodi continuare questo dialogo imma-ginario: diteci qualcosa della togache portate sulle spalle e che vi saràcompagna di vita!

Elena Negri

La voce degli Avvocati: 1977-2007

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30la Pazienza

Signor Sindaco, Autorità civili, reli-giose, Magistrati, Colleghi carissi-

mi, Cittadini di Castelnuovo Nigra.Il 29 settembre 1988 l’avv. Franzo

Grande Stevens, al convegno sul tema“Il processo alle Brigate Rosse e l’as-sassinio dell’avv. Fulvio Croce, a dieciani dalla sua morte” concludeva il suointervento con queste parole:

“Quel che invece di mortale era inlui giace sotto una pietra nel lindo cimi-tero di Castelnuovo Nigra”.

Oggi a venticinque anni da quel tra-gico 28 aprile 1977 siamo tutti venutiqui a deporre la nostra corona di allorosulla sua pietra sepolcrale nel lindocimitero di Castelnuovo a ricordarlo,senza soluzione di continuità, nelPalazzo Comunale che lo videCittadino e Pubblico Amministratore.Siamo qui nella sua bella terra canave-sana che anche a Torino, tra Via Corted’Appello e Via Perrone, Fulvio Croceaveva sempre nel cuore.

Di questo essere noi qui oggi, voglioringraziare innanzitutto l’Ammini-stratore Comunale e i cittadini diCastelnuovo Nigra.

Fulvio Croce: l’Uomo, l’Ammi-nistratore pubblico, l’Avvocato. Contratti efficaci e con ricordi affettuosi eriverenti ne ha dato una immagine ilSindaco di questo Comune, MatteoSergio Bracco. Fulvio Croce,Avvocato, uomo di legge, Presidentedell’Ordine degli Avvocati di Torino,sono soltanto diversi aspetti di FulvioCroce Pubblico Amministratore: untutt’uno ricco della sua umanità sempli-ce e schietta, anche se schiva, da lealepiemontese.

“Fu civilista illustre e ancor piùgran galantuomo”. Così scrisse nel

necrologio l’avv. Giovanni Avonto.Figlio del medico condotto di questo

paese, frequentò la facoltà diGiurisprudenza a Torino, una facoltàche vantava maestri che hanno lasciatoun segno per il loro alto ingegno e dirit-tura morale: Ruffini, Solari, Einaudi.

Conseguita la laurea entrò primanello studio Simondetti. Succes-sivamente “mettendosi”, come solevadirsi, “in proprio”, ebbe a rivelarsi civi-lista attento, tenace, puntiglioso e parti-colarmente fermo nella intransigentedifesa del suo assistito.

Lungo nel tempo e forte nei senti-menti ci piace ricordare il suo sodalizioamicale con l’avv. Giovanni Avonto,penalista colto, elegante, forbito nelporgere e nell’oratoria forense.

Li legava fra l’altro la comune pas-sione per la musica, ed in particolareper quella verdiana.

Figura eminente del Foro torinese,misurato, sobrio, acuto, ricco di unaarguzia che faceva parte del suo caratte-re, Fulvio Croce assume nel 1968 laPresidenza del Consiglio dell’Ordinedegli Avvocati e Procuratori di Torino.Rieletto nei bienni successivi con largoconsenso di stima e apprezzamento, fuPresidente, burbero, ma paterno, fermonella difesa dei principi deontologici eprofessionali.

Da tutti era sentito come un punto diriferimento, di equilibrio, di modera-zione, di garanzia. Per il giovane procu-ratore che si avviava in questo nostromondo, qualche volta difficile, spessopieno di ansie e di preoccupazioni, cosìcome per l’avvocato maturo e afferma-to, il nostro Presidente trovava sempreun consiglio responsabile, attento, noncondizionato, libero.

“Trascinatore e animatore”, stascritto nelle sue note caratteristiche damilitare. Trascinatore e animatore fuanche quale Presidente: nel campodella previdenza forense che vide comeessenziale all’Avvocatura; nei proto-colli d’intesa per scambi di giovani pro-curatori fra Parigi e Torino. Egli volle epotenziò la Unione Regionale deiConsigli dell’Ordine del Piemonte edella Valle d’Aosta, consapevole cheuna comune cultura ordinista nell’am-bito del Distretto avrebbe costituito unrafforzamento del ruolo istituzionaledegli Ordini dei quali si sentiva garanteper prestigio e funzioni.

Possiamo dire che l’avv. FulvioCroce come Presidente dell’Ordinetorinese sentì alto il ruolo di rappresen-tante dell’Avvocatura, una Avvocaturache ideologicamente oggi si proponecome “soggetto di giurisdizione”.

Una società civile non può prescin-dere dal riconoscimento della legalitàcome valore. La giurisdizione deveessere intesa come tutela della legalitàesistente e della legalità irrealizzata.

Ma i confini della giurisdizione sonocostituiti dal rigoroso controllo delleregole e delle garanzie all’interno dellostrumento processuale.

La cultura delle garanzie rimanel’insostituibile punto di riferimento diogni politica giudiziaria, senza tenta-zioni sostanzialistiche.

Legalità - Giurisdizione - Garanzie:il senso dello Stato di diritto, la culturadel processo e delle garanzie sono prin-cipi che si intrecciano con la vita e conla morte di Fulvio Croce, in una paginadi storia, in un capitolo della nostra sto-ria repubblicana segnata da un attaccosenza uguali e senza precedenti allo

FULVIO CROCE:CERIMONIA COMMEMORATIVA A VENTICINQUE ANNI DALLA SUA MORTECASTELNUOVO NIGRA, 28 APRILE 2002

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la Pazienza 31La voce degli Avvocati: 1977-2007

Stato e alla convivenza democratica.Un attacco segnato da una lunga, tragi-ca, dolorosa scia di sangue.

Caddero in molti, ma lo Stato resseanche in virtù di chi cadde a difesa deiprincipi istituzionali e per senso deldovere.

Era il 1976.Il 17 maggio 1976, inizia avanti alla

Corte di Assise di Torino il processocontro i “capi storici” delle BrigateRosse, imputati di costituzione dibanda armata. In apertura di dibatti-mento gli imputati, nella logica di unprocesso di rottura, contestando lalegittimità della Corte a giudicare,revocano il mandato ai loro difensori difiducia. Con la scelta di un processoc.d. di rottura, rifiutando il processostesso si negava l’Istituzione.

Contestati dagli imputati i difensoridi fiducia ed esonerati i primi difensorid’ufficio, il 22 maggio 1976 la Corted’Assise di Torino nominava difensoreil Presidente del Consiglio dell’OrdineAvvocati e Procuratori di Torino l’av-vocato Fulvio Croce. E questo ai sensidell’art. 130 c.p.p., articolo che, sul pre-supposto della obbligatorietà della dife-sa tecnica del giudicabile, con la previ-sione (come norma di chiusura) chevenga nominato come difensore d’uffi-cio il Presidente del Consigliodell’Ordine, stabilisce necessaria ai finidella garanzia del contraddittorio, lapresenza del “Difensore” nel processo.

L’avv. Fulvio Croce, in conformitàalla legge, per decisione del Consigliodi cui è Presidente, delega i seguentiotto nuovi avvocati difensori, tutti com-ponenti dello stesso Consiglio: 1) PierAngelo Accattino, 2) Massimo Asti, 3)Bruno Bonazzi, 4) Gian Vittorio Gabri,5) Franzo Grande Stevens, 6) FrancoPastore, 7) Ettore Sisto, 8) DomenicoSorrentino.

Quel Consiglio era composto dagliavvocati: Fulvio Croce (Presidente),Piero Fioretta (Segretario), FrancescoCipolla (Tesoriere), Pier AngeloAccattino, Cesare Amerio, MassimoAsti, Bruno Bonazzi, Giorgio DelGrosso, Gian Vittorio Gabri, FranzoGrande Stevens, Roberto Manni,Massimo Ottolenghi, Franco Pastore,Ettore Sisto, Domenico Sorrentino(Consiglieri).

I nuovi difensori d’ufficio, nuova-mente rifiutati dagli imputati (rifiutoche si manifestava anche con minaccedi morte) preannunciano all’udienzadel 7 giugno 1976, l’eccezione di ille-

gittimità costituzionale delle norme cheprevedono sempre e in ogni caso l’ob-bligatorietà dell’assistenza “tecnica”dell’imputato nel dibattimento.

L’8 giugno 1976 viene ucciso aGenova il Procuratore GeneraleFrancesco Coco. Le Brigate Rosserivendicano la paternità dell’omicidio.

Il 9 giugno 1976 dai difensori d’uffi-cio, e per tutti dall’avv. Grande Stevens,viene presentata alla Corte di Assise diTorino Presidente Guido Barbaro,Giudice a latere Giovanni Mitola lapreannunciata eccezione di illegittimitàcostituzionale.

Mentre gli imputati ribadiscono leminacce di morte nei confronti deiGiudici e degli Avvocati i quali, adavviso dei giudicabili, nel difendere gliimputati contro la loro volontà nonfarebbero che garantire l’apparentelegittimazione dello Stato e della Corte,la Corte di Assise di Torino respingel’eccezione.

Il processo viene rinviato a nuovoruolo.

Il 28 aprile 1977 verso le ore 15.00l’avv. Fulvio Croce cade barbaramenteucciso dalle Brigate Rosse nell’andronedel suo studio. Aveva 76 anni.

Ricordo ancora la notizia che perso-nalmente ebbe a portare allo studio del-l’avv. Romagnoli, l’avv. Sorrentino.Ricordo il nostro correre insieme, sgo-menti, in Via Perrone 5, in quel portonedove la tragedia si era consumata.

L’avv. Fulvio Croce aveva riferitonei giorni precedenti a colleghi e consi-glieri a lui vicini di aver notato gentesospetta nei pressi della sua abitazionee di sentirsi seguito. Non aveva avverti-to gli organi di Polizia. Senza retorica econ sereno senso civico si accingevaseveramente a portare a compimentol’incarico affidatogli. Venne ucciso per-ché, quale Presidente del Consiglio eglirappresentava il destinatario naturaledella norma prevista all’art. 130 c.p.p.,a garanzia dell’Ordinamento.

La Repubblica deve anche a lui lasua fermezza. L’Avvocatura a lui deveil senso di una etica responsabile.

Il 3 maggio 1977 per la constatataimpossibilità di formare la giuria popo-lare, la Corte di Assise di Torino rinvia-va il processo a nuovo ruolo mentre leBrigate Rosse intensificavano le loroattività terroristiche. Assume nel frat-tempo la Presidenza dell’Ordine confermezza e alto senso di responsabilitàl’avv. Gian Vittorio Gabri.

Il processo sarà celebrato soltanto

nella primavera del 1978, nella casermaLa Marmora di Torino, nonostante dueattacchi con missili esplosivi da partedelle Brigate Rosse alle Forzedell’Ordine che presidiavano la caserma.

Nell’aula della Corte d’Assise diTorino (Presidente Guido Barbaro, alatere Giovanni Mitola, PubblicoMinistero Luigi Moschella), il momen-to giurisdizionale e la stessa istituzionegiudiziaria diventano la centralità deldibattito politico che impegna il Paese.

Restano al loro posto i nuoviAvvocati difensori d’ufficio. Mi correl’obbligo ricordarne i nomi: AldoAlbanese, Giovanni Avonto, LuigiBalestra, Gianfranco Bonati, VittorioChiusano, Geo Dal Fiume, ValerioDurante, Antonio Foti, Gian VittorioGabri, Fulvio Gianaria, FrancescoGilardoni, Bianca Guidetti Serra, MariaMagnani Noya, Graziano Masselli,Carlo Umberto Minni, Alberto Mittone,Vittorio Negro, Emilio Papa, ElenaSperanza, Gian Paolo Zancan.

Si pose immediato il problema: ildifensore imposto difende l’imputato oil processo? Quale il suo ruolo?

Nella memoria 17/6/1978 redatta, inuna lunga tormentata notte, nello studiodell’avv. Vittorio Chiusano, una memo-ria firmata da tutti i venti difensori diufficio e letta dall’avv. Gian VittorioGabri, Presidente dell’Ordine, primache la Corte d’Assise entrasse inCamera di Consiglio, gli Avvocatirinunciavano alle loro arringhe rimet-tendosi, per quanto riguardava le con-clusioni, alla volontà degli imputati.Logicamente e deontologicamente cor-retta la risposta al problema difensivosorto nel processo attraverso il compor-tamento degli imputati, era di garantirela loro identità politica.

Il processo c.d. di rottura che conte-stava la stessa legittimità del processonon consentiva alcuna mediazione pro-cessuale.

Per non ridurre il ruolo di difensoredi ufficio a una pura finzione l’unicasoluzione era quella di sostenere la tesidell’auto difesa.

Alessandro Galante Garrone in unsuo articolo su La Stampa del18/8/1976 affermò che “il rispetto for-male del rito può divenire anche unacopertura ipocrita”.

Si sostenne che il diritto di difesanon può essere un obbligo.

Gli avvocati difensori d’ufficio conla loro scelta riscattavano e ribadivanoil loro ruolo, autonomo e indipendente,

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rispetto a quello degli imputati e tutela-vano il loro diritto di esprimere le pro-prie ragioni di difesa. Ciò anche inconformità all’art. 6 lett. c dellaConvenzione Europea dei Diritti del-l’uomo che espressamente attribuisceall’imputato il diritto “di difendersi dasé o di avere l’assistenza di un difenso-re” statuendo pertanto una libera sceltaalternativa.

A seguito della decisione della Corted’Assise di respingere le tre eccezionidi illegittimità costituzionale, i difenso-ri prendendo atto della reiezione rima-sero al loro posto assumendo il ruolo di“garanti del rito”. E ciò al solo fine digarantire la correttezza processuale.Garanti dunque del rito e non del meri-to delle tesi difensive che proprio dellanegazione del processo facevano la loroscelta ideologica.

Lo Stato, negato dagli imputati, siriaffermava come Stato di diritto primaancora che nella decisione dei Giudiciproprio nella riaffermazione del ruolodella difesa “consapevolmente mortifi-cata”, come si legge nella memoria, nelrispetto della libertà di scelta degliimputati dando così una significativainterpretazione di garanzia sostanzialee di libertà allo stesso Ordinamento.

Con la sentenza 10/10/1979 n. 125 laCorte Costituzionale, innovando in parteil proprio precedente orientamento,nello spirito di una distinzione tra difesacome diritto e difesa come garanzia,confermando l’inviolabilità del princi-pio stabilito dall’art. 24 Cost., affermava

che il difensore d’ufficio deve esserepresente al processo: speculare allainviolabilità del diritto di difesa era per-tanto la sua irrinunciabilità.

Nella storia del processo si dovràscrivere che l’uccisione di FulvioCroce, perché Avvocato e ancor piùperché Presidente dell’Ordine, ha esal-tato il ruolo e la funzione del Difensorenella sua autonomia e indipendenza edell’Ordine come garante dell’Ordi-namento.

Quale oggi il significato della morte,dell’uccisione dell’avv. Fulvio Croce,del Presidente del Consigliodell’Ordine di Torino Fulvio Croce.

Il ruolo dell’Avvocatura è quello fral’altro di garantire l’Ordinamento.L’attività di difesa deve essere esercitatanel rispetto della fedeltà all’Ordinamento.Senza la difesa, senza la presenza delladifesa, non si attua l’Ordinamento chetrova origini, giustificazione storica,legittimità politica in quel patto-socialeche è il cardine di ogni moderna demo-crazia e di uno Stato di diritto.

La legislazione privata dalla ragiondi Stato può trovare la fonte della sualegittimazione solo nella comunità innome e nell’interesse della quale loStato agisce.

Per garantire l’Ordinamento e la suaattuazione, per dar vita allo svolgersiattraverso la Giurisdizione di uno deimomenti più alti dello Stato di Diritto,l’Avvocato deve rispettare i propridoveri che impongono piena autonomiae indipendenza nelle scelte difensive,

evitando di assecondare intenti mera-mente distorsivi anche del suo assistito.

Questo è scritto oggi nel nostroCodice deontologico: all’art. 6 si pro-clama il dovere per l’Avvocato di svol-gere la propria attività professionalecon lealtà e correttezza; all’art. 10 siproclama il dovere per l’Avvocato diconservare la propria indipendenza e didifendere la propria libertà da pressionio condizionamenti esterni; all’art. 36 siimpone all’Avvocato di difendere laparte assistita nel miglior modo possi-bile, ma nei limiti del mandato e nel-l’osservanza della legge e dei principideontologici.

Proprio dalla testimonianza resa dalsacrificio di Fulvio Croce discendecome valore irrinunciabile la indipen-denza dell’Avvocato, non solo da ognicondizionamento esterno, ma anche daogni condizionamento che possa prove-nire dall’interno dello stesso rapportodi mandato.

L’indipendenza va intesa non solocome diritto ma anche e soprattuttocome dovere.

Del ruolo, della indipendenza, dellalibertà dell’Avvocato è garantel’Ordine forense, custode di quellacomponente etica che è connotazioneprimaria di una professionalità respon-sabile.

Per tutto questo fu ucciso ilPresidente dell’Ordine avv. FulvioCroce: la lealtà nei confronti dell’Or-dinamento, l’indipendenza e l’autono-mia nell’esercizio professionale costi-tuiscono il suo testamento spirituale.

A venticinque anni dalla sua morte,un quarto di secolo, un tempo lontanoma a noi tutti così emotivamente vici-no, in questi giorni di ritorno alla barba-rie omicida, così drammaticamente pre-sente, noi oggi onorando Fulvio Croce,rileggiamo la lapide che ne ricorda ilsacrificio. È una lapide che è stata postanell’Aula Magna del Nuovo Palazzo diGiustizia. Essa porta il suo nome. Sullalapide è scolpita una frase che racchiu-de il significato di una vita e di unamorte. È una frase che ricorda a noi tuttiil senso del nostro essere Avvocati,all’Ordine il suo ruolo istituzionale.

“Avvocato Fulvio Croce, Presidentedell’Ordine Avvocati e Procuratori diTorino dal 1968 al 1977. Medagliad’oro al valor civile. Nelle battaglie delForo assertore fermo della Giustizia.Perché questa riprendesse pacificoimperio affrontò consapevole morte”.

Antonio Rossomando

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33la Pazienza

Alla vigilia del compimento dei mieiprimi cinquant’anni di professione

di avvocato, che mi paiono invero rag-grumati in un tempo ben inferiore per larapidità con cui sono trascorsi, il mioPresidente mi ha invitato ad una pausadi riflessione e di ricordo per tratteggia-re i cambiamenti che ho vissuto nellaprofessione in questo periodo ed io miaccingo a proporvi il risultato.

Nel ricordo ci sono due insidie: laprima è l’inevitabile tentazione di coc-colare il passato, che gli occhi cataratti-ci di oggi diluiscono in un nostalgicorimpianto, la seconda che il giudizio siacondizionato dalla personale interpre-tazione dei fatti e degli accadimenti, insostanza del vissuto attraverso il filtrodella propria sensibilità.

Come eravamo noi giovani avvocatiallora e come ci appariva la professionea cui ci eravamo avvicinati?

Dirò che il mio ricordo di quegli anniè di serenità, anche allegra: l’ingressonell’ambiente, a me facilitato dalla pre-senza attiva di mio padre, anche se condiversa specializzazione, era statomolto stimolante.

Alcuni tratti di comportamento misono rimasti scolpiti dentro: un granrispetto da parte dei giovani verso gliavvocati più anziani – e lo erano tuttiper noi – che si traduceva, anche nelcontatto quotidiano, in una deferenzapiù che in una solidale fraternità.

Quanti avvocati consentivano, a noiappena arrivati, il “tu” nell’incontro inTribunale?

Pensate che a molti avvocati io nonmi sono mai in tutta la vita, rivolto conil tu, né ero stato invitato a farlo.

Ma evidentemente non voglio parla-re di un fatto puramente comportamen-tale, che invece copriva una sostanzialeconfidenza: no, no, era proprio una sot-tolineatura di superiorità e di distaccovoluti.

Eravamo in pochi, in una società piùsemplice, che usciva dai disastri dellaguerra e si avviava al “miracolo econo-mico”, non vi erano grandi divertimen-ti a disposizione, gli studi erano aperti

sei giorni alla settimana, anche se devodire che, a mio parere, non si lavoravadi più: i ritmi erano più lenti, le pausepiù lunghe, gli appuntamenti con le tra-dizioni – pranzo e cena – ineludibili.

Ogni processo occupava, per la pre-parazione, ritengo un tempo almeno tri-plo rispetto all’odierno e anche gli stru-menti a disposizione per la cultura delcaso comportavano un impegno nonindifferente: se dovevi cercare le sen-tenze, dovevi procedere all’esame delleriviste, e poi, trovato un precedente,dovevi copiartelo manualmente, e lemotivazioni erano eterne ... e le copiedei processi andavi ad esaminarle incancelleria, con annotazione dei trattiessenziali e qualche copia a macchina.Non c’erano ancora le fotocopiatrici!

L’esiguo numero dei “nuovi” favo-riva la amicizia: eravamo uniti in unasolidarietà di scalata portata avanti conmolta attenzione a che nessun fram-mento di roccia potesse colpire o sfio-rare alpinisti più esperti che salivanocon noi.

E se qualche volta riuscivamo atagliare per primi la vetta eravamofelici.

Molti di noi non avevano l’auto:ricordo le “trasfertine” nelle preturevicine magari su corriere o su treniniche si trasformavano però in momentidi allegria e di amicizia.

Noi siamo stati gli ultimi avvocatiche hanno colto i bagliori finali di unaeloquenza ottocentesca retorica e ima-ginifica di grandi colleghi del nostro edi altri fori che, ovviamente in Corte diAssise, appassionavano per giorni lagiuria ed il pubblico.

Ma ormai l’eloquenza forense anda-va verso il rigore ed il sillogismo, versol’impostazione tecnica, senza molticedimenti alle emozioni: a mio parereanche per il moltiplicarsi dei reati diparte speciale che esigono un tecnici-smo giuridico a volte esasperato, sì chepareva difficile strappare lacrime quan-do si parla di una evasione dell’Iva!

Anche con i magistrati il rapportoera generalmente cordiale: non c’era

antagonismo di fondo su temi impor-tanti o insofferenza come purtroppoaffiorerà più tardi; ricordo la confiden-za di un presidente di sezione diTribunale, che mi diceva che per lui ilmomento più bello del processo era l’i-nizio della discussione da parte deidifensori, che ammirava, tutti, per lagenialità ed anche per l’ardire di certeproposizioni.

La pretura era allora la nostra pale-stra, con pochissimi magistrati, con l’u-dienza pomeridiana che vedeva discus-sioni feroci per i reati di adulterio, pre-tura che quando si ampliò e si trasferì disede, fu veramente una fucina di idee diiniziative in tanti campi – ricordo adesempio, quello della prevenzionedegli infortuni e dell’inquinamento –con un rapporto tra magistrati e avvoca-ti che suscita in me molta nostalgia.

L’esiguità del numero, non solo deinuovi ma degli avvocati iscritti, facili-tava e garantiva il controllo sotto il pro-filo deontologico: non c’erano scuole dideontologia, non era materia di esame,non c’erano codici, perché ogni com-portamento era governato alla leggeistitutiva eppure la tradizione orale deiprincipi da parte dei nostri maestri e loscambio tra noi giovani di informazionie problematiche era efficacissimo ecredo davvero che Torino fosse un forotra i più seri e corretti d’Italia.

Certo, le difficoltà c’erano, c’eraprima il problema dell’esame con iltremendo presidente dell’ordine cheincuteva terrore e limitava l’iscrizionealla prova a Torino – eravamo in venti-sette agli scritti nel mio anno! – poic’era l’ansia per l’acquisizione dellaclientela che attratta da nomi più alti-sonanti, stentava ad uscire da un cir-cuito ben presidiato, poi c’erano le...amnistie che svuotavano gli studi,c’era il momento del morso emoziona-le che ci aggrediva ogni volta che ini-ziavamo una difesa, le sconfitte che ciparevano talora un segnale che sisarebbe moltiplicato in un’eco infinitaper noi devastante.

Il cambiamento – e se ho dato l’idea

C’ERA UNA VOLTA...

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la Pazienza34

di un periodo di eccessiva serenità, ciòcorrisponde alle mie sensazioni d’allo-ra – evidentemente progressivo, ebbe amio parere, un momento di tragicaaccelerazione quando fu assassinatol’Avv. Croce, episodio non isolato di unperiodo buio del nostro paese.

Fu un momento di grandissima crisi(per me, in particolare, che ero statogiovane consigliere dell’Ordine sotto lasua presidenza fu un dolore profondo)per l’avvocatura, che reagì con grandis-sima dignità, ma anche con dubbi e tor-menti all’interno.

Grandissima dignità e coraggiomostrati dai colleghi che con rischieffettivi di essere colpiti nella persona,prestarono la loro opera come difensoridi ufficio al processo delle BrigateRosse, ma tanti ripensamenti anche sulruolo e sulla funzione dell’avvocato.

Fu la Corte Costituzionale a definirecome indispensabile la difesa nel pro-cesso, quando si prospettava la possibi-lità della rinuncia da parte dell’imputa-to alla presenza del difensore volendoricorrere all’autodifesa.

La società in cui vivevamo era pur-troppo costellata di morti: e si uscì daquella situazione a grande fatica.

Cambiò il modo di pensare e di ope-rare: “Quel pomeriggio del 28 aprile1977”, come è intitolato non a caso ilprimo scritto comparso sul numero d’e-sordio della nostra rivista la Pazienzadel luglio 1983, non solo ci privò delPresidente ma anche della stabilità inte-riore di tutta la categoria: da alloramomenti anche di contrasto e scontrointerni ci furono su tanti temi, che un

tempo non avevano meritato momentidi meditazione o che erano sorti per lemutate condizioni in cui si operava.

La deontologia venne inquadrata incodici e norme, anche per rispondereall’esigenza della tassatività nel caso dicontestazioni disciplinari: è divenutamateria di esame eppure le violazioni simoltiplicano, penso evidentementeanche per una nostra incapacità di tra-smettere ai giovani i principi che noiavevamo sempre vissuto.

Dico per esperienza personale che lapiù parte dei candidati all’esame daavvocato ha una preparazione estrema-mente incompleta e sommaria dei prin-cipi deontologici.

D’altra parte l’avvocato, come qua-lunque altro individuo, partecipa allasocietà del suo momento e se questaoffre una sempre più accentuata pro-pensione alla poca osservanza delleregole in generale e di quelle etiche inparticolare la diffusione delle norme dideterminati comportamenti è più diffi-cile.

Il rapporto con i magistrati è cambia-to non ovviamente perché a livellolocale, ci si faccia la guerra, ma perchéi tanti episodi degli ultimi anni di cui viè stato largo eco nel Paese hanno porta-to alla contrapposizione delle categorie.

Ora la riforma dell’ordinamento giu-diziario, con antitetiche soluzioni pro-spettate, sta facendo il resto: chi non ècon me...

All’esterno abbiamo perso credibi-lità, tanto che un recente sondaggio,riferito dai giornali, pone la categoriadegli avvocati tra quelle che gode ilminor credito da parte dei clienti;

abbiamo condotto battaglie giuste perle garanzie processuali con strumentisecondo me sbagliati (il continuo ricor-so alle astensioni con una mancanza diinformazione che ha portato a qualifi-care le nostre iniziative per lo più, fina-lizzate solo ai benefici economici dellacategoria).

Il nuovo codice processuale ha poidiluito le modalità dei nostri incontri eci vediamo meno, il numero è tale chela semplice conoscenza, non la fre-quentazione, è già un’impresa difficile,tutto si deve fare in fretta, anche le dife-se, non c’è più colloquio che è scambioessenziale di esperienze e di problemi.

Il numero è diventato il nostro incu-bo: il numero degli iscritti, il numerodelle cause, il numero di Magistrati, ilnumero delle risorse, intese come entitàcomplessiva.

E allora... è tutto diverso da quandoho mosso i primi passi, perché diverso èil modo di vivere, le aspettative, l’ariache respiriamo, le emozioni che provia-mo, il condizionamento che subiamo,non solo perché la professione di avvo-cato è cambiata, ma perché sono cam-biati i protagonisti, oggi si consente lapubblicità, quando un tempo si ritenevanon confacente alla dignità della pro-fessione l’inserimento in grassetto del-l’indirizzo professionale sulla guidatelefonica!

Dire che era meglio prima è negare ilvantaggio del progresso, dire che forsela trasformazione ha travolto anchequalche principio essenziale è ricono-scere la necessità di guardarci dentro edi cavare da questa indagine qualcheriflessione sull’immutabilità dei princi-pi e sulla necessità di trovare modellivalidi.

La rigenerazione morale è certamen-te difficile, ma è la sola che possa porta-re ad un risultato: solo ritornando arigorosi principi etici, che i giovanidevono vedere anzitutto vissuti dai piùanziani, nel quotidiano, possiamo spe-rare di riproporci all’esercizio dellanostra funzione, indispensabile nelladifesa dei diritti dei cittadini.

E dico soprattutto ai giovani di nonaver paura di chiedere, di interpellare icolleghi più anziani su ogni dubbio dicomportamento, di sfruttare il patrimo-nio di chi ha percorso un tratto piùlungo di strada professionale perché ladisponibilità di tutti è il primo collanteper la coesione della categoria.

E la battaglia sia combattuta senzasosta e senza defezioni.

Marcello Tardy

La voce degli Avvocati: 1977-2007

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35la Pazienza

Come hanno ricordato gliavvocati torinesi il Presidente

del loro Consiglio dell’Ordine,assassinato il 28 aprile 1977?

Con la tenacia dell’affetto e lasolidarietà della memoria; conbusti, targhe e convegni succe-dutisi in questi trent’anni; maanche con due enti a lui dedicatie che sono preziosi e cari per ilnostro Foro.

1. L’Associazione Fulvio Croce

All’inizio degli Anni ’80 dueavvocati di Torino, fra loro uniti inmatrimonio, decedettero prematu-ramente. Lasciarono tre figliminori in una situazione economi-ca precaria. Alcuni colleghi tori-nesi si consorziarono per prestareloro un aiuto e fu raccolta così unasomma sufficiente a consentireche i ragazzi portassero a termineil loro corso di studio.

Una volta di più, in quell’occa-sione si riscontrò l’esigenza che

venisse costituita un’associazio-ne, retta dai contributi dei colle-ghi, capace di venire incontro allenecessità degli avvocati e dei lorofamiliari, quando essi fosserovenuti a trovarsi in precarie situa-zioni economiche. Il Consiglio,allora diretto dall’avvocato GianVittorio Gabri, raccolse subito lasollecitazione e il 28 aprile 1980venne costituita l’AssociazioneAvvocati e Procuratori FulvioCroce, con sede presso il

LE ISTITUZIONI TORINESI DEDICATE A FULVIO CROCE

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la Pazienza36

Consiglio dell’Ordine torinese.Eccone lo scopo: “studiare leragioni per cui avvocati e procu-ratori si trovano con sempre mag-giore frequenza in difficoltà perprocurare a sé o ai propri fami-gliari adeguati mezzi di sussisten-za; ricercare le vie attraverso cuisia possibile eliminare nel modopiù opportuno tali difficoltà, cosìda prevenire l’insorgere di parti-colari situazioni di bisogno; diandare incontro, quando talisituazioni vengano comunque averificarsi, alle necessità econo-miche di colleghi del Foro diTorino, delle loro vedove e dei loroorfani”.

Dell’Associazione fanno partedi diritto tutti i componenti protempore del Consiglio dell’Ordinetorinese, cui, nella gestione, siaffiancano cinque soci scelti fragli iscritti all’Ordine.

Con i contributi via via gene-rosamente offerti da quanti diessa si sono ricordati,l’Associazione ha svolto in oltre25 anni di vita un’attività merito-ria, sempre con la massimadiscrezione e sollecitudine, per“andare incontro” (come dice lostatuto) a particolari critichesituazioni soggettive di difficoltàin cui si sono venuti a trovarealcuni nostri colleghi o i loro piùstretti familiari. Oggi più che mai(riprendendo l’invito cheRomana Vigliani fece nel primonumero de la Pazienza, uscitonel luglio 1983) è dunque oppor-tuno ricordarne l’esistenza aquanti vogliano e possano contri-buire a suo favore, nominativa-mente o in forma anonima, conproprie elargizioni o sussidi.

2. La Fondazione dell’Avvo-catura torinese Fulvio Croce

Nel numero 73 de la Pazienza,nel marzo 2003, Mario Napolidiede notizia che il Consigliodell’Ordine torinese, con delibera-zione del 22 luglio 2002, aveva

promosso la costituzione di unafondazione “per provvedere conessa, fuori dagli stretti ambientiistituzionali propri dell’Ordine, aquelle iniziative culturali, diaggiornamento, ricreative edaggreganti oggi richieste”. IlConsiglio istituì in quell’occasio-ne una commissione formata dacinque colleghi per avviare unnegoziato finalizzato all’acquistodi una sede al piano nobile diPalazzo Capris di Cigliè, in ViaSanta Maria n. 1, che un’impresaedile torinese aveva comperato esi apprestava a ristrutturare.

La Commissione operò, nego-ziò, valutò i lavori da compiersie propose al Consiglio quantoritenne consigliabile per la pre-disposizione dei locali e per illoro acquisto. Il 17 dicembre2002 il Presidente del Consigliodell’Ordine, avv. AntonioRossomando, sottoscrisse il con-tratto preliminare. I locali ven-nero poi, in sede d’atto notarile,acquistati da una società immo-biliare controllata dal Consiglio.Il 20 settembre 2004 vennesolennemente costituita laFondazione, e l’avv. MarioNapoli ne venne nominatoPresidente: circa trecento colle-ghi ed enti ne figurano iFondatori. Il 28 settembre 2005 ilocali sono stati inaugurati conuna grande festa dell’Avvo-catura torinese. Alla Fondazionesono stati dati in utilizzo i localisapientemente ristrutturati e rin-novati, con i vari mobili di arre-do che si sono andati via viaaggiungendo e che spesso sonostati donati dalla generosità deinostri colleghi. Non descriviamoil palazzo e gli arredi particolari:ciascuno di noi li conosce e chiancora non vi abbia fatto visitapotrà farlo in qualsiasi momen-to. I locali sono aperti agli avvo-cati che, tutti, vi sono benvenuti.

L’attività della Fondazione èpartita con forte slancio propulsi-vo e tutt’oggi, avvicendatosi il

Presidente (all’avv. Napoli èsubentrato l’avv. Pier LuigiAmerio), essa continua a prepa-rarci, settimana per settimana,grazie alla capacità ed abnegazio-ne del suo Consiglio Direttivo,intrattenimenti e manifestazioniculturali.

Anche noi, quindi, abbiamoora una nostra bella casa nel cen-tro storico di Torino. Accantoalla sede istituzionale di lavoro edi rappresentanza dellaFondazione, v’è un ampio saloneutilizzabile ed utilizzato per unristorante di qualità destinatoagli utenti di quei locali, cioè atutti gli appartenenti al mondoforense. E la Fondazione, a suavolta, favorisce le riunioni e gliinterventi dell’associazionismotorinese e piemontese nel nostrosettore.

Riprendo le parole spese daMario Napoli quattro anni fa:“Nella sede della Fondazione, nelfascino garbato di parquets, cami-ni, affreschi e specchiere antichepotremo invitare a pranzo un col-lega che viene da fuori; potremotenere riunioni riservate, arbitra-ti; potremo assistere a dibattiti,conferenze, concerti; potremoincontrare i nostri vecchi Maestriche approfitteranno dei locali perleggersi il giornale o un bel librodella nostra biblioteca; potremotrovare le Associazioni forensi riu-nite; potremo incontrarci, miglio-rare i nostri rapporti non solo pro-fessionali, sentirci più uniti e soli-dali in una professione difficile esevera, ma bella come forse nes-suna”.

Il futuro, cari amici, è divenutoil presente. La lungimiranza delnostro Consiglio dell’Ordine el’entusiasmo del ConsiglioDirettivo della Fondazione hannotramutato rapidamente l’auspicioin realtà. A noi, dunque, fruirebene di ciò che bene è ormai pernoi predisposto.

Marco Weigmann

La voce degli Avvocati: 1977-2007

Page 33: Marzo 2007 N° 94

37la Pazienza

Costituita a Torino il 20 marzo 1985,l’Associazione Italiana Vittime del

terrorismo e dell’eversione contro l’or-dinamento costituzionale dello Stato hala finalità di promuovere il riconosci-mento e quindi di tutelare i diritti, le esi-genze e le aspettative delle vittime o deifamiliari superstiti, oltreché di custodi-re la memoria storica degli eventi cheappartengono alla comunità.

Appena fondata l’Associazione,sembrava interesse di molti che le vitti-me restassero monadi isolate, che noncomunicassero tra loro notizie, dubbi orivendicazioni di sorta. Insomma chenon avessero voce. Che vivessero nelsilenzio e nella solitudine il loro dram-ma, senza infastidire il prossimo con leloro richieste di diritti negati, a comin-ciare da quello alla verità.

Invece l’Associazione, che contaoggi circa duecento iscritti e che videtra i fondatori – oltre a Berardi, lavedova Casalegno, Cocozzello,Ferrero, Deorsola, Notaristefano,Palmieri, Picco e Puddu – ancheSevera Marone, vedova dell’avv.Fulvio Croce, richiamando costante-mente il valore del sacrificio compiutoda cittadini e servitori dello Stato perdifendere la libertà e l’ordinamentodemocratico, ha in oltre vent’anni pro-mosso diverse iniziative di approfon-dimento e di ricordo. Docenti universi-tari, magistrati, rappresentanti delleistituzioni e intellettuali hanno testi-moniato la loro attenzione esprimendoun prezioso contributo di idee e con-sensi e partecipando ai numerosidibattiti organizzati dall’Asso-ciazione. Basti ricordare che è statastampata, tra l’altro, la serie di inter-venti del convegno “Le ragioni e idiritti delle vittime” ed è stata allestita– va ricordato – una mostra di docu-mentazione in 20 pannelli denominata“Per non dimenticare” e che una ricer-ca voluta dall’Associazione e dalConsiglio Regionale del Piemonte haprodotto un volume di oltre 300 pagine

intitolato “Il Piemonte e Torino allaprova del terrorismo”.

L’attività dell’Associazione ha inol-tre determinato una continua opera disensibilizzazione e di collaborazionecon gli organi istituzionali che ha porta-to all’approvazione di più leggi in favo-re delle vittime, dalla 302 del 20 ottobre1990 alla più recente 206 del 3 agosto2004, anche se ne ha dovuto ripetuta-mente lamentare la mancata applicazio-ne, le enormi difficoltà burocratichefrapposte alla concreta concessione deidiritti riconosciuti, le pesanti umiliazio-ni inferte ai richiedenti. Il comporta-mento dello Stato nei confronti dellevittime è apparso davvero sconcertante:ha svolto una azione più di tipo assi-stenziale che risarcitoria e solidaristicae si è mosso quasi per obbligo. Haapprovato delle leggi e poi le ha appli-cate in modo parziale sempre e solodopo trattative lunghe ed estenuanti.

E tutto questo mentre i terroristi chefurono protagonisti dei cosiddetti “annidi piombo”, di quella stagione di lutti esciagure, trovano sempre più generosaospitalità presso istituzioni pubbliche,nelle Università, nei convegni, alla Raie persino al Parlamento con incarichi diprestigio, sono considerati opinion-makers, si ergono a maestri, divengonodestinatari di plausi, di riconoscimentie di premi, ottengono borse di studio econsulenze, tanto che la conquista delpotere, fallita drammaticamente allora,è adesso per alcuni di essi una realtà. Sisono così trasformati gli assassini di ierinegli eroi di oggi. E non è neppurenecessario citarne i nomi che sono fintroppo noti per la sfacciata pubblicitàche ne fanno i media e per la consacra-zione avvenuta nella abbondante lette-ratura riferita a quel triste periodo.

Molti di essi sono ormai liberi, altrichiedono di fruire di benefici e spesso imagistrati interpellano l’Associazione,le vittime o i parenti delle vittime per-ché forniscano notizie ed esprimano unparere. Da sempre l’Associazione e i

suoi iscritti hanno una univoca linea dicomportamento rispettosa delle compe-tenze istituzionali. Risentimento, ama-rezza, tristezza non devono trovare spa-zio per sentimenti di vendetta. Nessunovuole vendetta nei confronti di chi sba-gliò, pensando che si potesse cambiareil mondo privando della vita altri esseriumani. La legge demanda ai magistratie solo ad essi l’accertamento della sus-sistenza dei requisiti previsti per la con-cessione dei benefici. I concetti di rav-vedimento o di pentimento non posso-no essere valutati da chi ha una feritaancora aperta e difficilmente rimargina-bile. Pertanto non ci si esprime e,lasciando ai magistrati la decisione, sene prende esclusivamente atto.

Purtroppo la recente scoperta dellenuove Brigate Rosse con relativi arsena-le e piano di attentati, di un disegno ever-sivo col folle progetto della lotta armata,oltre a creare un diffuso giustificatoallarme, ha risvegliato in noi la convin-zione che quei fanatici dispongono dicovi in cui alimentare i loro deliri e con-tano su ambienti dai quali ricevono inco-raggiamenti e comprensione. Ritornanoallora di attualità tante domande rimastepurtroppo senza risposta: chi sono gliispiratori e i mandanti? E quale è il dise-gno complessivo? Forse lo Stato non hacercato, non cerca fino in fondo la verità.Ma comunque dovrà limitare l’inclina-zione alle indulgenze e agli indulti.

Noi siamo oggi sempre più convintidella assoluta necessità di conservareuna vigile attenzione da parte di tutti, ditenere alta la guardia in difesa dellalegalità repubblicana e dei valori demo-cratici a scongiurare il ripetersi di tragi-ci eventi le cui gravi conseguenze con-tinuiamo a pagare e pertanto, pur inmancanza di aiuti, di mezzi e troppospesso persino di comprensione, sentia-mo sempre più come un dovere moralel’impegno nell’Associazione e il tenaceperseguimento delle sue finalità.

Il PresidenteMaurizio Puddu

La voce delle vittime

ASSOCIAZIONE VITTIME DEL TERRORISMO

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38la Pazienza

Brevi note da parte di unodegli autori

Ecco qualche breve appunto sulfilm-dvd che ho realizzato conMarino Bronzino e che sarà in edi-cola a partire dal 28 aprile insiemecon La Stampa.

Poche annotazioni per non tedia-re chi legge.

Tentando di essere sintetico eschematico.

Così come ho cercato di esserenella realizzazione del documentario.

“Avvocato!” Il perché di un titolo

Micaletto, alle tre del pomeriggiodel 28 aprile ’77, così si rivolge aCroce che, girandogli le spalle, staper entrare nell’androne del palazzodi Via Perrone 5.

Croce si volta: è avvocato, qual-cuno lo sta chiamando.

Due colpi di pistola in faccia, treall’addome. È un istante: le gambecedono, cade a terra. La vita loabbandona in un attimo.

Mezz’ora prima ha salutato con un bacio la moglie. Ora per lui tuttoè finito.

Bronzino ed io abbiamo scelto iltitolo “Avvocato!” perché Croce èucciso per il solo fatto di essereavvocato. E perché ha deciso dicontinuare ad esserlo nonostante leminacce di morte.

Credo sia un buon titolo.È una chiamata per tutti noi, un

monito, un invito a girarci ed a guar-dare in faccia chi abbiamo di frontequando ci chiama “Avvocato!”.

A schiena dritta e senza paura.Non possiamo più far finta di

nulla: dobbiamo tornare ad affron-tare le nostre responsabilità...

Un po’ come fece Croce, senzapaura di perdere ciò che nel tempoabbiamo conquistato.

Una lapide davanti agli ascen-sori

A fine ’99, come tante altrevolte avevo fatto, mi avvio versola biblioteca dell’Ordine. Davantiall’ingresso, proprio vicino all’a-scensore, alzo lo sguardo. C’è unabella lapide in pietra grigia chericorda il sacrificio dell’avv.Fulvio Croce che – consapevole –affrontò la morte per garantire ildiritto di difesa ed il processo cosìcome previsti dal nostroOrdinamento.

Chi è questo Croce? Mi chiedo.È una mia abitudine. Anche

quando cammino per la città finiscosempre per domandarmi chi sianostate le persone cui sono intitolate levie. E la maggior parte delle voltene so poco o nulla. Così avvieneanche per Croce.

Dopo un’ora passata a consultare

il Foro Italiano scambio due parolecon Carmen, la nostra seria bibliote-caria. Decido di chiederle se ne saqualcosa. Le si illuminano gli occhi,mi guarda incredula, si scioglie:“Certo! Abitavo dove lui aveva lostudio, qualche volta mi ha anchetenuta sulle sue ginocchia, e miamadre quel giorno ha sentito glispari...”.

Ecco come è nata l’idea di rac-contare l’omicidio Croce: da unalapide davanti ad un ascensore e daldesiderio di saperne di più attraver-so le persone che lo avevano cono-sciuto.

Un film? Non era meglio unlibro?

No, non era meglio un libro.Volevo arrivare ai miei coetanei.

Se avessi scritto “solo” un libroavrei confinato Croce e tutto ciò cheha rappresentato ad un pubblico dioptimates, agli aristoi abituati allafrequentazione della cellulosa. Unpubblico molto qualificato, maanche molto esiguo.

Invece quella del processo alnucleo storico delle Br è una storiache va conosciuta dal numero piùampio possibile di avvocati e,soprattutto, di giovani avvocati.Meglio un documentario. Per que-sta volta niente cellulosa, solo cellu-loide.

Le iniziative del Consigliodell’Ordine

“AVVOCATO!”IL PROCESSO DI TORINO AL NUCLEO STORICO DELLE BRIGATE ROSSE

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la Pazienza 39

Le forti motivazioni nasconoanche da forti “indignazioni”

All’inizio sono stato solo.Quando parlavo dell’idea di realiz-zare un documentario su questotema, molti amici e alcuni colleghisorridevano della mia idea “forse unpo’ troppo creativa”.

Ero però sorretto da forti motiva-zioni che, come spesso accade,certe volte nascono da forti indigna-zioni.

Una su tutte.Preparandomi per il film, mi è

capitato di scorrere l’indice deltomo La mappa perduta, uscito nel’95 per i tipi di “Sensibili allefoglie”: una ricerca “sociologica”coordinata da Renato Curcio suglianni di piombo.

Ecco come era stato definito l’e-lenco degli omicidi compiuti daBrigate Rosse e compagnia: “Datirelativi agli eventi in cui hannoincontrato la morte le persone col-pite dalle organizzazioni armate disinistra dal 1969 al 1989.”

“Evento in cui si incontra lamorte”? È possibile definire così unomicidio? L’assassinio, freddamen-te calcolato, di una persona inerme?Un avvocato di 75 anni cui si sparanegli zigomi incontra la morte nelcorso di un evento?

Inaccettabile. Perlomeno ai mieiocchi.

Un motivo in più per raccontarele cose cercando di chiamarle con illoro nome. Senza eufemismi né giridi parole.

Meglio l’avv. Caio o l’avv.Mevio?

Forse si arriva ad una cinquanti-na. Tanti sono stati gli avvocati chea diverso titolo sono entrati in con-tatto con il processo di Torino alnucleo storico delle Br Senza conta-re tutti quelli che non accettaronol’incarico di difensore d’ufficio.

Chi intervistare? Ho potuto gesti-re il documentario in perfetta auto-nomia.

Il Consiglio dell’Ordine presie-

duto dall’avv. Rossomando – ne rin-grazio ancora, uno ad uno, i quindi-ci componenti che a fine 2003hanno deciso di finanziare il film –non mi ha suggerito nulla, neancheun nome.

Le mie scelte sono state orientateo da necessità di narrazione o daconoscenze personali (dell’avv.Tizio conosco il figlio, di quell’altroil praticante).

E nella scelta degli intervistati hocercato ove possibile di trovare unequilibrio tra destra e sinistra, evi-tando di intervistare solo le personenote per una particolare appartenen-za politica.

Un solo rimpianto: qualche colle-ga ha rifiutato di essere intervistatodavanti alla telecamera.

Peccato: non tanto per il film,quanto per il giovane avvocato chetra venti anni spero guarderà questodocumentario e che non avrà potutoconoscere anche un altro protagoni-sta della nostra storia.

Spazio solo alle vittime oanche ai carnefici?

Mentre scrivo ho davanti a me laRepubblica di oggi.

Con una lettera indirizzata aCorrado Augias, il presidenteNapolitano ha appena richiamatol’informazione e la comunicazionetelevisiva al rispetto della memoriadelle vittime e del dolore dei lorofamigliari.

Dice il Presidente: “Il legittimoreinserimento nella società di queicolpevoli di atti di terrorismo cheabbiano regolato i loro conti con lagiustizia dovrebbe tradursi inesplicito riconoscimento dellaingiustificabile natura criminaledell’attacco terroristico allo Stato(...) e dovrebbe essere accompa-gnato da comportamenti pubbliciispirati alla massima discrezione emisura”.

Egli si riferisce ad una trasmis-sione televisiva in cui la redazionedi Studio Aperto ha portato AlbertoFranceschini, uno dei fondatoridelle Br, in via Fani per lì intervi-

starlo in merito all’eccidio dellascorta dell’on. Moro.

È evidente l’errore di valutazionecompiuto da Italia Uno, peraltroriconosciuto dallo stesso direttoredi Studio Aperto.

E per un documentario? Anche in“Avvocato!” c’è Franceschini.

Giusto dargli spazio? Rispondocon le parole del presidenteNapolitano: sì se con la massimadiscrezione e misura.

Aggiungo alcuni dati: Fran-ceschini non è stato condannato perl’omicidio Croce, né per altri fatti disangue. Ha interamente scontato lepene inflittegli, circa 18 anni direclusione. Inoltre nell’intervistaFranceschini ha ammesso i gravis-simi errori commessi, da lui e dalleBr (queste dichiarazioni non le tro-verete nel film ma nei contenutiextra all’interno del dvd).

Egli infine ha riconosciuto l’as-surdità delle c.d. Nuove Br.

E quando lo ringraziavo per iltempo – ovviamente gratuito –dedicatomi, questo impiegato ormaicinquantenne mi ha congedato dalsuo ufficio della sede romanadell’Arci dicendomi “Speriamo cheserva a qualcosa.”

Tante altre cose avrei da dire.Come spesso conviene, proprio inquesti casi è meglio limitarsi. Perfar parlare i fatti o, come in questocaso, le immagini.

Un sincero ringraziamento allepersone che ho intervistato (anche aquelli che non compaiono nel film)ed a tutti coloro che con il loro aiutohanno reso possibile questo lavoro.

Una menzione speciale al collegaavv. Massimo Travostino, impareg-giabile esecutore dei due preludi dalClavicembalo Ben Temperato diBach che costituiscono la colonnasonora del film.

Auguro a tutti una buona visione:attendo commenti, critiche e solle-citazioni.

In sincerità, come spirito di colle-ganza impone.

Alessandro Melano

Le iniziative del Consiglio dell’Ordine

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“AVVOCATO!” IL FILM ALLE BRIGATE RO

IN EDICOLA CON LA ST

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M-DOCUMENTARIO SUL PROCESSO DI TORINOOSSE E SULL’OMICIDIO DELL’AVVOCATO CROCE.

TAMPA DAL 28 APRILE.

Una storia che fa parteella nostra storia.Una storia che fa parteella nostra storia.

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42la Pazienza

Il film documentario di AlessandroMelano e Marino Bronzino è di

straordinaria intensità: alternandopassato (i giornali dell’epoca, i servi-zi televisivi, le foto) e presente (leinterviste a coloro che vissero la terri-bile esperienza del processo) conincalzante cadenza mi ha rigettato inquegli anni terribili, veramente dipiombo. Mi iscrivevo alla praticaforense in quel lontano (eppur cosìvicino) aprile 1978: ricordo le assem-blee, i volti tirati degli avvocati, deimagistrati, la tensione visibile e pal-pabile. Guardando le immagini stori-che del film ho ritrovato tutto ciò,un’emozione forte, inevitabilmenteviolenta.

La ricostruzione è perfetta, fedelealla storia e si intuisce l’approfonditolavoro di anni negli archivi, sui docu-menti: la freddezza della narrativa(senza aggettivi, senza sbavature) miha commosso.

Ma non sono soltanto emozioni ciòche il film suscita: senza pedanteria,con tratto leggero, e con totale fedeltàgiuridica, ti conduce per mano ariflettere sui grandi temi (il dirittoall’autodifesa, il ruolo dell’avvocato,delle istituzioni forensi, il controllodella legalità processuale) dellanostra professione.

Il bel lavoro di Melano e Bronzinonon riguarda soltanto il presente: la suamodernità non si legge in filigrana,appare con evidenza solare. E non soloe non tanto perché alcuni eventi, chesembravano ormai sepolti dalla storia,si sono prepotentemente ripropostianche in recenti fatti di cronaca; perchéil ricordo del sacrificio di Croce, del-l’impegno degli avvocati e dell’Ordinetorinese, riconducono la nostra profes-sione a quel ruolo di “ministero nobi-lissimo”, scriveva Giuseppe Zanardellinel 1887 di “proteggere i diritti dei cit-tadini” e di cooperare “con l’ingegno e

con la dottrina alla buona amministra-zione della giustizia”.

Sono orgoglioso che il nostro Ordinenon soltanto abbia finanziato (con lasocietà Capris) la realizzazione deldocumentario, ma abbia deciso di dareuna copia ad ogni nuovo iscritto alnostro albo: non è un omaggio, è unmonito o anche soltanto un invito a con-siderare la nostra professione non comeun qualsiasi lavoro presente sul merca-to. Se Fulvio Croce avesse avuto riguar-do ai soli stimoli del mercato, cometanti oggi vorrebbero, avrebbe finito isuoi giorni in rilassante vecchiaia nelsuo bel paese di Castelnuovo Nigra, manon sappiamo quale corso avrebbeavuto la storia del nostro Paese.

Grazie Alessandro, grazie Marinoper averci così ben riportati ad unapagina della nostra avvocatura, cosìtriste eppur così esaltante.

Mario Napoli

“AVVOCATO!”: GRAZIEALESSANDRO, GRAZIE MARINO

Page 39: Marzo 2007 N° 94

43la Pazienza

FEDELTÀISTITUZIONALE

ePASSIONE CIVILEDELL’AVVOCATO

in ricordo di

FULVIOCROCE

sotto l’Alto Patronato delPresidente della

Repubblica Italiana

Torino4-5 maggio

2007

4 maggioAula Fulvio Croce

Palazzo di Giustizia

5 maggioGalleria

Prefettura di TorinoPiazza Castello 201

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44

Scritto a quattro mani,Giovanni.Non ci siamo mai dati del Tu. Non ci

siamo mai chiamati per nome. Un ramma-rico. Lo diamo a tutti i Colleghi, aspiriamoa darlo a quelli più nobili, e lo pretendiamo.

Non ci siamo mai riusciti. È stato cosìdall’inizio e così è rimasto. Quasi trent’an-ni (per me). Quindici, forse, per Francesca.

La stessa rustichezza (di entrambi) mirende difficile scriverne, di Lui e di Lei.

Ho messo prima l’Avvocato dell’Avvo-catessa (sono certo mi scuserà), ma gli sonostato più legato e non lo posso negare. Losono ancora. Lo sono quando tutte le matti-ne apro lo Studio, la Sua stanza, la Sue fine-stre, esattamente come dovesse arrivare unpo’dopo di me, come è sempre stato.

“Buongiorno Avvocato”, il saluto diquasi trent’anni.

Gli ho voluto bene, lo dico senza nes-sun pudore.

Su questa pagina dovrei rendereomaggio al Suo “sapere” (tanto). Non siaffrontano e superano, senza metodicavolontà, gli esami per diventare, senzaattendere lo scorrere del tempo (così era),Avvocato prima, Cassazionista poi.

Quanti sono gli iscritti (sono anch’iotra i più) che oggi possano dire di averscelto quella strada?

Dovrei rendere omaggio alla Suadevozione al lavoro.

Lo vedo studiare i testi, privilegiarequelli istituzionali alle frettolose raccoltedi giurisprudenza, leggere e scrivere gliatti, anche solo preparare la cartella daportare a casa per il sabato e la domenica.Dai Suoi appunti, l’attenzione con cuivenivano presi, sono ancora tutti qui, inStudio, anche quelli più remoti con i nomidelle parti di cause eterne.

Dovrei ricordare il rispetto verso iSuoi Colleghi (sorvolo sulla intolleranzaper il vezzo di qualcuno di farsi anticipa-re per telefono dalla segretaria e da altreamenità di questo genere, cosa che homutuato), verso i Magistrati, mai condi-scendente per servilismo, sempre consa-pevole, ma mai arrogante, del Suo ruolo.

Dovrei ricordare la Sua onestà, la Suatotale rettitudine, la Sua riservatezza esignorilità.

Dovrei anche ringraziare, per Lui,Colleghi e Magistrati per il meritatorispetto riservatogli, ma ciò non fa cherenderci ancora più debitori per la dignitàconferita alla nostra professione. Nonsaranno gli scioperi a restituircela, masolo Uomini così.

Dovrei ricordare il coraggio nell’affron-tare le cause (ci vuole anche quello), la vita.

Dovrei ricordare l’amore per i Suoicari, per l’Avvocatessa, per i figli e i nipo-

ti, per i genitori che ha assistito con unadevozione che non ho visto di eguale.

Dovrei ricordare i Suoi amici eColleghi che gli hanno voluto bene e versoi quali l’Avvocato portava stima e affetto,sempre, ho toccato con mano, ben riposta.

Dovrei ricordare tutti coloro che sonopassati dallo Studio per la pratica e che hannoavuto la fortuna di avere un maestro così.

Dovrei ricordare mille altre cose...Forse in tanti dovremmo ricordare...

Francesca.Ho conosciuto l’Avvocatessa quasi

diciassette anni fa. Una Signora. Donna eprofessionista vitale, brillante, ottimista.

Era estremamente elegante, con i suoitailleurs Chanel, i suoi gioielli misurati, isuoi adorabili cappellini. Attenta anche inquesto al decoro della Professione.

Era elegante la sua grafia, come lo stiledei suoi atti, classico ma vivace, maiscontato, ove il rigore dell’argomentazio-ne giuridica era ingentilito da citazionilatine dosate e puntuali, frutto spontaneodella sua formazione umanistica.

Mi raccontava di aver iniziato laProfessione quando le donne avvocatoerano una rarità e dovevano spesso affron-tare il sussiego di Colleghi e Magistratimaschi. Lo raccontava senza rammarico,quasi divertita dal ricordo di questo svan-taggioso privilegio, mai scontratosi, midiceva, col rispetto delle regole deontologi-che che Lei esigeva da se stessa e dagli altri,contrastando ogni slealtà in modo secco,mai scortese, con stile ed aplomb.

Mi ha accompagnata per mano neimeandri della pratica, incoraggiandomicon benevolenza ed attestazioni di imme-ritata stima.

Quando gli acciacchi la hanno allonta-nata dallo Studio ed il dialogo umano e

professionale si è diradato, l’Avvocatessaè rimasta presente tra noi attraverso iresoconti quotidiani dell’Avvocato, suomarito devoto.

Alla vigilia di Natale, il giorno prima diandarsene così tragicamente, mi ha telefo-nato ed in mia assenza ha lasciato detto chemi voleva bene. Non ho avuto la prontezzadi richiamarla ed ho perso l’occasione didirglielo anch’io, ancora una volta.

Dell’Avvocato ha già detto beneGiovanni.

Aggiungo che era un uomo severo, diuna severità a volte scomoda, esigentissi-mo innanzitutto con se stesso ma anchecon noi colleghi più giovani, e coi prati-canti che trattava alla pari, con approccionon didattico, senza sconti. Era il suometodo e ci ha fatti crescere.

L’Avvocato condivideva con noi, non tuttilo fanno, i problemi giuridici più importanti.

La prima volta che mi chiese di rileg-gere un suo atto, di individuare incon-gruenze, errori o punti oscuri – compitoquasi impossibile – mi parve un onorespropositato. E lo era, ma era soprattuttometodo, era la ricerca del contraddittorioin Studio, per anticipare quello che sisarebbe verificato in giudizio, nell’otticadi una difesa più puntuale.

In tanta austerità, con gli anni fecebreccia la confidenza, ed emerse un trattomeno conosciuto dell’Avvocato: era unUomo simpatico.

La sua ironia era sottile, sferzante, avolte amara, ricca di sottintesi e metaforeardite che noi “intimi” – tale, alla fine,ritengo anch’io di potermi considerare, conorgoglio – decifravamo senza difficoltà. Larivolgeva anche verso se stesso, canzonan-dosi per le sue umane debolezze, come soloun Uomo di grande intelligenza sa fare.

Francesca Occhino, Giovanni Caramello

la Pazienza

RicordiLAURA BOLGIANI BONGIOANNIGIANFRANCO BONGIOANNI Avvocati

“... dolce imparare da chibene insegna, e porta vantaggio...”

(Antigone, Sofocle)