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Settore Polizia Locale e Politiche per la sicurezza

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Supervisione e coordinamento editoriale: Dott. Stefano Bellezza Dirigente del Settore Polizia Locale e Politiche per la Sicurezza Testi a cura di: Associazione Amapola Capitolo 5: Avv. Alberto Ceste Funzionario del Settore Polizia Locale e Politiche per la Sicurezza © Regione Piemonte è autorizzata la riproduzione parziale citando la fonte 2013

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Offrire strumenti per progettare e gestire politiche per la sicurezza dei cittadini può essere molto importante. Perché consente di promuovere la conoscenza e lo scambio, qualificando l'azione pubblica con proposte che abbiano la forza di misurarsi con la complessità dei problemi, cercando di offrire risposte che abbiano a cuore la tutela dei cittadini e dei territori in cui essi abitano. Ma se è sempre importante offrire strumenti che accrescano la capacità d'intervento degli attori sociali e istituzionali, lo è ancor di più nel momento in cui le risorse a disposizione scarseggiano o vengono meno. Perché è proprio in presenza di situazioni di crisi che occorre migliorare la capacità d'intervento, analizzare i problemi e individuare le priorità d'azione. È ciò che si sta cercando di promuovere nella nostra Regione, attraverso l'idea di un "Sistema Piemonte per la Sicurezza Integrata", che sappia offrire la cornice istituzionale e progettuale per accrescere il livello di cooperazione tra quanti a vario titolo operano per la sicurezza. Un sistema composto da progetti e interventi, che pur nella ristrettezza delle risorse economiche disponibili si propone di sostenere lo sviluppo di nuove e più forti iniziative di cooperazione tra Istituzioni che, all'interno delle precipue competenze, diventino parte integrante di un'unica risposta pubblica ai problemi di sicurezza dei territori piemontesi. Questa pubblicazione è l’esito e in parte la testimonianza dello sforzo che la Regione Piemonte mette in campo per qualificare le politiche regionali di sicurezza integrata. Essa si rivolge ad un pubblico potenzialmente molto eterogeneo, proponendo analisi teoriche e strumenti concreti su molti dei temi che riguardano le politiche di sicurezza. I dieci capitoli spaziano dal contesto normativo e legislativo; affrontano il tema della cooperazione tra gli Enti e quello della gestione associata dei servizi di Polizia Locale; propongono riflessioni sull'uso della videosorveglianza e sul ruolo della Polizia privata nelle politiche di sicurezza; sviluppano il tema della mediazione e dell'integrazione, sino ad affrontare le implicazioni che la pianificazione urbanistica nella promozione di città più sicure. Un manuale, appunto, che si è sforzato di essere completo ed agile al contempo; utile compendio per gli esperti del settore, strumento agile e fruibile per quanti si avvicinano al tema per la prima volta. Con l'auspicio, è questo il mio augurio, che possa diventare una concreta "cassetta degli attrezzi" per il lavoro futuro.

Riccardo Molinari Assessore alla Promozione della Sicurezza e Polizia Locale

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La Regione Piemonte, attraverso l’operato del Settore Polizia Locale e Politiche per la Sicurezza, si è da sempre contraddistinta per l’impegno nel promuovere iniziative volte a sostenere le amministrazioni locali nell’attuazione di politiche di sicurezza territoriali. Questo è avvenuto, innanzitutto, interpretando la competenza in materia di Polizia Locale, ma anche dotandosi di un quadro normativo regionale in materia di sicurezza integrata che consentisse di offrire ai soggetti istituzionali e sociali piemontesi opportunità concrete per accrescere le loro capacità di intervento. In questi anni sono state molte le pubblicazioni che hanno affrontato, con tagli e contenuti spesso molto differenti, il tema delle politiche di sicurezza urbana. Talvolta si è trattato di contributi accademici, conseguenza di importanti lavori di ricerca, che hanno offerto elaborazioni e chiavi di lettura per un dibattito che si è sviluppato coinvolgendo l'intera società italiana. Altre volte si è trattato di iniziative tese a sostenere approcci innovativi nella promozione di politiche e interventi che sapessero offrire risposte efficaci alle molte questioni che il tema della sicurezza dei cittadini pone alla responsabilità pubblica. In coerenza con quest’ultimo approccio, è nata l'idea di promuovere il presente Manuale per la progettazione di politiche e interventi sulla sicurezza integrata per fornire agli Enti Locali un supporto conoscitivo e metodologico che concorra a affinare gli interventi e le politiche in materia di sicurezza integrata. Il Manuale è strutturato in dieci capitoli, ciascuno dedicato ad un tema diverso ma ugualmente importante nel rappresentare la complessità e multidimensionalità del concetto di “sicurezza integrata”, cui fa riferimento la legge regionale 23/2007 di promozione delle politiche locali. Nella declinazione dei temi si è tenuto conto delle diverse dimensioni e problematicità su cui oggi le amministrazioni locali sono chiamate ad agire nonché dei principali ambiti di intervento e possibili linee di indirizzo per l’attuazione di politiche locali che siano efficaci e rispondenti a bisogni reali. I capitoli affrontano una pluralità di questioni tra cui: la normativa e le competenze istituzionali, la lettura dei fenomeni, la progettazione e gestione di interventi, il ruolo della Polizia locale attraverso la forma associata, l'uso della videosorveglianza, il ruolo della vigilanza privata nelle politiche di sicurezza; la gestione dei conflitti e gli interventi di mediazione, le politiche di integrazione e governo delle trasformazioni urbanistiche e territoriali. Tutti temi che se non esauriscono completamente il ventaglio delle questioni che hanno attinenza con la sicurezza, certo rappresentano ambiti importanti e significativi delle iniziative che stanno in capo alla responsabilità degli attori locali. Il Manuale, oggi pubblicato in un volume unitario, è disponibile anche in dispense tematiche sul sito web www.regione.piemonte.it/sicurezza/manuale.htm. Stefano Bellezza Dirigente Settore Polizia Locale e Politiche per la Sicurezza

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Indice Generale Sicurezza Urbana. Le competenze istituzionali e la cooperazione tra enti ……………………………………...……….. La politica integrata di sicurezza. Da una buona idea, un buon progetto per una buona politica …………………………………… Leggere la sicurezza. I dati, il contesto, I fenomeni e le percezioni ……………………………………………………………. Gestire un progetto. Costruire il partenariato, governare la spesa, valorizzare i risultati ………………………………………... L’esercizio associato della funzione di polizia municipale e di polizia amministrativa locale. Come valorizzare le potenzialità del servizio integrato ……………………………………………….. La videosorveglianza. Cosa fare perché sia efficace e rispettosa dei diritti …………………………………………………. Da metronotte a poliziotto privato. Il nuovo ruolo della vigilanza privata nelle politiche di sicurezza ………………………………... Gestire i conflitti prima che sia troppo tardi. Quando si assiste una vittima di reato …………………………………………………. La società plurale. Le politiche di integrazione come strumento per la sicurezza dei cittadini ……………………………………….

Trasformazioni urbane e sicurezza nelle città. Il percorso a norma per progettare spazi pubblici più sicuri …………………...

Glossario …………………………………………………………….. Bibliografia e link utili ……………………………………………….

p. 1 p. 35 p. 65 p. 101 p. 137 p. 175 p. 209 p. 239 p. 273 p. 309 p. 347 p. 353

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Capitolo 1 Sicurezza Urbana. Le competenze istituzionali e la cooperazione tra enti a cura di Amapola 1. Introduzione …………………………………………………………….….p. 3 2. Gli anni ’90: l’emersione del ruolo dei sindaci …………….………..p. 4 La nascita del tema sicurezza urbana Le iniziative degli anni ’90: l’avvio della cooperazione isittuzionale Le innovazioni del biennio 1999-2000 Ripartizione delle competenze tra Stato e Enti locali in materia di sicurezza 3. 2001- 2005: le riforme e la collaborazione tra enti …………………p. 13 Le prime iniziative di collaborazione inter-istituzionale L’amministrazione Giuliani a New York La cooperazione possibile tra Stato, Regioni e Enti locali Il primo pacchetto sicurezza e le leggi regionali 4. 2006-2011: il maggior riconoscimento degli Enti locali …………..p. 20 La stagione dei Patti per la sicurezza I nuovi poteri di ordinanza dei Sindaci Le ordinanze dei sindaci I recenti provvedimenti legislativi Note …………………………………………………………………………...p. 33

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Introduzione

In questo capitolo si ripercorre il dibattito politico-istituzionale italiano da metà degli anni novanta a oggi in merito alla ripartizione delle competenze in materia di sicurezza urbana tra i diversi livelli di governo (statale, regionale, municipale) e le conseguenti innovazioni normative che hanno portato a definire il quadro attuale. La sicurezza urbana è questione su cui, in Italia, si riflette e discute intensamente da almeno 17 anni e in Europa il tema è oggetto di attenzione da oltre un ventennio; si tratta ormai di una dimensione della qualità della vita urbana che interessa tutte le città del mondo1. Si può dire che, pur con esigenze, contesti e interpretazione dei fenomeni diversi, la dimensione “sicurezza urbana” sia diventata oggi uno dei beni pubblici di cui è necessario tener conto nella gestione delle città e che deve essere garantito a tutti i cittadini. Se questo è un traguardo ormai assodato e condiviso, ciò che rende sempre vivo il dibattito e la ricerca di strategie d’intervento efficaci è l’eterogeneità degli aspetti della vita sociale contemporanea che concorrono a definire i contenuti della sicurezza in ambito urbano. In Italia il concetto di sicurezza urbana ha trovato interpretazioni e definizioni essenzialmente di ordine sociologico e solo di recente di natura giuridica. Lunghe e approfondite riflessioni sul tema della in/sicurezza urbana hanno visti impegnati amministratori locali, studiosi

(prevalentemente sociologi, criminologi e architetti), operatori della sicurezza e operatori sociali in Italia e in Europa. È certo che quando si parla di sicurezza si fa riferimento a un articolato complesso di fattori

che sollecitano la responsabilità delle autorità locali nella promozione della coesione sociale, nella riduzione delle ineguaglianze urbane, nello sviluppo di un ambiente costruito attento alla qualità urbana e di un uso dello spazio pubblico inclusivo e costruttivo, nonché nella promozione di un presidio attento e rigoroso del rispetto delle regole che governano la vivibilità della città. Saranno qui ripercorse le principali tappe di questa riflessione che ha intrecciato ragionamenti intorno a cause e profili dell’in/sicurezza vissuta e denunciata dai cittadini, con analisi e proposte in merito alle politiche

La sicurezza urbana:

un bene pubblico da tutelare

La multidimensionalità della sicurezza urbana sollecita le responsabilità locali

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pubbliche su cui far leva per dare risposte. Il dibattito su quali siano i livelli di competenza politico-amministrativa più idonei per far fronte alle diverse dimensioni che compongono il tema “sicurezza urbana” non è ancora totalmente concluso, ma certamente oggi è condivisa le necessità che ci sia il concorso e la collaborazione di più soggetti istituzionali per contribuire a costruire le migliori condizioni di sicurezza dei cittadini a livello locale.

Gli anni ’90: l’emersione del ruolo dei sindaci

La nascita del tema sicurezza urbana In Italia si è cominciato a parlare di sicurezza urbana nella prima metà degli anni novanta, quando i conflitti legati alla condivisione di spazi e luoghi di vita tra vecchi e nuovi abitanti in alcuni quartieri storici, particolarmente degradati, delle grandi città sono stati declinati all’interno del paradigma della minaccia alla sicurezza dei cittadini. Nel 1993 a Genova nel centro storico si scatena la rivolta degli abitanti verso gli immigrati che lì si erano stabiliti; per tre giorni si organizzano ronde e proteste per “riconquistare” il territorio. Due anni dopo, nel 1995, anche il quartiere di San Salvario a Torino diventa uno dei simboli dell’emergenza relativa alla sicurezza urbana, in seguito alle proteste degli abitanti per la presenza di immigrati e la diffusione della criminalità di strada e di disordine urbano. È l’epoca in cui nascono in molte città i “comitati spontanei”, gruppi auto-organizzati di abitanti che si mobilitano per denunciare le condizioni di degrado dei propri quartieri e che pretendono dalle autorità locali la rimozione delle minacce alla sicurezza delle persone. Si tratta in sostanza dell’emersione di una protesta che si organizza principalmente in quartieri già fortemente degradati sul piano fisico e ambientale, dove l’arrivo consistente di nuovi abitanti stranieri contribuisce ad esasperare le già fragili condizioni di vita e dove i fenomeni di illegalità cosiddetta di strada (soprattutto spaccio di sostanze stupefacenti e prostituzione) cominciano a dare forma alla definizione del concetto di sicurezza urbana. Sono gli anni in cui si comincia a riflettere sull’impatto della cosiddetta micro-criminalità, dopo aver a lungo riflettuto e dibattuto, in Italia, intorno alla cosiddetta macro-criminalità (criminalità organizzata, corruzione, ecc.). Il discorso sulla sicurezza urbana diventa rapidamente centrale nella

Le proteste degli abitanti e l’attenzione alla micro-criminalità

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narrazione mediatica e nel dibattito politico. La questione sicurezza urbana si profila fin da subito come un contenitore più complesso rispetto alla sola questione della criminalità diffusa; è un tema dai contorni non esattamente definibili, che contiene molte dimensioni di natura diversa (degrado fisico dell’ambiente costruito dei quartieri, difficoltà delle condizioni di coabitazione e di incontro tra gruppi etnici o generazionali diversi, presenza di criminalità di strada e diffusione di comportamenti cosiddetti antisociali, per citare i principali). Ulteriore elemento caratterizzante questa questione è l’aspetto delle percezioni e dei vissuti degli abitanti; nel discorso che si è sviluppato intorno alla sicurezza urbana è stata data dignità di dimensione di cui devono tenere conto le politiche pubbliche anche al sentimento di insicurezza, a seguito del fallimento dell’approccio positivista che provava a rispondere al problema dimostrando che la realtà concreta del fenomeno non giustificava l’allarme2. Le condizioni di sicurezza urbana si definiscono anche sulla base di come e quanto gli abitanti di un quartiere e/o di una città si sentono sicuri e non minacciati nei loro contesti di vita. Questo ha significato per la politica pubblica doversi fare carico anche di una attenta comunicazione capace prima di tutto di ascoltare e poi di studiare soluzioni e progetti che svolgessero anche (ma non solo) una funzione rassicurante. Troppo spesso, tuttavia, il limite dell’azione pubblica è stato quello di lanciare messaggi e proporre misure dalla esclusiva funzione rassicurante senza agire sulla struttura dei fenomeni, innescando così processi poco virtuosi di escalation verso soluzioni ad effetto ma nella sostanza poco efficaci. Questa pluralità di fattori che ha portato gradualmente a tracciare i contorni del discorso sulla sicurezza urbana ha spinto i cittadini a chiedere interventi

e risposte al loro interlocutore istituzionale più prossimo, il Sindaco. Non è questa la sede per analizzare quale sia stato l’effetto e quale la causa, ma certamente l’emersione della domanda di sicurezza da parte dei cittadini e la pressoché

contemporanea introduzione dell’elezione diretta del Sindaco (in base alla legge n. 81 del 1993) ha fatto sì che tale domanda sia stata rivolta prevalentemente al primo cittadino. È stato detto che la crescente domanda di sicurezza urbana può paradossalmente essere letta come indicatore di un maggiore desiderio di città (Amendola, 2010), come richiesta di vivere appieno le opportunità offerte dal proprio contesto urbano e non deve essere vista necessariamente solo come sintomo di paura e di condizioni d’invivibilità del territorio. Il fatto che il Sindaco sia stato, e sia ancora oggi, il

La domanda di sicurezza si rivolge al primo cittadino

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principale destinatario di questa richiesta significa quindi che i cittadini chiedono e pretendono condizioni di fruibilità del territorio urbano che consentano a tutti (donne, bambini, giovani, anziani) di coglierne tutte le opportunità, ma significa anche che è maturata la consapevolezza che una sicurezza così intesa non poteva essere garantita esclusivamente dalla funzione di garante del controllo e dell’ordine pubblico attribuita allo Stato. Infatti, intervenire sul degrado urbano, creare le condizioni di utilizzo virtuoso dello spazio pubblico da parte di gruppi diversi, siano essi etnici o anagrafici, agire sui comportamenti cosiddetti antisociali (schiamazzi, maleducazione, aggressività) che non rappresentano tuttavia condotte penalmente rilevanti, prevenire la concentrazione abitativa di situazioni socialmente critiche o governare fenomeni come, per esempio, la movida sono compiti propri di chi amministra le città; si tratta tuttavia di fenomeni che sono fortemente condizionati anche da scelte operate a livello nazionale (basti pensare al tema del governo dei fenomeni migratori e alle politiche ad essi connesse) o dalla gestione in ambito locale di fenomeni la cui competenza appartiene ad altri livelli istituzionali (si pensi, per esempio, al controllo e repressione di fenomeni di criminalità particolarmente visibili in strada come lo spaccio di stupefacenti). Le iniziative degli anni ’90: l’avvio della cooperazione istituzionale A metà degli anni novanta, quindi, i sindaci delle medie e grandi città italiane cominciano a rivendicare un ruolo più diretto nel governo della sicurezza delle città, chiedendo in particolare di poter discutere e concorrere a definire le strategie d’intervento con le Prefetture, i livelli locali preposti al controllo dell’ordine pubblico. Nel 1994, prima in Italia, la Regione Emilia-Romagna avvia il Programma Città Sicure3 con il compito di affrontare il tema del ruolo di una Regione nel promuovere politiche di sicurezza a livello locale. Da questo progetto,

guidato da un comitato scientifico4, si svilupperà un ricco dibattito nazionale sul ruolo delle città e, più in generale, degli Enti locali nel governo della sicurezza urbana, sui livelli e le modalità di cooperazione tra i

diversi enti istituzionali (in particolare con gli organismi di competenza statale). Nel 1996, poi, nasce a Roma il Forum Italiano per la Sicurezza Urbana

I fenomeni su cui agire: degrado, conflitti nello

spazio pubblico, inciviltà, devianza

I Sindaci chiedono di svolgere un ruolo più diretto nel governo della sicurezza urbana

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(FISU), sezione italiana del Forum Europeo. Si tratta di una rete di città, regioni e province italiane avente come obiettivo quello di promuovere strategie e nuove politiche per la sicurezza in ambito urbano. Il Forum ha rappresentato, nel panorama italiano, una sede di confronto, riflessione, scambio di competenze e pratiche di indubbio valore che ha fatto crescere consapevolezza presso gli amministratori locali in merito all’analisi dei fenomeni, all’elaborazione di strategie di intervento e al proprio ruolo e spazio nella gestione del problema securitario a livello locale. Nel 1998 prende avvio la stagione dei Protocolli d’Intesa con la stipula del primo di questi tra il Comune e la Prefettura di Modena (firmato il 2 febbraio 1998), alla presenza del Ministro dell’Interno. Il Protocollo di Modena ha per oggetto la realizzazione di iniziative coordinate per rispondere alla crescente domanda di sicurezza dei cittadini. I contenuti di questo protocollo sono importanti perché tematizzeranno la discussione intorno alle competenze in materia di sicurezza urbana a livello nazionale negli anni successivi. Merita qui riportarne gli assunti in premessa: î il diritto alla sicurezza deve essere garantito non solo rispetto alla

malavita organizzata ma anche rispetto ai fenomeni di criminalità individuale e diffusa;

î la competenza in materia di ordine e sicurezza pubblica e di contrasto alla criminalità appartiene allo Stato che la esercita attraverso il Prefetto, quale autorità provinciale di pubblica sicurezza, che a sua volta si avvale del Comitato per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica5;

î è compito dell’amministrazione comunale rappresentare le istanze di sicurezza dei cittadini che vivono sul proprio territorio e assumere tutte le iniziative di prevenzione sociale per la vivibilità e la qualificazione dei luoghi che possono concorrere ad attenuare e circoscrivere i fenomeni di disagio sociale.

I contenuti della collaborazione tra città e Stato previsti dal Protocollo riguardano: a. il perseguimento di una sempre maggiore collaborazione tra le Forze

dell’Ordine e il Corpo di Polizia Municipale, attraverso una razionale ridistribuzione sul territorio dei rispettivi organici;

b. l’elaborazione di un rapporto annuale sullo stato della sicurezza pubblica;

c. l’analisi congiunta delle fenomenologie emergenti; d. il progetto del vigile di quartiere; e. le iniziative per la sicurezza e la vivibilità del territorio;

A Modena nasce la cooperazione tra Enti locali e

Stato

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f. le iniziative per favorire l’integrazione dei residenti stranieri. Il Protocollo di Modena rappresenta una tappa essenziale nell’evoluzione

della riflessione su quali debbano essere i campi di azione delle amministrazioni locali per il governo della sicurezza urbana e quale invece sia il ruolo dello Stato, attraverso il

comparto delle Forze dell’Ordine coordinato dalle Prefetture. Nel biennio 1998-1999 si sottoscriveranno in Italia oltre 60 protocolli, tutti sostanzialmente ispirati dall’impianto del primo e molto simili tra loro. Se da un lato questa è un’epoca importante e significativa per lo sviluppo della collaborazione e cooperazione tra Stato e Enti Locali nella progettazione e attuazione delle politiche di sicurezza a livello locale, dall’altro essa tradisce, come osservato da Braccesi (2000), un obiettivo più politico che operativo, essendo che molti protocolli non hanno avuto attuazione concreta e i contenuti sono stati delegati all’attività dei Comitati Provinciali per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica appena riformati.

Le innovazioni normative del biennio 1999-2000

L’esperienza dei protocolli tra città e Prefettura ha stimolato l’introduzione, in questa fase, di importanti innovazioni normative che hanno posto le basi giuridiche della cooperazione tra i diversi enti istituzionali per il governo della sicurezza urbana. Si comincia con il D.Lgs. n. 279/99 "Disposizioni integrative del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, in materia di composizione e funzionamento del Comitato provinciale per l'Ordine e la sicurezza pubblica" che, nell’ottica di un maggiore coinvolgimento degli amministratori locali quali soggetti delle politiche di sicurezza pubblica, ha previsto che il Comitato, sempre presieduto dal Prefetto, sia composto dal Questore, dal Sindaco del Comune capoluogo, dal Presidente della Provincia, dai Comandanti provinciali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, nonché dai Sindaci degli altri Comuni interessati, quando devono trattarsi questioni riferibili ai rispetti ambiti territoriali. È stata inoltre introdotta la previsione secondo la quale “la convocazione è in ogni caso disposta quando lo richiede il Sindaco del Comune capoluogo di provincia per la trattazione di questioni attinenti alla sicurezza della comunità locale o per la prevenzione di tensioni o conflitti sociali che possono comportare turbamenti dell’ordine o della sicurezza pubblica in ambito comunale” (art. 1 co.2 D.lgs. 279/99). Questa riforma del Comitato provinciale, attualmente ancora vigente,

La riforma del Comitato provinciale per l'Ordine e la sicurezza pubblica

Inizia la stagione dei Protocolli d’Intesa tra Enti locali e Stato

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testimonia il recepimento a livello normativo della maggiore attenzione alle esigenze locali della sicurezza, e avvia un modello di interventi fondato sul coordinamento tra i diversi soggetti, nonostante siano rimaste immutate le competenze dei singoli enti. Come è stato osservato (Braccesi, 2004, p. 265) “questa riforma sancisce sul piano legislativo nazionale quanto già si era realizzato con i protocolli: la fine del monopolio statale sul governo della sicurezza urbana e l’inizio di una competizione tra autorità dello stato e autorità locali volta a ridefinire ruoli e responsabilità di ciascuno”. Successivamente, nel settembre 2000, viene emanato un Decreto che costituirà la base per numerose intese inter-istituzionali che hanno visto coinvolti diversi livelli di governo che progressivamente si sono posti l’obiettivo di mettere a disposizione dei propri territori strumenti di sostegno alle politiche e agli interventi integrati per la sicurezza nei contesti locali. Il D.P.C.M. del 12 settembre 2000, all’art. 7 “Collaborazione tra Stato, Regioni e enti locali” dispone che:

“1. Lo Stato, le Regioni e gli Enti Locali collaborano in via permanente, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, al perseguimento di condizioni ottimali di sicurezza delle città e del territorio extraurbano e di tutela dei diritti di sicurezza dei cittadini, nonché per la realizzazione di specifici progetti di ammodernamento e potenziamento tecnico-logistico delle strutture e dei servizi di polizia amministrativa regionale e locale, nonché dei servizi integrativi di sicurezza e di tutela sociale, agli interventi di riduzione dei danni, all'educazione alla convivenza nel rispetto della legalità. 2. Ferme restando le disposizioni dell’art. 9, comma 2, lettera a) del decreto legislativo del 28 agosto 1997, n.281, la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del predetto decreto legislativo promuove, sentito il Ministro dell’Interno e su sua proposta, uno o più accordi tra Governo, Regioni, Province, Comuni e Comunità Montane per lo svolgimento in forma coordinata delle attività di rispettiva competenza volte al perseguimento delle finalità del presente articolo. 3. Il Ministro dell’Interno, nell’ambito delle sue attribuzioni, promuove le attività occorrenti per incrementare la reciproca collaborazione fra gli organi dello Stato, le regioni, le Amministrazioni locali in materia, anche attraverso la stipula di protocolli d’intesa o accordi per conseguire specifici obiettivi di rafforzamento delle condizioni di sicurezza delle città e del territorio extra-urbano. 4. Oltre a quanto previsto al comma 3, il Ministro dell’Interno, a richiesta

La cornice normativa per definire condizioni

e contenuti della collaborazione inter-

istituzionale

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delle Regioni e degli Enti locali interessati, presta attività di supporto per lo svolgimento dei compiti trasferiti, nonché attività di consulenza, anche con la partecipazione dei responsabili degli uffici delle prefetture e delle questure già competenti alla trattazione delle materia trasferite, per assicurare la funzionalità del servizio sotto il profilo organizzativo”.

Anche Regioni e Province, su impulso di una crescente pressione mediatica e dell’opinione pubblica, si sono attivate per porre in essere attività in grado

di svolgere un ruolo di dialogo e coordinamento con lo Stato che si caratterizzasse come “servizio” alle realtà amministrative più piccole; tipicamente queste attività sono consistite in analisi e indagini sui fenomeni e sulla loro

incidenza territoriale, in supporto all’avvio di progetti a contenuto tecnologico e nella formazione degli operatori. A livello regionale, la prima esperienza risale al 2000, quando la Giunta regionale dell’Emilia-Romagna ha siglato con la Presidenza del Consiglio una Intesa Istituzionale di Programma concretizzatasi in un Accordo in materia di sicurezza urbana siglato l’anno successivo. I principali terreni di collaborazione disciplinati da tale accordo sono: î i sistemi informativi (da intendersi come scambio e condivisione dei

dati relativi ai fenomeni di cui i diversi livelli istituzionali sono competenti: lo Stato fornisce i dati relativi alle denunce dei reati, il sistema delle polizie locali della regione fornisce dati e informazioni su disagio e disordine urbano) al fine di rendere più ricca e completa la lettura dei fenomeni che determinano le condizioni di sicurezza delle diverse zone della regione;

î la messa a punto di sale operative congiunte e coordinate tra Forze di Polizia e i Corpi di polizia locale;

î la formazione e l’aggiornamento professionale congiunto tra i corpi nazionali e locali;

î la promozione e realizzazione, con il concorso finanziario della Regione, di progetti pilota volti al miglioramento di problemi di sicurezza o finalizzati alla valutazione dell’impatto in termini di sicurezza di grandi interventi infrastrutturali. Negli anni successivi, altre regioni sigleranno con il Governo nazionale accordi analoghi (vedi per esempio la Regione Toscana, il Friuli Venezia Giulia, il Veneto).

Sempre nello stesso anno, la legge 78/2000 trasforma l’Arma dei Carabinieri in quarta forza armata e nella seconda polizia nazionale a competenza generale. Ciò che è interessante qui sottolineare, a proposito di questa riforma, è che mentre lo Stato stava procedendo (con i provvedimenti e le iniziative negoziali citati, ma anche con la riforma

Si attivano Regioni e Province

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Bassanini che, come si vedrà, ha provveduto a definire la polizia amministrativa come competenza autonoma regionale e locale) a delineare i tratti di un modello di governo della sicurezza e dell’ordine pubblico coordinato dallo Stato, ma aperto al concorso di nuovi contributi istituzionali - consapevole che il tema della sicurezza nelle città non potesse esaurirsi in una mera azione di controllo del territorio -, allo stesso tempo provvedeva a creare e rafforzare un ulteriore corpo di polizia nazionale che si è andato a sommare agli altri quattro6 corpi già esistenti. In modo un po’ contraddittorio, è stato confermato “un modello di sicurezza fondato sulla centralità delle funzioni di ordine e sicurezza pubblica di interesse nazionale, sulla pluralità delle forze di polizia nazionali, su un’organizzazione centralizzata e gerarchica delle responsabilità e delle risorse destinate alla sicurezza” (Braccesi, 2004, p. 266).

Ripartizione delle competenze tra Stato e Enti locali in materia di sicurezza Significative innovazioni alla materia delle competenze degli Enti locali nell’ambito della sicurezza pubblica sono state introdotte dal decentramento amministrativo progressivamente realizzato dalla legge 15 marzo 1997, n.59 la cosiddetta Legge Bassanini e dal successivo d.lgs. 31 marzo 1998, n.112. Con questi provvedimenti si è attuato il trasferimento di funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni, e da esse agli Enti locali. In particolare l’art. 1, comma 3, lettera l) della l. 59/97, nel disporre la delega al Governo a conferire funzioni e compiti alle Regioni e agli Enti locali, ha escluso che tale delega potesse avere ad oggetto le materie riconducibili all’ordine pubblico e alla sicurezza pubblica. Il d. lgs. 112/98, adottato in attuazione della precedente delega, al Titolo V (artt.158-164) ha ad oggetto le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla materia “polizia amministrativa regionale e locale”. In particolare, i due commi che compongono l’art.159 del d.lgs. 112/98 sono di rilevante importanza in quanto definiscono le differenze tra le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla polizia amministrativa regionale e locale e quelli relativi all’ordine pubblico e alla sicurezza pubblica. Le funzioni ed i compiti amministrativi relativi alla polizia amministrativa regionale e locale “concernono misure dirette ad evitare danni o pregiudizi che possono essere arrecati ai soggetti giuridici ed alle cose nello svolgimento di attività relative alle materie nelle quali vengono esercitate le competenze, anche delegate, delle regioni e degli enti locali, senza che ne risultino lesi o messi in pericolo i beni e gli interessi tutelati in funzione dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica”.

*

Le contraddizioni del nascente modello di

sicurezza integrata

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E invece, le funzioni ed i compiti amministrativi relativi all’ordine pubblico e alla sicurezza pubblica “concernono le misure preventive e repressive dirette al mantenimento dell'ordine pubblico, inteso come il complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l'ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale, nonché alla sicurezza delle istituzioni, dei cittadini e dei loro beni”. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 290 del 2001 sostiene che la nozione di sicurezza pubblica e ordine pubblico adottata in questo provvedimento non sia difforme dal significato ad esso attribuito tradizionalmente dalla giurisprudenza della Corte stessa (cfr. Corte Costituzionale n.14/1956). Viene in sostanza confermata la riserva allo Stato dei compiti di mantenimento dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica, compiti “primariamente diretti a tutelare beni fondamentali, quali l’integrità fisica o psichica delle persone, la sicurezza dei possessi ed ogni altro bene che assume primaria importanza per l’esistenza stessa dell’ordinamento”. Nella sentenza citata, la Corte Costituzionale afferma che “è dunque in questo senso che deve essere interpretata la locuzione ‘interessi pubblici primari’ utilizzata nell’art.159, comma 2: non qualsiasi interesse pubblico alla cui cura siano preposte le pubbliche amministrazioni, ma soltanto quegli interessi essenziali al mantenimento di una ordinata convivenza civile. Una siffatta precisazione è necessaria ad impedire che una smisurata dilatazione della nozione di sicurezza e ordine pubblico si converta in una preminente competenza statale in relazione a tutte le attività che vanificherebbero ogni ripartizione di compiti tra autorità statali di polizia e autonomie locali”. La riserva allo Stato della competenza legislativa in materia di “ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale” viene confermata dall’art.117, secondo comma, lettera h) della Costituzione, così come modificato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3. Con la sentenza n. 407 del 2002, la Corte ha osservato come questa disposizione riproduca pressoché integralmente l’art. 1, comma 3, lettera l) della legge 59/97 e che induce ad una interpretazione restrittiva della nozione di “sicurezza pubblica”. La sicurezza pubblica, secondo un tradizionale indirizzo della Corte stessa, è da configurare quindi come settore riservato allo Stato relativo alle misure inerenti alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico. In seguito è stata adottata un’interpretazione maggiormente estensiva; con la sentenza n. 21 del 2010, la Corte ha sostenuto che la sicurezza di cui si tratta all’art.117, secondo comma, lettera h) della Costituzione “non si esaurisce nell’adozione di misure relative alla prevenzione e repressione dei reati, ma comprende la tutela dell’interesse generale alla incolumità delle persone, e quindi la salvaguardia di un bene che abbisogna di una regolamentazione uniforme su tutto il territorio nazionale”.

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2001-2005: Le riforme e la collaborazione tra enti Le prime iniziative di collaborazione inter-istituzionale La prima metà degli anni 2000 rappresenta una stagione del dibattito e delle iniziative in materia di sicurezza urbana particolarmente intensa, tanto in termini di provvedimenti normativi (statali e regionali) quanto in termini di iniziative negoziali e di sperimentazione di modalità operative d’intervento. È stato un periodo anche di intenso dibattito a livello nazionale e locale, ricco di iniziative di tipo culturale e scientifico e di sperimentazione di modalità di approccio al tema fortemente influenzate da esperienze straniere europee (si pensi alla mediazione, agli interventi per le vittime, alle modalità partecipative di presidio del territorio sul modello anglosassone, ecc.). Sono anche gli anni in cui in Italia molti decisori politici - certamente in maggior numero rispetto agli studiosi che insistevano nel richiamare l’attenzione sugli effetti collaterali di tale strategia (Wacquant, 2006) hanno subito il fascino dell’approccio della zero tolerance adottata dal Sindaco Giuliani di New York.

L’amministrazione Giuliani a New York

L’amministrazione Giuliani a New York, nella prima metà degli anni ’90, aveva assunto come parola d’ordine e principio guida la qualità della vita (quality of life initiative). La lotta simultanea agli spacciatori di crack, ai borseggiatori e ai venditori ambulanti è stata spiegata da Giuliani ai newyorkesi come un attacco a tutti gli elementi che ostacolano il diritto a vivere liberamente e senza preoccupazioni la Grande Mela. In questa fase, quella della cosiddetta battaglia di riconquista degli spazi pubblici, hanno assunto un valore emblematico gli ambulanti cacciati dalle strade di Manhattan - del cui panorama costituivano un tratto distintivo, dal Village sino ai gradini del Metropolitan Museum nel Golden Mile dell’Upper East Side - e i lavavetri. L’obiettivo dichiarato del sindaco era di restituire le strade di New York ai cittadini ripulendole dalle presenze pericolose, minacciose ed ansiogene. Nella prima fase non si parlava di tolleranza zero ma piuttosto di order maintenance policing e, soprattutto, di quality of life, qualità della vita. Il problema è stato che si “è fatto di tutta un’erba un fascio”, per cui insieme ai borseggiatori e agli spacciatori di droga sono stati cacciati dalle strade della città, tra gli applausi dei commercianti, anche i venditori ambulanti. E inoltre, presentandolo come uno strumento per contrastare le street gangs giovanili per riconquistare la città, la polizia di New York è stata autorizzata di fatto ad agire, senza troppi complimenti, contro qualsiasi assembramento anche di cinque persone per disperderlo. Dalla Quality of Life Initiative alla Zero Tolerance Option il passo è stato breve. Il resto è noto. (Amendola, 2010b, p. XXIV)

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Nonostante la ricchezza di iniziative, normative e non, la collaborazione tra Stato ed enti locali in materia di sicurezza ha faticato a prendere una forma definitiva e strutturata. Si sono certamente affermate forme innovative di cooperazione iter-istituzionale e nuove progettualità, senza però che si giungesse ad un quadro normativo definitivo disciplinante l’oggetto, le modalità e i settori della collaborazione tra enti in questa materia. Le principali forme di cooperazione sono state: î i protocolli d’intesa sottoscritti da Prefetto e Sindaco con l’obiettivo di sperimentare nuove modalità di cooperazione tra soggetti e istituzioni al fine di realizzare iniziative coordinate per un governo locale della sicurezza. Tra il 1998 e il 2003 in Italia si sperimentano circa 124 protocolli di cooperazione inter-istituzionale promossi a livello locale. I protocolli, pur con il limite cui si è fatto cenno di non aver in molti casi avuto un’intensa vita operativa, hanno svolto senz’altro la funzione di consolidare il quadro dei soggetti chiamati ad attivare forme di collaborazione per la sicurezza locale, a definire i reciproci campi d’intervento (le politiche sociali, di rigenerazione urbana per i Comuni, la messa a disposizione di dati e know-how da parte delle Prefetture e del comparto dell’ordine pubblico), nonché i terreni di cooperazione (controllo del territorio congiunto da parte delle forze dell’ordine e delle polizia locali, analisi e studio delle condizioni di sicurezza locali); î le intese istituzionali di programma o i protocolli d’intesa tra Regioni e Stato hanno dato in genere attuazione a disposizioni previste nelle stesse leggi regionali in materia di politiche integrate di sicurezza, leggi che trovano particolare sviluppo proprio in questo periodo. Nascono prevalentemente per iniziativa delle Regioni con l’obiettivo di sostenere il sistema dei propri Enti locali nel promuovere maggiore integrazione istituzionale e operativa in materia di sicurezza tra città, Province, Regione e istituzioni dello Stato responsabili dell’ordine e della sicurezza pubblica nel territorio regionale; î il progetto “Poliziotto e Carabiniere di quartiere” avviato nel 2003 da parte del Ministero dell’Interno. Il progetto assegna al poliziotto e al carabiniere di quartiere il ruolo di trait d’union sul territorio, vicino alle persone con l’obiettivo di capirne e prevenire le insicurezze. Si tratta di “un nuovo servizio integrativo del dispositivo per il controllo del territorio, volto ad effettuare un monitoraggio conoscitivo dell’ambiente più penetrante e costante, e si affianca al controllo fisico sviluppato dagli altri moduli operativi già in atto (volanti, pattuglie motomontate, a cavallo, camper ed altri)” (Ministero dell’Interno, 2005, p. 68). La visione del concetto di sicurezza che

I primi strumenti di concreta cooperazione

tra diversi livelli di governo delle nuove

politiche di sicurezza

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ha ispirato tale progetto è quella di sicurezza integrata (vd. capitolo 2) ben oltre “l’aspettativa della collettività di non rimanere vittima di un fatto-reato, ma inteso come fattore strettamente collegato alla qualità della vita e come insieme di condizioni che disciplinano la vita quotidiana” (Ministero dell’Interno, 2005, p. 65). Dopo una prima fase sperimentale del progetto, nel 2003 esso è stato esteso a tutti i capoluoghi di provincia italiani. A questa innovazione nell’approccio del presidio del territorio si è affiancata anche la pratica della maggior interazione tra forze di polizia nazionali e polizie locali con la diffusione in molte città delle pattuglie interforze. Sulla scorta delle numerose esperienze di forme di collaborazione istituzionale di questo tipo, con una crescente funzione riconosciuta agli Enti locali nel promuovere politiche locali di sicurezza urbana, emerge il tema del ruolo che le polizie municipali svolgono all’interno di queste nuove politiche di sicurezza. Molti degli accordi tra Regioni e Ministero dell'Interno prevedono progetti per la formazione congiunta delle forze di polizia, nazionali e locali, in modo da facilitare una condivisione di filosofia di approccio, un chiarimento sui reciproci ambiti di intervento e sui terreni di collaborazione. È stato sottolineato come “la qualificazione della polizia locale diventi, in questo stesso periodo, sempre più spesso parte integrante del discorso sullo sviluppo di nuove politiche di governo della sicurezza” (Braccesi, 2004, p. 268). Nel 2003, inoltre, matura il terreno per una proposta di legge nazionale dal

titolo “Disposizioni per il coordinamento in materia di sicurezza pubblica e polizia amministrativa locale, e per la realizzazione di politiche integrate per la sicurezza" formulata dai principali organismi nazionali di

rappresentanza degli enti territoriali (la Conferenza dei presidenti di Regione e di Provincia autonoma, il Consiglio Nazionale dell’Associazione dei comuni italiani e l’Unione delle Province italiane). Essa nasce dalla riforma del Titolo V della Costituzione (artt. 117 e 118) ad opera della L. Cost. 18 ottobre 2001, n.3 che, come illustrato nel box di approfondimento, ha trasferito alle Regioni alcune funzioni e compiti e ne ha riservati allo Stato altri nelle materie della polizia amministrativa locale e della sicurezza pubblica e ha previsto una legge nazionale di coordinamento; la proposta di legge si pone l’obiettivo di fare un ulteriore passo in avanti, definendo le forme del coordinamento tra questi diversi livelli di governo.

La prima proposta di legge nazionale per il coordinamento tra Stato e Enti Locali

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La cooperazione possibile tra Stato, Regioni e Enti locali L’art.118, terzo comma, della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, dispone che la legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alla lettera h) del secondo comma dell’art.117 Cost. In seguito, la legge 131/2003, all’art. 10, comma 2, lettera c) assegna al rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle autonomie la promozione dell’attuazione delle intese e del coordinamento tra Stato e Regione, previsti da leggi statali nelle materie indicate dall’art.118, terzo comma, Cost. Nella sentenza n.134 del 2004 la Corte Costituzionale non esclude che si possano sviluppare “auspicabili forme di collaborazione tra apparati statali, regionali e degli enti locali volti a migliorare le condizioni di sicurezza dei cittadini e del territorio, sulla falsariga di quanto ad esempio prevede il D.P.C.M. 12 settembre 2000, il cui art. 7, comma 3, in relazione al comma 1, dispone che il Ministro dell'interno promuove le attività occorrenti per incrementare la reciproca collaborazione fra gli organi dello Stato, le regioni in tema di sicurezza delle città e del territorio extraurbano e di tutela dei diritti di sicurezza dei cittadini. Ma le forme di collaborazione e di coordinamento che coinvolgono compiti e attribuzioni di organi dello Stato non possono essere disciplinate unilateralmente e autoritativamente dalle regioni, nemmeno nell'esercizio della loro potestà legislativa: esse debbono trovare il loro fondamento o il loro presupposto in leggi statali che le prevedano o le consentano, o in accordi tra gli enti interessati”. Si evince che anche la Corte Costituzionale accoglie la necessità e l’utilità di forme di collaborazione e cooperazione tra i diversi livelli di governo per garantire la sicurezza delle città, che come abbiamo visto richiede interventi su molti livelli delle politiche pubbliche e che non si esaurisce con la questione dell’ordine pubblico, sottolineando però che tale processo non può essere avviato in modo unilaterale, ma solo sulla base di norme statali che lo prevedano o come esito di un accordo tra tutti gli enti interessati. Un’ulteriore precisazione in materia di collaborazione tra Stato e autonomie locali proviene dalla sentenza n.105 del 2006 della Corte Costituzionale che afferma che “nella prospettiva di una completa ed articolata attuazione del principio di leale collaborazione tra istituzioni regionali e locali ed istituzioni statali non può escludersi ‘che l'ordinamento statale persegua opportune forme di coordinamento tra Stato ed enti territoriali in materia di ordine e sicurezza pubblica’ (v. sentenza n. 55 del 2001), volte, evidentemente, a migliorare le condizioni di sicurezza dei cittadini e del territorio, auspicabili e suscettibili di trovare il loro fondamento anche in accordi fra gli enti interessati, oltre che nella legislazione statale (v. sentenza n. 134 del 2004): auspicio, questo, che necessariamente presuppone la possibilità, in capo all'Ente locale, di apprezzamento - attraverso l'attività di rilevazione, di studio e di ricerca

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applicata - delle situazioni concrete e storiche riguardanti la sicurezza sul territorio regionale, alla luce delle peculiarità dei dati e delle condizioni che esso offre”. In sostanza con questa sentenza la Corte dichiara costituzionalmente legittime le attività di studio e analisi condotte dalle Regioni sulle condizioni di sicurezza dei propri territori, in quanto tali attività nulla hanno a che fare con i contenuti della sicurezza pubblica riservata allo Stato; la rilevazione, lo studio e la ricerca applicata sulla sicurezza del territorio costituiscono piuttosto il presupposto conoscitivo necessario all’Ente locale per aderire e dar vita a forme di collaborazione negoziata con gli altri enti statali che abbiano per obiettivo il miglioramento delle condizioni di sicurezza dei cittadini (Servizio Studi del Senato, 2010).

Il primo pacchetto sicurezza e le leggi regionali

Questo periodo, inoltre, è segnato dall’emanazione del cosiddetto primo pacchetto sicurezza, la legge 128 del 2001 “Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini”. Si tratta del primo provvedimento di iniziativa governativa che prevede un insieme di misure che intendono rispondere al crescente allarme sociale per lo stato della sicurezza nelle città italiane. Il provvedimento introduce un significativo inasprimento del regime sanzionatorio e definisce il furto in abitazione e quello con strappo (il cosiddetto scippo) figure autonome di reato, prima erano semplicemente aggravanti del delitto di furto. Inoltre, l’art. 17, comma 1, prevede che il Ministro dell’Interno “impartisca e aggiorni annualmente le direttive per la realizzazione, a livello provinciale e nei maggiori centri urbani, di piani coordinati di controllo del territorio da attuare a cura dei competenti uffici della Polizia di Stato e comandi dell’Arma dei Carabinieri e, per i servizi pertinenti alle attività d’istituto, del Corpo della Guardia di Finanza, con la partecipazione di contingenti dei corpi o servizi di Polizia Municipale, previa richiesta al sindaco, o nell’ambito di specifiche intese inter-istituzionali, prevedendo anche l’istituzione di presìdi mobili di quartiere nei maggiori centri urbani, nonché il potenziamento e il coordinamento, anche mediante idonee tecnologie (ad esempio impianti di videosorveglianza), dei servizi di soccorso pubblico e pronto intervento per la sicurezza dei cittadini”. Infine, questa è stata la stagione dell’adozione di leggi regionali per la promozione di politiche integrate di sicurezza. Per prima si muove nel 1999 la Regione Emilia-Romagna, ancor prima della riforma del Titolo V della Costituzione (2001). Nei successivi dieci anni quasi tutte le regioni italiane si sono dotate di una legge sulla sicurezza. Alcune di queste vengono adottate

Si modificano i reati di furto in abitazione

e furto con strappo

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in parallelo a leggi regionali già esistenti in materia di polizia locale7, altre disciplinano congiuntamente politiche di sicurezza e polizie locali. Molte di queste leggi fanno riferimento all’istituzione di “un sistema integrato di sicurezza” nel quale convergono interventi in settori di competenza prevalentemente locale, quali la riqualificazione delle aree urbane degradate, la prevenzione di situazioni di disagio sociale, in particolare giovanile, la mediazione dei conflitti sociali e culturali, azioni di supporto al controllo del territorio (utilizzo di strumenti tecnologici e polizia locale di prossimità), l’educazione alla legalità, l’assistenza alle vittime di reato. È stato osservato che poiché “la sicurezza è indicata in quasi tutte le leggi regionali come un bene comune, essenziale per uno sviluppo ordinato e durevole della convivenza civile” si può osservare che “non siamo in presenza di una materia vera e propria ma piuttosto di fronte ad un interesse che attraversa trasversalmente buona parte delle materie di competenza regionale”. In altri termini, non è una materia nuova o autonoma, rispetto a quelle già previste dall’art.117 Cost., ma “la sicurezza rappresenta un fine, un obiettivo, che si ottiene attraverso una confluenza di materie che ricadono nella competenza legislativa, concorrente o propria, delle regioni, fermo restando, naturalmente il limite della potestà esclusiva dello Stato in materia di ordine pubblico e sicurezza, ai sensi dell’art.117 Cost, comma 2, lett. h), da intendersi come attività di prevenzione dei reati e mantenimento dell’ordine pubblico” (Musumeci, 2009, p.4). Le norme regionali si pongono al servizio dei propri territori, sostenendone e stimolandone la progettualità innovativa (con modalità diverse, quasi tutte le leggi regionali prevedono il finanziamento di interventi a scala locale) e riservando alla regia regionale quelle attività di supporto cognitivo (osservatori, analisi dello stato della sicurezza territoriale), operativo (formazione delle polizie locali, promozione della formazione congiunta con le altre forze di polizia nazionali) o istituzionale (promozione di accordi inter-istituzionali) realizzabili con maggiore efficacia a livello sovra-locale.

Le leggi regionali in materia di sicurezza integrata

Abruzzo L.R. 2 agosto 1997, n. 83 - Ordinamento della polizia locale L.R. 12 novembre 2004, n.40 - Interventi regionali per promuovere l’educazione alla legalità e per garantire il diritto alla sicurezza dei cittadini

Molte leggi regionali promuovono sistemi integrati di sicurezza

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Calabria L.R. 17 aprile 1990, n. 24 - Norme sull’ordinamento della Polizia Municipale L.R. 10 gennaio 2007, n.5 - Promozione del sistema integrato di sicurezza Campania L.R. 13 maggio 2003, n.12 - Norme in materia di polizia amministrativa regionale e locale e politiche di sicurezza Emilia-Romagna L.R. 4 dicembre 2003, n.24 - “Disciplina della polizia amministrativa locale e promozione di un sistema integrato di sicurezza” Friuli-Venezia Giulia L.R. 29 aprile 2009, n.9 - Disposizioni in materia di politiche di sicurezza e ordinamento della polizia locale Lazio L.R. 5 luglio 2001, n.15 - Promozione di interventi volti a favorire un sistema integrato di sicurezza nell’ambito del territorio regionale L.R. 13 gennaio 2005, n. 1 - Norme in materia di polizia locale

Liguria L.R. 24 dicembre 2004, n.28 - Interventi regionali per la promozione di sistemi integrati di sicurezza L.R. 1 agosto 2008, n.31 - Disciplina in materia di polizia locale Lombardia L.R. 14 aprile 2003, n. 4 - Riordino e riforma della disciplina regionale in materia di polizia locale e sicurezza urbana

Marche L.R. 29 ottobre 1988, n.38 - Norme in materia di polizia locale L.R. 24 luglio 2002, n.11 - Sistema integrato per le politiche di sicurezza e di educazione alla legalità Piemonte L.R. 30 novembre 1987, n.58 - Norme in materia di Polizia locale L.R. 10 dicembre 2007, n.23 - Disposizioni relative alle politiche regionali in materia di sicurezza integrata

Provincia di Trento L. 27 giugno 2005, n.8 - Promozione di un sistema integrato di sicurezza e disciplina della polizia locale Sardegna L.R. 22 agosto 2007, n.9 - Norme in materia di polizia locale e politiche regionali per la sicurezza Toscana L.R. 16 agosto 2001, n. 38 - Interventi regionali a favore delle politiche locali per la sicurezza della comunità toscana L.R. 3 aprile 2006, n. 12 - Norme in materia di polizia comunale e provinciale Umbria L.R. 25 gennaio 2005, n.1 - Disciplina in materia di polizia locale L.R. 14 ottobre 2008, n.13 - Disposizioni relative alla promozione del sistema integrato di sicurezza urbana ed alle politiche per garantire il diritto alla sicurezza dei cittadini

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Valle d’Aosta L.R. 19 maggio 2005, n.11 - Nuova disciplina della polizia locale e disposizioni in materia di politiche di sicurezza L.R. 18 aprile 2008 n. 15 - Incentivi regionali per la promozione dell’esercizio associato delle funzioni di polizia locale Veneto L.R. 9 agosto 1988, n.40 - Norme in materia di polizia locale L.R. 7 maggio 2002, n.9 - Interventi regionali per la promozione della legalità e della sicurezza

2006-2011: il maggior riconoscimento degli Enti locali

Questa ultima fase di evoluzione del dibattito sulla sicurezza urbana è stata particolarmente intensa e ricca di soluzioni negoziali e normative per cercare di dare sostanza all’obiettivo della integrazione tra i diversi livelli istituzionali nel governo locale della sicurezza. In questo lasso di tempo si sono avvicendati due Governi nazionali di segno opposto, ma questo non ha impedito di mantenere una linea di continuità rispetto ad alcune strategie intraprese (ci si riferisce in particolare ai Patti per la sicurezza). Si tratta di una fase in cui si tenta, in particolare, di valorizzare

maggiormente il ruolo degli Enti locali, mantenendo tuttavia saldo l’indirizzo e il governo dei processi da parte del livello centrale statuale (Patti per la Sicurezza) e si attribuiscono ai Sindaci nuovi poteri in materia

di sicurezza urbana, sempre in qualità però di Ufficiali del Governo (le ordinanze). Molti sono stati i terreni di intervento normativo in questi ultimi anni sotto il capitolo della sicurezza urbana (si pensi per esempio al complesso tema dell’immigrazione8); in questa sede ci limitiamo ad evidenziare gli interventi che hanno avuto un più diretto impatto sul terreno dell’attribuzione delle competenze tra livelli di governo e sulle modalità di costruire progettualità complesse a livello locale.

La stagione dei Patti per la Sicurezza

La norma che pone le premesse per la successiva importante fase di sviluppo dei Patti per la Sicurezza è l’art. 1, co. 439 della legge finanziaria per il 2007 (l. 296/2006). Essa prevede la stipulazione di strumenti di

La valorizzare del ruolo degli Enti locali nel governo della sicurezza urbana

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collaborazione Stato/enti territoriali, autorizzando i Prefetti a stipulare convenzioni con le Regioni e gli enti locali per realizzare programmi straordinari per incrementare i servizi di polizia, di soccorso tecnico urgente e per la tutela della sicurezza dei cittadini, con finanziamenti da parte di Regioni ed Enti locali. Su iniziativa governativa, viene in seguito promosso e adottato il 20 marzo 2007 il Patto per la sicurezza tra il Ministero dell’Interno e l’Anci, un accordo quadro per sviluppare con i Comuni italiani progetti condivisi, nell’ambito di un rapporto di sussidiarietà tra gli organismi statali e gli Enti locali e territoriali e in cui viene fissato il principio della sicurezza come diritto primario del cittadino. A questo Patto si aggiunge l'intesa con tutti i sindaci delle città metropolitane che stabilisce: a. la definizione entro 60 giorni di Patti per la sicurezza con ogni città metropolitana, che prevedano risorse organizzative e finanziarie adeguate da parte di tutti i soggetti contraenti; b. l'avvio, nello stesso periodo di tempo, di un gruppo di lavoro congiunto Governo-città metropolitane per definire le innovazioni legislative e normative che possano sostenere queste intese e consentire di realizzare nuovi strumenti per contrastare il disagio e il degrado nelle aree urbane. Nel primo periodo di sviluppo, sono stati siglati Patti prevalentemente con le aree metropolitane con un complessivo impegno economico di Enti locali e Regioni per decine di milioni di euro a sostegno della cooperazione con le Prefetture e le Forze dell’Ordine. Fino al marzo del 2008 (termine del Governo Prodi) sono stati siglati 18 Patti per la Sicurezza principalmente nei capoluoghi di regione. Complessivamente, al 21 dicembre 2011 (con la stipula del Terzo Patto per Roma Sicura), sono stati siglati dal Ministro dell’Interno con gli Enti locali 64 Patti per la sicurezza a conferma della continuità data a questo strumento anche dai Governi successivi. A partire dalla seconda metà del 2008 i Patti si sono diffusi anche in realtà territoriali di medie dimensioni9, superandone l’iniziale vocazione prevalentemente metropolitana. Il 13 settembre del 2008, poi, è stato sottoscritto l’accordo “Patti per la sicurezza nei Piccoli Comuni”, tra il Ministero dell'Interno e Anci-Consulta nazionale piccoli comuni. Si tratta di un accordo quadro a valenza nazionale che indica linee specifiche di intervento nelle piccole realtà per assicurare un più elevato livello di risposta alla domanda di sicurezza. Sul sito del Ministero dell’Interno così sono presentate le premesse e gli

Il Patto per la Sicurezza: un

nuovo strumento negoziale

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obiettivi dei Patti per la sicurezza: “La spinta alla conclusione dei Patti nasce dall’esigenza di garantire ai cittadini il diritto alla sicurezza e alla qualità della vita urbana. Si tratta di accordi di collaborazione e di solidarietà stipulati tra Stato ed enti locali che prevedono l’azione congiunta di più livelli di governo e la promozione di interventi, anche in via sussidiaria e nell’ambito delle responsabilità di ciascuno, per rendere effettivo il diritto alla sicurezza. Il disagio sociale e lo scadimento dei comportamenti civili sono spesso strettamente legati a fenomeni di maggiore pericolosità e allarme che ledono il diritto alla sicurezza, soprattutto delle fasce più deboli della popolazione (anziani, donne e minori). L’obiettivo dei Patti è quello di eliminare progressivamente le aree di degrado e di illegalità, nel rispetto delle competenze delle autorità di pubblica sicurezza, ottimizzando l’integrazione con le politiche di sicurezza delle autonomie territoriali e impegnando maggiormente le polizie locali. I Patti spesso consistono in piani che prevedono lo stanziamento di fondi o l’impiego di maggiori risorse umane, oppure azioni mirate per affrontare, ad esempio, la questione dei rom o i reati di contraffazione, di sfruttamento della prostituzione, di abusivismo commerciale. Essi possono comportare anche la riorganizzazione dei presidi delle forze dell'ordine, l'intensificazione dei poliziotti di quartiere, il contrasto alle forme di mendacità organizzata”10. I Patti per la Sicurezza siglati dal Ministero dell’Interno (2007-2011)

AREA TERRITORIALE DATA DELLA STIPULA

Calabria Patto Calabria sicura 16 febbraio 2007

Campania Il Patto per la sicurezza di Napoli e provincia 3 novembre 2006

Emilia-Romagna Patto per Modena sicura Secondo Patto per Modena sicura Intesa per la sicurezza nell'area metropolitana di Bologna Patto per Bologna sicura

18 luglio 2007 12 aprile 2011

19 giugno 2007 19 giugno 2007

Lazio Patto per Roma sicura Secondo Patto per Roma sicura Terzo Patto per Roma sicura Patto per Latina sicura Patto per la sicurezza per Fara in Sabina Patto per il Lazio sicuro

18 maggio 2007

29 luglio 2008 21 dicembre 2011

16 luglio 2009 16 settembre 2008 28 novembre 2011

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Liguria Patto per la sicurezza per la provincia di Savona Patto territoriale per la sicurezza della Spezia Patto per Genova sicura

8 giugno 2010

26 gennaio 2009 14 giugno 2007

Lombardia Patto per la sicurezza di Varese Patto per la sicurezza di Busto Arsizio Patto per la sicurezza di Gallarate Patto per la sicurezza tra la Prefettura di Varese, la Provincia di Varese e il Comune di Varese Patto per la sicurezza tra la Prefettura di Varese e il Comune di Gallarate (rinnovo) Patto per la sicurezza tra la Prefettura di Varese e il Comune di Busto Arsizio (rinnovo) Patto per la sicurezza tra la Prefettura di Lecco, la Regione Lombardia, la Provincia di Lecco, il Comune di Lecco e i Comuni di Calolziocorte, Casatenovo, Mandello del Lario, Merate, Valmadrera Patto per Brescia sicura Secondo Patto per Brescia sicura Patto per la sicurezza tra la Prefettura, la Provincia di Lodi ed i Comuni di Lodi, Casalpusterlengo, Codogno, Lodi Vecchio e Sant’Angelo Lodigiano Patto per la sicurezza dell'area del Lago Maggiore* Patto per la sicurezza dell'area del Lago di Lugano Patto per la sicurezza dell'area del Lago di Como Patto per Monza sicura Patto per la sicurezza dell'area del Lago di Garda** Patto locale di sicurezza urbana area “Bassa Comasca” Patto per la sicurezza area Mariano Comense Patto per Como sicura Patto per Milano sicura

1 dicembre 2008 1 dicembre 2008 1 dicembre 2008

26 luglio 2011

26 luglio 2011

26 luglio 2011

18 aprile 2011

28 luglio 2008 26 novembre 2010

26 luglio 2010

1 luglio 2010 1 luglio 2010

7 giugno 2010 3 febbraio 2010 20 marzo 2009

12 novembre 2008 5 agosto 2008

10 giugno 2008 18 maggio 2007

Marche Patto per la sicurezza di San Benedetto del Tronto (AP) Protocollo sulla sicurezza urbana, Prefettura di Ancona - Unione dei Comuni della Media Vallesina

2 marzo 2010

14 ottobre 2008

Piemonte Secondo Patto per Asti sicura Patto per Asti sicura Patto per Torino sicura

6 novembre 2009 17 dicembre 2007

22 maggio 2007

Puglia Patto per la sicurezza per Francavilla Fontana (BR) Protocollo per la sicurezza della città di Foggia Bari, protocollo sull'utilizzo dei beni immobili confiscati alla criminalità Patto per Bari sicura

14 marzo 2011

6 novembre 2008 18 giugno 2007

18 giugno 2007

Sardegna Patto per Cagliari sicura

11 giugno 2007

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Sicilia Patto per Catania sicura Patto per Ragusa sicura Patto di sicurezza per la provincia di Trapani

11 giugno 2007

21 aprile 2011 25 giugno 2009

Toscana Patto per la sicurezza tra prefettura di Grosseto e comune di Grosseto Patto per Pisa sicura Patto per la sicurezza per il comune di Lucca e i comuni della Versilia Patto per Prato sicura Patto per Prato sicura Patto per la sicurezza di Siena Patto per Firenze sicura

12 ottobre 2010

9 giugno 2010 8 giugno 2010

16 marzo 2009 31 luglio 2007

26 gennaio 2010 17 giugno 2008

19 luglio 2007

Umbria Patto per Perugia sicura Secondo Patto per Perugia sicura

10 marzo 2008

14 gennaio 2011

Veneto Patto per la sicurezza della provincia di Venezia Patto per la sicurezza del comune e della provincia di Padova Secondo Protocollo di Intesa sulla sicurezza urbana e territoriale nella Regione del Veneto Patto per la sicurezza di Vicenza Patto per Venezia sicura

15 marzo 2010 15 aprile 2009

16 marzo 2009

13 novembre 2007

18 luglio 2007 * Il Patto per la sicurezza dell’Area del Lago Maggiore è stato siglato anche dalle Prefetture e dalle Province di Novara e del Verbano Cusio-Ossola e dalla Regione Piemonte ** Il Patto per la sicurezza dell'Area del Lago di Garda coinvolge tre Regioni: Lombardia, Veneto e Trentino-Alto Adige

I nuovi poteri di ordinanza dei Sindaci

I Patti per la Sicurezza rappresentano certamente un elemento cardine della cooperazione inter-istituzionale e allo stesso tempo conferiscono un ruolo centrale agli Enti locali. Ma sarà con la normativa del 2008 che si conferiscono al Sindaco poteri di azione autonoma di cui era prima del tutto privo. Con l’art.6 del decreto legge 23 maggio 2008, n.92 (cosiddetto “pacchetto sicurezza”) è stata introdotta la modifica dell’art. 54 del Testo Unico degli Enti Locali (Tuel), estendendo i poteri di ordinanza del Sindaco quale ufficiale del Governo, anche all’incolumità pubblica e alla sicurezza urbana (si veda la dettagliata disamina presente in Regione Piemonte, 2009). L’articolo 54 è intitolato “Attribuzioni del Sindaco nelle funzioni di

Il Sindaco, in qualità di ufficiale del

Governo, ha nuovi poteri di ordinanza in materia di incolumità

pubblica e di sicurezza urbana

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competenza statale” e nella nuova formulazione prevede poteri estesi di ordinanza del sindaco che gli consentono l’adozione “con atto motivato, di provvedimenti, anche contingibili e urgenti, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana. I provvedimenti di cui al presente comma sono preventivamente comunicati al Prefetto anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione” (comma 4). Rispetto al precedente testo le principali innovazioni su questo punto sono: î l’ampliamento del potere del Sindaco di emanare ordinanze contingibili e urgenti, prevedendo quale situazione legittimante il provvedimento il grave pericolo per la sicurezza urbana (che si somma al grave pericolo per l’incolumità dei cittadini, già previsto, che viene qui ridefinita incolumità pubblica); î l’utilizzo dell’avverbio ‘anche’ fa ritenere poi che questa nuova formulazione aggiunga una competenza di tipo ordinario (o stabilmente extra ordinem) ad adottare provvedimenti con le medesime finalità11. L’avverbio ‘anche’ lascia infatti intendere che le ordinanze di cui si tratta possono non rientrare tra quelle contingibili e urgenti. Sul punto è

intervenuto il Tar del Veneto (Sezione III, 17 agosto 2009, n.2327) che sul potere extra ordinem ha affermato che “sono sempre determinanti i principi generali per cui il potere extra ordinem presuppone la necessità di

provvedere, con immediatezza, in presenza di situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile, che non possono essere fronteggiate con gli strumenti ordinari apprestati dall’ordinamento, e richiede altresì la sussistenza di una situazione di pericolo, quale ragionevole probabilità che accada un evento dannoso, nel caso in cui l’Amministrazione non intervenga prontamente”. Ad integrazione di questa linea interpretativa, si è affermato che “questo potere di ordinanza, se non legittimamente esercitato, si traduce in una disciplina generale derogatoria, che si sovrappone, integrando o sostituendo, alle disposizioni del regolamento locale” (Italia, 2010). Inoltre, il comma 4 bis del nuovo art. 54 prevede che il Ministro dell’Interno adotti un decreto che definisca l’ambito di applicazione delle precedenti disposizioni “di cui ai commi 1 e 4 anche con riferimento alle definizioni relative alla incolumità pubblica e alla sicurezza urbana” (Italia, 2010). L’estensione e i limiti del potere di intervento del Sindaco vengono dunque individuati in un atto successivo, di natura regolamentare: il d.m. del 5

I dubbi intorno all’avverbio “anche”: il potere ordinatorio è ordinario o straordinario?

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agosto 2008 in merito a “Incolumità pubblica e sicurezza urbana: definizione e ambiti di applicazione” (si veda sul punto Regione Piemonte, 2010). Il Decreto stabilisce che: n per incolumità pubblica si intende l’integrità fisica della popolazione n per sicurezza urbana si intende un bene pubblico da tutelare attraverso

attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile e la coesione sociale.

Si tratta della prima definizione giuridica del concetto di sicurezza urbana che tuttavia risulta “elastica e omnicomprensiva, mentre essa avrebbe dovuto stabilire confini concettuali, e non essere ampliata sino a ricomprendere l’intera legislazione che regola la vita civile” (Italia, 2010, p.6). In altri termini la sicurezza urbana ha a che fare, in ambito locale, con il rispetto delle regole che governano la convivenza tra le persone, con la vivibilità nei centri urbani e con la coesione sociale. Si tratta di concetti densi e ricchi di significato che possono essere letti e interpretati secondo categorie e valori anche molto diversi. È importante sottolineare anche che in questa definizione non si fa riferimento alla prevenzione e al contrasto della criminalità. Ciò è ragionevolmente da attribuire al fatto che il Decreto del Ministro dell’Interno che introduce questa definizione di sicurezza urbana nell’ambito dell’applicazione del potere ordinatorio dei Sindaci, in attuazione della riforma dell’art. 54 Tuel; la prevenzione e il contrasto della criminalità ne restano fuori, mantenendosi materie di competenza dello Stato sottratte al potere d’intervento dei Sindaci e degli Enti locali in genere. In assenza di una definizione precisa del concetto, quindi, il legislatore nel decreto indica le attività da porre in essere per tutelare la sicurezza urbana. Si prevede infatti che il Sindaco dovrà quindi intervenire per prevenire e contrastare: a) le situazioni urbane di degrado e isolamento che favoriscono

l’insorgere di fenomeni criminosi, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l’accattonaggio con impiego di minori e disabili e i fenomeni di violenza legati anche all’abuso di alcool;

b) le situazioni in cui si verificano comportamenti quali il danneggiamento al patrimonio pubblico e privato o che ne impediscono la fruibilità e determinano lo scadimento della qualità urbana;

c) l’incuria, il degrado e l’occupazione abusiva di immobili tali da favorire le situazioni indicate ai punti a) e b);

d) le situazioni che costituiscono intralcio alla pubblica viabilità o che alterano il decoro urbano, in particolare quelle di abusivismo

La definizione giuridica di

sicurezza urbana

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commerciale e di illecita occupazione di suolo pubblico; e) i comportamenti che, come la prostituzione su strada o l’accattonaggio

molesto, possono offendere la pubblica decenza anche per le modalità con cui si manifestano, ovvero turbano gravemente il libero utilizzo degli spazi pubblici o la fruizione cui sono destinati o che rendono difficoltoso o pericoloso l’accesso ad essi.

Inoltre, le ordinanze del Sindaco, ordinarie o straordinarie, devono essere preventivamente comunicate al Prefetto, il quale può predisporre gli strumenti ritenuti necessari per la loro attuazione. Rispetto al testo originario, che prevedeva che il ruolo del Prefetto fosse limitato alla cooperazione nei casi in cui il Sindaco richiedesse l’uso della forza pubblica ai fini dell’esecuzione delle ordinanze adottate, è stato introdotto l’obbligo di comunicare preventivamente al Prefetto i provvedimenti ordinatori adottati. Un’ulteriore modifica all’art. 54 del Tuel è stata introdotta con il decreto legge n. 187 del 2010, convertito dalla legge 17 dicembre 2010, n. 217 recante “Misure urgenti in materia di sicurezza”. All’art. 8, il comma 9 dell’art. 54 è così modificato: “Al fine di assicurare l’attuazione dei provvedimenti adottati dai Sindaci ai sensi del presente articolo, il Prefetto, ove le ritenga necessarie, dispone, fermo restando quanto previsto dal secondo periodo del comma 4, le misure adeguate per assicurare il concorso delle Forze di Polizia. Nell’ambito delle funzioni di cui al presente articolo, il Prefetto può altresì disporre ispezioni per accertare il regolare svolgimento dei compiti affidati, nonché per l’acquisizione di dati e notizie interessanti altri servizi di carattere generale”.

Le ordinanze dei Sindaci Nel rapporto “Oltre le ordinanze. I Sindaci e la sicurezza urbana” dell’ANCI e Fondazione Cittalia, sono state studiate 788 ordinanze in materia di sicurezza urbana adottate nel periodo luglio 2008-agosto 2009. In questo periodo, i Comuni che hanno adottato ordinanze di questo tipo sono stati il 5,5% del totale (445 su 8100). Il 56% delle ordinanze sono state adottate da comuni di piccole e medie dimensioni (con popolazione compresa tra i 5 mila e i 50 mila abitanti). Il 69% delle ordinanze sono state adottate in comuni del nord (44% nel nord-ovest, 25% nel nord-est), il 12% al sud, l’11% al centro e l’1% nelle isole. Gli ambiti di intervento su cui si è maggiormente intervenuti sono: consumo di bevande alcoliche (13,6%), prostituzione (13%), vandalismo (9,4%), vendita di alimenti e bevande (8,3%), abbandono di rifiuti (7,6%),

*

Le attività definite dalla legge per

tutelare la sicurezza urbana

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accattonaggio molesto (7,4%), schiamazzi (6,8%), atteggiamenti che ledono il decoro delle città (6,3%), contrasto al campeggio abusivo (6%). Il Rapporto sottolinea che la quasi totalità delle ordinanze non fissa un termine di scadenza rispetto ai contenuti delle prescrizioni. Là dove il termine è presente, la media della durata del divieto è di circa tre mesi. Pochi i casi in cui l’ordinanza è circoscritta a un brevissimo arco temporale, solitamente in occasione di feste, concerti e ricorrenze. Dopo numerosi pronunciamenti di diversi Tribunali Amministrativi Regionali12, è intervenuta la Corte Costituzionale (sentenza n.115/2011) che ha dichiarato incostituzionale l’art. 54, comma 4 Tuel, limitando il potere di emanare ordinanze a tutela dell’incolumità pubblica e della sicurezza urbana ai casi in cui sussistano presupposti di contingibilità e urgenza, a condizione della temporaneità dei loro effetti e, comunque, nei limiti della concreta situazione di fatto che si tratta di fronteggiare. Il TAR Veneto, con ordinanza del 22 marzo 2010, aveva sollevato – in riferimento a numerosi articoli della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 54, comma 4 Tuel, nella parte in cui consente che il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotti provvedimenti a “contenuto normativo ed efficacia a tempo indeterminato”, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minaccino la sicurezza urbana, anche fuori dai casi di contingibilità e urgenza. In particolare, la norma indicata sarebbe illegittima “nella parte in cui ha inserito la congiunzione ‘anche’ prima delle parole contingibili e urgenti”. La Corte, ritenuta fondata la questione sollevata, in conclusione afferma che “la norma censurata, nel prevedere un potere di ordinanza dei sindaci, quali ufficiali del Governo, non limitato ai casi contingibili e urgenti – pur non attribuendo agli stessi il potere di derogare, in via ordinaria e temporalmente non definita, a norme primarie e secondarie vigenti – viola la riserva di legge relativa, di cui all’art. 23 Cost., in quanto non prevede una qualunque delimitazione della discrezionalità amministrativa in un ambito, quello della imposizione di comportamenti, che rientra nella generale sfera di libertà dei consociati”. Viene anche rilevata la violazione dell’art. 97 Cost., che prevede una riserva di legge relativa, allo scopo di assicurare l’imparzialità della Pubblica Amministrazione, a garanzia dei cittadini, che trovano cosi protezione, rispetto a possibili discriminazioni, nel parametro legislativo, la cui osservanza deve essere concretamente verificabile in sede di controllo giurisdizionale. La Corte rileva infatti che: “l’imparzialità dell’amministrazione non è garantita ab initio da una legge posta a fondamento, formale e contenutistico, del potere sindacale di ordinanza. L’assenza di limiti, che non siano genericamente finalistici, non consente pertanto che l’imparzialità dell’agire amministrativo trovi, in via generale e preventiva, fondamento effettivo, ancorché non dettagliato, nella legge”. Infine, si ritiene violato il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) giacché l’assenza di una comune base legislativa determina che “gli stessi comportamenti potrebbero essere ritenuti variamente leciti o illeciti, a seconda delle numerose frazioni del territorio nazionale rappresentate dagli ambiti di competenza dei sindaci. Non si tratta, in tali casi, di adattamenti o modulazioni di precetti legislativi generali in vista di concrete situazioni locali, ma di vere e proprie disparità di trattamento tra

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cittadini, incidenti sulla loro sfera generale di libertà, che possono consistere in fattispecie nuove ed inedite, liberamente configurabili dai sindaci, senza base legislativa, come la prassi sinora realizzatasi ha ampiamente dimostrato”.

I recenti provvedimenti legislativi

Negli ultimi quattro anni sono stati numerosi i provvedimenti normativi adottati. Innanzitutto occorre ricordare i commi da 40 a 43 dell’art.3 della legge 15 luglio 2009 n. 94 "Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, i quali prevedono che i Sindaci, previa intesa con il Prefetto, possano avvalersi della collaborazione di “associazioni tra cittadini non armati” (le cosiddette ronde), al fine di segnalare alle Forze di polizia dello Stato o locali eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale. Il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), nel parere al Ministro della Giustizia reso sul testo di legge aveva manifestato “una perplessità di ordine generale sulla possibilità di derogare al principio che assegna all’autorità pubblica l’esercizio delle competenze in materia di tutela della sicurezza, escludendo che questa possa essere affidata ai privati”. Ai sensi dell’art.3 della legge n. 94/2009, le associazioni devono essere iscritte in un apposito elenco, la cui tenuta è a cura del Prefetto, previa verifica da parte dello stesso, sentito il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, dei requisiti necessari previsti dal Decreto Ministeriale successivamente adottato (d.m. 8 agosto 2009). Il Prefetto provvede, altresì, al loro periodico monitoraggio informando dei risultati il comitato. Tra le associazioni iscritte nell’elenco, i Sindaci si devono avvalere, in via prioritaria, di quelle costituite tra gli appartenenti, in congedo, alle Forze dell’ordine, alle Forze Armate e agli altri Corpi dello Stato. Le associazioni diverse da queste ultime sono iscritte negli elenchi solo se non siano destinatarie, a nessun titolo, di risorse economiche a carico della finanza pubblica.

Il Presidente della Repubblica, con lettera del 15 luglio 2009, indirizzata al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri dell’Interno e della Giustizia, in occasione della promulgazione

della l.94/2009, ha richiamato l’urgenza di definire il decreto attuativo delle disposizioni in esame in termini di rigorosa aderenza ai limiti previsti dalla

Le cautele richieste dal Presidente della Repubblica

La possibile collaborazione di

associazioni tra cittadini non

armati

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Regione Piemonte / Manuale per la progettazione di politiche e interventi sulla sicurezza integrata 30

legge relativamente al carattere delle associazioni ed al compito ad esse attribuito. Da ciò sarebbe derivata la riduzione al minimo di allarmi e tensioni nell’applicazione della normativa in questione, anche sotto il profilo dell’aggravio che avrebbe potuto derivarne per gli uffici giudiziari. Si ricorda che anche il CSM, nel parere citato, aveva osservato che “la genericità delle previsioni contenute nel decreto legge può determinare il rischio di incidenti, e nei casi più gravi, della commissione di reati, che possono produrre un aggravio sia per le forze dell’ordine, distogliendole dal perseguimento del fine di garantire un efficace controllo del territorio, sia per l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte della magistratura”. I criteri introdotti dal successivo decreto ministeriale, il già citato d.m. 8 agosto 2009, recante “Determinazione degli ambiti operativi delle associazioni di osservatori volontari, requisiti per l’iscrizione nell’elenco prefettizio e modalità di tenuta dei relativi elenchi, di cui ai commi da 40 a 44 dell’art.3 della l.94/2009”, prevedono che le associazioni non devono essere: n espressione di partiti o movimenti politici, né di organizzazioni sindacali; n ad alcun titolo collegate a tifoserie organizzate; n riconducibili a movimenti, associazioni o gruppi organizzati la cui attività

favorisca la commissione di reati con finalità di discriminazione. L’attività di osservazione può essere svolta esclusivamente in nuclei composti da un numero di persone non superiore a 3, di cui almeno una di età pari o superiore a 25 anni, senza l’ausilio di animali, di armi o altri oggetti atti ad offendere. Il Sindaco, se intende avvalersi della collaborazione delle associazioni, deve

emanare apposita ordinanza. Gli è data la possibilità di stipulare convenzioni con le associazioni finalizzate a definire l’ambito territoriale e temporale di intervento. Il contenuto della convenzione viene concordato con il Prefetto, sentito il Comitato provinciale per l’ordine

e la sicurezza pubblica. Con il d.m. 30 giugno 2011 si dispone la proroga delle disposizioni transitorie adottate in base al decreto del 2009 fino al 31 dicembre 2011. Le disposizioni transitorie prevedono che le associazioni che già svolgevano attività di volontariato con finalità comunque riconducibili a quanto previsto dall’art.3, commi 40-43 della legge 94/09 possano continuare a svolgere la loro attività, pur in assenza di iscrizione nelle elenco prefettizio. Da ultimo è intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale n. 226 del 2010, su ricorso della Regione Toscana che chiedeva la dichiarazione di

Criteri e regole per l’attività di osservazione da parte delle associazioni di cittadini

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illegittimità costituzionale dell’art. 3, commi 40-43 per violazione dell’art. 117 Cost., anche sotto il profilo della leale cooperazione. La Corte ha ritenuto che “nell’ipotesi in esame, il riferimento alle ‘situazioni di disagio sociale’ si presenta come un elemento spurio ed eccentrico rispetto alla ratio ispiratrice delle norme impugnate, finendo per rendere incongrua la stessa disciplina da esse dettata. Gli interventi del Prefetto e del Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica, la preferenza accordata alle associazioni fra appartenenti in congedo alle Forze dell’Ordine, la circostanza che le segnalazioni dei volontari siano dirette alle sole Forze di Polizia (e non, invece, agli organi preposti ai servizi sociali) – previsioni tutte pienamente coerenti in una prospettiva di tutela della ‘sicurezza urbana’, intesa come attività di prevenzione e repressione dei reati in ambito cittadino – perdono tale carattere quando venga in rilievo il diverso obiettivo di porre rimedio a condizioni di disagio ed emarginazione sociale”. Pertanto la Corte ha ritenuto di dichiarare l’incostituzionalità del comma 40 dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009, per contrasto con l’art. 117, quarto comma, Cost., limitatamente alle parole “ovvero situazioni di disagio sociale”. La Corte ha inoltre escluso “che - una volta circoscritta l’attività delle associazioni di volontari alla segnalazione dei soli eventi pericolosi per la sicurezza urbana, intesa nei sensi dianzi indicati - il legislatore statale sia tenuto comunque a prevedere forme di coordinamento di tale attività con la disciplina della polizia amministrativa locale, secondo quanto sostenuto dalle Regioni Emilia-Romagna e Umbria. L’art. 118, terzo comma, Cost. prevede una riserva di legge statale ai fini della disciplina di forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell’art. 117 (immigrazione, ordine pubblico e sicurezza), ma non implica che qualunque legge dello Stato che contenga disposizioni riferibili a tali materie debba sempre e comunque provvedere in tal senso”. Infine, questo periodo di intensa attività legislativa di conclude con un nuovo

Protocollo d’Intesa, siglato il 11 febbraio 2010 tra Ministero dell’Interno, ANCI e le organizzazioni rappresentative degli Istituti di Vigilanza Privata in materia di collaborazione tra soggetti pubblici e privati a tutela della sicurezza urbana. Tale

Protocollo dà avvio al Progetto “Mille occhi sulla città” che ha lo scopo di favorire l’adozione in ogni provincia, a partire dalle città capoluogo, di un programma di collaborazione informativa tra gli Istituti di vigilanza e gli Organi di Polizia di Stato, per il monitoraggio delle situazioni di interesse per la sicurezza pubblica e la sicurezza urbana (si veda sul punto il capitolo 7).

La Corte Costituzionale dichiara in parte illegittime le ronde

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In sintesi, appare evidente che dalla fine degli anni ‘90 sia stata particolarmente intensa e produttiva l’attività di sperimentazione e realizzazione di nuove forme di collaborazione tra i diversi livelli di governo delle politiche pubbliche in materia di sicurezza. Tali sperimentazioni hanno nel concreto contribuito a dare forma all’attuale concetto di sicurezza urbana e le nuove forme di collaborazione hanno dato sempre maggior spazio e riconosciuto un crescente ruolo agli Enti locali, quali soggetti detentori delle competenze necessarie su cui far leva per promuovere migliori condizioni di sicurezza nel medio-lungo periodo (a titolo di esempio, si pensi alle politiche abitative, al governo e alla valorizzazione degli spazi pubblici, al governo degli interventi sociali). Ciononostante l’indirizzo e il coordinamento per ciò che riguarda in senso stretto la sicurezza pubblica sono rimasti di competenza esclusiva dello Stato e dei suoi apparati di controllo. Ciò non ha impedito alle Regioni italiane di legiferare in modo da creare, da un lato, le premesse formali per l’avvio di diverse forme di collaborazione con organismi statali, dall’altro di promuovere e sostenere l’avvio di interventi e politiche per la sicurezza urbana a livello locale. In materia di sicurezza urbana, le Regioni si sono infatti poste come soggetti al servizio del proprio sistema di enti locali, in particolare attraverso la realizzazione di attività di analisi, ricerca, formazione e lo stanziamento di risorse economiche per offrire concrete possibilità a comuni e province di progettare e realizzare interventi specifici nei propri territori. In attesa dell’approvazione di una legge nazionale di coordinamento, così come prevista dall’art.118 della Costituzione, oggi le diverse leggi regionali in materia di sicurezza integrata rappresentano lo stadio legislativo più avanzato in termini di definizione degli spazi di cooperazione possibile e di indirizzo degli interventi. Pur di diversa natura, anche l’ormai ricco patrimonio di Patti per la sicurezza rappresenta una significativa base di lavoro comune tra Stato e Enti locali; sarà interessante tra qualche anno verificare e analizzare se queste nuove forme di collaborazione avranno funzionato e quali meccanismi virtuosi avranno prodotto.

Le leggi regionali: gli esempi più avanzati di

definizione degli spazi di cooperazione e di

indirizzo degli interventi

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Note

1 Ne è dimostrazione l’avvio nel 1996, da parte delle Nazioni Unite, del programma Safer Cities, nel quadro di UN-HABITAT, nato su richiesta dei sindaci delle città africane sempre più chiamati a rispondere al crescere della violenza nelle loro città. Il programma, successivamente esteso a tutti i continenti, consiste in un insieme di misure per sostenere la prevenzione della criminalità, della violenza e la promozione della sicurezza definita come una delle condizioni per lo sviluppo sostenibile delle città nei paesi in via di sviluppo. 2 “Da principio si cercava di combattere la paura evidenziandone gli aspetti irrazionali, con la convinzione che, per farvi fronte, fossero sufficienti informazioni adeguate. Fu così che, alla metà degli anni ottanta, l’Home Office (Ministero dell’Interno inglese, ndr) ha intrapreso una campagna pubblicitaria usando i dati della British Crime Survey per dimostrare che la paura collettiva era spesso eccessiva, se rapportata al rischio concreto di vittimizzazione. Questo atteggiamento svalutante si rivelò ben presto errato, e tutti gli interventi successivi furono maggiormente rispettosi del significato e della potenza simbolica delle paure pubbliche, nonostante la grande differenza tra le paure e il rischio statistico di essere vittimizzati” (Garland, 2004, p.221). 3 http://autonomie.regione.emilia-romagna.it/sicurezza 4 Di cui fanno parte Massimo Pavarini (coordinatore), Tullio Aymone, Marzio Barbagli, Raimondo Catanzaro, David Nelken, Dario Melossi, Giuseppe Mosconi, Salvatore Palidda, Tamara Pitch, Antonio Roversi, Carmine Ventimiglia. 5 Istituito dalla L.121/1981 (art. 20) “Nuovo ordinamento dell'Amministrazione della pubblica sicurezza” (http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/15/0583_Legge_1_Aprile_1981_n._121.pdf). 6 Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria, Corpo Forestale dello Stato. Secondo le statistiche Eurostat http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/setupModifyTableLayout.do, riferibili al 2006, l’Italia è il paese dell’Unione Europea con il numero più alto di addetti di polizia (324.339 contro i 250.284 della Germania che ha una popolazione di circa 20 milioni di unità superiore alla nostra). 7 E’ il caso del Piemonte la cui legge regionale in materia di Polizia Municipale risale alla fine degli anni ’80 (l.r. 58/87) e la prima legge sulla sicurezza integrata al 2004 (l.r. 6/2004 oggi abrogata dalla l.r. 23/2007). 8 Legge 125/2008 "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica" (artt. 1,5,9), d.lgs 159/2008 “"Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, recante attuazione della direttiva 2005/85/CE relativa alle norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato", d.lgs. 160/2008 “"Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 5, recante attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al diritto di ricongiungimento familiare”, legge 186/2008, legge 102/2009, legge 94/2009 (art.1) "Disposizioni in materia di sicurezza pubblica". 9 Si ricorda che l’art.7 del d.l. 92/2008 (convertito in legge 125/2008) ha previsto che i piani coordinati di controllo del territorio possano realizzarsi anche per specifiche esigenze di comuni diversi dai maggiori centri urbani. I piani determinano i rapporti di collaborazione fra il personale della polizia municipale e provinciale e la Polizia di Stato. 10 http://www.interno.gov.it/mininterno/site/it/temi/sicurezza/sottotema010.html 11 Sul punto vedi sentenza Corte Costituzionale n.115/2011, illustrata nel box successivo. 12 Sentenza TAR del Lazio (Roma) n.12222 del 22 dicembre 2008, ordinanza TAR del Veneto n.22 dell’8 gennaio 2009, ordinanza TAR del Veneto n.40 del 22 marzo 2010, sentenza TAR Lombardia (Milano) n.981 del 6 aprile 2010

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Regione Piemonte / Manuale per la progettazione di politiche e interventi sulla Sicurezza integrata 35

Capitolo 2 La politica integrata di sicurezza. Da una buona idea, un buon progetto per una buona politica di Eleonora Guidi e Valeria Ferraris 1. Introduzione ………………….………..…………………......................p. 37 2. Sicurezza: dalla politica alle politiche locali …………..…..............p. 38 L’importanza di una visione integrata della sicurezza Il concetto di sicurezza urbana e i modelli di riferimento Le politiche e gli ambiti di azione di un Ente locale Le politiche di sicurezza integrata della Regione Piemonte 3. Dalle buone idee alle buone politiche .............................................p. 47 Conoscere e definire i problemi Individuare obiettivi sostenibili Elaborare interventi complementari e funzionali agli obiettivi Cooperare con altri settori dell’amministrazione e altri enti Valutare l’impatto e la sostenibilità degli interventi Una check list per progettare una politica di sicurezza 4. Il concetto di integrazione nelle politiche di sicurezza ………......p. 58 Le politiche di sicurezza integrata Le fatiche dell’integrazione

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Introduzione Il capitolo dedicato alle politiche integrate di sicurezza propone un percorso di lettura della sicurezza urbana incentrato sugli ambiti di azione degli enti locali. Tale percorso prende avvio da un tentativo di definire il concetto di sicurezza urbana a partire dai due modelli teorici proposti da Alessandro Baratta che mettono in relazione i diritti e il concetto di sicurezza ampiamente inteso. Si sottolinea come nel corso degli anni la sicurezza urbana si sia sempre più caratterizzata come un campo di azione interdisciplinare e le azioni di sicurezza urbana siano legate più strettamente al tema della qualità della vita dei cittadini e alla vivibilità delle città. Si sceglie così un concetto ampio di sicurezza urbana, più adatto a rappresentare l’azione degli enti locali. Ciò richiede amministrazioni sempre più capaci, soprattutto in un momento storico di scarsità di risorse, di tradurre idee, proposte in politiche efficaci e durevoli, al di là delle opportunità di finanziamento del momento. Per tale ragione si esaminano alcuni step considerati fondamentali per la progettazione di una politica integrata di sicurezza urbana. Tali suggerimenti nascono dall’esperienza della Regione Piemonte nel promuovere la progettualità degli enti locali attraverso la legge regionale, mediante gli strumenti dei progetti e dei Patti locali per la sicurezza integrata. Non si tratta di criticare o giudicare le esperienze fino a qui realizzate, ma di fornire spunti di riflessione per un miglioramento delle iniziative proposte e realizzate a livello locale. In chiusura si propone una sintesi relativa al concetto di integrazione nelle

politiche di sicurezza che affronta il tema nelle diverse dimensioni che interessano tale integrazione (politico-strategica, organizzativa e operativa). È infatti nella

capacità di governance, di interazione tra settori interni all’amministrazione e tra diversi enti che si viene a misurare sul piano operativo la capacità di integrare pratiche e saperi. Ciò nella consapevolezza che integrare non è cosa facile ma anche che proprio nei momenti di maggiore difficoltà cimentarsi a “realizzare integrazione” possa rappresentare una strada verso la soluzione.

Da una buona idea a una buona politica: la

chiave di volta delle politiche integrate

L’integrazione, una fatica che paga in tempo di risorse scarse

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Sicurezza: dalla politica alle politiche locali

L’importanza di una visione integrata della sicurezza Chiunque si sia imbattuto con la domanda di sicurezza dei cittadini sa bene che quasi mai si tratta di una questione che può essere affrontata in modo puntuale, senza avere chiaro lo scenario in cui essa si qualifica e si manifesta. Affermare che la richiesta di maggiore sicurezza sia fortemente connessa alla percezione di un rischio soggettivo, e quindi alla percezione di vulnerabilità rispetto ad elementi esterni, può apparire scontato ma allo stesso tempo va sottolineato come questo sia condizionato dalla sensibilità o dal grado di tolleranza che un soggetto o un gruppo sociale hanno verso un dato fenomeno. In altre parole, la percezione di sicurezza non è tanto connessa alla probabilità statistica che un dato evento si verifichi, quanto all'importanza che viene attribuita all'evento in sé. A questo proposito si può fare un esempio. Le probabilità statistiche di subìre o meno un furto nella propria abitazione non sono direttamente correlate alle misure adottate per evitarlo (antifurto, porta blindata, ecc.), quanto piuttosto al contesto generale (territoriale e sociale) in cui l'abitazione si trova. Tuttavia, come la letteratura in materia dimostra, l'adozione di strumenti proattivi di contrasto di un evento delittuoso producono un sentimento di maggiore sicurezza indipendentemente dalla loro reale efficacia. Volendo traslare questo esempio in un ambito più proprio delle politiche pubbliche, si può affermare che sebbene non esista diretta correlazione tra rischio oggettivo e contesto territoriale (non è vero che passeggiare in un parco di notte è oggettivamente più rischioso che farlo di giorno), ciò che determina maggiore rassicurazione non è tanto l'annullamento dei fattori di rischio oggettivo, quanto la messa in essere di misure (politiche) che dimostrino la funzione proattiva che i cittadini si aspettano sia attuata quando si tratta di promuovere la loro sicurezza. Questo aspetto è tanto più vero se si osservano i fenomeni che più incidono sul sentimento di insicurezza, producendo allarme sociale. Anche in questo caso, la letteratura in materia è unanime nel ritenere che ciò che produce maggiore insicurezza nei cittadini non è tanto, o soltanto, il rischio di essere vittima di un reato, quanto piuttosto il sentirsi "ostaggi" di disordine urbano e di presenze disturbanti. Questa cesura nel rapporto tra sentimento

Il rapporto tra percezioni e dati di

fatto si riversa anche nelle politiche

pubbliche

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soggettivo di insicurezza e fenomenologia criminale ha una manifestazione evidente quando, guardando al problema dal punto di vista delle competenze istituzionali, si osserva che ogni questione viene ricondotta alla sicurezza urbana e a una richiesta di intervento da parte dei sindaci. Se si osservano i principali fenomeni che concorrono a produrre allarme nella popolazione (primo fra tutti il degrado e la scarsa cura dello spazio pubblico, accompagnati dallo scadere delle relazioni sociali) è proprio nella responsabilità pubblica del governo locale (talvolta persino al di là delle reali possibilità d'intervento) che i cittadini individuano il soggetto cui porre le loro domande di sicurezza. Questo aspetto, valido in sé, ha conosciuto un'accelerazione significativa - come già ricordato nel primo capitolo di questo manuale - con la riforma che ha introdotto nel 1993 l'elezione diretta del Sindaco. Questo elemento, infatti, ha rivoluzionato il rapporto tra cittadini e potere locale, trasformando la figura del Sindaco nel riferimento principale - e talvolta unico - della domanda pubblica rispetto ai problemi del territorio. Indipendentemente dalle reali competenze e possibilità, al Sindaco (e in forma traslata ad ogni ambito dell'amministrazione locale) è chiesto di affrontare e risolvere ogni questione, di farsi interprete dei disagi dei cittadini, di individuare risposte e soluzioni immediate anche quando queste rispondono a fatti che poco hanno a che fare con l'interesse generale. La consapevolezza da parte dei decisori pubblici locali di trovarsi di fronte a nuovi scenari ha posto al centro l'esigenza di definire l'azione di governo come parte di un processo in cui il dialogo con i cittadini e gli attori sociali e istituzionali diventa carattere essenziale per promuovere e condividere visioni, programmi e scelte. Al di là delle sensibilità politiche e culturali, si è affermata l'idea che la gestione della cosa pubblica debba essere parte di un processo di governance, in cui la ricerca di una responsabilità comune è al contempo ricerca di soluzioni e costruzione di consenso. Questo aspetto, naturalmente, riguarda molti ambiti delle politiche pubbliche - urbanistica e territorio, economia e servizi, cultura ed educazione - ma in particolare quello della sicurezza e della vivibilità urbana.

Ciò per una sostanziale ragione: perché se è vero che l'allarme sociale che si genera di fronte ai problemi di sicurezza - veri, presunti, percepiti - pone ai poteri locali una richiesta di soluzioni immediate, urgenti, durature, è altrettanto vero che queste possono essere ricercate soltanto in un quadro di programmazione degli interventi. È questa la ragione per la quale le politiche di sicurezza necessitano di

È la capacità di avere una visione dei

problemi a fare spesso la differenza

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approccio integrato che permetta di correlare i problemi in una visione complessiva e governance tra gli attori istituzionali e sociali probabilmente più di ogni altro ambito delle politiche pubbliche. Infatti, solo affrontando la complessità che il tema porta con sé è possibile individuare gli strumenti più idonei per rispondere a problemi che, per loro natura, hanno difficoltà ad essere soddisfatti attraverso il ricorso a politiche e interventi settoriali e, quindi, inevitabilmente parziali. Naturalmente, il concetto di integrazione nelle politiche di sicurezza, come si vedrà in dettaglio in seguito, non è riferito alla pluralità di interventi che vanno a definire il "catalogo" della risposta pubblica alla complessità dei problemi, quanto alla necessità di dotarsi di una visione generale del governo della dimensione urbana, nella quale la sicurezza diventa, soprattutto, un fine da perseguire "integrando" politiche differenti all'interno di una strategia complessiva.

Il concetto di sicurezza urbana e i modelli di riferimento

La sicurezza urbana è un concetto che negli ultimi quindici anni è stato oggetto di una progressiva e approfondita definizione di carattere sociologico e, solo di recente in Italia, di un tentativo di declinazione in termini giuridici. Nel primo capitolo abbiamo visto che in termini puramente definitori, quest’ultimo tentativo non è riuscito a stabilire dei confini chiari su cosa si debba intendere per “sicurezza urbana”, avendo affrontato il tema solo sotto l’aspetto dei profili strumentali e funzionali che lo caratterizzano. Si è parlato di sicurezza cercando di individuare “chi doveva fare che cosa” e delineando le forme, i luoghi e le finalità di tutela del cittadino sul piano della sicurezza urbana. Si tratta di elementi utili, ma ben lontani dall’esaurire i contenuti di un concetto complesso, la cui dimensione “oggettiva” è fortemente condizionata, anche nei suoi elementi costitutivi, dall’idea e dalle percezioni che i cittadini hanno di esso, nonché dal dibattito pubblico. A partire dagli anni ‘80 si possono distinguere due modelli che connotano le politiche di prevenzione e sicurezza, uno ispirato alla sicurezza dei diritti e uno al diritto alla sicurezza (cfr. tabella seguente). Il primo prende atto del “fallimento delle politiche di controllo del crimine attraverso la sola repressione penale (minaccia e applicazione della pena statale) così come dei limiti di una politica di sicurezza centralistica, tecnocratica e autoritaria” (Baratta, 2001, p. 23) e ricerca una nuova via fondata su politiche non repressive, anche di carattere locale. Si dà avvio a politiche che hanno al centro le città e che sono rivolte alla prevenzione dell’emarginazione sociale, attraverso interventi di prevenzione sociale (vedi Glossario).

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Il secondo, invece, nasce dalla crisi dello Stato sociale e dallo scetticismo verso la finalità rieducativa della pena e determina lo sviluppo di una politica criminale che pone al centro della sua attenzione l’identificazione di gruppi pericolosi (i consumatori di droghe, le minoranze o gli stranieri irregolari, ecc.) e la loro conseguente neutralizzazione. Questo approccio vede, nelle città, l’attuarsi delle politiche di tolleranza zero, così denominate perché basate sull’applicazione intransigente delle norme repressive anche verso i comportamenti di minor gravità. Sono politiche che ricorrono in modo ampio a interventi di prevenzione situazionale (vedi Glossario) e che non prestano alcuna attenzione alla rieducazione della persona che commette atti devianti o criminali, ma si preoccupano unicamente della tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico.

I due modelli di politiche a confronto

MODELLO DIRITTO ALLA SICUREZZA MODELLO SICUREZZA DEI DIRITTI

Esclusione sociale Inclusione sociale Sicurezza per i forti contro i rischi provenienti dai deboli e dagli esclusi

Sicurezza di tutti i diritti e di tutte le persone

Politiche tecnocratiche, dirette alla conservazione dello status quo sociale

Politiche democratiche dirette all' empowerment dei deboli e degli esclusi

Politiche centrali, autoritarie Politiche locali partecipative Riduzione della domanda di sicurezza alla domanda di pena e di sicurezza contro la criminalità

Decostruzione della domanda di pena nell'opinione pubblica e ricostruzione della domanda di sicurezza come domanda di sicurezza di tutti i diritti

Tutta la politica di sicurezza è politica criminale

La politica criminale è un elemento sussidiario all'interno di una politica integrale di sicurezza dei diritti

Politica privata di sicurezza. La sicurezza è un business. I cittadini diventano poliziotti (neighbourhood watch)

Politica pubblica di sicurezza. La sicurezza è un servizio pubblico. I poliziotti diventano cittadini (polizia comunitaria)

Accettazione dell'ineguaglianza e autolimitazione del godimento degli spazi pubblici da parte delle vittime potenziali

Affermazione dell'eguaglianza e uso illimitato degli spazi pubblici da parte di tutte le persone

Sicurezza attraverso la riduzione dei diritti fondamentali (funzionalismo penale, "diritto alla sicurezza")

Sicurezza nel quadro della costituzione e dei diritti fondamentali ("diritto penale minimo", sicurezza dei diritti)

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Fonte: Baratta, 2001

Nessuno dei due modelli è stato oggetto di un’attuazione piena, ma nel corso del tempo pratiche di intervento discendenti da entrambi i modelli si sono combinate tra loro dando vita a modelli spuri. Spostandoci sul piano delle risposte pubbliche, è utile sottolineare che nel corso degli anni il concetto di sicurezza urbana è stato utilizzato come cornice concettuale di due macro-settori di intervento: gli interventi di controllo della micro-criminalità e le politiche di rigenerazione urbana, tanto sotto il profilo del miglioramento dello spazio quanto di azione sociale. I primi rimandano all’idea di sicurezza come controllo e riduzione della criminalità che si declina attraverso politiche maggiormente strutturate secondo le forme della prevenzione situazionale e di tolleranza zero o, in qualche caso, come politiche di prevenzione sociale. I secondi rinviano, invece, a tutto ciò che ha a che fare con gli interventi diretti ad aumentare la vivibilità della città e fanno riferimento alle politiche di prevenzione sociale e comunitaria e oggi anche alle politiche di carattere ambientale. Estranei al concetto di sicurezza urbana, seppur oggetto di numerose politiche di tutela delle vittime di reato, sono state negli anni le problematiche della violenza e dell’insicurezza all’interno della famiglia, sebbene siano una delle principali fonti di insicurezza delle donne e dei minori, principali destinatari di comportamenti violenti e prevaricanti. Allo stesso modo, le questioni connesse alla criminalità organizzata - nonostante siano evidenti le relazioni che con questa hanno le manifestazioni spicciole di disordine (prostituzione, tossicodipendenza, accattonaggio) o di violenza urbana - non hanno mai costitutito un elemento centrale delle politiche di sicurezza urbana. La sicurezza ambientale, alimentare e sul lavoro - sebbene aspetti rilevanti di un concetto ampio di sicurezza - nel passato non sono stati oggetto di interventi di sicurezza urbana, ma si può ragionevolmente affermare che oggi stiano assumendo sempre maggiore rilevanza. I confini incerti e mobili del concetto di sicurezza urbana si possono legare ai cambiamenti che la società attraversa e soprattutto all’idea che si ha della qualità della vita. L’incolumità personale, la sicurezza sociale e economica, la sicurezza ambientale rappresentano oggi dimensioni ugualmente rilevanti di questa tipologia di sicurezza.

Sicurezza come politica della "fortezza Europa"

Sicurezza come politica di un’"Europa aperta", rivolta allo sviluppo umano nel mondo

La vivibilità, elemento

caratterizzante della sicurezza

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Le politiche e gli ambiti di azione di un Ente locale Naturale corollario di quanto appena detto è la difficoltà di definire le politiche di sicurezza urbana di un Ente locale. In senso ampio, infatti, ogni politica o intervento che migliori la qualità della vita delle persone potrebbe essere in qualche modo ricondotta a questo ambito. Se tutto è sicurezza urbana, però, nulla finisce con essere il vero oggetto delle politiche di sicurezza urbana. Le politiche di sicurezza urbana sono state definite come politiche che, andando ben oltre i fenomeni criminali, si interessano “a tutta una serie di problematiche concernenti la vivibilità delle città e classificabili come cause di disordine fisico (edifici abbandonati e incustoditi, cattiva manutenzione degli spazi urbani e dell’arredo urbano, scritte sui muri, rifiuti e veicoli abbandonati su strada, scarsa illuminazione, panchine o cabine telefoniche vandalizzate, ecc.), e cause di disordine sociale (comportamenti disturbanti o aggressivi verso residenti e passanti, conflitti tra gruppi connessi in talune situazioni alla presenza di immigrati o nomadi, presenza di persone senza fissa dimora, accattonaggio, tossicodipendenza, prostituzione di strada, ma anche circolazione stradale pericolosa o dannosa)” (Ferroni, 2006, p. 68).

Una rappresentazione del concetto di sicurezza è data dal grafico di seguito, che visualizza tanto le dimensioni oggettive quanto quelle soggettive.

È possibile delimitare le aree su cui possono intervenire le politiche locali di sicurezza urbana? Il primo nodo da sciogliere riguarda le cause dell’insicurezza urbana. L’insicurezza urbana è infatti il risultato non solo di

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elementi oggettivi legati all’andamento dei fenomeni di criminalità e devianza, ma anche di elementi percettivi legati a altre fonti di inquietudine. In particolar modo in questo momento storico è innegabile che l’aumento dell’insicurezza economica e sociale e anche delle condizioni di malessere personale siano fattori che influenzano negativamente il vissuto generale di insicurezza, riverberandosi anche nella sicurezza urbana. Prima di intervenire, un Ente locale si trova nella condizione di dover distinguere se gli è richiesto di occuparsi di un problema che ha manifestazioni concrete e tangibili (lo spaccio di sostanze stupefacenti, il vandalismo, ecc.) a volte oggetto di allarme sociale anche al di là della criticità oggettiva, o di una percezione di fragilità e perdita di garanzie che non ha alcun precipitato tangibile. Il primo dato, quindi, da sottolineare è la necessità che l’Ente locale

distingua i contorni oggettivi di un fenomeno, gli elementi di allarme sociale (e a volte mediatico) e infine le percezioni soggettive di insicurezza. La corretta separazione di questi tre aspetti è il primo passo per sbrogliare la complessa

matassa della sicurezza urbana. Perché se si compie questo passo, gli strumenti che si possono mettere in campo cambiano e cambia l’efficacia dell’intervento realizzato. Vi saranno casi dove occorre pensare a soluzioni di intervento rispetto alle condizioni oggettive, materiali dei cittadini o degli spazi che essi vivono. In altri casi, invece, l’intervento richiede il sapersi far carico dei sentimenti collettivi di insicurezza. In ogni caso è fondamentale che l’Ente locale risponda a problemi (oggettivi o percettivi) e non si faccia guidare unicamente dalle opportunità. I problemi per risolversi devono incontrare delle opportunità ma non possono essere quest’ultime - siano esse di finanziamento, di visibilità o altro - a determinare un’azione slegata dai problemi esistenti. Il secondo nodo riguarda il target di riferimento. I cittadini non sono tutti uguali. Classe sociale, età, istruzione, genere, sono fattori che producono domande di sicurezza differenziate. Vissuti e percezioni di un giovane universitario hanno poco in comune con quelli di una giovane madre single lavoratrice o di un anziano. Diverse saranno le loro esigenze e le loro domande di sicurezza. Analogamente le richieste del cittadino che vive nelle case di edilizia

L’importanza di distinguere i fatti, l’allarme sociale e i vissuti personali

Individuare i problemi dei cittadini (che non sono

tutti uguali) e sfruttare al meglio le opportunità

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residenziale pubblica e quelle del professionista che abita in una casa del centro cittadino si rifanno a mondi completamente diversi. L’Ente locale deve saper fare sintesi tra le istanze dei suoi cittadini e non correre il rischio di rincorrere una categoria a discapito delle altre, a seconda dei momenti storici, delle mode o delle emergenze. Il terzo nodo riguarda che cosa l’Ente locale può fare. L’Ente locale non cambia le normative penali, non può introdurre nuovi reati o cancellarne di esistenti. Può auspicare maggiore o minore repressione ma ciò resta unicamente tale, un auspicio. Può augurarsi più rispetto dell’altro, più partecipazione o solidarietà da parte dei cittadini ma ciò significa soltanto “offrire come soluzione ai problemi, i problemi stessi” (AA.VV. 1995, p.13). Lo sforzo da fare è quello di individuare ambiti di azione concreti. Una prima considerazione è quindi che l’Ente locale ha maggiore ambito di azione nella prevenzione di comportamenti che minano la sicurezza dei cittadini che non nella repressione. Infatti è nell’ambito delle politiche di prevenzione che l’Ente locale può utilizzare appieno gli strumenti di governo di cui dispone. Si pensi ad esempio al tema della pianificazione urbana e territoriale. Se in chiave repressiva sono molti gli attori che devono intervenire (le Forze dell’Ordine, la magistratura, la protezione civile), in ambito preventivo è l’Ente locale che può agire attraverso gli strumenti di pianificazione urbanistica per evitare l’abusivismo edilizio, e quindi promuovere la legalità, evitare i successivi fenomeni di degrado e inciviltà che spesso si accompagnano non solo all’abusivismo ma anche ai fenomeni di concentrazione di disagio sociale nelle aree periferiche delle città. Anche al di fuori dei contesti urbani di medie/grandi dimensioni la pianificazione territoriale risulta fondamentale per diminuire le situazioni di pericolo per i cittadini sul versante ambientale che possono poi concretizzarsi anche in disastri ambientali rilevanti. Una seconda osservazione riguarda l’obiettivo della promozione della pacifica convivenza dei cittadini e della qualità urbana degli insediamenti. Gli interventi volti alla promozione della risoluzione dei conflitti tra i cittadini si possono ricondurre ad una ampia gamma di azioni riassumibili sotto l’etichetta delle politiche di prevenzione sociale. Per quanto riguarda, invece, la qualità urbana, indubbiamente il contenimento di fenomeni di illegalità e criminalità diffusa si sostanzia nelle attività di contenuto prevalentemente repressivo, quali la lotta al

L’ambito di azione primario è

la prevenzione

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vandalismo, all’abbandono di rifiuti, agli insediamenti abusivi, ai rumori molesti, al degrado fisico degli ambienti urbani. Ma anche in questo caso non mancano le politiche di carattere preventivo volte ad anticipare il manifestarsi di questi fenomeni attraverso azioni che promuovano, regolandole, le attività del loisir, che introducano facilitazioni per lo smaltimento dei rifiuti al fine di evitare situazioni di degrado e di abbandono, che regolino la situazione abitativa delle popolazioni rom e infine che riducano al minimo le occupazioni abusive degli alloggi di edilizia residenziale pubblica o degli edifici abbandonati.

Le politiche di sicurezza integrata della Regione Piemonte L’articolo di apertura della legge regionale n. 23/2007 “Disposizioni relative alle politiche regionali in materia di sicurezza integrata” afferma che la Regione Piemonte realizza “politiche locali di sicurezza integrata delle città e del territorio regionale e per lo sviluppo di una diffusa cultura e pratica della legalità, tese a contrastare i fenomeni che generano i sentimenti di insicurezza della popolazione e tesa ad aumentare la sicurezza reale”. Nell’articolo 2 ricorda che per “politiche regionali in materia di sicurezza integrata si intendono le azioni dei soggetti pubblici, privati e dell’associazionismo, operanti in campo sociale, in materia di sicurezza urbana e della persona per la riduzione e prevenzione dei fenomeni di illegalità e inciviltà diffusa, integrate e coordinate con le azioni degli enti istituzionali in materia di contrasto alla criminalità”. Questi primi due articoli permettono di evidenziare alcuni punti fermi di scenario: in primo luogo il carattere integrato delle politiche e a seguire l’importanza della cultura e della pratica della legalità, nonché la necessità di occuparsi tanto dei fenomeni oggettivi di illegalità e inciviltà quanto dei vissuti di insicurezza. Più concretamente l’articolo 4 della legge regionale elenca gli interventi privilegiati: “a) le azioni integrate di natura preventiva di contenimento della ampiezza e della gravità dei fenomeni di illegalità e di criminalità diffusa; b) le pratiche di mediazione dei conflitti sociali e di riduzione del danno riconducibili alle competenze istituzionali della polizia locale; c) l’educazione alla convivenza ed alla coesione sociale nel rispetto del principio di legalità; d) gli interventi di assistenza e aiuto alle vittime dei reati”. Grande risalto viene dato nella legislazione regionale alle pratiche di mediazione dei conflitti e riduzione del danno, nonché agli interventi di assistenza e aiuto alle vittime, ulteriormente specificate come interventi di informazione sugli strumenti di tutela garantititi dall'ordinamento; di assistenza psicologica, cura e aiuto alle vittime (con particolare riferimento alle persone anziane, ai soggetti diversamente abili, ai minori di età, alle donne e alle vittime di violenze e reati gravi, di violenze e reati di tipo sessuale e di discriminazione razziale); di tutela delle donne che vivono in situazioni di disagio o difficoltà, che subiscono violenza o minaccia di violenza; e infine di assistenza all'accesso ai servizi sociali e territoriali necessari per ridurre il danno subìto.

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Dalle buone idee alle buone politiche

Passare da una “buona idea” a una “buona politica” può sembrare un’operazione semplice e “normale” per un Ente locale; tuttavia quando ci si accinge a pensare e progettare un intervento che sia parte di una visione strategica e articolata sul tema della sicurezza urbana, spesso tale compito si rivela complicato e non solo perché la sicurezza è un concetto complesso che sfugge ancora ad una definizione univoca e definita. Se si pensa al processo per giungere all’elaborazione e alla definizione di una politica che provi ad affrontare uno o più aspetti che incidono sulla sicurezza in un territorio, si possono individuare alcuni nodi progettuali con cui gli enti locali, indipendentemente dalla loro dimensione, si devono confrontare allo scopo di realizzare politiche di inclusione sociale, sicurezza e legalità capaci di dare risposte ai bisogni delle collettività locali. Si tratta di nodi rilevanti del processo di costruzione di una politica che talvolta, però, sono poco considerati o sottovalutati. Quando viene a mancare questo confronto, il rischio è quello di progettare e mettere in campo interventi che, seppur oggettivamente motivati o validi, con buona probabilità si esauriranno con la conclusione delle attività, o rimarranno interventi spot senza tradursi in una politica strutturale e di lungo periodo. Nel caso dei progetti sul tema della sicurezza urbana questa è una situazione che si verifica di frequente, non di rado anche nei contesti locali più strutturati e con una buona esperienza progettuale: di fronte ad un’emergenza o a un fenomeno produttivo di insicurezza che desta allarme, si interviene pensando più al mettere in atto una possibile risposta in tempi rapidi - ad esempio agendo attraverso un progetto specifico con un arco temporale ben definito -, che non al progettare un’adeguata politica che affronti quel problema in maniera organica, duratura e coordinata (soluzione questa che richiede più tempo e non assicura a priori la risoluzione del problema). Ciò che qualifica un progetto come un intervento di sicurezza urbana più

che il tema vero e proprio (o non solo) - che, come si è detto, può avere a che fare con una pluralità di ambiti e politiche urbane, alcuni anche molto diversi tra loro - è la

politica entro cui esso è concepito e integrato. È decisivo sottolineare

Per costruire una politica bisogna

confrontarsi con alcuni nodi progettuali

È la cornice politica che definisce e qualifica un intervento

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l’importanza del legame tra l’intervento che si vuole realizzare e la cornice politica in cui esso si colloca: perché una buona azione progettuale possa essere apprezzata e possa dare risultati durevoli, è necessario non soltanto che il problema da cui muove l’azione dell’amministrazione locale costituisca una priorità nella programmazione, ma anche che l’intervento sia incardinato e integrato nella visione politico-strategica dell’organizzazione. Fare questo passaggio per l’amministrazione pubblica significa prendere in considerazione alcuni degli aspetti cardini di una strategia, come la capacità di identificare correttamente e puntualmente i problemi, definire azioni coerenti con le criticità che si intendono affrontare, fare rete con i soggetti interni ed esterni alla pubblica amministrazione che hanno competenza e capacità di intervento su questo tema, e adottare strumenti di misurazione e verifica degli esiti ottenuti. Tener conto di questi aspetti non assicura meccanicamente il risultato - che ovviamente dipende da molti altri fattori tra cui in primis la volontà politica degli amministratori locali investiti della responsabilità politica - ma può aiutare a porre le basi affinché questo esito sia raggiungibile.

conoscere e definire i problemi + elaborare interventi complementari e funzionali agli obiettivi + cooperare con altri settori o enti + valutare impatto e sostenibilità degli interventi + BUONA POLITICA =

individuare obiettivi sostenibili +

UNA BUONA IDEA:

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Vediamo nel dettaglio i nodi progettuali:

Conoscere e definire i problemi

Il primo aspetto da prendere in considerazione per progettare una buona politica è relativo alla conoscenza del contesto territoriale e dei problemi di sicurezza che lo caratterizzano. Conoscere i fenomeni che creano maggiori preoccupazioni, i fattori che li determinano o le aree del territorio interessate da questi fenomeni è il primo passo per elaborare interventi più mirati e attenti alle necessità reali e di conseguenza più strettamente collegabili a priorità strategiche in grado di soddisfarle. È importante che nelle istituzioni locali si affermi sempre di più l’importanza di acquisire la conoscenza approfondita del territorio in cui si opera come elemento imprescindibile per l’attuazione di politiche capaci di incidere sulla promozione della sicurezza, e che in questo sforzo si superi la tendenza settoriale e all’autoreferenzialità spesso presente all’interno degli enti: di norma non tutta la conoscenza necessaria a progettare lo sviluppo locale è presente e disponibile localmente o in un unico settore. In molti casi per avere un quadro dettagliato e completo serve il confronto con altri settori dell’ente o il coinvolgimento di competenze esterne. Questo è tanto più vero nel caso della sicurezza che abbraccia trasversalmente diversi ambiti di intervento e livelli di competenza, e si occupa tanto di fenomeni reali quanto di aspetti legati alle percezioni e alle rappresentazioni. Una parziale conoscenza del contesto può influire sulla capacità di progettazione ed esecuzione di un ente con il rischio di prevedere in un

progetto azioni che non corrispondono esattamente ai bisogni di sicurezza del territorio. Può capitare che iniziative a favore di un target specifico della popolazione (ad esempio i giovani o la popolazione straniera) pensate “a tavolino” senza un confronto con il contesto

specifico, nella fase di attuazione si rivelino esigenze non così prioritarie o rilevanti, con il risultato di compromettere l’impatto e l’efficacia dell’intervento o di rendere necessaria la ri-progettazione delle attività previste. Lo scambio di conoscenze ed esperienze sulle criticità locali tra soggetti all’interno e all’esterno dell’ente aiuta a focalizzarsi sui problemi reali, concreti ed effettivamente presenti in uno specifico contesto o in una specifica area del territorio, e ad avere una migliore comprensione sia delle problematiche e aspettative rispetto alla loro presa in carico, sia delle risorse e delle potenzialità per affrontarle con successo.

Partire dai problemi reali rende gli interventi più mirati e rispondenti ai bisogni di sicurezza

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Misurarsi con i problemi permette inoltre di confrontarsi sulla loro reale incidenza e rilevanza e quindi di assegnare le priorità rispetto al problema o ai problemi sui quali si ritiene di dover intervenire primariamente, evitando sprechi di tempo e di risorse. Accanto alla conoscenza approfondita, un altro aspetto importante è definire i problemi in maniera puntuale senza fermarsi a “etichette” e slogan generici che possono creare confusione, ma provando a capire quali sono realmente le criticità da affrontare. Uno dei problemi di sicurezza più ricorrenti nei Comuni di piccole e medie dimensioni riguarda la crescente diffusione di fenomeni legati al disagio e alla devianza giovanile. Gli atteggiamenti disturbanti, antisociali, a volte pericolosi, dei giovani o gli atti di vandalismo spesso attribuiti ai giovani sono considerati da molti uno dei fattori alla base di una diffusa percezione di insicurezza e paura, di situazioni di conflittualità tra gruppi (giovani/giovani, giovani/adulti) e ostacolo alla fruibilità di spazi pubblici e di alcune aree della città. A volte usati come sinonimi per descrivere l’insicurezza, i termini “disagio” e “devianza giovanile” fanno riferimento a situazioni molto differenti tra loro, sia sul piano delle forme e modalità con cui si manifestano, sia su quello degli effetti e conseguenze penalmente rilevanti. Distinguere e attribuire correttamente un nome a ogni fenomeno e alle sue manifestazioni aiuta a definire obiettivi di sicurezza adeguati ai bisogni. Riprendendo l’esempio sulla distinzione tra disagio e devianza giovanile, gli obiettivi degli interventi da prevedere saranno diversi: nel primo caso saranno probabilmente più orientati alla messa in campo di iniziative di sostegno e prevenzione sociale, nel secondo caso alla promozione della legalità e del rispetto delle norme di convivenza, e alla sperimentazione di percorsi di mediazione e riparazione del danno.

Consigli utili per la definizione di un problema di sicurezza

Un problema di sicurezza è ben formulato se

Un problema di sicurezza NON è ben formulato se

î comunica una sola idea (scomporre i problemi)

î è espresso in termini di mancanza o assenza di una soluzione

î è oggettivo, dimostrabile, reale î racchiude giudizi soggettivi o non sostenuti da fonti di informazioni o dai dati disponibili

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î è definito in termini chiari î è espresso in maniera generica, astratta o confusa

î il problema è analizzato da più punti di vista e rappresenta la complessità della problematica (relazioni di causa-effetto, connessioni con altri problemi)

î non è frutto di un’analisi approfondita o di un confronto con altri soggetti competenti

Individuare obiettivi sostenibili Un altro nodo progettuale cui gli enti non sempre prestano la dovuta

attenzione riguarda l’individuazione degli obiettivi che attraverso l’intervento si vogliono raggiungere. Nella maggior parte dei casi nell’individuare gli obiettivi non viene esplicitata una strategia chiara. Questo passaggio è

spesso risolto in modo sbrigativo e con affermazioni di carattere generale, sotto forma di dichiarazioni o auspici come ad esempio “aumentare la sicurezza” o “eliminare il problema dello spaccio”. Questi sono obiettivi che tuttavia l’ente difficilmente è in grado di raggiungere nel breve termine o nell’arco di tempo di un progetto perché le variabili che determinano l’andamento di questi fenomeni vanno ben al di là della capacità di azione dell’amministrazione comunale e si misurano sul medio-lungo periodo. È di gran lunga preferibile, invece, per un ente darsi obiettivi concreti e raggiungibili nel tempo senza alimentare false promesse. È certamente possibile dire di volersi impegnare a contribuire, unitamente ad altri enti o soggetti, a contenere un certo fenomeno che incide sulla percezione di sicurezza dei cittadini, come ad esempio ridurre i furti o i borseggi, rispetto al promettere di eliminarli completamente perché questo creerebbe un’aspettativa impossibile da soddisfare. L’aspetto che qui si vuole sottolineare ai fini di una corretta politica ha a che fare quindi con la definizione di obiettivi sostenibili per l’ente, intendendo con questo obiettivi che siano adeguati, realistici e basati su modalità di operare effettivamente possibili e attinenti alle competenze istituzionali dell’ente. Provando a entrare nel concreto, si possono definire sostenibili gli obiettivi che siano: î specifici e coerenti con le criticità che si intendono affrontare, cioè capaci

di rispondere al problema o ai problemi individuati come oggetto dell’intervento affinché la situazione negativa presente possa essere migliorata nel futuro;

Darsi obiettivi concreti e raggiungibili, senza false promesse

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î calibrati rispetto alla reale rilevanza e gravità del problema nel contesto e al livello territoriale a cui si intende agire. Interventi che agiscono su una scala sovra-comunale, cittadina, di quartiere o sub-quartiere avranno finalità e obiettivi differenti in funzione delle caratteristiche spaziali, sociali e relazionali dell’ambito territoriale oggetto dell’intervento;

î funzionali alle politiche, cioè collegati alle priorità e agli indirizzi politici e orientati al perseguimento delle scelte strategiche e programmatiche dell’Ente locale. Molte volte succede che nonostante si metta in campo una pluralità di azioni volte a determinare sicurezza o rassicurazione non si riesca tuttavia a produrre una capacità di governo del bene pubblico della sicurezza perché le azioni sono fini a se stesse e non finalizzate ad un obiettivo strategico più ampio.

Elaborare interventi complementari e funzionali agli obiettivi Per riuscire a trasformare un’idea progettuale in una politica locale, una volta identificati i problemi e fissati gli obiettivi, si deve pensare alla loro “traduzione in pratica”, ovvero agli interventi che si intendono effettuare. Quando il problema da affrontare è di particolare complessità o interessa trasversalmente l’azione di più settori dell’amministrazione, è necessario agire attraverso un programma articolato di interventi differenti, ma tra loro complementari e integrati. Le azioni complementari possono configurarsi come interventi che:

î agiscono su più ambiti tematici affrontando il problema da diversi punti di vista e coniugando approcci differenti. Un esempio di questo tipo, tra gli altri, sono gli interventi che mirano a ridurre il fenomeno della prostituzione su strada attraverso un’azione coordinata e concertata che prevede non soltanto attività di controllo del territorio da parte delle Forze dell’Ordine, ma anche azioni di sostegno alle donne da parte degli operatori sociali e azioni di pulizia dei siti da parte dei servizi ambientale competenti;

î si indirizzano ad una pluralità di destinatari che a diverso titolo sono interessati dal problema e il cui coinvolgimento può contribuire a raggiungere gli obiettivi dell’intervento. Si pensi agli interventi che affrontano le problematiche legate alla prevenzione e gestione di situazioni di conflitto e aggressività all’interno delle scuole. L’intervento risulterà più efficace se riesce a coinvolgere tutti i soggetti attraverso

Integrare approcci, parlare a più destinatari e coinvolgere enti differenti

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attività di sensibilizzazione e mediazione, percorsi di formazione e informazione, strumenti di accompagnamento e sostegno rivolti sia agli studenti sia al mondo degli adulti (corpo docente, famiglie);

î coinvolgono istituzioni, enti e realtà differenti per finalità, natura giuridica, ambito di attività e competenze. Accanto ai diversi comparti dell’amministrazione, un intervento che aspiri a diventare una politica necessita di essere progettato e condiviso insieme alle altre istituzioni locali e alle realtà sociali, associative e formative che agiscono sul territorio in modo da ottimizzare gli sforzi ed evitare sovrapposizioni. Nel campo degli interventi della sicurezza i possibili “portatori di interesse” (stakeholder) che possono essere coinvolti sono molteplici: dalle forze dell’ordine alle istituzioni scolastiche e formative, dalle cooperative sociali e associazioni alle realtà economiche, dai centri di ricerca alle agenzie che svolgono servizi di pubblica utilità per conto dell’Ente locale.

In tutti i casi si deve fare attenzione a che tra obiettivi e interventi ci sia una stretta correlazione. Le azioni di un intervento stanno ai risultati e agli obiettivi come i mezzi ai fini: per il raggiungimento di ciascun obiettivo è necessario prevedere la realizzazione di uno o più azioni che portino al raggiungimento dei risultati prefissati e, viceversa, ogni azione deve mirare al raggiungimento di un risultato e quindi di un obiettivo. Progetti in cui tra gli obiettivi dichiarati e le azioni previste non vi è coerenza non sono così rari: si pensi, tra gli altri, ai progetti che indicano tra gli obiettivi la riduzione della percezione di insicurezza e poi prevedono azioni tutte incentrate sul rafforzamento della vigilanza della polizia locale e sull’implementazione di sistemi di videosorveglianza. Spesso la mancanza di coerenza è dovuta a una progettazione poco attenta, alla scarsità di tempo nella fase di ideazione della proposta e alle limitate competenze progettuali e risorse degli enti. Se non vi è coerenza tra obiettivi e azioni, non solo l’intervento non produrrà i risultati e gli obiettivi di sicurezza sperati, ma si rivelerà inefficace anche nel supportare l’attuazione di una buona politica.

Cooperare con altri settori dell’amministrazione e/o enti

Per costruire una politica di sicurezza locale non si può prescindere dalla capacità dell’ente di fare rete con i soggetti che all’interno e all’esterno dell’amministrazione locale hanno competenza e capacità di intervento sul problema individuato, facendo proprio il concetto di “sicurezza partecipata” e di “co-responsabilità” nella produzione della sicurezza. Vi è una sempre maggiore consapevolezza che non è più possibile

Gli obiettivi e le azioni devono essere tra loro

coerenti

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promuovere strategie finalizzate a migliorare la sicurezza che siano efficaci e durevoli se non in un’ottica condivisa e sinergica con tutte le componenti della comunità locale. In questa direzione vanno anche molte delle leggi regionali sulla sicurezza che promuovono forme di collaborazione strutturate con i soggetti pubblici e privati del territorio quale strumento per realizzare politiche di sicurezza in ambito locale (tra le altre si ricorda la legge 23/2007 della Regione Piemonte che promuove accordi di partenariato tra Comuni che trovano attuazione nei Patti locali per la sicurezza integrata). Una cooperazione allargata che si articola su più livelli. Il primo livello riguarda la collaborazione interna all’ente comunale quale elemento qualificante delle politiche ad alto grado di trasversalità e integrazione come quelle di sicurezza urbana. Come si è visto in precedenza, sia nella fase di analisi delle problematiche locali che concorrono ad un elevato livello di insicurezza sia nella fase di attuazione degli interventi prevedere forme di condivisione e coinvolgimento tra i diversi settori comunali è una pratica che, pur nelle sue difficoltà organizzative, rappresenta un aspetto centrale per garantire la buona riuscita dell’intervento. Il secondo livello è il coinvolgimento della rete dei soggetti esterni all’amministrazione comunale, intesi nella loro totalità e articolazione. È ormai prassi consolidata di chi opera nel campo delle politiche di sicurezza agire in stretta collaborazione con le diverse realtà sociali, educative e associative radicate sul territorio, da quelle più tradizionali come i consorzi socio-assistenziali o le scuole ai soggetti del privato sociale come le associazioni, le cooperative sociali e le parrocchie. Queste categorie di soggetti sono in grado di arricchire e orientare le politiche locali mettendo a disposizione dell’ente una elevata capacità di

lettura e conoscenza dei bisogni e delle problematiche, una elevata specializzazione e competenza nei settori di attività e una forte capacità di costruire e rafforzare relazioni di collaborazione e prossimità con il territorio.

L’ultimo livello è quello della collaborazione inter-istituzionale con gli apparati dello Stato, centrali e decentrati e gli enti istituzionali e amministrativi del territorio. Essa negli anni si è concretizzata sostanzialmente nella stipula di forme pattizie di cooperazione - tra le quali

Collaborazione a più livelli per promuovere

una sicurezza partecipata

Scegliere i soggetti in funzione delle caratteristiche dell’intervento

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accordi, intese, protocolli operativi e i patti -, in cui a fronte di obiettivi condivisi ciascun soggetto sottoscrittore, nel rispetto delle reciproche competenze, si impegna a mettere a disposizione dotazioni, risorse, conoscenze o a svolgere specifici interventi coordinati. La scelta dei soggetti da coinvolgere non è definibile a priori né tantomeno è uguale da un intervento ad un altro, ma dipende dalle caratteristiche del contesto in cui si opera, dalle problematiche da affrontare, dalla natura dell’intervento e dagli obiettivi prefissati. Così come la scelta della modalità attraverso cui formalizzare la collaborazione è diversa a seconda del ruolo, delle competenze e della disponibilità di ciascun soggetto: vi sono modalità di cooperazione più operative e strutturate come gli accordi di partenariato (che normalmente prevedono il dettaglio di chi fa che cosa), e forme più snelle in cui la “rete” territoriale ha prevalentemente funzioni di supporto alla promozione e diffusione dei risultati e alla trasferibilità delle esperienze realizzate.

Valutare l’impatto e la sostenibilità degli interventi

L’ultimo aspetto che concorre a definire una strategia locale sulla sicurezza è il tema della valutazione dei risultati e della sostenibilità nel tempo degli interventi realizzati. Sono aspetti che di norma trovano una scarsa o limitata attenzione da parte delle amministrazioni pubbliche e che, invece, rappresentano elementi fondamentali affinché un intervento progettuale possa uscire dai suoi confini originari (progettuali, organizzativi, temporali, amministrativi) ed essere inserito in un’azione politica di più ampio respiro e durevole. Prestare attenzione agli esiti che via via si producono in fase di attuazione - e quindi dotarsi di adeguati strumenti di monitoraggio e valutazione - è utile non soltanto per capire se sono necessari aggiustamenti in corso d’opera, ma anche per misurare al termine l’impatto e i fattori di successo dell’intervento. Premesso che non sempre tutti gli interventi si rivelano utili o efficaci, capire cosa ha funzionato e quali cambiamenti si sono prodotti tra i beneficiari e nella collettività per effetto dell’intervento è un’indicazione indispensabile per elaborare delle politiche a partire dall’esperienza fatta. Al pari della valutazione, altro tema centrale e poco affrontato nell’elaborazione di interventi nel campo della sicurezza urbana è quello della loro sostenibilità nel tempo. Con il termine “sostenibilità” ci si riferisce alla capacità dell’ente promotore di dare continuità all’intervento (o ad alcune parti di questo) e di mantenerne i benefici anche dopo la sua

Fare attenzione alla valutazione e

sostenibilità di un progettto

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conclusione. Molti sono gli interventi in cui l’assenza di una valutazione approfondita sulle possibilità di una loro continuazione nel tempo e sulle condizioni della loro riproducibilità ha determinato l’esaurirsi degli interventi alla naturale conclusione, anche in presenza di risultati positivi. Gli aspetti da tenere in considerazione nel valutare la sostenibilità di un intervento sono di varia natura:

î di tipo politico-istituzionale, legati alla misura in cui gli obiettivi dell’intervento verranno sostenuti dalle istituzioni e dagli enti competenti dopo la sua conclusione;

î di tipo organizzativo, intesi come le capacità istituzionali e gestionali che i soggetti responsabili della fase successiva dell’intervento acquisiranno per garantirne l’attuazione e il proseguimento;

î di tipo economico e finanziario, riferiti alla capacità di garantire il reperimento delle risorse economiche necessarie per sostenere i servizi dell’intervento;

î di tipo ambientale relativi alla misura in cui il contesto locale sarà in grado di “sostenere” l’intervento e contenere eventuali impatti negativi entro un livello accettabile.

Come si è cercato di descrivere nei paragrafi precedenti, molti sono i nodi progettuali che gli enti locali devono affrontare e gestire con successo per far sì che interventi di natura straordinaria e sperimentale (come spesso sono le progettualità nate da finanziamenti esterni) si consolidino nella pratica politico-amministrativa

e si traducano in politiche ordinarie. Alcuni di questi hanno a che fare con le conoscenze e competenze interne all’ente (capacità di lettura e analisi del territorio e delle problematiche), altri sono invece connessi alla funzione di governo e coordinamento di interventi che gli enti sono sempre più spesso chiamati a svolgere (definizione di obiettivi realizzabili, coerenza tra obiettivi e azioni, attenzione al monitoraggio e alla valutazione dei risultati); altri nodi, infine, sono legati alle modalità e prassi di funzionamento della struttura organizzativa dell’ente che possono influenzare la capacità di cooperare con altri settori o l’apertura verso i soggetti esterni all’amministrazione locale. Riuscire a fare il “salto di qualità” passando dal livello progettuale a quello programmatico da cui derivano le politiche e gli orientamenti strategici dell’ente non è un’operazione semplice nè scontata; richiede la capacità, da parte dell’Ente locale, di seguire un approccio integrato e coerente che consenta di definire gli interventi di sicurezza urbana a partire dai problemi e

Sforzo dell’Ente locale nel tradurre interventi in politiche ordinarie

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li realizzi in maniera coordinata con altri soggetti e funzionale agli obiettivi e alle politiche che muovono la sua azione.

Una checklist per progettare una politica di sicurezza

• si conosce il problema su cui si vuole intervenire? • sono stati raccolti e esaminati i dati e le informazioni sul territorio

necessarie alla conoscenza del contesto e dei fenomeni? • la conoscenza sul problema è stata condivisa con altri settori

dell’amministrazione? • sono stati definiti gli “obiettivi sicurezza” da raggiungere nel medio

e lungo termine? • gli obiettivi sono raggiungibili e realistici? • le azioni previste sono coerenti rispetto al problema e agli

obiettivi?

• sono stati definiti i diversi ambiti di competenza settoriale che

devono essere attivati in coerenza con il piano d’interventi? • come è organizzata la collaborazione tra i diversi settori

amministrativi? • quali collaborazioni con i soggetti territoriali esterni sono state

attivate in funzione degli obiettivi da raggiungere con il piano d’interventi?

• quali forme di collaborazione sono state definite con i partner?

• rispetto all’intervento, sono stati definiti gli obiettivi di risultato ex-

ante? • è stato impostato un sistema di monitoraggio degli interventi? • sono stati attivati meccanismi di valutazione? Si è prevista la

valutazione della sostenibilità dell’intervento all’interno delle politiche ordinarie dell’ente?

+ La conoscenza e la visione strategica

+ La cooperazione tra settori e con soggetti esterni

+ La valutazione e la sostenibilità

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Il concetto di integrazione nelle politiche di sicurezza

In questo paragrafo, richiamando quanto già trattato nelle pagine precedenti, si esamina il concetto di integrazione nelle politiche di sicurezza, il suo significato e le difficoltà di attuazione. Ciò a conclusione di un percorso che ha visto prima l’esame dei modelli di riferimento e della complessità del concetto di sicurezza urbana e successivamente gli step fondamentali che un ente deve tenere in considerazione per trasformare una buona idea in una buona politica di sicurezza integrata.

Le politiche di sicurezza integrata

I due modelli denominati “diritto alla sicurezza” e “sicurezza dei diritti” (vd. p.41) non sono mai stati attuati in modo pieno e puro. Ciò a cui si è assistito è sempre stato un mix tra i due modelli, con maggiori accenti in un senso o nell’altro a seconda dei momenti storici o delle scelte valoriali sottostanti a quelle di governo. Il concetto di politiche integrate non è estraneo a questo mix di modelli, all’integrazione di pratiche di intervento spurie che si richiamano a un modello piuttosto che a un altro. Un’ottica maggiormente securitaria, infatti, può non essere avulsa dal concetto di politica integrata di sicurezza. In questo senso il concetto di politica integrata è in parte un concetto neutro.

Certamento però è insita nel concetto di politica integrata una visione ampia della sicurezza urbana che non è dominio delle agenzie di controllo e non è più unicamente il regno delle politiche di repressione della

criminalità. La politica integrata di sicurezza è sempre una politica che pone al centro il ruolo delle articolazioni decentrate dello Stato (in Italia le Regioni, con ruolo più di programmazione e indirizzo e i Comuni in veste di attori principali e snodi di attuazione) e vede una collaborazione tra le stesse, le Forze dell’Ordine e la magistratura al fine di raggiungere l’obiettivo di una maggiore sicurezza delle comunità e una migliore qualità della vita. Quando si parla di politiche integrate di sicurezza o di politiche di sicurezza integrata (a seconda che si ponga l’accento sull’integrazione degli strumenti o del risultato) si fa riferimento a tre dimensioni diverse:

La visione ampia della sicurezza urbana è il nocciolo della politica integrata di sicurezza

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î una dimensione politico-strategica per cui ci si approccia al tema sicurezza urbana, tenendo conto della sua complessità, del suo afferire a ambiti di intervento differenti, come le politiche sociali, abitative, urbanistiche, di prevenzione e repressione della criminalità (governance);

î una dimensione organizzativa, per cui politica integrata significa integrazione organizzativa tra i diversi settori dell’amministrazione, tra amministrazioni diverse e tra enti di tipologia diversa (intersettorialità e partnership);

î una dimensione operativa che integra nell’azione concreta diverse strategie d’azioni, saperi e pratiche (multidimensionalità).

La dimensione politico-strategica consiste nel definire gli obiettivi che ci si pone, le priorità e le strategie. Significa capacità di affrontare il tema lavorando sulla dimensione preventiva dei fenomeni ma anche su quella di controllo. Come già anticipato significa anche tenere in considerazione non solo la dimensione oggettiva dei problemi, ma anche quella soggettiva, e attivare anche politiche volte alla semplice rassicurazione di alcuni target di popolazione, qualora il problema non presenti una dimensione oggettiva ma sia legato esclusivamente a fattori percettivi. La sicurezza urbana, per sua stessa natura interdisciplinare, richiede una governance forte, intendendo con questo una capacità di saper ricondurre gli elementi propri di progettualità settoriale all’interno del disegno ampio e complessivo che si persegue in materia di sicurezza urbana. Si tratta di evitare che le politiche di sicurezza urbana diventino politiche residuali o meglio di risulta, dove si fa confluire tutto ciò che non è stato altrimenti e altrove risolto. Proprio tale necessaria interdisciplinarietà e naturale residualità devono diventare un punto di forza delle politiche di sicurezza urbana per indirizzare l’azione che spetta a politiche settoriali, senza invasioni di campo o rischi di delega degli oggetti indesiderati. Per tale ragione la dimensione organizzativa è strategica nelle politiche integrate di sicurezza urbana. L’intersettorialità è essenziale per allontanare i rischi appena menzionati. In particolare essa deve riguardare sia l’analisi dei problemi che l’organizzazione dell’intervento. L’approccio integrato comporta per le strutture amministrative la capacità di far acquisire ai diversi settori la consapevolezza del proprio ruolo nello sviluppo di politiche locali per la sicurezza e della complessità dei problemi posti dall’insicurezza. A seguire l’acquisizione e diffusione delle informazioni utili alla conoscenza dei fenomeni e infine la pianificazione graduale degli obiettivi da raggiungere in termini di gestione della complessità degli

Integrazione è visione, organizzazione e

quotidianità dell’azione

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elementi implicati. Infine, l’approccio integrato comporta l’adozione di una prassi di lavoro che superi la settorializzazione delle competenze e delle professionalità interne all’amministrazione. L’integrazione, in questo quadro, si definisce sostanzialmente come capacità di uscire dal proprio ambito per mettersi in relazione con le competenze e le prassi degli altri settori sulla base di obiettivi comuni e trasversali. Accanto alla dimensione interna all’amministrazione vi è quella esterna che coinvolge la capacità di lavorare in partnership con enti pubblici e privati portatori di conoscenze del problema o competenze utili alla soluzioni: non solo mediante Protocolli di Intesa con le istituzioni operanti a livello statale, in primis le Prefetture, o accordi di collaborazione e scambio con il privato sociale, con cui la cooperazione è diffusa, ma anche accordi di collaborazione con le associazioni di categoria - sindacati e organizzazioni datoriali - l’associazionismo dei cittadini stranieri, le associazioni di “tutela e rappresentanza” di gruppi specifici (le donne vittime di violenza, le vittime di reato, i minori, ecc) che ancora faticano ad affacciarsi come soggetto primario delle politiche di sicurezza urbana. La cooperazione tra diversi soggetti, istituzionali e non, è essenziale data la multidimensionalità del problema che richiede l’integrazione di diversi saperi, strumenti e pratiche. È proprio nella dimensione operativa che si concretizza la quotidianità dell’integrazione, fatta di mix tra intervento sociale, controllo del territorio, cura dello spazio urbano, rigenerazione dello stesso. Mix che si modula in base alle situazioni e alle necessità. A quanto già detto in proposito (cfr. Glossario) occorre aggiungere un cenno al tema della comunicazione pubblica. La strategia di comunicazione è infatti l’anello terminale di una politica integrata. La capacità di avere una strategia di comunicazione, di ancorare la comunicazione agli interventi sono le cartine di tornasole dell’attuazione di una politica integrata. E oggi, in un momento di grandi ristrettezze di risorse, sapere integrare la comunicazione, prescindendo da campagne ad hoc e settoriali è probabilmente la sfida da cogliere e vincere.

Le fatiche dell’integrazione

L’integrazione delle politiche è conveniente per una maggiore efficacia e un più ampio impatto delle politiche sulla sicurezza urbana, ma è faticosa da praticare. L’approccio integrato infatti è ormai suggerito in un vasto campo delle politiche pubbliche (sociali, ambientali, sanitarie, urbanistiche, ecc): affrontare un tema o un problema comporta sempre dover gestire anche aspetti collaterali, concause, impostare la prevenzione delle cause stesse in

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un’ottica di efficienza e efficacia degli interventi. Questo approccio si impone a maggior ragione in materia di sicurezza urbana per tutte le ragioni di contenuto e di strategie che abbiamo già trattato. Sappiamo bene, tuttavia, che integrare politiche settoriali, obiettivi, interventi e soggetti è estremamente faticoso e di questo occorre essere consapevoli nel momento in cui ci si accinge ad avviare questo processo. È necessario prepararsi ad attivare meccanismi in corso d’opera capaci di potenziare la forza di resilienza dell’intero sistema affinché non soccomba alla fatica di mantenere l’azione programmata coerente agli obiettivi stabiliti, alle difficoltà di coordinare una pluralità di soggetti portatori di competenze, linguaggi e saperi anche molto diversi fra loro. Con riferimento alla dimensione politico-strategica con cui ci si approccia al tema sicurezza urbana, tenendo conto della sua complessità, la fase della condivisione dei macro-obiettivi è forse l’aspetto meno problematico. Molto più sensibile e fragile è il terreno successivo della trasformazione operativa delle intenzioni progettuali; esso comporta la programmazione e il governo delle singole strategie d’azione, delle tempistiche degli interventi e della loro successione logico-funzionale e del grado di priorità attribuito alle singole misure previste. Si tratta di necessari aspetti operativi il cui presidio e direzione non sono affatto banali, trattandosi di interventi che devono vedere il concorso di una pluralità di settori amministrativi interni allo stesso ente, di una rete articolata di soggetti esterni che va da realtà di tipo istituzionale (altri enti e poteri dello Stato) di tipo territoriale o di categoria (comitati, associazioni).

Ci sembra importante sottolineare l’aspetto delle priorità attribuite alle diverse misure progettate poiché è spesso su questo terreno che lo sviluppo operativo dei progetti incontra le maggiori difficoltà. Rispettare l’ordine di priorità attribuito ex-ante significa riuscire a programmare e realizzare nella successione logica corretta gli interventi, predisporre per tempo gli atti amministrativi necessari, riuscire a verificare l’impatto delle misure attuate.

La difficoltà nel rispettare le priorità programmate non dipende certo dalla cattiva volontà di qualche soggetto quanto piuttosto da ragioni fisiologiche. Per non soccombere alla fatica dell’integrazione, è bene avere fin dall’inizio a mente che, anche solo all’interno dello stesso ente, il grado di priorità assegnato ad un intervento potrà non essere lo stesso da parte dei diversi settori amministrativi che si devono attivare. Oltre al lavoro programmato, sono continue le urgenze e gli imprevisti a cui occorre reagire nella vita quotidiana dell’amministrazione e ogni settore è portatore di mission

Integrare politiche settoriali, obiettivi,

interventi e soggetti è faticoso

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prioritarie proprie cui darà la precedenza nel momento dell’urgenza. Inoltre, la sicurezza urbana è ambito particolarmente esposto anche all’attenzione mediatica ad eventi di cronaca o a prese di posizione pubbliche che possono imporre modifiche nell’agenda delle priorità. La regia del progetto integrato deve pertanto confrontarsi con queste dinamiche “fisiologiche”, essere pronta a reagire per trovare le modalità correttive per non compromettere lo sviluppo razionale dell’intervento (da cui dipende il rispetto della coerenza tra analisi-obiettivi-interventi-risultati progettati ex-ante). Proporre misure correttive è senz’altro attività “faticosa” e complessa perché può significare dover rinegoziare con la rete dei partner l’ordine degli interventi, chiedere maggiore flessibilità, immaginare nuove soluzioni progettuali-amministrative. Un altro aspetto particolarmente sensibile nel processo di gestione di interventi integrati riguarda la dimensione organizzativa che ha a che fare con l’intersettorialità e la partnership. Il governo delle dinamiche progettuali e relazionali dell’insieme dei soggetti coinvolti nel partenariato comporta estrema attenzione, pazienza e sensibilità. Come abbiamo visto, un progetto integrato complesso di sicurezza urbana a regia di un ente locale in genere prevede tre livelli di integrazione tra soggetti:

î livello interno (infra-istituzionale quindi inter-assessorile e inter-settoriale); î livello esterno istituzionale (inter-istituzionale fra soggetti portatori di

poteri e competenza proprie diversi); î livello esterno territoriale (dialogo e partecipazione attiva di soggetti

organizzati, di reti di attori locali, di gruppi informali).

Considerata l’eterogeineità di questo insieme di attori, tanto sotto il profilo del potere formale e sostanziale quanto sotto il profilo dei saperi, delle competenze e dei linguaggi, il governo di una reale partnership è impresa estremamente impegnativa. Per reale partnership si intende non solo un insieme di soggetti la cui presenza nella rete è necessaria per raggiungere obiettivi, ma anche un insieme di attori disposti a mettersi in gioco affinchè l’agire comune produca innovazione e valore aggiunto. Sui soggetti delle partnership si pone un po’ lo stesso problema che si pone sull’integrazione delle politiche e degli interventi. Un partenariato è tanto più utile e efficace quanto più i suoi membri sono disposti a offrire capacità, competenze e, allo stesso tempo, aprirsi al contributo e alle influenze culturali degli altri. Attivare, curare, valorizzare e tenere in equilibrio questo processo comporta

Le priorità non possono essere le

stesse per tutti, c’è sempre spazio per raddrizzare la rotta

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senz’altro fatica. La fatica di mediare tra sensibilità, di trasferire punti di vista, di fare sintesi e di riaprire il confronto ogni volta che si rende necessario. Governare questo processo comporta inoltre la necessità di esercitare la propria responsabilità nel perseguire obiettivi e nel raggiungere i risultati programmati, gestendo in modo costruttivo il dialogo e il confronto tra i vari attori. Da ultimo, è utile fare un richiamo a una fatica dell’integrazione particolarmente sentita in questo momento: la scarsità delle risorse a disposizione degli enti per promuovere misure complesse e innovative. La sostenibilità nel tempo degli interventi è elemento imprescindibile di buona

progettazione. Nell’attuale contesto di carenza di risorse, garantire non solo lo start up, ma anche la trasformazione di interventi straordinari in politiche ordinarie è impresa estremamente complessa. Tuttavia, dopo quasi 15 anni di riflessioni e

esperienze progettuali da parte di moltissimi enti locali e organi dello Stato in queste materie, oggi si pone la necessità di mettere a sistema gli esiti e le analisi delle diverse esperienze per capire come possano essere “riusate” adattandole ai diversi contesti locali. La scarsità di risorse forse impone finalmente una riflessione intorno alla venuta meno della necessità di sperimentare, considerando che si sperimenta da circa 15 anni (si possono trovare esperienze di ogni tipo e ogni segno strategico di intervento sulla sicurezza in senso stretto, di promozione di coesione sociale, di riqualificazione urbana, di rigenerazione di territori in crisi, di controllo e sanzione). Oggi il tema delle risorse impone il compito di studiare, analizzare ed elaborare interventi che facciano tesoro dei risultati e dei fallimenti delle esperienze passate per scoprire, forse, che non sono necessariamente costosi. Oggi è necessaria una responsabile attenzione all’efficacia reale di alcuni filoni d’intervento estremamente dispendiosi e una valutazione di cosa invece occorra fare per includere nell’azione ordinaria dell’ente misure di cura e gestione dei problemi di sicurezza che si presentano a livello locale.

La carenza di risorse impone di valorizzare le esperienze fatte

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L’integrazione in sintesi

le difficoltà dell’integrazione valore aggiunto dell’integrazione

l’organizzazione settoriale e gerarchica degli enti pubblici non favorisce l’adozione di approcci trasversali

integrare politiche

visione strategica unica, alla quale concorrono le diverse politiche

differenze nelle modalità di lavoro e nei modelli organizzativi dei settori

integrare settori complementarietà e maggior impatto degli interventi

difficile mettere insieme competenze in capo a più settori (tendenza al lavoro per “compartimenti stagni”)

integrare conoscenze e competenze

aumento della motivazione e professionalità del personale interno

poche risorse per sperimentare metodi e strumenti che promuovano l’integrazione

integrare risorse

possibilità di ottimizzare risorse ed evitare sprechi o duplicazioni

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Capitolo 3 Leggere la sicurezza. I dati, il contesto, i fenomeni e le percezioni di Valeria Ferraris e Elena Carli 1. Introduzione …...……………………….………………..........................p. 67 2. Popolazione e contesto territoriale ….………………....…...............p. 68 La misurazione dei fenomeni e la loro rappresentazione I fattori socio-demografici Il contesto economico e occupazionale Il contesto urbano-ambientale 3. Criminalità e disordine urbano ……………………………….….........p. 77 La criminalità e il disordine urbano: quali fonti Rilfedeur – RILevazione dei FEnomeni di DEgrado URbano Cosa dicono i dati e come sceglierli Quali dimensioni e quali indicatori per misurare criminalità e disordine 4. Rappresentazioni e percezioni ……………..……………..…...........p. 85 Percezioni diffuse e rappresentazioni mediatiche: perché occuparsene L’insicurezza percepita: le fonti a disposizione e i metodi di raccolta L’ascolto attivo del territorio: l’esperienza di Galliate Quali fattori indagare per l’analisi delle opinioni dei cittadini Per un’analisi sulle rappresentazioni mediatiche locali Gli imprenditori morali e il panico sulla sicurezza 5. Esperienze …………………………………..……………...…………...p. 95 Il Cruscotto sulla Sicurezza Urbana della città di Torino Le diagnosi locali: un utile strumento di lavoro Le diagnosi locali: alcune esperienze Note ………………………………………………...………….………..........p. 99

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Introduzione Questo capitolo offre un percorso di lettura e approfondimento in grado di supportare gli Enti locali nella elaborazione di progetti e politiche di sicurezza integrata. Al suo interno sono descritte le dimensioni (contesto demografico e territoriale, fenomenologia criminale e disordine, percezioni e rappresentazioni) che assumono rilievo nella rappresentazione della sicurezza urbana, offrendo indicazioni pratiche e concrete su come analizzarle. Si è cercato di offrire uno strumento di lavoro a supporto della elaborazione di politiche e della progettazione di interventi più informata e accurata. Nello specifico si analizzano i fattori di contesto (popolazione, contesto economico occupazionale, nonché urbano-ambientale) fornendo indicazioni concrete su come reperire le informazioni che possono descriverlo. Tutto questo a partire dalla considerazione che i dati di contesto sono strettamente in relazione con i fenomeni che paiono più direttamente interessare la

sicurezza urbana. La sezione successiva analizza criminalità e disordine urbano, offrendo una panoramica dei dati utilizzabili per descrivere queste due dimensioni centrali per la sicurezza urbana.

L’ultima parte è invece dedicata alle percezioni dei cittadini e alle rappresentazioni mediatiche che, come si è già avuto modo di sottolineare, nel secondo capitolo, incidono fortemente sulle politiche di sicurezza. Percezioni e rappresentazioni mediatiche costituiscono due dimensioni che gli Enti locali non possono ignorare, ma da cui non devono nemmeno farsi guidare. In conclusione, si prova a offrire degli esempi concreti di raccolta dati e di strumenti di lavoro che, modulati in base alle proprie esigenze e risorse, possono guidare le politiche e le azioni degli Enti locali sul tema della sicurezza urbana.

Criminalità, disordine urbano, percezioni dei cittadini e rappresentazioni mediatiche: come descriverle e tenerle in considerazione

La conoscenza dei territori e della popolazione è il primo

elemento per una buona progettazione

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Popolazione e contesto territoriale

La conoscenza del contesto territoriale è un elemento imprescindibile per una corretta interpretazione dei problemi di insicurezza - reale e percepita - di un territorio. Come è stato sottolineato nei capitoli precedenti, la sicurezza urbana è un fenomeno complesso e multidisciplinare: sentimenti di paura e problematiche di insicurezza risentono dell’influenza di molteplici fattori quali le trasformazioni urbane, la conformazione dell’ambiente costruito, le dinamiche demografiche, la vitalità economico-commerciale, le fragilità sociali della popolazione. Per evitare di cadere in atteggiamenti deterministici, è bene sottolineare come non sia tanto la presenza di un fattore potenzialmente problematico a produrre insicurezza, bensì la compresenza e la concentrazione di più criticità e fragilità. Un unico fattore (come la concentrazione di anziani soli) da solo è poco significativo, mentre è il sedimentarsi di più problematiche (ad esempio la presenza di un’elevata percentuale di anziani, in situazioni economiche precarie, in un contesto povero di servizi e reti sociali) a determinare un’esposizione a problemi di insicurezza e a influire sulle paure della popolazione. Ciò deve indurre a tenere ben presente il quadro di insieme dei fenomeni territoriali ed il modo in cui essi si combinano tra loro, andando talora a comporre uno scenario preoccupante o che merita una particolare attenzione da parte delle politiche pubbliche. Maggiore è la capacità di reperire e analizzare informazioni sul contesto, più vicina alla realtà sarà la fotografia che i dati possono restituire e di conseguenza più incisiva la capacità di pianificare interventi. La raccolta e l’analisi di indicatori stabili, ripetibili e georeferibili (cfr. box nella pagina seguente) è pertanto un passaggio essenziale per l’attivazione di politiche efficaci, che affrontino il tema sia dal punto di vista dell’allarme sociale che della sicurezza oggettiva. Nel presente capitolo si indicano le principali aree di interesse e i relativi indicatori per una lettura del contesto territoriale in relazione ai problemi di insicurezza. È evidente che a seconda della disponibilità dei dati nei diversi Comuni, dei bisogni e delle necessità di intervento legate a particolari aspetti o fenomeni, è possibile concentrare l’attenzione e le risorse solo su alcuni di questi fattori, tenendo però sempre ben presente l’interdipendenza tra fenomeni anche apparentemente molto distanti tra loro. Vale inoltre la pena precisare che molte informazioni sono già presenti e nella disponibilità degli Enti locali. A volte richiedono unicamente una sistematizzazione, in altri casi invece occorre una rilevazione con strumenti di carattere

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qualitativo che possono poi essere adeguatamente trasformati in indicatori quantitativi.

La misurazione dei fenomeni e la loro rappresentazione Gli indicatori sono numeri che esprimono la misura di un determinato fenomeno. I fenomeni possono essere misurati attraverso numeri assoluti o tassi. I numeri assoluti forniscono una misura numerica della realtà (ad esempio quanti sono gli anziani che vivono soli in una città). I tassi, invece, rapportano il dato assoluto ad un denominatore comune. Un tasso è, ad esempio, il numero di anziani che vivono soli diviso la popolazione totale. Di solito si moltiplica per una costante pari a cento (per ottenere la percentuale) o ad altre potenze di 10 (per ottenere le parti per mille, diecimila, ecc). Ciò significa che il numero assoluto quantifica (ad esempio ci dice che ci sono 100 e 500 anziani in due Comuni limitrofi) ma non è in grado di dirci se gli anziani sono pochi e tanti, rispetto all’insieme degli abitanti. Questa seconda informazione ce la fornisce il tasso: se la popolazione dei due Comuni è rispettivamente di 1.000 e 10.000 persone, sapremo che gli anziani sono il 10% nel primo Comune e il 5% nel secondo. Il tasso ci permette quindi di confrontare i dati. In materia di sicurezza urbana di solito si rapportano gli eventi alla popolazione o ad un segmento della stessa (es. numero di anziani soli sulla popolazione o sulla popolazione over 65). In alcuni casi può essere utile rapportare gli eventi anche alla superficie (es. numero di pali della luce per kmq) o al numero totale di eventi (es. numero di furti sul numero totale di reati, in modo da ottenere l’incidenza di una tipologia di reato sull’insieme dei reati stessi). È molto importante che gli indicatori siano stabili (cioè consolidati, per essere certi che misurino in modo attendibile i fenomeni), ripetibili (cioè aggiornati periodicamente e con serie storiche sufficientemente lunghe da permettere di osservare l’andamento dei fenomeni nel tempo) e georeferibili a livello comunale e/o sub comunale (a seconda dell’ampiezza del territorio da analizzare). Per Comuni di media grandezza può essere utile avere dati anche a livello di quartiere o circoscrizione, mentre per Comuni medio-piccoli può essere sufficiente il dato a livello comunale. I dati possono essere visualizzati in vari modi: tramite tabelle (utili a individuare l’esatto valore delle misurazioni), grafici (utili per visualizzare il trend del fenomeno), mappe (che permettono di visualizzare la distribuzione del fenomeno in aree diverse della città).

I fattori socio-demografici

Le ricerche sulla sicurezza dicono che essere anziani, soli, privi di scambi sociali significativi, influisce sul senso di vulnerabilità e insicurezza.

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Affermano altresì che livelli di istruzione medio-bassi e condizioni di vita precarie (avere ad esempio un lavoro instabile e basso reddito) determinano maggiore preoccupazione per la qualità della vita e del territorio di appartenenza e diffidenza verso i nuovi arrivi (ad esempio gli stranieri), vissuti come minacciosi in un contesto di risorse scarse. Un territorio densamente popolato poi, con una popolazione giovane e di recente migrazione, può essere maggiormente esposto a fragilità sociali e a problematiche di disordine sociale, a conflittualità tra gli abitanti e anche alla criminalità. Questi sono solo alcuni dei casi che bene esemplificano il ruolo determinante che le caratteristiche socio-demografiche possono avere sulla fragilità dei territori e sulla maggiore esposizione dei cittadini a problematiche di insicurezza reale o percepita. Da un lato, quindi, condizioni sociali deprivate o fragilità demografica influiscono sulla capacità di interpretare i fenomeni, contestualizzare le problematiche e mettere in campo strategie di difesa, determinando maggiore esposizione a sentimenti di insicurezza. Dall’altro lato, le caratteristiche socio-demografiche di un territorio incidono non solo sul piano percettivo, ma anche su fenomeni di insicurezza veri e propri dal momento che il sedimentarsi di situazioni di marginalità sociale può impattare in termini di conflittualità, degrado ambientale e illegalità diffusa sui territori1. Per questi motivi, le politiche di sicurezza territoriali non possono prescindere da un’attenta analisi anche sulla composizione socio-demografica dei territori, il che prevede un approccio alla sicurezza non esclusivamente securitario, bensì comprensivo di politiche di prevenzione e inclusione sociale. Per una disamina del contesto socio demografico di un territorio è importante reperire, in modo sistematico, dati riferibili alle principali aree di

interesse riconosciute in letteratura come incidenti sul tema. Qui riassumiamo le dimensioni di analisi e i relativi indicatori da raccogliere. Relativamente agli aspetti più

strettamente demografici vanno menzionati: n la struttura della popolazione: si intende con questa espressione tutti

gli indicatori relativi alla composizione della popolazione (ad esempio la densità della popolazione, gli indici di natalità e mortalità, l’indice di vecchiaia e la presenza di anziani soli, la percentuale di popolazione femminile e maschile, la distribuzione dei residenti nelle diverse

L’influenza dei fattori socio-demografici

sull’insicurezza reale e percepita: alcuni esempi

Aree di interesse e indicatori utili per l’analisi

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fasce di età, la percentuale di famiglie monoparentali e numerose, l’indice di dipendenza);

n i movimenti della popolazione: rientra in questa espressione tutto ciò che attiene ai cambiamenti che interessano la popolazione in termini di flusso, ad esempio le variazioni dei residenti in relazione alle nascite/morti (il saldo naturale) e ad immigrazioni/emigrazioni (saldo migratorio) o l’incremento annuale della popolazione. Per i comuni di dimensioni medio-grandi costituiscono indicatori interessanti il grado di attrazione del capoluogo (percentuale di residenti nel Comune in relazione ai residenti nella provincia di riferimento) e il saldo migratorio intra-urbano (per misurare il movimento della popolazione all’interno della città);

n la presenza della popolazione straniera: gli indicatori di struttura e movimento sopra indicati possono essere utilizzati anche sul sottocampione della popolazione non avente cittadinanza italiana. In aggiunta, può essere utile calcolare il tasso di immigrazione (rapporto tra i nuovi residenti stranieri e i già residenti stranieri) e l’incidenza della popolazione straniera sul totale dei residenti nel territorio oggetto di analisi, eventualmente dettagliato per alcune nazionalità specifiche.

In merito agli aspetti di carattere sociale può essere utile raccogliere informazioni relative a:

n il livello di scolarizzazione: quali ad esempio il tasso di istruzione della popolazione e di abbandono scolastico;

n la fragilità economico-occupazionale: come il reddito pro-capite, l’incidenza delle persone assistite economicamente dai servizi sociali con sussidi al reddito, il peso degli interventi di supporto al lavoro (es. beneficiari borse lavoro), i sussidi alla locazione;

n gli interventi dei servizi sociali: come la percentuale di persone beneficiarie di assegni di cura e altre erogazioni da parte dei servizi sociali;

n la fragilità abitativa: ad esempio il numero di procedimenti civili per sfratto per morosità e per finita locazione e la percentuale di residenti in alloggi di edilizia residenziale pubblica.

Per quanto riguarda la disponibilità, questi indicatori sono per lo più reperibili agevolmente attraverso i diversi Settori dei Comuni (sia grandi che medio-piccoli), in particolare attraverso le banche dati dell’Anagrafe, dei Servizi sociali (dove sono presenti tutti i dati delle unità familiari segnalate ai Servizi sociali o che hanno chiesto

Fonti dei dati a livello comunale, regionale

e nazionale

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l’intervento dei Servizi sociali). Spesso è presente una serie storica relativamente lunga, che agevola una lettura diacronica dei fenomeni. Esistono altresì importanti banche dati regionali o nazionali che presentano una disaggregazione comunale e possono essere quindi utilizzate anche a questo livello. A livello regionale, fonti di questo tipo sono i dati forniti dall’Ires Piemonte attraverso le sue banche dati. Tra queste ricordiamo l’Osservatorio demografico territoriale del Piemonte2 che fornisce dati relativi alle principali caratteristiche demografiche della popolazione piemontese (italiana e straniera) con una disaggregazione per province, capoluoghi di provincia, Distretti sanitari, Centri per l’impiego, area metropolitana, comunità montane. Esiste poi la Banca Dati Demografica Evolutiva3, un database sulla popolazione residente in Piemonte, sulla sua struttura e sulle sue caratteristiche: contiene dati anagrafici dei Comuni piemontesi (e delle principali aggregazioni fino al livello regionale), provenienti dalle rilevazioni ISTAT a partire dal 1992. Infine alcuni dati socio-economici sono disponibili anche nella Relazione socio-economica annuale del’Ires, con una disaggregazione provinciale4. A livello nazionale sono fondamentali le banche dati dell’Istat che, soprattutto attraverso i censimenti realizzati ogni 10 anni, producono una grande quantità di dati socio-demografici, molti dei quali disponibili a livello comunale5. Nella tabella seguente si offre un quadro sintetico degli indicatori utili e delle relative fonti di dati.

Indicatori socio-demografici e fonti dei dati

Indicatori Fonte

î Struttura dela popolazione e movimenti della popolazione

î Anagrafe del Comune/Istat/BDDE-Demos

î Livello di istruzione î Abbandono scolastico

î Censimento della popolazione î Polizia municipale del Comune

î Sussidi economici a sostegno del reddito e per la locazione

î Interventi di supporto al lavoro î Reddito pro capite

î Settore Servizi Sociali

î Settore Lavoro î Settore Tributi

î Interventi dei servizi sociali î Settore Servizi Sociali

î Procedimenti per sfratto î Abitazioni di edilizia residenziale

pubblica

î Settore Casa / Tribunale î Agenzie territoriali per la casa

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Il contesto economico e occupazionale

Così come i cambiamenti della popolazione cittadina rappresentano una dimensione che connota il volto della città, anche il contesto economico-produttivo è un elemento fondamentale che permette di caratterizzare il tessuto territoriale in termini di sviluppo produttivo e commerciale. La localizzazione degli insediamenti produttivi e commerciali sul territorio e la loro evoluzione nel tempo rappresentano elementi fondamentali nell’analizzare la sicurezza di una città. Sicurezza e vivacità imprenditoriale sono due elementi che si influenzano e si relazionano. Da un lato perché un territorio più vivo e vissuto anche economicamente è un territorio più presidiato, e quindi più sicuro, dall’altro perché la mono-vocazione produttiva o commerciale di alcune aree può invece determinare condizioni di insicurezza, creare aree residuali, vuoti nel disegno urbano e favorire situazioni di abbandono e incuria. La relazione tra vivacità produttiva e sicurezza non è sempre così chiara e lineare, ma rivela elementi contraddittori che richiedono di analizzare non solo la presenza di attività ma anche le caratteristiche delle stesse. La densità delle imprese6 è un buon indicatore della vivacità imprenditoriale di un’area7 – sia a livello comunale che sovra-comunale – facilmente reperibile presso UnionCamere o tramite gli archivi dell’Istat. Risulta di particolare importanza capire di quali imprese si sta parlando: infatti è molto diversa la forza di un tessuto imprenditoriale caratterizzato da molte imprese piccole o individuali (quindi lavoratori autonomi che, specie nelle situazioni di crisi economica, possono nascondere il fenomeno distorsivo dei titolari di partita IVA che operano come lavoratori subordinati) o da imprese di dimensioni maggiori e collettive. Altresì è importante capire se si è di fronte a territori con tessuti produttivi a vocazione esclusivamente industriale o a un mix adeguato di insediamenti produttivi e commerciali. Raffinando ulteriormente l'analisi rispetto al commercio occorre distinguere tra medie-grandi imprese commerciali o commercio di prossimità. Assai diverso, infatti, è l’impatto sul tessuto della città di un grande insediamento, spesso contiguo (o addirittura esterno) alle aree residenziali, piuttosto che di un commercio di prossimità che è inserito all’interno dei quartieri e contribuisce alla vivibilità. Tramite i dati relativi agli esercizi pubblici è possibile osservare inoltre la mappatura di locali pubblici dedicati alla somministrazione di bevande. Oggi in particolare la presenza di locali aperti nelle ore serali-notturne è di grande

L’importanza di capire le caratteristiche del contesto

economico e produttivo

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attualità. Ristoranti, bar, locali di divertimento sono stati in tempi recenti leve per riqualificare aree urbane e per migliorare la vivibilità di alcune zone spesso degradate o comunque considerate insicure. La liberalizzazione delle licenze, unita all’evoluzione dei costumi dei cittadini (in particolare il maggior uso dello spazio pubblico legato anche alla necessità di fumare

all’esterno dei locali) ha in alcuni casi creato situazioni di notevole criticità che richiedono agli Enti locali di intervenire sulla conflittualità determinatasi tra cittadini e residenti (per la

realizzazione di un intervento nel Comune di Saluzzo vd. Guidi e altri, 2013). Altro elemento oggi di grande interesse è infine la presenza di imprese a titolarità straniera. Si tratta di nuovi elementi di vivacità imprenditoriale: si pensi ai ristoranti etnici, alle piccole botteghe commerciali spesso insediatesi in zone non particolarmente vivaci dal punto di vista commerciale. Possono però anche essere elementi di crisi quando si verificano concentrazioni di identiche tipologie di imprese che determinano situazioni di mono-funzionalità delle aree, indicatori di un impoverimento commerciale delle zone su cui insistono e elementi di “occupazione della città” che la rendono estranea ai suoi residenti (si pensi ad esempio a quanto avvenuto in via Paolo Sarpi a Milano). Tutti questi indicatori sono reperibili tramite gli archivi camerali o tramite Istat che fornisce - attraverso l'archivio Asia - anche dati a livello comunale. Inoltre la Regione Piemonte dal 1999 ha istituito l’Osservatorio regionale del Commercio8 che costituisce una preziosa fonte di informazione per il territorio regionale. Elemento per certi versi speculare alla vivacità economico-produttiva è la situazione occupazionale dei residenti di una determinata area. Se la vivacità economico-produttiva è una spia della vivacità dei territori, un quadro della “salute dei lavoratori” è offerto dagli indicatori relativi al tasso di dis/occupazione e all’utilizzo di ammortizzatori sociali, cioè di quelle misure di sostegno al reddito rivolte a particolari categorie di lavoratori e volte a contenere le conseguenze sociali di licenziamenti collettivi, disoccupazione, ristrutturazioni e riorganizzazioni, crisi aziendali, sospensioni dal lavoro (ad esempio la Cassa Integrazione Guadagni - ordinaria o straordinaria-, l'indennità di mobilità, i sussidi di disoccupazione). Questi dati sono disponibili sulla Regione Piemonte (nel suo complesso e disaggregati per Province) grazie all’Osservatorio Regionale sul mercato del lavoro, nonché tramite l’indagine sulle forze lavoro realizzata dall’Istat.

Locali pubblici, Imprese straniere: due elementi di interesse

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Indicatori economico-occupazionali e fonti dei dati

Indicatori Fonte

î Densità imprese î Istat î Unioncamere

î Densità grandi e medie imprese commerciali

î Densità esercizi pubblici

î Istat î Unioncamere, Osservatorio

Regionale del Commercio

î Densità specifiche categorie di imprese (imprese con titolare straniero, imprese di una specifica categoria merceologica)

î Istat î Unioncamere, Osservatorio

Regionale del Commercio

î Tasso di dis/occupazione (misura il numero di persone dis/occupate sulla popolazione. Si può determinare anche per fasce di età o per genere).

î Indagine sulle forse lavoro (Istat)

î Tasso di in/attività (misura l’offerta di lavoro nel breve periodo, rapportando la popolazione in/attiva e l’intera popolazione).

î Indagine sulle forze lavoro (Istat)

Il contesto urbano-ambientale

Come già sottolineato nella descrizione relativa al contesto economico-produttivo, la distribuzione delle attività è un elemento che incide sulla sicurezza di un territorio. Questa considerazione puntuale in merito al contesto economico-produttivo ha in realtà una valenza generale quando si considera nella sua interezza l’aspetto fisico del territorio. Gli strumenti di programmazione urbanistica e gli interventi di trasformazione urbana (piani territoriali, progetti di riqualificazione urbana, progetti integrati di intervento,

ecc.) rivestono una grande importanza nel creare condizioni che aumentano o diminuiscono la sicurezza di un territorio (si veda il capitolo 10).

È evidente che zone monofunzionali destinate ad esempio unicamente a uffici diventano di notte luoghi vuoti, privi di una funzione, così come zone a bassa densità abitativa, a rischio di spopolamento (considerazione particolarmente rilevante per una Regione come il Piemonte che registra un numero molto alto di piccoli Comuni) scarsamente collegate sono ad alto

L’importanza del disegno urbano e della gestione degli spazi

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rischio di isolamento. Parimenti una buona dotazione infrastrutturale agevola i movimenti della popolazione mediante mezzi pubblici e contribuisce ad una migliore vivibilità delle città. Anche le modalità di costruzione delle infrastrutture (così da evitare enclave, avulse dal contesto circostante, o spazi vuoti) possono contribuire a una migliore accessibilità delle aree o all’opposto possono costuire un importante ostacolo. Più nel dettaglio una adeguata illuminazione cittadina, una buona accessibilità del trasporto urbano (evitando di costruire fermate dei mezzi pubblici e stazioni in luoghi mal illuminati e deserti), flussi di traffico sostenibili, la qualità delle abitazioni, l’assenza di aree socialmente segregate, la disponibilità di parcheggi e la presenza di servizi distribuiti sul territorio sono tutti elementi che contribuiscono alla vivibilità delle grandi città ma anche dei Comuni medio-piccoli. Trasformare queste indicazioni squisitamente di carattere qualitativo in indicatori è un’operazione più complessa in confronto agli altri aspetti fino a qui esaminati. Ciononostante esistono dati che sono in possesso di Istituzioni che operano a livello nazionale (ad esempio l’Agenzia del territorio, che pubblica i dati relativi ai prezzi di vendita e locazione delle abitazioni di tutti i comuni di Italia) o nella disponibilità dei Comuni tramite le aziende municipalizzate o i competenti settori comunali.

Indicatori urbano-ambientali e fonti dei dati

Indicatori Fonte

î Prezzi delle abitazioni î Incidenza patrimonio di edilizia

residenziale pubblica î Stato di degrado degli edifici

î Agenzia del territorio î Ente gestore case di Edilizia

Popolare

î Tasso di illuminazione î Azienda municipalizzata competente

î Indicatori di mobilità urbana î Presenza di mezzi publici e

fermate

î Settore trasporti e mobilità del Comune, Azienda municipalizzata dei trasporti

î Presenza di aree verdi î Settore Ambiente del Comune

î Presenza di attrezzature e servizi pubblici (scuole, chiese, campi sportivi, uffici postali)

î Settori comunali competenti e altri enti competenti (Provincia, Stato, etc.)

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Criminalità e disordine urbano

La criminalità e il disordine urbano: quali fonti La criminalità e il disordine urbano sono due fenomeni di importanza fondamentale quando si discute di sicurezza urbana. Ne rappresentano infatti le dimensioni caratterizzanti. Dimensioni che - come già affermato - vanno poste in relazione con i dati di contesto e, come si vedrà, con i dati relativi alle rappresentazioni e percezioni. In entrambi i casi bisogna immediatamente chiarire che si tratta di dati che provengono dalle attività amministrative dei soggetti deputati, rispettivamente, alle attività di controllo e contrasto della criminalità e di intervento sui fenomeni che producono disordine urbano. Nel caso della criminalità si fa chiaramente riferimento alle Forze dell’ordine (Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia Locale, Polizia Penitenziaria, Corpo Forestale dello Stato e Capitanerie di Porto). Nella

rilevazione dei fenomeni di disordine urbano il gruppo di soggetti coinvolti è, invece, più articolato. È il caso certamente della Polizia locale, delle aziende municipalizzate che gestiscono servizi di

pubblica utilità per conto degli Enti Locali nonché di molteplici settori del Comune. Le statistiche disponibili legate al tema criminalità sono cinque: le statistiche della delittuosità e quelle della criminalità, le statistiche processuali penali, quelle sugli imputati condannati e infine le statistiche penitenziarie. Le statistiche penitenziarie si riferiscono ai detenuti e alle persone sottoposte a misure alternative alla detenzione e sono raccolte dall’Amministrazione penitenziaria; raccolgono informazioni sui movimenti della popolazione detenuta, sulle caratteristiche demografiche della stessa, nonché sulle strutture e sulla vita all’interno degli istituti di pena (attività, corsi di formazione e cd. eventi critici, quali suicidi e atti di autolesionismo). I dati sono tempestivamente aggiornati e pubblicati sul sito del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria9. Le statistiche sugli imputati condannati raccolte dall’Istat riguardano coloro che sono stati riconosciuti responsabili di un reato in uno dei tre gradi di giudizio e registrano le principali caratteristiche del condannato (sesso, età, luogo di nascita), del reato commesso e della pena inflitta. Gli ultimi dati pubblicati sono relativi al 200610. Le statistiche processuali penali raccolte dal Ministero della Giustizia

Sono 5 i tipi di statistiche legate

alla criminalità

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riguardano l’attività dei tribunali penali e contengono numerose informazioni sui procedimenti penali. Sul sito dell’Istat le ultime informazioni pubblicate sono relative al 200411. Alcune statistiche sui procedimenti penali sono disponibili sul sito del Ministero della Giustizia12. Le statistiche più frequentemente utilizzate per “misurare la criminalità” sono quelle relative alla delittuosità e alla criminalità. Le statistiche sulla delittuosità riguardano i reati denunciati all’autorità giudiziaria, a seguito di indagini delle forze dell’ordine o di denunce presentate dai cittadini. Sono disponibili a livello di Distretto di Corte D’appello e Circondario di Tribunale, nonché a livello regionale e provinciale. Sono pubblicate le statistiche fino al 200813. La rilevazione è effettuata dal Ministero dell’Interno tramite le Prefetture. Le statistiche sulla

delittuosità sono rese pubbliche a livello provinciale e disponibili a livello comunale dietro richiesta alla Prefettura competente. Il sistema di rilevazione dei dati sulla delittuosità, operativo dal 1983, è stato

oggetto di importanti innovazioni. Fino al 2004, ogni mese la Polizia di Stato, i Carabinieri e la Guardia di Finanza trasmettevano all’Istat, attraverso le Prefetture del territorio, i dati relativi ai reati denunciati nell’area di loro competenza. A partire dal 2004 il Ministero dell’Interno ha innovato le modalità di rilevazione introducendo il Sistema Di Indagine (SDI). In primo luogo la banca dati SDI raccoglie informazioni provenienti da tutte le Forze dell’ordine, non più unicamente da Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza, ma anche da Polizia Locale, Polizia Penitenziaria, Corpo Forestale dello Stato e Capitanerie di Porto. In secondo luogo, in essa non sono registrati unicamente i reati, ma ogni fatto di cui le Forze dell’ordine siano venute a conoscenza, quindi anche eventi non penalmente rilevanti (come ad esempio i rinvenimenti, le scomparse, i suicidi). Si parla appunto di “fatto SDI” per indicare l’unità di rilevazione. Le potenzialità della banca dati sono tali da permettere di registrare, per ogni fatto SDI, l’orario e il luogo in cui è stato commesso (città, via, numero civico), una descrizione dell’evento, a cui si aggiungono informazioni relative alle persone coinvolte (vittima, autore del reato, denunciante) e agli oggetti del reato, se presenti. Tali innovazioni possono essere di grande utilità come strumento operativo per le Forze dell’ordine, al fine di valutare l’impatto delle politiche e pratiche di controllo messe in opera. Le statistiche sulla criminalità trattano i reati per i quali l’autorità giudiziaria ha iniziato l’azione penale14. Sono disponibili a livello di Distretto di Corte D’appello e Circondario di Tribunale, nonché a livello regionale e

Il Sistema Di Indagine (SDI): una rivoluzionaria innovazione nella registrazione dei reati

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provinciale. Sul sito dell’Istat risultano pubblicate le statistiche fino al 200515. Pur nel loro diverso significato, di cui si parlerà nel paragrafo successivo, le statistiche sulla delittuosità e sulla criminalità si riferiscono entrambe a fatti di cui sono venute a conoscenza le Forze dell’ordine e/o la Magistratura. Per tale ragione si parla di criminalità ufficiale, legale o registrata. La criminalità reale è data invece dalla somma della criminalità registrata e della cosidetta criminalità nascosta o numero oscuro, quella cioè che non viene a conoscenza delle autorità. Infatti una parte dei reati commessi rimane sconosciuta per numerose ragioni: perché la vittima non denuncia (a mero titolo esemplificativo si pensi ai reati predatori che non causano un danno economico rilevante), il reato è difficile da percepire (si pensi ai reati ambientali, solo negli ultimi anni oggetto di attenzione) o gli autori sono più capaci di altri di nascondere il comportamento tenuto (si pensi ai reati finanziari). Per cercare di fare luce sulla cifra oscura dei reati si sono negli anni sviluppate due tecniche di indagine: le inchieste di vittimizzazione e le indagini di auto-confessione. Sviluppatesi negli Stati Uniti a partire dagli anni ’40, in Italia le indagini di auto-confessione (basate sull’invito alle persone di rivelare - in forma anonima - la commissione di reati) non hanno ancora una applicazione a livello istituzionale allo scopo di completare le informazioni della statistica ufficiale e anche a livello di studio si registrano poche ricerche (cfr. Crocitti, 2011). Le indagini di vittimizzazione (basate sull’invito alle persone di rivelare i casi in cui sono state vittime di reato), invece, sono da alcuni anni effettuate periodicamente, mediante sondaggio demoscopico, dall’Istat allo scopo di sondare la percezione dei cittadini sulla sicurezza, la percentuale e le caratteristiche delle persone vittime di alcuni reati, prevalentemente di carattere patrimoniale, e le circostanze in cui questi si sono verificati16. Entrambi gli strumenti sono utili per arricchire il quadro informativo fornito dalle statistiche ufficiali al fine di fare luce su alcuni aspetti, come la distribuzione della delinquenza nei diversi gruppi sociali o la propensione dei cittadini a denunciare. Ovviamente si tratta di strumenti che presentano alcuni limiti, soprattutto legati alla possibilità di utilizzo solo per alcuni reati (ad esempio funzionano per i reati di cui le vittime possono avere una chiara percezione, come lo scippo o la rapina, ma non possono essere usate per i reati dove le vittime sono indirette e indifferenziate, come la corruzione o i reati ambientali) e agli errori dovuti alla difficoltà di costruire un campione davvero rappresentativo e quindi di generalizzare i risultati. A differenza della criminalità, il disordine urbano non è oggetto di alcun

La criminalità reale è data dalla somma tra

quella registrata e quella nascosta

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sistema nazionale di rilevazione ma non è nemmeno prevista una codifica univoca di cosa sia effettivamente il disordine urbano (fisico e sociale), al di

là di una generica concordanza su quali fenomeni vadano considerati (cfr. capitolo 2, pp. 43 - 46). Sono diversi nei territori i

modi in cui tali fenomeni vengono rilevati e molteplici i soggetti deputati a farlo. Nelle grandi città un ruolo principe è ricoperto dalla Polizia Locale a cui si affiancano aziende municipalizzate e settori dell’amministrazione comunale - in alcuni casi in modo complementare con le rilevazioni effettuate dalla Polizia locale, in altri casi in modo esclusivo - che raccolgono informazioni relative a fenomeni di disordine urbano, quali i graffiti, le auto abbandonate, l’abbandono rifiuti, le aree urbane sporche, ecc. Nei piccoli Comuni, invece, è più probabile che siano le aziende municipalizzate che gestiscono servizi di pubblica utilità a detenere alcuni dati statistici. In questi casi la Polizia Locale, anche se non possiede un sistema informativo strutturato, è comunque un soggetto che rileva - attraverso le segnalazioni dei cittadini o la propria attività - molte manifestazioni di disordine urbano.

Rilfedeur – RILevazione dei FEnomeni di DEgrado URbano

Rilfedeur è un sistema sperimentale per la rilevazione, raccolta, classificazione e gestione delle segnalazioni sul degrado urbano promosso dal 2002 dalla Regione Emilia-Romagna. Il progetto ha una logica incrementale: inizialmente avviato in 8 Comuni, nei successivi 10 anni il numero di Comuni interessati si è progressivamente ampliato, interessando anche Unioni o Associazioni intercomunali e Province. Nasce come sistema informatico funzionale all’invio alla Regione di report informativi in merito all’azione di contrasto del degrado urbano da parte delle polizie locali. Il sistema consente di archiviare e gestire segnalazioni provenienti dai cittadini (via web o in modo tradizionale) e dagli operatori di Polizia Locale dotati nelle attività sul campo di un PC palmare che permette di memorizzare le problematiche rilevate. Il sistema è realizzato con tecnologia Web-Gis che garantisce la georeferenziazione precisa di tutte le segnalazioni. Le segnalazioni sono organizzate mediante una combinazione di tre attributi: classe, soggetto ed evento. La classe è identificativa dell’ambito (degrado fisico-ambientale, degrado sociale, viabilità e traffico), il soggetto descrive la persona o l’oggetto coinvolto, e l’evento indica quanto accaduto. Ad esempio un fenomeno di degrado riguardante un cassonetto dei rifiuti danneggiato sarà classificato come degrado fisico-ambientale, il soggetto sarà “contenitori rifiuti” e l’evento verrà ricondotto alla categoria “danneggiato/dissestato”.

Il disordine urbano, un fenomeno da codificare

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I Comuni dotati di cartografia digitale consentono al cittadino di indicare direttamente su mappa la segnalazione (si veda ad esempio http:// www.comune.forli.fc.it/rilfedeurWeb/segnalazione.jsf?width=778&height=515); nel caso di Comuni più piccoli, invece, la segnalazione avviene su un modulo più semplice (http:// www.csm.br.it/linea/rilfedeur.php). Il sistema Rilfedeur è disponibile per altre amministrazione secondo la normativa in materia di riuso, si veda http://riuso.cnipa.gov.it /soluzioni/anteprima.bfr?id=376.

Cosa dicono i dati e come sceglierli

Sebbene il livello di strutturazione dei dati sia profondamente diverso, tanto le informazioni relative alla criminalità quanto quelle relative al disordine sono il prodotto dell’attività degli operatori che a vario titolo si occupano dei due fenomeni considerati. Per la criminalità si parla di criminalità reale e criminalità registrata, proprio per distinguere da un lato quella che rappresenta l’universo dei crimini commessi e dall’altro quella che, invece, fa riferimento soltanto a quanto registrato dalle Forze dell’ordine e dalla Magistratura. Come scegliere il dato da utilizzare per “misurare” la criminalità o il disordine? Esiste un criterio guida? Può essere di aiuto a questo proposito richiamare due prospettive teoriche riferite alla criminalità ma che riteniamo possano essere usate, con i dovuti adattamenti, anche in materia di disordine urbano. Il primo approccio, denominato realista, considera le statistiche ufficiali capaci di misurare efficacemente la criminalità in quanto ritiene esistere un rapporto costante e conoscibile tra i crimini conosciuti e quelli non noti. Tale

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rapporto non è lo stesso per tutti i reati in quanto il numero oscuro varia tra i diversi reati, tra territori e nel tempo (Barbagli, 1995, p. 41). L’approccio costruzionista, invece, parte dalla considerazione che le statistiche ufficiali rispecchiano i processi organizzativi delle istituzioni che producono quel determinato dato e vanno quindi utilizzate più come oggetto

di studio in sé, che non come misurazione della criminalità. In altri termini le statistiche sono il prodotto di decisioni complesse delle autorità di controllo a vari livelli (dal Ministero che detta gli

indirizzi politico-amministrativi al singolo operatore delle Forze dell’ordine) e lo studio, il confronto di diverse statistiche può essere di interesse al fine di fare luce sul modus operandi del sistema penale e sulla politica criminale di un paese (Melossi, 2007, p.7). Questi due approcci riteniamo possano essere traslati anche sui dati relativi al disordine urbano; da un lato chi ritiene questi dati una buona misurazione del fenomeno complessivamente inteso, e dall’altro lato chi, invece, sottolinea come siano utili a spiegare l’operato della Polizia Locale o di altri settori della Pubblica Amministrazione nel rilevare i fenomeni di disordine urbano. È da considerarsi ormai superato un approccio che ritiene i dati ufficiali una misura oggettiva della criminalità o del disordine perchè è innegabile che le scelte organizzative delle Forze dell’ordine e della Pubblica Amministrazione influiscano sulle statistiche prodotte. Allo stesso tempo i dati sono certamente un’utile base di partenza; possono infatti dare conto dell’andamento di un fenomeno se osservati nel corso del tempo17. Come scegliere quindi i dati? Come regola generale si può adottare una affermazione di un criminologo americano, Thorsten Sellin, che negli anni ’50 affermò che “la validità delle statistiche criminali come base per la misurazione della criminalità all’interno di determinate aree geografiche diminuisce man mano che le procedure ci portano lontano dal reato stesso” (Sellin, 1951, p. 495). Con questa affermazione si voleva sottolineare che il dato in grado di descrivere in modo più verosimile un fenomeno (nel caso specifico la criminalità) è quello prodotto dall’azione degli operatori più vicini al fenomeno. Riprendendo la classificazione precedentemente fatta tra statistiche sulla delittuosità e statistiche sulla criminalità, è evidente che la statistica migliore per descrivere un fatto di reato sarà quella fatta da chi raccoglie le denunce o svolge le indagini sul reato che si vuole descrivere, a seconda dei casi. Ad esempio sarà difficile che le statistiche sulla delittuosità prodotte dalle Forze dell’ordine siano adatte a misurare i reati dei colletti bianchi che sono

L’approccio costruzionista e quello realista

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spesso legate a indagini complesse condotte dalla Magistratura e dalla Polizia giudiziaria a essa applicata e non dall’attività di controllo sul territorio. Diversamente, invece, reati predatori di strada trovano nelle

statistiche delle Forze dell’ordine la fonte più prossima alla commissione del reato. Individuata la fonte migliore per descrivere il reato oggetto di indagine, non bisogna poi dimenticare di tenere presente alcune cautele

nella lettura dei dati. Ad esempio l’influenza della propensione alla denuncia dei cittadini e dell’efficienza delle Forze dell’ordine e della Magistratura: più denuncia - che implica spesso più fiducia nelle istituzioni - si concretizza in dati più alti che non necessariamente indicano che in un territorio vi sia più criminalità, lo stesso dicasi per migliori performance di efficienza delle agenzie di controllo. Inoltre non va dimenticata la discrezionalità delle Forze dell’ordine e della Magistratura nella registrazione dei reati. Si fa riferimento al normale esercizio di potere discrezionale che può portare a non registrare un fatto o a qualificarlo giuridicamente in un modo piuttosto che in un altro (si pensi, ad esempio, all’incerto confine tra furto aggravato e rapina). Ancora maggiori sono le cautele da adottare in materia di disordine urbano. In questo caso non solo è più complesso individuare l’autorità che ha più cognizione diretta di un fenomeno ma in alcuni casi a prescindere da chi ne ha cognizione diretta potrebbe essere un’altra l’autorità deputata alla registrazione. Ad esempio per le manifestazioni di disordine fisico-ambientale che chiamano in causa l’operato delle aziende municipalizzate è probabile che la Polizia locale sia coinvolta nella segnalazione delle criticità ma la registrazione degli interventi sia effettuata dagli operatori dele aziende municipalizzate. In conclusione, quindi, l’invito è a utilizzare i dati di cui si è in possesso, interrogandosi sempre sul loro significato e utilizzandoli come spunti per gli interventi.

Quali dimensioni e quali indicatori per misurare criminalità e disordine

Le dimensioni della criminalità che possono essere considerate sono essenzialmente due: la fenomenologia criminale e la vittimizzazione. Per

quanto riguarda la fenomenologia criminale si possono calcolare indicatori rapportati alla popolazione, alla superficie o al totale dei reati denunciati di alcune singole fattispecie di reato

- particolarmente significative per le problematiche di sicurezza e vivibilità urbana - oppure creare alcuni raggruppamenti di reati che possono

I dati più verosimili sono quelli prodotti dall’autorità più vicina al fenomeno

Alcuni reati indicativi di fenomeni di criminalità urbana

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rappresentare un indicatore di alcune criticità (come ad esempio la microcriminalità o la conflittualità tra cittadini). Singole fattispecie di reato rilevanti sono, ad esempio:

n il furto in abitazione (art. 624 bis c.p.), uno dei reati che più allarmano i cittadini che ne sono colpiti;

n il borseggio (art. 625 co. 1 n. 4 c.p.), uno dei reati più frequenti, in particolar modo nei luoghi più frequentati quali il centro cittadino, i mercati e gli autobus;

n la truffa (art. 640 c.p.), uno dei reati che prende spesso di mira i soggetti più deboli come gli anziani;

n lo stalking (art. 612 c.p.), uno dei nuovi reati oggetto di attenzione da parte dei media e dei cittadini.

Se si considera, invece, i raggruppamenti di reati si possono sottolineare:

n i furti e le rapine, che possono fornire una quantificazione dei reati che colpiscono il patrimonio dei cittadini;

n le truffe e le frodi, che possono fornire una quantificazione dei reati che colpiscono il patrimonio dei cittadini ma che si basano anche sull’imbroglio, il raggiro degli stessi;

n le ingiurie, minacce e percosse, che possono dare una idea della conflittualità quotidiana tra i cittadini;

n i reati di spaccio, che possono fornire delle informazioni su uno dei fenomeni fonte di rilevanti criticità urbane.

Volgendo lo sguardo, invece, alla vittimizzazione, i dati possono provenire dai sondaggi demoscopici (si veda il par. 4) e in futuro da un’analisi della banca dati SDI che come detto offre molte potenzialità, anche se al momento non esiste un accordo operativo sulle possibilità di accesso ai dati da parte degli Enti Locali. Per quanto riguarda il disordine urbano, invece, sono molte le dimensioni e gli indicatori che possono essere ricavati dalle banche dati esistenti. Si tratta, come detto, di dati che non hanno una codifica unitaria, per cui ogni realtà locale dovrà effettuare una ricognizione di quali sono le banche dati effettivamente disponibili a livello locale (ed eventualmente avviare la raccolta dei dati mancanti che si ritengono utili). Le dimensioni e gli indicatori utilizzabili sono riassunti nella tabella che segue.

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Indicatori in materia di disordine urbano

Dimensione Indicatori

Disordine fisico

î illuminazione (assenza o carenza); degrado delle facciate degli edifici o degli elementi di arredo urbano; stato manutentivo di strade o marciapiedi; presenza di contenitori rifiuti danneggiati, di discariche abusive, di aree urbane (parchi, aree verdi, piazze, ecc.) sporche o di rifiuti; presenza di cantieri abusivi, di automobili parcheggiate in modo inappropriato.

Disordine sociale

î problemi di convivenza tra i cittadini, presenze disturbanti (così chiamate con un infelice neologismo coloro che per l’aspetto esteriore possono generare nei cittadini timori e paure, come i senza fissa dimora, le persone in situazione di abuso alcolico o di sostanze stupefacenti, ecc.), situazioni di difficoltà o di violenza all’interno delle abitazioni, delle famiglie e delle scuole (violenza famigliare, anziani soli in difficoltà, bullismo).

Rappresentazioni e percezioni

Percezioni diffuse e rappresentazioni mediatiche: perché occuparsene

La sicurezza, in particolare intesa come micro-criminalità è stata un tema a forte impatto sull’opinione pubblica, con un avvicendarsi di momenti di vero e proprio allarme sociale e fasi di latenza e assopimento. Come già evidenziato nel capitolo 2, sappiamo però che vi è spesso uno scarto tra realtà e percezioni; esiste cioè una cesura tra la percezione di insicurezza e le fenomenologie criminali vere e proprie. Il rapporto non lineare tra percezioni e fenomeni è determinato dal fatto che spesso le percezioni sono influenzate non solo e non tanto dai fenomeni criminali quanto da una molteplicità di altre variabili, quali il contesto territoriale, le condizioni socio-economiche delle persone e le loro esperienze personali pregresse (ad esempio di vittimizzazione), il racconto mediatico sui problemi della sicurezza. Questo ultimo, ad esempio, è un elemento importante in quanto i media possono, con il loro racconto, alimentare paure e ansie. Spesso, come evidenziato ad esempio dalle ricerche di questi anni effettuate dall’Osservatorio europeo sulla sicurezza di

Lo scarto tra realtà e percezioni e

il ruolo dei media

4

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Demos18, il modo in cui i giornali trattano le notizie sulla sicurezza segue regole proprie, non legate al reale andamento dei reati mentre, pur non essendo i media l’unico determinante dei sentimenti di insicurezza diffusi, le percezioni sembrano fortemente correlate alla trattazione ed esposizione mediatica. Evidenziare questo aspetto appare tanto più rilevante considerato che spesso sono le percezioni e le opinioni diffuse nel discorso pubblico sulla

sicurezza a influenzare i processi decisionali e le politiche territoriali: talora proprio l’allarme della popolazione e l’acuirsi dell’ansia amplificata dai media impongono scelte al sistema pubblico, anche al di là delle reali problematiche dei

territori. Così può accadere che le risposte al tema della criminalità si concretizzino in “misure normative che potrebbero essere descritte come acting out: impulsive e irriflessive, prive di riferimento ai problemi reali” (Garland, 2004, p.235). Superando però il facile j’accuse ai media, è importante sottolineare come il discorso pubblico sulla sicurezza si costruisca attraverso l’interdipendenza tra i soggetti in gioco, dove dunque anche gli attori pubblici e politici hanno una responsabilità nell’alimentare tale circuito. Interdipendenza e circolarità degli attori in gioco

(tratto da G. Priulla, 2005).

Spesso assistiamo dunque a un atteggiamento ondivago e ambivalente delle politiche pubbliche che da un lato fomentano e “inseguono” le paure dei cittadini, e dall’altro tendono a liquidare tali sentimenti come non ancorati alle reali problematiche del territorio e quindi come non meritevoli di attenzione (spesso dimenticando che, anche laddove non determinate da episodi di micro-criminalità, esse sono il prodotto di problemi di degrado

copertura mediale

percezione risposta pubblica

effetti economici e socio politici

Ammministrazioni pubbliche e politici come attori fondamentali nell’alimentare il discorso sulla sicurezza

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territoriale, disagio, esclusione ed incertezza sociale). Dare “dignità” alle paure e alle insicurezze dei cittadini senza esserne travolti appare dunque fondamentale, ma questo richiede una conoscenza delle percezioni e del discorso pubblico e mediatico e delle logiche attraverso cui esse si costruiscono. È importante che le politiche pubbliche investano sull’analisi delle percezioni diffuse e delle opinioni mediatiche prevalenti, proprio perché anche la dimensione soggettiva dell’insicurezza si impone sulla scena pubblica richiedendo risposte e presa in carico.

L’insicurezza percepita: le fonti a disposizione e i metodi di raccolta

Da molti anni ormai si sono consolidate alcune metodologie di rilevazione e analisi delle opinioni pubbliche sull’insicurezza: ripetute rilevazioni sul tema hanno prodotto il sedimentarsi di indicatori stabili, che permettono di cogliere il polso dell’insicurezza dei cittadini e di analizzare il clima di opinione. Tra le più importanti, ricordiamo le indagini multiscopo dell’Istat (che forniscono conoscenze sugli atteggiamenti, abitudini, stili di vita delle famiglie italiane anche in relazione ai temi della partecipazione sociale e del senso di sicurezza)19 e le indagini Istat sulla vittimizzazione (cfr. p. 79). I dati, per entrambe le rilevazioni, sono disponibili su base nazionale, per le cinque ripartizioni geografiche (Italia nord-occidentale, Italia nord-orientale, Italia centrale, Italia meridionale, Italia insulare), per regione e per tipologia comunale. A livello regionale, sono altresì disponibili i dati relativi alle percezioni di insicurezza dei piemontesi rilevate annualmente (a partire dal 2008) attraverso un sondaggio demoscopico realizzato da SWG per l’IRES Piemonte, i cui risultati sono pubblicati nella Relazione socio - economica20. I dati sono disponibili a livello regionale, con una disaggregazione per le 8 province piemontesi, e consentono una visione d’insieme sulle preoccupazioni diffuse e sulle strategie messe in campo dai cittadini per contrastarle. I dati relativi alla preoccupazione per la sicurezza nella zona in cui si abita sono inoltre comparabili con il fear of crime21 misurato ogni anno dall'ISTAT a livello nazionale. In entrambi i casi si tratta dunque di importanti fonti di dati che offrono uno sguardo d’insieme sulla popolazione nazionale e su macroaree regionali e provinciali. Tali rilevazioni possono essere utilizzate per avere un quadro complessivo sul clima di opinione dei cittadini o in termini comparativi, andando a confrontare le opinioni dei cittadini di un Comune con quelle di

Le fonti disponibili sulle percezioni di sicurezza

dei cittadini

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altre aree geografiche e verificando l’andamento temporale del clima di opinione. Per misurarsi però sul tema in modo più dettagliato, andando a cogliere le opinioni della propria cittadinanza di riferimento, l’amministrazione pubblica deve mettere in campo strumenti ad hoc di rilevazione dei dati. Come vedremo, la scelta può essere orientata su metodologie diverse (quantitative o qualitative), a seconda del target di cui si vuole indagare le opinioni (e della numerosità dello stesso), delle possibilità di investimento economico dell’ente che ha interesse a svolgere l’indagine e degli obiettivi per cui si intende condurre una rilevazione sulle opinioni. Il più diffuso tra i metodi quantitativi di indagine è l’inchiesta campionaria (survey), condotta su un campione statisticamente rappresentativo (Corbetta 2003). Esso consiste nella conduzione di interviste, faccia a faccia, telefoniche (metodo CATI) o via telematica (metodo CAWI), su un campione (detto panel) rappresentativo della popolazione nel suo complesso, nelle diverse fasce di età e per genere. In molti casi le indagini sulle opinioni in tema di in/sicurezza si avvalgono di questo strumento che ha il vantaggio di rilevare le opinioni di ampi strati della cittadinanza e di permettere una trattazione statistica dei dati. A livello locale vi sono alcuni esempi di rilevazione statistica sul tema a livello regionale (cfr. le indagini Ires Piemonte già ricordate), provinciale22, comunale23. Per Comuni di piccole e medie dimensioni, può essere utile anche svolgere indagini di questo tipo in aggregazione con altri Comuni, andando a rilevare le opinioni di popolazioni che vivono in porzioni di territorio omogenee, ad esempio nelle zone montane piutosto che nella cintura di un’area metropolitana. Questo permette da un lato di contenere i costi, facendo sinergia con altri Comuni, dall’altro di avere dati interessanti che riguardano aree omogenee. Infine ricordiamo che in alcuni casi le rilevazioni demoscopiche riguardano anche campioni più piccoli della cittadinanza nel suo complesso. Molti esempi di ricerche sul tema vanno a rilevare le opinioni dei Sindaci dei Comuni con l’intento di cogliere le politiche e le iniziative messe in campo sul tema24. A fianco o in alternativa alla survey, si possono scegliere metodi qualitativi di rilevazioni delle opinioni. Essi per lo più consistono nella realizzazione di interviste a testimoni privilegiati (cioè soggetti chiave in grado di restituire un’idea sul clima di opinione di gruppi di cittadini o di alcune categorie specifiche25) o di focus groups, una tecnica qualitativa che consiste nel

Metodi quantitativi e qualitativi di

rilevazione diretta delle opinioni dei

cittadini

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sollecitare la discussione di un gruppo di soggetti, analizzandone non solo le risposte ma anche le reazioni non verbali (come quelle emotive e le dinamiche di gruppo). Questi metodi, che risultano meno onerosi economicamente rispetto ai sondaggi demoscopici, possono essere utili qualora si intenda indagare non tanto le opinioni di tutta la cittadinanza ma di gruppi specifici (ad esempio i giovani, gli anziani, i commercianti, gli operatori che lavorano sul tema sicurezza, gli educatori sociali o le Forze dell’ordine). Sono da privilegiare inoltre qualora l’interesse non sia tanto una restituzione statistica della problematica nel suo complesso quanto indagare in profondità un tema specifico associato alla sicurezza. Rispetto alle indagini campionarie, dunque, la ricerca qualitativa - più versatile e flessibile – consente di ottenere livelli di approfondimento e analisi maggiori. Talora la scelta di un metodo qualitativo consente di sfruttare la relazione vis a vis con le persone anche per intraprendere un percorso di azione e sensibilizzazione sul tema, mettendo già in campo attori da poter coinvolgere successivamente in azioni specifiche sul territorio. È questo ad esempio quanto effettuato in alcuni Enti locali, come il caso di Galliate riportato nel seguente box.

L’ascolto attivo del territorio: l’esperienza di Galliate

In alcuni casi la lettura e l’analisi delle opinioni dei cittadini possono essere un modo di cogliere il punto di vista di chi vive la città, ma anche di creare un luogo di condivisione delle politiche. L’esperienza di alcuni Comuni mostra infatti come il lavoro di analisi rappresenti in sé già una forma di azione, sensibilizzando sul tema e coinvolgendo i cittadini in momenti di riflessione e sperimentazione sul tema della sicurezza. A Galliate, nel 2007, è stato attivato un percorso di ascolto attivo della cittadinanza, con l’intento di coinvolgere i diversi settori della società civile in un momento di diagnosi partecipata delle problematiche di sicurezza del territorio. Il progetto è stato realizzato in più fasi. Nella fase di ascolto, sono stati condotti dei focus groups con testimoni locali privilegiati: rappresentanti dell’aministrazione pubblica locale; esponenti delle Forze dell’ordine che operano sul territorio; commercianti; anziani e operatori sociali e rappresentanti dell’associazionismo locale. In questa fase di ricognizione ogni gruppo ha potuto esprimere la sua rappresentazione dei problemi e focalizzarsi sui bisogni della cittadinanza dal proprio punto di vista. Questo momento di ascolto è stato seguito da un’attività di formazione per operatori dell’amministrazione pubblica e da un lavoro di mappatura dell’insicurezza che, a partire dai risultati dei focus groups, ha evidenziato in uno studio di fattibilità problemi e risorse, ipotizzando possibili linee di intervento. Il lavoro è poi confluito nel Patto locale per la sicurezza

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integrata di Galliate, che ha permesso di mettere in campo alcuni degli interventi individuati. Questa esperienza, in particolare nella fase di ascolto attivo, mette a fuoco una modalità di lavoro facilmente replicabile anche in contesti medio-piccoli, con costi contenuti. Permette una lettura delle criticità del territorio da diverse angolature, evidenziando problemi, bisogni, opportunità e priorità di intervento dal punto di vista dei cittadini. Il lavoro di analisi qualitativa si affianca a un lavoro di sensibilizzazione degli abitanti, che diventano protagonisti di una riflessione sul tema nonché promotori di proposte per il miglioramento del proprio Comune.

Un’ulteriore possibilità per cogliere il clima di opinione e l’allarme sociale sulla sicurezza urbana è rappresentata anche da alcune modalità di rilevazione e analisi delle segnalazioni e delle “esternazioni pubbliche” dei cittadini. È questo ad esempio il caso delle telefonate effettuate dai cittadini alle Forze dell’ordine, in particolare alla Polizia locale. Esse vengono nella maggior parte dei casi registrate e tracciate e possono dare, osservandone sia la numerosità sia le problematiche segnalate, un’idea sui problemi, sulla percezione degli stessi da parte dei residenti e su quale sia la tipologia di persone che più si sente colpita dai fenomeni. Alla stessa stregua, ad esempio le lettere dei cittadini sui giornali locali, così come la pubblicazione di post e di messaggi su social network e web (si veda il par. successivo) possono offrire il polso della situazione e dare un’immagine del clima di opinione diffuso. Occorre ricordare che queste fonti non sono rappresentative della popolazione nella sua interezza ma per le loro caratteristiche (la facilità di comunicazione, l’immediatezza) sono di grande interesse per l’esame di alcuni aspetti del clima di opinione.

Quali fattori indagare per l’analisi delle opinioni dei cittadini

Il clima di opinione sulla sicurezza può essere rilevato analizzando alcuni temi caratterizzanti, sapendo che è importante andare a cogliere non solo la preoccupazione rispetto allo stato della criminalità, ma anche sulla sicurezza intesa nel senso più ampio di qualità della vita, di reti di solidarietà, comunicazione e prossimità, di percezione di esposizione ai rischi e alla vittimizzazione, tutti aspetti che risultano fondamentali nella rappresentazione del tema (cfr. capitolo 2). Il lavoro deve quindi essere finalizzato a verificare la consistenza di alcune criticità sul territorio e la percezione che di esse ha la comunità locale. Le dimensioni che si possono indagare per cogliere il clima di opinione sono:

I temi connessi alle percezioni di insicurezza

dei cittadini

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n qualità della vita: valori e problematicità territoriali, offerta e qualità dei servizi sociali di base, degrado urbano, estetica, armonia dell’ambiente circostante;

n paure in “concreto” e in “astratto”: percezioni e vissuto su possibili fatti ed eventi futuri (episodi criminali, malattie, crisi economica, futuro dei figli, incidenti, solitudine, ecc.);

n percezioni della criminalità diffusa e dei fenomeni sociali (fonti di paura) maggiormente connessi al tema della criminalità e del disordine urbano (reati, degrado ambientale e atti di vandalismo, devianza giovanile, etc), che a livello locale concorrono a determinare la nuova insicurezza sul territorio;

n grado di vittimizzazione diretta e indiretta: persone che hanno subito un reato, che hanno assistito o sono venute a conoscenza di un evento criminale;

n ruolo dei media e dinamiche di comunità: rete famigliare, frequentazione della realtà politico-associativa, fiducia nelle istituzioni, relazioni di vicinato, intensità della fruizione dei media locali, grado di conoscenza delle iniziative istituzionali. Tutti aspetti che le ricerche ci dicono essere ampiamente incidenti sulle percezioni di insicurezza (ad esempio, una rete famigliare e amicale forte mitiga le percezioni di insicurezza delle persone mentre, al contrario, la solitudine incide fortemente sul senso di vulnerabilità e insicurezza);

n luoghi della paura e usi della città: ricognizione sul livello percepito di sicurezza di alcuni luoghi/spazi (abitazione, quartiere, paese, città, mezzi pubblici, luoghi pubblici, ecc) e condizionamenti eventuali nell’uso della città (es. auto limitazioni nella frequenza delle uscite serali);

n strategie difensive e misure a garanzia della sicurezza: detenzione di armi, dispositivi di allarme, misure di sicurezza personale, spesa complessiva per tali misure;

n soggetti a rischio: identificazione dei soggetti produttori di insicurezza e categorie di soggetti ritenute più insicure;

n valutazione delle politiche pubbliche che hanno impatto sulla sicurezza: cura del territorio urbano, manutenzione stradale/organizzazione del traffico, offerta dei servizi sociali, offerta di servizi pubblici, cura e protezione dell’ambiente, controllo della criminalità, ecc.;

n orientamento politico; n orientamenti valoriali: grado di accordo ad una serie di affermazioni

aventi ad oggetto il tema della sicurezza nelle sue diverse articolazioni; Tutte queste informazioni possono essere incrociate, attraverso tecniche statistiche qualitative, con informazioni relative a sesso, età, scolarità,

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professione, reddito familiare, area geografica di residenza e altre variabili socio-economiche e socio-demografiche dei rispondenti. L’incrocio tra queste variabili permette di verificare l’influenza di alcune di queste caratteristiche socio-demografiche sulle percezioni. Appare ad esempio interessante osservare come spesso il tema della micro-criminalità preoccupi molto i cittadini di piccoli centri, anche se statisticamente sono quelli meno colpiti dal fenomeno26. Un altro esempio è la maggiore insicurezza percepita dalle fasce di popolazione più anziane, che sono però statisticamente meno esposte al rischio di essere vittime di reati di strada in quanto meno frequentano i luoghi pubblici. Per un’analisi sulle rappresentazioni mediatiche locali La rappresentazione mediatica sulla sicurezza svolge un ruolo importante e imprescindibile sul tema della sicurezza. Numerosi casi di cronaca (cfr. box nella pagina) hanno mostrato come i media siano attori di primo piano in molti modi: catalizzando l’attenzione sugli eventi, proponendo chiavi interpretative, dando voce all’opinione pubblica, condizionando le dinamiche di opinione e le decisioni pubbliche e politiche sul tema (o semplicemente condizionando la costruzione dell’agenda politica sul tema27 o promuovendo direttamente iniziative pubbliche e politiche).

Gli imprenditori morali e il panico sulla sicurezza Le emergenze cicliche sul tema della sicurezza hanno offerto negli anni vari esempi di cortocircuito mediatico, che evidenziano come la responsabilità dell’allarme sociale sulla sicurezza sia condivisa tra gli attori pubblici in gioco. Per spiegare questa interdipendenza, viene in aiuto un concetto importante – moral panic (allarme sociale o da alcuni tradotto panico morale) - che sul tema della sicurezza così come sull’immigrazione (anzi spesso andando a braccetto con questo), permette di interpretare le ondate emotive sul tema. Il termine di riferisce ad una situazione in cui in ampi strati della popolazione si diffonde un’ansia e una forte paura generata da un episodio o da un gruppo di persone che si ritiene possano rappresentare una minaccia per i valori di una società. Questa paura viene alimentata e guidata da cosiddetti imprenditori morali (Becker, 1963), persone, gruppi, organizzazioni in cerca di consenso. I media e gli esponenti politici rappresentano due degli imprenditori morali più signficativi su questi temi, e gli esempi non mancano. A Torino i casi di alcuni quartieri in via di trasformazione e degrado - da San Salvario a Porta Palazzo (Belluati, 2004) al più recente Parco Stura, rinominato Tossic Park - hanno mostrato come l’attenzione mediatica sui problemi di micro-criminalità e convivenza possa

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aumentare l’allarme dell’opinione pubblica e incentivare esternazioni di politici e leader locali che contribuiscono a “gettare benzina sul fuoco”. In molti casi le amministrazioni pubbliche sono state impreparate a fronteggiare l’emergenza anche sul fronte della comunicazione di prossimità e spesso si sono trovate a inseguire il problema, senza individuare modi per gestirlo (Amapola, 2008, pp. 77-107). Anche a livello nazionale non sono mancati casi emblematici del legame media - opinione pubblica - politica. Tra i più noti vi è il caso dell’omicidio di Giovanna Reggiani a Roma nel luglio 2007 (di cui venne accusato un giovane romeno che viveva nel vicino campo nomadi). Il fatto scatenò l’allarme sicurezza sui media e le reazioni politiche su una presunta emergenza legata all’entrata nell’Unione europea di Romania e Bulgaria, che avrebbe provocato l’acuirsi della micro-criminalità legata a questa nazionalità, concausa questa smentita dagli studi sul tema (Barbagli, 2008, p. 137-157). In un caso come questo, così come fu per l’omicidio di Novi Ligure i fatti vengono collocati dai media all’interno di una cornice concettuale (ad esempio l’equazione stranieri=delinquenti) che finisce con trovare conferma in altri fatti di cronaca (e viene comunque data per scontata). Questa rappresentazione viene poi spesso legittimata dai pareri esperti (gli studiosi, i rappresentanti delle Forze dell’ordine, ecc.) ma anche dai politici che interpretano l’opinione pubblica e ne fanno un tema politicamente rilevante, su cui legittimare provvedimenti di urgenza (Dal Lago, 1999 e Maneri, 2001).

A fronte di questa centralità, appare importante affiancare, nell’analisi sulla sicurezza di un territorio, anche una lettura delle rappresentazioni mediatiche prevalenti. Da un lato la mancanza di risorse, dall’altro anche l’incapacità a coglierne l’importanza, fanno sì che non molti siano gli esempi di analisi sui media (giornali e televisioni) sia a

livello nazionale (di cui si ricordano soprattutto le indagini dell’Osservatorio italiano e europeo sulla sicurezza di Demos, in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia) sia a livello locale28. Le esperienze di monitoraggio dell’informazione cartacea sul tema sicurezza hanno permesso di individuare i principali aspetti da indagare in tema di rappresentazioni mediatiche: il tipo di coverage (numerosità degli articoli sul tema, legame con la cronaca nazionale, differenze tra le testate), le accezioni tematiche prevalenti (es. microcriminalità, disordine urbano, degrado) la connotazione di vittime e autori, le modalità di trattazione (il grado di approfondimento delle notizie, il linguaggio utilizzato, l’enfasi apportata e l’uso di immagini), le fonti delle notizie (es. le Forze dell’ordine o il sistema politico locale), le dinamiche dei media (le cosiddette routine giornalistiche)

Dalle tematiche prevalenti alle modalità di trattazione: quali dimensioni di analisi nell’indagine sui media

L’analisi del contenuto e le metodologie di

rilevazione quantitativa

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che influiscono sulla scelta dei temi da trattare e sulle modalità. Attraverso questo tipo di rilevazione, è possibile evidenziare con quali modalità i media locali affrontano il tema e le differenze, spesso anche significative, tra le testate. La rilevazione sui media può riguardare sia i giornali (pagine locali dei quotidiani nazionali o locali) che le televisioni (spesso, per questa rilevazione si monitorano le notizie dei telegiornali, nelle edizioni nazionali e/o locali). Nella maggior parte dei casi la rilevazione viene effettuata per periodi più o meno lunghi (da alcune settimane a più annualità) attraverso metodologie standardizzate di analisi del contenuto: attraverso una griglia di rilevazione vengono monitorate le diverse dimensioni da analizzare, classificando e indicizzando le notizie (ad esempio, a seconda dell’accezione tematica sulla sicurezza). In questo modo è possibile avere una quantificazione delle diverse dimensioni di analisi degli articoli (o delle notizie in un telegiornale) e monitorare il flusso di notizie nel tempo. Tali rilevazioni, come avviene per i sondaggi demoscopici, necessitano di

risorse dedicate e di avvalersi di professionisti e di metodologie di analisi consolidate. Anche in un momento storico di risorse limitate o laddove il contesto locale, di medie e piccole dimensioni, rende di difficile attuazione

un’analisi quantitativa sui media, può essere utile tenere comunque in considerazione l’incidenza dei media sul tema prima di intraprendere delle azioni mirate per la sicurezza dei cittadini. Per recuperare poi, almeno in parte, uno sguardo di insieme sulle rappresentazioni mediatiche, può essere ad esempio utile avvalersi di metodi di rilevazione più qualitativi, basati ad esempio sulle interviste (o i focus groups) con testimoni privilegiati (giornalisti, esperti di comunicazione, opinion leader locali). Queste permettono di sondare la rilevanza della comunicazione sul tema della sicurezza e le modalità di costruzione delle rappresentazioni mediatiche a livello locale e la loro interdipendenza con altri attori (leader locali, comunità di riferimento, partiti e amministarzioni pubbliche). Non va infine dimenticato il ruolo oggi giocato da social networks e internet che, sempre più si vanno affermando come un canale di informazione di importanza prevalente, soprattutto tra le fasce giovanili. Numerosi stanno diventando i casi di comunicazione nati e diffusi attraverso il web: anche sul tema dell’insicurezza ciò appare di una certa rilevanza, in quanto si tratta di un canale di comunicazione immediato, rapido e al di fuori dei canali tradizionali. Anche su questo occorre che l’amministrazione pubblica acquisca sempre più consapevolezza e consideri queste fonti utili sia in

Qualche pratica alternativa alle indagini quantitative su larga scala

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termini di comunicazione da monitorare sia come canale di informazione interessante per raggiungere la cittadinanza (in particolare alcune fasce spesso più difficilmente raggiungibili), anche in contesti di piccole e medie dimensioni.

Esperienze

Questo capitolo ha fin qui illustrato come possa essere scomposto il concetto complesso di sicurezza urbana e quindi quali siano i dati e gli indicatori utili a descriverlo. Per fare questo possono essere messe in opera raccolte sistematiche di dati che confluiscono in un sistema informatico o possono essere - meno ambiziosamente - sistematizzati i dati esistenti, definite alcune misurazioni utili. Le dimensioni dell’Ente locale, l’esistenza di un buon sistema informativo e cartografico, la volontà politica sono tutti elementi che si combinano nel definire quale tipologia di sistema di raccolta dati è possibile avviare. Come si è sottolineato, la raccolta di informazioni quantitative è un passaggio essenziale per leggere il territorio e i fenomeni che riguardano la sicurezza ma necessita sempre di una lettura qualitativa delle informazioni. Nel box che segue è illustrata l’esperienza del Cruscotto sulla sicurezza urbana del Comune di Torino, a oggi unico strumento piemontese di raccolta e elaborazione di informazioni sulla sicurezza e di lettura qualitativa.

Il Cruscotto sulla sicurezza urbana della città di Torino Il Cruscotto sulla sicurezza urbana è un progetto avviato dalla Città di Torino a partire dal 2009, con lo scopo di raccogliere e elaborare informazioni utili a una programmazione integrata delle politiche. Trova le sue origini nel Patto Torino Sicura del 2007, finanziato in parte dalla Regione Piemonte. Consiste in un data warehouse (ovvero una banca dati di banche dati) in grado di organizzare i dati, elaborarli e georeferenziarli in un archivio unico, restituendo un quadro della sicurezza urbana a Torino. Il Cruscotto rende queste elaborazioni visibili e disponibili per la consultazione attraverso mappe, tabelle e grafici. Il Cruscotto si basa su una definizione complessa e multidimensionale della sicurezza urbana, raccogliendo informazioni relative a quattro aree tematiche: il contesto urbano (che descrive l’andamento dei fenomeni legati a disordine urbano, criminalità, situazione demografica,

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sociale, economica e qualità urbana), il governo delle politiche (che prende in considerazione gli interventi realizzati dall’amministrazione locale con un impatto diretto o indiretto sulla sicurezza), le percezioni dei cittadini (raccolte con sondaggi demoscopici), il discorso mediatico (analizzato attraverso un monitoraggio della stampa locale). Ognuna delle quattro aree è organizzata in profili (demografico, economico-produttivo, sociale, criminalità, disordine urbano, ecc.) e in dimensioni rilevanti (ad esempio per il disordine urbano, il disordine fisico e il disordine sociale), definite attraverso indicatori. Gli indicatori sono talora combinati tra loro per ottenere alcuni indici sintetici, che servono a fornire una lettura riassuntiva di alcuni elementi. Tutte le informazioni sono georeferenziate, cioè collegate a un’unità territoriale (circoscrizione, quartiere, zona statistica) al fine di mappare la situazione della città e di individuare le porzioni di territorio più o meno critiche. Le informazioni di carattere quantitativo sono completate da letture di carattere qualitativo realizzate mediante attività di confronto con esperti che vivono nei territori e i cui risultati sono visibili in una ricca attività di reporting. Questo sistema di monitoraggio rende possibile elaborare un modello di analisi integrato: le condizioni di sicurezza vengono descritte a partire dall’analisi delle interrelazioni tra le quattro aree e dalla comprensione dei nessi tra esse. Lo scopo è mettere in luce l’interazione tra i diversi fattori che sono alla base del diffondersi di allarme sociale, paure e insicurezza e mostrare come tali fattori operino in diverse aree della città. È possibile effettuare letture di carattere tematico - osservando una problematica relativa alla sicurezza (ad es. la criminalità) nei diversi territori – e letture di carattere territoriale, focalizzandoci su un territorio specifico e approfondendo tutte le sue caratteristiche. Lo strumento, restituendo una fotografia dinamica dei fenomeni, consente ai decisori politici di aumentare il loro livello di conoscenza, di individuare le criticità più urgenti e di definire politiche collegate ad obiettivi chiari e progetti concreti. Allo stato attuale l’accesso allo strumento avviene tramite specifica abilitazione e password in base a livelli di accesso definiti dalla Cabina di Regia che ha accompagnato l’attuazione del progetto.

Il panorama presentato di informazioni utili a descrivere la sicurezza urbana conferma la varietà di saperi, discipline, settori amministrativi che hanno un ruolo da attori sul tema. È quindi imprescindibile tenere tutti questi aspetti in considerazione e cercare di avere un approccio il più integrato possibile (si veda il capitolo 2, par. 4). A questo proposito si presenta qui un metodo di lavoro - le diagnosi locali di sicurezza - che può rappresentare la cornice concettuale al cui interno inserire la raccolta di informazioni per conoscere le condizioni di sicurezza di un territorio. L’utilità di presentare qui in conclusione tale strumento risiede nelle sue potenzialità di accurata descrizione e di notevole coinvolgimento degli attori chiave (cittadini, amministratori, operatori, etc.) e anche nella sua capacità di essere modulato in base alle esigenze e al contesto.

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Le diagnosi locali: un utile strumento di lavoro

La diagnosi locale sulla sicurezza è un’analisi sistematica del territorio volta a capire i problemi di criminalità e devianza, a identificare risorse per la prevenzione e a individuare priorità di intervento per una strategia sulla sicurezza. Si tratta dunque di uno strumento di prevenzione che permette di analizzare i fattori di rischio di un territorio e di coinvolgere, al contempo, i diversi soggetti che possono collaborare a una comunità più sicura (EFUS, 2007). Come effettuarla La diagnosi locale presenta alcuni step ben definiti: 1) l’analisi territoriale: consiste nella raccolta di informazioni qualitative e quantitative non solo su problemi di criminalità e disordine, ma su fattori demografici, sociali, economici e ambientali che possono influire a vario titolo sulla sicurezza di un territorio così come sulle percezioni dei cittadini e sulle azioni politiche messe in campo per rispondere ai problemi. A seguito dell’analisi generale, ci si può focalizzare su specifici target, problemi o porzioni di territorio che emergono come particolarmente significativi; 2) l’identificazione di priorità di intervento: in un regime di risorse scarse è fondamentale concentrare gli interventi su pochi problemi ben definiti, piuttosto che sulla totalità delle criticità. È importante che questa scelta sia guidata dai risultati dell’analisi preliminare, dal confronto tra gli attori chiave coinvolti e dall’interesse manifestato da settori della comunità a lavorare su alcuni temi (questo ultimo aspetto è fondamentale: l’interesse produce effetti positivi in termini di coinvolgimento, attivismo e quindi di impatto); 3) la consultazione e comunicazione: i risultati delle fasi precedenti vanno condivisi con i diversi settori della comunità locale, anche quelli più difficili da raggiungere. Particolare attenzione va dedicata agli strumenti da usare (formati, mezzi, linguaggi) per una comunicazione più efficace (un report di 300 pagine non sarà letto da nessuno!). Chi coinvolgere Requisito per una buona diagnosi è l’approccio partecipativo. Ciò implica il coinvolgimento di molteplici soggetti che possono offrire un punto di vista sui problemi del territorio e lavorare per la sicurezza della comunità, quali autorità locali; forze dell’ordine; operatori sociali, sanitari, educativi; comunità accademica; operatori commerciali; giustizia minorile; esponenti della società civile (membri di minoranze, gruppi giovanili, gruppi religiosi…). I tempi per una diagnosi locale La diagnosi locale può durare dai 6 ai 12 mesi. È necessario che venga periodicamente ripetuta, ma non in tempi troppo ravvicinati (anche per evitare un costo troppo elevato per l’amministrazione locale): una buona misura è la ripetizione ogni 3 anni, un tempo sufficiente anche per valutare l’evoluzione dei fenomeni e l’efficacia delle risposte individuate (http://www.urbansecurity.be /Recommandations-du-colloque-du-31?lang=fr).

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Lo strumento della diagnosi locale ha avuto applicazioni in diversi paesi europei così come in altri continenti (EFUS, 2007). È inoltre agevolmente replicabile in diversi contesti: città grandi, medio piccole, associazioni di comuni. Questa è una delle ragioni della sua ampia diffusione. Al fine di meglio comprendere lo strumento nei suoi aspetti concreti il box seguente presenta alcune applicazioni concrete delle diagnosi locali di sicurezza.

Le diagnosi locali: alcune esperienze

Le diagnosi locali richiedono alle amministrazioni di entrare in un un’ottica di lavoro sulla sicurezza di medio – lungo periodo, sapendo che investire sull’analisi permette di meglio individuare le effettive criticità e di investire su di esse. Investire sulla diagnosi richiede un tempo dedicato che però non deve spaventare: molto lavoro di raccolta dati e informazioni qualitative è spesso già svolto nelle quotidiane attività delle amministrazioni e richiede “semplicemente” una sistematizzazione in un percorso di lavoro dedicato. Si tratta inoltre di uno strumento non eccessivamente dispendioso e di facile applicazione. A Summerside, una cittadina canadese di 20.000 abitanti l’uso della diagnosi locale ha ispirato una strategia sui problemi di sicurezza reale e percepita. Nel 2008 l’amministrazione locale ha istituito un Comitato per la sicurezza e la prevezione del crimine, coinvolgendo diversi soggetti (polizia locale, operatori sociali, rappresentanti religiosi, insegnanti delle scuole, etc. ). Questo gruppo ha promosso per 4 mesi una raccolta di informazioni statistiche sui problemi di criminalità così come sulle caratteristiche socio-demografiche della popolazione affiancata dalla raccolta di questionari sui problemi di vittimizzazione e il sentimento di insicurezza. Parallelamente si è realizzato un lavoro di comunicazione con la comunità, attraverso gironali e televisioni e un incontro pubblico fianle. A questa prima fase ha fatto seguito un’analisi approfondita su alcuni argomenti emersi come importanti (in particolare i problemi legati al consumo di sostanze stupefacenti per la popolazione giovanile), da cui far scaturire una strategia di intervento sulle principali priorità (http://efus.eu/files/ fileadmin/efus/pdf /Summerside_article_fin.pdf). Le esperienze italiane non sono ancora molto numerose, ma vi sono state alcune sperimentazioni in territori anche molto diversi tra loro. Nel 2009 a Piacenza il Comune ha effettuato una diagnosi locale sulla sicurezza attraverso: la raccolta di dati sulle caratteristiche economico-sociali del territorio; l’analisi dei reati e dei problemi di disordine e loro localizzazione; un approfondimento sulle segnalazioni sulla sicurezza che giungono dai cittadini all’Ufficio relazioni con il pubblico del Comune; una raccolta di informazioni quantitative e qualitative sulle percezioni di sicurezza attraverso un’indagine campionaria sulla cittadinanza e interviste ad operatori della Polizia municipale. Grazie a questi strumenti sono state individuate delle criticità e delle proposte operative per il miglioramento della sicurezza oggettiva e percepita nel territorio (http://web2.comune.piacenza.it/sicurezza/piacenzasicura/documenti/diagnosi-locale-di-sicurezza.pdf).

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Nel 2006 a Sassuolo invece la diagnosi si è concentrata su un quartiere cittadino particolarmente problematico dal punto di vista delle condizioni oggettive e soggettive di insicurezza. Su questo territorio sono state effettuate delle analisi approfondite sugli aspetti urbanistico-ambientali e sulle condizioni oggettive di insicurezza, sia attraverso l’utilizzo di dati a disposizione che attraverso sopralluoghi mirati e interviste a testimoni chiave: sono state così individuate le principali criticità e interpretate le possibili cause. A ciò ha fatto seguito l’elaborazione di proposte ampie e trasversali per affrontare i problemi emersi nel loro complesso, ma anche interventi urbanistici puntuali (Cardia, Bottigelli, 2011).

Note 1 Tali connessioni furono già evidenziate all’inizio del secolo scorso dalla Scuola di Chicago, che rilevava una interdipendenza tra degrado fisico, instabilità sociale, illegalità. Si veda di recente (Sampson e Raudenbush, 1999). 2 http://www.demos.piemonte.it/site/ 3 http://www.ruparpiemonte.it/infostat/index.jsp 4 http://www.regiotrend.piemonte.it/site/ 5 Si veda la banca dati ufficiale dell’Istat attraverso la quale sono disponibili e aggiornati tutti i dati a livello nazionale, regionale, sub regionale raccolti attraverso il censimento e altre indagini territoriali: http://dati.istat.it/Index.aspx. Si veda altresì la banca dati demografica Istat che mette a disposizione i dati ufficiali più recenti sulla popolazione residente nei Comuni italiani derivanti dalle indagini effettuate presso gli Uffici di Anagrafe dal 2002, http://demo.istat.it/ 6 Le imprese sono classificate dall’Istat come unità locali, cioè l'impianto (o corpo di impianti) situato in un dato luogo e variamente denominato (stabilimento, laboratorio, negozio, ristorante, albergo, bar, ufficio, studio professionale, ecc.) in cui viene effettuata la produzione o la distribuzione di beni o la prestazione di servizi. 7 La lettura del dato richiede alcune cautele. Le unità locali non sono infatti sempre sinonimo di presenza di attività produttiva. Costituiscono infatti unità locali anche le sedi locali (spesso individuati dalle imprese medio-piccole presso lo studio del commercialista) e sono ricomprese tutte le forme giuridiche - incluse le imprese individuali e i lavoratori autonomi che, come noto, non in tutti i casi possono essere considerate soggetti economici di produzione e di lavoro paragonabili alle imprese di diversa natura (ad esempio le società) e di maggiore dimensione. 8 http://www.regione.piemonte.it/ commercio/ossCommercio.htm. 9 http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14.wp. 10 http://giustiziaincifre.istat.it/. 11 http://giustiziaincifre.istat.it/. 12 http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14.wp. 13 http://giustiziaincifre.istat.it/. 14 È utile ricordare che, a fini statistici, l’azione penale si considera iniziata non solo nel caso di autori noti, quando si provvede all’imputazione formale della persona sottoposta a indagini preliminari, ma anche nel caso di delitti di autori ignoti, nel momento in cui si dà luogo alla rubricazione del reato nell’apposito Registro Ignoti. 15 http://giustiziaincifre.istat.it/. 16 L’ultima indagine realizzata dall’Istat è reperibile all’indirizzo http://www3.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20101122_00/. 17 Ovviamente se non vi sono state altre modifiche che possono aver influito. Ad esempio l’impiego rilevante delle Forze dell’ordine in attività diverse (come accaduto ad esempio nel 2011 per i cantieri della TAV in Val Susa) determinano una flessione nella registrazione ordinaria dei reati che non corrisponde a una flessione degli stessi.

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18 Si tratta di un monitoraggio periodico sulle diverse facce dell'insicurezza, realizzato da Demos e Osservatorio di Pavia per la Fondazione Unipolis. L’indagine, i cui risultati vengono pubblicati nei relativi rapporti di ricerca, mette in relazione percezioni, rappresentazioni mediatiche e statistiche sulla criminalità. http://www.demos.it/a00463.php 19 Dal 1993 al 2003 l'indagine è stata condotta ogni anno nel mese di novembre. Nel 2004 l'indagine non è stata effettuata e dal 2005 viene condotta ogni anno nel mese di febbraio. A disposizione vi è quindi un trend di dati piuttosto lungo che consente di osservare l’andamento delle percezioni anche sul tema della sicurezza. 20 Questi dati sono disponibili nei Rapporti sulla sicurezza integrata nella regione Piemonte (Regione Piemonte, 2009 e 2012) e anche sul web all’indirizzo http://www.regione.piemonte.it/sicurezza/dati.htm#percezioni 21 Di solito la letteratura sul tema propone una distinzione tra fear of crime, che è la paura “concreta” e personale legata al rischio di essere vittimizzato e concern about crime, la preoccupazione “astratta” per la criminalità come problema sociale. 22 Cfr. Amapola, Università degli Studi di Torino - Dipartimento di studi politici (2003). 23 Cfr. ad esempio le indagini demoscopiche svolte nell’ambito del Cruscotto sulla sicurezza urbana della città di Torino, presentato a pagina 95. 24 Cfr. le indagini svolte da Cittalia - Fondazione Anci Ricerche sul tema della sicurezza. 25 Possono essere ad esempio, i rappresentanti delle associazioni di categoria, piuttosto che gli esponenti delle Forze dell’ordine o un gruppo di aministratori locali. 26 Cittalia – Fondazione ANCI Ricerche e SWG (2008). 27 È il fenomeno noto come agenda building, laddove si intende il processo per cui attori sociali chiave (e i media tra questi) individuano delle questioni rilevanti e impongono all’attenzione pubblica e ai poteri decisionali di prendere decisioni in merito (R. Marini, 2006). 28 Vedi ad esempio: Amapola, Università degli Studi di Torino - Dipartimento di studi politici (2003), p. 73-92 e il monitoraggio biennale svolto nell’ambito del progetto Cruscotto sulla sicurezza urbana della Città di Torino, presentato a pagina 95.

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Capitolo 4 Gestire un progetto. Costruire il partenariato, governare la spesa, valorizzare i risultati di Eleonora Guidi 1. Introduzione ……….…………………………………….......................p. 103 2. Gestire un progetto ..........…….…………………...………................p. 104 La diffusione del lavoro per progetti Cos’è un progetto? Il governo del progetto Coordinare il gruppo di lavoro e il partenariato di progetto Modifiche al progetto: come affrontarle e gestirle Tener d’occhio i tempi 3. Governare la spesa .........................................................................p. 118 Pianificare la spesa Connettere la spesa all’andamento del progetto Gestire la rendicontazione 4. Monitoraggio e valutazione …….……………..………………...........p. 124 Il monitoraggio La valutazione Modalità per condurre una valutazione 5. Valorizzare i risultati ………….……………………………....…..……p. 132 Note ……………..…………..………..…………………...…………...........p. 135

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Introduzione

Il capitolo propone un percorso attraverso gli aspetti progettuali, concettuali e metodologici sui quali focalizzare l’attenzione nel corso di un progetto per far sì che si creino le condizioni per raggiungere i risultati attesi e l’intervento diventi un’opportunità concreta di apprendimento. Sebbene sia difficile tracciare una linea netta di demarcazione tra le fasi di un progetto, nel capitolo si privilegerà la fase della gestione lasciando da parte gli elementi propri della progettazione, sebbene le interazioni tra l’una e l’altra siano evidenti (una buona progettazione rende più agevole la gestione, mentre una progettazione sommaria comporta un notevole impegno nella fase di cantierabilità degli interventi). Le indicazioni intendono fornire un supporto a coloro i quali si trovano a gestire iniziative che abbiano un impianto progettuale articolato e una certa dimensione economica; questo perché interventi della durata di pochi mesi, o che prevedono esclusivamente l’acquisto di dotazioni, pur inquadrati in un contesto progettuale, non necessitano di un grande impegno in termini gestionali. Il tema di come gestire le risorse a disposizione per realizzare bene un progetto è di grande attualità e rilevanza, e non solo per la minor disponibilità di fondi con cui oggi si deve fare i conti. Rispetto al passato, oggi le occasioni per misurarsi con la progettazione e la realizzazione di interventi si sono moltiplicate, così come sono cresciute le categorie di soggetti coinvolti in queste attività. Come è noto, il “lavoro per progetti” è ormai uscito dal suo ambito tradizionale fatto di realtà imprenditoriali per riguardare altri settori, in primo luogo le organizzazioni pubbliche (amministrazioni locali, istituzioni scolastiche, consorzi socio-assistenziali) e del privato sociale (associazioni, cooperative sociali, realtà del volontariato). Il nuovo protagonismo degli enti locali nelle progettualità non è stato, e non è tutt’ora, un processo facile. Le difficoltà maggiori derivano dal fatto di adattare modelli organizzativi basati su strutture e gerarchie predefinite, come sono quelli degli enti, a modalità di lavoro improntate alla flessibilità e alla trasversalità. Molto esemplificative a riguardo sono le indicazioni emerse dalle esperienze progettuali in materia di sicurezza realizzate sul territorio piemontese. La sperimentazione di iniziative ai sensi della l.r. 23/2007 ha dimostrato una buona capacità dei soggetti promotori nel costruire partenariati, facendo però emergere la necessità di rafforzare le

Presidiare gli ambiti chiave per

realizzare un progetto di

successo

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capacità di governo e coordinamento dei progetti. Anche il rispetto dei vincoli di tempo e di costo è stata una difficoltà su cui gli enti chiedono un supporto. Il capitolo nasce con l’obiettivo di provare a dare una risposta a queste esigenze attraverso richiami teorici, esempi pratici e strumenti concreti che offrano un sostegno. È strutturato in quattro paragrafi sui seguenti temi: gli strumenti per il “governo” di un progetto e per la gestione delle eventuali modifiche in corso d’opera; la pianificazione e gestione amministrativa delle spese, le attività di monitoraggio e valutazione, e in ultimo la valorizzazione dei risultati. Gestire un progetto

Questo paragrafo ha per tema la gestione di un progetto intesa come l’insieme di capacità e di strumenti che aiutano a organizzare il piano di lavoro e le persone coinvolte nella realizzazione delle azioni previste. Dopo una breve ricostruzione di come i progetti si sono diffusi come modalità di lavoro e delle loro implicazioni sulle organizzazioni, saranno affrontati i due ambiti che rappresentano le criticità organizzative principali: il primo riguarda il coordinamento generale e la capacità di organizzare il lavoro delle risorse umane coinvolte, siano esse interne (cioè componenti del gruppo di lavoro) o esterne (cioè componenti del partenariato); il secondo ambito concerne, invece, la gestione di modifiche al piano di lavoro derivanti dall’evoluzione del contesto e dallo sviluppo progettuale.

La diffusione del lavoro per progetti

Nel corso degli ultimi decenni, la cultura della progettazione e la pratica del “lavorare per progetti” si sono diffuse all’interno di numerose organizzazioni ed enti differenti. Accanto a realtà industriali operanti in settori diversi da quelli in cui tali pratiche sono nate1, di recente questo approccio si è affermato anche in contesti organizzativi considerati a lungo “estranei” ai modelli manageriali e procedurali. Prova ne è la crescente importanza assunta dai progetti nell’ambito del settore pubblico: mai come in questo periodo gli enti pubblici si trovano a fare i conti con forme di progettualità più o meno strutturate e basate sull’approccio orientato ai risultati tipico dei contesti aziendali. Pur con livelli differenti di complessità, articolazione e vincoli, oggi in molti settori della Pubblica Amministrazione il lavoro per

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progetti è diventato una prassi quotidiana: solo per citare alcuni esempi, si pensi ai “progetti strategici”, “progetti obiettivo”, “progetti individuali” presenti nelle scuole, nelle strutture sanitarie e nei consorzi socio-assistenziali, oppure ai progetti su temi specifici promossi dagli enti locali (Forti, 2004, pag. 8). Una significativa spinta alla diffusione del project management (vedi Glossario) è venuta dall’evoluzione dei contesti economici che ha fatto emergere bisogni più complessi e reso fondamentale la capacità di elaborare soluzioni nuove, flessibili e personalizzate. Una trasformazione che ha investito non soltanto il mondo dei prodotti, ma anche quello dei servizi pubblici. La necessità di adeguarsi a scenari inediti e di rispondere a nuove esigenze ha spinto gli operatori ad adottare tecniche di gestione più efficienti e più capaci di rispondere velocemente ai cambiamenti. Se l’esigenza di stare al passo con i mutamenti ha rappresentato un impulso importante, nel caso degli enti pubblici bisogna tener conto anche di un altro fattore, rappresentato dal cambiamento culturale e di mentalità che li ha investiti a metà degli anni ‘90. La riduzione delle fonti tradizionali di finanziamento ha costretto i soggetti pubblici ad attivarsi per individuare all’esterno nuove opportunità per garantire servizi adeguati alle nuove e crescenti domande dei cittadini. A fronte delle molte richieste di finanziamento, alcune istituzioni nazionali ed europee (Ministeri, Commissione Europea) hanno introdotto procedure di accesso standardizzate e predefinite che impongono ai soggetti beneficiari un controllo di tutte le fasi di sviluppo delle iniziative, dal loro avvio fino alla loro chiusura. L’introduzione di regole nella progettazione e gestione di contributi, tra l’altro finalizzati più al sostegno a singoli progetti che alle attività ordinarie delle organizzazioni, ha funzionato da ulteriore stimolo per avvicinare gli enti pubblici verso metodologie di lavoro incentrate su modalità progettuali. Anche se, come si è visto, la diffusione di progettualità nasce

principalmente come risposta a esigenze provenienti dall’esterno, le implicazioni sull’organizzazione sono molteplici e spesso difficili da gestire. Questo rende la gestione dei progetti un processo articolato e

complesso. Molti sono i motivi. Da una parte, è un’attività che investe l’organizzazione a più livelli: dalla mission alla struttura organizzativa2, dalla gestione dei processi di lavoro alle relazioni interfunzionali tra le persone. Dall’altra parte, il grado di complessità è influenzato da alcune

I progetti sono attività ad alta complessità

Lavorare per progetti offre una risposta veloce ai cambiamenti del

contesto

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caratteristiche intrinseche al concetto di “progetto” (vedi box a p. 107), come la durata (un progetto può durare settimane, mesi, anni e durante questo periodo possono avvenire molti cambiamenti), l’articolazione (normalmente il progetto richiede la correlazione di molte attività e persone, interne ed esterne all’organizzazione), la sequenzialità delle attività (il ritardo di un’attività può comportare lo slittamento di quelle successive), e infine il carattere di non ripetitività (un progetto, a differenza di un processo produttivo, non ha operazioni ripetitive e quindi richiede un presidio costante). L’impatto della complessità sul grado di successo dei progetti è evidente. Ricerche sull’esito dei progetti sottolineano che la metà di essi non raggiunge i risultati attesi o non rispetta i limiti previsti di tempo o budget. Gli studi indicano inoltre che in media quasi il trenta per cento dei progetti viene abbandonato o fallisce prima della conclusione (Elbeik, 2000, pp. 35-36)3. La causa principale di insuccesso è la scarsa o insufficiente attenzione agli aspetti progettuali, organizzativi e relazionali che si traduce in difficoltà maggiori o risultati inferiori alle aspettative. Osservando nel dettaglio, i motivi di insuccesso più diffusi riguardano situazioni diverse, molte delle quali riconducibili alla capacità di gestione come la scarsa chiarezza di ruoli, la non condivisione degli obiettivi tra i soggetti coinvolti, la poca attenzione al coordinamento e allo sviluppo del piano di lavoro, lo scarso controllo sull’impiego delle risorse, e la scarsa motivazione e partecipazione del gruppo di lavoro. A questi va aggiunto il fattore legato all’esperienza di management; ciò vale

soprattutto per gli enti pubblici e le organizzazioni del privato sociale in cui non esiste la figura del project manager come funzione autonoma. In questi contesti la scelta del referente di progetto spesso è fatta più con l’obiettivo di soddisfare criteri formali che non di individuare la persona con

la necessaria competenza ed esperienza. Molte volte il referente è scelto senza una valutazione vera e propria oppure seguendo criteri non adeguati, come l’appartenenza al settore che ha promosso il progetto o che opera nell’ambito più affine al tema affrontato. Il referente si trova così a gestire l’incarico “un po’ per caso” senza una preparazione specifica e soprattutto vivendo il progetto come l’ennesima incombenza da seguire (quelli che Damiani definisce “accidental project manager”, in Damiani, 2011, pp. 17-18). Questa situazione ovviamente non prefigura una condizione favorevole alla buona attuazione del progetto.

Scegliere con cura il responsabile di progetto è il primo passo per iniziare bene

Molti progetti falliscono per la poca attenzione

alla gestione

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Cos’è un progetto?

Tutti pensano di sapere cos’è un progetto, ma pochi ne sanno dare una definizione o sanno distinguerlo dalla normale operatività di un’organizzazione. Queste due realtà sono diverse pur avendo alcuni aspetti in comune, come il fatto di essere realizzati da persone, essere oggetto di attività di pianificazione, esecuzione e controllo, e infine essere vincolati da risorse. Saperle distinguere è tuttavia importante perché il fatto di lavorare ad un progetto richiede alcune attenzioni in più, come si vedrà più avanti. La definizione di progetto più completa è quella proposta da R.D. Archibald “Il progetto è un’impresa complessa, unica e di durata determinata, rivolta al raggiungimento di un obiettivo chiaro e predefinito, mediante un processo continuo di pianificazione e di controllo di risorse differenziate e con vincoli interdipendenti di tempo, costi e qualità” (R.D. Archibald, 2004, p. 7). Un progetto ha quindi risultati e prodotti determinati, tempi entro i quali le attività devono essere concluse e risorse definite per completare le attività. Una definizione così ampia si applica a progetti anche molto diversi tra di loro: possono essere iniziative grandi o piccole, impegnare gruppi ristretti di persone o team numerosi, essere gestiti con modalità più o meno strutturate, e essere realizzati dalla sola organizzazione proponente o da un insieme di soggetti partner. Al di là delle possibili differenze e delle diverse definizioni usate in letteratura (per un approfondimento si rimanda a AA.VV. 2004, pag. 5), tutti i progetti presentano alcuni caratteri comuni, tra i quali: î unicità: ogni progetto è unico e diverso dagli altri. Due progetti possono

essere molto simili ma raramente sono uguali. Anche se il confronto con esperienze similari è utile, ciascuna esperienza progettuale rappresenta una sfida a sé;

î specificità: ogni progetto prevede il raggiungimento di un obiettivo specifico e, in alcuni casi, di obiettivi secondari; quanto più gli obiettivi sono certi e condivisi, tanto maggiori sono le probabilità di successo;

î temporaneità: un progetto ha una data di inizio e di fine prestabilite, e le strutture incaricate di realizzarlo normalmente si esauriscono con la conclusione delle attività. Questo aspetto è molto importante perché è ciò che distingue un progetto dalla normale attività operativa: mentre quest’ultima è continua e ripetitiva, il progetto è temporaneo e unico;

î complessità: un progetto è composto da più attività correlate tra di loro secondo un impianto logico e articolato;

î disponibilità di risorse definite: persone, strumenti, tempo e risorse economiche sono i mezzi di cui si dispone per la realizzazione di un progetto nel tempo dato, e spesso ne rappresentano i vincoli operativi.

*

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Il governo del progetto L’espressione “governo del progetto” è particolarmente adatta per sottolineare quanto la gestione di un progetto necessiti di una direzione politico-istituzionale al di là di quella puramente organizzativa. Uno degli elementi che contribuisce in misura rilevante alla buona riuscita di un progetto è la presenza di una regia centrale, chiara e esplicita. Molto spesso questo aspetto è trascurato o affrontato in maniera superficiale, quasi come se fosse un elemento superfluo per il fatto che vi è già un soggetto formalmente responsabile. Quello che manca è la definizione e formalizzazione della struttura a cui affidare la responsabilità gestionale e organizzativa dell’intero processo. Su questo punto occorre fare una prima distinzione tra il soggetto che ha ricevuto il finanziamento (che può essere un ente, pubblico o privato, attraverso la figura del legale rappresentante o di un suo delegato) e il soggetto incaricato della progettazione esecutiva. Si tratta di due ruoli distinti che non vanno confusi o fatti coincidere: il primo è un ruolo prettamente di natura istituzionale che riguarda l’ente come soggetto, mentre il secondo si riferisce a una figura con un ruolo operativo; tranne in rari casi, infatti, è poco realistico sostenere che sia il legale rappresentante a occuparsi in prima persona dello sviluppo di un progetto. Questa situazione può verificarsi nei Comuni di piccole dimensioni o nelle Unioni di Comuni dove il personale riveste più funzioni, ma è una soluzione non praticabile o auspicabile in altri contesti. Non solo è importante aver chiara la distinzione tra il ruolo politico e quello tecnico, ma è altrettanto importante fare in modo che i due livelli coesistano e siano entrambi coinvolti attivamente. Al di là dell’operatività concreta, tenere distinte le due figure e farle agire in maniera sinergica e complementare consente di accrescere la legittimazione e il consenso intorno al progetto, nonché le possibilità che questo possa incidere effettivamente sull’azione dell’ente. Proviamo a chiarire meglio la distinzione attraverso una descrizione, seppur non esaustiva, dei compiti principali dell’una e dell’altra figura. Il referente politico è il riferimento politico-istituzionale del progetto all’interno dell’organizzazione, ne è il portavoce e promotore presso le istanze politiche interne e esterne. Tra i suoi compiti vi sono quelli di: conoscere le linee generali del progetto, i suoi obiettivi e risultati attesi; promuovere il progetto nelle sedi politico-istituzionali funzionali al suo successo; mantenere relazioni con gli altri enti e soggetti istituzionali

L’importanza di una “regia” e di

ruoli distinti

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coinvolti; diffondere i risultati raggiunti all’interno e all’esterno dell’organizzazione. Il referente o responsabile di progetto è la figura centrale che ha la responsabilità operativa di garantire il conseguimento degli obiettivi del progetto nel rispetto dei tempi e dei costi indicati in progettazione. Tra i suoi compiti vi sono quelli di: verificare l’avanzamento del progetto rispetto al piano di lavoro, apportando eventuali modifiche; gestire i problemi e le difficoltà legati al progetto e alla sua attuazione; mantenere un costante rapporto con il gruppo di lavoro e i partner affinché tutti diano l’apporto definito; mantenere una buona relazione con il committente in merito agli adempimenti amministrativi e rendicontativi. Quando si parla dell’importanza della “regia” ci si riferisce alla necessità di

individuare non soltanto chi ha la responsabilità del progetto (responsabile politico e tecnico), ma anche attraverso quali forme e strumenti questa responsabilità si esercita. Questo implica la scelta dello strumento di governo, cioè della sede in cui si

definisce la strategia progettuale e si condividono le scelte operative con il partenariato. I progetti più articolati prevedono di frequente una struttura di governo e coordinamento di cui fanno parte, oltre al responsabile di progetto, anche i rappresentanti dei partner coinvolti nel progetto. Vi è una certa varietà nelle denominazioni scelte per questa struttura: in alcuni casi si chiama Comitato di indirizzo, in altri Cabina di regia o di pilotaggio, in altri ancora è definita Comitato di progetto; a prescindere dal nome, le funzioni attribuite sono le medesime e rispondono all’esigenza di promuovere sedi di confronto e condivisione delle scelte tra tutti i soggetti. Nell’esperienza dei progetti piemontesi la presenza e il buon funzionamento di questo tipo di struttura è uno dei fattori che ha contribuito maggiormente al successo del progetto in quanto agevola l’adozione di un sistema di gestione condiviso e più efficace. Per sintetizzare, una buona “squadra” per governare bene un progetto è composta da una combinazione di responsabilità individuali (referente politico, responsabile di progetto) e collettive (struttura di coordinamento) in grado di bilanciare gli aspetti positivi e negativi dell’una e dell’altra in maniera più equilibrata ed efficace rispetto ad una soluzione che preveda una soltanto di queste figure (vedi tabella di seguito).

Combinare responsabilità individuali e collettive

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Responsabile di progetto

+ maggiore libertà di azione

se è molto motivato, apporta un valore aggiunto notevole

-

la concentrazione di compiti in un’unica figura può rivelarsi gravosa e stressante scarse possibilità di confronto nel corso del progetto rischio di “sbandamento” del progetto o slittamento dei tempi se il Responsabile di progetto cambia nel corso del progetto (maggiore difficoltà nella sostituzione)

Struttura di coordinamento

+

condivisione e legittimazione delle scelte stimolare la partecipazione dei partner evitando la delega all’ente capofila possibilità di verificare insieme l’andamento del lavoro

- processi decisionali con tempistiche più lunghe modalità di relazioni più formali lavoro

Coordinare il gruppo di lavoro e il partenariato di progetto

Coordinare le diverse persone coinvolte in un progetto rappresenta un aspetto fondamentale della gestione, soprattutto nel caso di progetti a carattere integrato come quelli in materia di sicurezza urbana in cui la presenza di soggetti con funzioni, competenze e responsabilità differenti è un elemento chiave. All’interno di un progetto normalmente si possono individuare due principali gruppi di persone: il gruppo di lavoro e il partenariato di progetto (vedi Glossario). Mentre il primo ha una valenza interna all’ente promotore e raggruppa le diverse figure dell’organizzazione che, insieme al responsabile di progetto, sono coinvolte nell’implementazione delle attività, il secondo ha una valenza esterna ed è composto dai soggetti, istituzionali e non, che partecipano al progetto in qualità di partner (vedi Glossario). Non sempre il gruppo di lavoro ha una struttura formalmente definita e riconosciuta, ma ciò non toglie che, anche in questi casi, vi debba essere da parte del responsabile una forte attenzione a sviluppare e mantenere modalità di raccordo con il personale degli altri settori coinvolti dal progetto. Un progetto che si ponga come occasione concreta per sperimentare forme di dialogo e cooperazione

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intersettoriale ha maggiori opportunità di contribuire al perseguimento degli obiettivi fissati, alla crescita professionale delle persone coinvolte e al miglioramento dell’azione dell’ente. È importante, inoltre, che il responsabile e il gruppo di lavoro coinvolgano e si relazionino anche con altre strutture interne indirettamente interessate dal progetto e senza il cui supporto potrebbero esservi delle difficoltà durante la realizzazione (es. il settore finanziario per gli aspetti di gestione economica-finanziaria e di rendicontazione, il settore delle risorse umane per la stipula dei contratti di collaboratori, il settore della comunicazione per la diffusione degli eventi del progetto, ecc). Informarli e coinvolgerli sin dall’avvio spiegando quale è il loro supporto richiede senza dubbio uno sforzo iniziale maggiore, ma rende il processo di gestione più fluido e semplice. Il progetto è dunque il contesto organizzativo a impiego e risultato di responsabilità plurime, siano esse riferite al gruppo di lavoro o al partenariato, e conseguentemente la capacità di gestione dell’uno e dell’altro rappresenta non solo una parte centrale del coordinamento generale, ma è anche uno dei determinanti del progetto (Forti, 2004, pp. 70-76). Non vi sono regole fisse che garantiscono il successo nel gestire e coordinare le risorse umane. Si possono tuttavia evidenziare alcuni aspetti attraverso i quali è possibile creare un contesto progettuale, organizzativo e relazionale che facilita il loro coordinamento. Il primo aspetto attiene alla dimensione istituzionale delle relazioni tra il soggetto promotore e i partner che dipende in buona misura dalla tipologia, dalla qualità e dal grado di rappresentatività dei soggetti. Il partenariato è costruito, infatti, dalle (e sulle) relazioni con una pluralità di soggetti, ciascuno dei quali è espressione di ambienti e portatore di interessi definiti, per cui è importante prestare attenzione anche a questi aspetti nel rapporto con ciascun partner e con il partenariato nel suo complesso. Un altro aspetto che può agevolare il compito di coordinare le persone nei progetti è l’attenzione all’unità di intenti e alla condivisione progettuale: è fondamentale riuscire a condividere con tutti i soggetti, siano essi componenti del gruppo di lavoro o del partenariato, gli obiettivi del progetto e delle singole azioni, definire i ruoli di ciascuno, ripartire le competenze e le responsabilità in maniera chiara in modo da valorizzare le specificità di ogni soggetto e, al contempo, favorire la partecipazione e il senso di appartenenza di tutti al progetto. Dal punto di vista organizzativo - gestionale, invece, la capacità di gestione richiede una diversa declinazione nel caso del gruppo di lavoro e del

Il progetto è il contesto organizzativo in cui si

definiscono le relazioni tra i soggetti

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partenariato. Nel primo caso si tratta più che altro di individuare e condividere modalità di raccordo tra operatori che condividono una medesima impostazione organizzativa, mentre nel secondo caso si tratta di costruire un terreno operativo comune. Il partenariato comprende, infatti, soggetti diversi, i quali spesso sono portatori di modalità operative differenti riguardo all’organizzazione delle attività e la gestione delle relazioni di lavoro. La necessità del partenariato di dotarsi di una struttura organizzativa e gestionale che sia operativa diventa fondamentale per garantire il coordinamento, e quindi la realizzazione delle attività previste. A questo scopo, e anche al fine di evitare sovrapposizioni di ruoli, è preferibile mantenere separate la funzione di rappresentanza da quella di natura tecnica. Mentre la prima può essere “esercitata” dagli organi di rappresentanza dei partner attraverso la sottoscrizione dell’accordo di partenariato, la seconda, invece, dovrebbe portare all’individuazione di figure tecniche specifiche che possano operativamente seguire la messa in campo delle attività loro affidate. In ultimo, è evidente che in contesti incentrati fortemente sulle individualità come sono i progetti è importante dare valore anche alla qualità delle relazioni che si instaurano fra i soggetti. I rapporti interpersonali rappresentano una variabile cruciale, possono essere fonte di crescita, di arricchimento, ma anche di conflitto e difficoltà. Per un corretto funzionamento del gruppo di lavoro e del partenariato è necessario riuscire a contenere le tensioni, saper valorizzare i punti di forza complementari o quelli di diversità dei singoli soggetti, creare e mantenere un clima di collaborazione e fiducia reciproca. In ciò giocano un ruolo centrale due elementi: la qualità e il grado di motivazione di ciascun soggetto (questo, nel caso del partenariato, spesso dipende dalle scelte e caratteristiche organizzative dei partner), e la figura del responsabile di progetto, che ha il compito di raccogliere e soddisfare le esigenze dei singoli soggetti senza, però, perdere di vista la dimensione unitaria del progetto.

Modifiche al progetto: come affrontarle e gestirle

Raramente un progetto, anche se ben pianificato e costruito, si svolge esattamente secondo il suo piano originale. È utile tenere a mente questa considerazione per affrontare i cambiamenti in corso d’opera sapendo che rientrano nella più assoluta normalità. Molti sono i fattori che possono influire sull’andamento e dipendono da una pluralità di cause, non sempre prevedibili (es. modifiche relative alle condizioni di contesto in cui il progetto è nato e si sviluppa, al quadro

I cambiamenti e le modifiche ai progetti sono

frequenti

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normativo, all’organizzazione dell’ente promotore o al gruppo di lavoro). Se i cambiamenti non si possono nè evitare nè prevedere, si può tuttavia provare ad essere meglio preparati per cercare di anticiparli quanto più possibile, riducendo così il loro impatto sul progetto. In questo paragrafo ci si propone di esaminare le modifiche più ricorrenti che possono determinare una difficoltà per chi è poco esperto nella gestione di progetti (nella migliore delle ipotesi si produce una breve battuta di arresto, in quelli più seri si rischia di compromettere l’intero progetto). Tralasciando le situazioni contingenti e semplificando le realtà dei progetti, le modifiche più comuni si possono raggruppare in tre grandi categorie che riguardano rispettivamente le variazioni del progetto, delle tempistiche e delle risorse umane coinvolte. La prima categoria è quella delle modifiche al contenuto del progetto. Come si è detto poc’anzi, il progetto non è qualcosa di fisso o immutabile, anzi; avviene di frequente che nell’arco di tempo tra la progettazione e la realizzazione o durante la realizzazione si verifichino cambiamenti di contesto e imprevisti relativi ad un’attività o un partner per cui diventa necessario apportare variazioni al piano di attività. Alcune esigenze di modifica possono nascere da una progettazione frettolosa o superficiale, da problemi organizzativi o da risultati intermedi inferiori alle attese. Un esempio di questo tipo sono gli interventi di presidio sul territorio non realizzati per scarsità di personale interno, attività di formazione che non riescono a partire per insufficienza di iscritti, o iniziative pubbliche poco frequentate. Altre rimodulazioni in corso di progetto, invece, possono rappresentare una miglioria che offre una risposta più adeguata ai bisogni locali o produce un’ottimizzazione delle risorse a disposizione: si pensi, ad esempio, alla modifica negli strumenti di ricerca adottati che produce un risparmio di tempo e risorse, alla riprogettazione di iniziative sulla base di nuove esigenze espresse dai destinatari, o ad azioni di sensibilizzazione inserite all’interno di iniziative istituzionali di cui si è venuti a conoscenza in corso d’opera per evitare sovrapposizioni o sprechi di risorse.

Per chi coordina il progetto è innanzitutto importante sapere di che tipo di variazione si tratta per mettere in campo la soluzione più adatta in breve tempo. A questo scopo è utile avviare sin dall’inizio del progetto canali di informazione e comunicazione con

tutti i soggetti coinvolti che consentano di conoscere in modo aggiornato l’andamento e quindi di intervenire tempestivamente laddove vi siano problematiche. A seconda del livello di conoscenza e di relazione tra i partner si può ricorrere a modalità comunicative più strutturate, come le

Prevedere canali stabili di informazione e comunicazione

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runioni del gruppo di coordinamento o le relazioni periodiche di avanzamento, o più immediate come la posta elettronica o il telefono. Essere informati per tempo delle difficoltà consente non soltanto di agire insieme prima che esse diventino criticità insuperabili e mettano a rischio l’intero progetto, ma dà anche un segnale di coordinamento e appartenenza ad un gruppo di lavoro. Nel valutare le modifiche da fare è bene anche tenere conto del contesto in cui si colloca il progetto. Le progettazioni più articolate, come quelle di fonte ministeriale o europea, di norma stabiliscono limiti e procedure precise per le modifiche; in questi casi vanno quindi seguite le indicazioni fornite per evitare gravi conseguenze come la perdita del contributo o la chiusura anticipata del progetto. Se, invece, non vi sono indicazioni specifiche, si tratta di coniugare la giusta dose di flessibilità e adattabilità con l’esigenza di restare quanto più possibile aderenti alla proposta progettuale. In linea di massima l’orientamento della maggior parte degli enti è favorevole a consentire variazioni limitate e circoscritte purchè queste non snaturino il senso e gli obiettivi del progetto.

î Qualche suggerimento:

n informarsi periodicamente dai referenti delle azioni su come stanno andando le attività e se ci sono problemi (ad esempio creando una mailing list dei referenti). Bisognerebbe evitare di non avere notizie di un partner per tanto tempo e, se questo accade, è bene contattarlo direttamente o proporre un incontro;

n intensificare le comunicazioni soprattutto nelle fasi di avvio o in cui vi sono molte azioni che si sviluppano contemporaneamente;

n nelle riunioni di coordinamento prevedere un momento per fare il punto della situazione delle azioni in corso e di quelle di prossimo avvio;

n limitare le modifiche allo stretto necessario e verificare attentamente se non vi sono le condizioni operative per realizzare l’azione comunque, magari con l’aiuto di altri partner;

n se è necessario, progettare le modifiche insieme al soggetto coinvolto e informare tutti i soggetti interessati della modifica e delle sue eventuali conseguenze su altre attività;

n verificare se vi sono indicazioni specifiche rispetto alla richiesta di modifica. Anche se non formalmente richiesto, si consiglia di comunicare preventivamente all’ente finanziatore, informandolo per iscritto della modifica che si intende apportare ed esplicitando la motivazione.

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La seconda categoria di variazioni riguarda il controllo delle tempistiche. Il progetto ha una durata definita con una data precisa di inizio e di fine, ma durante la realizzazione possono esserci problemi progettuali, organizzativi o amministrativi che rendono necessario la modifica dei tempi. Le situazioni più comuni sono difficoltà nell’avvio delle attività, tempistiche per procedure amministrative o per attività specifiche che si rivelano più lunghe del previsto (ad esempio procedure di gara per la fornitura di beni o servizi, realizzazione, completamento e verifica di interventi tecnici). Il rispetto delle tempistiche è cruciale per il successo del progetto per due ragioni: la prima è che uno slittamento dei tempi impedisce di completare quanto era stato programmato e quindi di raggiungere i risultati previsti. Questa situazione è penalizzante per tutti i progetti, ma specialmente per quelli ad alto contenuto innovativo e sperimentale come quelli sulla sicurezza integrata, perchè non si riesce a dare pienamente conto dell’efficacia dei servizi realizzati. La seconda ragione è connessa all’aspetto economico: in alcuni casi i ritardi nelle attività producono costi maggiori a discapito del budget complessivo, mentre in altri il ritardo prolungato può generare il mancato utilizzo delle risorse determinando la possibilità di restituzione della quota di risorse non utilizzata. Uno dei compiti del responsabile di progetto è verificare periodicamente se le attività si svolgono regolarmente o se ci sono ritardi.

î Qualche suggerimento:

n fare tesoro di esperienze progettuali pregresse per programmare con maggior attenzione le tempistiche delle azioni che hanno determinato difficoltà in passato;

n se non previsto in fase di presentazione della candidatura, predisporre il cronoprogramma del progetto con i partner, facendo in modo che tutti condividano l’articolazione temporale delle attività e del progetto (vedi box nella pagina successiva); se invece era previsto, all’inizio del progetto rivedere il cronoprogramma con i partner verificando che le tempistiche indicate siano ancora realistiche, ed eventualmente aggiornarle;

n organizzare incontri periodici con i partner coinvolti nelle attività che mostrano difficoltà nella gestione delle tempistiche;

n se si chiede una proroga, motivare le cause del ritardo e proporre una nuova data di fine. Per avere una stima realistica della proroga attendere che il progetto sia ben avviato, senza però aspettare troppo.

Non presidiare le tempistiche

incide sui risultati e sul budget

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Tener d’occhio i tempi Il diagramma GANTT (dal nome del suo inventore) è un modo semplice ed immediato per rappresentare graficamente lo sviluppo temporale dell’intero progetto, nonchè la durata e la sequenza delle singole attività che lo compongono (es. attività preliminari ad altre o attività che si svolgono in parallelo). È rappresentato da un diagramma a barre orizzontali, in cui le colonne indicano il tempo (espresso in mesi, settimane o giorni), mentre in orizzontale sono riportate le attività. La lunghezza della barra rappresenta la durata, mentre i due estremi indicano la data di avvio e di conclusione. mesi/settimane/giorni

Attività 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

11

12

Attività 1 Attività 2 Attività 3 Attività 4 Attività 5 Attività 6 Attività 7

Il diagramma di Gantt, oltre ad essere un modo per visualizzare quando ciascuna attività sarà avviata e conclusa (spesso nei bandi si richiede già di indicare la tempistica), permette un controllo in fase di realizzazione, in quanto consente di visualizzare lo scarto tra dove pensavamo di dovere essere in un determinato momento e dove effettivamente siamo, permettendo così di aggiustare il tiro. Il Gantt può dunque rappresentare un supporto concreto e di facile utilizzo per la verifica delle tempistiche, che non va considerato come un documento puramente formale ma come uno strumento di lavoro modificabile e flessibile. Una pratica che ci sembra utile promuovere è quella adottata da alcuni Comuni che hanno inserito la revisione periodica del Gantt nell’ordine del giorno delle riunioni dell’organo di governo del progetto o degli incontri con i partner. In questo modo il piano delle tempistiche è stato discusso e rivisto in corso d’opera con l’obiettivo di verificare se le tempistiche indicate inizialmente erano ancora valide oppure erano da modificare; in questo ultimo caso, si è proceduto elaborando un nuovo Gantt con le nuove tempistiche, pur tenendo conto però della esigenza di concludere entro la data di fine prevista. Questo semplice esercizio, eseguito con cadenza regolare, ha permesso di conseguire un governo e controllo più efficace dei tempi e di portare a termine il progetto alla data prefissata senza slittamenti e ritardi significativi.

La terza ed ultima categoria riguarda le difficoltà che possono insorgere nella gestione delle persone che partecipano al progetto. Nessun progetto può essere gestito, infatti, senza governare le relazioni interpersonali tra i

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suoi diversi partecipanti, cioè il responsabile di progetto, il gruppo di lavoro e il partenariato. Le difficoltà maggiori sono quelle relative a quest’ultimo,

sul cui funzionamento si basa in buona parte il successo del progetto. Il partenariato rappresenta una grande risorsa per l’attuazione dei progetti di sicurezza ma anche un’occasione potenziale di conflitto. Le difficoltà che possono influire negativamente sull’operatività dei partner dipendono

dalla loro numerosità (più sono i soggetti coinvolti, maggiori sono le difficoltà potenziali), eterogeneità (far lavorare insieme soggetti molto diversi richiede uno sforzo maggiore per trovare un linguaggio e modalità operative comuni), dal possibile diverso rapporto con il promotore (soggetti che hanno sviluppato forme di collaborazione stabile in altri campi o in precedenti progetti e soggetti che sono nuovi) e infine dalle dinamiche che si instaurano tra di loro (collaborative, cooperative, conflittuali). In più, va ricordato che il partenariato è un elemento dinamico che può essere soggetto a cambiamenti che potrebbero minarne la stabilità, come ad esempio la variazione nella sua composizione (aggiunta di nuovi partner o partner che abbandonano il progetto) o il cambio dei responsabili dei partner. È quindi necessaria, fin dall’origine, una chiara divisione delle responsabilità e dei compiti di ogni soggetto coinvolto e un coordinamento attento da parte del responsabile del progetto per bilanciare le inevitabili differenze all’interno del partenariato e tenere sotto controllo l’emergere di prospettive prevalenti sulle altre. Vi sono situazioni in cui potrebbe apparire conveniente adottare modalità operative per semplificare la gestione delle spese e la rendicontazione; quando l'entità del progetto è limitata e la sua articolazione non particolarmente complessa, ad esempio, potrebbe risultare più funzionale accordarsi in maniera che il soggetto beneficiario del contributo sia l'unico soggetto con capacità di spesa. Una soluzione di questo genere ha l'indubbio vantaggio di accorpare su un unico soggetto la responsabilità e la tenuta contabile, ma potrebbe rischiare tuttavia di compromettere seriamente l'operativiità del partenariato. î Qualche suggerimento:

n in fase di progettazione è importante scegliere partner coerenti con gli obiettivi e le azioni che si intende realizzare; si possono scegliere soggetti già conosciuti in esperienze pregresse o soggetti nuovi, l’importante è la loro motivazione e interesse al progetto;

Il partenariato è una risorsa che deve essere gestita e coordinata

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n cercare di creare tra i partner un senso di appartenenza al progetto, valorizzandolo come occasione di lavoro di gruppo, non soltanto come una mera somma delle azioni fatte da ciascuno;

n strutturare un processo decisionale attraverso consensi di gruppo, nel quale ogni partner si possa riconoscere;

n apprezzare il lavoro svolto, far rispettare le scadenze con la giusta dose di flessibilità e autorevolezza;

n creare un rapporto di reciproca stima, avere atteggiamenti chiari e aperti al dialogo, rispettare le differenze di pensiero, creare un clima di credibilità e rispetto;

n responsabilizzare i partner attraverso una chiara definizione dei ruoli e delle responsabilità di ciascuno, far capire i vincoli del progetto.

Governare la spesa Se si considera un progetto come un insieme di interventi caratterizzati da tre elementi circoscritti, definiti e vincolanti - oggetto, tempi e risorse - è evidente che soltanto la pianificazione e il governo di tutti questi aspetti possono assicurare il buon esito degli interventi previsti, adottando al

contempo le misure per l’eventuale riprogettazione in itinere. Da questo punto di vista, la pianificazione delle spese dovrebbe essere considerata un aspetto centrale della progettazione, come un qualcosa che va al di là della semplice redazione del budget inteso come il

piano finanziario preventivo del progetto: è, infatti, in sede di progettazione che vanno pensate e definite tutte le misure necessarie al governo della spesa in relazione ai tempi e ai modi di realizzazione degli interventi. Questo aspetto è tanto più rilevante quanto più le dinamiche di un progetto si intrecciano non soltanto con i vincoli propri del soggetto gestore, siano essi di carattere normativo o di prassi organizzativa, ma anche con quelli eventualmente dettati dall’ente o dal programma cui si fa richiesta di finanziamento. In questo caso, oltre agli elementi specifici del progetto - inteso come piano di interventi tesi al perseguimento di obiettivi e risultati - dovranno ovviamente essere tenuti in considerazione anche tutti quegli elementi che rappresentano le condizioni o i vincoli per concorrere all'acquisizione di un finanziamento. È naturale che siano proprio le specifiche del programma di finanziamento a

La pianificazione delle spese di un progetto deve rispettare i vincoli interni ed esterni

3

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rappresentare gli elementi di maggiore attenzione nella definizione della proposta progettuale e, soprattutto, del piano finanziario. Sono aspetti che incidono in maniera rilevante sia nella progettazione, sia nella gestione del piano economico degli interventi. Nel primo caso, i vincoli sono principalmente riferiti all'ammissibilità delle spese (cosa può essere finanziato e cosa è escluso), alla loro eleggibilità (entro quale arco di tempo le spese sono rimborsabili), al principio di addizionalità e alla conseguente quota di cofinanziamento (in quale percentuale è richiesta una partecipazione del beneficiario al progetto). Nel secondo caso, nelle dinamiche di gestione della spesa intervengono altri elementi che stanno ai vincoli normativi (es. obbligo di procedure di evidenza pubblica) o organizzativi (es. capacità di gestire anticipi in forma di flussi di cassa, modalità di gestione del personale, ecc.). Trattandosi, tuttavia, di materia estremamente vasta ed eterogenea (si pensi alla normativa europea in materia di sovvenzioni, alla legislazione nazionale o a quella che sovrintende la gestione economico-finanziaria degli enti locali), quello su cui si ritiene opportuno insistere sono gli aspetti di management della spesa, rimandando ad altra sede le specifiche di ogni singolo contesto organizzativo e gestionale.

Pianificare la spesa

Redigere il piano finanziario di un progetto, sebbene sia condizionato dalla complessità degli interventi previsti, è un’operazione più semplice di quanto si pensi, a condizione che si tengano in considerazione alcuni elementi comuni ad ogni tipologia di interventi. Una prima difficoltà che si può presentare nella fase di pianificazione è come organizzare il budget. Oggi questo non rappresenta un grande problema in quanto la più parte dei soggetti finanziatori - siano essi pubblici o privati - utilizza modelli e formulari di budget predefiniti, spesso organizzati per capitoli di spesa (personale, acquisto di beni e servizi, ecc.). L’articolazione per capitoli di spesa è una modalità molto diffusa in quanto consente all’ente finanziatore di verificare in modo più efficace la tipologia di spesa proposta, individuando facilmente eventuali squilibri, e agevola le verifiche in sede di rendicontazione. Domande cui sarebbe importante dare risposta in fase di pianificazione finanziaria - quanto costa il management del progetto e l’attività di cura del partenariato, quanto deve "pesare" finanziariamente l'attività di diffusione, quanto costa il monitoraggio e la valutazione, qual è la quota ragionevole per coprire imprevisti che potrebbero determinarsi - quasi mai trovano risposta all'interno di un budget organizzato per centri di costo, che si misura con l'incidenza delle diversi

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voci presenti nel formulario spesso "a prescindere" dalla loro reale coerenza con le azioni. Quando questo accade tutti i problemi, invisibili in sede di progettazione, diventano rilevanti in fase di realizzazione, costringendo a modifiche del piano finanziario, indipendentemente dalle reali dinamiche progettuali (su questo si veda il paragrafo che segue). Per superare questa asimmetria, una possibile soluzione è quella di uniformare la struttura del budget al processo di progettazione, articolando innanzitutto la spesa per azioni e attività, e “ribaltandola” successivamente nei centri di costo del budget. Nella definizione del piano finanziario di un progetto, la prima cosa che occorre avere ben presente è la capacità di pianificare nel dettaglio l’andamento finanziario del progetto; ciò significa saper individuare con chiarezza le spese che devono essere sostenute per realizzare tutte le attività previste del progetto, agendo in previsione sulle variabili che lo compongono. In concreto, al contrario, quasi sempre la definizione del budget avviene a partire dalla disponibilità potenziale di finanziamento, ottimizzando le uscite in funzione di questa. Ciò che dovrebbe essere una essenziale opera di "ottimizzazione e bilanciamento" del budget diventa,

invece, elemento costitutivo e condizionante il processo di pianificazione. Quando questo accade, invece di dare un "peso" alle cose che si intendono realizzare, si opera attraverso la suddivisione di una "torta" potenziale. Gli effetti distorsivi di questo approccio possono essere

molto rilevanti, il più importante dei quali è la sottovalutazione di costi per attività che non si considerano indispensabili, ma che al loro manifestarsi incideranno in modo negativo sulla gestione della spesa. Per evitare di incorrere in questi rischi e procedere correttamente, è preferibile partire dalle spese necessarie a ogni singola azione del progetto, facendo attenzione a non tralasciarne alcuna. Per far questo si può procedere seguendo l’impianto progettuale dell’iniziativa, definendo via via i costi necessari a realizzare ogni singola azione del progetto. Una volta completata la disamina dei costi, dovrebbe risultare abbastanza agevole accorpare le spese per centro di costo così come richiesto dal formulario. Per individuare le spese delle attività può essere di aiuto usare come traccia alcune domande, come per esempio: î di chi ho bisogno? Di quali e quante risorse? î cosa mi serve? î per quanto tempo? î quanto mi costa? î come posso produrre economie?

Per un buon budget è importante individuare nel dettaglio tutte le spese da sostenere

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î quali ipotizzo saranno le mie necessità di cassa nel corso del progetto?

Le risposte a queste domande, messe in relazione con il piano di attività previsto, consentono di attribuire un costo economico alle voci, permettendo una valutazione dell'incidenza di ciascuna sia in fase di programmazione, sia quando sarà necessario governare la spesa. Così come per altri aspetti del progetto (governo delle attività, rispetto dei tempi), tanto più il piano finanziario sarà progettato e organizzato nel suo dettaglio e tanto più agevole sarà il suo governo, intendendo con questo la capacità di intervenire tempestivamente nella gestione della sua evoluzione, sino al processo di rendicontazione.

Macrovoci di spesa Tipologie di costi Costi relativi al personale impegnato nel progetto

Direzione e nel coordinamento Staff impegnato nella realizzazione delle azioni Segreteria e amministrazione Personale esterno (es. valutatore esterno)

Costi per l’acquisto e/o il noleggio di beni strumentali e immobili funzionali al progetto

Acquisto e/o noleggio attrezzature Affitto sedi per interventi di ristrutturazione Interventi di riqualificazione spazio pubblico

Costi per l’acquisto di beni e costi relativi all’utilizzo di beni strumentali

Acquisto servizi Spese di utilizzo di beni strumentali

Costi per attività di formazione e per consulenze esterne funzionali al progetto

Compensi dei formatori Compensi dei consulenti Affitto aule, materiali e dispense

Costi per seminari, trasferte previste dal progetto

Spese di viaggio e trasferte Vitto e alloggio Affitto sale Materiale

Costi per attività di informazione e comunicazione

Grafica e stampa materiale del progetto Strumenti di diffusione Predisposizione sito web Organizzazione eventi di promozione e diffusione del progetto

Connettere la spesa all'andamento del progetto

Generalmente la gestione finanziaria e amministrativa del progetto quasi mai è considerata materia che compete al management. Si ritiene che governare le finanze di un progetto sia questione eminentemente contabile, tutt'al più connessa all'attività di rendicontazione delle spese. Anche per questa ragione, forse, chi si trova a valutare un progetto dal punto di vista finanziario si trova spesso a fare i conti con situazioni nelle quali "i conti

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tornano", ma la coerenza tra obiettivi ex-ante e risultati ex-post appare difficilmente riscontrabile. Quando si parla di governo della spesa, è importante evidenziare che non ci si riferisce tanto alla corretta gestione delle spese e alla regolare tenuta contabile - aspetti che sono il presupposto di una corretta realizzazione di un progetto - quanto piuttosto alla possibilità di acquisire le competenze e gli strumenti necessari per intervenire tempestivamente sugli elementi che stanno ai flussi di spesa. Questo è particolarmente significativo in quanto ogni progetto, nella sua concreta realizzazione, conosce evoluzioni e criticità che spesso hanno grande rilevanza dal punto di vista della spesa. Si tratta di situazioni critiche che rimandano a due circostanze distinte: una, relativa alla fisiologica attività di rimodulazione del budget in relazione all'evoluzione del progetto; l’altra, invece, conseguenza di situazioni che, a causa dello scarso controllo della spesa, influiscono negativamente sulla realizzazione. Avere una buona capacità di governo della spesa, grazie al fatto di essersi dotati di un piano finanziario efficace in sede di progettazione, consente di intervenire in modo virtuoso nella rimodulazione dei piano dei costi in itinere, agendo in modo opportuno a fronte di cambiamenti intervenuti (es. risparmi, nuovi costi, imprevisti), avendo chiara qual è l'evoluzione della spesa in relazione alle attività. Per far questo, occorre dotarsi di strumenti di monitoraggio della spesa e di controllo di gestione che consentano di intervenire in modo flessibile e dinamico, in stretta relazione con quanto accade. Non si tratta, quindi, di registrare semplicemente i costi affrontati (in termini di liquidazione e/o di impegni di spesa), quanto di intervenire costantemente nella dinamica tra quanto previsto, quanto impegnato, e quanto liquidato. In questo modo, la spesa - articolata per azioni progettuali - diviene parte di un processo dinamico e dialogico con la realizzazione delle attività, consentendo di intervenire in tempo per prevenire eventuali criticità. Al contrario non avere il controllo della spesa, o averlo soltanto dal punto di vista formale e contabile, - perché non lo si è pianificato in fase di progettazione - sottopone al rischio di trovarsi a gestire criticità senza avere gli strumenti per farlo in modo adeguato e tempestivo. Se, quindi operare alla rimodulazione del budget del progetto qualora sorgano esigenze progettuali che la giustifichino è un’operazione opportuna perché risponde alla necessità di assecondare un cambio della strategia d'intervento al fine di perseguire meglio gli obiettivi dati, ben altra cosa è invece trovarsi a dover intervenire sulle dinamiche della spesa perché non si è stati in grado di pianificarne gli effetti evolutivi nel corso del progetto. Nella gestione della spesa si dovrà comunque sempre tener conto di tre

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vincoli esistenti quali î il budget preventivo, al quale il rendiconto consuntivo dovrà avvicinarsi

il più possibile; î le regole stabilite dal programma e dall’ente finanziatore per quanto

riguarda ad esempio l’importo massimo del progetto e delle voci di spesa, i limiti per le variazioni e gli spostamenti tra voci di spesa, eventuali spese obbligatorie previste (es. le spese per la certificazione del bilancio, per la valutazione esterna, per la garanzia fideiussoria);

î le spese previste per le singole azioni del progetto e le eventuali rimodulazioni.

Gestire la rendicontazione La rendicontazione delle spese sostenute nella realizzazione di un progetto, che avviene solitamente alla fine delle attività, è tra le attività più rilevanti che coinvolgono la gestione contabile e amministrativa. Lo scopo di produrre rendiconti sull'uso delle risorse finanziarie, prassi indispensabile nel caso di finanziamenti che debbono essere giustificati, oggi assume una rilevanza particolare sia nell'ambito delle relazioni interne al partenariato, sia nel caso in cui l’organizzazione responsabile del progetto si sia dotata di (o abbia l’intenzione di adottare) strumenti per "rendere conto" ai beneficiari e agli stakeholder sull’utilizzo delle risorse economiche a disposizione. Come detto in precedenza, tanto più la pianificazione della spesa e la sua gestione avvengono in modo coerente con la concreta realizzazione delle attività previste nel progetto, tanto più agevole sarà il processo di rendiconto. In generale, qualora si tratti di un progetto che ha beneficiato di finanziamenti da fonti esterne (europee, nazionali, locali), la procedura di rendiconto è definita dal soggetto finanziatore e prevede di norma la presentazione di un bilancio consuntivo e di pezze giustificative delle spese. Quando si tratta di progetti complessi o realizzati in un arco temporale medio lungo, è bene impostare il processo di rendicontazione (raccolta dei dati di spesa e delle pezze giustificative) sin dalla fase iniziale del progetto per evitare errori o dimenticanze. Nel caso di progetti realizzati in partenariato è indispensabile, inoltre, coinvolgere sin da subito i responsabili amministrativi degli enti partecipanti nel processo di rendiconto. La gestione e rendicontazione creano spesso qualche apprensione, specie negli enti di piccole dimensioni o non abituati a procedure rendicontative che richiedono attenzioni particolari. La principale difficoltà è che talvolta vi è poca comunicazione tra chi gestisce il progetto e chi si occupa degli aspetti gestionali e amministrativi, o che il responsabile

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amministrativo non conosce a fondo il progetto o le regole stabilite dal programma o dall’ente finanziatore per la gestione amministrativa. È compito del soggetto capofila assicurarsi che vi sia la massima chiarezza e informazione su questi aspetti, fornendo tempestivamente tutte le indicazioni necessarie alla corretta registrazione delle spese, alla definizione di sistemi di raccolta e organizzazione della documentazione rilevante, e alla predisposizione del rendiconto finale. Ciò consente di mantenere un costante controllo sulle operazioni gestionali e procedurali e quindi di evitare situazioni che possano dare luogo a contestazioni in sede di verifica. Al fine di facilitare il processo di rendicontazione delle spese, è buona norma dotarsi di strumenti che permettano di quantificare per tempo i costi eleggibili pro quota (segnatamente il personale dedicato in modo non esclusivo alle attività del progetto e gli eventuali beni strumentali soggetti ad ammortamento). Da questo punto di vista, anche quando non espressamente richiesto, può essere d'aiuto l'adozione di timesheet (fogli presenza) per la quantificazione del monte ore dedicato al progetto e di prospetti di calcolo delle quote di ammortamento dei beni strumentali, i quali andranno rendicontati per la quota di ammortamento riferita all'arco temporale di realizzazione del progetto.

Monitoraggio e valutazione

Il monitoraggio e la valutazione costituiscono elementi chiave nel ciclo di vita di un progetto e dovrebbero essere parte integrante ed essenziale del processo di attuazione. Nella realtà, tuttavia, questo non sempre avviene. Le esperienze condotte dalla Regione Piemonte4 sulle iniziative locali in materia di sicurezza realizzate negli ultimi anni hanno evidenziato che il tema del controllo a fini valutativi è considerato da molti un aspetto marginale e non rilevante per l’operatività. Tranne poche eccezioni, la valutazione è vista principalmente in termini simbolici e non come una attività integrata e funzionale all’intero processo. Quest’ultimo aspetto emerge già nella fase di progettazione, in cui le attività di monitoraggio e valutazione occupano uno spazio limitato, sono descritte in termini teorici e vaghi e, a differenza delle altre attività, non hanno quasi mai una quota di risorse a esse dedicata.

Impostare con i partner la

rendicontazione sin dall’inizio del

progetto è di grande aiuto

4

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Regione Piemonte / Manuale per la progettazione di politiche e interventi sulla sicurezza integrata 125

La valutazione non dovrebbe essere un'azione discrezionale, soprattutto oggi che si va sempre più affermando l’esigenza di rendere conto internamente e nei confronti di soggetti terzi (soggetto finanziatore, stakeholder, la comunità nel suo complesso, ecc) delle attività svolte, dei risultati ottenuti e dell'impiego di risorse. Se la valutazione di un progetto è necessaria in tutti i casi, diviene ancor più fondamentale nei progetti pilota o sperimentali come nel caso degli interventi sulla sicurezza integrata realizzati in Piemonte, nei quali l’efficacia non è garantita a priori e la ricerca di aspetti innovativi è parte dell’obiettivo stesso della sperimentazione. Altrettanto fondamente nel caso dei progetti sulla sicurezza è individuare e sperimentare modalità valutative in grado di misurare l’efficacia degli interventi che riguardano ambiti sociali, quali ad esempio quelli di sensibilizzazione, animazione e sviluppo territoriale, che hanno un forte carattere di informalità e immaterialità che li rende difficili da valutare in modo sistematico. Per accrescere la consapevolezza e la chiarezza nei progetti, il monitoraggio e la valutazione dovrebbero ricevere una maggiore considerazione da parte di tutti i soggetti coinvolti; così come nella ricerca risulta scontata la rilevanza che occupa la raccolta del dato rispetto all’analisi, così il monitoraggio e la valutazione dovrebbero rivestire un’importanza particolare in quanto processo che afferisce a tutte le fasi di realizzazione degli interventi. Prima di passare all’approfondimento sul monitoraggio e sulla valutazione nei prossimi paragrafi, è opportuno fare alcune osservazioni di carattere generale. La prima riguarda lo stretto legame esistente tra queste due attività. Seppur siano processi distinti, sono strettamente correlati tanto che a volte si parla di un unico processo valutativo composto dalle due fasi.

Entrambi gli strumenti hanno lo scopo di misurare e verificare l’attuazione dei progetti, e di valutarne gli impatti in termini quantitativi e qualitativi. Tale correlazione non significa, tuttavia, che siano sovrapponibili o alternativi l’uno all’altro. Sono entrambi processi

funzionali alla buona esecuzione del progetto e agiscono in maniera simile ma, come si vedrà di seguito, hanno finalità e modalità attuative diverse. La seconda osservazione, che si ricollega alla prima, riguarda il basso livello di conoscenza e competenza su questi temi. In l’Italia la cultura della valutazione è ancora poco diffusa o circoscritta ad alcuni settori specifici

Rendere conto delle attività svolte e dei

risultati ottenuti oggi è prioritario

Conoscenze e competenze limitate generano uno scarso e errato uso del monitoraggio e della valutazione

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come quello accademico, aziendale e consulenziale. La forte correlazione tra le due attività è una delle ragioni alla base della confusione e dello scarso (o errato) utilizzo del monitoraggio e della valutazione nei progetti. Capita che i due termini siano talvolta confusi o usati indifferentemente. In particolare questo è più frequente negli enti e nelle organizzazioni dove non vi sono competenze professionali specifiche su questi ambiti, né vi sono professionalità esterne cui delegare la valutazione (al di là dei casi in cui ciò è specificatamente richiesto, come ad esempio in molti progetti europei).

Infine, nei progetti sulla sicurezza l’approccio più efficace al monitoraggio e alla valutazione è quello basato su processi partecipati che coinvolgono i diversi soggetti implicati nel progetto. Ciò allo scopo di arricchire la raccolta di informazioni rilevanti e permettere una loro lettura e analisi più approfondita. Partecipare al processo valutativo è anche un’attività formativa che aiuta a far riflettere i partecipanti sulla propria azione in modo critico, condividere i vissuti dei soggetti e a far circolare idee ed esperienze. Se si considera l’impatto di un progetto sull’attività delle organizzazioni, è chiaro che adottare un approccio di questo tipo non è semplice perché richiede tempo, capacità e competenze nel definire forme e modalità in grado di favorire la partecipazione. Un processo basato sulla partecipazione è una sfida impegnativa, ma al contempo un’esperienza che contribuisce a raggiungere il fine della valutazione, che è di migliorare l’efficacia e la qualità dei progetti, promuovere la crescita delle organizzazioni e delle persone coinvolte.

Principali differenze tra monitoraggio e valutazione

Monitoraggio Valutazione cos’è raccolta di dati e di

informazioni sul progetto per la comprensione del suo andamento

giudizio sul valore di un progetto in relazione a certi criteri o indicatori prestabiliti

finalità informativa, conoscitiva analitica, valutativa

perché si fa per tener sotto controllo i diversi aspetti del progetto per fornire dati alla valutazione

per valutare l’efficacia, l’efficienza, l’impatto e la sostenibilità di un progetto per confrontare i risultati ottenuti con quelli previsti per introdurre miglioramenti nei processi

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quando costantemente, durante tutto il progetto

in determinati momenti del progetto

Fonte: rielaborazione da Plebani M., Lorenzi A. (2009, p. 87).

Il monitoraggio

Il monitoraggio è l’esame continuo e sistematico delle attività che si svolge nel corso del progetto. È un processo continuativo che inizia con l’avvio della fase di realizzazione e si conclude al termine delle attività. Effettuare il monitoraggio di un intervento significa quindi descrivere e verificare l’andamento delle azioni in momenti programmati sulla base di un’attività di rilevazione ed elaborazione continua. La finalità del monitoraggio è conoscitiva, serve cioè a raccogliere i dati sullo stato di avanzamento del progetto e a segnalare eventuali scostamenti rispetto a quanto previsto (risponde alla domanda “stiamo facendo le cose come avevamo progettato di farle?”). Il monitoraggio non deve essere inteso come un mero controllo su quanto realizzato, ma come un’attività che consente di anticipare eventuali criticità al fine di adottare tempestive azioni correttive. Le informazioni raccolte attraverso l’attività di monitoraggio consentono di verificare se il piano di lavoro si sta svolgendo in maniera coerente a quanto inizialmente programmato e di conseguenza quali sono gli eventuali cambiamenti che si rendono necessari per assicurare la corretta implementazione e il raggiungimento dei risultati attesi. I dati rilevanti che è utile raccogliere dipendono dalla tipologia, dimensione e durata del progetto. Nella fase di progettazione si deve pianificare il monitoraggio strutturandolo in base alle caratteristiche e finalità dell’intervento. Un progetto poco articolato e di breve durata avrà un piano di monitoraggio diverso da un intervento complesso e che si svolge su più annualità; così come il monitoraggio di un intervento volto al rafforzamento dell’azione della polizia locale sarà diverso rispetto a quello di riqualificazione di un’area del territorio. Al di là delle peculiarità di ogni progetto, un monitoraggio efficace si basa sulla disponibilità di un insieme di dati che consentono la verifica dell’andamento delle azioni (quali azioni sono state svolte? vi è stata un’attività di ri-progettazione? quali azioni non sono state realizzate? quali variazioni al piano di lavoro sono necessarie?), delle tempistiche (le azioni svolte hanno rispettato le tempistiche previste? ci sono state difficoltà? come sono state superate?), del funzionamento del partenariato (tutti i partner sono coinvolti attivamente? vi sono variazioni o criticità all’interno del partenariato che rischiano di compromettere il progetto?), del livello di

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utilizzo delle risorse economiche (il livello di utilizzo delle risorse è coerente con il grado di realizzazione delle azioni e con le previsioni? vi sono criticità nell’utilizzo delle risorse?). Per svolgere l’attività di controllo dell’avanzamento è necessario che ci sia una raccolta metodica delle informazioni. Per questo, è necessario definire a priori la periodicità della raccolta dei dati: tale frequenza è strettamente collegata alle fasi di sviluppo delle attività e al livello di dettaglio con cui si vuole monitorare il progetto. Una raccolta di dati con una frequenza troppo accentuata rischia di essere improduttiva e a portare a dati non rilevanti, o alla mancanza di comunicazione degli stessi. Dall’altra parte, una raccolta poco frequente può portare ad avere uno scarso controllo di come il progetto sta procedendo. A questo proposito bisogna tenere presente che la disponibilità delle persone a dedicare tempo per raccogliere e fornire dati è spesso piuttosto limitata. È compito del referente di progetto individuare il giusto equilibrio tra livello di dettaglio, frequenza e impegno richiesto a chi deve fornire le informazioni, e condividerlo con tutti i soggetti coinvolti. Il monitoraggio può essere svolto attraverso la predisposizione di documenti periodici sullo stato di avanzamento e attraverso modalità informative e comunicative informali tra il referente e i partner. I primi generalmente consistono in resoconti delle azioni prodotti a cadenza predefinita (mensile, bimestrale, ecc) nei quali ciascun soggetto dà conto di quanto effettivamente realizzato, fornendo laddove possibile un riscontro attraverso dati quantitativi e qualitativi. I resoconti sono normalmente richiesti in momenti significativi del progetto in modo da consentire al referente di presentare i progressi del progetto nelle riunioni di coordinamento. Accanto a modalità formali, l’informazione e aggiornamento ai fini del controllo progettuale avviene anche attraverso modalità informali basate su relazioni di dialogo e di confronto tra il referente e i partner e sull’utilizzo di strumenti di comunicazione. Un sistema di monitoraggio è molto utile sul piano operativo poiché contribuisce a facilitare il processo di gestione, rafforza la credibilità del progetto, motiva i partecipanti, ed è in grado di trasferire i benefici ottenuti. Le analisi condotte sulla base dei dati raccolti forniscono indicazioni fondamentali per chi deve coordinare e gestire il progetto: si pensi, ad esempio, al monitoraggio svolto a metà progetto che consente di “correggere il tiro” in corso d’opera, apportando modifiche e misure correttive senza le quali si sarebbe potuto mettere a rischio la riuscita di tutto l’intervento. In aggiunta, il controllo costituisce una fase importante del

Definire a priori come, quando e

su cosa fare il monitoraggio è

essenziale

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riconoscimento della leadership del responsabile del progetto; questo lavoro richiede di fare il punto sull’avanzamento rispetto al piano di lavoro, di analizzare formalmente gli scostamenti e decidere le azioni per ridurre il loro impatto sul progetto. Come si vedrà in seguito, oltre a permettere una migliore gestione, i dati di monitoraggio costituiscono anche un elemento importante per informare altre attività progettuali quali la valutazione e la valorizzazione dei risultati.

Esempi di strumenti di monitoraggio Tipologia di informazione Strumento di monitoraggio gestione operativa documenti periodici di avanzamento

rapporti di monitoraggio relazione intermedia del progetto

gestione finanziaria atti amministrativi dei soggetti verifiche intermedie interne al progetto rendicondazioni periodiche della spesa (se previste)

gestione delle comunicazioni

strumenti di comunicazione formale e informale corrispondenza con i partner e con il soggetto promotore

La valutazione La valutazione è il giudizio, il più sistematico e obiettivo possibile, su un intervento che tiene conto di tutti i suoi elementi qualificanti: l’impianto, la realizzazione, i risultati e gli impatti (risponde alle domande “stiamo facendo la cosa giusta? e “la stiamo facendo nel modo giusto?”). È, inoltre, uno strumento di apprendimento e dialogo che fornisce indicazioni volte a orientare progettualità future sulla base degli esiti dell’esperienza fatta. A differenza del monitoraggio che è un’attività continua, la valutazione viene effettuata generalmente una tantum e in un momento preciso e definito del progetto. I manuali di progettazione identificano quattro momenti in cui può essere effettuata, a seconda che si svolga prima, durante o dopo lo svolgimento di un intervento: si parla di valutazione ex-ante (quando viene fatta nella fase precedente la decisione di elaborare una proposta progettuale), in itinere (quando viene fatta nel corso dell’attuazione del progetto), finale (quando è effettuata contestualmente alla conclusione del progetto) e ex-post (quando avviene dopo un certo periodo di tempo dalla fine del progetto). A seconda del momento in cui è fatta, la sua finalità varia, passando da un esame della fattibilità della proposta, alla verifica dello scarto tra risultati raggiunti e risultati attesti e infine alla valutazione

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dell’impatto di quanto realizzato. Soltanto gli interventi molto articolati e con dimensioni finanziarie rilevanti prevedono più forme di valutazione, e in questi casi vi sono procedure standard ben definite (come ad esempio nei progetti di cooperazione internazionale finanziati dal Ministero degli Affari Esteri). Nella quasi totalità degli interventi la valutazione è fatta alla fine del progetto. Raramente e solo in determinate condizioni si procede anche ad una valutazione in itinere. Questa può essere un utile momento di verifica interna al progetto quando i dati raccolti dal monitoraggio segnalano criticità particolari o uno scostamento significativo rispetto a quanto era stato programmato (ad esempio dovuto a inadeguate previsioni iniziali, alla sottostima dei tempi, alla sovrastima dei risultati da raggiungere), quando il progetto è di grande dimensioni o ha un’elevata componente di innovazione e rilevanza strategica. Questa situazione spesso viene confusa con il monitoraggio in itinere. Anche se entrambi avvengono nel corso della realizzazione, la differenza è sostanziale: mentre il monitoraggio si concentra sugli scostamenti tra le azioni realizzate e quelle previste, la valutazione in itinere ha l’obiettivo di individuare i motivi del ritardo o del mancato raggiungimento degli obiettivi, verificare che l’andamento rimanga conforme ai criteri iniziali di rilevanza, efficacia, efficienza e sostenibilità, e di formulare proposte per superare la fase critica. Un’ulteriore differenza è data dal fatto che il monitoraggio in itinere è una delle fonti sulle quali si fonda la valutazione in itinere, mentre non avviene il contrario. La maggior parte dei progetti si confronta con la valutazione finale che consiste in una sintesi di tutti gli elementi inerenti la realizzazione del progetto in grado di illustrare il grado di raggiungimento dei risultati raggiunti ed evidenziare l’esperienza attraverso l’analisi dell’impatto, della sostenibilità e trasferibilità del progetto. L’analisi alla base della valutazione di un progetto si concentra su alcuni criteri. I principali sono: î efficienza: indica la misura dell’ottimizzazione nell’utilizzo delle risorse

per conseguire i risultati prefissati. Per valutare l’efficienza, è utile considerare le seguenti domande: i risultati sono stati conseguiti con i costi previsti? I risultati sono stati raggiunti nei tempi previsti? La strategia di realizzazione seguita poteva essere realizzata in un modo più efficiente (minori costi o minori tempi)? C’erano alternative migliori?

î efficacia: misura il grado di raggiungimento degli obiettivi. Per valutare l’efficacia, è utile considerare le seguenti domande: in che misura gli

Come agiscono il monitoraggio e la valutazione

in itinere

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Regione Piemonte / Manuale per la progettazione di politiche e interventi sulla sicurezza integrata 131

obiettivi sono stati raggiunti? In che misura le caratteristiche della realizzazione sono coerenti con gli obiettivi? Quali sono stati i fattori che hanno influenzato (positivamente o negativamente) il raggiungimento degli obiettivi?

î impatto: misura gli effetti, previsti e non previsti, del progetto sul contesto di riferimento. Per valutare l’impatto, è utile considerare le seguenti domande: qual è l’impatto ottenuto? Quali sono i cambiamenti determinati dal progetto?

î sostenibilità: indica la capacità del progetto di continuare a produrre effetti al di là della conclusione delle attività (vedi capitolo 2). Per valutare la sostenibilità, è utile considerare le seguenti domande: in quale modo i benefici del progetto continuano dopo la conclusione delle attività? In che modo si è valutata la sostenibilità dell’iniziativa?

Oltre a esplicitare il grado di risultati raggiunti, la valutazione finale ha due ulteriori finalità importanti. La prima è che contribuisce a migliorare la qualità dei progetti attraverso l’analisi di cosa ha funzionato e cosa che non ha funzionato, e perché; i risultati della valutazione, basati sull’esperienza conclusa, possono contribuire a avviare un cambiamento nell’ideazione e realizzazione di progetti futuri. Inoltre, la valutazione rende disponibili dati sui risultati raggiunti che possono essere resi visibili e diffusi al soggetto finanziatore, ai beneficiari e alla comunità locale di riferimento.

Modalità per condurre una valutazione

Nell’impostare un’attività di valutazione occorre prestare attenzione alla finalità e al tipo di informazione che si intende ottenere, alle tempistiche in cui farla, e infine alla metodologia da adottare. Allo scopo di fornire un aiuto concreto nella scelta del metodo, di seguito sono descritte sinteticamente alcune delle principali dicotomie relative alle modalità per realizzare la valutazione. Valutazione quantitativa o qualitativa a seconda degli strumenti utilizzati. Gli strumenti qualitativi includono interviste, focus group e analisi di documenti, mentre quelli quantitativi si basano sulla raccolta di variabili e indicatori numerici. La scelta di un approccio qualitativo o quantitativo alla valutazione dipende sia dal tipo di informazioni disponibili sia dall’aspetto che si vuole valutare. Se si vogliono valutare aspetti quantitativi, gli strumenti quantitativi offrono un’efficacia migliore, mentre se si vogliono verificare aspetti qualitativi di un progetto, come ad esempio il livello di soddisfazione dei beneficiari, è preferibile utilizzare strumenti qualitativi. Di norma la valutazione è una combinazione di strumenti quantitativi e qualitativi.

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Valutazione interna o esterna a seconda del soggetto che la effettua. La valutazione si definisce interna (o autovalutazione) quando è condotta da un soggetto direttamente coinvolto nel progetto oggetto della valutazione. Il vantaggio principale risiede nella conoscenza profonda e diretta del progetto che può facilitare la realizzazione della valutazione; il limite maggiore è che la valutazione è svolta dallo stesso soggetto attuatore aumenta il rischio di autoreferenzialità e a volte non consente un’analisi realmente obiettiva. Si parla di valutazione esterna, invece, quando il compito viene affidato ad una persona esterna al progetto, solitamente un valutatore professionista. In questo modo si mettono a disposizione competenze tecniche di alto livello, ma che non necessariamente sono sempre in grado di cogliere tutti gli aspetti del progetto. Per mitigare questo rischio, è consigliabile coinvolgere sin dalle prime fasi del progetto il valutatore in modo che possa seguire tutte le sue diverse fasi. Valutazione partecipata o non partecipata a seconda del livello di coinvolgimento dei soggetti coinvolti nel progetto (partner, beneficiari). Così come nei progetti, anche nella valutazione si è affermata la necessità di coinvolgere attivamente i diversi soggetti interessati. La valutazione partecipata richiede investimento in termini di tempo e di risorse e quindi è da privilegiare laddove il contributo dei diversi soggetti sia realmente significativo.

Valorizzare i risultati

L’ultimo paragrafo è dedicato al tema della valorizzazione dei risultati di un intervento. Così come l’attenzione agli aspetti gestionali è un “ingrediente” fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi, così anche la cura della promozione dei risultati è centrale nel determinare il successo dell’intervento. Un progetto che persegua gli obiettivi senza un’adeguata attività di valorizzazione sarà un intervento soltanto parzialmente riuscito. I progetti, infatti, devono avere anche un potenziale di replicabilità e trasferibilità che si esprime proprio attraverso l’azione di diffusione e promozione. Nella definizione della proposta progettuale è importante quindi dedicare un po’ di tempo e di attenzione a pianificare un’azione di diffusione che valorizzi le tappe fondamentali. Perché sia efficace, l’attività di diffusione e promozione deve essere progettata ex-ante e accompagnare l’intero progetto; al contrario molto spesso avviene che sia circoscritta alle sole fasi finali dell’intervento con il rischio di tralasciare aspetti significativi del progetto che meriterebbero di essere valorizzati. Un’azione di diffusione ben

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costruita si fonda invece su un processo continuo che permette di definire quali strumenti possano promuovere e valorizzare al meglio gli elementi di

innovazione e trasferibilità presenti in tutte le diverse fasi, non solo in quelle finali. Pianificare un’azione di questo tipo ha ovviamente anche un risvolto sulla pianificazione economica del progetto dal momento

che le spese per la diffusione dei risultati andranno previste e inserite nel budget, così come qualsiasi altra azione. Essendo un’azione che va di pari passo con l’implementazione del progetto è evidente che deve contare su un efficace sistema di collaborazione e comunicazione tra i partner di progetto. La comunicazione interna in chiave di diffusione è un processo finalizzato a dare visibilità al progetto e ai suoi risultati sia all’interno del partenariato sia dei relativi territori, a coinvolgere i destinatari o i beneficiari diretti delle azioni previste, e infine a promuovere i prodotti realizzati affinché questi possano raggiungere i destinatari interessati. Così intesa, la comunicazione tra i soggetti attuatori deve orientarsi a individuare gli aspetti sui quali concentrare l’azione di diffusione. Non tutte le azioni o i risultati di un progetto sono infatti ugualmente significativi al fine della trasferibilità ad altri soggetti o ad altri contesti. Per raggiungere i risultati attesi è importante che i partner condividano non solo cosa è importante valorizzare, ma anche i tempi delle attività di promozione. Una scarsa o cattiva programmazione potrebbe, infatti, impedire di dar pienamente conto dei risultati conseguiti ai destinatari e a tutti i soggetti interessati. La programmazione deve infine tenere conto anche delle specificità del progetto: interventi con un elevato contenuto di innovazione o che prevedano la sperimentazione di un nuovo prodotto o servizio potrebbero aver convenienza nel prevedere momenti di promozione dei risultati raggiunti (o del processo seguito per arrivare a tali risultati) in corrispondenza di scadenze significative del percorso. È utile qui fare un breve cenno a due attività di cui si sente spesso parlare in relazione alla diffusione e promozione dei risultati: la disseminazione e la valorizzazione. Si tratta di espressioni nate nell’ambito dei progetti europei che sono oramai entrate a far parte del linguaggio comune di chi si occupa di progetti. Esse fanno riferimento alle azioni messe in campo alla fine del progetto e finalizzate a rendere visibili e disponibili i risultati, nonchè a diffondere i prodotti finali. In questi ultimi anni sta crescendo la consapevolezza da parte di alcune organizzazioni internazionali, tra cui l’Unione Europea, sulla rilevanza strategica di queste attività. Nei programmi comunitari nel campo dell’educazione e dell’apprendimento permanente, ad

La diffusione è un’azione continuativa

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esempio, sono state di recente introdotte iniziative trasversali a sostegno delle attività di divulgazione dei risultati allo scopo di massimizzare l’impatto e la ricaduta degli interventi finanziati in ambito europeo. La disseminazione e la valorizzazione dei risultati sono elementi essenziali della promozione di un progetto, seppure con finalità diverse. La prima è sinonimo di “divulgazione, diffusione” e indica il processo pensato e progettato allo scopo di fornire informazioni sulla qualità, la rilevanza e l’efficacia dei risultati del progetto in maniera ampia. È un processo che, avviatosi nel corso del progetto, trova la sua massima espressione al momento della sua conclusione. Solitamente la disseminazione coinvolge tutti i partner ed è pensata in funzione dei destinatari cui il progetto si rivolge. Possono essere previsti strumenti diversi, dalla definizione di un logo alla pubblicazione di una newsletter o del sito del progetto, fino alla presentazione finale dei risultati e alla divulgazione del materiale conclusivo attraverso canali tradizionali o innovativi (social media). La valorizzazione, invece, è un’attività che va al di là della semplice comunicazione e diffusione, con cui tuttavia spesso viene confusa. La finalità della valorizzazione è sì quella di rendere visibili e facilmente accessibili i risultati raggiunti, ma anche (e soprattutto) di favorire il loro trasferimento e utilizzo da parte di altri soggetti, facilitandone la messa a sistema. I risultati dei progetti non dovrebbero rimanere confinati nei contesti di chi li ha realizzati, ma essere trasferiti e condivisi con altri potenziali "utilizzatori". Nella realtà, tranne qualche eccezione, la maggior parte dei progetti termina con la fine del finanziamento, il valore dei risultati è spesso trascurato e si preferisce ricominciare da capo con progetti nuovi piuttosto che capitalizzare quanto prodotto da esperienze pregresse, sprecando così tempo e denaro. Condividere le buone pratiche sviluppate da altri, invece, è un metodo efficace per “contaminare” tra loro diversi contesti, adattare i risultati a realtà differenti, e introdurre elementi di cambiamento e miglioramento. Attraverso il trasferimento dei risultati, la valorizzazione favorisce l'innovazione dei contesti e delle pratiche, creando al contempo economie di scala. In questo senso, la valorizzazione contribuisce anche alla sostenibilità dei risultati. Come detto poc’anzi, la valorizzazione ha che fare con la diffusione e il trasferimento dei risultati finali di un progetto. Il termine “risultato” è qui inteso nella sua accezione più ampia, che comprende le diverse tipologie di prodotti realizzati al termine di un progetto, siano essi tangibili o intangibili. Ciò vale specialmente per progetti in ambito sociale come quelli in materia

Valorizzare = trasferire e far utilizzare i

risultati del progetto da altri soggetti

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di sicurezza, nella maggior parte dei quali il risultato è rappresentato da elementi immateriali come esperienze, pratiche, metodologie, e forme di cooperazione. La valorizzazione dei risultati può avvenire sia a livello individuale nei confronti di altri potenziali utilizzatori (il cosiddetto effetto moltiplicatore), sia a livello di politiche mediante il trasferimento dei risultati a livello locale, regionale, nazionale o europeo (il cosiddetto effetto di mainstreaming, vedi Glossario).

Note 1 I settori produttivi che per primi hanno adottato un approccio progettuale e orientato al cliente sono quelli dell’edilizia, delle costruzioni di grandi infrastrutture, dell’informatica e dell’ingegneria civile e militare dove le aziende sono da sempre abituate a lavorare per commessa. 2 In molti casi il nuovo modo di operare ha contribuito a modificare la struttura organizzativa interna, favorendo il passaggio da una struttura gerarchico-funzionale ad una organizzazione a matrice più funzionale alla gestione dei progetti, e facendo venir meno la logica della dipendenza gerarchica a favore di un maggior protagonismo individuale e di gruppo. 3 I dati sono i risultati principali emersi dalle indagini periodiche svolte dalla Standish Group a partire dal 1994. I dati più recenti sono quelli riferiti al 2009 che dicono che la percentuale di successi si attesta al 32%, i progetti in crisi corrispondono al 44% e quelli che falliscono al 24%. 4 Il Settore Polizia Locale e Politiche per la Sicurezza della Regione Piemonte ha svolto un’attività di monitoraggio e di valutazione delle iniziative finanziate negli anni 2009/2010 e 2011/2012. Per un approfondimento, si rimanda ai due rapporti regionali sulla sicurezza integrata disponibili sul sito web www.regione.piemonte/sicurezza.it (Regione Piemonte, 2009 e 2012).

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Capitolo 5 L’esercizio associato della funzione di polizia municipale e di polizia amministrativa locale. Come valorizzare le potenzialità del servizio integrato di Alberto Ceste 1. Introduzione ………………………………………...…….....................p. 139 2. Quadro normativo di riferimento …….……....................................p. 141 Le fonti normative precedenti alla riforma del Titolo V della Costituzione La riforma del Titolo V e l’introduzione della nozione di polizia amministrativa locale Le possibili forme di esercizio associato di funzioni e di servizi: dal D.Lgs. n. 267/2000 al D.L. n. 95/2012 La legge regionale piemontese n. 11/2012 Gli aspetti salienti della legge regionale 3. Possibili riflessi operativi derivanti dalla l.r. n. 11/2012 ..............p. 164 La polizia municipale e la polizia amministrativa locale: una funzione ed un servizio peculiari Prime valutazioni tecnico-organizzative: possibili vantaggi e criticità Conclusioni

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Introduzione

Il capitolo dedicato all’esercizio associato della funzione fondamentale di polizia municipale e di polizia amministrativa locale prende le mosse da un dato fondamentale: il numero di Comuni oggi in Italia è notevole e ammonta a ben 8.094, di cui 1.206 in Piemonte. Degli enti locali più prossimi ai cittadini, il numero di quelli con popolazione inferiore o pari a 5.000 abitanti è consistente, raggiungendo in Italia, la quantità di 5.683, mentre in Piemonte il loro numero è 1.721 di cui: 1.077 sono quelli fino a 5.000 abitanti, 618 fino a 1.000 abitanti e di 26 con popolazione fino a 100 abitanti. Ciò premesso, il Legislatore nazionale, già a far data dall’entrata in vigore del D.L. n. 78/2010, convertito, con modificazioni, in L. n. 122/2010 e, da ultimo, con gli artt. 19 e 20 del D.L. n. 95/2012, convertito, con modificazioni, nella L. n. 135/2012, ha adottato una serie organica di provvedimenti normativi volti alla realizzazione di forme di gestione associata per l’esercizio delle funzioni fondamentali comunali in vista del superamento delle difficoltà connesse all’erogazione dei servizi ed al contenimento della spesa pubblica. Questo corpus di interventi legislativi ha individuato nove funzioni fondamentali da svolgersi obbligatoriamente in forma associata (attraverso Unioni di Comuni o per il tramite di Convenzioni tra Comuni) da parte dei Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti ovvero fino a 3.000 abitanti se appartenenti o appartenuti a Comunità Montane. Altra novità analizzata nel presente capitolo è quella relativa alla competenza regionale per l’individuazione della dimensione territoriale ottimale per lo svolgimento associato delle suddette funzioni, in uno con la previsione nazionale che fissa, salva diversa determinazione regionale, il limite demografico minimo per l’istituzione delle Unioni in 10.000 abitanti. Si noti poi anche come la forma di gestione associata che pare indiscutibilmente essere preferita da parte del Legislatore nazionale è quella dell’Unione, atteso che in virtù dell’art. 19, D.L. n. 95/2012, le Convenzioni debbono avere durata triennale e al termine di detto periodo dovranno esserne verificate efficienza ed efficacia a pena di una loro trasformazione obbligatoria in Unione. La tempistica applicativa delle funzioni fondamentali è attualmente prevista entro il 1 gennaio 2013: termine, questo, a decorrere dal quale, ai sensi

Le forme possibili di gestione associata: Unioni di Comuni o

Convenzioni tra Comuni

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dell’art. 20 del citato D.L. n. 95/2012, onde favorire i processi di fusione comunale, è previsto un incentivo finanziario pari al 20% dei trasferimenti erariali attribuiti per l’anno 2012 a favore dei Comuni che danno luogo alla fusione. In questo quadro d’insieme, la funzione di polizia municipale e di polizia amministrativa locale rientra a pieno titolo fra le funzioni fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. p), della Costituzione. Essa, in virtù dell’art. 19 del D.L. n. 95/2012, deve svolgersi obbligatoriamente in forma associata. Con particolare riferimento a tale funzione fondamentale, nonostante molte Regioni italiane si siano già attivate per rendere operativi i dettami nazionali - quella piemontese fra tutte - da più parti non è mancato chi abbia avanzato dubbi sul risparmio effettivo di spesa a parità di servizio reso conseguente all’entrata a regime della gestione associata obbligatoria. Al termine del capitolo si evidenzieranno, tuttavia, i possibili effettivi positivi che la scelta associazionistica, ove correttamente programmata e, soprattutto ove concretamente attuata in modo puntuale e coerente, potrà portare sia in termini di miglioramento della qualità del servizio erogato, sia in termini di ampliamento della stessa tipologia del servizio fornito. Invero, gli stessi fautori dell’associazionismo comunale obbligatorio non si nascondono le difficoltà che potrebbero insorgere, specialmente allorché, come nella nostra Regione, i territori sono assai vasti e, per la maggior parte dei Comuni, scarsamente abitati. Laddove, tuttavia, il progetto non sarà imposto e calato dall’alto ma condiviso con tutti i livelli di governo, ferma restando la centralità dei

Comuni quali primi interlocutori sul territorio del cittadino e dei suoi bisogni, si potrà addivenire a strutture nuove capaci di fornire risposte gestionalmente efficienti nonostante gli attuali tagli dei trasferimenti

dal centro alla periferia, le limitazioni alle assunzioni e alle dotazioni organiche del personale dipendente. Soltanto così operando, gli stessi finanziamenti aggiuntivi non verranno ad essere strumentalizzati dai beneficiari stessi quale risposta di facciata dell’ente “superiore” Regione agli stimoli legislativi nazionali. Infine, si è dell’avviso che le amministrazioni locali di dimensioni più ridotte assai verosimilmente potranno sopravvivere unicamente se faranno sinergia fra di loro, “facendo rete” come si usa dire oggi, e connotando la propria azione di governo e di amministrazione attiva non già per la conservazione dell’esistente bensì secondo strategie di consolidamento e di sviluppo.

La scelta associazionistica, se ben attuata, potrà dar vita a strutture più efficienti

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In ultimo, sarà analizzato l’impianto normativo e le possibili ricadute operativo-gestionali derivanti dall’entrata in vigore della l.r. 28.09.2012, n. 11, recante “Disposizioni organiche in materia di Enti Locali”, a mezzo della quale il Consiglio Regionale piemontese, essenzialmente nell’esercizio delle proprie funzioni di ente di legislazione, pianificazione e programmazione, ha esplicato i compiti demandatigli dal Legislatore nazionale, procedendo al riassetto dei livelli di governo del sistema delle autonomie locali piemontesi, in vista della loro ottimizzazione e valorizzazione. Un’ultima premessa metodologica d’obbligo: essendo il presente lavoro incentrato precipuamente sulla funzione fondamentale di polizia municipale e di polizia amministrativa locale, ampio spazio sarà dedicato all’analisi dei costi-benefici che le novità normative determineranno su detta funzione, in uno con il quasi obbligato ripensamento del servizio di polizia locale a cui amministratori e Comandanti di Polizia Locale dovranno necessariamente porre mano. Ciò non solo per rispondere alle sempre più pressanti richieste di legalità e di sicurezza loro rivolte dai cittadini e dai consociati, ma anche per programmare e realizzare un servizio di polizia locale efficace ed efficiente, in quanto maggiormente organizzato secondo modelli nuovi in grado di assicurare una più elevata visibilità e presenza sul territorio degli addetti al servizio di vigilanza locale, al di là delle innegabili limitazioni all’acquisto di mezzi e di strumenti e dei vincoli per le spese del personale (in servizio ed anche di nuova assunzione) attualmente previsti dalla normativa di contenimento della spesa pubblica.

Quadro normativo di riferimento

Le fonti normative precedenti alla riforma del Titolo V della Costituzione Nell’analisi di quelle che costituiscono oggi le tre possibili forme di esercizio associato di funzioni e di servizi, così come disciplinate dalla legge regionale piemontese entrata in vigore il 28 settembre 2012, non si può trascurare come con lungimiranza la Regione Piemonte, nella specifica materia del servizio di polizia locale, aveva già previsto forme piuttosto evolute di esercizio associato delle funzioni di polizia locale sin dall’entrata in vigore della propria l.r. 30.11.1987, n. 58, recante “Norme in materia di Polizia Locale”. In particolare, l’art. 1 della menzionata l.r. n. 58/1987 contemplava espressamente che “le funzioni di polizia locale sono

2

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esercitate dalle strutture organizzative del servizio Polizia Locale o dai competenti corpi o dal personale preposto degli enti locali territoriali, o dei Consorzi di essi, nelle materie loro attribuite o delegate dagli enti medesimi”. Con l’adozione di tale norma, non v’è chi non veda come il Consiglio Regionale piemontese avesse prontamente recepito l’invito o, per meglio dire, la facoltà e l’opportunità che il Legislatore nazionale aveva offerto a ogni ente locale del territorio italiano per mezzo dell’art. 1 della L. 7.03.1986, n. 65 recante “Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale” che, nonostante le proposte di revisione e di ripensamento giuridico (talvolta estemporanee, talaltra fugaci, talaltra ancora strutturate) continua a essere tuttora vigente e a rappresentare un baluardo normativo della disciplina della polizia locale, che impone a tutti i soggetti istituzionali l’assolvimento dei dettami di diritto in essa contenuti. Per vero, lo stesso Legislatore nazionale aveva poi soggiunto al secondo alinea dello stesso art. 1 della L. n. 65/1986 che “i Comuni possono gestire il servizio di polizia municipale nelle forme associative previste dalla legge dello Stato”. Tale norma doveva e continua a dover essere necessariamente coordinata con l’altra, non meno rilevante, di cui all’art. 6, in virtù della quale “la potestà delle regioni in materia di polizia municipale, salve le competenze delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano, è svolta nel rispetto delle norme e dei princìpi stabiliti dalla presente legge”, ben potendo prevedere con propria legge anche di “promuovere tra i Comuni le opportune forme associative con idonee iniziative di incentivazione”. Impegnativo, delicato e strategico esercizio di potestà legislativa sub-statale

che, per l’appunto, la Regione Piemonte ha dapprima svolto con l’art. 1 della summenzionata l.r. n. 58/1987 ma anche e soprattutto con l’articolo 2 di tale normativa regionale, tutt’ora in vigore e pressoché immutata nel proprio impianto

normativo di fondo nonché nelle sue linee-guida di programmazione ed indirizzo per l’espletamento del servizio e della funzione di polizia municipale e locale di Province, Comuni e loro enti associativi. Si ponga infatti attenzione come, già a far data dalla vigenza dell’art. 2 in esame, la Regione Piemonte si era proposta di aderire alla “sfida di modernità e di sana competitività territoriale sub-regionale” proposta dal Parlamento

Le prime leggi sulle forme

associate del servizio di

Polizia Locale

L’adesione della Regione Piemonte al nuovo modello di organizzazione

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Regione Piemonte / Manuale per la progettazione di politiche e interventi sulla sicurezza integrata 143

italiano, impegnandosi a fondo nel promuovere “le opportune forme associative tra i Comuni, anche attraverso il loro consorziamento per i servizi di Polizia Locale, secondo esigenze di economicità e di efficienza, negli ambiti territoriali ritenuti ottimali dai Comuni interessati. La costituzione dei consorzi è volontaria e, allorquando i consorzi medesimi siano stati costituiti, la competenza funzionale è riservata per i rispettivi territori agli organi dei singoli enti consorziati”. Parafrasando un noto cantautore italiano, ben si potrebbe dire “segnali di vita nei cortili e nelle case all'imbrunire”, laddove con la locuzione “case” si intendano quelle di tutti i consociati presenti sul territorio piemontese e con quella “all’imbrunire” l’ora del giorno che segue il tramonto di una concezione e di un’era stantia e superata (risalente al lontano anno 1987) di polizia municipale improduttivamente racchiusa nel suo piccolo territorio/campanile, spesso di piccole se non di modestissime dimensioni, spaziali ed abitative. Non a caso, lo stesso legislatore regionale aveva altresì cura di completare e sistematizzare il nuovo imprinting di organizzazione e di realizzazione del servizio e delle funzioni della polizia locale per il tramite di un’altra norma antesignana della disciplina della materia qui indagata, quella di cui all’art. 5 della citata l.r. n. 58/1987. In virtù di essa, invero, si decideva di prevedere che, nell’articolazione dell’ordinamento e della struttura dei servizi di polizia locale, i competenti enti locali di appartenenza avrebbero dovuto tener presenti anche di: § popolazione complessiva, densità insediativa, andamento demografico e

fluttuazioni; § estensione della zona interessata, collegamenti logistici e caratteri

urbanistici; § sviluppo chilometrico delle strade, densità e complessità del traffico; § sviluppo edilizio; § tipo e quantità degli insediamenti industriali e commerciali; § importanza turistica della località; § fasce di copertura dei servizi; § suddivisione del territorio in circoscrizioni, zone, frazioni o altro; § altri criteri di carattere socio-economico che risultino particolarmente

significativi nella specificità del territorio. Tutti gli indici e i criteri posti dalla norma regionale a fondamento dell’adozione dei pertinenti regolamenti locali sono stati qui volutamente citati nella loro interezza, senza estrapolazione alcuna, al fine di rimarcare ulteriormente la grandiosa - se non altro perché tempestiva e precoce -, scelta di politica legislativa piemontese di adesione a un modello di gestione

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associata della polizia locale non per assioma, ma al contrario in adesione a un ponderato bilanciamento degli interessi e dei beni costituzionalmente in gioco, in vista del fine ultimo della capillare ed organizzata attività sul territorio regionale dei Corpi e dei Servizi di Polizia Locale. Di lì a poco lo stesso Consiglio Regionale piemontese, al fine di incentivare le forme di gestione associata del servizio e delle funzioni di polizia locale, provvedeva con apposita norma, contenuta nell’art. 9 della l.r. 16.12.1991, n. 57, recante “Integrazione della legge regionale 30 novembre 1987, n. 58, concernente Norme in materia di Polizia locale”, a prevedere appositi contributi e spese dedicate per lo svolgimento delle funzioni, anche in forma associata, di Polizia Locale. A onor del vero, gli input legislativi regionali si caratterizzavano, e continuano tuttora a caratterizzarsi, per gli aspetti in ordine ai quali non è intervenuta la novità regionale del 28 settembre 2012, n. 11, essenzialmente per la base volontaria dell’adesione, da parte degli enti locali non regionali, ai proposti ed in parte finanziariamente incentivati Consorzi, per lo svolgimento in comune delle funzioni di polizia locale. Tale caratteristica e peculiarità dei Consorzi, profondamente diversa da quella invece obbligatoria delle Unioni e delle Convenzioni di Polizia Locale così come disciplinate dalla recentissima normativa regionale del settembre 2012, nel corso dei ventisei anni che sono trascorsi, non ha comunque mancato di trovare adesione in diverse realtà e zone piemontesi. Quello che può apparire come un punto di debolezza della costruita architettura regionale - l’adesione, appunto volontaria, - a ben vedere, forse,

era una tappa all’avanguardia e quasi obbligata per giungere all’obiettivo attuale della strutturazione su base obbligatoria, anche se non forzosa, della gestione in forma associata di quella che, non a caso, è stata definita come una delle funzioni fondamentali degli enti locali, quella

di polizia municipale e di polizia amministrativa locale. E’ da sottolineare il mutamento lessicale ma gravido di rilevanti conseguenze giuridiche tra la denominazione di esercizio embrionalmente associato di “funzioni di polizia locale” a cui si può sinteticamente ricondurre l’intera stagione della normazione, nazionale e regionale, racchiudibile negli anni intercorrenti tra il 1986 ed il 1991, e quella della normazione attuale, che fa invece riferimento all’esercizio di forme di gestione associata di “funzioni di polizia municipale e di polizia amministrativa locale”.

L’adesione volontaria apre la strada alla struttura attuale obbligatoria

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La riforma del Titolo V e l’introduzione della nozione di polizia amministrativa locale Senza alcuna pretesa di ripercorrere le complesse vicende storico-giuridiche che hanno condotto il Legislatore Costituzionale, con la notissima L. Cost. 18.10.2001, n. 3 recante “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”, a innovare profondamente il quadro della Carta Fondamentale dedicato alle autonomie locali a quella che, da più parti, è stata definita come la nuova “Repubblica delle autonomie”, si scorge agevolmente come, secondo l’art. 117, co. 2, lett. h), Cost., nella fissazione delle competenze legislative tra il legislatore statale e quello regionale, il primo di essi ha sì competenza legislativa esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza ma ad eccezione proprio della polizia amministrativa locale. Con il nuovo Titolo V, in virtù del quale un’altra non meno decisiva riforma ha riguardato il novellato art. 118 della Cost., tutto il baricentro del sistema si sposta non solo sul piano amministrativo ma anche su quello normativo, a cominciare dal rovesciamento di prospettiva nel rapporto tra il potere legislativo statale e quello regionale, che porta a qualificare la Regione come soggetto legislativo generale e residuale. Va anzitutto rilevato l’orizzonte nuovo che caratterizza ora le fonti normative locali, le quali sono chiamate dall’autunno del 2001 a concorrere sempre più a disciplinare concretamente spazi ampi di amministrazione e di funzioni amministrative e servizi pubblici, stante il rilevante potenziamento delle competenze istituzionali degli enti locali, a partire dai Comuni, in applicazione del principio di sussidiarietà. La riforma costituzionale ha poi tracciato, in materia di sicurezza, un nuovo quadro di equilibri basato su tre elementi fondamentali: î la riserva allo Stato della competenza esclusiva in materia di ordine

pubblico e sicurezza, così come di ogni aspetto che interessi il diritto penale o l’ordinamento giudiziario;

î la necessità di specifiche forme di coordinamento in questa materia tra lo Stato e le Regioni;

î il riconoscimento di una potestà esclusiva regionale in relazione alla polizia amministrativa locale, seppur nel rispetto della legislazione statale di definizione delle “funzioni fondamentali” degli enti locali.

Tra il livello locale e regionale si è perciò delineato un nuovo equilibrio basato, da un lato, sulla centralità dei Comuni nello sviluppo delle politiche integrate e, dall’altro, sull’esigenza di un coordinamento complessivo delle

Un nuovo equilibrio normativo tra lo

Stato e le Regioni in materia di sicurezza

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politiche ad opera della Regione. In questo contesto si colloca la funzione di “polizia amministrativa locale” intesa come funzione unitaria che comprende

l’insieme delle funzioni effettivamente espletate: sia quelle attribuite e regolate dallo Stato nell’ambito della propria competenza (come le funzioni di polizia giudiziaria o le

funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza), sia quelle di polizia amministrativa che operano nelle competenze proprie dei Comuni e delle Province. A chi si volesse giustamente interrogare sul significato ultimo del termine “polizia amministrativa locale”, pare ancor oggi assai produttivo far rinvio a quanto, ben prima dell’avviata riforma del sistema di competenze legislative ed amministrative tra Stato, da una parte, Regioni, Province e autonomie locali dall’altra parte, in nome del principio di sussidiarietà e del federalismo locale, già la Corte Costituzionale, con propria sentenza del 25.02.1988, n. 218, aveva avuto cura di indicare, sia pure con riferimento a una differente questione che era stata sottoposta al suo vaglio. Anzitutto, che la polizia amministrativa non è riconducibile ad una materia a sé stante, costituendo piuttosto un potere accessorio e strumentale alle altre materie oggetto di riparto di competenze tra Stato e Regioni. Laddove poi le funzioni di polizia amministrativa riguardino una materia di competenza (concorrente o esclusiva) della Regione e gli interessi e i beni pubblici che devono essere tutelati sono da considerare interni alla disciplina amministrativa di una materia e privi di una rilevanza specifica in relazione alla tutela dell’ordine pubblico, si è in presenza di polizia amministrativa locale. Assunte queste premesse, risultava già possibile definire nuovi spazi d’azione per l’istituzione regionale in materia di polizia amministrativa, sia come ambiti diretti che coordinati con gli enti locali. E infatti, in modo per nulla peregrino, il legislatore regionale è divenuto titolare di una potestà esclusiva in materia di organizzazione, formazione del personale e dotazioni dei servizi di polizia locale a disposizione dei Comuni (polizia municipale), singoli od associati, oltre che delle Province. All’interno di tale articolazione delle competenze, le Regioni sono state così chiamate a svolgere un ruolo attivo di coordinamento delle funzioni di polizia amministrativa esercitate entro il proprio territorio, e a poter legittimamente individuare o valorizzare alcune sedi di raccordo e di concertazione tra i diversi livelli operanti in ciascun settore o ambito materiale (ad esempio, tra le polizie locali).

Si definisce la nuova funzione di “polizia amministrativa locale”

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Le possibili forme di esercizio associato di funzioni e di servizi: dal D.Lgs. n. 267/2000 al D.L. n. 95/2012

Nell’esaminare le fonti statali che si sono occupate della successiva disciplina normativa delle tre possibili forme di esercizio associato di funzioni e servizi, con particolare riferimento a quelle della polizia municipale e della polizia amministrativa locale, occorre necessariamente partire dalla disamina del Testo Unico delle Leggi sull’Ordinamento degli Enti Locali (T.U.E.L.): il D.Lgs. 18.08.2000, n. 267. Dette norme (particolarmente quelle contenute negli artt. 15 e 16 e negli artt. da 30 a 35) prevedono le seguenti forme di gestione associata: le convenzioni, i consorzi, le unioni di Comuni e gli accordi di programma. In aggiunta, si prevede che, ad iniziativa delle Regioni, si possa dar corso a forme di gestione associata di funzioni e servizi. Pare importante sottolineare come, con questo atto, il Legislatore nazionale contempla sia forme di gestione associata che danno luogo alla nascita di nuovi soggetti di diritto, quanto forme di gestione associata da cui non deriva invece la nascita di nessun nuovo soggetto giuridico. Ancora una volta la decisione degli enti locali di addivenire ad una delle possibili forme esaminate è del tutta volontaria, fatti unicamente salvi i vincoli specifici che possono essere dettati dalla legislazione regionale, in special modo tramite la fissazione degli ambiti ottimali della gestione di uno o più servizi. Infine, si rileva ancora come non vi sia una compiuta normazione delle funzioni oggetto della polizia municipale né tanto meno di quella della polizia amministrativa locale. Decisamente interessante è poi il fatto che, nonostante il decorso del tempo e l’adozione delle norme emanate in seguito per favorire la gestione associata, le norme del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 continuano a permanere in vigore poiché non espressamente abrogate o modificate da queste ultime. A livello generale, si può rilevare come la nuova stagione di favore per le forme di gestione associata di funzioni e servizi si è aperta con l’entrata in vigore del D.L. 31.05.2010, n. 78, convertito con modificazioni in L. 30.07.2010, n. 122, recante “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica (“Decreto anticrisi”)”. Questo atto, anche storicamente, rappresenta un primo importante passo in avanti per la fissazione di più puntuali limiti, vincoli e criteri, utili ed imprescindibili nella disciplina delle forme di gestione associata, per le ragioni di seguito

Le norme del T.U.E.L. ancora

in vigore

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indicate. In primo luogo, perché si afferma con estrema decisione e chiarezza la sussistenza del vincolo della gestione associata tramite Unioni o

Convenzioni per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, rinviando, quanto a modalità applicative e a tempistica, ad un successivo decreto attuativo del Presidente del Consiglio dei Ministri, la cui adozione è stata poi abrogata dal D.L. 6.07.2011, n. 98, convertito con

modificazioni in L. 15.07.2011, n. 111, recante “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria”. Quest’ultimo decreto legge ha dettato direttamente tempi e modalità di attuazione, prevedendo che dal 2013 tutte le funzioni fondamentali stabilite dalla L. 5.05.2009, n. 42, recante “Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione” (“Legge sul federalismo fiscale”) devono essere gestite in forma associata e che il processo avrebbe dovuto realizzarsi attraverso l’avvio di almeno due funzioni fondamentali entro l’anno 2011, di altre due entro l’anno 2012 e delle restanti due entro l’anno 2013. La soglia minima da raggiungere avrebbe dovuto ammontare a 5.000 abitanti o nel quadruplo del numero degli abitanti del Comune di dimensioni maggiormente inferiori che avesse aderito alla gestione associata. Successivamente con il D.L. 13.08.2011, n. 138, convertito con modificazioni nella L. 14.09.2011, n. 148 recante “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”, i tempi previsti sono stati ridotti e si è previsto il completamento dell’avvio della gestione associata di tutte le sei funzioni fondamentali entro l’anno 2012, fermo restando che la gestione associata di almeno due di esse dovesse essere avviata entro l’anno 2011. L’ambito minimo di popolazione che avrebbe dovuto essere raggiunta è stato innalzato a 10.000 abitanti, ferma restando la possibilità per le Regioni di adottare deliberazioni giuntali in deroga a detta soglia. Sempre il D.L. n. 138/2011 ha poi inserito vincoli rafforzati per la gestione associata da parte dei Comuni con popolazione sino a 1.000 abitanti, per i quali si è previsto che avrebbero dovuto dar vita ad una specifica Unione incaricata di realizzare la gestione associata di tutte le funzioni e di tutti i servizi o, in alternativa, che tali Comuni avrebbero potuto realizzare la gestione associata di tutte le loro funzioni e di tutti i loro servizi tramite l’attivazione di una Convenzione specifica, la cui attività, tuttavia, avrebbe dovuto essere valutata positivamente da parte del Ministero dell’Interno. Così disponendo, il processo di cooperazione fra i piccoli Comuni diventa del tutto vincolante e le singole amministrazioni locali territoriali hanno

Si fissano le modalità e tempistiche per attuare le forme di gestione associata

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autonomia unicamente per ciò che pertiene alla scelta dei loro partner, delle forme associative e delle modalità applicative, non certamente in ordine alla decisione di dar luogo o meno alla gestione associata. Si pensi soltanto al fatto che tutto il personale e tutti i rapporti giuridici dei Comuni vengono trasferiti all’Unione, nonché al fatto che i singoli enti locali che si uniscono potrebbero anche cessare di avere il proprio bilancio. Pare poi indubbio che nelle Unioni tra Comuni fino a 1.000 abitanti il peso istituzionale, organizzativo e gestionale, della gestione associata è di gran lunga predominante rispetto a quello dei singoli enti che si uniscono. Nelle pagine che seguiranno si cercherà di analizzare le motivazioni che hanno indotto il Legislatore nazionale ad imprimere una decisa sterzata in direzione della gestione associata obbligatoria: questo, in particolar modo alla luce del c.d. Decreto Spending Review, il D.L. 6.07.2012, n. 95, convertito con modificazioni in L. 7.08.2012, n. 135, recante “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini”, che si avrà cura di commentare approfonditamente dal momento che rappresenta la normativa statale odiernamente di riferimento in materia di gestioni associate, anche e soprattutto per le Regioni. Alcune di queste osservazioni meritano, tuttavia, di essere anticipate anche per meglio cogliere l’ulteriore rafforzamento che è stato introdotto nell’estate dell’anno 2012 in materia di obbligatorietà di forme di gestione associata. È infatti evidente come la volontà legislativa di dar impulso alla gestione associata in modo obbligatorio risiede nella scelta di determinare forme di semplificazione e, ancor di più, di risparmio rispetto alle funzioni che verranno a dover essere gestite da più di un ente locale, dando corso e seguito ai pur significativi risultati che già si erano raggiunti con la gestione associata volontaria. Questo non foss’altro per la considerazione in virtù della quale prima di detti interventi, statali e regionali, in Italia ed anche in Piemonte, le Unioni non sono state molte e, per di più, la loro attivazione ed il loro stesso funzionamento in vita è stato fortemente legato agli incentivi finanziari disposti da leggi statali e regionali. Per altro verso, i dati statistici danno atto che, una volta che tali incentivazioni si sono ridotte, la nascita di nuove forme di gestione associata ha subìto un apprezzabile decremento. Ultimo aspetto per nulla trascurabile, secondo il contenuto normativo del D.L. n. 138/2011 è che alle Unioni cd. speciali possono aderire anche i Comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti. Infine, sempre in base al decreto legge dell’estate dell’anno 2011, per i Comuni con popolazione compresa tra 1.001 e 5.000 abitanti si è stabilito il

Le scelte alla base della normativa

statale attuale

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vincolo della gestione associata delle funzioni fondamentali entro l’anno 2012 e fissato in 10.000 abitanti la soglia minima di popolazione che deve essere raggiunta. Come già anticipato, è però con il D.L. n. 95/2012 che il Legislatore nazionale dispone tassativamente al proprio art. 9, co. 1, che “al fine di assicurare il coordinamento e il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, il contenimento della spesa e il migliore svolgimento delle funzioni amministrative, le Regioni, le Province e i Comuni sopprimono o accorpano o, in ogni caso, assicurano la riduzione dei relativi oneri finanziari in misura non inferiore al 20 per cento, enti o agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica che, alla data di entrata in vigore del presente decreto, esercitano, anche in via strumentale, funzioni fondamentali di cui all’articolo 117, comma secondo, lettera p), della Costituzione o funzioni amministrative spettanti a Comuni, Province, e Città Metropolitane ai sensi dell’articolo 118, della Costituzione”.

Questa pare essere la leva portante dell’intero provvedimento normativo sulla razionalizzazione della spesa pubblica, su cui poggia anche l’intervento di riordino e modificazione sulle funzioni fondamentali e sulle modalità di esercizio associato di funzioni e

servizi comunali contenuto nell’art. 19 dello stesso decreto qui in esame. Anzitutto, in base al primo comma dell’art. 19, con riferimento ai piccoli Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti viene fornito un più accurato elenco delle funzioni fondamentali che sostituisce quello più ridotto di cui all’art. 21, co. 3, della L. n. 42/2009 che ne prevedeva sei, mentre ora si passa alle seguenti dieci funzioni fondamentali: § organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e

contabile e controllo; § organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito

comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale; § catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla

normativa vigente; § pianificazione urbanistica e edilizia di ambito comunale, nonché

partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovra comunale; § attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di

coordinamento dei primi soccorsi; § organizzazione e gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e

recupero dei rifiuti urbani e riscossione dei relativi tributi; § progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed

erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto

Il riordino delle funzioni fondamentali comunali

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dall’art. 118, co. 4, Cost.; § edilizia scolastica, organizzazione e gestione dei servizi scolastici; § polizia municipale e polizia amministrativa locale; § tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di

servizi anagrafici.

Sempre con riferimento ai piccoli Comuni viene modificata la tempistica dell’art. 14, D.L. n. 78/2010, prevedendo che questi dovranno procedere ad associare almeno tre funzioni entro l’1.01.2013 e le restanti entro l’1.01.2014. La disciplina sulle forme giuridiche associative già contenuta nel D.L. n. 78/2010 viene invece confermata, in quanto si prevede che tutti i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000 abitanti se appartengono o se sono appartenuti a Comunità Montane, esercitino obbligatoriamente in forma associata, mediante Unioni di Comuni o Convenzione, la quasi totalità delle funzioni fondamentali, tra cui anche quella relativa alla polizia municipale e alla polizia amministrativa locale. Novità di non poco conto è invece introdotta riguardo alle Convenzioni, che dovranno essere di durata almeno triennale. La già esaminata disposizione sulla dimensione demografica minima delle Unioni continua a rimanere di 10.000 abitanti, così come il potere in capo alle Regioni di poter individuare limiti diversi, potere che viene quantificato entro i tre mesi antecedenti il primo termine di esercizio associato obbligatorio delle funzioni fondamentali. Con riferimento poi ai Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, l’art. 19, co. 2, contiene una prima novità che pare di tutto favore per l’autonomia dei piccolissimi Comuni, dal momento che cade l’obbligatorietà della soluzione delineata dall’art. 16, D.L. n. 138/2011 che prescriveva la gestione associata di tutte le funzioni ed i servizi e che, anzi, diventa alternativa rispetto a quella delineata dall’art. 14, D.L. n. 78/2010 con riferimento ai Comuni con popolazione compresa tra i 1.000 ed i 5.000 abitanti. Detto altrimenti, i piccolissimi Comuni sono lasciati liberi di decidere se gestire in maniera associata le sole funzioni fondamentali di cui al novellato art. 14, D.L. n. 78/2010 attraverso le Convenzioni o l’Unione, oppure tutte le funzioni ed i servizi tramite l’Unione speciale, ex art. 16, D.L. n. 138/2011, od una o più Convenzioni. Anche la scelta di associare le funzioni ed i servizi attraverso le Unioni cosiddette “Municipali” o una o più Convenzioni, anch’esse di durata almeno triennale, diventa facoltativa. La scelta della Convenzione, peraltro, non è più contrassegnata da caratteri

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di eccezionalità e di deroga anche se rimane tuttavia ferma la necessità di dimostrare, alla scadenza del termine per la gestione associata delle funzioni, il conseguimento di significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione, secondo le modalità stabilite dall’art. 14, co. 31 – bis, D.L. n. 78/2010. Anche la tempistica viene modificata, dal momento che i Comuni interessati, qualora intendano avvalersi della soluzione delineata dall’art. 14, D.L. n. 78/2010, dovranno costituire le gestioni associate entro il 1 gennaio 2013 con riguardo ad almeno tre delle funzioni fondamentali, ed entro il 1 gennaio 2014 con riguardo alle restanti funzioni fondamentali. Qualora intendano, invece, ricorrere alle Unioni all’ex art. 16, D.L. n. 138/2011, i Comuni devono presentare alla Regione una proposta di aggregazione nel termine perentorio di sei mesi dalla data di entrata in vigore del D.L. n. 95/2012, con deliberazione del Consiglio Comunale. Dal canto suo la Regione, perentoriamente entro il 31 dicembre 2013, provvede a sancire l'istituzione delle Unioni del territorio. Sempre con riferimento a tale forma di Unione viene previsto, tra l’altro, che i mezzi e il personale della medesima devono provenire dai Comuni associati: ne è obbligatorio il conferimento in relazione alle funzioni assegnate: “in sede di prima applicazione” è vietato alle Unioni in esame “il superamento della somma delle spese di personale sostenute precedentemente dai singoli Comuni partecipanti”. In linea generale, viene altresì confermata la dimensione demografica minima di 5.000 abitanti, anche se le Regioni hanno la facoltà di poter individuare limiti diversi entro i tre mesi antecedenti il primo termine di esercizio associato obbligatorio delle funzioni fondamentali. Con riguardo, invece, alle Unioni dei Comuni ex art. 32, D.Lgs. n. 267/2000, l’art. 19, co. 3 e ss., D.L. n. 95/2012, contiene una significativa modificazione del co. 1 di tale art. 32, tale per cui oggi l’Unione viene individuata come l’ente generalmente incaricato dell’esercizio associato di funzioni e servizi, con l’ulteriore precisazione che ove l’Unione in esame sia costituita in prevalenza da Comuni montani, essa assume la denominazione di Unione di Comuni montani. Per giunta, si introduce l’obbligo per ogni Comune di poter far parte di una sola Unione di Comuni e si prevede che dette Unioni possono stipulare apposite Convenzioni tra loro o con singoli Comuni. La stessa potestà statutaria dell’Unione con riferimento alla disciplina degli organi di governo viene ridotta: infatti, mentre la precedente normativa individuava come unico organo obbligatorio dell’Unione il suo Presidente

La nuova disciplina delle

forme associate

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scelto necessariamente tra i Sindaci dei Comuni aderenti, lasciando poi allo Statuto il dovere di individuare gli organi di governo, nonché le modalità per la loro costituzione, la nuova disposizione individua invece nel dettaglio quali sono gli organi dell’Unione e la loro costituzione. In particolare, viene confermato che il Presidente dell’Unione debba essere scelto tra i Sindaci dei Comuni associati e che la Giunta debba essere costituita dai componenti dell’esecutivo dei Comuni associati, mentre il Consiglio debba essere composto da un numero di consiglieri, eletti dai singoli Consigli dei Comuni associati tra i propri componenti, e non superiore a quello previsto per i Comuni con popolazione pari a quella complessiva dell’ente, garantendo, comunque, la rappresentanza delle minoranze e assicurando, ove possibile, la rappresentanza di ogni Comune. Inoltre in analogia con quanto previsto dall’art. 6, D.Lgs. n. 267/2000, viene introdotto per i Comuni l’obbligo di trasmissione degli statuti dell’Unione al Ministero dell’Interno. Ciò non di meno, l’Unione continua ad avere autonomia regolamentare,

oltre che statutaria e le si applicano, “in quanto compatibili, i princìpi previsti per l’ordinamento dei Comuni, con particolare riguardo allo status degli amministratori, all’ordinamento finanziario e contabile, al personale e all’organizzazione”.

Di grandissima rilevanza, specialmente sotto il profilo operativo, è poi la norma che, in analogia con quanto previsto per le Unioni speciali ex art. 16, D.L. n. 138/2011, prevede che “all’Unione sono conferite dai Comuni partecipanti le risorse umane e strumentali necessarie all’esercizio delle funzioni loro attribuite”. Parimenti, vengono introdotti anche consistenti vincoli in materia di spesa del personale dell’Unione dei Comuni stabilendo che “fermi restando i vincoli previsti dalla normativa vigente, la spesa sostenuta per il personale dell’Unione non può comportare, in sede di prima applicazione, il superamento della somma delle spese di personale sostenute precedentemente dai singoli Comuni partecipanti”. Tale misura, peraltro, dovrà essere adottata anche in futuro e per il futuro poiché l’Unione, attraverso specifiche misure di razionalizzazione organizzativa e una rigorosa programmazione dei fabbisogni, dovrà assicurare progressivi risparmi di spesa in materia di personale. Forse, come contraltare alle sopra ricordate limitazioni, si assicurano normativamente alle Unioni gli introiti derivanti dalle tasse, dalle tariffe e dai contributi sui servizi loro affidati.

I poteri e le risorse attribuite alle Unioni di Comuni

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La legge regionale piemontese n. 11/2012 Il Consiglio Regionale del Piemonte, per mezzo di un contenuto numero di articoli organicamente coordinati, ha puntualmente esercitato le proprie competenze e facoltà, promulgando la l.r. 28.09.2012, n. 11, recante “Disposizioni organiche in materia di enti locali”, entrata in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte, vale a dire a far data dal 28 settembre 2012. La nuova legge piemontese costituisce senza dubbio una norma di organizzazione dotata di certa rilevanza per la disciplina delle gestioni associate delle funzioni e dei servizi comunali. Essa, intervenendo su istituti e fattispecie già noti e introducendone di nuovi, ha innanzitutto provveduto a disciplinare in via generale l’esercizio in forma associata delle funzioni e dei servizi di competenza comunale (Capi da II a VI) e poi a dettare la disciplina speciale delle Unioni Montane di Comuni destinate a succedere alle Comunità Montane (Capo VII). Tenuto in debito conto delle consistenti porzioni di superficie montana e collinare che caratterizzano la Regione Piemonte, infatti, si è cercato di porre le basi per un passaggio, se non proprio indolore almeno il più “garantistico” possibile, per le radicate Comunità Montane alle nuove forme associative, in termini compatibili con la normativa statale in vigore. La novella regionale si apre con il Capo I (artt. da 1 a 2), contenente “Norme generali” in cui il legislatore regionale, munito di poteri non solo legislativi ma anche di pianificazione e programmazione, ha delineato gli obiettivi e l’ambito di applicazione del proprio intervento. Questi, in sintesi, gli obiettivi: § il riassetto dei livelli di governo del sistema delle autonomie locali del

Piemonte; § l’individuazione degli enti territoriali costituzionali quali destinatari delle

funzioni che non necessitano di unitario esercizio a livello regionale; § la valorizzazione del Comune “come primo destinatario delle funzioni e

primo referente nell’erogazione dei servizi amministrativi ai cittadini, e della Provincia come ente di gestione delle funzioni di area vasta”;

§ il riassetto dell’associazionismo intercomunale tenendo conto delle specificità dei territori montani e collinari;

§ la disciplina della gestione associata della funzione socio assistenziale anche riconoscendo l’esperienza dei Consorzi tra Comuni;

§ l’utilizzo della regolamentazione della gestione associata e del

La disciplina generale e

speciale della l.r. n. 11/2012

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superamento delle attuali Comunità Montane quale fase di avvio del procedimento di riassetto dei livelli di governo

§ e infine “la disciplina delle misure di riorganizzazione dell’esercizio delle funzioni e dei servizi di competenza comunale, al fine di ottemperare alle previsioni stabilite dalle normative statali vigenti in materia di gestione associata obbligatoria delle funzioni e dei servizi comunali con l’obiettivo di incrementare la qualità delle prestazioni riducendo complessivamente gli oneri organizzativi e finanziari”.

Questa che a prima vista potrebbe apparire come una norma d’intenti o residuale, in realtà è la disposizione su cui si regge l’intero corpus del nuovo impianto regionale di disposizioni in materia di enti locali. Quella, cioè, grazie alla quale la Regione Piemonte si prefigge lo scopo di garantire la coesistenza fra la nuova disciplina regionale sulle forme di gestione associata obbligatorie e i princìpi statali di semplificazione amministrativa, di contenimento della spesa pubblica e di elevata qualità delle funzioni e dei servizi che debbono essere resi dalle nuove forme istituzionali. Non a caso, tale norma, assai prudentemente e significativamente, è inserita nell’art. 2 della legge in esame recante “Ambito di applicazione” che stabilisce:

a) nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto della Costituzione, la dimensione territoriale ottimale ed omogenea per area geografica per lo svolgimento in forma associata delle funzioni fondamentali;

b) il limite demografico minimo per lo svolgimento in forma associata delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici;

c) le forme di esercizio associato di funzioni e di servizi comunali; d) i requisiti di aggregazione e le procedure di individuazione degli ambiti

territoriali ottimali; e) le forme di incentivazione alle forme associative; f) le modalità e le forme di incentivazione alle fusioni di comuni; g) la trasformazione delle comunità montane in unioni montane di Comuni; h) il procedimento di estinzione delle comunità montane; i) le norme relative al personale delle comunità montane”.

Nei Capi da II a VI (artt. da 3 a 16) la legge regionale riprende quasi integralmente la normativa statale vigente, ivi compresa l’individuazione dei Comuni obbligati all’esercizio associato di funzioni e servizi (così come individuata dall’art. 14, D.L. n. 78/2010), le funzioni da gestire in forma associata (per le quali dispone oggi l’art. 19, co. 1, D.L. n. 95/2012), nonché l’evenienza che le funzioni fondamentali debbono essere integralmente gestite in forma associata, di modo che se un Comune decide di esercitare

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in tale forma tre o più delle funzioni fondamentali deve farlo nella totalità delle loro articolazioni. Altre questioni che potranno essere da qui a poco proposte dagli enti locali tenuti ex lege all’obbligatoria gestione associata di una o più funzioni fondamentali, indipendentemente dalla forma associativa di cui faranno parte, paiono risolvibili sempre attraverso il richiamo all’inderogabile disciplina statale cui la legge regionale si è limitata a far rinvio. Ad esempio, quella secondo cui ci si interroga se l’esercizio di una funzione fondamentale possa essere suddivisa tra diverse forme associative: problematica, questa, che in base al vigente art. 14, co. 29, D.L. n. 78/2010, trova risposta negativa, poiché detta norma pone il divieto di gestione scorporata della stessa funzione in più servizi. Parimenti, l’esercizio in forma associata deve riguardare la funzione nella sua interezza e non può essere frantumata in singoli e plurimi servizi svolti da più di una forma associativa, anche perché la competenza a porre eventualmente una proposizione normativa di segno positivo in tal senso spetta inequivocabilmente allo Stato che però, ad oggi, non l’ha esercitata. La l.r. n. 11/2012 prevede poi che le forme di gestione associata delle funzioni e dei servizi comunali possono avvenire attraverso Unioni di Comuni (art. 4) o Convenzioni (art. 5), fatto salva solamente la facoltà per i

Comuni di esercitare in forma associata le funzioni già conferite dalla Regione nelle materie di cui all’art. 117, co. 3 e co. 4, Cost., fermo restando cioè, in base all’art. 3, co. 3, l.r. n. 11/2012, il protrarsi del passato esercizio

associato facoltativo di tutte quelle funzioni e di tutti quei servizi che la normativa cogente, sia essa statale o regionale, non qualifica come esercizio obbligatorio. A ben vedere, per lo meno letteralmente, non è precisato a quale tipologia di Unione si faccia riferimento: se a quella ex art. 32, D.Lgs. n. 267/2000, oppure a quella speciale ex art. 16, D.L. n. 138/2011, anche se non pare escludibile a priori la possibilità di tale forma associativa, in quanto la L. 2.08.2012, n. 135 l’ha resa facoltativa e non più obbligatoria per i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti e sul punto la l.r. n. 11/2012 non dispone nulla in merito. Eccettuato questo dubbio interpretativo, vale comunque la pena di apprezzare il lavoro definitorio che la Regione Piemonte ha svolto nell’individuazione, ex art. 6, l.r. n. 11/2012, delle aree territoriali omogenee, suddividendole in aree montane, collinari e di pianura, rinviando ad una futura nuova classificazione, da attuare sentito il Consiglio delle autonomie locali. Dette aree omogenee, peraltro, ex art. 7, l.r. n. 11/2012, sono

Le forme di gestione associata ai sensi della l.r. n. 11/2012

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previste come funzionali rispetto alla determinazione delle soglie di popolazione minime per l’esercizio associato, che sono sensibilmente inferiori a quelle delineate in via ordinaria dalla normativa statale: 3.000 abitanti per le aree montane e collinari e 5.000 abitanti per le aree di pianura. L’art. 4 della l.r. n. 11/2012 contiene una disciplina esaustiva dell’Unione di Comuni, definendola anzitutto come ente locale costituito da due o più Comuni, dotato di personalità giuridica di diritto pubblico e alla quale sono immediatamente imputabili gli atti e le responsabilità derivanti dalla gestione delle funzioni individuate dallo Statuto, munita di potestà statutaria e regolamentare e con durata determinata dal proprio statuto, ma in ogni caso non inferiore a dieci anni. Lo Statuto, inoltre, dev’essere redatto sulla base di quanto previsto all’art. 32, D.Lgs. n. 267/2000 e deve prevedere le modalità di coinvolgimento dei Comuni associati e delle comunità locali, promuovendone la piena partecipazione alla formazione delle decisioni e alla valutazione dei risultati conseguiti. Esso, inoltre: a) individua la sede; b) individua le funzioni e i servizi svolti e le corrispondenti risorse umane, patrimoniali e finanziarie; c) prevede che il trasferimento delle funzioni in capo all’Unione garantisca il trasferimento delle risorse umane e strumentali necessarie allo svolgimento delle stesse garantendo i livelli occupazionali; d) determina gli organi di governo, le loro competenze, le modalità per la loro costituzione e funzionamento, garantendo la rappresentatività di tutti i Comuni aderenti; e) prevede che il Consiglio sia composto garantendo la presenza di un rappresentante per ogni Comune aderente; f) prevede che il numero dei componenti dell’organo esecutivo non superi il numero dei componenti previsto per l’organo esecutivo dei Comuni con popolazione pari a quella complessiva dell’Unione; g) disciplina i casi e le modalità di scioglimento dell’Unione e di recesso da parte dei Comuni partecipanti e i conseguenti adempimenti, in modo da garantire la continuità dello svolgimento delle funzioni e la salvaguardia dei rapporti di lavoro del personale che presta servizio a qualsiasi titolo presso l’ente. Da ultimo, si precisa che ogni Comune può far parte di una sola Unione di Comuni e che le Unioni di Comuni possono stipulare apposite Convenzioni

La personalità giuridica

dell’Unione di Comuni

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tra di loro o con singoli Comuni, oltre che limitatamente alla sola funzione socio-assistenziale anche aderendo ad un Consorzio tra Comuni. Le Comunità Collinari, precedentemente disciplinate dalla l.r. 28.02.2000, n. 16 recante “Provvedimenti per la tutela e lo sviluppo dei territori e dell’economia collinare”, in base all’art. 22 della l.r. n. 11/2012 che ha abrogato anche detta legge regionale dell’anno 2000, non esistono più. Mentre l’Unione di Comuni fa nascere un nuovo ente locale con autonomia statutaria e con propri organi, viceversa, ex art. 5, l.r. n. 11/2012, la

Convenzione, ovviamente consentita solo tra Comuni insistenti sul territorio piemontese, può essere definita come una sorta di accordo di diritto pubblico, a mezzo del quale più enti locali definiscono le reciproche obbligazioni istituzionali per svolgere in comune e in modo coordinato determinate funzioni e

certi servizi, rimanendo titolari rispettivamente delle proprie attribuzioni e funzioni. La Convenzione non è dotata di personalità giuridica, per cui tutta la rappresentanza è affidata unicamente al Comune Capofila che, se supera i 1.000 abitanti, è soggetto a partire dall’anno 2013, al rispetto del “patto di stabilità”. Ad ogni modo, anche nel caso di più Convenzioni tra diversi Comuni, in nome delle norme volte al contenimento della spesa pubblica, al di là della consistenza numerica dei Comuni che aderiscono alla Convenzione, pare doversi radicalmente escludere la possibilità per il Comune Capofila di poter assumere, fuori dotazione organica, un coordinatore avente il compito di gestire le plurime Convenzioni. Nel ritornare alla struttura giuridica della Convenzione si ribadisce quindi che la stessa è finalizzata alla delega di funzioni a favore di uno dei Comuni partecipanti (denominato “Comune Capofila”), contenente tra l’altro la disciplina dell’apporto di ciascuno dei Comuni partecipanti in termini di risorse umane, strumentali e finanziarie necessarie all’attività. Quest’ultimo punto merita però sin da subito l’aggiunta del doveroso corollario secondo cui i Comuni appartenenti ad una Unione possono gestire alcune delle funzioni fondamentali attraverso lo strumento della Convenzione se l’esercizio avviene all'interno dello stesso ambito territoriale, con la possibilità di estensione a ambiti territoriali confinanti. La Convenzione può prevedere sia la costituzione di uffici comuni oppure, in alternativa, la delega di funzioni a favore di uno dei suoi componenti che opererà in nome e per conto degli enti deleganti. Sia nell’uno che nell’altro caso, fatto salvo il mantenimento in capo ai Sindaci di tutte le qualifiche giuridiche loro spettanti in base alla legge, ciascun Comune aderente alla

La Convenzione è un accordo tra Comuni limitrofi, che è gestito dal Capofila

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Convenzione rimane titolare della funzione ed è responsabile degli atti adottati nell’esercizio associato della funzione, eccettuati unicamente gli obblighi e le garanzie specifiche concordate nella Convenzione. Anche per le Convenzioni è richiesta una dimensione demografica minima di 3.000 abitanti. Inoltre, in base all’art. 5, co. 3, l.r. n. 11/2012, si ha che: “la convenzione, fermo restando il rispetto dei principi stabiliti dall’ordinamento statale, prevede:

a) il fine e la durata, che non può essere inferiore a tre anni; b) le funzioni ed i servizi oggetto dell’esercizio associato nonché le modalità di svolgimento delle stesse; c) le modalità di consultazione degli enti contraenti; d) i rapporti finanziari tra gli enti contraenti; e) la costituzione di uffici comuni o la delega di funzioni a favore di uno dei Comuni partecipanti e la relativa previsione delle risorse umane, strumentali e finanziarie necessarie per l'attività; f) gli obblighi e le garanzie degli enti contraenti; g) i casi di recesso e le conseguenti obbligazioni cui resta vincolato l’Ente recedente”.

L’art. 7 della legge che se ne occupa, dopo aver precisato che i Comuni possono formulare proposte aggregative (siano esse Unioni o Convenzioni) nel rispetto del criterio di appartenenza alla medesima area territoriale omogenea senza però fissare un numero minimo inderogabile di enti richiedenti, definisce poi anche i limiti minimi demografici per le forme associative piemontesi, che sono diversi a seconda dell’area territoriale di appartenenza: - 3.000 abitanti per l’area montana e per quella collinare; - 5.000 abitanti per l’area di pianura. Se la proposta è avanzata da Comuni appartenenti a diverse aree territoriali il riferimento da considerare è quello dell’area territoriale ove risiede il maggior numero di abitanti. I dati relativi alla popolazione sono quelli ricavabili dall’ISTAT, avuto riguardo al penultimo anno precedente a quello relativo alla formulazione della proposta. I limiti anzidetti, peraltro, in virtù del co. 4 dello stesso art. 7, possono essere derogati dalla Regione Piemonte su richiesta motivata dei Comuni proponenti. In merito poi alla forma che la proposta aggregativa deve presentare, l’art. 7, l.r. n. 11/2012, lascia del tutto liberi i Comuni interessati, con la plausibile

Definizione dei limiti demografici delle

aree territoriali omogenee

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conseguenza che se il Comune in esame ha già in essere una gestione associata di tre funzioni fondamentali e intende aggregarsi con altre realtà comunali per le altre funzioni, potrà limitarsi a presentare alla Regione Piemonte una mera dichiarazione di intenti integrativa dell’Unione o della Convenzione in essere. Diverso il caso del Comune obbligato che non abbia ancora posto in essere alcuna forma di gestione associata, il quale, viceversa, dovrà presentare un vero e proprio atto costitutivo. Il successivo art. 8, l.r. n. 11/2012, invece, contempla un termine procedurale molto ristretto di novanta giorni dall’entrata in vigore della legge per l’identificazione delle aree sovracomunali in cui si svolgono gli esercizi associati, con proposte che la Regione Piemonte dovrà preventivamente verificare al fine di garantire il rispetto dei princìpi di efficienza, efficacia ed economicità: se la verifica sarà positiva, la Regione provvederà a determinare il riconoscimento di ambito territoriale ottimale. Se una preesistente Unione di Comuni già risponde ai criteri stabiliti dalla l.r. n. 11/2012, la stessa non dovrà ricostituirsi, poiché ex art. 8, co. 3, della legge, è considerata ambito territoriale ottimale. In virtù dell’art. 9 della l.r. n. 11/2012 si ha poi, anzitutto, che: “la Regione destina annualmente, entro l’anno finanziario di riferimento e nei limiti delle

disponibilità di bilancio, contributi a sostegno della gestione associata delle funzioni e dei servizi comunali nelle forme consentite dalla normativa statale e regionale”. Tali incentivi finanziari potranno essere erogati anche al

fine di favorire l’esercizio associato di funzioni da parte dei Comuni che non sono obbligati all’esercizio associato in base alla normativa statale, con considerazione prioritaria per i progetti di Unione o Convenzione fra Comuni superiori ed inferiori a 5.000 abitanti, oltre che per l’elaborazione di specifici progetti di nuove forme di gestione associata o di riorganizzazione di quelle esistenti. Secondo tale sistema di premialità, i piccoli Comuni più che probabmente verranno indotti e sostenuti ad attuare le diverse opzioni concesse loro dalla legge regionale, anche “associandosi nelle forme previste” con Comuni di dimensioni maggiori per contribuire al raggiungimento di più che auspicabili economie di scala e forse anche in vista di una ricomposizione del tessuto comunale che tenga conto dei c.d. Centri Zona in passato già esistenti, anche se non esplicitamente classificati e catalogati come enti esprimenti dimensioni territoriali ed operanti sul territorio, in maniera reputata come assai soddisfacente. Del pari, l’art. 11 della l.r. n. 11/2012, nell’intera operazione di riordino

Le forme di sostegno finanziario all’associazione e alla fusione di Comuni

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territoriale, ha anche cura di approntare misure di incentivazioni finanziarie a favore della fusione di Comuni e della conseguente istituzione di un nuovo Comune, sorto dalla fusione di almeno due Comuni contigui. Naturalmente, anche sotto questo profilo, la Regione Piemonte definisce i criteri base per l’erogazione dei menzionati incentivi finanziari che fanno riferimento alla situazione gestionale e patrimoniale del nuovo ente, alla fascia demografica di appartenenza dei Comuni fusi e, infine, al loro numero. Gli incentivi finanziari non sono erogabili “a fondo perduto”, “a pioggia” e neppure “per un tempo illimitato”, dal momento che la stessa disposizione impone esplicitamente che gli stessi siano erogati “per almeno un quinquennio, nella misura della media dei trasferimenti regionali continuativi, erogati nel triennio precedente la fusione, ai singoli Comuni fusi, incrementata del cinquanta per cento”. Dev’essere altresì chiaro che l’avvio della procedura di fusione non fa decadere l’obbligo di ottemperare alle norme statali sull’obbligo della gestione associata per i Comuni per i quali è previsto; gli stessi, entro il termine del 1.01.2013, dovranno assicurare l’esercizio in tale forma di almeno tre funzioni fondamentali e, entro l’1.01.2014, delle restanti funzioni. Problema differente che, però, pare poter essere risolto positivamente è quello relativo all’assoggettamento o meno all’obbligo della gestione associata delle funzioni fondamentali a seguito della fusione che dà vita ad un nuovo Comune avente un numero di abitanti inferiore a quello previsto dalla legge regionale come limite demografico minimo: questo in quanto né la legge statale né quella regionale non prevedono distinzioni in materia. Quanto poi alle Unioni Montane di Comuni, il legislatore regionale, negli artt. da 12 a 18 della l.r. n. 11/2012, detta una serie di norme volte al superamento del previgente assetto delle Comunità Montane, fermo restando, ex art. 12, che le Comunità Montane devono obbligatoriamente adeguarsi alla normativa sulle gestioni associate con una tempistica ed una procedura anche in questo caso molto stringente: entro la fine di dicembre del 2012, infatti, il Consiglio dell’Unione Montana di Comuni deve approvare una proposta di identificazione del territorio della Comunità in ambito ottimale di gestione associata da trasmettere alla Regione, mentre entro la fine di marzo del 2013 i singoli Consigli comunali devono votare tale proposta. I possibili risultati potranno, a seconda dei casi, condurre alla sostituzione delle attuali Comunità Montane con: î una sola Unione Montana di Comuni coincidente con la precedente

La nuove Unioni Montane di Comuni: tipologie, funzioni e

tempistiche

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Comunità Montana; î più Unioni Montane di Comuni, il cui territorio coincide con la

precedente Comunità Montana; î una o più Unioni Montane di Comuni, il cui territorio non coincide con

la precedente Comunità Montana; î nessuna forma aggregativa, con la conseguente fine dell’esperienza

della Comunità Montana e una o più Convenzioni o altre modalità di esercizio associato delle funzioni, comunque in territori non più coincidenti con la precedente Comunità Montana.

In ogni caso, ex art. 13, l.r. n. 11/2012, i Comuni facenti parte delle preesistenti Comunità Montane gestiranno in forma associata anche tutte le funzioni già attribuite all’ente a cui andranno a sostituirsi e che verranno conferite ai Comuni nel rispetto delle disposizioni di cui all’art. 17 della legge regionale dell’autunno 2012 disciplinante il trasferimento delle funzioni amministrative in precedenza attribuite alle Comunità Montane. Il successivo art. 18 prevede opportune norme di tutela del personale attualmente dipendente delle Comunità Montane e finalizzate a garantire le professionalità già acquisite in queste peculiari esperienze aggregative. Un problema che sembra aperto è quello afferente l’esatta comprensione di quali funzioni eserciteranno le nuove Unioni Montane; ciò in quanto la l.r. n. 11/2012 non rinvia direttamente alle norme previste dal D.L. n. 95/2012 che stabiliscono una tempistica differenziata per l’esercizio di tutte le funzioni fondamentali (tre funzioni entro l’1.1.2013, tutte entro l’1.1.2014) e quindi, per lo meno, come ipotesi che dovrà essere attentamente verificata in futuro, non sembra potersi escludere che la nuova Unione Montana possa svolgere anche solo alcune delle funzioni fondamentali, lasciando le altre ai singoli Comuni aderenti. Altro interrogativo che dovrà essere chiarito è quello relativo alla possibilità per i Comuni aderenti alla nuova Unione Montana di stipulare Convenzioni all’interno dell’Unione o all’esterno. È infatti vero che la l.r. n. 11/2012 consente apertamente che l’Unione Montana possa stipulare Convenzioni con Comuni ad essa non aderenti per l’esercizio associato di funzioni; se, però, fosse corretta e risultasse vittoriosa la tesi sopra enunciata per cui l’Unione Montana potrebbe anche non necessariamente essere titolare di tutte le funzioni fondamentali dei Comuni aderenti, questi ultimi potrebbero stipulare Convenzioni di esercizio associato sia all’interno dell’Unione stessa sia all’esterno. Per quanto attiene alla specifica tematica che rappresenta l’oggetto principale del presente capitolo, vale a dire la disciplina della funzione fondamentale di polizia municipale e di polizia amministrativa locale, va da

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subito notato come anche la novella di cui alla l.r. n. 11/2012, a conferma della bontà dell’impianto normativo contenuto nelle precedenti leggi regionali promulgate in materia (lo si ricorda, per brevità, le ll.rr. n. 58/1987 e n. 57/1991), non ha previsto l’abrogazione, né diretta né per rinvio, di tali lungimiranti normative regionali che di conseguenza continuano a rimanere in vigore e a dover essere osservate e fatte osservare da parte di chiunque operi, sia pure a vario titolo e con differenti qualifiche giuridiche e con diversi gradi di responsabilità, in nome e per conto delle amministrazioni locali. Occorre altresì rimarcare il fatto come la cennata funzione di polizia municipale e di polizia amministrativa locale continua, come in passato, a essere normativamente prevista come funzione fondamentale, a conferma della rilevanza che il Legislatore le ha sempre attribuito a tutela e a garanzia di beni giuridici rispetto a cui non si può prescindere nella valorizzazione dei territori e dei loro abitanti. Nel cercare di fornire un quadro di sintesi utile per le amministrazioni comunali chiamate ad approcciarsi alla nuova normativa regionale sulle forme di gestione associata della funzione fondamentale di polizia municipale e di polizia amministrativa locale, si ritiene opportuno sintetizzare il quadro vigente nel box di seguito.

Gli aspetti salienti della legge regionale L’ambito di applicazione. La l.r. n. 11/2012 disciplina in via generale l’esercizio in forma associata delle funzioni e dei servizi di competenza comunale, e poi detta la disciplina speciale delle Unioni Montane di Comuni (che sostituiranno le Comunità Montane). Le possibili forme associate. Ai sensi della l.r n. 11/2012, gli enti locali possono fare ricorso alle seguenti forme associative: - Unioni di Comuni (art. 4); - Convenzione (art. 5); - Consorzio di Comuni (art. 3), - Unioni Montane di Comuni (artt. 12-18). Ciò, però, con l’opportuna precisazione che i Comuni obbligati all’esercizio associato possono svolgere le funzioni ed i servizi di polizia municipale e di polizia amministrativa locale unicamente mediante Unioni di Comuni o Convenzioni. Aree territoriali omogenee (artt. 6 e 7). Le legge regionale individua tre aree territoriali omogenee: aree montane, collinari e di pianura. Esse sono funzionali alla determinazione delle soglie di popolazione minine per l’esercizio associato, che sono le seguenti: 3000 abitanti per le aree montane e collinari e 5000 abitanti per le aree di pianura.

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Incentivi finanziari ai Comuni (artt. 9 e 11). La legge prevede due forme di possibili contributi economici: la prima riguarda i contributi che l’ente regionale destina annualmente, nei limiti delle disponibilità del bilancio regionale, a sostegno della gestione associata rivolti ai Comuni che si associano (art. 9). La seconda forma sono destinati alle amministrazioni comunali contigue, almeno due, che si fondono per dar vita ad un nuovo Comune (art. 11). In questo caso la legge definisce i criteri base per l’erogazione degli incentivi finanziari, che fanno riferimento alla situazione gestionale e patrimoniale del nuovo ente, alla fascia demografica di appartenenza dei Comuni fusi e, infine, al loro numero. Unioni Montane di Comuni (artt. 12-18). Le Comunità montane vengono eliminate e sostituite dalle Unioni Montane di Comuni, quale forma di gestione associata delle funzioni attribuite agli enti che ne fanno parte. Documentazione. Il testo integrale della legge regionale 28.09.2012 n.11 recante “Disposizioni organiche in materia di enti locali” è scaricabile dal sito Arianna della Regione Piemonte.

Possibili riflessi operativi derivanti dalla l.r. n.11/2012

La polizia municipale e la polizia amministrativa locale: una funzione e un servizio peculiari In base alla vigente normativa, nazionale e regionale, il personale dipendente della Polizia Locale in servizio presso i Comuni o le Province (e quindi sia nel caso in cui sia inquadrabile come appartenente alla Polizia Municipale sia nel caso in cui sia appartenente alla Polizia Provinciale) è titolato di qualifiche giuridiche profondamente diverse e ulteriori rispetto a quelle attribuite al personale dipendente dell’amministrazione locale di riferimento. Ciò, se non altro, perché gli appartenenti alla categoria professionale della Polizia Locale, oltre a essere pubblici ufficiali come tutti i dipendenti pubblici del Comune o della Provincia, rivestono altresì le qualifiche di agenti o di ufficiali di polizia giudiziaria, di agenti ausiliari di pubblica sicurezza (qualora tale qualità sia stata loro riconosciuta con apposito decreto prefettizio), oltre che, va da sé, quella di agenti o di ufficiali di polizia locale. Per giunta, bisogna debitamente rilevare come tutta la normativa che ha attribuito dette qualifiche al personale della Polizia Locale è di molto precedente non solo all’odierno assetto normativo che ha inciso profondamente in materia di gestione associata della funzione fondamentale di polizia municipale e di polizia amministrativa locale (basti

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pensare soltanto all’art. 57, co. 2, lett. b, ed al co. 3, dello stesso art. 57, del D.P.R. 22.09.1988, n. 447, che ha approvato il testo del vigente Codice di Procedura Penale, per quanto attiene alle qualifiche di polizia giudiziaria), ma anche allo stesso D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 ed ai suoi artt. da 30 a 33, a

mezzo dei quali si era proceduto ad una prima disciplina organica dell’esercizio associato di funzioni e servizi da parte dei Comuni. Onde meglio comprendere da una parte la peculiarità delle funzioni e del servizio che il singolo appartenente alla Polizia Locale è tenuto a svolgere, e dall’altra le possibili difficoltà che possono insorgere nel caso in cui il personale di Polizia Locale transiti come dipendenza amministrativa da un Comune ad un’Unione o a una Convenzione di Comuni, occorre ricordare brevemente gli ampi e svariati settori principali in cui si sviluppa l’attività di vigilanza, prevenzione e repressione della Polizia Locale. Questi essenzialmente sono: î polizia locale, urbana e rurale, riferita esclusivamente ai regolamenti

ed alle ordinanze del Comune; î polizia giudiziaria; î polizia stradale sulle strade appartenenti al territorio del Comune di

appartenenza; î polizia annonaria; î vigilanza sull’igiene, ambiente, alimenti, bevande; î edilizia, urbanistica e tutela ambientale; î accertamenti ed informazioni relativi alle attività istituzionali dell’Ente

Locale; î polizia veterinaria; î polizia mortuaria; î polizia tributaria locale.

In base a quanto appena ricordato, appare evidente come lo status giuridico del personale della polizia locale non sia per nulla raffrontabile con quello del personale amministrativo generalmente considerato delle autonomie locali. Di conseguenza, pare indubbio che l’adesione al modello di esercizio associato della funzione fondamentale di polizia municipale e di polizia amministrativa locale presenta dei vantaggi oggettivi e superiori alle possibili criticità, sia per il servizio e per la funzione globalmente considerata e astrattamente ascrivibile alla Polizia Locale, sia per gli appartenenti a tale Forza di Polizia Locale. Vantaggi, però, che possono essere conseguiti

Peculiarità del personale della Polizia Locale in termini di qualifiche e servizio svolto

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solamente laddove si tengano ben presenti tutte le considerazioni precedentemente messe in rilievo e le inevitabili conseguenze che le stesse sono suscettibili di determinare, per lo meno in termini di validità e efficacia degli atti che verranno adottati dal personale della forma associata. Tanto per fare un facile e immediato esempio si ponga attenzione alla possibilità duale che l’opzione della Convenzione può determinare: o creando un ufficio comune a tutti gli enti locali che aderiscono alla Convenzione che opera con personale distaccato dagli enti partecipanti e a cui venga affidato l’esercizio di tutte le pubbliche funzioni, oppure delegando dette funzioni a favore di uno soltanto degli enti Locali (Comune Capofila) che partecipano alla Convenzione. Soluzione, quest’ultima, che come si è avuto modo di constatare sino all’entrata in vigore della normativa che tipizza i casi di adesione obbligatoria a tale tipologia di accordo, viene in genere preferita quando uno degli enti locali è di dimensioni di gran lunga maggiori rispetto a quelle degli altri. Diversamente, qualora si decida di optare per la prima soluzione, l’ufficio sarà invece comune e assumerà complessivamente tutte le prerogative che in precedenza erano possedute dai singoli enti Locali aderenti a tale forma di Convenzione. In ogni caso, sia che si opti per il modello dell’Unione piuttosto che per quello della Convenzione (con le due possibili varianti sopra specificate), è oramai assodato che, vuoi per il dettato normativo vuoi per le stesse scelte di politica di sicurezza e di governo del territorio, l’esperienza associativa dovrebbe riguardare l’intera funzione di polizia locale e non limitarsi a quella propria della polizia amministrativa locale. Altrimenti, non avrebbe peraltro avuto senso alcuno l’espressione che è stata utilizzata dal legislatore nazionale di “polizia municipale e polizia amministrativa locale”. Ciò detto, è altrettanto chiaro come il Legislatore nazionale ha volutamente lasciato libere e svincolate le singole amministrazioni locali nell’aderire ad un modello di esercizio associato monocentrico piuttosto che ad uno, viceversa, pluricentrico. Il primo, caratterizzato dalla scelta di concentrare in un’unica sede tutti i compiti direzionali; il secondo avente invece più centri direzionali. Al di là delle preferenze ideologiche che possono inferire per la scelta dell’uno piuttosto che dell’altro modello, ciò che appare determinante sarà misurare pregi e difetti dell’uno e dell’altro schema organizzativo e gestionale con l’esperienza e con i risultati che si produrranno in concreto, anche se pare già possibile avanzare una duplice serie di considerazioni. La prima è che il modello pluricentrico sembra poter fornire maggiori

Scelta tra il modello di esercizio associato

monocentrico e quello pluricentrico

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garanzie in termini di efficacia ed efficienza del servizio laddove il territorio da presidiare sia particolarmente vasto ovvero connotato da centri ricadenti nella sfera d’azione della forma associata assai distanti fra di loro e raggiungibili con tempi di percorrenza considerevoli, considerata la conformazione morfologica del territorio o la scarsità della rete viaria. Si pensi, in tal senso, soprattutto ai Comuni montani e pedemontani di cui il Piemonte è particolarmente ricco. La seconda riflessione è che, indipendentemente dal modello adottato, una strutturazione ottimale del servizio di polizia locale dovrà necessariamente avvenire per macro aree. Se infatti il Servizio di Polizia Locale costituito da un “mono-agente di polizia locale” da qui a poco scomparirà “senza se e senza ma”, solamente una visione miope e distorta del fenomeno non è in grado di comprendere sin da ora come la suddivisione per macro aree sarà

l’unica che consentirà forme sempre più evolute e elevate di specializzazione del personale e del suo utilizzo. Sempre grazie alla suddivisione per macro aree, poi, il servizio complessivamente erogato sarà, se non quantitativamente, per lo meno qualitativamente, migliore di quello attuale

poiché reso da personale impiegato nel modo più razionale possibile.

Prime valutazioni tecnico-organizzative: possibili vantaggi e criticità

La Regione Piemonte, grazie alla norma contenuta nell’art. 10 della l.r. 28.09.2012, n. 11, si è riservata espressamente la facoltà di promuovere ogni attività volta a fornire ai Comuni assistenza giuridico-amministrativa e tecnica alle forme associative, nonché interventi di formazione per amministratori e dipendenti di enti locali atti a favorire l’approfondimento e la condivisione di tematiche relative alla gestione associata. Nell’esercizio, sia pur parziale e per “sommi capi”, di tale facoltà e al mero fine di fornire un primo supporto tecnico-organizzativo agli organi politico-amministrativi apicali degli enti locali che a breve addiverranno all’esercizio associato della funzione fondamentale di polizia municipale e di polizia amministrativa locale, si tenterà ora di delineare i netti miglioramenti rispetto alla qualità del servizio offerto che l’esercizio associato della funzione può consentire, quale strumento gestionale condiviso di collaborazione istituzionale fra enti di dimensioni piccolissime, piccole od anche medio-piccole. Anzitutto, secondo una visione minimale, l’esercizio associato della funzione di polizia municipale e di polizia amministrativa locale, anche grazie agli eventuali contributi che la Regione Piemonte, nei limiti delle disponibilità di

Possibili benefici: risparmi, migliore organizzazione e gestione delle risorse, più professionalità e servizi

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bilancio, attribuirà agli enti locali che si uniranno o che si convenzioneranno, può consentire di ottenere degli innegabili risparmi economici. I costi del servizio reso dalla gestione associata, infatti, saranno sicuramente inferiori rispetto a quelli sostenuti dai singoli enti per l’erogazione del medesimo servizio: i costi fissi saranno distribuiti meglio e, assai verosimilmente, diminuiranno anche i costi imputabili alla precedente eterogeneità di assegnazione di molteplici funzioni allo stesso (in moltissimi casi anche unico) Operatore di Polizia Locale, il quale, pur impegnandosi al massimo, molto difficilmente poteva raggiungere gli stessi livelli di prestazione del servizio che saranno invece raggiungibili grazie a una razionale e organizzata struttura che opera per funzioni. Tale visione, però, ben potrà essere superata laddove le Unioni di Comuni o le Convenzioni per l’esercizio della funzione fondamentale in esame faranno un uso strategico e ottimale delle risorse a loro disposizione, partendo dalla considerazione irrinunciabile di intendere la forma di gestione associata come un’opportunità non tanto (e non solo) per ottenere risparmi di scala, quanto piuttosto per offrire ai cittadini un miglioramento, qualitativo e quantitativo, del servizio di polizia locale globalmente inteso, a parità di costi da sostenere. In primo luogo, invero, la gestione associata del servizio di polizia locale può sicuramente rappresentare una sfida culturale/manageriale per tutto il personale di polizia locale coinvolto, nel cui alveo il servizio potrà essere organizzato con modalità nuove rispetto a quelle tradizionali del passato e maggiormente confacenti alle specifiche esigenze territoriali in cui l’Unione o la Convenzione sarà chiamata ad operare. Ove infatti si riuscirà a superare gli eventuali particolarismi comunali e gli individualismi propri anche degli Operatori di Polizia Locale (ancoràti a una visione fortemente limitata e limitativa per il fatto di operare entro una comunità ed un territorio poco estesi e facenti capo al Comune di piccole, se non di piccolissime dimensioni), ben si potrà conservare la loro approfondita conoscenza del territorio e delle persone che lo abitano implementandola con una conoscenza nuova di altri territori e di altre comunità, in virtù della fusione di professionalità e di conoscenze reciproche con i colleghi che prima prestavano servizio nel differente Comune, unitosi o convenzionatosi, con il “proprio” e realizzando in tal modo un confronto costruttivo e migliorativo delle singole capacità e competenze professionali. Con l’ottenimento di un miglioramento complessivo dell’organizzazione e di tutte le sue singole componenti umane e professionali, non pare poi

Maggiore capacità di azione della polizia

locale con personale e dotazioni

tecnologiche comuni

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azzardato ipotizzare anche la possibilità di fornire servizi, quali quello della rilevazione dei sinistri stradali, che prima erano difficilmente fornibili, per lo meno al di là dell’ordinario turno di servizio quotidiano, da parte del singolo Operatore di Polizia Locale del singolo Comune. Se, per utilizzare un’espressione oggi in voga, anche se a volte abusata, quale quella di “fare rete e squadra”, effettivamente si riuscirà a far convogliare tutte le specifiche professionalità della Polizia Locale in un tutt’uno organico e coeso, anche sotto il profilo della formazione professionale, sarà possibile addivenire a cicli virtuosi, dovuti ai predetti risparmi di scala, se non altro imputabili a fattori quali: quello dell’unica sede ove realizzare l’attività di aggiornamento e di specifica qualificazione professionale; quello relativo alla possibilità di utilizzare una sola autovettura e per il numero massimo di posti a sedere consentiti dal Codice della Strada nel caso in cui l’attività formativa venisse invece somministrata in un luogo diverso da quello disponibile da parte dell’Unione o della Convenzione di Polizia Locale; quello attinente alla possibile e auspicabile sottoscrizione di un solo abbonamento ad una o più riviste di settore, piuttosto che tanti abbonamenti quanti erano gli enti che si sono convenzionati od uniti, e tanti altri esempi ancora. Altro possibile vantaggio che la gestione associata della funzione di polizia municipale e di polizia amministrativa locale potrà determinare sarà quello relativo all’innalzamento della soglia di efficienza della singola prestazione lavorativa. Le attuali carenze del personale della Polizia Locale che si registrano in moltissimi piccoli Comuni - che molto spesso possono contare su un solo Operatore di Polizia Locale - potranno essere se non risolte, per lo meno arginate. Ciò in quanto una buona organizzazione e una buona gestione della funzione potrà consentire di impiegare un numero di addetti della Polizia Locale inferiore rispetto alla somma degli addetti utilizzati in passato da ciascun singolo Comune per lo svolgimento della stessa e unica funzione. Si pensi, ad esempio, alla turnazione nell’utilizzazione del personale e alla capacità di fronteggiare eventi che normalmente non vengono e non possono essere gestiti dal servizio, inteso come un ramo di attività della Polizia Locale e non già come un Corpo di Polizia Locale al di sotto dei sette addetti di Polizia Locale, composto da un “mono-agente di Polizia Locale”, quali gli interventi di contrasto alla micro-criminalità o ai servizi di pattuglia automontata posta a presidio del territorio, per più di un ordinario turno di lavoro. Anche il numero di personale che potrà essere impiegato sul territorio di ciascun Comune nei servizi esterni potrà subire un apprezzabile incremento, giacché i servizi interni potranno e dovranno essere

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centralizzati, “liberando”, per così dire, il personale della Polizia Locale impiegabile sul territorio in modo tale da rispondere alle sempre più costanti richieste dei cittadini per una maggior presenza e visibilità della Polizia Locale “sulla strada”, e adempiere al meglio al compito di organo di controllo e di sicurezza urbana che la Polizia Locale oggi si è vista assegnare da parte del Legislatore e che vuole realizzare al meglio. Secondo tale filosofia di organizzazione del lavoro, lo stesso impiego delle risorse tecnologiche complessivamente a disposizione dell’Unione o delle Convezioni potrà essere implementato, specialmente a vantaggio del singolo Comune che precedentemente alla creazione della gestione associata non poteva disporre di questo piuttosto che dell’altro singolo strumento di lavoro (si pensi, esemplificativamente, all’etilometro, al telelaser, alla modulistica unificata, eccetera). Tratteggiati brevemente i possibili vantaggi che l’esercizio in forma

associata della funzione di polizia municipale e di polizia amministrativa locale può assicurare, occorre però anche evidenziare quali possono essere i possibili problemi che potrebbero derivare da tale forma di gestione associata della funzione.

Anzitutto, laddove si optasse per la Convenzione, un’eventuale criticità potrebbe afferire al passaggio dalla gestione diretta a quella associata delle entrate comunali derivanti dalla riscossione delle sanzioni amministrative spettanti per legge al Comune: il caso emblematico di elevazione di un verbale per infrazione del Codice della Strada da parte di un Operatore di Polizia Locale dipendente di un dato Comune sul territorio di un altro Comune facente parte della predetta Convenzione, potrebbe comportare difficoltà nell’individuazione del Comune a cui spetta introitare la relativa entrata, ovviamente nel caso in cui la sanzione amministrativa pecuniaria accertata venisse poi incassata a seguito della relativa corresponsione da parte del debitore. Invero, apparentemente, la soluzione sembrerebbe facile, giusto il disposto di cui all’art. 208, co. 1, secondo periodo, del D.Lgs. 30.04.1992, n. 285 e s.m.i., che ha approvato il Codice della Strada, a tenore del quale si ha che i proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie per violazioni previste dal Codice Stradale sono devoluti ai Comuni quando le violazioni siano accertate da funzionari, ufficiali e agenti dei Comuni. L’interrogativo, tuttavia, permane dato il mancato coordinamento normativo tra tale norma e quelle posteriori che hanno inciso sulle forme di gestione associata della funzione di polizia municipale e di polizia amministrativa locale, in quanto l’interpretazione e l’applicazione che è stata sino ad ora fornita alla norma in

Alcune questioni rimangono aperte e ancora da definire

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esame - per cui i proventi spettano al Comune per il quale presta servizio l’Operatore di Polizia Locale accertatore - non pare più così piana e pacifica. Invero, il criterio della devoluzione dei proventi stradali all’Ente di appartenenza alle cui dipendenze presta servizio l’agente accertatore, con l’entrata a regime della forme di gestione associata della funzione, potrebbe, quanto meno in alcuni casi, generare risultati paradossali e per nulla condivisibili, ove applicato tout court e senza alcun correttivo di sorta. Ciò, specialmente se in virtù degli accordi intrapresi tra uno o più Comuni convenzionatisi tutto il personale della Polizia Locale (che, antecedentemente alla creazione della Convenzione dipendeva da questo piuttosto che da quel Comune, svolgendo anche servizi esterni come quello esaminato dell’accertamento delle violazioni stradali) sia stato interamente assegnato a servizi interni della Convenzione: in tale caso, il Comune di riferimento non avrebbe più alcun titolo a ricevere gli introiti derivanti dal pagamento delle sanzioni amministrative pecuniarie stradali che siano state elevate sul territorio di altro diverso Comune. È però anche vero che il citato criterio discretivo potrebbe essere mitigato e ricondotto ad equità inserendo già all’atto della stipula della Convenzione dei correttivi, quale quello dell’estensione territoriale di tutti i Comuni che hanno aderito alla Convenzione, indipendentemente dalla considerazione assorbente di quale sia il territorio comunale su cui sono state elevate le violazioni stradali, i cui proventi sono poi stati effettivamente incassati dalla Convenzione. Sempre permanendo nel campo dell’accertamento e del sanzionamento delle contravvenzioni stradali, specialmente laddove la gestione associata della funzione dovesse invece avvenire per mezzo della forma dell’Unione, pare fortemente consigliabile prevedere ed attuare sin dal primo momento di vita dell’Unione accorgimenti pratico-operativi idonei a consentire ex-post, sia nel caso di scioglimento dell’Unione stessa sia nell’ipotesi di successiva fusione dei Comuni unitisi, l’esatta imputabilità della contabilità annuale e delle singole voci di entrata e di uscita a ciascuna delle singole componenti comunali dell’Unione. Si potrebbe, ad esempio, pensare alla tenuta di registri separati riferibili a ciascun singolo Comune che, anche se informatizzati come quello unico dell’Unione, possano in seguito consentire lo scorporo degli atti ed anche delle entrate e delle uscite dei singoli partecipanti all’Unione medesima che ha cessato di esistere.

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Conclusioni Al termine di questo capitolo in ordine alle nuove modalità organizzative del servizio di polizia locale che le forme di esercizio associato della funzione fondamentale di polizia municipale e di polizia amministrativa locale hanno introdotto nell’intero sistema di riferimento, corre ancora l’obbligo di segnalare alcune considerazioni di chiusura del discorso. La prima riguarda l’attenzione che la Regione Piemonte, come ha peraltro da sempre dimostrato sin dagli anni ottanta, sarà certamente disponibile a prestare ampia attenzione alle problematiche che potranno investire le amministrazioni comunali coinvolte in tali processi decisionali e gestionali. Ciò anche e soprattutto con riferimento alle problematiche future e odiernamente ancora in divenire e/o aperte (che quindi possono soltanto essere ipotizzate e non corredate da soluzioni certe e incontrovertibili), specialmente per quanto concerne i possibili svantaggi collegati a ciascuna delle singole forme di gestione associata della funzione qui investigata. E questo tanto più se si tiene conto di quelli che potranno essere gli ulteriori effetti inferenti dagli ultimissimi sviluppi di politica normativa che, solamente per far cenno a uno fra i casi che paiono in tal senso più emblematici fra i tanti prospettabili, ed avente conseguenze importanti anche rispetto alla tematica dell’esercizio della funzione di polizia municipale e di polizia amministrativa locale, è quello connesso allo stato di attuale incertezza sulla definitiva entrata in vigore delle norme che, fra l’altro, prevedono l’abolizione di certune Province (tra cui anche quelle piemontesi di Asti, Biella e Verbania Cusio-Ossola), così come contemplata nel D.L. 5.11.2012, n. 188, recante “Disposizioni urgenti in materia di Province e di Città Metropolitane”, ove lo stesso decreto legge, data l’attuale crisi di governo nazionale, non venisse poi convertito in legge e, perciò caducato retroattivamente, sin dal giorno della sua entrata in vigore. Altra, seppur provvisoria, conclusione, è quella per cui, in ogni caso, oltre che per la cennata variabilità del quadro istituzionale oggi vigente, una prima valutazione di merito circa il buon andamento o meno che le nuove forme di gestione associata della funzione esercitata dalla Polizia Locale potranno complessivamente produrre in termini di miglioramento del servizio e di benefici per i loro clienti/utenti (i cittadini) potrà essere effettuata solamente dopo che il sistema sarà andato a regime, e quindi presumibilmente non prima della fine dell’anno 2014. Infatti, soltanto dopo il decorso di questo che si ritiene essere un termine ragionevole al fine di poter tracciare plausibili e ponderate considerazioni di primo periodo, la Regione Piemonte, nell’esercizio delle competenze e delle facoltà ad essa

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conferite dall’art. 10, della l.r. n. 11/2012, potrà anche ipotizzare correttivi, eventualmente adottabili da parte delle Unioni o delle Convenzioni già formatesi e già operanti sul territorio piemontese. Ancor prima, però, la stessa Regione Piemonte, impegnandosi a fondo nel tentativo di vincere la sfida - impegnativa e che richiede un certo apprezzabile lasso di tempo - del decollo delle previste forme di esercizio associato della funzione fondamentale di polizia municipale e di polizia amministrativa locale, si potrà peritare nell’elaborare schemi di Unioni e di Convenzioni tra Comuni per la gestione associata della funzione in esame, a cui i singoli Enti Locali territoriali potranno attingere come modelli di partenza, anche se non vincolanti per gli stessi Comuni e da questi autonomamente e liberamente perfettibili.

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Capitolo 6 La videosorveglianza. Cosa fare perché sia efficace e rispettosa dei diritti di Valeria Ferraris e Elena Carli 1. Introduzione ..……………………………………….…….……………..p. 177 2. Videosorveglianza, diritti e libertà ..…………….…….……………p. 178 Il quadro di riferimento europeo I principi guida sulla videosorveglianza La normativa italiana sulla videosorveglianza Videosorveglianza, privacy e diritti Videosorveglianza ed evoluzione tecnologica Observo. Una sperimentazione di efficienza 3. Uso ed efficacia della videosorveglianza …..…………………..…p. 192 L’uso della videosorveglianza: potenzialità e criticità L’organizzazione e la gestione di un sistema di videosorveglianza a livello locale: le ultime novità Modalità e finalità della videosorveglianza nelle città La Carta per un utilizzo democratico della videosorveglianza Le telecamere sono efficaci? Note ..………………………………………………………………………..p. 207

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Introduzione Il capitolo affronta il tema della videosorveglianza nelle politiche di sicurezza con una duplice finalità: da un lato quella di far conoscere i termini del dibattito a chi non ha mai affrontato il tema della videosorveglianza, e dall’altro quella di essere strumento di aggiornamento e di riflessione per chi, sia per ragioni istituzionali che professionali, deve affrontare quotidianamente il tema. Il capitolo dedica il primo paragrafo alla complessa tematica della compatibilità della videosorveglianza con i diritti e le libertà dei cittadini. Non si dilunga sul dettaglio legislativo, ampiamente trattato in un recente quaderno della Regione Piemonte (Regione Piemonte, 2011), ma dedica spazio a inserire la normativa dentro il quadro europeo, a delineare i principi guida e il dibattito in materia di sorveglianza e diritti. Inoltre affronta il tema della evoluzione tecnologica che bene qualifica la natura duplice della videosorveglianza: rischio e opportunità. Successivamente si affrontano le diverse forme di utilizzo della videosorveglianza da parte degli Enti locali, nonché i profili organizzativi e gestionali, anche a seguito delle recenti circolari e direttive del Ministero dell’Interno. Un ulteriore approfondimento viene dedicato - aggiornando e arricchendo l’analisi fatta nell’ambito del quaderno C!VIVO (Amapola, 2008b) - al tema dell’efficacia della videosorveglianza. Si tratta di un argomento molto dibattuto, su cui vi sono pochi contributi e permane una rilevante difficoltà nel misurare l’efficacia di questo strumento. Come già

visto nel capitolo quarto, valutare i risultati e l’impatto delle politiche locali di sicurezza è impresa difficile e spesso elemento poco accuratamente considerato. Anche la videosorveglianza non fa eccezione. Come

si vedrà, i pochi studi esistenti sono tutti stranieri e anche questi non sono riusciti a sciogliere “il nodo gordiano dell’efficacia”.

Videosorveglianza e diritti dei cittadini: un tema antico su cui le

nuove tecnologie aprono nuovi orizzonti

La videosorveglianza e i Comuni: modalità di utilizzo e riflessioni sull’efficacia

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Videosorveglianza, diritti e libertà

L’attuale società dell’informazione si caratterizza per un rilevante impiego di tecnologie che amplia le possibilità dei cittadini ma allo stesso tempo entra in conflitto con i loro diritti. Per questo si è parlato di una convivenza tra “tecnologie del controllo” e “tecnologie della libertà” (Rodotà, 2004, p. VI). La videosorveglianza si inserisce appieno in questa dicotomia, da un lato opportunità di tutela dei cittadini, dall’altro rischio per i diritti dei cittadini. Come è ovvio, è proprio la centralità dei diritti l’elemento che dovrebbe caratterizzare la democrazia, mantenendo una situazione di equilibrio tra esigenze contrapposte, equilibrio che però non può inficiare i diritti fondamentali. Come sottolineato in un convegno in materia di videosorveglianza e sicurezza stradale realizzato nel 2005 dalla Regione Piemonte, “la democrazia non è tailor made, non si può tagliare e cucire a misura come il sarto con il vestito” (Regione Piemonte, 2006, p. 20). I cittadini, in altri termini, necessitano di veder tutelato il loro corpo elettronico in quanto si tratta di una delle dimensioni della persona umana (Rodotà, 2012). A questo proposito il dibattitto viene spesso semplificato

con la considerazione che si sorveglia a fin di bene, per rispondere all’esigenza di proteggere la sicurezza dei cittadini. Oppure, con

l’argomento che “la sorveglianza continua e generalizzata, la cancellazione d’ogni ragionevole brandello di privacy, possono inquietare solo chi ha qualcosa da nascondere” (Rodotà, 2004, p. 175). Queste argomentazioni non considerano i condizionamenti che il sapere di essere sorvegliati può produrre, i rischi di discriminazione e di attacco alla libertà, i pregiudizi alla privacy che sottostanno alle forme di sorveglianza che tendono ad estendersi e a farsi più pervasivi, qualora non siano oggetto di limitazioni. Per queste ragioni, in una democrazia, ogni forma di sorveglianza dovrebbe essere sottoposta al rispetto di alcune regole. È proprio al fine di garantire la protezione dei cittadini che la videosorveglianza è stata oggetto di una dettagliata disciplina. Nei paragrafi che seguono, dopo aver presentato i tratti salienti della disciplina normativa europea ed italiana, ci si soffermerà sui diritti fondamentali messi in gioco quando si utilizza la videosorveglianza all’interno delle politiche locali di sicurezza, anche alla luce dei nuovi sviluppi tecnologici.

Videosorveglianza: opportunità e rischi

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Il quadro di riferimento europeo La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali adottata nel 1950 ha stabilito che non vi può essere ingerenza di una autorità pubblica nell'esercizio del diritto al rispetto della vita privata e familiare a meno che sia prevista dalla legge e costituisca una misura necessaria per la sicurezza nazionale, la pubblica sicurezza, il benessere economico del paese, la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui (art. 8, comma 2). Così definita anche la videosorveglianza da parte delle pubbliche autorità rientra nel campo di applicazione della Convenzione e deve quindi rispettare le prescrizioni previste. Successivamente il Consiglio d’Europa ha emanato la Convenzione sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati a carattere personale (1981) che garantisce ad ogni persona fisica la tutela del diritto alla vita privata rispetto all’elaborazione automatica dei dati a carattere personale che la riguardano. La videosorveglianza non ricadeva

automaticamente all’interno delle disposizioni di questa Convenzione in quanto era facoltà degli Stati firmatari di escludere dall’ambito di applicazione

alcune categorie di dati. Qualora gli Stati avessero però previsto l’applicazione della Convenzione, sarebbero divenute applicabili le disposizioni relative alla qualità e sicurezza dei dati (art. 5 e 7), al diritto di accesso (art. 8), nonché alle sanzioni (art. 10). Più di 10 anni dopo è stata emanata la prima Direttiva Europea sul trattamento dei dati personali (Direttiva 95/46/CE) che si applicava al trattamento interamente o parzialmente automatizzato nonché a quello non automatizzato di dati personali destinati a figurare in archivi. La sua applicabilità alla videosorveglianza dipendeva quindi dalla raccolta o meno dei dati in un archivio, cioè in un insieme strutturato e accessibile di dati personali. Questa direttiva rappresenta l’atto normativo europeo che ha dato avvio alle legislazioni in materia di privacy degli Stati Membri, inclusa l’Italia. Nel 2000 la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ha introdotto due disposizioni in materia di dati personali: l’art. 7 che disciplina il tradizionale diritto al rispetto della propria vita privata e familiare e l’art. 8 che riguarda il diritto alla protezione dei dati personali. Si è affermato così in sede europea l’esistenza del diritto alla protezione dei dati personali come diritto autonomo fondamentale, “strumento

Gli atti normativi europei: il quadro di riferimento per la tutela dei diritti

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indispensabile per il libero sviluppo della personalità e per definire l’insieme delle relazioni sociali” (Rodotà, 2012, p. 320). Nell’ultimo decennio sono stati diversi gli atti normativi europei in materia di trattamento dei dati personali che, seppur non incidenti direttamente sulla videosorveglianza, hanno tuttavia contribuito a rafforzare il quadro di tutela dei diritti delle persone. Nel 2012 inoltre è stata licenziata dalla Commissione Europea la proposta di una nuova direttiva e di un nuovo regolamento sulla protezione dei dati personali che sarà oggetto di discussione nei prossimi anni. I principi guida sulla videosorveglianza Analogamente a quanto avviene a livello europeo, anche la disciplina italiana in materia di videosorveglianza si inserisce all’interno della articolata normativa in materia di privacy e protezione dei dati personali. In altri termini, alla videosorveglianza si applicano le disposizioni generali previste in materia di protezione dei dati personali e quelle specifiche sulla materia, emanate dal Garante per i dati personali, al fine di consentire ai soggetti pubblici e privati la protezione dei dati personali delle persone filmate (su cui vedi box a p. 181). Lasciando al paragrafo 3 la descrizione di alcune disposizioni di dettaglio che riguardano gli Enti locali, e rimandando al quaderno della Regione Piemonte (Regione Piemonte, 2011) per una disamina dell’intero provvedimento, qui si vogliono illustrare i principi essenziali definiti del Garante per la protezione dei dati personali. Si tratta dei princìpi di liceità, necessità e proporzionalità. La liceità indica che la videosorveglianza può essere adottata qualora ciò sia consentito dalla legge. Il Codice della Privacy stabilisce che il ricorso alla

videosorveglianza avviene per i soggetti pubblici quando svolgono funzioni istituzionali (artt. 18-22) e per i soggetti privati e gli enti pubblici economici, qualora vi sia consenso dell’interessato (art. 23) o in assenza di questo, in casi specifici stabiliti dalla

legge (artt. 24-27): è il caso, ad esempio, dell’adempimento di un obbligo di legge o della presenza di interessi prevalenti che non ledono i diritti dei soggetti sottoposti a videosorveglianza. La necessità richiede, invece, che gli scopi che ci si prefigge non possano essere conseguiti mediante l’impiego di dati anonimi. Con tale principio cioè si intende sottolineare che i sistemi di videosorveglianza vanno configurati

Privacy e protezione dei dati personali: il

quadro di riferimento

Liceità, necessità, proporzionalità: i principi base per garantire i diritti

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in modo tale da trattare il meno possibile dati personali e solo quando questo si riveli necessario. Ogni uso superfluo o ridondante deve essere evitato. Ad esempio se lo scopo della videosorveglianza è il monitoraggio del traffico al solo fine di studiare modifiche alla circolazione in vista di una maggiore efficienza, non dovrà permettere l’identificazione del veicolo o tantomeno dei suoi occupanti. Qualora, invece, sia utilizzato al fine di elevare contravvenzioni permetterà il riconoscimento della targa, ma non occorre quello degli occupanti. Infine il principio di proporzionalità stabilisce che non si deve mai eccedere nell’uso della videosorveglianza, rispetto ai fini prefissati. Le modalità di installazione e di trattamento delle immagini devono essere sempre ancorate alle finalità date. Ciò significa che se è necessario videosorvegliare un punto specifico sarà sufficiente una telecamera fissa e non occorrerà utilizzarne una brandeggiabile. Se la conservazione dei dati è necessaria per 24 ore perché entro questo tempo vengono effettuate tutte le verifiche necessarie, ciò significa che non si devono conservare le immagini per 7 giorni soltanto perché questo è il limite massimo individuato dalla normativa. Accanto a questi tre princìpi ve ne è poi un quarto che riveste un’importanza decisiva. Si tratta dell’aderenza della videosorveglianza alla finalità per cui è stata disposta. In inglese si parla di function creep per individuare quella

situazione in cui i dati raccolti per un determinato scopo vengono in realtà utilizzati anche per un altro, senza che questo fosse conosciuto, compreso e sottoposto a verifica rispetto alla sua liceità. Casi di utilizzo della videosorveglianza al di

là degli scopi prefissati si sono ad esempio riscontrati in alcuni centri commerciali che utilizzano le telecamere installate al fine di prevenire i reati predatori per l’ulteriore scopo di rilevare i comportamenti dei consumatori.

La normativa italiana sulla videosorveglianza

La prima legge sulla privacy (l. n. 675/1996) definisce dato personale “qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale”. Sono quindi comprese in questa definizione anche i suoni e le immagini. La videosorveglianza si inserisce così nel tema della privacy e del trattamento dei dati personali. Il Garante della privacy ha nel corso degli anni emanato disposizioni

Le finalità della videosorveglianza devono essere specifiche

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specifiche all’interno di questo quadro di riferimento. Nell’anno 2000 il Garante promuove un’indagine sui dispositivi di videosorveglianza nelle città di Milano, Verona, Roma e Napoli, all’esito della quale, il 29 novembre, emana il “Decalogo delle regole per non violare la privacy”1. Si tratta di 10 punti essenziali che devono essere rispettati qualora si installi un dispositivo di videosorveglianza. La necessità come elemento essenziale per l’installazione, nonché la definizione degli scopi e dei limiti temporali di conservazione delle immagini rappresentano i nodi fondamentali del decalogo che saranno ripresi anche dalle disposizioni successive. Un rilevante passo avanti si ha con l’emanazione del Codice della Privacy (d. lgs. n. 193/2003) che promuove all’art. 134 la “sottoscrizione di un codice di deontologia e di buona condotta per il trattamento dei dati personali effettuato con strumenti elettronici di rilevamento di immagini, prevedendo specifiche modalità di trattamento e forme semplificate di informativa all'interessato per garantire la liceità e la correttezza”. Questo codice di deontologia2 è emanato il 29 aprile 2004. Si tratta di un provvedimento di carattere generale che disciplina tutti gli aspetti della videosorveglianza: dai principi, agli adempimenti di dettaglio affinché l’installazione e il trattamento siano conformi alla legge in base al soggetto, pubblico o privato, che vuole installare un dispositivo di videosorveglianza. Il provvedimento contiene anche disposizioni specifiche per alcuni settori, quali - tra gli altri - luoghi di lavoro, scuole, mezzi di trasporto pubblico e aree di deposito rifiuti. A seguito del provvedimento del Garante, il Ministero dell’Interno l’8 febbraio 2005 emana una circolare3 che introduce alcune disposizioni di dettaglio per le telecamere installate a fini di pubblica sicurezza. L’8 aprile 2010 il Garante aggiorna il provvedimento del 2004 con un nuovo testo di carattere generale4. Questa modifica nasce da un lato dalla grande rilevanza che i sistemi di videosorveglianza hanno assunto (ve ne sono molti e per diverse finalità) e dall’altro da alcuni provvedimenti legislativi - in particolare la l. n. 125/2008, nota come primo pacchetto sicurezza e la l. n. 38/2009, nota come legge sullo stalking - che hanno attribuito agli Enti locali specifiche aree di azione in materia di videosorveglianza. Il Garante provvede così a disciplinare i principi, le regole per l’informativa, il responsabile del trattamento dei dati, i casi in cui è necessaria un’autorizzazione preventiva del Garante, gli adempimenti a cui devono sottostare i Comuni, etc. Come già nel 2004, il provvedimento contiene alcune norme ad hoc relative a settori specifici. In questo caso sono introdotti alcuni settori nuovi. Sono infatti aggiunti l’ambito della sicurezza urbana, nonché l’uso delle telecamere a scopi di rilevazione di violazioni al Codice della Strada e a scopo di promozione turistica. Non dilungandoci sul contenuto del provvedimento è utile però sottolineare che il rispetto dei diritti fondamentali è il criterio guida del Garante, che ad esempio anche quando ha escluso la necessità di un’informativa - come per le telecamere installate a fine di prevenzione e repressione dei reati - invita gli operatori ad effettuarla comunque, in una ottica di moral suasion che possa rafforzare la posizione dei cittadini. Come nel 2004, il Ministero dell’Interno è intervenuto il 6 agosto 2010 con una circolare5 con nuove disposizioni di dettaglio. Infine, nel primo trimestre del 2012, ha emanato una Direttiva6 sui sistemi di videosorveglianza in ambito comunale.

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Videosorveglianza, privacy e diritti Quali sono i diritti che la videosorveglianza rischia di limitare, se non addirittura pregiudicare e quali, invece, quelli che protegge? La risposta a questa domanda è particolarmente difficile e i termini della questione sono assai articolati. Innanzitutto va chiarito che questa questione nemmeno si porrebbe se non vi fosse stata un’evoluzione nel modo di intendere il diritto alla privacy dei cittadini e se la Carta Costituzionale non avesse sancito come inviolabili i diritti dei cittadini. Non a caso, infatti, nelle società autoritarie la sorveglianza è endemica e i cittadini sono sottoposti al potere dell’autorità senza possibilità di contrastarlo. Il contrasto tra diritti e videosorveglianza c’è perché i cittadini sono portatori di tali diritti e possono difenderli di fronte all’autorità giudiziaria. In altri termini, il fatto che si discuta di videosorveglianza e diritti e si abbia contezza della complessità di questo dibattito è un indice della qualità della democrazia. All’interno dei propri spazi privati la pienezza dei diritti raggiunge il suo massimo: non a caso nella sua prima accezione, la privacy si configurava come il diritto di un individuo ad essere lasciato solo e a non subire intrusioni, purché non si ledano i diritti altrui (da qui ad esempio la normativa che attribuisce ai privati il diritto di installare telecamere a protezione dei propri beni personali a condizione che queste non riprendano aree esterne e comunque all’interno di regole predeterminate). Il concetto di privacy si è evoluto nel tempo assumendo il significato di

“diritto alla protezione dei dati personali”, diritto che segue il cittadino ovunque vada, abbandonando il significato originale di diritto di essere lasciato solo. Negli spazi pubblici i diritti

dei singoli non vengono certamente meno. Devono spesso trovare una forma di contemperamento con altre prerogative, ma nessun cittadino può essere spogliato dei suoi diritti solo perché svolge delle attività in un luogo pubblico o aperto al pubblico (o nel moderno spazio pubblico che è internet). Gli spazi pubblici sono per definizione spazi di libertà dove le persone devono poter esprimere liberamente, nel rispetto degli altri, la propria socialità. Trasformare gli spazi pubblici in spazi interamente sorvegliati rischierebbe di avere conseguenze rilevanti, come quella di portare i cittadini a considerare “lontano e ostile tutto quello sta nel mondo esterno” (Rodotà, 2004, p. 174). Per tale ragione l’installazione di impianti di

Diritti negli spazi privati e negli spazi pubblici

Il dibattito sulla videosorveglianza

come indice di qualità

della democrazia

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videosorveglianza da parte di soggetti pubblici è sottoposta al rispetto di una serie di regole. La videosorveglianza mette a rischio i diritti in primo luogo perché configura una situazione in cui si è “visti senza poter vedere”. Il sapere di essere visti o il dubbio di esserlo determina cambiamenti nel proprio modo di muoversi e comportarsi, e in particolare si ripercuote in modo rilevante su tre diritti fondamentali. Innanzitutto la libertà di movimento intesa non solo come diritto di andare in un luogo - che non viene quasi mai fisicamente vietato a nessuno - ma piuttosto come diritto di muoversi senza lasciare necessariamente traccia di dove si è stati. Anche le libertà di espressione e di associazione possono essere lese dai dispositivi di videosorveglianza in grado di registrare suoni e immagini. Essi possono da un lato scoraggiare comportamenti legittimi di dissenso quali manifestazioni e proteste, dall’altro generare fraintendimenti sulle opinioni

espresse dalla persona che è stata filmata. In questo secondo caso, l’aspetto del diritto alla libertà di espressione da proteggere non è tanto il potersi esprimere in sé quanto evitare che le proprie opinioni possano essere non

comprese o divulgate, con il rischio di stigmatizzazione. Limitare tali diritti impoverisce la società e mina il suo potenziale di cambiamento. Come è noto, infatti, la società si evolve quando l’emergere di nuove idee, sempre all’inizio minoritarie, hanno la possibilità di essere espresse e divenire eventualmente maggioritarie. La videosorveglianza rischia in altri termini di pregiudicare i fondamenti della partecipazione democratica. Il terzo e ultimo diritto a essere messo in discussione dalla videosorveglianza è il diritto a non essere discriminati e quindi ad essere vittima di esclusione sociale. La videosorveglianza, in particolare quando è impiegata in determinati contesti organizzativi, rischia di far prendere decisioni basate su pregiudizi legati all’aspetto esteriore (avere un aspetto trasandato o eccentrico, essere giovane, immigrato). Alcune ricerche (Saetnan e altri, 2004) hanno ad esempio dimostrato l’affermarsi di pratiche basate su pregiudizi all’interno dei servizi di sicurezza dei centri commerciali. La visione attraverso la telecamera di persone trasandate o di una precisa origine etnica ha portato al loro allontanamento senza che queste persone si fossero rese responsabili di comportamenti dannosi o di tentativi di furto, scopi per cui le telecamere erano peraltro state installate. In questo caso quindi un travalicamento degli scopi e una procedura operativa basata sul pregiudizio determinano la discriminazione di determinati soggetti. È facile capire come questi tipi di discriminazione

Libertà di movimento, libertà di espressione e non discriminazione i rischi della videosorveglianza

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finiscano per produrre esclusione sociale e forme di ghettizzazione di alcune categorie sociali. In questi casi non sono le telecamere in sé a produrre discriminazione (anche se le moderne Smart CCTV sollevano nuovi interrogativi (su cui vedi p. 189), ma l’utilizzo fattone dagli operatori preposti. Il caso emblematico di Trayvon Martin - adolescente ucciso in Florida nel 2012 all’interno di una gated community da un abitante impegnato in un’azione di controllo di vicinato (neighbourhood watching) perché individuato come soggetto estraneo al contesto - rappresenta un buon esempio dei rischi di categorizzazione delle persone sulla base di un aspetto ritenuto anomalo. È facile comprendere che gli stessi rischi sono a maggior ragione presenti nel caso delle telecamere a circuito chiuso. Per tale ragione una formazione efficace degli operatori preposti - non solo pubblici ma anche privati - che riduca il rischio di agire sulla base di pregiudizi rappresenta certamente un elemento importante per evitare che le telecamere possano rappresentare un danno per i cittadini. Rimane però da considerare ancora un elemento centrale. Se la videosorveglianza mette a dura prova i diritti, dovrebbe allo stesso tempo però permettere ai cittadini di sentirsi più sicuri, di non sentire minacciata la propria incolumità personale da piccoli e grandi pericoli, in virtù del fatto che la videosorveglianza protegge. Rimandando al paragrafo 3 per alcune riflessioni sull’efficacia della videosorveglianza, qui interessa richiamare che il legislatore non è sordo alle esigenze di sicurezza dei cittadini. Infatti, come già detto, la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, nonché la prevenzione, l’accertamento e la repressione dei reati permettono di omettere l’informativa relativa alla presenza di telecamere. Detto questo è comunque fondamentale per un pieno rispetto dei cittadini che non vi sia abuso da parte dei pubblici poteri di questa prerogativa e che - come ampiamente affrontato nel secondo capitolo - il diritto alla sicurezza si concretizzi in una “sicurezza dei diritti” e non in un “rischio per i diritti” (Regione Piemonte, 2012, pp. 7-9). Bisogna, in altri termini, evitare l’effetto paradossale che una tecnologia impiegata per aumentare la sicurezza dei cittadini finisca con “essere germe di nuovi conflitti, e dunque di una permanente e più radicale insicurezza, che contraddice il più forte argomento adottato per legittimare la sorveglianza, appunto la sua vocazione a produrre sicurezza” (Rodotà, 2004, p. 174). La videosorveglianza protegge se è selettiva, se si focalizza in determinati ambiti e limiti, se non diventa endemica, in pregiudizio dei diritti di tutti per il controllo di una minoranza.

Diritto alla sicurezza e videosorveglianza

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Sempre in tema di protezione dei diritti dei cittadini si è osservato, inoltre, che la videosorveglianza può anche rappresentare uno strumento di

garanzia per il cittadino di un corretto operato delle forze dell’ordine nei luoghi pubblici (Goold, 2003). La presenza di telecamere avrebbe una funzione di moral suasion sulle forze dell’ordine, contribuendo a evitare

eccessi e promuovendo una maggiore responsabilità nell’esercizio delle proprie funzioni. Non esiste alcuno studio in Italia su questo effetto secondario della videosorveglianza nei luoghi pubblici e non è possibile trarre da uno studio empirico realizzato in un altro contesto alcuna conclusione di carattere generale sui vantaggi per i diritti dei cittadini. Ci sembra importante sottolineare che sarebbe interessante approfondire questo aspetto nel contesto italiano, anche se comunque ciò non rappresenta in alcun modo un argomento a favore di una più pervasiva sorveglianza. In altri termini che la sorveglianza sorvegli tutti non è giustificazione sufficiente ad un suo impiego più diffuso. Videosorveglianza ed evoluzione tecnologica Nei Comuni che nel corso degli anni si sono dotati di sistemi di videosorveglianza sono oggi presenti telecamere con caratteristiche tecniche molto diverse. Questo perché negli ultimi 10 anni si è assistito ad un’evoluzione tecnologica molto importante, tanto che attualmente esistono in commercio telecamere capaci di effettuare analisi delle immagini nemmeno immaginabili alcuni anni fa. L’impiego di queste nuove tecnologie determina una serie di problematiche sul piano del rispetto dei diritti dei cittadini di cui si parlerà nella parte conclusiva di questo paragrafo. I sistemi di videosorveglianza sono nati come sistemi di impianti TV a circuito chiuso, da cui il nome CCTV - Closed Circuit Television (vedi Glossario), che erano controllati in diretta dagli operatori. Successivamente fu introdotta la possibilità - mediante l’impiego di cassette - di registrare le immagini, conservandole per scopi investigativi e processuali. Pur rappresentando un notevole passo avanti questi sistemi avevano forti limiti: richiedevano la sostituzione delle cassette, il controllo dell’usura delle stesse e non potevano registrare immagini notturne. Essi però rappresentarono un notevole passo avanti rispetto ai sistemi che richiedevano la costante presenza dell’operatore. Un passo ulteriore si è avuto con l’introduzione dei sensori CCD (Charged Coupled Device), basati sulla tecnologia a microchip che applicati alle telecamere analogiche

La videosorveglianza come strumento di controllo delle forze dell’ordine

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permisero di avviare le riprese di immagini notturne o in condizioni di bassa luminosità. La tecnologia analogica su cui si basano queste telecamere consiste nella trasmissione di un segnale elettrico. Tale segnale varia continuamente, la sua frequenza e ampiezza forniscono informazioni in merito all'intensità della luce incidente ed alla gradualità con cui si passa da una zona più luminosa ad una zona meno luminosa. Questo tipo di telecamere è poco costoso ma non permette di avere immagini di buona qualità per ragioni legate alla trasmissione di frequenza (immagini di buona qualità richiedono frequenze molto alte, difficili da sostenere); inoltre non permette la

registrazione audio o se questa è possibile presenta molti disturbi, quali ad esempio rumori di fondo difficilmente eliminabili. Il successivo passaggio tecnologico è stato l’introduzione dei Digital Video Recorder (DVR), dispositivi che permettevano di convertire i flussi

di dati analogici in digitale. Tale innovazione ha significato - una volta raggiunto un buon livello di affidabilità tecnica - l’abbandono della registrazione su cassette a favore di una trasmissione via cavo verso un computer. Le telecamere analogiche - ovviamente non più con l’impiego di cassette per la registrazione ma utilizzando la trasmissione via cavo - sono oggi ancora ampiamente utilizzate. Dai censimenti effettuati dalla Regione Piemonte nel 2009 e nel 2010 emerge chiaramente che le telecamere utilizzate dai comuni medio-grandi7 sono per il 54% analogiche, nei comuni medio-piccoli, invece, sono il 34%. A seguire, l’introduzione delle telecamere digitali (o IP camera) ha rappresentato il nuovo salto di qualità. Questi dispositivi possono rilevare le immagini e produrre direttamente un flusso video digitale. La loro introduzione ha reso possibili sistemi di videosorveglianza interamente digitali. Le telecamere digitali trasmettono un flusso di bit che varia tra 0 e 1. Esse sono collegate, via wireless o via LAN, a un sistema che traduce i dati binari in informazioni video. Queste telecamere offrono una qualità di immagine molto più elevata, sia in visione diurna che notturna, minori disturbi e quindi complessivamente danno risultati molto più soddisfacenti. Il parametro di risoluzione dell’immagine è il numero di pixel (contrazione della locuzione picture element) presenti sul sensore che determina la quantità di dettagli dell’immagine reale che possono essere rappresentati da quella prodotta da una telecamera digitale. La digitalizzazione si è evoluta fino a permettere di avere oggi telecamere digitali full HD (high-definition)

TV a circuito chiuso, telecamere analogiche e telecamere digitali: i passi avanti della tecnologia

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che hanno un livello di definizione molto elevato, pari a 1080 Pixel. Accanto alle tecnologie di trasmissione si sono evolute notevolmente anche le ottiche, che oggi consentono un ingrandimento delle immagini fino a 20 volte il reale (zoom 20X). Parallelamente la tecnica ha permesso di diversificare l’offerta di telecamere in base a cosa si vuole inquadrare: cosi accanto alle telecamere fisse (quelle con inquadratura su un punto preciso) vi sono quelle a cupola fisse (orientabili in qualsiasi direzione) e quelle PTZ (pan-tilt-zoom). Questa tipologia di telecamera può manualmente o automaticamente ruotare, inclinarsi, ingrandire o ridurre un’area o un oggetto inquadrato. Le telecamere digitali possono inoltre essere dotate di un dispositivo di privacy-masking che permette di oscurare una precisa area dell’inquadratura.

TELECAMERA ANALOGICA TELECAMERA DIGITALE Costo più contenuto Costo più elevato, sebbene

progressivamente in calo Maggiore compatibilità tra marche differenti stante la presenza di questa tecnologia da più tempo

Maggiore diffusione di sistemi proprietari (protetti da copyright)

Necessità di un cavo per ogni telecamera

Uso di cavi LAN o di tecnologia wireless

Infrastruttura monofunzionale (monoservice). Quanto installato per il sistema di videosorveglianza serve solo a quello scopo

Infrastruttura polifunzionale (multiservice). La rete su cui si “appoggiano” le telecamere può servire per altri scopi, ad esempio per fornire il servizio di Wi-fi gratuito per i cittadini

Difficoltà di utilizzo in presenza di distanze molto ampie. Se il cavo è molto lungo aumentano le difficoltà tecniche e il risultato peggiora

Nessun limite legato alla distanza. La rete deve essere sufficientemente dimensionata per sostenere il traffico dati

La gestione da remoto è molto limitata. I punti di accesso sono limitati

La gestione da remoto è semplice e facilmente espandibile

Nessuna funzionalità avanzata propria delle smart CCTV

Funzionalità avanzate possibili

Le due categorie di analogico e digitale che per molti anni ha rappresentato i due stadi di evoluzione dei sistemi di videosorveglianza oggi indicano il

Analogico e digitale a confronto

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passaggio tra la preistoria e la storia delle telecamere. L’attuale stadio di evoluzione tecnologica è rappresentato, infatti, dalle smart CCTV, telecamere IP dotate di capacità di elaborazione e analisi locale degli eventi che visualizzano. Tale analisi consente di effettuare un’operazione di sorting, di selezione degli eventi, segnalando le situazioni sospette. Grazie ad algoritmi di analisi sono cioè in grado di riconoscere gli oggetti (si pensi ad esempio a un oggetto abbandonato in una sala d’aspetto di una stazione), contarli e rilevare quelli in movimento. Possono anche individuare comportamenti umani sospetti o pericolosi, ovviamente in base ad una qualificazione di “non-normalità” predeterminata dall’algoritmo di analisi. Queste telecamere, o meglio queste funzionalità proprie delle telecamere digitali di seconda generazione, rappresentano una nuova sfida per la privacy e la protezione dei diritti. Infatti permettono una conservazione più efficiente dei dati e un’ampia distribuzione degli stessi e sono caratterizzate dall’impiego di sofisticati algoritmi di analisi dei dati che consentono una selezione delle informazioni. In altri termini l’algoritmo permette di indicare quali immagini acquisire e quali invece trascurare. Ciò consente ad esempio di stabilire di non considerare mai informazioni quali le targhe automobilistiche o i visi delle persone. Allo stesso modo l’algoritmo può essere programmato per selezionare alcuni comportamenti come pericolosi e di conseguenza acquisire unicamente le immagini relative. È evidente quindi che ad un primo esame queste telecamere sembrerebbero ridurre il quantitativo di videosorveglianza proprio perché capaci di selezionare le immagini. Questa affermazione contiene una parte di verità ma reca in sé tre ordini di problemi. Il primo problema è che proprio perché le smart CCTV sono più efficienti si potrebbe giungere ad un loro più capillare impiego e di conseguenza determinare un aumento della sorveglianza e non una sua diminuzione. Inoltre non esiste per il cittadino alcuna possibilità di sapere cosa è oggetto

di selezione e sulla base di quali criteri. C’è un deficit di quella che in lingua inglese viene chiamata accountability, termine che qui

possiamo tradurre come la possibilità per i cittadini di chiedere conto all’amministrazione. Le smart CCTV sono in questo senso poco trasparenti, proprio perché più sofisticate. In ultimo, la costruzione dell’algoritmo che seleziona i comportamenti sospetti meritevoli di attenzione non è un’attività neutra. L’algoritmo seleziona i comportamenti sulla base di due differenti metodologie: la

La smart CCTV come strumento di

selezione e controllo

Rischi e opportunità delle smart CCTV

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deviazione statistica da un comportamento normale (se qualcuno in coda alla cassa di un supermercato si togliesse i vestiti si avrebbe un comportamento fuori dall’ordinario), oppure tramite la definizione di precisi schemi comportamentali definiti a priori. Ciò può targettizzare alcuni gruppi sulla base di un’analisi dai contenuti discriminatori, ad esempio se la definizione a priori è culturally biased (cioè identifica come comportamenti censurabili quelli propri di alcune minoranze etniche o culturali) o se individua comportamenti tipici di una fascia di età o di una classe sociale. Corollario di questo problema è, come già sottolineato nel paragrafo precedente, il rischio che ciò leda la libertà dei cittadini e li limiti nel loro agire in pubblico. Non è casuale che a livello di ricerca esistano progetti specifici volti a individuare i modi attraverso cui rendere le smart CCTV uno strumento capace di accrescere la protezione della privacy (si veda ad esempio il progetto europeo finanziato nell’ambito del Settimo programma Quadro www.addpriv.eu). Queste telecamere sono infatti strumenti più efficienti che, se potessero essere utilizzati in modo conforme alla legge e rispettoso dei diritti, rappresenterebbero un’opportunità interessante per le industrie del settore ma anche per la tutela dei diritti. È oggi difficile dire se questo potrà essere possibile, certamente non devono essere sottostimate le implicazioni di carattere etico e legislativo, nonché quelle legate alla loro effettiva utilità. Utilità ed efficienza saranno propri i temi sviluppati nel paragrafo successivo.

Observo. Una sperimentazione di efficienza

Nel 2013 la Regione Piemonte ha promosso un progetto sperimentale volto alla realizzazione di una piattaforma open source per la gestione della videosorveglianza territoriale. L’iniziativa si colloca tra le misure che da anni il Settore Polizia Locale e Politiche per la Sicurezza svolge ai sensi della l.r. 23/2007 per promuovere e sostenere le politiche locali di sicurezza, anche attraverso la sperimentazione e la messa a disposizione di strumenti innovativi per migliorare l’azione pubblica in materia di sicurezza urbana. L’attenzione regionale al tema della videosorveglianza nasce dalla conoscenza delle caratteristiche e del contesto piemontese che in questi anni ha visto forti investimenti pubblici nel settore tecnologico, la diffusione di sistemi di videosorveglianza a livello locale, una grande eterogeneità delle telecamere esistenti (da quelle analogiche a quelle digitale full HD) e un impegno significativo dei Comuni dal punto di vista gestionale. Avvalendosi dell’esperienza del CSP-Innovazioni nelle ITC, la Regione Piemonte ha realizzato e sperimentato una piattaforma on line di gestione della videosorveglianza in tre aree del territorio piemontese. I tre Comuni

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coinvolti nel progetto sono Cuneo, Settimo Torinese e Vercelli che si caratterizzano per diverse dotazioni tecniche e modalità organizzative di gestione della videosorveglianza. La sperimentazione ha l’obiettivo di verificare se attraverso l’utilizzo di una piattaforma comune è possibile rendere più efficiente la gestione degli impianti di videosorveglianza da parte dei Comuni. Al di là degli aspetti più propriamente tecnologici, la sperimentazione della piattaforma di videosorveglianza territoriale ha inteso da un lato contribuire a promuovere un corretto ed efficace uso delle tecnologie destinate alla prevenzione situazionale, e dall’altro affrontare a livello regionale le questioni connesse all’utilizzo dei sistemi di controllo mediante tecnologie. La piattaforma consente di avere in un unico sistema la mappatura di tutte le telecamere presenti sul territorio a prescindere dalla tecnologia che le contraddistingue (telecamere digitali o IP). Essa permette ai Comuni di avere la conoscenza dell’esatta ubicazione delle telecamere, delle aree effettivamente videosorvegliate da ciascuna telecamera (il cosiddetto puntamento), nonché il loro stato di funzionamento. Il sistema è strutturato per consentire accessi differenziati a seconda dei diversi utenti nel rispetto delle loro competenze e della normativa vigente in materia di privacy e protezione dei dati personali. Sebbene le telecamere siano inserite su un’unica piattaforma, ciascun Comune è autorizzato ad accedere e visualizzare esclusivamente quelle presenti sul suo territorio, verificarne in modo immediato lo stato di funzionamento e di conseguenza procedere più tempestivamente alla loro manutenzione o alla modifica delle loro impostazioni. Nel caso di specifiche e motivate esigenze investigative altri soggetti, come ad esempio la Magistratura, potranno essere autorizzati attraverso la stipula di uno specifico Protocollo di Intesa alla visione e al download delle immagini sull’area di competenza. Un’ulteriore potenzialità della piattaforma consentirebbe di integrare nel sistema anche le telecamere private (ad esempio quelle di proprietà degli istituti bancari o degli esercizi commerciali). Conoscere l’esistenza e l’ubicazione delle telecamere private rappresenterebbe un’informazione molto utile per il Comune, e non solo sotto forma di risparmio di tempo e risorse per le necessarie verifiche. Questo sviluppo richiede ovviamente l’adesione alla piattaforma dei soggetti privati che potrebbero trarre vantaggio dalla possibilità di accedere alle proprie telecamere in modo diretto e a costi contenuti. Nel corso della IV Conferenza regionale sulla sicurezza integrata novembre, sono stati presentati le funzionalità della piattaforma e i risultati della sperimentazione, nonché gli ambiti futuri di sviluppo del sistema a livello locale.

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Uso ed efficacia della videosorveglianza

L’uso della videosorveglianza: potenzialità e criticità

La videosorveglianza sta suscitando grande attenzione tra le misure messe in campo dagli Enti locali sul tema della sicurezza. Da circa un decennio è ormai evidente (Nobili, 2005; Fonio, 2007 e 2010) che la videosorveglianza sia lo strumento privilegiato - forse anche perché il più economico – sia dai Comuni piccoli e medi sia dai Comuni capoluogo. Per quanto riguarda questi ultimi, ad esempio, è interessante evidenziare come dal 2006 ad oggi nei Patti per la sicurezza siglati con lo Stato8, la videosorveglianza sia quasi sempre individuata come uno degli ambiti principali di intervento sulla sicurezza del territorio. Negli anni l’attribuzione di nuove competenze specifiche in materia di sicurezza urbana ai Sindaci e ai Comuni ha di fatto favorito l’incremento di questi sistemi, unitamente agli incentivi economici statali e regionali che hanno finanziato queste forme di difesa passiva del territorio. Nonostante sia difficile fare una stima del numero di telecamere presenti in Italia data l’assenza di dati aggiornati9, si può certamente affermare che la videosorveglianza è uno degli strumenti di prevenzione situazionale più utilizzati in ambito comunale (si veda il capitolo n. 2, p. 15). L’idea diffusa è che essa permetta a costi abbastanza contenuti di ottenere benefici nella prevenzione e repressione del crimine così come nella rassicurazione della popolazione. Come si vedrà più avanti (p. 200 -206) e come dimostrato ormai in numerose ricerche e studi sul tema, la videosorveglianza può essere uno strumento efficace solo se utilizzato in modo selettivo, ovvero in

determinate condizioni e per specifiche finalità. Inoltre, l’efficacia della videosorveglianza è condizionata anche dal suo essere uno degli strumenti utilizzati all’interno di una strategia

complessiva per la sicurezza urbana, oppure l’unica o la principale strategia. Spesso l’installazione di telecamere a fini di sicurezza non si accompagna a una valutazione preliminare dei problemi di sicurezza cui la telecamera dovrebbe rispondere e dei suoi potenziali effetti (sui tassi di criminalità, sui comportamenti devianti e sulle percezioni dei cittadini) con il risultato che poi gli esiti ottenuti non corrispondono, o sono inferiori, a quelli attesi. Questo accade non perché le telecamere non funzionino, ma perché la decisione di adottare questo strumento si basa su valutazioni poco approfondite e parziali o su scelte basate prevalentemente sul consenso.

La videosorveglianza in ambito comunale: efficace se selettiva

3

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Da queste premesse è dunque possibile osservare come vi sia una forte complessità e ambivalenza nell’utilizzo di tale strumento che deve indurre cautele e riflessioni approfondite nel momento in cui si decide di ricorrere alla videosorveglianza per intervenire sulla sicurezza del territorio. Da alcuni anni la videosorveglianza è indicata dagli studiosi come uno strumento cui ricorrere con estrema prudenza adottando il criterio dell’extrema ratio, cioè quando altre forme di controllo del territorio (meno costose e/o meno invasive) non siano possibili, o quello dell’integrazione tra più misure (ad esempio insieme al potenziamento dell’illuminazione pubblica). L’estrema cautela che deve guidare la scelta della videosorveglianza ha spinto studiosi, organismi istituzionali e forze dell’ordine ad attivare occasioni di riflessione e tentativi per migliorarne l’uso nel tentativo di renderlo uno strumento il più possibile efficace, evitando utilizzi sproporzionati o atteggiamenti tranchant e pregiudiziali che ne neghino a priori l’utilità. Nelle pagine che seguono si proverà dunque a dettagliare le modalità organizzative che possono garantire una maggiore efficacia dei sistemi di videosorveglianza, così come i possibili contesti e modalità di utilizzo che maggiormente si prestano all’applicazione di tale tecnologia.

L’organizzazione e la gestione di un sistema di videosorveglianza a livello locale: le ultime novità

È soprattutto a partire dal 2004, con un ricorso sempre maggiore agli impianti di videosorveglianza, che gli organismi istituzionali hanno iniziato a occuparsi della delicata gestione degli strumenti di telecontrollo, soprattutto vista l’urgente necessità di tutelare la privacy e i diritti fondamentali dei cittadini. In questa direzione si è mosso per primo il Garante per la

protezione dei dati personali che attraverso due provvedimenti successivi, nel 2004 e nel 2010, (vedi box p. 181) ha fornito regole e indicazioni in materia di videosorveglianza, aggiornandole negli anni in funzione dell’evoluzione tecnologica e normativa in materia di sicurezza10. Accanto alle

specifiche relative alla protezione della privacy, i provvedimenti contengono indicazioni sulla titolarità degli impianti e sul necessario coordinamento tra i diversi organismi preposti alla loro gestione. È questo in particolare l’aspetto su cui ci si vuole soffermare, analizzando l’evoluzione nell’organizzazione e

Il Garante per la protezione dei dati personali e il Ministero dell’Interno si sono occupati di videosorveglianza

L’ambivalenza della videosorveglianza

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gestione degli impianti che si è venuta consolidando alla luce sia delle indicazioni del Garante per la protezione dei dati personali sia delle direttive adottate dal Ministero dell’Interno (Dipartimento di Pubblica sicurezza) volte a definire alcune linee guida in materia. Il codice deontologico emanato dal Garante nel 2004 indica che esclusivamente chi ha responsabilità in materia di sicurezza pubblica, prevenzione e accertamento dei reati ha titolarità a visionare le immagini e a procedere ad accertamenti. A tale proposito, le successive Linee guida del Ministero dell’Interno del 2005 sottolineano la necessità di coordinare l’azione e gli interventi dei diversi soggetti pubblici interessati nel rispetto delle reciproche attribuzioni e competenze, nonché di garantire l’efficacia tecnico-operativa dei sistemi, soprattutto quando siano in qualsiasi modo collegati alle centrali operative delle forze di polizia. Da ultimo, va evidenziato l’invito a predisporre azioni volte ad armonizzare le esigenze di sicurezza primaria, di cui sono garanti le Forze di polizia statali, con l’evoluzione del “sistema sicurezza” che prevede il ricorso sempre più frequente a forme di sicurezza partecipata e sussidiaria. In particolare, i Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica (CPOSP) sono già qui individuati come le sedi idonee per esaminare la scelta delle aree, le effettive esigenze che giustifichino il ricorso alle telecamere e l’attuazione di piani coordinati per il controllo del territorio. Il tentativo è dunque quello di gestire gli impianti anche da un punto di vista logistico e organizzativo, limitando ad esempio il collegamento con le sale e centrali operative solo ai casi di stretta necessità per evitare un sovraccarico di lavoro rispetto alle risorse a disposizione. Nelle Linee guida ministeriali si sottolinea, inoltre, che la gestione del flusso delle immagini, al di fuori di obiettivi strategici per la sicurezza primaria, è in capo agli organi di Polizia Locale e agli istituti di vigilanza, ma quando si rende necessario - ad esempio in casi di flagranza di reato o per l’avvio di attività investigative - è comunque obbligatorio informare le forze di polizia. A seguito delle nuove attribuzioni di competenza ai Sindaci in materia di sicurezza urbana11 si è prevista la partecipazione diretta dei Comuni a questioni prima riservate a Polizia di Stato e Carabinieri. Gli Enti locali hanno così iniziato a servirsi di sistemi di videosorveglianza a tutela della sicurezza urbana senza dover ricorrere alla stipula di Protocolli d’intesa tra Sindaci e Prefetti come avveniva in passato, essendo gli impianti tecnici dei Comuni assimilati a quelli in uso da Polizia e Carabinieri (veda Regione Piemonte, 2012, pp. 12-13). Alla luce di ciò, il nuovo provvedimento del Garante del 2010 ha

Le implicazioni del potere di controllo

del territorio da parte dei Comuni

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aggiornato e articolato le disposizioni del 2004 riconoscendo formalmente agli Enti locali poteri di controllo del territorio anche attraverso la videosorveglianza. A questo riconoscimento, però, si accompagna un richiamo deciso alla necessità di un’informativa trasparente sulla presenza di sistemi di videosorveglianza e di cautele particolari qualora vengano utilizzati sistemi integrati di videosorveglianza o in casi particolarmente sensibili di trattamento dei dati (per i quali è prevista una verifica preliminare del Garante). Particolare attenzione agli aspetti legati al coordinamento tra le Forze dell’ordine e gli Enti locali è stata posta dal Ministero dell'Interno con una specifica circolare del 2010 dove ha inteso chiarire che qualora si profilino aspetti di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, oltre a quelli di sicurezza urbana, sarebbe opportuna una valutazione preventiva del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. L’Anci ha ribadito tali indicazioni attraverso la pubblicazione di Linee guida esplicative del provvedimento del Garante del 2010 (ANCI, 2011). All’inizio del 2012 una nuova direttiva del Ministero dell’Interno è tornata sul tema dell’utilizzo di strumenti di videosorveglianza da parte degli Enti locali. La direttiva e i documenti allegati sono l’esito del lavoro di un Tavolo tecnico composto, oltre che dal Ministero, da rappresentanti dell’Anci e delle forze di polizia a competenza generale. Questo intervento si è reso necessario - a detta del Ministero - al fine di migliorare le modalità di impiego degli strumenti di videosorveglianza, in alcuni casi utilizzati in modo non funzionale e diseconomico. La “Piattaforma della videosorveglianza integrata”, come viene denominato il documento annesso alla Direttiva ministeriale, offre indicazioni per la valutazione di futuri interventi di videosorveglianza in ambito comunale o l’aggiornamento di installazioni già operative. Nel ribadire la necessità di un’attività valutativa preliminare all’installazione degli impianti di videosorveglianza, la Direttiva individua i Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza quale sede più idonea a svolgere questa funzione, come già indicato nelle precedenti circolari del 2005 e del 2010. Un elemento di novità, sottolineato in questa ultima direttiva, è rappresentato dal fatto che “si registra, rispetto al 2005, allorché è stata adottata la prima circolare d’indirizzo generale in materia di videosorveglianza, una marcata attrazione del concetto di sicurezza urbana nell’ambito pertinenziale della sicurezza primaria”. Ciò ha come conseguenza il fatto che l’interessamento del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica potrebbe diventare “anche in un’ottica di potenziamento della sicurezza integrata, una stabile modalità di valutazione degli apparati di videosorveglianza in ambito comunale”. Sul senso e sulle possibili implicazioni di questo passaggio della Direttiva si sono espressi esponenti autorevoli ed esperti del settore della

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sicurezza urbana; tra questi, il presidente del FISU, Giorgio Pighi, intervenendo in un incontro tenutosi a Pavia nel maggio del 2012, ha sottolineato che l’invito a portare in seno al CPOSP i futuri piani di videosorveglianza sia da intendere come “un passaggio funzionale al miglior coordinamento e ad una più ampia condivisione sulla scelta di investire risorse pubbliche in questi sistemi di controllo e non come un passaggio mirante a ricondurre sotto il controllo del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica le scelte effettuate dai sindaci”12. Nella direttiva vengono inoltre fornite alcune linee guida sugli elementi da valutare per la progettazione e l’installazione di nuovi (non quindi di apparati già installati) sistemi di videosorveglianza. Si ritiene utile: î tracciare un bilancio delle risorse umane e strumentali (ad esempio altri

dispositivi esistenti) disponibili; î realizzare una “diagnosi locale” preliminare, ad esempio considerando

la dimensione del contesto territoriale13, le condizioni di sicurezza del territorio (che devono essere peggiorative e caratterizzate da fenomeni non effimeri), la possibilità di attuare strumenti di intervento alternativi alla videosorveglianza, così da dare maggiore sostanza al principio di necessità;

î definire obiettivi e risultati attesi dall’impianto di videosorveglianza; î stabilire la tipologia del sistema che può rispondere agli obiettivi

preposti; î verificare la corrispondenza del sistema prescelto alle caratteristiche

tecniche (indicate nel documento tecnico allegato alla Direttiva) che permettono trasferimento e conservazione ottimale delle immagini.

È ancora presto per valutare se e in che modo la direttiva ministeriale del 2012 sarà in grado di incidere nelle pratiche di utilizzo della videosorveglianza da parte degli Enti locali, determinando una maggiore ponderazione delle scelte in base alla effettiva necessità di tali sistemi, alle caratteristiche tecniche che ne permettano un utilizzo ottimale, così da produrre un effettivo cambiamento nella prassi amministrativa delle amministrazioni comunali che intendano dotarsi di impianti di videosorveglianza.

Il possibile ruolo valutativo dei Comitati Provinciali per l’Ordine

e la Sicurezza

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Modalità e finalità della videosorveglianza nelle città Le telecamere, grazie anche alle novità in materia di sicurezza urbana ricordate nel paragrafo precedente, sono oggi utilizzate nei contesti urbani per diverse finalità: dalla sicurezza urbana alla gestione dei rifiuti, dal controllo stradale alla sicurezza a bordo di mezzi di trasporto pubblico. Ciascuna di queste finalità comporta modi di utilizzo diversi e richiama differenti procedure di accesso delle immagini da parte delle polizie locali coinvolte direttamente nella gestione degli impianti di videosorveglianza comunali. Un quaderno della Regione Piemonte (Regione Piemonte, 2011) ha ricapitolato le diverse procedure, richiamando le ultime disposizioni del 2010 del Garante per la protezione dei dati personali e le successive Linee guida dell’Anci in materia. Qui ci si concentra sulle principali novità introdotte che hanno maggiori riflessi concreti sull’agire degli Enti locali. I maggiori poteri in materia di sicurezza urbana attribuiti ai Comuni dalla legislazione del 2008 e del 2009 hanno implicato anche un’estensione dell’utilizzo della videosorveglianza in questa materia nonché la possibilità di accedere e consultare le immagini registrate sino a sette giorni dalla registrazione. A questo maggiore potere è collegata anche una maggiore

responsabilità in termini di privacy, richiamata nei documenti sopra citati (in particolare cfr. Regione Piemonte, 2011, pp. 19-20 e Anci, 2010, parti 6, 8 e 9). Stessa grande attenzione alla privacy va

applicata anche nell’utilizzo di sistemi di videosorveglianza sui mezzi pubblici, dove un’ulteriore difficoltà gestionale è determinata dal fatto che spesso le telecamere sono gestite dai Comuni e dalle aziende municipalizzate di trasporto pubblico. Un’attenta regolamentazione va quindi applicata sia sul personale che può accedere alle immagini, sia sulle modalità di accesso che devono ad esempio impedire un controllo sui lavoratori (Anci, 2010, pp. 32-33). Qualora risultino inefficaci altre misure, il controllo sull’abbandono dei rifiuti può essere effettuato dalla polizia amministrativa dei Comuni o da funzionari di aziende municipalizzate appositamente formati anche attraverso sistemi di videosorveglianza. Mentre in precedenza l’uso di telecamere era ammesso solo per il controllo su aree usate abusivamente come discariche, con il provvedimento del 2010 del Garante è ammesso l’uso anche per effettuare controlli sull’uso delle aree preposte al deposito di rifiuti (Regione Piemonte, 2011, p. 20). Infine, per gli impianti di videosorveglianza utilizzati per individuare le

Molti gli usi e le finalità della videosorveglianza in ambito comunale

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violazioni del codice della strada, va attentamente richiamata la necessità di un uso non eccessivo e orientato al raccoglimento delle sole immagini necessarie (Regione Piemonte 2011, pp. 20 e 21 e Anci, 2010, pp. 43-44). Come si è osservato, elevata è dunque l’attenzione che va posta nell’installazione e gestione di impianti di videosorveglianza, sia rispetto al trattamento e alla conservazione dei dati sia rispetto alla comunicazione trasparente che deve essere resa in aree soggette a controllo delle telecamere. Proprio la complessità unitamente alla delicatezza della materia ha indotto l’Anci a suggerire ai Comuni come “non sia solo auspicabile, ma anche necessaria l’adozione di un Regolamento, a sostegno degli atti deliberativi e delle determinazioni dell’Ente locale, quale massimo strumento di legittimazione e condivisione, per un corretto utilizzo di applicazioni così invasive” (Anci, 2010, p. 19)14. Gli usi della videosorveglianza da parte dei Comuni meritano attenzione anche dal punto di vista dei costi di installazione e manutenzione. Se infatti, in particolare agli esordi, uno dei punti di forza a favore dell’utilizzo della videosorveglianza era proprio l’economicità, soprattutto per il presunto risparmio in termini di personale preposto al controllo diretto del territorio, oggi prevalgono molte cautele su questo fronte. Da un lato è infatti ormai evidente come ai soli costi di installazione vadano aggiunti i costi di manutenzione e aggiornamento della tecnologia, che spesso implicano un incremento notevole delle risorse necessarie per un corretto funzionamento degli impianti; aspetto questo che, a dispetto della maggiore centralità assunta dalla tecnologia nella società odierna, è considerato poco o nulla nelle valutazioni preliminari all’installazione degli impianti. Come altre dotazioni tecnologiche, gli impianti richiedono un aggiornamento e un’attenta manutenzione per evitare che diventino inutilizzabili o obsoleti nel giro di pochi anni. Dall’altro lato appare anche evidente come un corretto ed efficace uso della videosorveglianza necessiti di personale dedicato e altamente formato alla visione, gestione e utilizzo delle immagini. Senza la presenza di personale specializzato i sistemi di videosorveglianza di fatto non possono essere efficaci né nella funzione di detection (vedi Glossario), né tanto meno di deterrenza per le quali potrebbero essere utilizzati. Ciò sfata un’altra argomentazione spesso ricordata a sostegno della videosorveglianza, secondo la quale essa “è utile perché sopperisce alla mancanza di risorse umane e garantisce un aumento del controllo senza dover aumentare il personale” (Amapola, 2008b, p. 33). In realtà senza un personale dedicato e specializzato i sistemi di videosorveglianza servono anche poco. La videosorveglianza

Attenzione ai costi e alla formazione

del personale

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produce risultati laddove poggia su una collaborazione interforze funzionante e laddove sia accompagnata da attività di intelligence e controllo costante: in queste condizioni è in grado di concorrere efficacemente alla sicurezza dei territori, ma implica di fatto un incremento di lavoro per le Forze dell’ordine. Alcuni chiari esempi di costi dei sistemi di videosorveglianza vengono riportati dal sito del Fisu. Il riferimento è ad esempio a uno studio francese che ha raccolto alcuni dati sui costi economici dei sistemi di videosorveglianza delle città di Saint-Etienne e di Lione. “A Saint-Etienne, una città di quasi 180.000 abitanti, dal 2001 sono presenti 67 videocamere per un costo annuale di 1,3 milioni di euro considerando il costo dell'impianto, i costi di manutenzione e la retribuzione dei 28 agenti incaricati di controllare le immagini ricevute. Nel 2008 le videocamere hanno permesso di avviare 130 procedimenti giudiziari contro gli autori dei reati videoregistrati, a fronte dei 10.532 reati accertati dalla polizia nazionale. Questo significa che le videocamere sono state efficaci nel perseguire l'1-2% dei reati avvenuti sul suolo pubblico. A Lione, analogamente, a fronte di un costo annuale che si aggira tra i 2,7 e i 3 milioni di euro, i sistemi di videosorveglianza hanno permesso di trattare circa l'1,6% dei fatti criminosi nel 2008” 15. Un’applicazione di sistemi di videosorveglianza basata su un’analisi misurata e attenta contribuirebbe a rendere più efficace l’utilizzo di questi sistemi e di conseguenza più positivo il rapporto costi-benefici di questa misura. Per far ciò, è opportuno considerare un complesso di elementi che includono, tra gli altri, la valutazione dell’effettiva necessità dell’impianto, i costi necessari nelle diverse fasi di operatività (installazione, gestione, manutenzione, aggiornamento) e, non da ultimo, l’insieme delle attività gestionali e operative necessarie al suo corretto funzionamento (gestione quotidiana del flusso di immagini, formazione e aggiornamento del personale dedicato, storage delle immagini).

La Carta per un utilizzo democratico della videosorveglianza

La Carta per un utilizzo democratico della videosorveglianza è uno dei prodotti elaborati nell’ambito del progetto europeo denominato Citizens, cities and video surveillance realizzato dal Forum Europeo sulla Sicurezza Urbana (FESU) in collaborazione con 6 città partner (Genova, Ibiza, Le Havre, Saint-Herblain, Liegi, Rotterdam) e altri soggetti (Regione Emilia Romagna, Regione Veneto, London Metropolitan Police e la Polizia del Sussex). Il progetto si è concluso nel 2010 con la presentazione e

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diffusione della Carta a tutte le amministrazioni locali che già utilizzano sistemi di videosorveglianza per monitorare il proprio territorio o che intendano farlo. L’intento della Carta è quello di fornire elementi di conoscenza e consapevolezza nella gestione della videosorveglianza che consentano agli Enti locali di adottare strategie locali che offrano ai cittadini maggiore sicurezza salvaguardando però il loro diritto alla riservatezza. È un documento che per la prima volta prova a contemperare le esigenze delle città nell’elaborazione e funzionamento dei dispositivi di videosorveglianza e dall’altra il bisogno dei cittadini di avere garanzie nell’impiego di tali sistemi. Attraverso l’adesione alla Carta, le città firmatarie si impegnano sia a rispettare i princìpi enucleati nel documento (liceità, necessità, proporzionalità, trasparenza, responsabilità, supervisione indipendente, coinvolgimento dei cittadini), sia a dare attuazione alle misure concrete e alle raccomandazioni riguardanti l’adozione e l’operatività dei dispositivi tecnologici (realizzazione di una diagnosi locale preliminare all’installazione delle telecamere, valutazioni periodiche del sistema, formazione degli operatori, presenza di un’autorità di controllo che verifichi il rispetto dei princìpi della Carta). La Carta è disponibile sul sito http://cctvcharter.eu/

Le telecamere sono efficaci?

Pur con valenza diversa, tutti i provvedimenti illustrati nelle pagine precedenti concordano sulla necessità che l’installazione di sistemi di videosorveglianza nei luoghi pubblici, per essere di effettiva utilità, sia preceduta da un’analisi che ne attesti l’opportunità e l’adeguatezza rispetto alle esigenze di sicurezza. Questo comune richiamo ci porta a affrontare in questo paragrafo il tema dell’efficacia delle tecnologie nella prevenzione e repressione dei reati e nella riduzione della paura della criminalità (la c.d. fear of crime, vedi Glossario). Parlare di efficacia applicata a dotazioni tecnologiche di questo genere è un’operazione tanto complessa quanto necessaria. Complessa perché, come si vedrà meglio in seguito, le ricerche e gli studi condotti negli ultimi 15 anni soprattutto nel mondo anglosassone non hanno fornito risultati uniformi, certi e definitivi. Nessuno nega che siano ravvisabili casi in cui le telecamere hanno dato un contributo decisivo sia prima che dopo l’evento criminoso; è il caso, ad esempio, del rapimento e uccisione nel 1993 del piccolo James Bulger nei dintorni di Liverpool, o dell’attentato alla metropolitana di Londra nel luglio del 2005, in cui anche grazie alle riprese delle telecamere si riuscirono ad identificare i responsabili. Nonostante questi successi, però, e stando alle ricerche e alle valutazioni più recenti, non è possibile quantificare con certezza il grado di effettività dei sistemi di videosorveglianza, in alcuni casi anche a causa di metodologie di ricerca poco rigorose (Welsh and Farrington, 2008; Gill and Spriggs, 2005; Report finale del progetto Urbaneye, 2004).

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Allo stesso tempo è necessario che questo tipo di riflessione entri a far parte del processo decisionale degli Enti locali per evitare un impiego indiscriminato e inadeguato di impianti tecnologici e incentivare un uso più razionale delle risorse pubbliche (Fussey, 2007, p. 52). In molti paesi europei, infatti, a partire dai primi anni ’90 gli investimenti statali per installare le CCTV negli spazi pubblici sono cresciuti in misura esponenziale. Significativo a questo proposito è il caso della Gran Bretagna in cui si è passati dai 38,5 milioni di sterline nel periodo 1994-1997 ai 170 milioni tra il 1999 e il 2003, per arrivare infine ai 500 milioni di sterline stanziati nel periodo 2000-2006 (House of Lords, 2009, NACRO Report, 2002). Anche in Italia si è investito sulla videosorveglianza attraverso risorse statali (si pensi al programma “100 milioni per la sicurezza urbana” del Ministero dell’Interno che nel 2009 ha finanziato alcuni progetti di videosorveglianza) e locali (soprattutto attraverso i contributi previsti dalle leggi regionali sulle politiche di sicurezza). L’esperienza piemontese dei progetti sulla sicurezza mostra, analogamente ad altre regioni italiane, come il binomio “più telecamere = più sicurezza” si sia affermato in maniera non del tutto indipendente dalla disponibilità di risorse dedicate alle politiche locali di sicurezza, sollevando qualche interrogativo circa la reale domanda di dotazioni tecnologiche finalizzate a accrescere la sicurezza del territorio (Regione Piemonte, 2009, 2012). La scelta di dotarsi di impianti di videosorveglianza per il controllo di alcune aree del territorio si fonda sull’opinione diffusa che le telecamere possano validamente contribuire a ridurre i reati e i comportamenti devianti. Nello specifico, l’azione positiva è associata alla possibilità che esse possano agire come strumento deterrente e di aiuto nell’identificare l’autore del reato, consentire un impiego più tempestivo delle forze di polizia e, infine, influenzare il comportamento dell’autore (rendendo visibile la presenza di una forma di sorveglianza) e della potenziale vittima (rendendo più reale la consapevolezza del rischio e quindi aumentando il livello di attenzione). Questi sono gli argomenti principali che, insieme alla disponibilità di finanziamenti dedicati, hanno contribuito maggiormente alla rapida crescita e diffusione delle telecamere in molti paesi, anche indipendentemente da riscontri scientifici certi (Groombridge, 2008). Il riferimento all’esperienza inglese delle CTTV è particolarmente interessante in quanto i paesi di tradizione anglosassone non soltanto sono stati i primi a implementare questi strumenti all’interno delle politiche di sicurezza, ma anche a interrogarsi sul loro effettivo impatto. Inoltre, oggi il

L’efficacia della videosorveglianza

una questione complessa ma fondamentale

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dibattito sui costi/benefici della videosorveglianza è tornato attuale data la vetustà di una buona parte dei sistemi esistenti e gli elevati costi necessari per il loro aggiornamento o sostituzione (Webster, 2009, pp.10-11). La questione dell’efficacia è diventata di dominio pubblico nel 2008 quando il responsabile della sezione videosorveglianza di Scotland Yard, Mike Neville, definì pubblicamente la costosa rete di videosorveglianza nazionale un "fiasco totale". Nonostante il sistema inglese sia tra i più capillari e diffusi al mondo16, solo il 3% dei reati predatori di strada vengono risolti grazie all’ausilio delle telecamere. Motivo principale del fallimento, secondo Scotland Yard, è la scarsità di agenti qualificati all’analisi dell’enorme flusso di dati raccolti dalle videocamere nelle 24 ore. A risultati analoghi è giunta la ricerca francese effettuata a Saint-Etienne, già menzionata, che rivela che non più del 2% dei fatti criminosi che avvengono negli spazi pubblici vengono risolti grazie all’uso delle immagini videoregistrate. Questi dati hanno ulteriormente aumentato l’interesse delle istituzioni locali e della comunità accademica che hanno così analizzato con maggior spirito critico il contributo dei sistemi tecnologici sul miglioramento delle condizioni di sicurezza nelle città inglesi e le condizioni in cui essi possono risultare efficaci. Senza aver la pretesa di ricostruire qui l’intero dibattito sull’efficacia dei sistemi di videosorveglianza, ci sembra tuttavia utile riportare i principali risultati delle numerose ricerche allo scopo di offrire indicazioni utili ad altre realtà locali. Il primo dato messo in evidenza dagli studi è che il ricorso alle telecamere non è ugualmente incisivo per tutti gli usi e le finalità, ma dipende dalle caratteristiche del contesto e dalle situazioni specifiche da monitorare. L’idea che la videosorveglianza sia la soluzione per tutti i problemi di criminalità e un efficace deterrente contro i reati sempre e comunque non è suffragata dai dati scientifici, anzi è considerata uno dei “miti” più radicati su questo argomento (Webster 2009, pp. 17-19). Le valutazioni di impatto condotte sui sistemi di videosorveglianza concordano sul fatto che l’impatto nel ridurre la criminalità è modesto17. La più importante valutazione commissionata e finanziata dall’Home Office nel 2005 afferma che la presenza delle telecamere non si è rivelata in grado di contenere la criminalità e addirittura in alcuni casi gli svantaggi prodotti sono stati superiori ai benefici (Gill & Spriggs, 2005, p. 36; Nobili, 2009b, p. 37). È quindi possibile affermare che la videosorveglianza è uno strumento che dimostra la sua efficacia solo se usato in modo selettivo e mirato, vale a dire per la prevenzione e il controllo di alcune tipologie di reati e se adottata

I benefici della videosorveglianza

per la lotta alla criminalità: per quali reati e in quali spazi

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in spazi fisici specifici. Entrando più nel dettaglio, è stato dimostrato come i sistemi di videosorveglianza abbiano una funzione di deterrenza soprattutto per i “reati di tipo strumentale” (i c.d. property e personal crimes), cioè i crimini contro la proprietà, in particolare i furti di e su autoveicoli (Ratcliffe, 2006). Ciò sembra essere legato al fatto che la presenza delle telecamere inciderebbe sulla valutazione dei rischi/benefici di un reato ritenuto vantaggioso da parte del potenziale autore, da cui discenderebbe quindi la scelta di non agire (teoria della scelta razionale, vedi Glossario, p. 35). Questo è uno dei fondamenti teorici su cui si basa la prevenzione situazionale che assume che vi siano per l’appunto dei “fattori situazionali” (o esterni) capaci di influenzare la scelta di commettere un crimine, riducendone le opportunità e il vantaggio associato. Nel caso dei reati sulla proprietà, la possibilità che le telecamere possano permettere di identificare il responsabile o che la polizia possa intervenire con tempestività aumentano al crescere del tempo necessario per commettere l’azione criminale: nel caso dei furti di e su autoveicoli c’è certamente una maggiore esposizione dell’autore del reato dati i tempi medio lunghi dell’operazione. Molto meno incisiva sembra, invece, la funzione di deterrenza per “reati espressivi”, come le lesioni, le aggressioni, i danneggiamenti, cioè tutti quei reati più impulsivi, a volte associati a stati di euforia, e in cui l’interazione con la vittima o il bersaglio appaiono più estemporanei e rapidi. Questo ultimo aspetto è di particolare importanza poiché spesso sono proprio questi i reati che hanno maggiore impatto sulla percezione di sicurezza dei cittadini e per i quali viene sollecitata agli amministratori locali l’installazione di impianti di videosorveglianza. Ma, dicono gli studi, con scarse possibilità di successo. Anche le caratteristiche dell’area in cui il sistema di videosorveglianza è posizionato sono importanti perché esso possa essere efficace rispetto alle finalità e aspettative. È stato ampiamente dimostrato che le telecamere non producono un impatto significativo sulla criminalità in spazi pubblici ampi e con molteplici vie di accesso e di fuga, mentre risultano più utili se dislocate in aree perimetrate e ben delimitate, dove gli ingressi siano circoscritti: ad esempio, nei parcheggi, in stazioni della metropolitana con un’unica uscita, in edifici e in spazi pubblici delimitati ad esempio da mura. Come confermato nell’ambito del progetto europeo denominato Citizens, cities and video surveillance, coordinato dal Forum Europeo per la Sicurezza Urbana18, le telecamere possono essere proficuamente utilizzate per crimini seriali e per reati gravi che avvengono in luoghi chiusi (ad esempio per le rapine in banca o i reati che avvengono all’interno di impianti sportivi). È evidente, poi, che anche la presenza e qualità dell’illuminazione nelle aree

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pubbliche sottoposte a sorveglianza così come il corretto puntamento delle telecamere influiscano in misura determinante sul loro potenziale deterrente (Nobili, 2009b, p. 41). A volte la diminuzione della frequenza di un certo reato è erroneamente

associata alla funzione deterrente delle telecamere, mentre a ben guardare magari è dovuta all’effetto displacement del fenomeno criminale (vedi Glossario), ovvero allo spostamento verso un’altra zona del territorio

magari non controllata dalle telecamere, o verso un’altra tipologia di reato (ad esempio si riducono le rapine in banca ma aumentano quelle ai tabaccai e quindi l’effetto sul totale dei reati rimane invariato). Se, come si è detto, la videosorveglianza risulta generalmente poco efficace nella prevenzione e dissuasione situazionale del crimine (salvo nei casi circoscritti sopra descritti in cui gli effetti deterrenti funzionano), essa risulterebbe invece molto più incisiva nella cosiddetta funzione di detection, cioè di intelligence e individuazione dell’autore del reato. Questo utilizzo ex post, a servizio della polizia giudiziaria, può dare buoni risultati a patto però che le telecamere siano di buona qualità e correttamente mantenute e visionate. Qui entrano tutte le considerazioni già fatte nei paragrafi precedenti (vedi p. 186 -191) sugli aspetti tecnici delle dotazioni impiegate (scelta della tecnologia, posizionamento, risorse per la manutenzione e l’aggiornamento) e sul fattore umano che insieme contribuiscono a far funzionare o meno un sistema di videosorveglianza (organizzazione e coordinamento dell’organico dedicato, formazione alla visione delle immagini). Un altro aspetto che rende sicuramente più complesso il giudizio sull’uso della videosorveglianza riguarda l’impatto sulle percezioni dei cittadini. Se, infatti, il ricorso alla videosorveglianza viene spesso giustificato con la necessità di investire sul piano della rassicurazione dei cittadini, guardando i risultati delle ricerche c’è da riconoscere che la capacità delle telecamere di incidere positivamente sulla sicurezza percepita delle persone non è affatto verificata. Gli effetti rassicuranti che possono derivare dalla consapevolezza che un’area videosorvegliata sia fruibile con maggiore tranquillità, così come quelli “allertanti” - che indurrebbero, proprio in funzione del fatto che un territorio è sottoposto a controllo elettronico, maggiore attenzione e vigilanza nelle potenziali vittime - non sono effettivamente e significativamente stati dimostrati a livello empirico. Secondo alcuni studiosi i cittadini possono sentirsi rassicurati dalla presenza delle telecamere, mentre secondo altri la

L’efficacia della videosorveglianza tra la prevenzione dei reati e la scoperta dei responsabili

Le telecamere possono aumentare

o diminuire le paure dei cittadini

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presenza di telecamere può essere interpretata come conferma della pericolosità di un territorio e, in quanto tale, può indurre maggiore preoccupazione e paura nei cittadini (Fonio 2007, 2010). Altri studi dimostrano come la prossimità a un territorio e il senso di appartenenza riducono il supporto alle telecamere come strumenti per la sicurezza del territorio. Inoltre, la presenza di telecamere raramente impatta positivamente sulle percezioni spaziali delle persone e sui loro percorsi di mobilità nello spazio urbano (Zurawski, 2007). Generalmente il miglioramento dei sentimenti di sicurezza si accompagna piuttosto alla riduzione dei tassi di vittimizzazione nelle aree videosorvegliate (Gill & Spriggs, 2005). Si è osservato che le telecamere possono amplificare una cultura della paura e del sospetto, contribuendo ad alimentare preoccupazioni e ansie19. Alcuni studiosi si spingono a osservare che, sul piano delle percezioni, la videosorveglianza potrebbe amplificare un atteggiamento di delega da parte dei cittadini (il comportamento del bystander) che sarebbero spinti a non intervenire per paura di “andarci di mezzo” o ritenendo che l’occhio della telecamera faccia intervenire altri senza che si renda necessario un attivismo da parte dei presenti (Amapola, 2008b, p. 33). Un’ulteriore cautela relativa all’impatto sociale riguarda poi il rischio di discriminare gruppi già stigmatizzati ed emarginati dal momento che, come nota Fonio (2007), la videosorveglianza non è un mezzo meramente tecnico ma socio-tecnico, ovvero con numerosi rischi riguardanti la privacy dei cittadini e la potenziale discriminazione (vedasi p. 183 – 186). In conclusione si può dire che l’uso della videosorveglianza mostra sia dei punti di forza sia dei limiti che è importante considerare per evitare di mettere in campo interventi per la sicurezza inefficaci e sprecare risorse (tecnologiche, economiche e umane). Quella che appare agli occhi di molti come una misura dagli effetti evidenti e immediati in realtà è invece un strumento il cui contributo sulla sicurezza in ambito cittadino dipende in misura rilevante dalla qualità dell’analisi ex ante delle condizioni in cui si va a installare il sistema e dalle caratteristiche di operatività e gestione del sistema stesso. Infatti, come si è cercato di evidenziare, per farne uno strumento potenzialmente utile e utilizzabile, va attentamente e preliminarmente studiato l’uso che se ne vuole fare, gli obiettivi, le tecnologie e le modalità organizzative e gestionali. In sintesi, le telecamere sono una misura cui gli Enti locali possono ricorrere in modo maggiormente efficace per incrementare la sicurezza del proprio territorio quando: î le aspettative che giustificano il ricorso alle telecamere sono adeguate

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alle problematiche di sicurezza, agli obiettivi da raggiungere, alle capacità tecnico-operative dei sistemi, senza alimentare false attese nell’opinione pubblica che rischierebbero di essere irrealistiche e controproducenti;

î sono impiegate per specifiche finalità e in determinate circostanze; ad esempio se la finalità è quella della prevenzione della criminalità nella fase precedente all’installazione è opportuno tenere a mente per quali reati è realmente efficace e per quali invece è inutile, quali sono le caratteristiche fisiche del luogo che facilitano la videosorveglianza, ecc.;  

î sono impiegate in combinazione con altre strategie di prevenzione che ne rafforzano l’impatto, come ad esempio interventi di potenziamento dell’illuminazione pubblica, di miglioramento dell’ambiente fisico e sociale o di sostegno a gruppi marginali e vulnerabili. Per riuscire a modificare in positivo le condizioni del contesto e avere un effetto riduttivo sui fenomeni criminosi bisogna agire in maniera sinergica e complementare: così come le cause che determinano il crimine sono molteplici, anche le risposte e gli interventi devono essere diversi (Fussey, 2007);

î si pianificano con attenzione, oltre alla fase di installazione, anche quelle successive di organizzazione degli operatori, ad esempio attraverso misure sul piano organizzativo e gestionale (es coordinamento del personale della centrale di controllo), o di formazione degli operatori incaricati della visione delle riprese;

î si accompagna l’installazione dei sistemi con misure di comunicazione sui media che possano garantire una maggior sostenibilità della misura nel tempo. L’efficacia sulla criminalità e i comportamenti anti-sociali, quando c’è, sembra essere limitata al periodo immediatamente successivo all’installazione per poi diminuire con il tempo. In questo senso, il risalto sui media può contribuire a mantenere alta l’attenzione sulla presenza delle telecamere.

In sintesi alcune

indicazioni utili

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Note 1 http://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/31019 2 http://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/1003482 3 La circolare Prot. n. 558/A/421.2/70/456 emanata l’8 febbraio 2005 è scaricabile dal sito http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/19/00251_Circolare_dellx8_febbraio_2005._Sistemi_di_Videosorveglianza.Definizione_linee_guida.pdf 4 http://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/1712680 5 La circolare Prot. n. 558/A/421.2/70/195960 emanata il 6/08/2010 è scaricabile dal sito http://www.rivistagiuridica.aci.it/uploads/tx_userdoc/00252_Circolare_del_6_agosto_2010.SISTEMI_DI_VIDEOSORVEGLIANZA.pdf 6 La direttiva n. 558/SICPART/421.2/70 del primo trimestre del 2012 è scaricabile dal sito http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/23/0486_07.02.2012_CIRCOLARE.pdf 7 I comuni medio-grandi sono i comuni con più di 10.000 abitanti. 8 L’elenco dei Patti per la sicurezza firmati, aggiornato al 28 febbraio 2013, è disponibile http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/sicurezza/0999_patti_per_la_sicurezza.html 9 A parte l‘indagine esplorativa commissionata nel 2000 alla società Ipermedia dal Garante per la protezione dei dati personali ed effettuata su quattro città campione in Italia non sono state effettuate molte ricerche empiriche su questo tema. Tra queste, ricordiamo quella realizzata nel 2005 sul territorio milanese (Fonio, 2007). 10 Si veda, per una disamina completa e approfondita di questi provvedimenti, la pubblicazione http://www.regione.piemonte.it/polizialocale/dwd/quaderno47.pdf 11 Il cosiddetto “Pacchetto Sicurezza 2008” D.L. n. 92/2008 convertito in Legge 24 luglio 2008 n. 125 e il “Pacchetto Sicurezza 2009” Legge 15 luglio 2009, n. 94. 12 L’opinione del Presidente Pighi è riportata nel documento intitolato “Osservazioni in merito all’incontro ANCI-Ministero dell’Interno” al termine dell’incontro svoltosi a Pavia il 14 maggio 2012 alla presenza del Ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri. 13 Pur senza definire ambiti territoriali minimi, la direttiva suggerisce tuttavia di valutare gli eventuali benefici anche in base alla dimensione del territorio su cui il progetto di videosorveglianza andrebbe ad insistere. 14 Per un modello indicativo di Regolamento comunale per la gestione di impianti di videosorveglianza si veda Anci 2010, p. 57. 15 http://www.fisu.it/risorse/le-domande-della-sicurezza/video-sorveglianza. 16 Dal 2003 ad oggi in Gran Bretagna si stima siano state istallate 4,2 milioni di telecamere, con un rapporto di una telecamera ogni 14 abitanti. Anche se non vi sono dati aggiornati, si ritiene che il numero degli impianti di videosorveglianza oggi sia ancora maggiore. http://www.ilmessaggero.it/home_nelmondo/criminalit_in_gran_bretagna_il_capo_della_polizia_la_videosorveglianza_un_vero_fiasco/notizie/23720.shtml 17 L’analisi finanziata dal Governo inglese è stata condotta su 24 sistemi di videosorveglianza. Il documento conclude che le “CCTV had a very small but statistically significant reduction in crime of 3%” e in particolare che non vi è stato uno “statistically significant effect in reducing crime in public transport evalutation” e in particolare “no effect on violent crimes a significant effect on vehicle crimes, and it is most effective when used in car parks” (Nacro, 2002). 18http://cctvcharter.eu/fileadmin/efus/CCTV_minisite_fichier/Publication/CCTV_publication_EN.pdf 19 Si veda l’intervento di Davide Calenda, del Gruppo italiano di studi sulla videosorveglianza, http://ilsecolo21.it/societa/la-telecamera-intelligente-e-le-conseguenze-sociali-della-videosorveglianza/

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Capitolo 7 Da metronotte a poliziotto privato. Il nuovo ruolo della vigilanza privata nelle politiche di sicurezza di Silvia Demma 1. Introduzione ..……………………………………….…………………..p. 211 2. Le innovazioni normative verso la sicurezza sussidiaria ………p. 212 La vigilanza privata, un istituto antico Tra spirito imprenditoriale e vuoto normativo: la nascita del primo istituto di vigilanza italiano Dal TULPS del 1931 alla normativa degli anni 2000 La sicurezza negli stadi Pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio? Verso una privatizzazione? 3. Vigilanza privata, sicurezza pubblica sicurezza urbana …..………....p. 227 Il contributo della vigilanza privata alla sicurezza urbana Gli addetti ai controlli delle attività di intrattenimento e di spettacolo Il coinvolgimento della vigilanza privata nella sicurezza urbana Prime osservazioni sull’attuazione del Protocollo Mille Occhi sulla città Il protocollo Mille Occhi a Palermo: il racconto di un’esperienza Note ……………………………………………………..…………….........p. 237

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Introduzione Questo capitolo offre un percorso di lettura e approfondimento su una tematica poco nota e su cui non esistono materiali destinati a un pubblico ampio: la vigilanza privata e il suo ruolo nelle politiche di sicurezza. Proprio perché il tema è largamente inesplorato, il capitolo tenta di ricostruire, in modo sintetico e accessibile, il quadro evolutivo della disciplina. Non deve trarre in inganno il fatto che la normativa di riferimento in materia di vigilanza privata sia ancorata al Regio Decreto n. 773 del 18 giugno 1931 - il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, di seguito TULPS - ed al Regolamento del 1940 (R. D. 635): a partire dall’inizio degli anni ’90, e in misura decisa nel 2008 e nel 2010, vari interventi legislativi hanno apportato significativi mutamenti al quadro. Diversi elementi hanno concorso all’evoluzione normativa che ha trasformato il metronotte di antica memoria nell’attuale poliziotto privato. Ai tempi del varo del Regio Decreto la necessità di frammentare su base provinciale l’attività di vigilanza - così da ridurre il rischio di giungere alla formazione di strutture organizzate a livello nazionale, per di più armate - era compatibile con esigenze di vigilanza tutto sommato contenute, che richiedevano competenze professionali non particolarmente elevate e

dotazioni strumentali ridotte. La trasformazione in senso democratico dello Stato e l’adesione all’entità sovranazionale europea, associate all’incremento di beni - non solo

tangibili - da tutelare, ha prodotto lo scenario attuale. La transizione dal modello “accentratore” (che riservava allo Stato la totale competenza anche operativa in materia di ordine e sicurezza pubblica) al modello di sicurezza “sussidiaria” si è realizzata attraverso numerosi interventi normativi, alcuni dei quali hanno portato al contesto attuale nel quale diversi soggetti, anche privati, concorrono alla tutela della sicurezza (vedi capitolo 5). Le innovazioni normative non sono però solo intervenute a riconfigurare guardie giurate ed istituti di vigilanza, ma hanno introdotto o ridefinito altre figure, quali ad esempio gli steward negli stadi, fino a tracciare un modello complesso di sicurezza integrata tra pubblico e privato, utile non solo ad

Il metronotte una figura antica,

oggi dotata di nuove competenze

L’integrazione pubblico – privato è la logica alla base dell’evoluzione del ruolo della vigilanza privata

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offrire risposte al crescente fabbisogno di sicurezza, ma anche a razionalizzare l’intervento della forza pubblica. Nell’illustrare questa trasformazione il capitolo intende soprattutto evidenziare gli aspetti di maggiore interesse per gli Enti locali: l’ampliamento dei campi di intervento e dei compiti degli addetti privati alla sorveglianza ha, infatti, portato ad una loro presenza importante sul territorio. Sarà quindi esaminata l’esperienza del Protocollo d’Intesa “Mille Occhi sulla Città” tra Ministero dell’Interno, ANCI e le principali associazioni rappresentative delle imprese di vigilanza privata volta appunto a promuovere la sicurezza tra i cittadini.

Le innovazioni normative verso la sicurezza sussidiaria

La vigilanza privata, un istituto antico La vigilanza privata entra nell’ordinamento giuridico italiano all’indomani dell’unificazione con la legge di pubblica sicurezza 20 marzo 1865, n. 2248, che disciplina le guardie particolari1 giurate deputate alla vigilanza della proprietà terriera privata. Alcuni anni dopo, le guardie private perdono il carattere rurale per divenire con la legge 21 dicembre 1890 n. 7321 soggetti che i Comuni o i privati possono utilizzare per la custodia delle loro proprietà. Successivamente sarà una evoluzione di fatto (vedi il box che segue) a far nascere la vigilanza privata nelle forme vicine a quelle che si conoscono oggi (per dettagli sulla normativa dal 1865 al 1930, cfr. Calvo et al, 2009).

Tra spirito imprenditoriale e vuoto normativo: la nascita del primo istituto di vigilanza italiano

Siamo a Padova, intorno al 1880. L’Italia, nata da poco, ha un’economia prevalentemente rurale, ma fioriscono le attività manifatturiere. Giuseppe Lombardi ha un’idea innovativa: proporre il servizio di vigilanza. La figura della guardia privata esiste già: una legge del 1865 (n. 2248, art. 8) consente ai privati di assumere guardie “approvate” dal Prefetto per la custodia delle proprie terre. La legge non prevede un’impresa come quella pensata da Lombardi, che organizzi un certo numero di guardie per offrire a diversi privati il servizio di vigilanza, ma nemmeno lo vieta. E così

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Lombardi avvia la sua attività, un Corpo di guardie notturne, per “tutelare la sicurezza dei cittadini, sia personale, sia delle proprietà”. La sua impresa non passa inosservata agli occhi del Prefetto di Venezia, dove si è insediata la nuova agenzia, e scatta la denuncia nei suoi confronti per aver organizzato un gruppo potenzialmente pericoloso per la sicurezza. Gli esiti dei primi gradi di giudizio non sono univoci: assolto al primo, al secondo è condannato per usurpazione di funzioni pubbliche. Nel 1883, in Cassazione, è infine assolto. Permane il vuoto legislativo, e così Lombardi, dopo aver trasferito la sua attività a Milano, viene di nuovo sottoposto a giudizio per aver costituito una milizia. Questa volta solo i giudici di Cassazione lo condannano, ma per non aver chiesto la licenza al Prefetto. È il 1887 e con questa sentenza i giudici fissano il principio della legittimità degli istituti di vigilanza. La giurisprudenza si conforma alla sentenza. Segue l’approvazione di tre norme che potrebbero colmare il vuoto: la legge n. 7321 del 1890, il Regio Decreto n. 690 del 1907 e infine il Regio Decreto n. 666 del 1909. La legge del 1890 svincola la figura della guardia privata dal mondo rurale: potrà essere assunta da Comuni, corpi morali e privati per essere destinata alla “custodia delle loro proprietà”, previa approvazione da parte del Prefetto e giuramento davanti al Pretore. La formulazione è ripresa dal Regio Decreto del 1907 ed è, nella sua essenza, la medesima dell’odierno TULPS. Il legislatore si è dimenticato degli istituti di vigilanza e non colma questa lacuna nemmeno con il regolamento del 1909 che dispone sui requisiti e sulle procedure per la nomina e la revoca delle guardie particolari. La norma arriva, infine, nel 1914, sotto forma di regolamento. Una bizzarria giuridica, per certi versi, poiché il legislatore non ha mai varato una norma in materia di istituti di vigilanza: l’unica legittimazione giuridica è legata alla sentenza del 1887 ed alla successiva giurisprudenza.

La normativa di riferimento in materia di vigilanza privata, come già accennato, risale al TULPS del 1931 ed il Regolamento, corollario indispensabile per l’applicazione del TULPS, al 1940. Gli articoli dedicati al tema compresi nel Titolo IV del TULPS, dal 133 al 141 (Delle Guardie Particolari e degli Istituti di Vigilanza e di Investigazione Privata) e le norme applicative di cui ai paragrafi 20, 21 e 21 bis del regolamento (Delle Guardie Particolari; degli Istituti di Vigilanza e di Investigazione Privata; degli Istituti stabiliti in altri Paesi dell’Unione Europea, degli enti di Certificazione indipendenti e della Commissione consultiva centrale) sono stati da ultimo aggiornati nel 2008. È bene sottolineare sin da subito che il modello di sicurezza “sussidiaria” scaturito dalle recenti innovazioni ammette e regola attività esclusivamente integrative o complementari, in sinergia con quelle svolte dalle Forze di polizia. Infatti, solo a queste ultime continuano ad essere attribuite in via esclusiva, secondo una ripartizione ribadita dalla

La tutela degli interessi pubblici

primari è riservata alle Forze dell’Ordine

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Corte costituzionale, le attività volte a tutelare gli interessi pubblici primari, ossia quelli “essenziali al mantenimento di una ordinata convivenza civile”2. Se è confermato che alle sole forze pubbliche è riservato l’esercizio di speciali poteri autoritativi o coercitivi, con il nuovo assetto normativo si amplia lo spettro delle attività “complementari” che possono essere svolte da soggetti privati per tutelare la sicurezza dei cittadini. In parallelo, i requisiti professionali, tecnici ed organizzativi necessari allo svolgimento delle attività complementari - rivisti radicalmente rispetto al passato - continuano ad essere sottoposti al controllo di Prefetture e Questure. Tuttavia, la gerarchia di rapporti tra Istituzioni e privati continua ad essere affermata dall’art. 1 (“l’autorità di pubblica sicurezza veglia al mantenimento dell’ordine pubblico, alla sicurezza dei cittadini, alla loro incolumità e alla tutela della proprietà”) e dall’art. 139 del TULPS (“Gli uffici di vigilanza e di investigazione privata sono tenuti a prestare la loro opera a richiesta dell'autorità di pubblica sicurezza e i loro agenti sono obbligati ad aderire a tutte le richieste ad essi rivolte dagli ufficiali o dagli agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria”) che sono rimasti invariati. Nel paragrafo che segue si illustrerà l’evoluzione normativa e l’attuale quadro di riferimento in materia di vigilanza privata.

Dal TULPS del 1931 alla normativa degli anni 2000

La disciplina degli anni ’30 stabilisce che gli enti pubblici, collettivi e i privati possono destinare guardie private alla vigilanza o custodia delle loro proprietà mobiliari e immobiliari (art. 133 TULPS) previo rilascio della licenza da parte del Prefetto per poter esercitare attività di vigilanza. La licenza è concessa esclusivamente ai cittadini italiani, purché non siano incapaci di obbligarsi o abbiano riportato condanna per delitto non colposo (art. 134 TULPS). Viene invece negata o revocata “a chi non dimostri di possedere capacità tecnica ai servizi che intende esercitare” o per ragioni di sicurezza pubblica o di ordine pubblico (art. 136 TULPS). Nel corso degli anni questa disciplina, di cui qui sono stati ricordati gli elementi essenziali, è stata oggetto di numerosi interventi della giurisprudenza dati i numerosi problemi interpretativi che essa poneva. Figlia di un’epoca storica precedente alla Costituzione, molti sono stati gli sforzi per ricondurla all’interno del quadro normativo post-costituzionale e dell’evoluzione normativa europea, a cui gli Stati Membri dovrebbero via via adeguarsi (per un’attenta disamina si veda Calvo et al, 2009). Nel 2001 anche la Corte di Giustizia delle Comunità europee è intervenuta a censurare la normativa italiana. Con la sentenza C-289/99 del 31 maggio

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2001, la Corte sottolinea come il requisito del possesso della cittadinanza italiana leda l’intervenuta equiparazione tra i cittadini italiani e quelli comunitari. Il legislatore italiano, l’anno successivo, si adegua, consentendo ai cittadini comunitari di ottenere le autorizzazioni prefettizie come i cittadini italiani. Questo piccolo intervento di maquillage è però ben poca cosa rispetto alle modifiche che il legislatore è costretto a fare successivamente. Infatti nel 2007 la Corte di Giustizia delle Comunità europee interviene nuovamente (Sentenza C-465/05 del 13 dicembre 2007) ravvisando nella normativa italiana due importanti profili di frizione con la normativa comunitaria. La Corte osserva il mancato rispetto della libertà di circolazione dei beni e dei servizi (diretta a consentire alle imprese autorizzate a svolgere una determinata attività in uno Stato Membro dell’Unione Europea senza particolari formalità in qualsiasi altro Stato europeo) e del diritto dei cittadini comunitari di stabilirsi in qualsivoglia Stato dell’Unione per vivere e lavorare. La normativa italiana, vetusta e gravida di limitazioni e autorizzazioni, non risulta conforme ai principi comunitari. Il giudice comunitario è stato così la spinta per il rinnovamento della materia della vigilanza privata. Questo rinnovamento si è concretizzato nel 2008 con il Decreto-Legge 8 aprile 2008, n. 59, convertito nella Legge 6 giugno 2008, n. 101 e con il

D.P.R. 4 agosto 2008, n. 153. La modifica affronta il nodo, fino ad allora trascurato, della specificità delle agenzie di vigilanza privata: se, infatti, da un lato queste intervengono in un

ambito delicato qual è, appunto, quello della sicurezza, dall’altro sono, a tutti gli effetti, delle imprese. I meccanismi di concessione della licenza vigenti fino al 2008, strutturati su base provinciale e con interventi anche sulla definizione delle tariffe, impedivano di fatto il pieno esercizio della libertà di impresa. Dal 2008, invece, si chiarisce il ruolo delle Prefetture, cui rimane il controllo sulla parte attinente la pubblica sicurezza, e quello dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, a cui è demandato il controllo sulla parte relativa alla definizione del prezzo. Inoltre, a seguito della sentenza del 2007, sono state apportate le modifiche necessarie a garantire l’accesso al mercato italiano anche alle imprese con sede in altri Paesi dell’Unione Europea. Ad oggi non si è ancora verificato l’ingresso di multinazionali del settore che, però, ora è consentito grazie

Una evoluzione normativa spinta dalla

necessità di confromarsi alla normativa

comunitaria in materia di libera concorrenza

L’eliminazione degli elementi di controllo sui prezzi e la modifica del giuramento: la vigilanza privata si fa impresa

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all’intervento della corte europea. In parallelo, è stata modificata la formula del giuramento che le guardie giurate devono prestare. A parte casi particolari, per assumere il ruolo è necessario impegnarsi ad essere fedeli a leggi e regolamenti italiani e non alla Repubblica, un’obbligazione che non può essere richiesta al cittadino di un altro Stato (art. 250 Regolamento). Infine, per quanto riguarda la figura della guardia giurata, le modifiche apportate all’art. 138 del TULPS introducono, all’ultimo comma, il riconoscimento della qualità di “incaricato di pubblico servizio”. Il tema della formazione professionale è menzionato esplicitamente, per quanto il riferimento alla scolarità necessaria rimanga l’antico “saper leggere e scrivere”. In questo contesto di complessivo riordino della materia prende definitivamente corpo il concetto di sicurezza “complementare” nel testo dell’art. 256 bis, comma 2 e 3, del Regolamento, laddove viene specificato:

Rientrano, in particolare, nei servizi di sicurezza complementare, da svolgersi a mezzo di guardie particolari giurate, salvo che la legge disponga diversamente o vi provveda la forza pubblica, le attività di vigilanza concernenti: a) la sicurezza negli aeroporti, nei porti, nelle stazioni ferroviarie, nelle stazioni delle ferrovie metropolitane e negli altri luoghi pubblici o aperti al pubblico specificamente indicati dalle norme speciali, ad integrazione di quella assicurata dalla forza pubblica; b) la custodia, il trasporto e la scorta di armi, esplosivi e di ogni altro materiale pericoloso, nei casi previsti dalle disposizioni in vigore o dalle prescrizioni dell'autorità, ferme restando le disposizioni vigenti per garantire la sicurezza della custodia, del trasporto e della scorta; c) la custodia, il trasporto e la scorta del contante o di altri beni o titoli di valore; nonché la vigilanza nei luoghi in cui vi è maneggio di somme rilevanti o di altri titoli o beni di valore rilevante, appartenenti a terzi; d) la vigilanza armata mobile e gli interventi sugli allarmi, salve le attribuzioni degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza; e) la vigilanza presso infrastrutture del settore energetico o delle telecomunicazioni, dei prodotti ad alta tecnologia, di quelli a rischio di impatto ambientale, ed ogni altra infrastruttura che può costituire, anche in via potenziale, un obiettivo sensibile ai fini della sicurezza o dell'incolumità pubblica o della tutela ambientale. Rientra altresì nei servizi di sicurezza complementare la vigilanza presso tribunali ed altri edifici pubblici, installazioni militari, centri

La definizione del concetto di sicurezza

complementare

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direzionali, industriali o commerciali ed altre simili infrastrutture, quando speciali esigenze di sicurezza impongono che i servizi medesimi siano svolti da guardie particolari giurate.

Nella lista è compreso un ampio numero di luoghi pubblici. Già da tempo, peraltro, era previsto che le guardie giurate potessero svolgere attività integrative a quelle delle forze dell’ordine in porti ed aeroporti. Nel 2010 viene fornito anche l’elenco dettagliato degli obiettivi sensibili menzionati al comma 2, con il DM n. 269 del 1 dicembre che, al punto 3.b.1 della sezione III dell’allegato D, specifica:

Devono intendersi obiettivi sensibili e, come tali, affidati alla vigilanza delle guardie giurate, qualora non vi provvedano direttamente le Forze dell’Ordine: • aziende pubbliche o private del settore energetico (sia che trattasi di strutture di produzione di energia che di centrali di distribuzione nelle aree urbane) e delle forniture idriche (compresi gli impianti di potabilizzazione o distribuzione nella rete idrica urbana); • aziende pubbliche o private del settore delle telecomunicazioni (in particolare centrali di collegamento, smistamento e gestione di reti telefoniche, sia fisse che mobili) e sedi di emittenti radiotelevisive a carattere nazionale; • raffinerie, centri oli per la raccolta ed il trattamento del greggio, depositi di carburante e lubrificanti con capacità di stoccaggio superiore a 100 tonnellate. Devono intendersi come siti con speciali esigenze di sicurezza e, come tali, analogamente affidati alla vigilanza delle guardie giurate, qualora non vi provvedano direttamente le Forze dell’Ordine: • siti dove operano persone che svolgono compiti di particolare delicatezza per il pubblico interesse e per i quali va garantita l’incolumità e l’operatività (ad esempio aziende o presidi ospedalieri e/o sanitari); • siti contenenti banche dati sensibili o il cui accesso è riservato solo a persone autorizzate (ad esempio strutture pubbliche munite di centri elaborazione dati e/o a forte affluenza di pubblico); • siti dove l’accesso sia subordinato al controllo con macchinari radiogeni o rilevatori di metalli o all’identificazione personale (ad esempio tribunali ed uffici giudiziari in genere); • siti dove ci sia giacenza di valori significativi o merci di valore asportabili (ad esempio musei, pinacoteche, mostre se contenenti opere di alto valore artistico ed economico).

Gli obiettivi sensibili

distribuiti sul territorio

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In entrambi i testi normativi, è fatto esplicito richiamo alla figura della guardia giurata. Questo elimina la possibilità che le attività di sorveglianza siano svolte da personale privo dei requisiti previsti dall’art. 138 del TULPS e di un’adeguata formazione. In proposito, il legislatore non ha ancora provveduto ad emanare indicazioni dettagliate, come si evince dal DM 269/2010 (primo comma del punto 1.e dell’allegato D) che prescrive, in via provvisoria, gli obblighi per gli Istituti di vigilanza in materia di formazione del proprio personale. Allo stato attuale, l’unico obbligo è quello di fornire alle guardie neo-assunte, prima che queste prendano servizio attivo, un corso teorico-pratico di almeno 48 ore e di farle affiancare, una volta in servizio, da un collega esperto per almeno una settimana.

La sicurezza negli stadi Capace di catalizzare tensioni e violenze, con scontri che debordavano all’esterno degli stadi di calcio - sui treni, nei centri cittadini, nelle aree di sosta autostradali - il fenomeno della tifoseria violenta è parso a lungo “incontenibile”. Nel 2007, anche a seguito della morte dell’agente Raciti a Catania, prendono forma, con il DL 8.2.2007, convertito nella Legge 4 aprile 2007, misure radicali di contrasto che coniugano l’azione repressiva - il D.A.SPO3, gli arresti differiti - a misure di natura preventiva. Il coinvolgimento diretto delle società sportive nella tutela della sicurezza si concretizza attraverso diversi strumenti, la cui mancata attuazione comporta sanzioni significative. Una delle prime misure è il divieto di accesso del pubblico negli stadi non “a norma”, un provvedimento che in breve tempo ha determinato l’adeguamento, a lungo rimandato, delle strutture anche con il contributo dei club. Per consentire lo svolgimento sereno degli incontri, inoltre, le società sono chiamate ad un controllo attento sulla vendita dei biglietti e ad impiegare a proprie spese personale addetto alla vigilanza, i c.d. steward. Spetta a questi addetti, sotto la supervisione delle Forze dell’Ordine, il compito di controllare i tifosi all’ingresso degli stadi (anche mediante la perquisizione con la tecnica del pat-down, prevista dal DM 28 luglio 2011, art. 1, comma 3, lettera a) e la vigilanza durante l’incontro. Nata per contribuire alla smilitarizzazione degli stadi, la figura dello steward è oggetto di una precisa regolamentazione. Il personale deve possedere non solo specifici requisiti tecnici per le diverse mansioni, a cui sono attribuiti livelli diversi di responsabilità, ma anche i requisiti morali previsti dall’art. 11 del TULPS. Lo steward, inoltre, deve affrontare un corso di formazione apposito (sul tema si vedano le linee guida sul servizio di stewarding www.osservatoriosport.interno.gov.it/allegati/linee_guida_steward.pdf). È utile rammentare che nello svolgimento della attività lo steward assume il ruolo di incaricato di pubblico servizio. Di conseguenza, nel caso in cui sia vittima di violenza o minaccia e resistenza, o subisca lesioni gravi o gravissime, all’aggressore saranno applicate le medesime sanzioni penali previste per uguali reati ai danni di un pubblico ufficiale. I dati statistici confermano l’efficacia degli strumenti normativi adottati: dalla stagione

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calcistica 2006/07 a quella 2011/12, il numero di denunce è passato da 1129 a 188 e gli arresti sono scesi da 378 a 33. È inoltre diminuito l’impiego delle Forze dell’Ordine: “nei grandi stadi (Milano, Torino, Roma) gli incidenti sono ormai rarissimi mentre a Palermo, laddove in passato giungevano da altre città rinforzi ai reparti mobili in misura di 200 poliziotti per le partite più delicate, da tempo è ormai terminata tale necessità” (Calabrò, 2012). Per quanto si sia ancora lontani dall’obiettivo di smilitarizzare gli stadi e si assista ancora a incidenti anche gravi in aree distanti dagli stadi, l’impatto di queste misure sulla sicurezza urbana è stato positivo, ed indica nel coinvolgimento diretto delle società sportive un valido strumento di prevenzione.

Fine specifico del Decreto Ministeriale del 1 dicembre 2010 n. 269 è però la regolamentazione degli Istituti di vigilanza. Con questo intervento sono rese omogenee a livello nazionale le regole relative a requisiti tecnici, numero di operatori, criteri organizzativi relativi alle diverse classi dimensionali e di servizio operativo cui devono adeguarsi gli Istituti. In questo modo si concretizza il superamento - previsto dall’aggiornamento del TULPS del 2008 - della limitazione all’operatività entro i confini di una singola provincia. Alle Prefetture è affidato il compito di vagliare in modo continuativo l’idoneità al servizio degli Istituti di vigilanza in base ai requisiti presentati. Infatti il Consiglio di Stato ha sancito che tale verifica vada fatta “non solo al momento dell’atto dell’assenso ma anche nel corso dell’intera durata della licenza”4. È al controllo puntuale e costante delle Prefetture che è dunque demandata l’effettiva applicazione del concetto di sicurezza sussidiaria, poiché la licenza, ha sottolineato la Corte, “riguarda, in realtà, la prestazione di servizi nei quali, alla premessa dell’iniziativa economica e delle conseguenti libertà funzionali, vanno collegate quelle di tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico e di derivazione delle relative attività da una attribuzione parzialmente riservata o riservabile alla forza pubblica (…). Questi servizi riguardano attività che per l’incidenza e la qualità delle prestazioni nonché per l’alto grado di pericolo e di specializzazione operativa erano originariamente riservati alla forza pubblica e sono stati progressivamente affidati o consentiti agli istituti di vigilanza e alle guardie particolari, in virtù di specifiche previsioni normative (…)”5. Nel caso in cui un’agenzia di vigilanza abbia i requisiti e presenti domanda per operare in diverse province, i controlli saranno esercitati dal Prefetto della provincia in cui l’agenzia ha la sede principale. Alle Prefetture spetta anche la verifica dei requisiti delle singole guardie giurate, le quali non possono esercitare l’attività in proprio, ma devono

La Prefettura come strumento di

selezione e controllo

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dipendere da un datore di lavoro che deve assolvere agli obblighi previdenziali ed assistenziali. Elementi su cui vigila la Prefettura

Guardia giurata Istituto di vigilanza Uniformi e distintivi Uniformi e distintivi

Requisiti previsti da art. 118 TULPS Requisiti soggettivi del management e tecnici/organizzativi dell’impresa previsti per tipologia di servizio e classe dimensionale

Requisiti previsti per il rilascio del porto d’armi

Congruenza prezzi/servizio

Presenza di un contratto di assunzione (in caso di cessazione del contratto, la GPG è iscritta in un elenco speciale, a disposizione di altri datori di lavoro, ma NON può svolgere l’attività). La qualifica è sottoposta a verifica ogni 2 anni

Liste degli addetti per ogni singolo servizio (aggiornate in caso di variazioni del personale incaricato)

Merita un accenno anche il tema delle tariffe praticate: le Prefetture non possono intervenire nella definizione del prezzo, ma il Regolamento prevede che le tariffe praticate dal singolo Istituto debbano essere coerenti con la licenza e con il progetto organizzativo e tecnico-operativo presentati, ed adeguate a coprire i costi del lavoro. Il controllo delle Prefetture, sia al momento della concessione della licenza, sia successivamente, sulle questioni relative ai prezzi praticati dalle singole agenzie, è dunque specificamente mirato a verificare che sussistano le condizioni economiche utili a garantire la qualità prevista per il servizio offerto6. In altri termini, l’applicazione della logica di mercato in questo settore non può andare a discapito del prodotto offerto - la sicurezza - attraverso il dumping (prezzi “sottocosto”), una pratica commerciale utilizzata per conquistare fette di mercato ai danni della concorrenza. Infine, nel caso di procedure ad evidenza pubblica per l’aggiudicazione di appalti, è richiamata integralmente la normativa relativa, ivi inclusa la presentazione della

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regolarità contributiva attraverso il DURC. Il monitoraggio sulla qualità dei servizi è completato dall’intervento delle Questure, incaricate di vigilare sull’operatività degli Istituti di vigilanza e di esercitare un potere disciplinare specifico sulle guardie giurate. Le innovazioni, quindi, non hanno solo adeguato il mercato italiano della sicurezza alla normativa europea, ma hanno anche e soprattutto ridefinito ambiti e modalità di intervento della vigilanza privata, per introdurre un modello di sicurezza nel quale la “sussidiarietà” si estende anche a strutture ed aziende pubbliche o dove siano svolti compiti di pubblico interesse. La transizione verso un modello di sicurezza complementare che mantenendo la supremazia delle Forze dell’Ordine, permette da un lato di rispondere meglio all’accrescersi di situazioni di rischio potenziale per la collettività, e dall’altra di supplire al decremento ed invecchiamento degli organici delle Forze dell’Ordine7.

Tipologie di servizio degli istituti di vigilanza

vigilanza ispettiva

servizio programmato svolto presso un determinato obiettivo per il tempo strettamente necessario ad effettuare i controlli richiesti;

vigilanza fissa

servizio svolto presso un determinato obiettivo che prevede la presenza continuativa della guardia giurata cui è demandato il controllo antintrusione, con o senza verifica dei titoli di accesso e la sorveglianza;

vigilanza antirapina

servizio svolto per la vigilanza continuativa di obiettivi in cui sono depositati o custoditi denaro, preziosi o altri beni di valore, come agenzie di istituti di credito, uffici postali, depositi di custodia di materiali o beni di valore, finalizzato alla prevenzione dei reati contro il patrimonio;

vigilanza antitaccheggio

servizio svolto presso negozi, supermercati, ipermercati, grandi magazzini e simili, finalizzato alla prevenzione del reato di danneggiamento, furto, sottrazione ovvero di appropriazione indebita dei beni esposti alla pubblica fede;

telesorveglianza

servizio di gestione a distanza di segnali, informazioni o allarmi provenienti ovvero diretti da o verso un obiettivo fermo o in movimento, finalizzato all'intervento diretto della guardia giurata;

televigilanza

servizio di controllo a distanza di un bene mobile o immobile con l'ausilio di apparecchiature che trasferiscono le immagini, allo scopo di promuovere l'intervento della guardia giurata. Gli Istituti di vigilanza possono allertare, sulla base di specifiche intese e nei casi e con le modalità

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consentite, previa verifica dell'effettività ed attualità del pericolo, le Forze di Polizia impegnate nel controllo del territorio per la prevenzione e repressione dei reati;

intervento sugli allarmi

servizio di vigilanza ispettiva non programmato svolto dalla guardia giurata a seguito della ricezione di un segnale di allarme, attivato automaticamente ovvero dall'utente titolare del bene mobile ed immobile;

scorta valori

servizio di vigilanza svolto da guardie giurate a beni di terzi trasportati su mezzi diversi da quelli destinati al trasporto di valori, di proprietà dello stesso istituto di vigilanza o di terzi;

trasporto valori

servizio di trasporto e contestuale tutela di denaro o altri beni e titoli di valore, effettuato con l'utilizzo di veicoli dell'Istituto di vigilanza idoneamente attrezzati, condotti e scortati da guardie giurate, secondo quanto previsto dall'allegato D al presente Regolamento;

deposito e custodia valori

servizio di deposito e custodia di beni, connessa o meno alla lavorazione degli stessi, affidati da terzi all'Istituto di vigilanza, in locali e mezzi forti idoneamente attrezzati con sistemi ed impianti realizzati in conformità alle norme UNI/CEI, CEN/CENELEC applicabili;

Per concludere, un cenno al servizio di vigilanza personale (le c.d. guardie del corpo), un’anomalia tutta italiana, in quanto in Italia la figura della guardia del corpo non è prevista a livello normativo ed è in pratica illegale poiché la sua funzione ed i suoi compiti sono - secondo la legge italiana - di esclusiva competenza delle forze di polizia.

Pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio?

Figure ormai consuete in diversi contesti, ad esempio negli aeroporti, dove svolgono le procedure di controllo sui passeggeri nel sistema di sicurezza integrato pubblico/privato, le guardie giurate hanno la qualifica di incaricato di pubblico servizio (art. 138 TULPS). La qualifica è così definita dall’art. 358 c.p. (codice penale) “Agli effetti della legge penale, sono incaricati di un

pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. Per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica

funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di questa ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale”. La qualifica rimarca la diversità dei ruoli, nell’ambito del modello della sicurezza complementare, attribuiti alla vigilanza privata da un lato ed alla forza pubblica dall’altro. L’incaricato

Prerogative e limiti delle guardie particolari giurate

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di pubblico servizio, infatti, non può compiere atti coercitivi sulla libertà altrui, né ha potere certificativo equivalente a quello del pubblico ufficiale. Perciò la guardia giurata può procedere ad un arresto solo in caso di flagranza di reato, al pari di qualsiasi cittadino. Inoltre, nel caso di un procedimento penale la sua deposizione (o i verbali redatti in occasione del presunto reato) hanno valore fino a prova contraria, a differenza di quanto avviene con la dichiarazione di un pubblico ufficiale, che fa fede fino a querela di falso. Se agli occhi del comune cittadino le guardie giurate possono apparire assimilabili agli operatori della forza pubblica poiché è previsto che indossino divisa o distintivo, bisogna ricordare che le uniformi devono essere approvate dal Prefetto. Quanto alle armi, l’autorizzazione prefettizia a svolgere l’attività di guardia giurata non implica alcun automatismo in merito: le guardie giurate devono presentare specifica richiesta al Prefetto per ottenere un regolare porto d’armi, concesso solo ai fini della difesa personale, se sussistono i requisiti necessari. In effetti, nell’ampia varietà di attività cui le guardie giurate possono essere destinate sono incluse situazioni per le quali è previsto il servizio disarmato, ad esempio le funzioni anti-taccheggio nei supermercati o nelle aree “sterili” degli aeroporti, dove possono essere collocati gli addetti alla vigilanza che non vogliano o non possano (ad es. quanti non abbiano prestato il servizio militare per obiezione di coscienza) fare richiesta di porto d’armi. La guardia giurata, in quanto incaricato di pubblico servizio, è però equiparata al pubblico ufficiale quando nello svolgimento delle sue mansioni sia oggetto di violenza o minacce o, ancora, di resistenza, come prevedono gli artt. 336 e 337 del codice penale. Vige la medesima equiparazione anche rispetto al dovere di denuncia per i reati perseguibili d’ufficio, di cui la guardia giurata abbia avuto notizia nell'esercizio o a causa delle sue funzioni o del suo servizio (art. 331 c.p.p.).

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Nel modello di sicurezza integrata… chi fa cosa: compiti e attribuzioni

Chi Cosa Polizia giudiziaria (art. 57 c.p.p.). Status: pubblici ufficiali.

Alla dipendenza e sotto la direzione dell’Autorità giudiziaria, interviene dopo la violazione della legge penale. Può procedere ad indagini, perquisizioni e arresti (art. 109 Cost.; artt. 55 e 56 c.p.p.).

Polizia di pubblica sicurezza (Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia di Stato, Polizia Municipale e Provinciale, Guardie Forestali). Status: pubblici ufficiali.

Assicura l’ordine pubblico e la pubblica sicurezza. Previene i reati.

Guardie Particolari Giurate. Status: incaricati di pubblico servizio.

Svolgono attività di vigilanza sui beni, materiali o immateriali. Possono, nei casi previsti, svolgere servizi armati.

Steward. Status: incaricati di pubblico servizio.

Svolgono attività di vigilanza negli stadi. Non possono essere armati.

Guardie (Private Giurate) volontarie delle associazioni agricole, venatorie e ambientaliste. Status: incaricati di pubblico servizio (possono assumere la qualifica di pubblico ufficiale, durante il servizio, nei casi previsti).

Svolgono attività di vigilanza sulla fauna e sull’ambiente. Possono svolgere attività di Polizia Giudiziaria, nei limiti previsti, a tutela degli animali d’affezione. Non sono armate (i membri delle associazioni venatorie non svolgono il servizio durante le battute di caccia).

Addetti ai controlli delle attività di intrattenimento e di spettacolo. Status: nessuna pubblica qualifica.

Svolgono attività di vigilanza nei locali pubblici. Non possono essere armati.

Verso una privatizzazione? A guardare l’evoluzione normativa, potrebbe sorgere il dubbio che in Italia si prospetti una tendenza verso la privatizzazione della sicurezza. Dubbio infondato, poiché l’ordine pubblico in quanto bene primario non può che rimanere saldamente nelle mani di organismi pubblici operanti secondo il criterio dell’imparzialità, così come indicato dall’art. 3 della Costituzione italiana. Se si dà poi uno sguardo alla consistenza del comparto vigilanza privata in Italia, si coglie quanto si sia piuttosto lontani da una prospettiva di questo genere. Anche dopo l’effettiva applicazione del modello di sicurezza

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sussidiaria e complementare, che pure consente di “esternalizzare” la vigilanza in ambiti delicati (si pensi al settore aeroportuale), il settore non ha una presenza equiparabile a quella registrata in altri Paesi europei. Stando ai dati riportati da una delle associazioni di settore8, in diversi Stati dell’Unione Europea il numero degli addetti di sicurezza privata rispetto alla popolazione è elevato, prossimo a quello delle forze pubbliche (media europea: 1/296). Dando però uno sguardo ai dati forniti dalla stessa associazione, tra le nazioni comparabili all’Italia per popolazione e PIL - Germania, Francia, Spagna e Gran Bretagna - solo in quest’ultima gli addetti privati alla sicurezza sono particolarmente numerosi (vedi tabella seguente). Va però tenuto presente che questi dati sono difficilmente raffrontabili poiché a livello nazionale la normativa è piuttosto diversificata: ad esempio in Gran Bretagna le guardie private non possono in alcun caso essere armate. Va inoltre considerato il fatto che si tratta di dati aggregati: è dunque possibile che in alcuni casi siano computati anche gli incaricati ai servizi di portierato, non univocamente considerati parte del personale addetto alla sicurezza. Infine, non va dimenticato che nell’essere aggregati, questi dati non esplicitano quanta parte degli addetti sia impiegata in compiti di sicurezza complementare e sussidiaria e quanta, invece, in compiti per così dire “classici”, di tutela dei beni. Pur con le dovute cautele, dai dati emerge la significativa differenza della realtà italiana rispetto alle altre nazioni per numero di addetti in rapporto alla popolazione. Se si considera il totale degli addetti della forza pubblica e quelli della forza privata presenti in Italia, il rapporto si bilancia, diventando 1/120 abitanti circa, essendo come noto il comparto della forza pubblica in Italia uno dei più consistenti in termini di unità.

Rapporto agenti privati e popolazione in alcuni Stati Europei

Italia 1/1260 Francia 1/437

Germania 1/484

Gran Bretagna 1/170

Spagna 1/513

Si é lontani da un rischio di privatizzazione

della sicurezza

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Per cogliere quanto, effettivamente, abbiano già inciso sul settore le innovazioni normative è interessante soffermarsi su alcuni altri dati. Il superamento del limite provinciale induceva ad immaginare un processo di trasformazione, con il formarsi di imprese di grandi dimensioni in grado di operare su tutto il territorio nazionale. Questa trasformazione avrebbe consentito di realizzare economie di scala per gli aspetti organizzativi e gestionali. Invece, il numero di imprese con più di 1000 addetti non si è sostanzialmente modificato, passando da 6 a 8 dal 2007 al 20109. L’avvento delle grandi imprese della vigilanza pare dunque ancora lontano dal concretizzarsi in Italia, a favore, invece, di scelte orientate alla costruzione di partnership tra piccole imprese locali e quelle operanti sul territorio nazionale10. Per quanto riguarda, invece, l’innovazione relativa alle tariffe che non sono più regolamentate dalle Prefetture, i dati suscitano qualche allarme. Una ricerca promossa dagli stessi operatori del settore e riferita al periodo 2008-2010, infatti, rileva: “Su un campione statistico di 22 committenti, il valore di rinnovo della tariffa oraria per l’erogazione del servizio di vigilanza, è inferiore al costo medio orario derivante dall’applicazione del CCNL di categoria”11. La concorrenza ha abbassato i prezzi, ma il calo pare più legato a strategie di sopravvivenza. Quanto anche questo settore sia afflitto dalla recessione è testimoniato dall’incremento significativo delle ore di cassa integrazione tra il 2011 ed il 2012, con un aumento del 48% della CIG straordinaria (pari a 1.123.083 ore) e del 91% di quella in deroga (1.076.728 ore)12. Un ulteriore aspetto è l’ampio ricorso da parte degli istituti di vigilanza alla mobilità, allo scopo di usufruire delle agevolazioni contributive previste. È pratica diffusa l’assunzione per un periodo limitato di lavoratori a rischio di emarginazione dal mercato del lavoro a causa dell’età avanzata, dell’obsolescenza delle competenze professionali e con desuetudine alla formazione ricorrente, con il risultato di un generale abbassamento della qualità del servizio reso. Questi elementi se da una parte manifestano l’importante funzione integrativa svolta dagli Istituti di vigilanza, dall’altra tuttavia rendono indispensabile effettuare un controllo costante ed attento sul rispetto delle condizioni necessarie a garantire gli standard di qualità attesi in materia di sicurezza.

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Vigilanza privata, sicurezza pubblica e sicurezza urbana

Il contributo della vigilanza privata alla sicurezza urbana

La presenza di servizi di vigilanza può contribuire a contrastare l’insicurezza percepita, soprattutto nei contesti degradati o nelle situazioni in cui la popolazione può essere più esposta al rischio. In questo senso, il ricorso agli Istituti di vigilanza privata da parte degli Enti locali e delle società da loro partecipate per il presidio di luoghi quali stazioni metropolitane o parcheggi sotterranei rappresenta una forma di prevenzione situazionale volta a ridurre le ansie dei cittadini e il manifestarsi di atti di criminalità o vandalismo. Queste forme di presidio non si concretizzano necessariamente con la presenza costante di guardie giurate in loco, ma, anzi, spesso avvengono attraverso forme di televigilanza, la cui visibilità (segnalata dagli appositi cartelli a tutela della privacy) può costituire uno strumento di rassicurazione e deterrenza (si veda sul tema il capitolo 6). Nello svolgere i servizi in siti di interesse pubblico gli Istituti di vigilanza contribuiscono anche in via indiretta alla sicurezza urbana. Come evidenziato in precedenza, molte sono le situazioni in cui le attività di vigilanza possono essere affidate alle guardie giurate anziché alla forza pubblica, permettendo a quest’ultima di impegnarsi nella tutela della sicurezza del territorio, un compito sicuramente più complesso. In questa ottica, l’avvio del modello di sicurezza integrata con l’apporto del settore privato costituisce un elemento di razionalizzazione degli interventi e delle risorse finanziarie pubbliche (non è da dimenticare il risparmio diretto derivante dall’impiego di guardie giurate il cui costo orario è inferiore a quello di un agente di polizia). Quest’ultimo aspetto potrebbe portare qualcuno a ritenere il ricorso alla vigilanza privata una opzione praticabile, ma non bisogna dimenticarsi che si tratta di figure assolutamente non paragonabili alle forze di polizia per competenze, qualifiche giuridiche e livello di qualità del servizio. Al razionale impiego delle forze pubbliche13 contribuiscono anche le altre figure private impegnate in attività complementari, come evidenziato nel caso degli steward impiegati negli stadi. In effetti, la presenza degli steward o degli addetti ai controlli delle attività di intrattenimento e di spettacolo (impropriamente anche chiamati buttafuori, vedi il box nelle pagine seguenti) in situazioni di forte assembramento e dove è più probabile si scatenino tensioni, costituisce un’altra forma di prevenzione situazionale. E poiché l’attività di presidio è svolta anche da queste figure e non solo dalle

3

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forze di polizia, si giunge ad attivare un circolo virtuoso: non va, infatti, dimenticato che la percezione soggettiva della sicurezza o - viceversa della pericolosità - di una situazione è in gran parte condizionata da meccanismi psicologici non razionali (Schneier, 2008). Così, se una massiccia presenza di forze dell’ordine evoca anche la percezione di un rischio potenziale e contribuisce ad allontanare quanti desiderano fruire serenamente dei momenti di svago offerti in quei contesti, queste forme di controllo più leggero, meno palpabili, possono favorire un ribaltamento della situazione. Come già accennato, la presenza degli steward negli stadi è stato uno degli elementi chiave di riduzione della violenza che permette alle forze di polizia di concentrarsi sulla minoranza dai comportamenti inadeguati. Merita infine attenzione il potenziale contributo alla sicurezza che può giungere dalle guardie giurate che si dedicano alla tutela dell’ambiente. Si tratta di una speciale categoria di guardie particolari giurate, che svolgono il proprio compito a titolo gratuito. In genere appartenenti ad associazioni ambientaliste, sono motivate ed adeguatamente formate. Il loro raggio di intervento è ben più ampio di quanto si possa immaginare in prima battuta, poiché spazia dalla tutela di fauna e flora nelle riserve naturali alla prevenzione del degrado dei parchi gioco cittadini fino al contrasto di situazioni di pericolo quali ad esempio le discariche abusive prossime ai centri abitati. Nell’ambito della Regione Piemonte sono presenti diverse esperienze di questo genere con guardie giurate espressione di una pluralità di associazioni, quali ad esempio il WWF14. Non solo le associazioni però possono promuovere questo tipo di attività, ma anche gli stessi Enti locali. Ad oggi, l’esperienza più significativa - quanto a consistenza del gruppo - è quella condotta dalla Provincia di Torino (Andreoli, 2008) con le Guardie Ecologiche Volontarie (GEV). L’alto numero di persone coinvolte, più di 300, ha consentito di sviluppare attività articolate, spesso dirette anche all’educazione nelle scuole su tutto il territorio della Provincia di Torino15. Si tratta di uno strumento utile, seppure in forma indiretta, ad incrementare la sicurezza. Questo genere di interventi comporta evidentemente l’investimento di risorse, ma il bilancio dell’attività relativo ai primi 10 mesi del 2012 evidenzia come, dalla sola attività di sanzioni pecuniarie, le GEV con oltre 36.000 ore prestate a titolo gratuito abbiano portato alle casse della Provincia € 270.00016. Diversi fattori rischiano purtroppo di incidere negativamente sul futuro di questa esperienza, tra i quali il mancato avvio di nuovi corsi di formazione dopo il 2009, che incide sulla possibilità di sostituire il fisiologico turnover, oltre ad impedire l’ampliamento dell’esperienza. In questo momento inoltre, non è chiaro cosa accadrà a queste attività qualora le province vengano abolite e

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quindi le competenze riorganizzate. Sono da ricordare parimenti le guardie venatorie o ittiche volontarie che operano per conto delle rispettive associazioni agricole, venatorie e ambientali allo scopo di concorrere alla protezione delle risorse ambientali e faunistiche presenti nel territorio della provincia, attraverso attività di vigilanza venatoria e ambientale, di salvaguardia e conservazione dell’ambiente naturale e faunistico, e di informazione alla comunità sulla legislazione vigente nelle materie di competenza.

Gli addetti ai controlli delle attività di intrattenimento e spettacolo Con la l. 94/2009 (art. 3, commi 7-13) si definiscono i contorni di questa figura, cui viene riconosciuto il contributo all’incolumità di quanti frequentano luoghi di intrattenimento o assistono a spettacoli. In base alla norma, chi svolge questo ruolo non ha pubbliche qualifiche, ha l’esplicito divieto di fare uso di armi o di qualsiasi strumento atto alla coazione fisica, deve essere iscritto ad un apposito registro della Prefettura territorialmente competente. La stessa norma rimanda al decreto attuativo per quanto riguarda gli ambiti di applicazione ed i requisiti necessari a svolgere la funzione. Per quanto la materia sia forse ancora passibile di modifiche - come si può evincere dal raffronto tra il DM Ministero dell’Interno 6/10/2009 e quello del 15/6/2012 - sono ormai definiti alcuni elementi. In particolare, oltre ai requisiti psicofisici, questa figura deve possedere una formazione specifica ed essere facilmente individuabile dagli avventori, grazie ad un tesserino di riconoscimento con la parola “assistenza” scritta a caratteri leggibili e fluorescenti. Concretamente, questa figura deve presidiare gli ingressi, rimuovere ostacoli agli accessi, verificare la sicurezza dei luoghi, prevenire l’introduzione di sostanze illecite, prevenire o interrompere condotte potenzialmente pericolose e, quando lo reputi necessario, sollecitare l’intervento della forza pubblica. Quanto questa figura possa contribuire alla sicurezza è evidenziato dalla recente estensione dell’ambito di applicazione anche agli spettacoli di musica popolare contemporanea per i quali si specifica che gli organizzatori - tanto pubblici quanto privati - di questo genere di eventi “determinano, assumendone la relativa responsabilità penale, civile e amministrativa, il numero degli addetti da impiegare (…) In ogni caso, dovrà essere previsto almeno un addetto, anche con funzioni di coordinamento del personale di supporto, in corrispondenza di varchi, ingressi, vie di esodo, aree inibite al pubblico per ragioni di sicurezza, come palco e retro palco, perimetro dell’area dove si svolge lo spettacolo ed ogni altro luogo in cui sono possibili situazioni di pericolo per la sicurezza delle persone” (DM 15/6/2012, art. 1, comma b). Ciò non esclude l’impiego di personale non iscritto all’elenco prefettizio, ma questo deve svolgere mere mansioni di supporto al personale iscritto. Nell’insieme risulta cruciale la formazione, poiché

*

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per fare domanda di iscrizione all’elenco prefettizio è indispensabile dimostrare di aver frequentato con profitto un corso a pagamento presso un centro accreditato. La durata complessiva del corso è stata fissata dalla Conferenza dei Presidenti di Regione, con successiva ratifica nell’Accordo Stato – Regioni. Le materie e la relativa distribuzione oraria sono invece state stabilite da ogni regione. Per quanto riguarda il Piemonte, sono 1165 le persone che hanno superato l’esame finale dei 69 corsi sovrintesi dalla Regione tra fine 2010 e fine 2012. Le materie spaziano dall’area giuridica (30 ore, in particolare sulle norme relative al tema della sicurezza), a quella tecnica (21 ore, sugli aspetti di maggiore criticità in contesti di intrattenimento, dalle norme sull’incendio all’uso di sostanze psicotrope), a quella psicologico-sociale (39 ore focalizzate sulla comunicazione, sulla prevenzione dei conflitti e sulla difesa personale). Alla Prefettura competente per territorio spetta il vaglio finale sull’effettiva rispondenza dei requisiti.

Il coinvolgimento della vigilanza privata nella sicurezza urbana Come si è evidenziato in precedenza (capitolo 3), sono diversi gli elementi che influenzano la sicurezza percepita dei cittadini. Nell’approntare misure volte ad incrementarla si è dunque fatta strada l’idea di coinvolgere nel monitoraggio del territorio anche gli Istituti di vigilanza privata. L’idea si affaccia già agli inizi degli anni 200017 quando si sono avviate le prime sperimentazioni del modello di sicurezza destinato a prendere corpo con i protocolli “Mille occhi sulla città”. In effetti, da diversi studi, incluse le rilevazioni condotte per conto dell’ANCI (Risso, 2008), emerge che uno dei punti sui quali concentrare gli sforzi per incrementare la sicurezza percepita è quello dell’efficienza del controllo del territorio ad opera delle Forze dell’Ordine. Il coordinamento con gli operatori delle agenzie di vigilanza, potrebbe, dunque, consentire un’ottimizzazione delle risorse e, soprattutto, interventi tempestivi degli agenti di pubblica sicurezza in caso di necessità. Con il Protocollo “Mille Occhi sulle Città”, che è stato siglato l’11 febbraio 2010 tra Ministero dell’Interno, ANCI e le organizzazioni rappresentative degli istituti di vigilanza, si apre quindi formalmente la collaborazione tra le forze di polizia, anche locali, e gli operatori privati addetti alla sicurezza. Il Protocollo indica, insieme alle procedure da seguire per l’effettiva applicazione sul territorio, le forme che questa collaborazione può assumere. La denominazione del Protocollo ben riassume la sua specificità, poiché è imperniato sull’osservazione: le guardie particolari giurate già presenti sul territorio perché impegnate a svolgere le proprie mansioni possono ulteriormente contribuire alla sicurezza, segnalando in tempo reale alle

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centrali operative delle Forze dell’Ordine situazioni anomale che capiti loro di riscontrare. In concreto, al verificarsi di una delle situazioni contemplate, la guardia giurata deve tempestivamente allertare, secondo le modalità apprese durante la formazione, la centrale operativa dell’istituto di vigilanza individuato come punto di raccolta di queste comunicazioni, che a sua volta è connessa alle sale operative delle forze di polizia di Stato e locali. Il Protocollo elenca in dettaglio, al punto 3 dell’allegato tecnico, quali casi debbano sollecitare l’attenzione delle guardie giurate e diventare oggetto di allerta:

a. la presenza di mezzi di trasporto o di persone sospette; b. l’eventuale fuga di mezzi o persone dal luogo del delitto; c. la segnalazione di auto o moto rubate; d. la segnalazione di bambini, persone anziane, persone in stato

confusionale o in evidente difficoltà; e. la segnalazione della presenza di ostacoli sulle vie di comunicazione; f. l’interruzione dei servizi di fornitura di fonti energetiche; g. la segnalazione di allontanamento da presidi ospedalieri di persone

anziane o in trattamento sanitario obbligatorio; h. la segnalazione di ogni altra situazione che faccia ritenere imminente la

commissione di reati; i. le situazioni particolarmente significative di degrado urbano e disagio

sociale.

I casi, come si nota, sono tra loro piuttosto eterogenei e non si riferiscono solo alla prevenzione o alla repressione di reati, quasi a sottolineare che il fabbisogno di sicurezza si esplica anche in altri frangenti della vita come, ad esempio, quando una persona si dimostra in evidente difficoltà. I firmatari del protocollo concordano che il contributo delle guardie giurate alla vigilanza sul territorio è corollario della più generale attività di vigilanza e per questo motivo da un lato non comporta l’esercizio di pubbliche funzioni e dall’altro non può comportare costi od oneri ulteriori rispetto a quelli corrisposti dalla committenza all’Istituto di vigilanza privata per i servizi espletati. È, inoltre, perentoriamente escluso qualsiasi onere aggiuntivo per il bilancio dello Stato (art. 4) per strutture, strumenti tecnologici e formazione, totalmente a carico degli Istituti da cui le guardie dipendono. La delicatezza dell’attività - per quanto svolta a titolo gratuito e nell’adempimento delle altre, consuete, mansioni - richiede però una specifica formazione. È dunque previsto l’impegno del Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno a favorire lo svolgimento di corsi di aggiornamento per le guardie giurate coinvolte nel progetto, con

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personale della Polizia di Stato e/o dell’Arma dei Carabinieri ovvero personale della Polizia locale per gli aspetti attinenti alla sicurezza urbana. Anche in questo caso sono esclusi oneri per il bilancio dello Stato. È inoltre previsto che le guardie giurate possano essere coinvolte, se Sindaci o Prefetti lo reputino utile, nei corsi di aggiornamento professionale delle Forze di polizia impiegate sul territorio. L’attuazione del Protocollo non è automatica ma richiede alcuni passaggi a livello locale da parte della Prefettura, snodo nevralgico del Ministero dell’Interno a livello locale. Ai Prefetti è attribuito l’incarico di individuare gli Istituti di vigilanza privata da coinvolgere nel progetto, utilizzando come criteri di selezione le dotazioni tecnologiche, il numero di guardie giurate impiegate ed i servizi svolti. Una volta sentito il parere del Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica - e d’intesa con i Comuni per gli aspetti relativi alla sicurezza urbana - i Prefetti procedono alla stipula delle convenzioni. È invece compito dei Questori, di nuovo in perfetta sintonia con quanto previsto dal TULPS, predisporre le modalità operative, tenendo anche in conto le specificità locali. Infine, precisa il Protocollo, l’attività di monitoraggio sullo svolgimento delle attività è a carico dei Prefetti, cui spetta fornire al Dipartimento della Pubblica Sicurezza, ANCI ed associazioni firmatarie elementi di informazione sull’efficacia ed efficienza del Protocollo. La collaborazione organica delle guardie giurate con le forze di polizia sul territorio è dunque subordinata alla formalizzazione di un Protocollo su base provinciale. In base alle ricerche effettuate (non esiste infatti una sezione del sito del Ministero dell’Interno dedicata al Protocollo Mille Occhi sulla Città) a oggi risultano 51 i territori provinciali che hanno firmato il Protocollo a livello locale.

Province in cui è stato avviato il Protocollo Mille Occhi sulla Città

Provincia Data di stipulazione (e di rinnovo) Ancona 23/07/2010

Ascoli 13/10/2010

Bari 22/02/2012

Bolzano 21/10/2011

Brescia 10/02/2012

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Brindisi 02/04/2012

Cagliari 15/02/2012

Campobasso 22/07/2011

Caltanissetta 02/03/2012

Catanzaro 20/10/2011

Ancona 23/07/2010

Chieti 11/10/2012

Cremona 22/12/2011

Cosenza 02/12/2010

Fermo 22/02/2012

Ferrara 31/01/2011

Forlì 13/01/2012

Frosinone 18/11/2011

Grosseto 03/12/2010

Imperia 19/05/2011

Lecce 05/03/2011

Lucca 22/09/2011

Mantova 12/07/2011

Massa Carrara 05/10/2011

Matera 15/06/2011

Modena 06/02/2012

Napoli 07/04/2011

Novara 23/04/2012

Oristano 31/03/2012

Padova 26/06/2012

Palermo 24/12/2011 rinnovato il 25/10/2012

Pavia 19/07/2012

Perugia 12/12/2012 esteso ad altri 4 comuni il 19/03/2013

Pesaro/Urbino 12/10/2010

Pescara 25/05/2010 rinnovato il 29/10/2011 ed esteso alle problematiche di protezione civile

Pisa 07/12/2011

Pordenone 18/10/2011

Potenza 11/12/2012

Ragusa 25/10/2012

Ravenna 15/06/2011

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Regione Piemonte / Manuale per la progettazione di politiche e interventi sulla sicurezza integrata 234

Provincia Data di stipulazione (e di rinnovo) Reggio Emilia 21/02/2012

Roma 15/09/2011

Savona 19/07/2012

Taranto 11/02/2011

Teramo 12/04/2011

Terni 08/11/2011

Trento 17/01/2011

Trieste 22/02/2012

Venezia 21/04/2010

Verbano-Cusio-Ossola 27/12/2010

Vicenza 11/02/2012

Prime osservazioni sull’attuazione del Protocollo Mille Occhi sulla città. A distanza di oltre due anni dal varo del Protocollo nazionale, non è semplice stilare un bilancio. Come si è visto, l’avvio della procedura di

implementazione a livello locale è stata infatti completata solo in metà delle Province. In alcune, peraltro, la firma del Protocollo locale

risale all’ultimo quadrimestre del 2012. L’Abruzzo, il Trentino e la Puglia e le Marche sono le regioni con il maggior numero di province dove il protocollo ha ricevuto attuazione. Come si evince dall’elenco che segue, non esiste alcuna distribuzione omogenea tra i territori regionali. In Piemonte sono due i territori che hanno implementato il Protocollo: il Verbano Cusio Ossola la cui Prefettura ha siglato il Protocollo di durata annuale nel dicembre 2010 e attende al momento una decisione rispetto al suo rinnovo o meno; Novara che, invece, ha provveduto a implementare il Protocollo a livello locale nell’aprile 2012. Entrambi i territori non si caratterizzano per particolari condizioni che spieghino perché l’implementazione sia avvenuta in queste due province e non nel restante territorio piemontese.

Regione Protocolli sottoscritti sul totale delle provincie

Abruzzo 3 su 4 (Chieti, Pescara, Teramo)

Basilicata 2 su 2 (Matera, Potenza)

Calabria 2 su 5 (Catanzaro, Cosenza)

Un’attuazione a macchia di leopardo

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Regione Piemonte / Manuale per la progettazione di politiche e interventi sulla sicurezza integrata 235

Regione Protocolli sottoscritti sul totale delle provincie

Campania 1 su 5 (Napoli)

Emilia Romagna 5 su 9 (Ferrara, Forlì, Modena, Ravenna, Reggio Emilia)

Friuli 2 su 4 (Pordenone, Trieste)

Lazio 2 su 5 (Frosinone, Roma)

Liguria 2 su 4 (Imperia, Savona)

Lombardia 4 su 12 (Brescia, Cremona, Mantova, Pavia)

Marche 4 su 5 (Ancona, Ascoli, Fermo, Pesaro Urbino)

Molise 1 su 2 (Campobasso)

Piemonte 2 su 8 (Novara, Verbano Cusio Ossola)

Puglia 4 su 6 (Bari, Brindisi, Lecce, Taranto)

Sardegna 2 su 4 (Cagliari, Oristano)

Sicilia 3 su 9 (Caltanissetta, Palermo, Ragusa)

Toscana 4 su 10 (Grosseto, Lucca,Massa Carrara, Pisa)

Trentino Alto Adige 2 su 2 (Bolzano, Trento)

Umbria 2 su 2 (Perugia, Terni)

Valle d’Aosta 0 su 1

Veneto 3 su 7 (Padova, Venezia, Vicenza) Non è semplice ipotizzare le ragioni che hanno concorso a questo piuttosto irregolare “schiudersi” dei mille occhi sul territorio italiano. Sembra possibile escludere una correlazione diretta con la distribuzione del numero di guardie giurate attive, poiché la corrispondenza non si riscontra in tutte le Regioni (Lombardia, Lazio, Piemonte e Puglia) in cui queste sono presenti in particolare intorno ai capoluoghi ed ai distretti economici di rilievo. Parimenti, non pare emergere alcun un nesso diretto con l’orientamento degli esponenti politici firmatari del Protocollo nazionale e le attuazioni a livello locale. Accantonate quelle correlazioni, per certi versi ovvie e prevedibili, che probabilmente in alcune aree si sono manifestate ma che da sole non spiegano il fenomeno a “macchia di leopardo”, si fanno strada altre ipotesi. È possibile che talune Prefetture non abbiano avuto le risorse necessarie ad affrontare anche l’impegno a selezionare gli Istituti di vigilanza. Va infatti ricordato che nel corso degli anni intercorsi dalla firma del Protocollo nazionale si sono succedute diverse

Quali le ragioni dell’attuazione a

macchia di leopardo?

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Regione Piemonte / Manuale per la progettazione di politiche e interventi sulla sicurezza integrata 236

tornate elettorali e si sono verificate situazioni straordinarie che a vario titolo richiedono il coordinamento delle Prefetture. Non ovunque, inoltre, le Prefetture dispongono di una pianta organica consistente. Anche il rinnovo delle cariche negli Enti locali può aver inciso, oltre al presentarsi in agenda di altre questioni capaci di assorbire l’attenzione degli Amministratori locali e della stessa cittadinanza. Infine, è possibile che un certo peso lo abbiano avuto le strategie aziendali degli Istituti di vigilanza, chiamati ad aderire al Protocollo su base volontaria. Come già evidenziato, gli eventuali oneri relativi all’implementazione del progetto sono a carico degli istituti (dotazioni tecnologiche, tempo lavoro da investire nella formazione specifica) e può quindi anche essersi dato il caso, in una fase di recessione che interessa in modo importante anche questo settore, che a livello locale sia mancata la spinta propulsiva da parte di questi soggetti. Inoltre, non va dimenticato che già il DM 269/2010 prevedeva - come obbligo degli Istituti di vigilanza - la comunicazione al Questore della Provincia di “notizie sui fatti costituenti reato, di cui le guardie hanno avuto cognizione nel corso dell’espletamento del servizio, nonché ogni altra informazione degna di particolare attenzione per l'ordine e la sicurezza pubblica”. L’indicazione su quanto debba attirare l’attenzione delle guardie giurate non è dettagliata quanto nel Protocollo, ma è presente. Senza ombra di dubbio, il Protocollo ha innovato in modo significativo in merito alla tempestività della segnalazione e al coinvolgimento degli Enti locali e della Polizia Municipale. Ma è possibile che essendo un obbligo di segnalazione già previsto, alcune Prefetture e Enti locali abbiano ritenuto di non dare priorità all’attuazione di questa esperienza.

Il protocollo Mille Occhi a Palermo: il racconto di un’esperienza

Il Protocollo Mille Occhi siglato tra Prefettura, Questura, Comune di Palermo ed Istituti di Vigilanza privata prevede la cooperazione tra le forze dell’ordine e gli enti privati su un tema particolare che merita certamente attenzione: il vandalismo a danno degli istituti scolastici. Il protocollo è stato firmato a dicembre 2011 e successivamente a una nuova tornata elettorale, confermato a ottobre 2012 dal nuovo sindaco. Il Protocollo ha una durata triennale. Gli istituti di vigilanza, nello svolgimento di altre attività sul territorio, si preoccupano di effettuare dei passaggi anche presso le sedi degli istituti scolastici presenti sul territorio di loro competenza. Non effettuano dunque un controllo all’interno degli istituti ma una attività di vigilanza mobile in orario serale e notturno. Qualora ravvisino situazioni anomale gli addetti allertano immediatamente le forze dell’ordine. L’attività interessa circa 40 istituti nel

*

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Regione Piemonte / Manuale per la progettazione di politiche e interventi sulla sicurezza integrata 237

comune di Palermo e in altri comuni limitrofi. L’aspetto interessante di questo intervento sta nell’avere scelto di focalizzare l’impegno degli Istituti di vigilanza su un tema specifico, centrale in questo territorio piuttosto che di un generico impegno di controllo del territorio. Inoltre la riconferma del Protocollo dopo la tornata elettorale ha permesso di dare maggiore diffusione alle scuole dell’iniziativa e di procedere con maggiore cura nell’individuazione delle scuole da inserire nel progetto. Sono stati così inclusi alcuni istituti situati in territori problematici e esclusi da questa attività di vigilanza quelli che nel passato non hanno registrato episodi di vandalismo o reati predatori a danno di proprietà della scuola. Questa razionalizzazione ha permesso inoltre di fare alcune prime riflessioni valutative sullo strumento. Si registra la diminuzione degli episodi di vandalismo in alcuni istituti. Dato però che non si riscontra in tutte le scuole interessate dal progetto, alcune delle quali presentano problematiche di rilievo. Difficile è dire se tale diminuzione derivi da questa attività o da un insieme di fattori anche diversi. Certamente l’attività di vigilanza mobile ha offerto un presidio in più per gli istituti scolastici, seppur con i limiti che sono insiti nell’attività di vigilanza mobile. In considerazione dell’assenza di oneri per lo Stato e quindi della necessità di inserire questa attività all’interno di azioni già svolte sui medesimi territori dagli istituti di vigilanza la scelta di concentrarsi su un tema importante e sentito rappresenta un esperimento di interesse.

Note

1 “Particolari” è un termine arcaico che significa “private”. 2 Corte costituzionale, sent. 25 luglio 2001, n. 290. 3 Il Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive, D.A.SPO., è un provvedimento di “repressione preventiva”. Può essere emesso dal Questore nei confronti “di chi, sulla base di elementi oggettivi, risulta avere tenuto una condotta finalizzata alla partecipazione attiva ed episodi di violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive o tale da porre in pericolo la sicurezza pubblica in occasione o a causa delle manifestazioni stesse” (art. 2 D.L.). Il provvedimento può essere accompagnato dall’obbligo di firma presso un ufficio di Polizia in concomitanza con l’evento sportivo. 4 Sentenza 1247/2008, Consiglio di Stato, Sezione Consultiva per gli Atti Normativi. 5 Ibidem. 6 Ibidem. 7 Audizione informale dinanzi alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica del Prefetto Francesco Cirillo, Vice Direttore Generale della P.S., sul Decreto Legge 22 dicembre 2011, n. 211, allegati 1, 2, 3. http://www.senato.it/documenti/repository/commissioni/comm02/documenti_acquisiti/Cirillo.pdf 8 Confederation of European Security Services, CoESS. Il quadro statistico e normativo sulla situazione del settore in tutti in tutti i Paesi europei - aggiornato al 2011 - è reperibile http://www.coess.org/_Uploads/dbsAttachedFiles/Private_Security_Services_in_Europe-CoESS_Facts_and_Figures_2011(1).pdf 9 Dati del Rapporto FederSicurezza 2012. www.federsicurezza.it/public/documenti/2152012142710.pdf 10 Si vedano i dati dichiarati da Sicuritalia ed Axitea, aziende di grandi dimensioni: tramite partner locali assicurano la capillarità del servizio sul territorio nazionale, assumendo il

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Regione Piemonte / Manuale per la progettazione di politiche e interventi sulla sicurezza integrata 238

ruolo di general contractor. http://www.sicuritalia.it/chisiamo_global-security.php; http://www.axitea.it/axitea-soluzioni-per-la-sicurezza/axitea-net 11 http://www.assiv.it/wp-content/uploads/2011/06/RICERCA_COMPARTO_2008_2011.pdf 12Dati INPS rielaborati da Assiv. http://www.assiv.it/wp-content/uploads/2013/03/AMMORTIZZATORI_SOCIALI_2012.pdf 13 Si ricorda peraltro che in Italia le Forze pubbliche sono presenti con un rapporto di un agente ogni 243 abitanti, contro una media europea (comprendente i 27 Paesi dell’Unione) di uno ogni 296 (dati relativi al 2008). Fonte: Eurostat. http://epp.eurostat.ec.europa.eu/statistics_explained/index.php/Crime_statistics/it 14 Si precisa che sul territorio piemontese sono attivi diversi altri gruppi, espressione di numerose altre associazioni e che qui si fa riferimento all’attività di questo gruppo esclusivamente per la rapida accessibilità ai dati. https://www.wwf.it/UserFiles/File/AltriSitiWWF/Piemonte/gpg/rapporti/20121231%20Tabella%20riepilogativa%20attivit%C3%A0.pdf 15 Il giornale delle GEV, n. 3, anno 3, dicembre 2009, illustra in modo ampio e dettagliato le attività svolte anche in ambito urbano. www.provincia.torino.gov.it/natura/file-storage/download/pdf/aree_prot_gev/anno_09_03.pdf 16 Bovo G., Bilancio dell’attività svolta e prospettive per l’anno 2013, presentato all’Assemblea generale delle Guardie Ecologiche Volontarie della Provincia di Torino, 24/11/2012. www.provincia.torino.gov.it/natura/file-storage/download/pdf/aree_prot_gev/assemblea_2013 /2_Bovo_assemblea%20generale%202012.pdf?version_id=2115029 17 http://www.mantovano.org/intervento_30_3__04.htm

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Capitolo 8 Gestire i conflitti prima che sia troppo tardi. Quando si assiste una vittima di reato di Sara Caruso 1. Introduzione …………………………….……………..........................p. 241 2. Del conflitto e del legame …………………..…………….................p. 242 L’esperienza del conflitto Cos’è un conflitto? L’escalation La distanza nel conflitto 3. La gestione del conflitto ……………….…………………….............p. 248 Cos’è la mediazione La mediazione o le mediazioni Insicurezza e mediazione La mediazione per gestire i conflitti nello spazio pubblico La mediazione: un processo e/o un approccio La postura del terzo 4. Assistere una vittima ………………………………….………..........p. 261 La vittima, soggetto collettivo La giustizia riparativa I centri di supporto alle vittime Due esempi di centri di supporto alle vittime in Europa Esperienze italiane Gli interventi della Regione Piemonte a sostegno delle vittime Note …………..…………………………….………..………………….......p. 271

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Introduzione L’ottavo capitolo di questo manuale presenta la mediazione e l’assistenza alle vittime come due diverse modalità del “prendersi cura” dei legami sociali quando questi sono messi in crisi da eventi come il conflitto e il reato. Parlare dunque di conflitto, mediazione, sostegno alle vittime di reato significa avere la consapevolezza che la sicurezza urbana che si vuole promuovere nelle nostre città sia la risultante di un complesso intreccio di fattori non solo legati a veri e propri fenomeni di devianza e illegalità, ma sempre più spesso connessi ai temi della convivenza, del rispetto delle regole, della responsabilità condivisa. La mediazione ha come finalità quella di favorire la partecipazione attiva dei cittadini, supportare la comunicazione, rinsaldare legami sociali, prevenire la violenza attraverso un’azione di gestione della conflittualità che sia concretamente vicina, prossima ai territori e ai cittadini cui si rivolge. Il suo punto di forza sta non nel proporre risposte o strategie precostituite, ma nell’intraprendere un dialogo con i diversi soggetti coinvolti nella storia conflittuale, sia essa privata o riguardante un’intera comunità. Il capitolo illustra in primo luogo la natura del conflitto quale elemento dinamico e ineliminabile della vita di relazione. Si parla del conflitto che coinvolge singoli individui, ma anche gruppi che abitano i territori sui quali sempre più si concretizza l’azione delle amministrazioni pubbliche. La prima parte prova quindi a fornire alcune chiavi di lettura delle vicende conflittuali, per fare in modo che l’unico esito possibile non sia la rottura ma un’evoluzione costruttiva e dialogica della relazione. La seconda parte si concentra sulla gestione del conflitto, ed in particolare sulle pratiche di mediazione che, sorte in primo luogo come alternativa al modello giudiziario, hanno nel tempo sviluppato una propria autonomia nel panorama dell’agire sociale. Le pratiche e gli stili di intervento della mediazione non rappresentano modalità unitarie ma, a seconda del contesto e dell’approccio, si avvicinano al tema del conflitto e dei legami in modo differente e spesso complementare ad altri interventi di natura sociale/educativa. Dopo aver approfondito il nesso che lega il tema della mediazione e del conflitto alla questione della sicurezza urbana, e ad altri macro-temi come la coesione sociale, le trasformazioni sociali e urbane, l’integrazione, il capitolo

Sicurezza vuol dire anche gestire le

conflittualità sociali e territoriali

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Regione Piemonte / Manuale per la progettazione di politiche e interventi sulla sicurezza integrata 242

si concentra sulla mediazione sociale. Vengono proposti alcuni concreti scenari di lavoro della mediazione, in cui si confrontano modelli che la vedono come una tecnica di risoluzione dei conflitti con altri che invece ne sottolineano la valenza in termini di ricostruzione dei legami sociali. Infine vengono proposti alcuni suggerimenti pratici che le tecniche di gestione del conflitto possono fornire a chi si trova a dover gestire un conflitto nel proprio operato professionale. L’ultima parte, infine, è dedicata all’assistenza alle vittime, e quindi a

quell’insieme di pratiche accomunate dall’interesse di tutelare la persona offesa da un reato o da forme di violenza, che vanno dal pronto intervento di natura sanitaria, a servizi di ascolto e orientamento di tipo

psicologico, all’informazione sui diritti, fino a più complessi interventi di natura riparativa. La vittima non è vista più solo come soggetto/oggetto del sistema repressivo e giudiziario, ma anche come attore di un sistema sociale che, a vario titolo, può contribuire a ricostruire l’equilibrio che si è rotto tra il reo e la vittima, tra quest’ultima e la comunità, e all’interno della comunità stessa.

Del conflitto e del legame

L’esperienza del conflitto Il conflitto è un’esperienza della vita degli individui che suscita disorientamento e interesse. Di fronte ad un conflitto, sia esso familiare, tra amici, tra gruppi, in un quartiere, tutti ci sentiamo incuriositi, coinvolti, ma allo stesso tempo sentiamo una sorta di repulsione, di desiderio di fuga. Questo accade perché l’esperienza del conflitto, in fondo, appartiene a tutti, indipendentemente dalla condizione economica, sociale o culturale. Tutti abbiamo sperimentato quanto sia faticosa e dolorosa questa esperienza, e preferiamo starne lontani. Forse anche per questo motivo siamo abituati a esprimere sempre e comunque un giudizio negativo sul conflitto. Da quando siamo piccoli, ci viene insegnato che litigare è male e che bisogna subito “fare la pace”. Dal punto di vista semantico, il dizionario della lingua italiana definisce il conflitto come “Combattimento, scontro; per estensione guerra”, come se conflitto e violenza fossero la stessa cosa. Il conflitto, in altre parole, viene considerato come “male in sé”, relegato

Le vittime, nuovi attori per ricomporre il rapporto tra reo, vittima e comunità

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Regione Piemonte / Manuale per la progettazione di politiche e interventi sulla sicurezza integrata 243

nell’area dei comportamenti patologici, evento di fronte al quale l’unica strada possibile sembra essere la negazione o l’evitamento. Ma l’etimologia della parola ci riporta ad un altro ambito, quello della relazione. Il termine “conflitto” deriva dall’unione di due parole latine: il verbo fligere (urtare, percuotere, atterrare) e il prefisso cum, che rimanda chiaramente a una dimensione di coesistenza e compartecipazione. Il prefisso cum indica un’associazione, un mettersi insieme, una relazione tra soggetti. Indica un legame che in quel momento si fa più debole, rischiando di rompersi o semplicemente diventando una costrizione per chi lo vive. Il conflitto è dunque un momento in cui lo stare insieme diventa un elemento di urto, di attrito, di scontro. Il conflitto si svolge nell’ambito di una dimensione relazionale in cui ogni contendente vuole mantenere la propria posizione. È importante sottolineare, però, che questo non è necessariamente un male. Anzi, proprio dall’esperienza del conflitto e dell’opposizione possono sorgere nuove opportunità di comunicazione e di riconoscimento. Tutti abbiamo fatto esperienza di un litigio che ci ha portato ad un chiarimento importante; tutti conosciamo storie di conflitti territoriali che hanno portato, insieme allo scontro, al sorgere di esperienze sane di partecipazione attiva dei cittadini e a nuovi legami comunitari. Un esempio può essere quello rappresentato da un’area di confine, un piccolo giardino tra le case, una terra di nessuno che diventa un luogo di ritrovo per pochi: qualcuno che beve e bivacca sulle panchine, piccoli spacciatori, qualche padrone di cane che transita velocemente. Sempre più sporca,

abbandonata e oggetto di piccoli atti vandalici, nessun abitante del quartiere passa più di lì, né vi si ferma. I cittadini sono impauriti e molto arrabbiati: viene chiesto

l’intervento della pubblica amministrazione, ma i risultati sono pochi e di breve durata. Allora un gruppo di cittadini si attiva, coinvolge altri e adotta la piazzetta. La puliscono, la “abitano”, piantano fiori, vengono autorizzati ad occupare il suolo pubblico e vi organizzano concerti, cineforum, letture. Due le conseguenze principali: i cittadini sono diventati soggetti attivi, nel senso più pieno del termine, e si sono creati nuovi legami. Non portano più una generica richiesta di aiuto né esprimono solo rabbia verso nemici indistinti, ma fanno richieste puntuali alla pubblica amministrazione: panchine, pulizia, la possibilità tecnica di organizzare eventi, illuminazione pubblica. Sono diventati promotori e non solo fruitori, e cresce così anche la consapevolezza della complessità del problema, non riconducibile a meri interventi di controllo. Inoltre a partire dal problema sono nati nuovi legami: vicini che non si conoscevano ora sono in relazione, e si incontrano anche

Il conflitto: solo un male o forse

un’opportunità?

Una storia di città

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Regione Piemonte / Manuale per la progettazione di politiche e interventi sulla sicurezza integrata 244

al di là del motivo originario, la piazzetta “da salvare”. Ma contemporaneamente è cresciuto anche il legame con quel luogo, si è creato un senso di appartenenza basato sulla cura e non più sull’opposizione (alla pubblica amministrazione, ai vandali, ai senza fissa dimora). Molte teorie, sia in psicologia che in sociologia, hanno nel tempo dato valore al conflitto come elemento vitale, attraverso il quale, se non diventa endemico o patologico, l’individuo e la società possono progredire nell’affermazione di sé e nel riconoscimento dell’altro. Un esempio: durante l’infanzia prima, e nell’adolescenza poi il conflitto diventa un elemento fondamentale nel percorso di crescita e di sviluppo psichico dell’individuo. Tutti ricordiamo il bambino che sa dire solo “no”, e l’adolescente che da un giorno all’altro vuole tenere sempre la porta di camera sua chiusa: si tratta di tappe fondamentali di costruzione di sé che, se adeguatamente accompagnate dall’adulto, portano alla definizione dei propri confini e a riconoscere così che l’altro è diverso, ma non per questo meno degno di riconoscimento e rispetto. Il conflitto è un elemento dinamico che, al pari dell’armonia, non è dato una volta per tutte, ma si modifica costantemente e può evolvere positivamente, se viene gestito in modo adeguato, arginando cioè il suo potenziale distruttivo a favore di quello evolutivo e trasformativo. Per fare questo, in primo luogo occorre dunque conoscere i conflitti: in genere i conflitti si vivono ma non si conoscono, non sono oggetto di apprendimento, non si esplorano per cogliere quali posizioni, interessi, stili e logiche diverse dalle nostre esprimono. Inoltre occorre allenare la capacità di stare nel conflitto, cogliendo via via segnali e indicazioni opportune in ciò che accade. È invece affannosa e inesausta la ricerca di soluzioni, e questo porta ad identificarle prima ancora che le questioni siano rappresentate. E se non sono disponibili le soluzioni è comunque sempre facile trovare dei colpevoli, con effetti rassicuranti ma al tempo stesso sterili.

Cos’è un conflitto?

Per imparare a gestire in maniera efficace le situazioni conflittuali dobbiamo dunque in primo luogo comprendere questo fenomeno e le sue dinamiche. L’evoluzione del conflitto è un nodo delicato perché, a seconda del cocktail degli elementi che entrano in gioco, si possono avere risoluzioni e sviluppi profondamente diversi. Sarebbe un grosso errore focalizzare l’attenzione solo sul motivo palese della nascita del conflitto; è necessaria un’attenta analisi delle personalità degli attori in gioco, del contesto in cui il conflitto

L’importanza del conflitto

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nasce, della storia precedente degli individui, delle influenze culturali, delle pressioni esterne e della posta in gioco. In sintesi, è indispensabile una lettura a più livelli del conflitto, per poterlo comprendere pienamente e affrontarlo nel modo più adeguato possibile.

Come abbiamo sottolineato, si ha un conflitto all’interno di una relazione quando il bisogno di una parte entra in opposizione con il bisogno di un’altra. Le parti possono

essere singoli individui, oppure gruppi cui gli individui sentono di appartenere per familiarità, vicinanza, comunanza di interessi. Si teme che le risorse in gioco non siano sufficienti a soddisfare entrambi, e per questo si assumono posizioni divergenti, spesso opposte. Le posizioni che un soggetto assume in un conflitto vanno distinte dal bisogno, o interesse, che muove l’individuo. Spesso le posizioni che un soggetto assume si polarizzano, diventano ossia esattamente opposte a quelle che esprime l’altro, indipendentemente dal bisogno che si vorrebbe soddisfare. Questa percezione di impossibilità a soddisfare il proprio bisogno a causa del bisogno dell’altro a volte si fonda su dati oggettivi, ma molto spesso nel conflitto viene amplificata da percezioni soggettive: è importante sottolineare che le percezioni soggettive sono reali quanto i dati oggettivi e hanno un peso molto grande nel determinare la forza del conflitto. Un altro ingrediente costitutivo del conflitto è l’emozione: rancore, rabbia, paura, frustrazione a volte esplodono ed emergono in modo immediato, altre volte rimangono chiuse dietro un muro di silenzio che accresce la sensazione di disagio che vivono i soggetti in conflitto. Quando vi è la compresenza di tutti gli ingredienti i conflitti possono essere:

î di dati, relativa ai meccanismi di comunicazione come, ad esempio, i malintesi;

î di valori, che riguardano le posizioni assunte e spesso si riferiscono ad un gruppo;

î di interessi, inerenti le risorse in campo, e proiettati nel futuro; î di emozioni, che toccano la sfera più intima e spesso hanno radici nel

passato.

Uno dei principali meccanismi di funzionamento del conflitto è chiamato escalation e può essere definito come “un aumento parallelo di intensità e di violenza in un conflitto” (Arielli, Scotto, 1998). Va evidenziata inoltre la propensione del conflitto ad allargarsi a macchia d’olio, passando dall’originario e puntuale oggetto del contendere alla sfera più personale, fino a coinvolgere le persone nella loro interezza. La dinamica del conflitto prevede dunque un’escalation verticale (aumenta la rabbia e l’aggressività

Una lettura a più livelli

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verso l’altro), e un’escalation orizzontale (il conflitto si estende a molti aspetti dell’altra persona e a molte altre questioni che non c’entrano con quella originaria). Inoltre, osservando due parti in conflitto, è facile notare la tendenza dei confliggenti ad attribuire a sé la verità e a negare quella dell’altro. In questa circostanza la comunicazione, verbale e non, viene utilizzata come elemento per avere ragione o per screditare la legittimità delle opinioni della parte avversa.

L’escalation

Nell’escalation il conflitto tende a gonfiare la sua portata: gli attori sono sempre più coinvolti rispetto ai temi trattati, il numero dei partecipanti aumenta e le parti tendono a polarizzarsi in maniera sempre più rigida e definitiva. L’escalation si caratterizza per una seria di “soglie” rispettate dai confliggenti. Nel momento in cui una parte viola una soglia, il conflitto inevitabilmente cambia qualità. Non tutti i conflitti raggiungono le stesse soglie: ci sono casi in cui il conflitto rimane ad un livello di intensità basso perché le parti decidono di rispettare i confini di una soglia bassa. Esistono principalmente due interpretazioni del conflitto: una che considera l’escalation come volontaria e quindi costantemente sotto stretto controllo degli attori, e una seconda che ritiene invece che essa non sia per nulla controllabile e che sfugga alle intenzioni dei confliggenti. Con il graduale aumento d’intensità del conflitto si modifica pesantemente la percezione dell’altro, il quale non è più considerato un individuo con caratteristiche simili alle proprie, ma una vera e propria minaccia. Nei casi estremi, si assiste a un processo di deumanizzazione dell’avversario che consiste nel considerare l’altra parte come membro di un gruppo portatore di valori negativi, pericolosi per la propria incolumità. Questo processo è l’incipit di scenari distruttivi, di cui vi sono esempi anche in alcuni film famosi come La guerra dei Roses (1989) e L’odio (1995). Un altro pericolo che porta con sé l’escalation è che le parti si ritrovino intrappolate nel conflitto, senza possibilità di fuga. Quando nel conflitto sono state investite risorse economiche, emozionali, di tempo dal valore inestimabile per l’individuo, diventa difficile ritirarsi e ammettere, in questa maniera, di aver sbagliato. Spesso si decide di perpetuare il conflitto anche quando i costi superano i guadagni. Comunemente, in queste situazioni estreme si perde di vista il vero motivo per cui il conflitto ha avuto inizio, essendo entrati in scena elementi non più calcolabili controllabili.

La distanza nel conflitto

È possibile leggere un conflitto attraverso il binomio vicinanza/distanza, che fa riferimento al concetto di spazio personale e di territorio. Gli etologi spiegano come gli animali abbiano una propria distanza di sicurezza che

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serve a difendersi dagli aggressori e a delimitare il proprio spazio personale: quando viene superata tale distanza, l’animale tende alla fuga o all’aggressione. Il concetto di territorialità fa riferimento a questa distanza, a quell’area cioè dentro la quale l’animale si sente sicuro da attacchi esterni. Anche gli esseri umani sono animali territoriali; come gli animali, hanno un loro territorio e lo stabiliscono in ogni luogo in cui si trovano: dalla propria casa al luogo di lavoro, fino allo spazio che circonda l’ombrellone sulla spiaggia. Se un estraneo si avvicina troppo, respira in faccia a un altro o gli pesta i piedi, ci si sente subito disturbati dalla presenza ravvicinata, e quasi si vorrebbe fare come gli animali, che mostrano i denti o scappano. Edward Hall è l’antropologo che ha coniato il termine prossemica, cioè la disciplina che studia “come l’uomo struttura inconsciamente i microspazi - le distanze tra gli uomini mentre conducono le transazioni quotidiane -, l’organizzazione dello spazio nella propria casa e negli altri edifici e infine la struttura delle sue città” (Hall, 1968). Hall ha osservato che esiste una distanza, detta spazio vitale o prossemico, in base a cui l’uomo regola i propri rapporti interpersonali, e la cui violazione genera imbarazzo, irrigidimento, tensione. Tale distanza non è fissa, ma muta a seconda del grado di intimità delle relazioni1 e della cultura cui si appartiene: ad esempio è molto ridotta nei paesi caldi e molto ampia in quelli freddi. Un’immagine molto efficace di come la troppa vicinanza può generare una

situazione di contrasto è quella descritta da Schopenhauer nell’opera Parerga e Paralipomena: "alcuni porcospini, in una fredda giornata d'inverno, si strinsero vicini, vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere

assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l'uno dall'altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell'altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione" (Schopenhauer, 1851). Un conflitto può dunque essere facilmente causato dalla violazione del proprio spazio vitale. Molti conflitti di vicinato sono raccontati da chi li vive come un’intrusione nel proprio territorio: nella casa, considerata luogo della privacy e della sicurezza, ci sente violati dai rumori, dagli odori e dai comportamenti dei propri vicini. È un’esperienza molto comune: i miei vicini diventano “troppo vicini”, non rispettano più il mio spazio. Nelle relazioni interpersonali più ravvicinate (coniugi, genitori-figli, amici) un conflitto può avere origine invece per il motivo contrario: “vorrei sentirti più

Conflitto come questione di spazio vitale e territorio

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vicino” è una frase che si dice spesso quando sentiamo che l’altro mantiene una distanza eccessiva rispetto a quella che noi riterremmo opportuna.

La gestione del conflitto

Se dunque il conflitto è un’esperienza inevitabile del vivere comune, occorrono degli strumenti per affrontarlo e gestirlo. L’interrogativo si sposta sul come: esistono modi migliori o peggiori per farlo, secondo le situazioni, che possono produrre effetti dannosi o cambiamenti positivi. Vi sono nelle nostre società diversi strumenti a disposizione per risolvere una controversia, che rispondono a logiche diverse. Quello più noto in generale è il modello giudiziario, ove un terzo, sulla base di un sistema di norme condivise e in nome di un potere che gli è stato attribuito dallo Stato, pone fine alla controversia, stabilendo torti e ragioni. Qui il focus è il risultato, la fine del conflitto, l’attenzione è verso l’oggetto della contesa piuttosto che sulle persone in conflitto e la loro relazione. Un altro modello è quello delle cosiddette A.D.R. (dall’acronimo inglese di alternative dispute resolution, che significa metodi alternativi di risoluzione delle controversie) che includono svariate forme di modalità di risoluzione dei conflitti (conciliazione, negoziazione, mediazione) tutte caratterizzate da un procedimento riservato e confidenziale in cui un terzo imparziale e neutrale ascolta le ragioni delle parti in lite e facilita la soluzione della controversia. Si applicano in diversi ambiti, da quello commerciale, nelle dispute amministrative, nelle vertenze sindacali, nei conflitti familiari. Chi vive un conflitto spesso non sa a chi rivolgere la sua domanda di aiuto. L’azione legale è vista come l’extrema ratio, a causa dei tempi lunghi, dei costi da sostenere, e del timore che non porti ad una soluzione soddisfacente.

Altrettanto difficile è individuare un professionista che possa, nel momento critico del conflitto, provare a intervenire secondo un modello alternativo. Spesso dunque ci si rivolge a chi in quel momento è “più

accessibile”: l’operatore di Polizia Municipale, l’operatore dei servizi sociali, il medico di base, l’operatore di territorio, un rappresentante delle Forze dell’Ordine. Figure professionali che operano in strutture ad accesso diretto e accolgono quotidianamente situazioni di malessere e disagio legate a conflitti, piccoli o grandi gesti di inciviltà, difficoltà nella convivenza, che sono spesso molto complesse da gestire. Proviamo allora a individuare qualche indicazione

Diversi modelli di gestione del

conflitto

Tre passi per gestire un conflitto

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che può essere di aiuto all’operatore che nello svolgimento del proprio operato si trovasse ad assistere o a dover gestire una situazione di conflitto.

î Primo passo: non negare il conflitto. Spesso un conflitto negato, o peggio soffocato, può diventare ancora più grande, e portare a conseguenze negative sul piano personale (ad esempio stress, depressione, sintomi fisici) e/o sociale (violenza, incuria, scontro, vendetta);

î Secondo passo: non cercare “la Soluzione”. Spesso non esiste la soluzione giusta, definita a priori, ma una strada da percorrere per cercare un accordo. Quando ci si imbatte in un conflitto, non siamo chiamati a stabilire torti e ragioni (per quello esiste il sistema giudiziario), ma a facilitare il reciproco riconoscimento, nel rispetto dei diversi punti di vista in gioco;

î Terzo passo: bloccare l’escalation. Schierarsi da una parte o dall’altra, decidere chi mente e chi dice la verità, allearsi, sono comportamenti che rafforzano la convinzione dei confliggenti di trovarsi in una sorta di guerra, in cui ciò che conta è far perdere l’altro, anche al prezzo di danneggiare se stessi.

Tra le pratiche alternative di risoluzione delle controversie, quella su cui ci si concentrerà nei prossimi paragrafi è quella della mediazione che da tempo è stata adottata e sperimentata da molte realtà del settore pubblico e privato: la domanda diffusa di sicurezza e l’esigenza di agire in via preventiva per evitare il degenerare di situazioni di degrado, conflittualità e marginalità che possono pregiudicare la convivenza all’interno delle comunità hanno, infatti, contribuito allo sviluppo e affermarsi di questo metodo e, conseguentemente, alla diffusione di importanti esperienze locali di mediazione.

Cos’è la mediazione

Il termine “mediazione dei conflitti” indica in generale un metodo alternativo al paradigma giudiziario (basato sulle dicotomie ragione/torto, vincere/perdere) con cui viene offerto ad alcuni soggetti un supporto efficace per gestire e risolvere le controversie. La sua efficacia si basa sulla strutturazione di un luogo riconosciuto dalle parti come indipendente e sulla presenza di un terzo neutro, imparziale, che li assiste secondo un insieme di regole condivise da tutti i partecipanti. In uno dei primi lavori sistematici sulla mediazione in Italia, si dà questa definizione: “La mediazione è un processo attraverso il

Indipendenza, terzietà e condivisione di

regole: gli elementi della mediazione

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quale due o più parti si rivolgono liberamente a un terzo neutrale, il mediatore, per ridurre gli effetti indesiderabili di un grave conflitto. La mediazione mira a ristabilire il dialogo tra le parti per poter raggiungere un obiettivo concreto: la realizzazione di un progetto di riorganizzazione delle relazioni che risulti il più possibile soddisfacente per tutti. L’obiettivo finale della mediazione si realizza una volta che le parti si siano creativamente riappropriate, nell’interesse proprio e di tutti i soggetti coinvolti, della propria attiva e responsabile capacità decisionale” (Castelli, 1996, pag. 5). Questo tipo di intervento nel tempo è stato sperimentato e diffuso in molti degli ambiti in cui può avere luogo il conflitto: dalle esperienze di gestione costruttiva del conflitto nella scuola e nei luoghi di lavoro, alla mediazione familiare, alla mediazione penale, in ambito sanitario, fino alla pratica di mediazione sociale che sempre più Comuni e realtà locali stanno adottando per ristabilire relazioni compromesse tra vicini, condomini e gruppi. Le prime esperienze strutturate di mediazione nascono negli Stati Uniti e in

Canada verso la fine degli anni ’70 come risposta ad un bisogno di nuovi modi di regolazione delle controversie, derivanti da un lato dalla crisi dei sistemi tradizionali di risoluzione dei conflitti, in particolare quello giuridico, dall’altro da quella che

molti definiscono come la crisi del sistema di regolazione sociale (Bonafé-Schmitt, 1992). Lentezza, distanza, formalismo, costi molto elevati, complessità: l’apparato giudiziario e le sue disfunzioni sono sicuramente fattori che hanno contribuito al sorgere di iniziative di gestione dei conflitti rispondenti a criteri di flessibilità, rapidità, prossimità. Ma questa crisi del sistema giudiziario non è che una faccia di una crisi più generale dei vari sistemi tradizionali di gestione dei conflitti, strutture intermedie tra lo Stato e i cittadini: il sistema familiare, quello educativo, le Chiese, i sindacati. Spazi di mediazione nascono dunque dall’idea di sviluppare modalità decentralizzate di regolazione della conflittualità, legate al territorio, e che permettano alle comunità di partecipare alla gestione delle proprie relazioni sociali, ricreando una cultura della vicinanza. La mediazione non rappresenta una semplice alternativa alla giustizia, è un fenomeno che esprime una globale evoluzione delle nostre società verso una pluralità di modelli di regolamentazione sociale. Così a fianco di un paradigma di mediazione orientato alla risoluzione dei conflitti, alternativa e/o complementare a quella giudiziaria, si sviluppa un uso della mediazione come modalità di intervento sulle relazioni sociali, per migliorare la coesione sociale, a fronte dei grandi mutamenti sociali in atto. La nuova tendenza generale è verso un modello comunque più consensuale di gestione dei

Le origini della mediazione: dove nasce e con quale finalità

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conflitti che prevede che, a fronte di punti di vista e stili di vita divergenti, si operi sulla comunicazione, sul confronto, sulla partecipazione. La domanda dunque non è più come dimostrare chi ha ragione, ma come far sì che le diverse parti in causa comunichino, si riconoscano reciprocamente e si assumano la responsabilità di come andrà a finire una determinata situazione (un matrimonio in crisi, una lite di vicinato o un contrasto all’interno di un gruppo di lavoro). Questo aspetto emerge anche guardando alle competenze e alle funzioni attribuite ad alcuni servizi comunali attraverso cui si esplica l’azione degli Enti locali nei confronti dei cittadini, e in particolar modo il servizio della Polizia Locale che ha una posizione preminente: le capacità e competenze messe in campo dagli operatori di Polizia Locale nel dialogo e comunicazione con i cittadini rientrano infatti nella sfera delle competenze trasversali utili ad un approccio mediativo (a questo proposito si rimanda alla ricomposizione dei dissidi privati di cui all’art. 1 del T.U.L.P.S. ed alla “capacità di instaurare un rapporto di reciproca fiducia con il cittadino” di cui all’art. 9 della legge regionale n. 58/1987 in materia di Polizia Locale).

La mediazione o le mediazioni

Oltre la mediazione sociale, o di comunità, di cui si parlerà approfonditamente, le forme di mediazione maggiormente diffuse sono:

î la mediazione familiare che si occupa di conflitti tra coniugi e conviventi in caso di separazione, tra genitori e figli, tra fratelli e con le famiglie di origine, ed è il campo in cui la mediazione ha trovato maggior strutturazione normativa e approfondimento teorico;

î la mediazione penale che propone, nel quadro di riferimento della cosiddetta “giustizia riparativa”, la riparazione del legame spezzato dall’atto offensivo del reo nei confronti della vittima attraverso percorsi di accompagnamento e confronto, soprattutto in ambito minorile;

î la mediazione scolastica che si occupa delle dinamiche di relazione in ambito scolastico, agendo con tutti coloro che operano all’interno del sistema educativo (allievi, insegnanti, genitori, dirigenti scolastici, personale non docente) per offrire un clima migliore di convivenza e di benessere;

î la mediazione ambientale che riguarda conflitti incentrati sui temi relativi all’ambiente e all’utilizzo del territorio: utilizzazione di aree per l’ubicazione di impianti industriali, discariche, trattamento dei rifiuti, politiche dei trasporti;

î la mediazione interculturale che affronta i problemi di integrazione, comunicazione e relazione tra coloro che arrivano nei paesi d’accoglienza e gli altri abitanti;

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î la mediazione commerciale, o conciliazione, che agisce in ambito finanziario occupandosi sia di dispute fra aziende e clienti, tra imprese concorrenti, tra impresa e fornitori, che di conflitti interni alle imprese relativi all’organizzazione del lavoro e alla gestione dei ruoli e delle mansioni;

î la mediazione nelle controversie civili e commerciali che può essere avviata come tentativo di conciliazione per evitare l’azione in giudizio relativa a controversie in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, locazione, comodato e affitto di aziende2;

î la mediazione istituzionale definita come “mediazione tra un’istituzione e una controparte che può essere costituita da uno più cittadini in forma singola o associata, che intrattengono, o hanno intrattenuto, rapporti connessi alle finalità dell’istituzione ovvero alla sua gestione” (Luison, Liaci, 2000). Nei vari Paesi assume denominazioni diverse: “Ombudsman” nei Paesi scandinavi, “Commissario Parlamentare” in Gran Bretagna, “Mediatore della repubblica” in Francia, “Difensore del Popolo” in Spagna. In Italia questo tipo di mediazione è stata istituito nel 1990 con la figura del Difensore Civico.

Insicurezza e mediazione

La mediazione sociale può essere una delle risposte possibili al sentimento di insicurezza diffuso tra le persone, alla cui base si trovano non solo episodi di vera e propria criminalità, ma anche fenomeni di disordine sociale e fisico che interessano molte città e quartieri: può costituire al tempo stesso una forma di prevenzione della criminalità che deriva da una conflittualità mal gestita - nella famiglia, nella scuola, nella società - e un modo per ricostruire un rapporto di fiducia che permetta ad ognuno di sentirsi partecipe del bene pubblico e percepirsi come appartenente di diritto al terriorio dove abita e vive, o lavora. Al problema securitario viene inoltre ricondotta un’ampia serie di problematiche connesse all’uso e alla frequentazione degli spazi pubblici della città, storicamente luogo eterogeneo e plurale, aperto e accessibile. Molti dei fenomeni che generano un sentimento di insicurezza, disagio e paura non appartengono alla categoria dei reati, ma ad una serie di comportamenti che si situano in una zona di confine e difficilmente trovano risposta nel sistema repressivo: la sporcizia, il rumore, gesti di inciviltà come l’imbrattamento, il mancato rispetto delle regole di convivenza civile, un uso dello spazio pubblico non da tutti condiviso. Sono temi che hanno a che fare con la vivibilità delle città e con le grandi trasformazioni che i territori stanno vivendo. Di fronte alla trasformazione delle città, al moltiplicarsi di punti di vista e stili

Mediazione e insicurezza: tra

prevenzione della crimininalità e

costruzione di fiducia

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di vita, emerge inoltre il tema dell’identità: nello stesso territorio si confrontano, e si scontrano, gruppi diversi per cultura, tradizioni, abitudini, ma anche gruppi di diverse generazioni, portatori di opinioni e interessi diversi. Non esiste più una visione del mondo unica e ordinata, ma diverse visioni contrastanti e a volte conflittuali. L’altro genera spesso insicurezza semplicemente perché esiste, e porta la sua diversità di cultura e di valori nel contesto sociale cui appartiene, e a questo sentimento si reagisce con il rafforzamento delle singole identità, declinato soprattutto in termini di difesa e minaccia, di chiusura e insofferenza. Un territorio percepito come insicuro è di fatto uno spazio in cui è in crisi il senso di appartenenza collettivo, mentre si rafforzano le micro-identità chiuse, tutte potenzialmente in conflitto, incapaci di dialogare e di far fronte insieme ai conflitti e alle criticità. Occuparsi di sicurezza in questo contesto significa utilizzare strumenti che, riconoscendo gli elementi alla base delle tensioni, favoriscano la conoscenza reciproca, la valorizzazione delle competenze e delle risorse presenti, la capacità di dialogo. Sono necessari interventi che favoriscano l’inclusione e la coesione, e “in primo luogo interventi sociali, rivolti a tutti i cittadini e non sono alle fasce più emarginate, che si occupino maggiormente di inclusione (e non solo di esclusione), di mediazione dei conflitti, di mediazione intercultuale, di educazione alla legalità, ma anche di riqualificazione urbana e di politica del

lavoro, di accesso ai servizi, di cultura, di tempo libero, di accesso a tutti quei sistemi che fanno della città un luogo più vivibile e meno insicuro” (Carocci, Antolini, 2007). Mentre politiche sociali tradizionali spesso

propongono interventi destinati a specifiche categorie sociali (i bambini, gli anziani, gli stranieri, ecc.) percepite come “isole” ben separate le une dalle altre, la mediazione si rivolge alla comunità territoriale nel suo complesso, considerando i vari soggetti come componenti di un insieme, composto da norme implicite o esplicite, codici, storie, risorse e conflitti. Attraverso un approccio che integra soggetti e strategie di intervento prova a rispondere alle criticità che un territorio esprime nella sua complessità, considerando i diversi punti di vista in atto e cercando di sostenere la partecipazione dei cittadini alla risoluzione dei problemi.

Mediazione come politica di territorio (e non solo rivolta a target specifici)

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La mediazione per gestire i conflitti nello spazio pubblico

Lo spazio pubblico, e l’uso che ne viene fatto, diventa spesso oggetto di forti tensioni sociali; l’esempio più recente, che vede impegnate molte pubbliche amministrazioni, non solo italiane, riguarda la cosiddetta “movida notturna”. La fruizione degli spazi aperti è notevolmente aumentata nelle ore serali e notturne: i giovani si incontrano in gruppi molto numerosi e in forme spontanee ed estemporanee con l’obiettivo della socializzazione e del divertimento serale. La maggiore frequentazione da parte della popolazione in ore diurne e serali ha favorito l’apertura di nuovi locali e il rinnovo di quelli già presenti. La nuova vitalità commerciale ha contribuito in modo determinante a migliorare la qualità e la sicurezza dell’ambiente urbano. Ma mentre nuovi e vecchi residenti hanno interesse a utilizzare gli spazi pubblici con cura e continuità, i frequentatori temporanei del popolo della notte usano i luoghi in modo strumentale e transitorio. Ciascun gruppo sociale usa lo spazio in modo differenziato, con ritmi e scopi diversi. Questo genera una forte conflittualità: proteste per il rumore dei locali e degli avventori, scarsità di parcheggi, condizioni igieniche precarie dopo le serate della “movida”. Inoltre nonostante la nuova vita che popola queste zone, a volte permangono sacche di illegalità, quali spaccio, borseggi, prostituzione. La questione viene spesso affrontata come un muro contro muro: movida sì /movida no; giovani/anziani; città viva/città morta. Come in molte situazioni conflittuali, la soluzione forse non passa attraverso queste dicotomie, ma attraverso l’individuazione di strumenti che diano dei limiti e rendano tollerabile questo fenomeno. Ma una situazione di conflittualità urbana come questa non si risolve da sola. Non servono appelli al buon senso e alla comprensione spontanea degli altrui bisogni, né pare utile una condanna moralistica del fenomeno movida. Se la città è come un grande condominio, con regole di convivenza, occorre ascoltare il punto di vista delle parti in gioco, trovare degli accordi e farli rispettare. Per ottenere dei cambiamenti occorre innanzitutto fornire servizi adeguati agli usi che effettivamente vengono fatti degli spazi pubblici e creare un sistema di regole e pratiche che non vadano nel senso di eliminare i fenomeni - per altro incomprimibili -, ma di ridurne i disagi per le parti. Inoltre è auspicabile prevedere dei meccanismi di partecipazione attiva e reale dei diversi soggetti (amministratori pubblici, esercenti, cittadini, residenti, fruitori) per progettare interventi condivisi e rispettati e così accompagnare la trasformazione dei territori creando responsabilizzazione e un senso di appartenenza al territorio, che sia dialogico e non difensivo. Di seguito alcuni esempi di interventi integrati sul tema della movida e della qualità della vita messi in atto in alcune città italiane: î un percorso di mediazione sociale a Pistoia

http://www.martiniassociati.it/progetti_e_interventi/articolo/135 î patto per la sicurezza della Città di Torino (siglato a fine maggio 2012) http://torino.repubblica.it/cronaca/2012/07/04/news/ movida_nuove_restrizioni_vietate_le_bottiglie_di_vetro-38489850/ î patto per la notte a Firenze (siglato il 6 giugno 2012) http://www.viverefirenze.com/news/patto-per-la-notte-a-firenze/

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î protocollo di intesa “movida sicura” a Roma (siglato il 15 ottobre 2012) http://www.comune.roma.it/wps/portal/pcr?jppagecode=uff_coord_movida.wp

î protocollo di intesa per il miglioramento delle condizioni di vivibilità e sicurezza nelle aree della movida a Pisa (siglato il 29 ottobre 2012) http://www.prefettura.it/pisa/contenuti/13785.htm

La mediazione: un processo e/o un approccio Il valore delle mediazione sociale è quello di provare a rispondere al bisogno di riconoscimento e di riparazione di chi vive un conflitto o di chi subisce un reato, attraverso la creazione di luoghi che si occupino di questo vissuto e provino a ricostruire il senso di appartenenza al tessuto sociale e a un dato territorio. Possiamo dire che i vari interventi di mediazione rispondono a tre logiche distinte ma strettamente interconnesse: una legata all’esperienza del conflitto, un’altra finalizzata ad accrescere la coesione sociale sui territori, e infine un’ultima di respiro più ampio che è volta a promuovere la cultura della mediazione. Nel primo caso si tratta di un processo volontario finalizzato a gestire un conflitto tra singoli o tra gruppi attraverso la presenza di un terzo neutrale, adeguatamente formato, in un luogo riconosciuto dalle parti come indipendente, secondo un insieme di regole condivise da tutti i partecipanti (vedi p. 248). Strumenti principali sono l’ascolto e la facilitazione della comunicazione. Si rivolge soprattutto a soggetti che intrattengono rapporti di lunga durata nel tempo e che in ogni caso, nonostante il conflitto e dopo una sua eventuale risoluzione, dovranno continuare a convivere e comunicare (familiari, vicini di casa, colleghi). Espressione tipica di questo approccio è lo sportello al quale i cittadini si

possono rivolgere, “portando un conflitto” che sentono di vivere; il servizio di sportello si propone quindi come una diversa possibilità per risolvere i più comuni conflitti interpersonali: di vicinato, condominiali, piccoli e grandi problemi tra

persone di diversa età e cultura, contrasti familiari ed altro. Moltissime sono le esperienze di sportelli di mediazione avviate in Italia in questi anni dalle amministrazioni comunali, senza distinzioni tra Comuni grandi e piccoli. La decisione di avviare un’esperienza di questo genere sul territorio di norma si traduce nella scelta tra sportelli esterni ed interni all’amministrazione: nel primo caso si tratta di spazi, in molti casi di proprietà comunale, adibiti a funzione di sportello che vengono affidati e gestiti da mediatori

Mediazione orientata al conflitto, alla coesione

sociale e alla cultura

Sportelli per aiutare a dirimere conflitti piccoli e grandi

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Regione Piemonte / Manuale per la progettazione di politiche e interventi sulla sicurezza integrata 256

professionisti. L’Ente locale definisce le caratteristiche del servizio, ma la presa in carico e la gestione dei casi è portata avanti da persone esterne alla struttura amministrativa che operano ovviamente in sinergia con la rete dei servizi locali e territoriali. Nel caso, invece, degli sportelli gestiti direttamente dall’Ente locale, il servizio di mediazione è inserito e inquadrato all’interno delle attività ordinarie di uffici comunali (sportelli al pubblico già esistenti, URP). Molti Comuni hanno seguito questa seconda strada che consente di accrescere le competenze interne, contenere i costi del servizio rispetto alla scelta di esternalizzazione e in alcuni casi anche di riorganizzare i servizi comunali, ottimizzandoli. Quando invece l’obiettivo prioritario è quello di accrescere la coesione sociale, la mediazione, prima di essere una tecnica per affrontare le situazioni conflittuali, è intesa come un mezzo di costruzione e gestione dei legami sociali e della convivenza. Chi fa mediazione sociale intesa in questa accezione non interviene nelle comunità al momento del conflitto. È presente, costruisce rapporti e cura relazioni. L’intervento nel conflitto è solo un momento del suo lavoro. Espressione tipica di questo approccio è il lavoro sul territorio3: gli operatori effettuano operazioni di rilevamento delle esigenze, dei conflitti presenti e delle percezioni che i cittadini hanno della qualità della vita sociale. Le équipe di mediazione sociale possono promuovere sul territorio percorsi di sensibilizzazione alla mediazione sociale, per cittadini e per operatori, e percorsi tesi alla promozione del rispetto delle regole della convivenza. Lavorano in collaborazione con i vari soggetti locali, pubblici e privati, con la finalità di gestire in modo condiviso le problematiche riscontrate. Un esempio di questo approccio è l’istituzione di un operatore di prossimità, con l’obiettivo di garantire un miglioramento della qualità dell’abitare in quartieri a forte rischio di degrado urbano e sociale. Si tratta di una figura professionale complementare a quelle già esistenti, che opera attraverso competenze complesse, relative sia ad aspetti concreti dell’abitare (manutenzione di aree comuni, conoscenza e rispetto delle regole, accesso ai servizi) sia ad aspetti relazionali (accoglienza, ascolto, mediazione dei conflitti). L’obiettivo è di promuovere la partecipazione dei cittadini relativamente alle questioni dell’abitare, semplificare i rapporti tra abitanti e istituzioni, mettere in rete le risorse sociali del pubblico e del privato sociale, favorire le relazioni di vicinato e una gestione costruttiva dei conflitti, Questi due approcci non sono alternativi ma costituiscono i poli di un continuum lungo il quale si possono posizionare le varie esperienze di

L’importanza del lavoro di prossimità

e della rete nel creare coesione

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Regione Piemonte / Manuale per la progettazione di politiche e interventi sulla sicurezza integrata 257

mediazione. Cosa succede se si accentuano al massimo, estremizzandoli, i caratteri distintivi di queste due posizioni? Da una parte si avrà un’eccessiva professionalizzazione della mediazione, una competenza specifica che va ad aggiungersi a quelle già esistenti (psicologi, educatori, avvocati, ecc.), con i mediatori chiusi in un nuovo ufficio a cui i cittadini si devono rivolgere, correndo il rischio di non riuscire a intercettare e interpretare la reale domanda che i cittadini esprimono. Dall’altra parte, invece, il rischio è quello di far ricadere qualunque intervento sociale di tipo territoriale dentro la definizione di mediazione, generando una perdita di senso generale e annacquando pratiche diverse, con differenti obiettivi, in una parola privata di sostanza. Per valutare quindi quale forma di mediazione è quella più opportuna e efficace bisogna fare un’attenta analisi della situazione, valutando non solo le caratteristiche fisiche e sociali del contesto e le problematiche da affrontare, ma anche le aspettative delle parti in causa e le risorse a disposizione (umane, economiche e di tempo). Infine, si può evidenziare una dimensione trasversale della mediazione che ha per obiettivo quello di creare e diffondere una “cultura della mediazione”

all’interno della comunità. Non si tratta dunque di creare servizi e spazi di mediazione in senso stretto, ma piuttosto di coinvolgere responsabili politici, amministratori, educatori, cittadini in un percorso di conoscenza. Questo

significa far sì che la comunità possa apprendere i presupposti e le abilità di base della mediazione, applicandole sia in caso di conflitto che nelle proprie relazioni quotidiane. La finalità non è solo di acquisire nuove competenze, ma anche di promuovere una visione del conflitto e delle differenze che favorisca la partecipazione di tutti e il rispetto a scapito di meccanismi di esclusione e violenza. Sia che sia intesa come pratica che come approccio culturale al conflitto, è possibile delineare alcuni ingredienti base della mediazione: î la presenza, libera e volontaria, delle parti in conflitto ad un medesimo

tavolo di confronto; î la presenza di un terzo, neutrale ma vicino, che facilita il processo; î l’esito del conflitto restituito alle parti, e non rimesso ad altri attori esterni,

in modo che la decisione finale si configuri come esito di un processo decisionale condiviso;

î l’attenzione agli aspetti comunicativi della relazione tra le parti.

Promuovere la cultura della mediazione come approccio trasversale

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La postura del terzo

Come si è più volte sottolineato, la presenza di un terzo è un elemento nodale della mediazione. Per questo è utile approfondire alcuni strumenti utillizzati nel campo della mediazione che possono essere utili nelle pratiche di lavoro quotidiano per chi si trova, per il ruolo che riveste, a dover accogliere e gestire come “terzo” situazioni di rabbia, tensione, conflitto. Tutti questi strumenti hanno come fine quello di bloccare l’escalation, per migliorare lo stato emotivo delle parti e, ove possibile, arrivare ad una soluzione negoziata. Non significa diventare tutti mediatori, né si ha la pretesa di esaurire qui un argomento molto articolato, ma di fornire alcuni elementi di riflessione per accrescere quelle capacità di comunicazione, empatia, decentramento che possono aiutare a intervenire in modo costruttivo di fronte a un individuo arrabbiato o a due parti in conflitto. Di seguito alcuni consigli:

î A caldo: prendere tempo e dare tempo

Quando una persona è molto arrabbiata, qualunque sia la causa, tutte le sue energie sono impiegate nel mantenere vivo questo sentimento. La rabbia è molto potente, e tutti sappiamo bene quanto possa essere dannosa per il nostro corpo, se rimane sempre inespressa. A volte il livello di rabbia è tale che “si perde il controllo”: chi è preda di questo sentimento ne è soggiogato, e non riesce a comunicare se non a livello emotivo. Sarebbe vano qualunque tentativo di riportarlo alla razionalità attraverso esortazioni o inviti al buon senso, mentre risulta efficace offrire una presenza calma e disponibile all’ascolto, che fa domande aperte, e si mostra interessata alla vicenda dell’altro. Solo in un secondo momento, quando la rabbia più calda sarà scemata, si potrà comunicare su altri piani.

î Essere imparziali e neutrali

Questo significa non avere preferenze per l’una o l’altra parte, e non agire mai per favorire una delle due parti. Non si tratta di un semplice imperativo morale, ma di un atteggiamento che serve a mantenere l’equilibrio nella relazione e a garantire che le parti si sentano libere di esprimersi e di proporre soluzioni. È ragionevole pensare che si possano avere preferenze o opinioni sulle parti in conflitto, ma è bene conoscerle per evitare che interferiscano nel processo. Se una delle due parti dovesse percepire un atteggiamento di maggiore vicinanza o complicità del terzo con l’altra parte, sarà portata a sentirsi più debole e ad abbandonare il tavolo delle trattative. Essere terzo in un conflitto è molto diverso, per esempio, dal ruolo

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dell’assistente sociale che necessariamente si allea con una parte, in genere quella più fragile, e la sostiene nel suo percorso.

î Mantenere la riservatezza

Garantire a una persona che quello che racconta non verrà raccontato ad altri, le permette di sentirsi libera nel parlare e di costruire un rapporto di fiducia.

î Non dare giudizi né soluzioni

Quando qualcuno racconta una situazione di conflitto o un problema, siamo spesso portati a individuare subito chi ha torto e chi ha ragione, e a offrire giudizi, positivi o negativi su ciò che è successo. Occorre provare invece ad ascoltare, lasciando fuori le nostre soluzioni e i nostri pareri, che spesso non fanno che accrescere il livello di tensione. Ad esempio un atteggiamento che spesso esacerba la situazione è quello di ridimensionare la portata della questione: in quel momento un problema, ai nostri occhi risolvibile o di scarso peso, diventa per chi lo vive un ostacolo insormontabile, e sminuirlo farebbe sentire la persona assolutamente non compresa. Solo chi è protagonista della situazione sente di poter esprimere giudizi sulla sua vicenda, e sull’altra parte in conflitto, e il compito di un terzo è quello di facilitare l’espressione e la comunicazione, lasciando alle parti il compito di trovare soluzioni.

î Ascoltare con empatia

L’ascolto è lo strumento fondamentale del mediatore. Occorre ascoltare i diversi punti di vista nel conflitto perché solo così potremo averne una visione a tutto tondo e garantire alle parti l’equità. Innanzitutto ascoltare, in modo imparziale, senza dare giudizi né avere la soluzione in testa, permette di capire la vicenda e di tracciare una mappa del conflitto (attori, attori secondari, posta in gioco, posizioni, bisogni, risorse). In secondo luogo l’ascolto non si deve concentrare solo sugli aspetti concreti della vicenda, ma sulla sofferenza e sul disagio che questa comporta. In questo modo la persona si sentirà riconosciuta e compresa, e sarà più disponibile a trovare strade per uscire dal conflitto in modo costruttivo.

î La verità non sta nel mezzo

La prima impressione che si ha, osservando due parti in conflitto, è la tendenza dei confliggenti ad attribuire a sé la verità e a negare quella dell’altro. In questa circostanza si comunica solo per avere ragione o screditare la legittimità delle opinioni della parte avversa. Uno degli aspetti fondamentali dell’azione mediativa è quello di accettare la possibilità

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dell’esistenza di una terza via, cioè che la verità sia da tutte e due le parti. Capiterà di ascoltare della stessa vicenda due versioni assolutamente incompatibili. L’obiettivo non è trovare la verità oggettiva dei fatti, ma accogliere la soggettività delle parti, rispettando la loro percezione del problema. Grazie a questo atteggiamento, le parti in causa, dopo essere state ascoltate e in virtù del fatto che è stata data loro la giusta attenzione, potranno iniziare a prendere in considerazione anche il punto di vista dell’altro.

î Soffermarsi sui bisogni e gli interessi in gioco, non sulle posizioni

In un conflitto si crea una dinamica per cui una parte tenderà ad allontanarsi sempre più dall’altra, assumendo posizioni assolutamente divergenti e opposte. La posizione (dal greco isthmi stare, stabilire, porsi) è l’atteggiamento che si assume rispetto all’altro e alla vicenda. Rappresenta normalmente il problema apparente, la parte visibile della situazione conflittuale e corrisponde alle pretese. Si tratta di un’opinione o credenza, difesa con forza, su come sono, o come dovrebbero essere, le cose. Le posizioni sono molto difficili da negoziare, se non si cerca di far emergere quale bisogno o interesse vi stia alla base. L’esempio classico è quello delle due sorelle che tornano a casa, aprono il frigo e trovano un’arancia ed entrambe la vogliono: la posizione corrisponde a “io voglio l’arancia”. Se si va oltre la posizione e si chiede: “perché vuoi l’arancia?”, veniamo a scoprire che una sorella ha sete e vuole l’arancia per fare una spremuta e l’altra ha fame e vuole la buccia per fare una torta. In questo caso, in presenza di una risorsa scarsa, una sola arancia e due persone che la vogliono, si crea una soluzione dove entrambe le sorelle soddisfano i loro interessi: il succo per quella che ha sete, la buccia per quella che ha fame. Se ci si fosse fermati alle posizioni, costituite dalle pretese delle parti, si sarebbe arrivati ad un compromesso (divisione dell’arancia in due parti, lasciando insoddisfatte entrambe le sorelle) o ad una rinuncia che implica che ognuna delle due sorelle debba rinunciare in tutto o in parte a quanto desidera.

î Cercare un accordo che soddisfi entrambi

Siamo comunemente portati a pensare che il conflitto debba avere come esito la vittoria di una parte sull’altra, la rinuncia di una delle parti oppure il compromesso (rinuncia in tutto o in parte a quanto desiderano). A fronte di un conflitto, soprattutto tra persone o gruppi che hanno relazioni che dureranno nel tempo, occorre tentare invece di far trovar loro un accordo

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che soddisfi entrambe le parti, partendo dagli interessi e dai bisogni che hanno espresso. In questo modo il conflitto diventa un’attività dialogica e gli accordi presi, sempre negoziabili, avranno una maggiore probabilità di essere mantenuti.

Assistere una vittima

La vittima, soggetto collettivo

Le vittime4 di un reato sono state tradizionalmente ignorate dai sistemi giuridici: nella maggior parte dei casi ci si concentra sulla figura dell’autore del reato, mentre la vittima viene pressoché ignorata o sentita solo in quanto elemento di prova del reato avvenuto. A partire dagli anni ’70 inizia una mobilitazione da parti di gruppi del settore pubblico e privato a sostegno dei diritti delle vittime. La vittimologia diventa una scienza autonoma, indipendente dalla criminologia (che si occupa del reo), e cresce la consapevolezza che le vittime abbiano subìto un danno non solo materiale, ma anche psicologico e morale, e necessitino dunque di un adeguato supporto non solo da chi gli è vicino, ma anche dalle istituzioni giudiziarie e dai servizi pubblici e privati. Quest’idea muove da una considerazione nuova della figura della vittima, non più considerata soggetto debole, fragile e che per questo merita aiuto, ma perché con la propria sofferenza vive una situazione che sarebbe potuta

capitare a chiunque. La vittima non si può lasciare sola perché non ha colpa per quello che le è successo, e chiunque potrebbe essere al suo posto: dunque la società deve darle aiuto e sostegno. Infatti se tutti,

potenzialmente, possono essere vittime, colui a cui davvero capita dev’essere aiutato dalla collettività e con strumenti collettivi. Diventa dunque importante considerare la vittima non solo una categoria giuridica, cui riconoscere diritti e protezioni specifiche, ma una persona, con tutto ciò che significa relativamente alla complessità e all’eterogeneità dei suoi problemi e delle sue esigenze. In termini operativi, questo vuol dire agire sia sugli strumenti della giustizia penale in relazione alle vittime, sia sui meccanismi di protezione sociale che possono rispondere ai bisogni del soggetto vittimizzato, e aiutare a recuperare quella fiducia nella collettività e nelle istituzioni che il reato ha fortemente messo in discussione. In generale il diritto penale si rivolge alla persona offesa dal reato in quanto

Si afferma una nuova visione della vittima

4

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soggetto contro cui è stato commesso un atto illecito. A questo soggetto spettano dunque dei diritti da far valere in ambito processuale. La Risoluzione dell’ONU del 1985 “Dichiarazione dei principi fondamentali di giustizia per le vittime di reato e abuso di potere”, primo documento ufficiale in materia, estende il focus d’interesse dalla vittima a tutte le persone che versano in stati di sofferenza (fisica, psicologica, materiale, morale, relazionale, ecc.) poiché violate nella propria integrità e dignità a causa delle azioni, o delle omissioni, patite. Slega cioè la condizione di vittima dall’iter processuale e dalla denuncia. Questo primo atto ufficiale è significativo perché, parlando di omissioni, pone l’attenzione sulla particolare condizione della vittima che, oltre a subire la violenza, rischia molto spesso l’indifferenza, la freddezza e a volte il sospetto da parte degli organi che per primi dovrebbero tutelare e sostenere il suo diritto di giustizia e di risarcimento. Si sottolinea che la vittima, oltre ad essere innegabilmente titolare di diritti che debbono essere fatti valere nella sede appropriata, è altresì un soggetto con nuovi bisogni, determinati dalla nuova condizione in cui si trova. Nella Raccomandazione (85)11 del 1985 promulgata dal Consiglio d’Europa relativa alla posizione della vittima nell’ambito del diritto e della procedura penale e in quella (87)21 del 1987 relativa all’assistenza alle vittime e alla prevenzione di ulteriore vittimizzazione5, vengono riassunte, alla luce di inchieste di vittimizzazione realizzate in numerosi paesi europei, le necessità delle vittime. Esse consistono principalmente: § nell’ottenere le informazioni necessarie sui propri diritti e sulle modalità

per ottenere il risarcimento del danno subìto; § nell’essere trattati dalle Forze dell’Ordine e

dagli operatori del sistema di giustizia in modo comprensivo e rassicurante, per evitare altre forme di vittimizzazione;

§ nella tutela della propria privacy e delle informazioni private, se non necessarie al procedimento giudiziario;

§ nell’essere protetti, all’occorrenza estendendo tale tutela ai propri familiari, da eventuali minacce o ritorsioni.

Sarebbe dunque compito di ogni sistema giuridico e di governo far sì che questi diritti vengano rispettati, favorendo iniziative di tutela dei diritti delle vittime, per migliorare la loro posizione nel sistema penale e garantire loro il miglior trattamento possibile. Oltre a questi elementi, emerge un altro bisogno prioritario della vittima: essere ascoltata e sostenuta nella sua sofferenza. L’identità della persona vittima di un reato non è più quella di prima, qualcosa si è rotto, in

I diritti e i bisogni delle vittime che

devono essere riconosciuti e tutelati

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particolare la visione di sé nel futuro e la sensazione di sicurezza che permeava le relazioni con il mondo e con gli altri. Diventa fondamentale fornire alla vittima percorsi di ascolto e accoglienza dei propri vissuti e delle proprie emozioni al fine di ricostruire l’equilibrio (psichico, emotivo e relazionale) che si è spezzato. La vittima deve dunque affrontare un percorso complesso di ricostruzione di un’identità ferita, e superare sentimenti di vergogna e colpa che mettono in difficoltà il proprio senso di autostima e di fiducia. La collettività e le istituzioni devono riconoscere le difficoltà di chi è vittima e farsene carico, in modo da permettere al soggetto di essere nuovamente parte attiva nella vita sociale e di ritrovare la serenità nei propri percorsi quotidiani. È evidente inoltre che, oltre alla dovuta attenzione per chi ha subìto un qualsiasi reato, tutte le attività che si propongono di sostenere e assistere una vittima contribuiscano in maniera significativa a ridurre il senso d’insicurezza che caratterizza le realtà urbane. Così, gli interventi di attenzione alla vittima e quelli di mediazione e di giustizia riparativa possono garantire un miglioramento della qualità dei rapporti tra cittadini, Forze dell’Ordine e istituzioni. Questo risultato è importante non solo per le vittime, ma perché crea una situazione positiva, riducendo il livello di tensione e favorendo processi di rassicurazione: fornire assistenza alla vittima la aiuta a lenire il suo senso di solitudine, che non viene così trasmesso alla cittadinanza, e in più il cittadino vede che l’intera collettività si farebbe carico dei suoi bisogni nel caso in cui si trovasse nella medesima circostanza.

La giustizia riparativa

La centralità della vittima nel sistema sociale e giudiziario è uno dei presupposti su cui si fonda la giustizia riparativa, un approccio che legge il fenomeno criminoso non solo come trasgressione di una norma e come lesione di un bene giuridico, ma anche come evento che provoca la rottura di aspettative e legami sociali e di fronte al quale occorre impegnarsi per la ricomposizione del conflitto (tra autore e vittima, tra comunità e vittima, tra reo e comunità) e per il rafforzamento del senso di sicurezza che è stato messo in crisi. I due modelli tradizionali di approccio alla giustizia sono quello retributivo e quello riabilitativo. Il primo ha come oggetto principale il reato: fa riferimento a un codice di leggi scritte e la pena, proporzionale al reato subìto, è la punizione del colpevole. Il secondo ha come oggetto l’autore del reato, lo scopo è il suo reinserimento sociale, e la pena viene considerata come un trattamento riabilitativo. Negli anni ’80 si assiste ad una messa in discussione di questi due modelli, dovuta da una parte agli eccessivi costi del sistema carcerario, alla crisi dello stato sociale e all’emergere sempre

* *

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più netto della centralità della figura della vittima, fino ad allora praticamente ignorata dai sistemi giudiziari e dai governi. La giustizia riparativa considera il reato non un’offesa verso lo Stato ma una lesione dei diritti della persona, e l’autore del reato non pagherà in astratto il suo debito attraverso la pena, ma direttamente alla vittima, riparando il danno con modalità concrete. Si fonda dunque sul recupero del senso di responsabilità dell’autore del reato, e considera il reato come un conflitto tra soggetti, entrambi orientati a risolvere le conseguenze materiali e emotive del comportamento criminale. È chiaro che non si tratta di un modello di giustizia che si sostituisce alla giustizia ordinaria, ma piuttosto di una prospettiva, di una lente con cui si osserva il reato e il contesto in cui si colloca. La giustizia riparativa si declina in differenti concrete modalità di accostamento al fatto criminoso, tutte accomunate dall’idea di una giustizia di prossimità, vicina al vissuto delle parti e della comunità. Ne ricordiamo qui le principali:

î le pratiche di mediazione, in particolare la mediazione civile nell’ambito di conflitti oggetto di una causa civile, e rispetto a conflitti che abbiano assunto rilievo penale, la mediazione reo - vittima (in Italia praticabile solo in ambito minorile) dove l’obiettivo non è solo il risarcimento, ma il ripristino di un sistema di relazione e comunicazione tra le parti: per la vittima la possibilità di esprimere sentimenti e difficoltà legate alla propria esperienza, per il reo di comprendere la natura e le conseguenze del fatto che ha commesso;

î le pratiche di risarcimento morale e materiale e/o riparazione del danno, sia in termini monetari che di servizio da svolgere, rivolte alla vittima o alla comunità;

î le attività di sensibilizzazione e formazione alla cultura della giustizia riparativa, rivolte a diversi soggetti sociali (operatori delle pubbliche amministrazioni, funzionari del sistema giuridico, personale scolastico, personale medico-infermieristico, Forze dell’Ordine, ecc.).

I centri di supporto alle vittime Il riconoscimento del fatto che le vittime abbiano subìto un danno e abbiano bisogno di assistenza materiale, ma anche emotiva e psicologica, è l’elemento centrale dei centri di supporto alle vittime. Esattamente sull’ascolto e sull’accoglienza si basa l’azione di questi centri, strutture da tempo presenti in molte realtà europee, ma praticamente assenti nella realtà italiana. Si tratta di centri previsti dalla già citata Raccomandazione (87)21 del Consiglio d’Europa in tema di assistenza alle vittime di reato e di prevenzione della vittimizzazione, nonché richiamati dalla Decisione Quadro del Consiglio dell’Unione Europea, del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima nel corso del procedimento penale e, più di recente, dalla Raccomandazione (2006) 8 in tema di assistenza alle vittime di reato6. Secondo quanto indicato in questi documenti tali centri dovrebbero garantire

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in particolare: § un sostegno di tipo medico-psicologico; § sussidi di tipo economico; § consulenza legale e orientamento nel sistema di giustizia; § sostegno prima, durante e dopo il processo; § formazione dei volontari e di chi si occupa di vittime; § sensibilizzazione al tema sul territorio, nelle scuole.

I centri di supporto alle vittime possono essere sia strutture pubbliche, dipendenti dai governi centrali e locali, sia strutture del privato sociale che interagiscono col settore pubblico, in termini sia di finanziamenti sia di valutazione e monitoraggio del servizio offerto. Si tratta di servizi gratuiti, aperti a tutti, gestiti da personale formato e competente. Il lavoro è svolto da un’équipe di operatori che lavora in rete con altri soggetti del territorio: Procura, Forze dell’Ordine, servizi sociali, altre associazioni che si occupano di vittime specifiche. A volte il sostegno avviene telefonicamente che garantisce una reperibilità 24 ore su 24 e la massima riservatezza. La richiesta di aiuto è libera e volontaria, e le decisioni prese nel percorso di aiuto sono fondate sul consenso e sulla consapevolezza: ad esempio una eventuale denuncia, il tipo di percorso legale e risarcitorio, l’allontanamento dalla propria casa saranno scelte effettuate sulla base delle effettive esigenze di quella persona e non di un protocollo stabilito a priori. Le principali funzioni degli operatori che operano nei centri sono pertanto: î ascoltare in modo attento e empatico i fatti ma soprattutto le emozioni e

la sofferenza che li accompagnano; î fornire informazioni e orientamento verso i centri, le associazioni, gli enti,

i servizi ed i professionisti che, più nello specifico, possono rispondere alle richieste di quel soggetto (sostegno psicologico, riparazione del danno subìto, protezione);

î fornire informazioni sul sistema di giustizia, su come muoversi al suo interno, su come scegliere un avvocato, sulla denuncia e sul processo. Per la vittima si tratta spesso di un ambiente nuovo, e necessita dunque di una consulenza legale, che le permetta di scegliere quali azioni intraprendere e di comprendere le conseguenze che avranno;

î accompagnare le vittime per compiti di tipo pratico, soprattutto quando si tratta di persone anziane, prive di rete sociale o in stato di marginalità, ad esempio in tribunale, in ospedale, presso artigiani per riparare i danni causati dal reato subìto;

î sensibilizzare i cittadini e le figure professionali del territorio alle

I centri di supporto come luoghi di

ascolto e accoglienza per le vittime

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problematiche concernenti la vittimizzazione ed elaborare programmi di prevenzione allo scopo di limitare le situazioni a rischio, in primo luogo facendo in modo che la società civile sia a conoscenza dell’esistenza delle strutture di supporto alle vittime e vi si rivolga in caso di necessità.

Due esempi di centri di supporto alle vittime in Europa

Nei Paesi in cui i centri di assistenza alle vittime di reato sono una realtà consolidata, essi operano in modo coordinato sia con il sistema giudiziario e le Forze dell’Ordine, sia con i servizi sociali e le associazioni del Terzo Settore. Si occupano delle vittime senza distinzione di tipo di reato. Tra le molte esperienze di centri presenti in Europa, si presentano due modelli – uno inglese e uno francese - particolarmente significativi e interessanti. Il Victim Support è una rete di centri sparsi su tutto il territorio britannico che fornisce sostegno psicologico e materiale e informazioni a tutta la comunità, con una particolare attenzione alle minoranze. Il contatto con le vittime può essere diretto, ma nella maggior parte dei casi sono le Forze dell’Ordine che segnalano alle persone la possibilità di essere contattate dai centri di sostegno, attraverso una telefonata o una lettera. I centri lavorano in rete con le associazioni che si occupano di reati specifici, cui inviare segnalazioni, quando serve. Forniscono inoltre assistenza durante il processo: sono presenti in tribunale, dove accolgono le vittime, i familiari e i testimoni per sostenerli emotivamente e fornire loro tutte le informazioni sull’iter processuale. In Francia l’INAVEM7 garantisce il coordinamento nazionale delle iniziative a favore delle vittime svolte a livello locale; raggruppa le associazioni del Terzo Settore che lavorando in collaborazione con gli operatori della giustizia (magistrati, avvocati, servizi sociali), assicurano servizi gratuiti di aiuto alle vittime. Tra queste una realtà particolare è quella delle Boutiques du droit, presenti su tutto il territorio nazionale: nate come centri di mediazione negli anni ‘80 in quartieri difficili, sostenute da magistrati e da avvocati che ritenevano che fosse il territorio il contesto dove i conflitti della quotidianità avevano origine e potevano essere risolti. Accanto a professionisti, in queste realtà sono stati anche coinvolti alcuni abitanti dei quartieri interessati, promuovendone la partecipazione attiva con l’obiettivo di creare un luogo di gestione dei conflitti che si riferisca al tessuto sociale sul quale si interviene. Negli ultimi anni questi centri si sono dedicati anche all’aiuto a vittime di reati minori, che pur creando meno allarme rendono pesante la vita di chi li subisce, offrendo percorsi di accompagnamento, informazione, e riparazione del danno.

Esperienze italiane

Sebbene le istanze formulate a livello europeo e internazionale non siano ancora state tradotte in concrete azioni legislative capaci di tutelare e sostenere in modo significativo chi ha patito un reato, va segnalato il

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Disegno di Legge n. 77 del 2008 per la realizzazione della legge quadro per l’assistenza, il sostegno e la tutela delle vittime di reati, che esprime importanti indicazioni concernenti appunto l’assistenza, il sostegno, la protezione e la tutela delle vittime dei reati. In particolare il progetto di legge quadro sancisce la predisposizione di “procedure giudiziarie ed extragiudiziarie per pervenire entro tempi ragionevoli alla riparazione del danno patrimoniale o non patrimoniale cagionato dal reato” (art. 3, comma 3, punto 3), si propone di “incoraggiare prima o durante il processo penale procedure di mediazione e di conciliazione tra la vittima e l’autore del reato” (art. 3, comma 3, punto 4). Inoltre è prevista l’istituzione presso ogni Ufficio Territoriale di Governo di uno Sportello per le vittime di reato, con il compito di fornire adeguata informazione alle vittime e di coordinare le attività delle varie istituzioni pubbliche e private operanti in questo settore sul territorio (art. 10). Attualmente, malgrado l’esistenza di documenti ufficiali, come quelli citati, l’esperienza italiana non dispone ancora di un servizio di assistenza alle vittime coordinato a livello nazionale ma solo di esperienze locali rivolte per lo più a vittime di reati specifiche. Sono molto rari servizi di assistenza alle vittime di reato in grado di operare a favore di vittime generiche, a prescindere dalle caratteristiche del soggetto vittima (età o sesso) e dalla tipologia del reato. Tuttavia, alcuni esempi sono sorti negli ultimi anni, riproponendo - adeguatamente riformulate - alcune esperienze europee. In particolare ricordiamo qui:

§ il Centro Sostegno alle Vittime di Reato8 di Milano, nato con la finalità di intervenire, attraverso il supporto e la presa in carico, in situazioni di vittimizzazione e di danno in seguito a reato. Il progetto offre due tipi di servizi connessi ed integrati: un Centro di ascolto telefonico che fornisce un primo supporto empatico, raccogliendo la richiesta d'aiuto e fornendo informazioni di carattere specifico, in relazione alle risorse presenti sul territorio, e un Centro di sostegno alle vittime di reato che fornisce non solo consulenze legali, criminologiche e psicologiche, ma anche interventi psicotraumatologici di accompagnamento e supporto nell'iter giudiziario;

§ la rete Dafne9 di Torino. Il progetto Dafne si rivolge alle vittime reato che abbiano sporto denuncia o querela. Dopo un primo colloquio di accoglienza, il servizio, completamente gratuito, può fornire, a seconda delle situazioni e d’accordo con la persona interessata,

Nel vuoto legislativo a livello nazionale, vi sono

importanti esperienze locali

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informazioni sui diritti, sostegno psicologico, un percorso integrato di trattamento psichiatrico e psicologico, percorsi di mediazione;

§ il Servizio Non da soli10 di Modena. Il Servizio "Non da soli" nasce per offrire accoglienza e sostegno ai cittadini che si trovano ad essere vittime di reati o a vivere situazioni di particolare difficoltà ed è gestito da cittadini che operano volontariamente. Gli sportelli svolgono attività di tipo informativo, di sostegno psicologico, di carattere legale e inoltre informano i cittadini su come ottenere un risarcimento destinato a coprire piccole spese per riparare il danno subìto.

In Italia esistono poi numerose realtà associative, talora sostenute dagli Enti locali, che si occupano di vittime specifiche, per il tipo di reato o per

caratteristiche anagrafiche. Questo significa che la vittima deve sapersi orientare a priori e saper formulare una richiesta di aiuto precisa, mentre sarebbe auspicabile un maggior ruolo degli operatori nell’orientare il soggetto in base

alla sua richiesta di aiuto. Si tratta per lo più di esperienze locali, basate su lavoro volontario, che svolgono un’importante funzione di sostegno alle vittime, ma il cui operato sarebbe valorizzato se esistesse un sistema di coordinamento centrale, e se potessero dunque fruire di maggiori risorse. Alcune di queste realtà sono costituite dalle vittime stesse e dai loro familiari in seguito ad un particolare evento: ad esempio associazioni di vittime della strada, o di vittime di stragi, come quella di Ustica o, più recentemente, il comitato per le vittime di incidente ferroviario, sorto per dare aiuto alle persone coinvolte nel disastro ferroviario di Viareggio del 2009. L’obiettivo in questi casi è quello di mantenere viva la memoria dei propri cari, e al contempo rivendicare i propri diritti in modo collettivo. Molto attivi, seppur ancor in modo non omogeneo sul territorio nazionale, sono i centri di sostegno alle donne che hanno subìto violenza fisica, sessuale, psicologica. La violenza sulle donne è un fenomeno a forte impatto sociale, anche in considerazione del fatto che i dati che emergono raccontano solo una parte delle violenze che si verificano. I centri di supporto alle donne vittime di violenza, sostenuti molto spesso dagli Enti locali, sono finalizzati a fornire consulenza legale, supporto psicologico, protezione, accoglienza e a sensibilizzare la comunità sul tema della violenza alle donne. I centri antiviolenza, le associazioni di tutela delle donne, i numeri verdi di aiuto svolgono un ruolo fondamentale non solo nella protezione e nell’assistenza di questa particolare categoria di vittime, ma anche nella formazione degli altri operatori che svolgono un ruolo

L’attività delle realtà associative e degli Enti locali a favore di categorie specifiche di vittime

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centrale nei percorsi di sostegno e affrancamento (Forze dell’Ordine, operatori sanitari, assistenti sociali). Un’altra categoria di vittime cui sono rivolte molte iniziative sono gli anziani, che vivono spesso una particolare condizione di fragilità che necessita di misure di protezione specifiche per riparare i danni dell’eventuale reato subìto, combattere le forme di isolamento sociale e favorire gli scambi intergenerazionali e la coesione sociale. Molti Enti locali propongono, attraverso il lavoro delle associazioni del territorio, servizi di aiuto che offrono: accompagnamento e orientamento in caso di furto, scippi e rapine; sostegno psicologico; forme di riparazione e di risarcimento; campagne di prevenzione e sensibilizzazione. Infine segnaliamo i centri per la tutela dei minori, dei consumatori e quelli per le vittime dell’usura, che presentano caratteristiche molto articolate e specifiche, sia dal punto di vista normativo che operativo.

Gli interventi della Regione Piemonte a sostegno delle vittime La l.r.23/2007 della Regione Piemonte contiene alcuni richiami ai temi della mediazione dei conflitti e dell’assistenza alle vittime di reato. I riferimenti più rilevanti sono quelli di cui all’art 5, comma 1, lettera b) e d), che definisce le priorità dell’azione regionale” “le pratiche di mediazione dei conflitti sociali e di riduzione del danno riconducibili alle competenze istituzionali della polizia locale; (..) gli interventi di assistenza e aiuto alle vittime dei reati”; all’art 9, comma 3, lettera f), g) e h) che individua le tipologie di azioni che possono essere sviluppate attraverso un patto locale per la sicurezza integrata, in particolare “lo sviluppo dell'attività di mediazione e di prevenzione dei conflitti sociali e culturali; l'assistenza e l'aiuto alle vittime dei reati; le politiche di sicurezza di genere e di tutela dell'infanzia e degli anziani”. In materia di tutela delle vittime dei reati, poi si deve ricordare anche l’articolo 4, comma 1, nel quale si afferma l’impegno della Regione Piemonte nel promuovere e sostenere interventi di assistenza e aiuto alle vittime promossi dagli Enti locali e dai consorzi dei servizi sociali e finalizzati all’attivazione di servizi di: a) informazione sugli strumenti di tutela garantititi dall'ordinamento; b) assistenza psicologica, cura e aiuto alle vittime, con particolare riferimento alle persone anziane, ai soggetti diversamente abili, ai minori di età, alle donne e alle vittime di violenze e reati gravi, di violenze e reati di tipo sessuale e di discriminazione razziale; c) tutela delle donne, sole o con minori, indipendentemente dal loro stato civile o dalla loro cittadinanza, che vivono in situazioni di disagio o difficoltà, che subiscono violenza o minaccia di violenza, in tutte le sue forme, fuori o dentro la famiglia, anche mediante i centri antiviolenza a favore delle donne e dei minori inseriti tra gli strumenti di programmazione territoriale previsti dalla legge regionale 8 gennaio 2004, n. 1;

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d) assistenza all'accesso ai servizi sociali e territoriali necessari per ridurre il danno subito ed alla collaborazione per lo svolgimento delle connesse attività amministrative.

Nei quattro anni di attuazione della l.r. 23/2007 molti sono stati gli interventi realizzati sul territorio regionale che hanno messo in campo, attraverso progetti pilota o patti locali, azioni di mediazione sociale e gestione dei conflitti (ad esempio gli sportelli di mediazione e accompagnamento alla risoluzione di problematiche sociali e territoriali, l’attività di formazione agli insegnanti e dirigenti scolastici sulle pratiche di mediazione dei conflitti nelle scuole, gli interventi di sensibilizzazione sul tema della giustizia riparativa e sperimentazione di interventi di riparazione con persone in esecuzione di pena) o azioni volte alla tutela e assistenza alle vittime di reato o violenza (sportelli di counselling per le donne vittime di violenza, polizze di assicurazione per anziani vittime di reati, attività di formazione e sensibilizzazione sui rischi per i minori legati all'uso di internet e dei social network). Oltre alla promozione di interventi di tutela e aiuto nei confronti delle vittime dei reati, la legge regionale prevede anche l’adozione di misure di solidarietà a favore delle vittime di atti di terrorismo e di criminalità. È stato istituito, all’articolo 12, un Fondo di solidarietà per gli appartenenti alle Forze Armate, alle Forze dell'Ordine, ai Vigili del Fuoco e alle Forze di Polizia Locale piemontesi e per i civili piemontesi deceduti o resi invalidi permanentemente a causa di atti terroristici o di criminalità compiuti nel territorio italiano o all’estero. Le modalità di gestione del Fondo di solidarietà sono state adottate dalla Giunta Regionale con Determinazione n.19-9641 del 22 settembre 2008. Dalla sua entrata in funzione ad oggi, le somme erogate a favore delle vittime o dei loro eredi ammontano a 30.000 euro. È inoltre importante menzionare altre normative regionali che riguardano i temi legati all’assistenza e alla tutela dei cittadini. La prima è la l.r. 58 del 30 novembre 1987 che delinea le funzioni, i compiti e le competenze degli addetti al servizio di Polizia Locale. Affinché gli agenti del servizio di Polizia locale siano in grado di operare come figura di riferimento per le esigenze e necessità della popolazione e di primo supporto per i cittadini in difficoltà, l’articolo 9 sottolinea l’importanza di garantire loro l’acquisizione di una adeguata professionalità che permetta di “instaurare con il cittadino un rapporto di reciproca fiducia atta ad agevolare l’espletamento delle funzioni degli agenti di Polizia locale”. Un’ulteriore normativa è relativa alla tutela delle vittime della violenza di genere, la legge n. 11 del 17 marzo 2008. La legge ha istituito un Fondo di solidarietà per il patrocinio legale alle donne vittime di violenza e maltrattamenti, a seguito della quale è stato approvato il Regolamento di attuazione, le convenzioni con i Consigli degli Ordini degli Avvocati piemontesi e l’affidamento a Finpiemonte s.p.a. per la gestione del Fondo. In ultimo, va evidenziata la legge n. 16 del 29 maggio 2009 che istituisce i centri antiviolenza con case rifugio.

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Note 1 Hall ha definito e misurato quindi quattro "zone" interpersonali: la distanza intima (0-45 cm), la distanza personale per l'interazione tra amici (45-120 cm), la distanza sociale per la comunicazione tra conoscenti o il rapporto insegnante-allievo (1,2-3,5 metri), e la distanza pubblica per le pubbliche relazioni (oltre i 3,5 metri). 2 La Corte Costituzionale ha di recente dichiarato l’illegittimità, per eccesso di delega legislativa, del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, che ha introdotto la media-conciliazione nelle controversie civili e commerciali, nella parte in cui si prevedeva il carattere obbligatorio della mediazione, mentre rimane valida la parte relativa alla mediazione facoltativa. 3 Un esempio di intervento territoriale è il Progetto Mediazione Sociale Esquilino, http://progettomediazionesociale.blogspot.it/. 4 Il termine “vittima” fa riferimento a “ogni persona fisica che ha subito un danno, compresa una lesione alla sua integrità fisica o mentale, una sofferenza morale o un pregiudizio economico, causato da atti o omissioni che violano il diritto penale”. Il termine comprende anche, all’occorrenza, i parenti più prossimi o le persone a carico della vittima diretta. 5 Si chiama “vittimizzazione primaria” il processo diretto a provocare un danno fisico, mentale, emozionale o economico alla vittima tramite la commissione di un reato o l’esposizione a minacce, mentre è definito “vittimizzazione secondaria” il processo di ulteriore vittimizzazione che può essere provocato da un atteggiamento di insensibilità nei confronti della vittima da parte delle forze di polizia, del sistema sanitario, sociale e giudiziario e della comunità in generale (per esempio il fatto di non fornire assistenza e informazioni o di attribuire alla vittima responsabilità dell’accaduto). 6 Si tratta di un documento adottato per ora solo dal Comitato europeo sui problemi criminali del Consiglio d’Europa nella sessione plenaria del 3-7 aprile 2006. 7 Institut d’aide aux victimes et de médiation. 8 http://www.cipm.it/progetto_centro_vittime.asp 9 http://retedafnetorino.it/ 10 http://www.comune.modena.it/politichedellesicurezze

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Capitolo 9 La società plurale. Le politiche di integrazione come strumento per la sicurezza dei cittadini di Valeria Ferraris e Silvia Demma 1. Introduzione .…………………...…………….………...........................p. 275 2. Il concetto di integrazione …………………..………..…...................p. 276 Integrazione. Modelli a confronto Il modello italiano: l’integrazione ragionevole Misurare l’integrazione. Gli indicatori 3. Immigrazione, sicurezza e criminalità ...........................................p. 286 Integrazione e devianza Le forme della devianza e criminalità straniera Immigrazione, percezioni e rappresentazioni 4. Integrazione e Polizia Locale ……….…….……….……….…………p. 294 Il ruolo e la responsabilità della Polizia Municipale nella società multiculturale La polizia nella società multiculturale: alcune esperienze europee Percorsi e azioni concrete verso l’integrazione nell’esercizio quotidiano delle funzioni di Polizia Locale L’azione del Settore Polizia Locale e Politiche per la Sicurezza della Regione Piemonte in materia di diritto dell’immigrazione Note ………………………..……………………...………..………….........p. 307

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Introduzione

Questo capitolo affronta il tema delle politiche di integrazione in relazione alle politiche di sicurezza. Si cerca, cioè, di chiarire i rapporti tra integrazione, devianza e criminalità, e di individuare quale ruolo può essere svolto dalla Polizia Municipale nell’ambito delle politiche di integrazione. A tal fine il capitolo si compone di un primo paragrafo in cui si presenta sinteticamente il concetto di integrazione, illustrandone i diversi modelli e le specificità di quello italiano. La parte conclusiva del paragrafo è dedicata alle difficoltà di misurazione del concetto di integrazione e agli indicatori elaborati dagli studi sino ad oggi effettuati. Il secondo paragrafo si sofferma sull’antinomia tra integrazione e devianza e presenta le principali forme della criminalità straniera. La parte conclusiva è dedicata all’illustrazione delle percezioni e rappresentazioni dominanti in Europa e in Italia sull’immigrazione, fattori che com’è noto influenzano le politiche. L’ultimo paragrafo, infine, contiene un approfondimento sul ruolo e sulla funzione della Polizia Locale all’interno della società italiana caratterizzata dall’affermarsi del fenomeno migratorio che ha progressivamente fatto dell’Italia un importante paese di immigrazione. A partire dall’evoluzione

delle funzioni della Polizia Locale in materia di sicurezza urbana, sono individuati alcuni ambiti operativi in cui l’azione di questi operatori può favorire nelle città

l’inserimento e la convivenza tra cittadini di diversa provenienza. Nel descrivere alcune iniziative avviate di recente in alcune città italiane, ci si sofferma, attraverso l’esperienza della Regione Piemonte, sull’importanza delle iniziative formative e informative al fine di innalzare la qualità del servizio reso ai cittadini. Non è semplice parlare di politiche di integrazione calandole nella concretezza della vita delle città e dell’operato della Polizia Municipale. Si è quindi cercato di guidare il lettore in un percorso che a partire dall’illustrazione teorica delle problematiche si calasse nelle esperienze di formazione e di intervento svolte dalla stessa Polizia Municipale, in modo da fornire utili strumenti di comprensione di una questione complessa e di grande attualità.

Integrazione: un concetto complesso

e difficile da misurare

La Polizia Municipale: un ossibile facilitatore dell’ integrazione

1

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Il concetto di integrazione

Integrazione. Modelli a confronto La definizione di integrazione quale “processo attraverso il quale gli immigrati diventano una parte accettata della società di accoglienza” (Caponio, 2009, p. 24) enuclea alcuni elementi di complessità della questione. Innanzitutto, il riferirsi all’integrazione come ad un processo evidenzia quanto questa risulti da un complesso di cambiamenti e trasformazioni. Non a caso, nel corso del tempo i diversi Stati interessati dal fenomeno hanno sviluppato specifiche politiche di integrazione volte a disciplinare i diritti civili, politici e sociali degli immigrati. Parte della complessità è data dal fatto che gli immigrati non costituiscono un gruppo omogeneo per età, sesso, nazionalità, religione, livello di istruzione, ragione che ha indotto a migrare e quindi interesse e disponibilità ad integrarsi. Diverso è infatti il caso del giovane con formazione di alto profilo da quello della persona in fuga dalla povertà o dalla guerra o, ancora, da chi intende ricongiungersi con il familiare già insediato. A queste differenze si aggiunge poi l’insieme di delicate questioni poste da quanti sono nati o cresciuti nello Stato di accoglienza: gli immigrati di seconda generazione. D’altra parte molte ragioni possono indurre i paesi meta di immigrazione ad aprire le proprie frontiere in una qualche misura e non solo per rispondere ad emergenze umanitarie. L’arrivo dei migranti può, infatti, colmare carenze di manodopera e contenere gli effetti del deficit demografico anche sul disavanzo pubblico. Nel tempo, ed in particolare nell’ultimo decennio caratterizzato da una serpeggiante crisi economica e dalla contrarietà crescente nell’opinione pubblica, le politiche di immigrazione, volte a

regolare ingressi, permessi di soggiorno ed espulsioni, hanno teso sempre più ad intrecciarsi con le politiche di integrazione, nel tentativo di ridurre le cause di tensione. In ambito europeo l’accettazione della presenza degli immigrati ha seguito tre impostazioni, tra

loro molto differenti. In un caso - con l’assimilazionismo (più propriamente assimilazionismo inclusivo) - si intendeva parificare gli stranieri ai nativi, in quanto individui,

L’integrazione: un processo soggetto a

evoluzione

Le politiche di integrazione: assimilazionismo, multiculturalismo, l’ottica funzionalista- utilitarista

2

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nella sfera pubblica, relegando alla sfera strettamente privata le specificità culturali. È questo il modello sviluppato in particolare in Francia, dove ad esempio nel 2003 in nome del principio della laicità dello Stato nelle scuole pubbliche è stato vietato l’uso di abbigliamenti ed accessori che facessero riferimento a qualsiasi confessione religiosa. La seconda impostazione fa riferimento al multiculturalismo (inclusivo), nel quale le specificità culturali dei nativi e degli immigrati avevano pari dignità in nome del pluralismo e del rispetto reciproco. Questo modello ha avuto applicazione, in particolare, in Gran Bretagna, Olanda e Svezia. Il terzo approccio, infine, intendeva massimizzare i benefici per la comunità ospitante, in un’ottica funzionalista-utilitarista escludendo per quanto possibile il radicamento degli immigrati (Basili, 2006). La temporaneità della permanenza era ben definita dal termine tedesco “Gastarbeiter (lavoratore ospite)”, proprio perché in Germania questo modello è stato lungamente adottato. Tale modello si caratterizzava per l’eguaglianza nel trattamento salariale e un forte disincentivo ai ricongiungimenti familiari. A partire dagli anni ’90, però, un concorso di eventi ha indotto i singoli Stati europei a modificare, anche sensibilmente, il proprio indirizzo in materia. Sulla scena hanno fatto irruzione cambiamenti politici e economici di rilievo. In contemporanea, entrambi i modelli inclusivi rivelavano i propri limiti. In Francia, le tensioni nelle banlieues - quartieri periferici delle grandi città abitati prevalentemente da immigrati - rendevano evidente il disagio sociale, dimostrando quanto l’uguaglianza formale tra nativi ed immigrati faticasse a tradursi in uguali opportunità, in particolare per i giovani (si veda Lagrange e Oberti, 2006). La confessione religiosa diventa l’emblema delle differenze non rimosse dall’assimilazionismo: in Francia risiedono oltre 6 milioni di musulmani, in gran parte provenienti dalle ex colonie in Nord Africa. Così, se da un lato si rivendicava il diritto soggettivo a manifestare la propria appartenenza culturale, tra i nativi si consolidava la richiesta di preservare l’identità nazionale tradizionale. I nativi avanzavano la stessa richiesta anche in Olanda, che del multiculturalismo pareva essere l’esempio più avanzato. In Gran Bretagna, infine, dove i flussi di immigrati

dal resto del Commonwealth avevano dato l’illusione di un patrimonio culturale condiviso, a cominciare dalla lingua, si assisteva invece al formarsi di enclave etniche. Il rapido susseguirsi

di eventi drammatici - l’11 settembre 2001, l’uccisione del politico olandese Fortuyin nel 2002 - unito all’affermarsi di partiti politici di impronta xenofoba - hanno contribuito ad alimentare il dibattito sul tema dell’integrazione e ad

La crisi dei modelli di integrazione

La cornice unitaria europea e le libertà degli Stati

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orientare le scelte successive. L’Unione Europea è intervenuta sulla materia ed ha fornito degli indirizzi con direttive e raccomandazioni, senza però mettere in discussione la sovranità dei singoli Stati che, infatti, presentano tutt’ora quadri normativi eterogenei rispetto alle condizioni di ammissione e soggiorno per gli stranieri, e agli strumenti per favorire l’integrazione. Una cornice normativa unitaria emerge dal Trattato di Amsterdam del 1997 e dalle direttive n. 2000/43/CE (parità di trattamento fra le persone indipendentemente da razza ed origine etnica); n. 2000/78/CE (parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro); n. 2003/109/CE (status dei cittadini non UE residenti in uno Stato membro da almeno 5 anni) e n. 2009/50/CE (cittadini non UE altamente qualificati). Nell’insieme, se da un lato l’Unione Europea ha teso ad arginare le tentazioni discriminatorie, dall’altro ha concesso ai singoli Stati di porre delle condizioni per ottenere lo status di lungo residenti (conoscenza della lingua, delle istituzioni) e di conseguenza per accedere ad alcuni diritti dei cittadini comunitari. Con le raccomandazioni contenute nel documento Common Basic Principles for Immigrant Integration Policy in the European Union (CBP) del 2004 si esplicitano gli elementi cardine del nuovo modello di integrazione, neo-assimilazionista esclusivo. Gli Stati sono sollecitati ad istituire progetti che consentano agli immigrati l’apprendimento della lingua, della storia e delle istituzioni della società ospite. L’obiettivo nel breve periodo è di fornire agli immigrati strumenti per districarsi nella nuova vita (lavoro, casa, scuola) mentre nel lungo periodo è quello di porre le basi per una conoscenza della lingua e della cultura della società ospite, nel rispetto della lingua e cultura d’origine. Sarà poi onere dello straniero cogliere le opportunità che gli sono offerte e contribuire in prima persona al successo delle politiche di integrazione. Declinato a livello nazionale, questo insieme normativo si traduce in forme di selezione dei migranti, cui è chiesto di dimostrare una certa propensione all’integrabilità. La sperimentazione del nuovo modello, partita nei paesi di immigrazione matura, si è estesa progressivamente al resto dell’Europa, seppure con strumenti molto diversi. In alcuni casi, come in Olanda e in Germania, la conoscenza della lingua è un pre-requisito di accesso, mentre in altri paesi tra cui la Francia e l’Italia, si è scelta una strada più negoziale (come i Contrat d’accueil et d’intégration). La differente implementazione di questo nuovo modello neo-assimilazionista è legata ad una molteplicità di fattori, non ultima la pressione dell’opinione pubblica, sensibile ad alcuni aspetti piuttosto che ad altri. Data la breve esperienza maturata, non sono ancora disponibili esempi che confermino l’efficacia

Nuovi modelli e prove di

integrazione

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duratura del modello o degli strumenti. Va peraltro ricordato che il fatto di essere meta di immigrazione da più o meno tempo pone, sul versante dell’integrazione, sfide molto diverse ai singoli Stati dell’Unione, tanto quanto le tendenze di sviluppo, in questa fase piuttosto divaricate. La tutela, più o meno accentuata, di tratti distintivi della società di accoglienza propria di questo modello non deve però distogliere l’attenzione dal fatto che il processo di integrazione coinvolge anche altri aspetti e che dunque le politiche relative possono essere ampiamente articolate, anche a livello locale e non solo nazionale. Per chiarezza espositiva, si riprende lo schema proposto da Zincone (2009, p. 7-67) che di una politica di integrazione distingue tre obiettivi, non necessariamente escludentesi a vicenda, tre aree di intervento e tre possibili livelli di integrazione dello straniero nella società di accoglienza. Una politica di integrazione degli immigrati può: î avere come obiettivo

§ il benessere degli stranieri, § l’impatto positivo sulla società di accoglienza, § il basso conflitto e l’interazione positiva tra stranieri di diversa

provenienza e tra stranieri e nativi; î essere attivata nell’area di intervento:

§ sociale ed economica (lavoro, casa, salute, istruzione); § culturale e religiosa (tradizioni, alimentazione, culto); § pubblica e civile (associazioni, sindacati, partiti).

î essere graduata in base ad un livello di integrazione che fa percepire allo straniero: § il riconoscimento dei suoi diritti; § l’esistenza di effettive opportunità e condizioni equiparabili ai nativi; § il riconoscimento e l’accettazione della sua differenza.

Si pensi ad uno Stato ipotetico, del quale si voglia esaminare il livello di integrazione osservando le politiche in materia di assistenza sanitaria, di partecipazione politica e di rispetto delle tradizioni. Un insieme di elementi potrà rivelare politiche in materia di assistenza sanitaria tese a ottenere un impatto positivo nella società di accoglienza e allo stesso tempo volte a far percepire allo straniero che gli sono riconosciuti dei diritti. Si riscontreranno, ad esempio, servizi diffusi di mediazione culturale utili a superare quelle barriere - linguistiche, di pudore, alimentari - che possono far percepire cure od ospedalizzazione come intrusive, irrispettose e quindi da evitare. Saranno inoltre presenti interventi mirati ad impedire il ricorso a pratiche tradizionali offensive dell’integrità fisica, pur nel rispetto della cultura di

L’integrazione: un oggetto mutevole

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appartenenza dell’immigrato. In quel contesto, probabilmente, si riscontrerà un ricorso ai servizi d’urgenza - ai quali di norma ci si rivolge quando ormai la situazione è degenerata - ed ai servizi specialistici e di prevenzione da parte degli immigrati pressoché simile a quello dei nativi. Politiche mirate a conseguire questi risultati, senza dubbio onerose, riveleranno dei benefici anche per i nativi, poiché sarà tutelata la salute collettiva, arginando, ad esempio, il diffondersi di epidemie. Saranno inoltre contenute le tensioni nei

luoghi di cura, dove è primaria l’esigenza di mantenere la serenità - degli operatori e dei pazienti - per giungere ai migliori risultati. Nel medesimo contesto, apparentemente molto

disponibile ad accogliere positivamente la diversità, potrebbero però vigere normative in materia religiosa molto rigide ed il rispetto di alcune tradizioni degli immigrati potrebbe essere tenacemente ostacolato perché in aperto contrasto con la tradizione e la sensibilità religiosa dei nativi. Infine, in materia di partecipazione politica, la normativa potrebbe prevedere ostacoli insormontabili per un immigrato nell’accedere a cariche pubbliche elettive in base al requisito della nazionalità. Queste tre politiche di integrazione possono coesistere all’interno di un medesimo Paese in quanto si riferiscono a aree diverse di intervento per le quali lo Stato ricevente si può porre obiettivi differenti. L’adesione ad un modello è quindi il risultato del prevalere, nel complesso, di un obiettivo rispetto agli altri, e dalla combinazione delle azioni nelle diverse aree e dei livelli raggiunti.

Il modello italiano. L’integrazione ragionevole

Nel caso italiano, il legislatore ha articolato le politiche rivolte all’immigrazione in più riprese, in particolare modulando la normativa relativa agli ingressi. La prima legislazione in materia di immigrazione, del 1986, recepiva la convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro n. 173 del 1975 sui diritti dei lavoratori migranti. La legge rifletteva un Paese ancora proteso a proteggere i numerosissimi connazionali all’estero piuttosto che a disciplinare l’immigrazione verso l’Italia che cominciava ad essere una realtà. Il successivo intervento, nel 1990, con la legge 39, denominata legge Martelli, è invece legato al drammatico evento dell’uccisione del sindacalista sudafricano Jerry Masslo. Si introdusse una prima normativa relativa ai richiedenti asilo e soprattutto. oltre a una procedura per regolarizzare la presenza di quanti già risiedevano in Italia, si cominciò a regolare l’afflusso

L’Italia: dalla emigrazione alla

immigrazione

In uno Stato possono coesistere politiche di integrazione diverse

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di nuovi migranti. Il quadro continuava però a risultare poco organico, gravato dal sovrapporsi di circolari ministeriali e da strumenti di contrasto al lavoro illegale degli stranieri poco efficaci (Bonetti, 2004). L’evoluzione successiva, con la legge 40 del 1998 denominata Turco-Napolitano, ricomprendeva in un’unica cornice la parte relativa agli ingressi con l’indirizzo da dare alle politiche per l’integrazione. Si proponeva un modello definito di integrazione ragionevole, nel quale misure mirate a contrastare l’immigrazione clandestina e a consentire un afflusso controllato e regolato si coniugavano a interventi volti a favorire una positiva convivenza. L’intervento teneva conto dell’esperienza maturata negli anni precedenti in cui l’Italia aveva assistito ad un numero consistente di arrivi di clandestini, assorbiti in parte in circoli virtuosi ed in parte, viceversa, dalla criminalità. Queste misure possono essere interpretate come un tentativo di coniugare più strategie. Da un lato, infatti, si istituivano strumenti volti ad escludere dal territorio italiano gli stranieri potenzialmente pericolosi e dall’altro si stimolava il positivo inserimento di quanti giungevano in Italia con intenzioni pacifiche. In questo modo si tentava di prevenire il clima nel quale il singolo si perde in un indistinto “loro” contro il quale arroccarsi in un “noi”, rafforzato dall’appartenenza identitaria, a quel punto bandiera di contrapposizioni foriere di scontri anche drammatici (Basili, 2006). Il modello si ispirava ad un’interazione basata sulla sicurezza, frutto anche dell’accettazione reciproca, entro comunque i “princìpi universali come il valore della vita umana, della dignità della persona, il riconoscimento della libertà femminile, la valorizzazione e la tutela dell'infanzia, sui quali non si possono concedere deroghe, neppure in nome del valore della differenza”, come esplicitato dal DPR 5 agosto 1998, primo documento programmatico relativo alla politica dell'immigrazione emanato in attuazione dell'art. 3 della legge 6 marzo 1998, n. 40, punto 1, parte 3. Si individuavano nello Stato, negli Enti locali (Regioni, Province, Comuni) e nella fitta rete di associazioni presenti sul territorio i promotori dell’integrazione, da finanziare attraverso il Fondo nazionale per le politiche migratorie. Successivamente, nel 2002, è emanata la legge 189, nota come Bossi-Fini, che interviene a modificare il testo precedente. Questa ha introdotto vigorose misure per il contrasto dell’immigrazione clandestina tese ad ostacolare gli ingressi e la permanenza. Non è invece stato modificato l’impianto del modello di integrazione. Con la riforma in senso federalista, la

L’integrazione ragionevole: contrasto all’immigrazione

clandestina, flussi controllati e interventi per

favorire la convivenza

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titolarità dell’azione viene attribuita alle Regioni, ed il meccanismo di finanziamento del Fondo per le politiche dell’integrazione viene modificato. I decreti sui flussi, che in teoria dovrebbero permettere l’ingresso dall’estero di potenziali immigrati, continuano a rivelarsi lo strumento per regolarizzare la presenza di stranieri già in Italia, come dimostrano le domande presentate nel 2006, 520.000 a fronte dei 120.000 ingressi preventivati. Sebbene negli anni successivi una simile forbice non si sia più ripresentata, anche perché nel frattempo rumeni e bulgari sono diventati cittadini europei, il dato sollecita a non dimenticare la peculiare strutturazione dell’economia italiana. Questa, caratterizzata da un’ampia area sommersa, stimata al 15% del PIL, assorbe, almeno nella prima fase di permanenza, una parte consistente di immigrati. È però nella situazione di precarietà che spesso accompagna il lavoro irregolare che si insinua il rischio della devianza (Ferraris, 2012, p. 61). Negli ultimi anni non vi sono stati nuovi provvedimenti legislativi in materia di integrazione. Emerge però in misura sempre più rilevante la presenza di richiedenti asilo per motivi umanitari o politici. La loro presenza in Italia, legata ai forti sommovimenti nell’area mediterranea, sollecita ad attuare, in modo costante ed attento, strategie finalizzate all’integrazione.

Misurare l’integrazione. Gli indicatori

Già nel capitolo 3 si è fatto riferimento agli indicatori quali strumenti per rappresentare i fenomeni e poterne rilevare la consistenza, i mutamenti nel tempo e l’efficacia delle politiche. Nel caso dell’integrazione, la questione non è solo di affinare i metodi di rilevazione ed elaborazione dei dati, ma anche e soprattutto di formulare in modo adeguato gli strumenti teorici per indirizzare la ricerca e decodificare i dati raccolti. La stessa domanda su cosa indagare è mutata nel tempo, risentendo dell’esperienza in tema di immigrazione e dello specifico contesto culturale entro cui si svolgono le ricerche. Negli Stati Uniti, dove negli anni ‘30 hanno preso le mosse i primi studi sul fenomeno, a lungo ha prevalso l’impostazione della scuola di Chicago. Veniva misurato il grado di assimilazione al contesto dei nuovi arrivati, fase finale del ciclo di inclusione dei migranti all’interno del crogiolo culturale. Se da un lato gli immigrati potevano apportare dei contributi, dall’altro era previsto che plasmassero le proprie ambizioni e stili di vita al modello wasp (white anglo saxon protestant), in base ai parametri individuati come rivelatori di un percorso completato con successo. Date le premesse, l’osservazione si dirigeva

Dai primi tentativi di misurare l’integrazione

alla comprensione della multidimensionalità del

fenomeno migratorio

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quindi allo studio delle strategie perseguite dai diversi gruppi di immigrati, principalmente nei contesti urbani, per adeguarsi al modello dominante. In Europa, viceversa, l’attenzione si è inizialmente concentrata sull’integrazione e nello specifico sui processi avviati nei vari Stati per rendere gli immigrati parte integrante della società. Nel corso dei decenni entrambi gli approcci hanno mostrato limiti nella capacità di interpretare un processo di lungo periodo. Abbandonate le prospettive originarie, eccessivamente semplicistiche, il dibattito è giunto, dopo successivi aggiustamenti, ad accogliere una visione multidimensionale del fenomeno: poiché diverse sono le dimensioni della vita - economica, sociale, politica - il processo può evolversi in modi differenti in ciascuna di esse, anche in relazione alle strategie individuali e di gruppo degli immigrati e dei contesti in cui sono inseriti. Si sono aperti quindi filoni di ricerca sui singoli aspetti, con metodi diversi: alla raccolta di dati quantitativi utile al raffronto tra gli standard di vita degli immigrati rispetto ai nativi o alla comparazione tra diverse realtà, si affianca l’indagine di tipo qualitativo, volta ad esaminare in profondità casi studio e capace di fornire indicazioni sulle modalità in cui avviene l’integrazione. Conferma ulteriore della complessità del fenomeno è la definizione stessa di

immigrato. Considerare, ad esempio, solo quanti sono nati all’estero e non hanno la cittadinanza del paese di residenza esclude quanti hanno già completato l’iter della naturalizzazione in virtù dello jus domicilii

oppure - negli Stati come la Francia dove vige lo jus soli che attribuisce automaticamente la cittadinanza ai nati sul territorio - le generazioni successive, o gli immigrati che hanno ottenuto la cittadinanza grazie allo jus sanguinis, come avviene nel caso dei discendenti degli italiani all’estero. La questione è di primaria importanza, soprattutto quando i dati sono ricavati da rilevazioni ufficiali - censimenti, banche dati delle anagrafi - per le quali occorre verificare quale siano le definizioni adottate, in particolar modo quando si vuole comparare dati di Paesi diversi. Oltre alle difficoltà di definizione, sulla raccolta dei dati incidono anche modalità di raccolta differenti e non sempre tra loro compatibili, problema che l’Unione Europea sta cercando di affrontare attraverso il finanziamento di progetti di ricerca comuni. Nel caso di dati ufficiali insufficienti o assenti è comunque possibile procedere con l’indagine sul campo, utilizzando diversi metodi di rilevazione (ricerca qualitativa, quantitativa, esperimenti nella realtà).

La definizione di immigrato: un esempio della complessità del fenomeno migratorio

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Da quanto sin qui detto, risulta evidente quanto sia impegnativo individuare batterie di indicatori in grado di cogliere, il più fedelmente possibile, l’effettivo manifestarsi dei diversi aspetti del processo di integrazione all’interno delle tre dimensioni individuate: socio-economica, socio-culturale, politico-identificativa. Sulla necessità di più indicatori è presto detto: fare, ad esempio, riferimento al solo tasso di occupazione, un indicatore sicuramente importante, poco rivela sull’effettiva integrazione nella sfera socio-economica degli immigrati, se non accompagnato da indicatori relativi a reddito medio, tipo di contratto di lavoro, settore di impiego, eventualmente comparati a quelli dei nativi, a parità di sesso, livello di istruzione, età, carico familiare. Batterie di indicatori selezionati possono dunque fornire informazioni su aspetti specifici, con l’avvertenza che numerose variabili intervenienti possono “inquinare” il quadro registrato. Tassi elevati di imprese avviate da immigrati - indicativi, in teoria, di buone competenze professionali, ma anche linguistiche, normative e fiscali - possono al contrario celare forme di precarizzazione del lavoro, se prevale la formula della ditta individuale, come nel caso del settore edile, dove non è infrequente il fenomeno distorsivo dei lavoratori titolari di Partita Iva, ma in posizione di subordinazione. L’indagine strutturata per batterie di indicatori può rilevare aspetti dell’integrazione sia al livello micro sia a quello macro dell’Unione Europea, e consentire, attraverso l’analisi comparata, aggiustamenti. È evidente che non saranno utilizzati gli stessi indicatori nei due casi, ma che simile deve essere l’attenzione nel selezionarli. Nella tabella che segue sono presentati alcuni esempi concreti di indicatori tratti da ricerche realizzate di recente: l’una, condotta dallo CNEL, è a livello nazionale (CNEL, 2009); l’altra, per conto della Regione Piemonte (Busso, Manocchi, 2008), rileva invece il fenomeno su scala locale. La scelta degli indicatori è condizionata da una molteplicità di fattori, inclusa l’accessibilità di dati comparabili per tutto il territorio oggetto di studio oppure la loro “freschezza” temporale (ad esempio, i dati raccolti ogni 10 anni, come quelli del Censimento, rischiano di essere fuorvianti per l’analisi di un fenomeno in evoluzione come questo), elementi che tendono a ridurre il numero di indicatori a favore della loro attendibilità. Come si vede dalla tabella che segue, passando dal livello nazionale a quello regionale, il numero di indicatori aumenta, focalizzando l’attenzione anche su aspetti particolari.

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Indicatori di area socio-economica Area di analisi Indicatori disponibili Fonte Condizione abitativa

Domande di contributo per il sostegno alla locazione; Abitazione di proprietà/in affitto; Dimensione abitazione; Affollamento abitazione; Incidenza % locazione sul reddito

Regione Piemonte

Incidenza % locazione sul reddito CNEL

Occupazione

Iscritti alle liste di mobilità Avviamenti lavorativi Distribuzione per posizione professionale (disoccupati; occupati; datore di lavoro; mansione)

Regione Piemonte

Quota lavoratori nati all’estero sul totale degli occupati (nel corso di un anno) Reddito da lavoro dipendente Titolari di impresa stranieri

CNEL

Istruzione Iscritti stranieri Esiti scolastici (elementari e medie) Scelte scolastiche scuola superiore Iscritti alle università

Regione Piemonte

Dispersione scolastica: % dei non ammessi all’esame di III media sul totale

CNEL

Nota: gli indicatori del CNEL qui presentati sono contenuti nel Rapporto del 2009 e sono rilevati annualmente. Gli indicatori della rilevazione della Regione Piemonte sono relativi ad una singola ricerca, effettuata nel 2008. Batterie di indicatori possono infine confluire in indici di integrazione che offrono un quadro sintetico del livello raggiunto in un determinato momento. È questo il caso, ad esempio, del Rapporto elaborato annualmente dal CNEL che fotografa, sulla base di tre indici (attrattività, inserimento sociale, inserimento occupazionale), il livello di integrazione raggiunto in Italia. Il rapporto offre anche comparazioni tra le diverse aree territoriali o tra le differenti nazionalità degli immigrati, che permettono, ad esempio, di individuare in quali contesti si annidino i nodi più problematici. Completa il quadro l’indice che rivela il potenziale di integrazione, che coglie possibili evoluzioni future e offre indicazioni per le politiche da adottare.

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Immigrazione, sicurezza e criminalità

Integrazione e devianza

L’evoluzione legislativa recente, in particolare nel biennio 2008 e 2009, ha parzialmente ricondotto l’immigrazione e l’integrazione nell’alveo delle politiche per la sicurezza (si veda per un riassunto dell’evoluzione legislativa, Ferraris, 2012, pp. 9-33). Il 21 maggio 2008 il Consiglio dei Ministri ha approvato un documento quadro denominato “Le misure legislative per la sicurezza” da cui discendono diversi provvedimenti. Il primo è la legge 24 luglio 2008, n. 125 (il primo pacchetto sicurezza) che introduce, tra l’altro, la circostanza aggravante della clandestinità (poi dichiarata illegittima dalla corte Costituzionale nel 2010) e modifica l’art. 54 T.U.E.L. relativo ai “poteri di ordinanza” dei sindaci su temi attinenti l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana (cfr. Numero monografico Rivista sicurezza urbana n.1/2010). Tre successivi decreti legislativi riguardano la disciplina sui rifugiati (D.Lgs. 3 ottobre 2008, n. 159), il ricongiungimento

familiare (D.Lgs. 3 ottobre 2008, n. 160) e infine la normativa in materia di libera circolazione dei cittadini comunitari, poi accantonata a seguito dei rilievi mossi dalla Commissione Europea. L’ultimo provvedimento,

la legge 15 luglio 2009, n. 94, anch’essa nota come pacchetto sicurezza, introduce, tra gli altri provvedimenti, il “reato di clandestinità” (la contravvenzione di ingresso e soggiorno in violazione delle norme che disciplinano l’ingresso e il soggiorno in Italia, art. 10 bis d.lgs. n. 286/1998). Con questa disciplina legislativa immigrazione e criminalità sono messi in stretta relazione. Da un lato perché episodi di criminalità commessi da immigrati sono stati la causa di modifiche delle regole di ingresso, soggiorno e allontanamento (cosi accadde nel 2008 a seguito del tristemente noto omicidio Reggiani, all’origine del decreto sull’allontanamento dei cittadini comunitari poi accantonato). Dall’altro, perché si è sempre più affermato l’utilizzo della sanzione penale a presidio del dovere di allontanamento dello straniero, fino ad arrivare alla qualificazione della condizione di clandestinità come aggravante di un reato commesso e, infine, come reato di per sé. In altri termini, devianza e criminalità sono concetti posti in antitesi con il concetto di integrazione. La criminalità, infatti, è sempre indicata come un fattore che si correla negativamente con l’integrazione. Dove vi è l’una, c’è assenza dell’altra. Ne è dimostrazione, ad esempio, l’uso fatto dei dati sulla criminalità nella letteratura in merito agli indicatori di integrazione (CNEL,

Integrazione e devianza: una antinomia

3

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2010). Per ciò che riguarda il potenziale di integrazione degli stranieri nelle diverse regioni italiane, si utilizzano due principali indici: l’indice di “inserimento occupazionale” e quello di “inserimento sociale” (vd. pp. 282- 285). Quest’ultimo è costruito da un insieme composito di indicatori (come, ad esempio, l’accessibilità del mercato immobiliare o la dispersione scolastica) tra cui l’indicatore di devianza che si ottiene dalla differenza tra la variazione percentuale di denunce presentate a carico di stranieri e la variazione percentuale della popolazione straniera residente. Non interessa qui riflettere sulle modalità di costruzione dell’indicatore, quanto piuttosto sottolineare come il potenziale di integrazione viene ridotto dalla presenza di un indicatore di devianza positivo. In altri termini, più è alto l’indicatore di devianza, più si valutano negativamente le potenzialità di inserimento sociale in un territorio.

Le forme della devianza e criminalità straniera

Quali sono le principali forme di manifestazione della criminalità straniera? Si possono distinguere forme di criminalità e di devianza riconducibili alla criminalità organizzata, altre attinenti alla cd. criminalità urbana e infine quelle relative all’ambito familiare o al contesto culturale. Partendo da quest’ultima, si fa riferimento ai reati che si sviluppano all’interno dell’ambiente familiare o agli usi delle comunità straniere che possono integrare violazioni di carattere amministrativo o comportamenti devianti rispetto a quanto normalmente in uso nella comunità ospitante. Godono di notevole attenzione mediatica, anche per gli epiloghi in alcuni casi tragici, i reati all’interno della famiglia che nascono da un conflitto normativo e culturale tra i riferimenti valoriali e morali dei genitori (più di frequente del padre) e quelli dei figli. Paradigmatici i casi degli adolescenti musulmani che si trovano in conflitto tra i precetti religiosi e culturali della famiglia di origine e le norme dei gruppi dei pari. Notevolmente alta è l’attenzione nell’ultimo periodo anche sulla violenza alle donne che interessa trasversalmente tanto le donne italiane quanto quelle straniere. Per quanto riguarda, invece, alcuni usi delle comunità straniere che rischiano di scontrarsi con le normative penali o amministrative del paese ospitante è utile ricordare il caso delle mutilazioni genitali femminili e quello della macellazione rituale. Le mutilazioni genitali femminili sono state oggetto di attenzione da parte del legislatore che nel 2006 ha introdotto uno specifico reato (l’art. 583 bis del codice penale) che punisce più gravemente

Famiglia e cultura di origine: il legislatore

tra tutela della differenza e criminalità

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questa forma particolare di lesione personale, rispetto a quanto già previsto nell’ordinamento per il reato di lesioni personali gravissime. Per quanto riguarda la macellazione rituale la criticità risiede nel rispetto del diritto alla libertà religiosa da un lato e nel rispetto degli animali dall’altro che impone di evitare sofferenze non necessarie. Nel 1993 l’Unione Europea approvò una direttiva (93/119/CE) che disciplinava la protezione degli animali durante la macellazione o l'abbattimento (direttiva ratificata dall’Italia con il D.lgs. 333/1998). Tale direttiva è stata di recente abrogata dal Regolamento (CE) 1099/2009, applicabile negli Stati Membri dal 1 gennaio 2013. Diverse città hanno inoltre riservato aree del macello comunale alla macellazione in osservanza della legge e delle prescrizioni religiose. Su questo tema le politiche a livello nazionale e locale tendono a oscillare tra momenti in cui si tenta di salvaguardare il significato di alcune pratiche della cultura di origine degli stranieri nel rispetto della normativa italiana e opzioni di criminalizzazione di condotte non ritenute accettabili (è questo il caso di quanto avvenuto con l’introduzione del reato di “Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili”). Passando ad esaminare il fenomeno delle organizzazioni criminali straniere è utile in primis collocarlo temporalmente. Esso emerge intorno alla metà degli anni novanta, con l’aumento della presenza straniera in Italia, e si consolida tra la fine degli anni novanta e l’inizio del 2000 in alcuni mercati illegali quali l’immigrazione clandestina, la tratta degli esseri umani, il traffico di stupefacenti. Più di recente le organizzazioni criminali straniere hanno differenziato i mercati di interesse, aumentando la presenza nel contrabbando di sigarette, nel traffico di armi, negli investimenti immobiliari, nelle frodi informatiche, nel traffico di beni verso l’estero, nelle truffe telematiche fino a divenire in alcuni casi presenza egemone (è il caso delle organizzazioni criminali rumene nel campo delle frodi informatiche). Le principali organizzazioni criminali straniere in Italia sono di provenienza

albanese, rumena, ucraina, russa, georgiana, nordafricana, nigeriana, cinese, sudamericana. Tre sono i quesiti principali che attengono a queste organizzazioni criminali. In primo luogo, se si tratti di organizzazioni di tipo

gerarchico- piramidale oppure di network criminali. In secondo luogo, quali rapporti vi siano tra le organizzazioni criminali straniere e quelle autoctone. Infine, se siano organizzazioni che in alcuni mercati hanno assunto ruoli dominanti o semplicemente di carattere ancillare rispetto alla criminalità organizzata italiana.

La criminalità organizzata straniera: struttura organizzativa, rapporti con la criminalità autoctona e successione criminale

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In generale le organizzazioni criminali straniere si presentano con una struttura parcellizzata e flessibile, seppur ancora mancante della capacità pervasiva propria della criminalità organizzata italiana. Una parziale eccezione sembra trovarsi nella “struttura dei sodalizi criminali cinesi principalmente ispirata a legami di tipo familiare, con organigrammi basati su precise linee gerarchiche” e caratterizzata da “forme di infiltrazione nel tessuto economico-sociale che si manifestano sia attraverso sistemi di collegamento con attività lecite, quali sono quelle svolte dalle associazioni di cinesi presenti in Italia, al cui interno vengono inseriti propri soggetti con cariche istituzionali, sia mediante contatti che i criminali cinesi instaurano direttamente con personaggi che godono di alto prestigio sociale in seno alla comunità di connazionali” (Ministero dell’Interno, 2011, pp. 274-5). In merito alla pervasività va però sottolineato che negli ultimi anni è aumentata la capacità dei gruppi criminali stranieri di intessere rapporti tra loro e con la criminalità italiana, organizzata e non. In particolare, il Ministero dell’Interno (2011) sottolinea i legami tra la criminalità nordafricana e quella autoctona basati su un rapporto di reciproca convenienza (vantaggi nel traffico di stupefacenti per i gruppi italiani e agevolazioni nell’ambito del traffico di migranti per le organizzazioni maghrebine). In merito alla collocazione della criminalità organizzata straniera rispetto a quella italiana si osserva una differenziazione in base al tipo di mercato illegale coinvolto. Nell’ambito della tratta di esseri umani, in particolare a scopo di sfruttamento sessuale, la criminalità straniera ha certamente assunto un ruolo autonomo, tanto da potersi affermare il verificarsi di una “successione criminale” (Beccucci, 2006). Sono molti i gruppi stranieri coinvolti con caratteristiche in parte differenti (Orfano, 2007), ma per tutti l’appropriarsi del mercato del sesso (ma anche della tratta a scopo di sfruttamento lavorativo per alcune provenienze) si lega strettamente alla presenza ormai del tutto preponderante delle donne straniere vittime di tratta. Ugualmente egemonica è la presenza della criminalità organizzata straniera all’interno del mercato del traffico di migranti, in alcuni casi grazie alla mancata frapposizione da parte della criminalità italiana. Il traffico di sostanze stupefacenti, in particolare a opera della criminalità nordafricana, nigeriana e sudamericana, pur non avendo ancora sostituito la criminalità italiana, assume progressivamente maggiore importanza, anche grazie agli accordi intrapresi con la criminalità autoctona. Questi sono sinteticamente i tratti peculiari della criminalità organizzata straniera. Per quanto attiene alle politiche di contrasto, non vi è dubbio che esse siano figlie dell’esperienza maturata per fronteggiare la criminalità

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organizzata autoctona. È a partire dalla legislazione antimafia, dalle scelte organizzative fatte all’interno dei reparti investigativi delle forze dell’ordine che si sono sviluppate specificità e competenze in merito al contrasto delle forme di criminalità organizzata straniera, pur tenendone in considerazione le specifiche caratteristiche. Si è infatti di fronte a piccoli network criminali, di carattere meno verticistico, più parcellizzati e fondati su modelli organizzativi a scacchiera più che gerarchici. Accanto alle politiche di contrasto si sono sviluppate quelle di tutela delle vittime. Si tratta in questo caso di una peculiarità che non è ravvisabile nelle politiche riguardanti le organizzazioni criminali autoctone e che riguarda, in particolare, i casi di tratta degli esseri umani e i fenomeni di grave sfruttamento. Infatti, in questo caso, tramite le previsioni contenute nell’art. 18 del D.Lgs. 286/1998 sull’immigrazione e nelle norme regolamentari ad esso relative, si prevede il rilascio di uno speciale permesso di soggiorno per le persone straniere vittime di violenza e grave sfruttamento. L’esperienza di più di dieci anni di applicazione ha dimostrato che tale normativa, attraverso la piena tutela dei diritti, fornisce anche importanti risultati sul piano del contrasto alla criminalità organizzata straniera. Esaminando infine la criminalità urbana anche qui si può rilevare un dato temporale. Lo stretto legame tra politiche volte a contrastare la criminalità e le forme di devianza nelle città e l’immigrazione si realizza per quella che si potrebbe chiamare una “coincidenza storica”. La presenza degli stranieri comincia a crescere progressivamente dalla metà degli anni novanta. Di pochi anni prima (1993) è la riforma elettorale che stabilisce l’elezione diretta dei sindaci e quindi un ruolo centrale delle città, sempre più valorizzato non soltanto per governare fenomeni locali, ma anche per presidiare i risvolti locali di fenomeni nazionali. Emerge in quegli anni la domanda di sicurezza urbana, come “nuovo diritto sociale, associato ai nuovi problemi della qualità urbana e della convivenza civile nelle città” (Giovannetti, 2009, p. 123). L’interesse dei cittadini e dei politici si estende dai fenomeni criminali (in particolare della micro-criminalità), come sostiene Ferroni (2006, p. 68) alle problematiche di disordine fisico e sociale (cfr. capitolo 2). L’immigrazione diventa uno degli elementi catalizzatori dell’insicurezza sociale e l’attenzione al tema della sicurezza urbana è causa e conseguenza dell’acuirsi della frattura sociale legata all’emergere del fenomeno migratorio. Emerge cioè tra le politiche di sicurezza urbana e l’immigrazione un rapporto circolare, che determina il focalizzarsi di molte

L’immigrazione e i sindaci: una

coincidenza storica

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politiche e interventi di sicurezza urbana sul tema immigrazione, e una retorica, veicolata dai mass media, che porta le politiche rivolte agli stranieri a ottenere maggiore risonanza. Ciò avviene non solo per effetto della copertura mediatica del tema immigrazione, ma anche per un dato di fatto: gli stranieri irrompono in città portando con sé un uso diverso e molto intensivo dello spazio pubblico,

legato a un modo di vivere la città e i suoi spazi, in parte proprio del paese di origine, e in parte legato all’assenza di uno spazio privato, molte volte essenziale e condiviso con altri connazionali. In un momento in cui

si assiste ad una progressiva “estinzione” dello spazio pubblico (Mitchell, 2003) - anche per effetto di una sempre più intensa regolazione amministrativa e urbanistica - i luoghi pubblici diventano oggetto di contestazione e rivendicazione tra autoctoni e migranti per ragioni legate al diverso significato, uso e modo di appropriazione. In quasi tutte le città italiane si è assistito, e si assiste ancora oggi, a conflitti di questo tipo, che portano alla ribalta la questione della gestione degli spazi urbani e della convivenza all’interno delle aree cittadine e dei quartieri. Per rispondere alla percepita inciviltà delle strade e al confronto non mediato con la differenza, le politiche locali in questi anni hanno seguito due orientamenti principali, a volte anche combinandoli insieme: da una parte si è agito con politiche di normalizzazione o “domesticazione” dello spazio incentrate su pratiche di controllo e regolamentazione delle attività consentite o vietate (ordinanze, regolamenti, divieti); dall’altra, si è intervenuto con politiche di negoziazione attraverso percorsi di “istituzionalizzazione” degli usi - il più delle volte informali - degli spazi pubblici oggetto di tensioni e conflitti, contemperando il bisogno di aggregazione e socialità delle comunità immigrate con l’esigenza di garantire la sicurezza di tutti e il rispetto delle norme (regolarizzazione di attività irregolari svolte da cittadini stranieri, coinvolgimento di associazioni di immigrati nella gestione di aree verdi).

Immigrazione, percezioni e rappresentazioni

Come si è già visto nel capitolo 3 in materia di sicurezza le rappresentazioni mediatiche e le percezioni di sicurezza rivestono un ruolo determinante. L’opinione pubblica e i mass media sono due elementi importanti e particolari anche in materia di immigrazione. La più recente e comprensiva indagine demoscopica di carattere internazionale (Transatlantic Trends: Immigration realizzata a partire dal

Politiche di sicurezza e immigrazione

L’immigrazione e i cittadini europei: percezioni errate

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2008 in diversi paesi europei, negli Stati Uniti e in Canada) rivela che le percezioni dei cittadini sul fenomeno migratorio sono grandemente falsate. In tutti i paesi europei oggetto di indagine si registra una percezione completamente errata in merito al numero di stranieri presenti sul territorio. A fronte di una presenza che si assesta intorno al 7,5% gli Italiani ritengono che gli stranieri siano il 23,4 % dei residenti. Non dissimili, seppur lievemente meno divergenti sono i dati degli altri paesi riportati nella tabella sottostante (Transatlantic Trends, 2011).

Popolazione straniera presente: percezione e statistiche ufficiali Francia Germania Italia Regno Unito Spagna Percezione 23,5% 27,1% 23,4% 31,8% 21,5%

Dati reali 11,6% 12,9% 7,5% 11,3% 14,3%

Rapporto percezione/realtà

2,03 2,10 3,12 2,81 1,50

Accanto al dato sulla percezione numerica, è interessante sottolineare che la maggior parte degli intervistati, in tutti i paesi, ritiene che gli stranieri siano troppi (42% in media nei cinque paesi europei oggetto di indagine) oppure “molti anche se non troppi” (38% in media). A ulteriore conferma è maggioritaria, in quasi tutti i paesi, l’idea che l’immigrazione sia un problema piuttosto che un’opportunità; le percentuali più alte in Europa sono nel Regno Unito, in Spagna e in Italia. L’Italia si distingue per essere il paese dove oltre il 60% dei cittadini pensa che vi siano più stranieri irregolari che regolari, in contrasto con tutte le stime affidabili che registrano come gli immigrati illegali siano una percentuale di gran lunga inferiore a quelli legali. Il quadro delineato da questi dati sembra evidenziare che i cittadini percepiscono l’immigrazione come un fenomeno di portata molto più ampia di quanto non sia nella realtà e lo vivano come un problema. In particolare, il dato relativo alle preoccupazioni vede l’Italia come un paese fortemente turbato per l’immigrazione irregolare, ma poco preoccupato di quella regolare, all’interno però di un contesto in cui si considera gran parte dell’immigrazione irregolare. Se quanto appena illustrato rappresenta il più recente spaccato delle percezioni dei cittadini, per completare le informazioni è interessante osservare anche le recenti indagini empiriche sulle modalità con cui i mass media trattano il tema dell’immigrazione. La più recente Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italiani realizzata dalla facoltà di Scienze

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della comunicazione della Sapienza - Università di Roma rileva che tale tematica viene trattata dalla televisione e dai quotidiani in modo analogo a quanto avveniva vent’anni fa, sottolineando “una consolidata incapacità del sistema mediale italiano di rappresentare la realtà sociale e il suo mutamento” (Sapienza Università di Roma, 2009). La cronaca è l’ambito di informazione in cui gli immigrati ricorrono con maggior frequenza e la descrizione delle persone di origine straniera è spesso limitata al richiamo di questa condizione (mentre gli italiani sono definiti attraverso l’età, la professione, la condizione occupazionale). La nazionalità è l’elemento che domina i titoli e “finisce non solo per connotare univocamente la notizia, ma anche per fornirla di senso, proporre una spiegazione dei fatti, indicare non un colpevole specifico ma una categoria criminale” (ibid.). Lo straniero è inoltre ritratto principalmente come autore di reato o vittima. Se si osserva il ruolo che l’immigrato ricopre nella notizia si rileva che è “oggetto della trattazione” ma raramente è protagonista, voce in capitolo raccolta e riprodotta: l’immigrazione è tratteggiata mediante la cronaca nera, ma quasi mai è l’immigrato a parlare. Il ritratto che ne consegue è semplificato e parziale, ma “in virtù dei processi giornalistici di incorniciamento delle notizie, i singoli fatti diventano un trend, le violenze una guerra e le eccezioni la regola. La cronaca si traduce nel tema sicurezza e di conseguenza nel problema immigrazione” (ibid.). La sovrapposizione tra cronaca e immigrazione non è però l’unico elemento che caratterizza il quadro. Analizzando i servizi giornalistici che tematizzano l’argomento immigrazione (e quindi vanno oltre i semplici fatti di cronaca), si scopre che gran parte di questi sono riferiti all’argomento criminalità: “la dimensione della criminalità e della sicurezza costituisce un paradigma, praticamente l’unico, con cui leggere il fenomeno migratorio. La sicurezza e l’immigrazione come temi, anche politici, mostrano un percorso di acquisizione di autonomia nel discorso pubblico che va in parallelo e, anzi, alimenta questa congiunzione e sovrapposizione dei due universi simbolici» (ibid.). In altri termini, se anche l’immigrazione non viene evocata per un evento di cronaca, diventa comunque una declinazione del tema sicurezza.

L’immigrazione in Italia e i media:

rappresentazioni stereotipate e incapaci

di evolvere

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Integrazione e Polizia Locale

Da diversi anni le città italiane stanno affrontando un processo di vera e propria “ristrutturazione” sociale e demografica dovuta, in gran parte, al fenomeno migratorio e all’afflusso di lavoratori immigrati e rifugiati. Secondo gli ultimi dati della Caritas1, i cittadini stranieri presenti in Italia hanno superato i 5 milioni e si concentrano per la maggior parte nei grandi centri urbani. Visto che le città sono diventate luoghi in cui abitano e coesistono persone di diversa origine, lingua e cultura, le amministrazioni comunali si trovano ad affrontare quotidianamente sfide e problematiche in continuo cambiamento, alla ricerca di un difficile equilibrio tra bisogni e diritti, accoglienza e coesione sociale. È nelle città, infatti, che si gestiscono tutti gli aspetti della vita dei nuovi cittadini ed è qui che si attuano interventi sperimentali spesso più innovativi e avanzati dei programmi nazionali (Pastore, 2007, pp. 62-66). Molti sono i settori in cui il tema dell’integrazione interseca l’azione e le politiche comunali o regionali: si pensi ad esempio a tutto ciò che riguarda l’educazione scolastica, la sanità, la casa, il lavoro, gli interventi in ambito sociale e culturale, le attività economiche e commerciali, la sicurezza e la vivibilità negli spazi pubblici. Viste le molte sfaccettature di questo fenomeno, l’azione pubblica mirata a favorire l’integrazione dei cittadini stranieri si realizza attraverso una pluralità

di strutture e servizi cittadini, tra cui la Polizia Municipale. Quest’ultima riveste un’importanza centrale in questo processo perché è l’istituzione con cui nel quotidiano i cittadini si interfacciano per risolvere problemi di

convivenza e situazioni di conflittualità. Anche dal punto di vista operativo e organizzativo il contributo che la Polizia Locale può dare all’inserimento degli immigrati nel tessuto sociale ed economico è ampio e variegato: l’attività nei quartieri dei nuclei di prossimità, il lavoro di rete con i soggetti territoriali, i contatti formali e informali con le comunità immigrate, la conoscenza approfondita dei problemi locali sono tutti aspetti che connotano l’azione della Polizia Municipale a servizio delle istituzioni cittadine e di tutti i cittadini, italiani e stranieri. Nelle prossime pagine sarà quindi approfondito il ruolo e la responsabilità della Polizia Locale nel concorrere a “costruire” condizioni favorevoli all’integrazione e alla coesione tra italiani e stranieri; si porrà l’accento sugli aspetti a cui un operatore di Polizia Municipale deve prestare

La Polizia Locale, soggetto centrale nel promuovere integrazione e convivenza nelle città

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attenzione al fine di individuare comportamenti discriminatori o di evitare egli stesso di mettere in atto atteggiamenti di questo genere a danno di cittadini immigrati, anche alla luce di riflessioni emerse da esperienze italiane ed europee. Verranno infine illustrate iniziative realizzate in alcune città italiane per promuovere l’integrazione attraverso l’azione della Polizia Locale, focalizzandosi su quanto avvenuto in Regione Piemonte.

Il ruolo e la responsabilità della Polizia Municipale nella società multiculturale

Prima di approfondire le attività che le polizie locali, e municipali in particolare, svolgono nella gestione dei problemi della città si deve sottolineare il grande cambiamento che queste forze di polizia hanno conosciuto nel tempo. La loro rilevanza nelle politiche urbane e di sicurezza è aumentata sensibilmente negli ultimi decenni, a dispetto di una cornice normativa non in linea con l’evoluzione e la complessità dei centri urbani2. Tra le ragioni di questo accresciuto ruolo vi sono la responsabilizzazione delle autonomie locali nelle politiche di sicurezza urbana3, la diffusione di attività e programmi a livello locale, regionale e nazionale finalizzati al miglioramento della sicurezza4, la tematizzazione della “questione sicurezza” nelle agende politiche locali e nazionali, la decentralizzazione di alcuni compiti dal livello statale a quello locale, e infine l’impatto di fenomeni sociali ed economici sulle città e sulla vita delle persone (tra i quali il fenomeno migratorio prima ricordato). Tutti questi cambiamenti intorno alla città, che è il contesto operativo della Polizia Municipale, hanno contribuito ad accentuare l’importanza di queste forze di polizia nelle politiche di governo del territorio e di promozione di una pacifica e ordinata convivenza sociale (Selmini, 2010, p. 13). Anche il lavoro degli operatori di Polizia Locale è molto cambiato: alle attività tradizionali di polizia amministrativa locale, polizia giudiziaria, polizia stradale e di pubblica sicurezza si sono aggiunte funzioni nell’ambito della sicurezza urbana dopo il primo “pacchetto sicurezza”. Sono cambiate, e cresciute soprattutto, le aspettative dei cittadini nei confronti dell’attività di prevenzione, rassicurazione e coesione sociale svolta dalla Polizia Locale (Regione Piemonte, 2009, p. 3). Rispetto a quest’ultima funzione - forse quella più strettamente connessa con la sfida dell’integrazione -, è interessante riportare l’incipit della Dichiarazione presentata nel 2007 dagli organismi dirigenti nazionali del Forum Italiano per la Sicurezza Urbana e dalle principali associazioni di

Nuove funzioni e compiti

nell’ambito della sicurezza urbana

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rappresentanza, nella quale si afferma che “la polizia locale, municipale o provinciale, è il   principale regolatore della vita di tutti i giorni nello spazio pubblico delle città e nel territorio, regola il traffico e contrasta i comportamenti di guida rischiosi, tutela i consumatori e garantisce il rispetto delle regole di commercio, tutela l’ambiente, controlla lo sviluppo edilizio e contrasta l’abusivismo, presidia, prevalentemente a piedi, lo spazio pubblico per garantire la sicurezza nelle città e nel territorio” (Dichiarazione congiunta “La polizia locale oggi”, 5/10/2007). La presenza di cittadini stranieri portatori di culture, abitudini e tradizioni diverse nelle città porta all’emergere di domande e bisogni nuovi di cui un servizio di Polizia Municipale deve farsi carico, soprattutto quando l’arrivo e l’insediarsi di comunità etniche può generare conflitti territoriali di spazio, uso e tempo5 (Dickmann, 2005, pag. 507). Più che in passato, la Polizia deve dotarsi di una struttura organizzativa incentrata sulla promozione del dialogo, sull’integrazione e sull’apertura al multicultulturalismo. L’organizzazione deve inoltre rispecchiare i valori e i princìpi di cui la Polizia Locale è interprete, essa rappresenta una delle espressioni immediate e dirette dello Stato e del modo in cui ci si rapporta agli stranieri. Spesso la Polizia Locale è la presenza istituzionale più vicina ai cittadini e il punto di riferimento per avere informazioni, chiedere aiuto e assistenza, affrontare situazioni di conflittualità tra abitanti di uno stesso condominio o residenti di uno stesso quartiere; conflittualità che il più delle volte coinvolgono vecchi residenti e nuovi cittadini e che, se non gestite, possono dar vita a tensioni che incidono negativamente sulla convivenza sociale e sicurezza delle città. Il rispetto delle leggi ha una duplice valenza: da un lato in modo diretto, in quanto la polizia agisce per far rispettare le leggi, dall’altro è un esempio di come attraverso la propria azione si possa contribuire a generare nei cittadini fiducia e credibilità nelle istituzioni e nelle forze di polizia. Proprio perché offre la prima immagine delle istituzioni e il suo operato è sotto gli occhi dei cittadini, l’azione della polizia deve essere rispettosa non solo delle leggi, ma anche dei diritti delle persone, italiane e straniere. Per questo è fondamentale che la Polizia Locale agisca in modo equo e rispettoso nei confronti di tutti i cittadini, evitando atteggiamenti o comportamenti discriminatori verso una specifica categoria o una minoranza etnica, che ne comprometterebbero la credibilità e legittimità. La discriminazione da parte della polizia locale, ancorché episodica6, è inaccettabile al pari di quella di qualsiasi altra istituzione pubblica; i casi in

I valori dell’azione della PM: rispetto delle leggi e

dei diritti umani, trasparenza, visibilità, non

discriminazione

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cui sono stati attribuiti alla polizia gesti e crimini a sfondo razzista hanno scatenato e continuano a scatenare reazioni dei cittadini immigrati provocando contestazioni di massa, incendi nelle strade, rivolte urbane, come avvenuto nelle banlieues francesi nel 2002 e nel maggio 2013 in alcuni quartieri a Stoccolma7. Per coniugare le funzioni di controllo con i princìpi di uno Stato democratico sono richieste competenza e professionalità, soprattutto tenuto conto della complessità delle situazioni in cui gli operatori di Polizia Locale si trovano ad agire, unita al problema strutturale della carenza di organico ed alle pressioni cui questa forza di polizia è sottoposta8. Sul tema del comportamento e dell’etica della polizia vi sono stati importanti momenti di riflessione a livello europeo che hanno approfondito aspetti legati all’impostazione, organizzazione e compiti della polizia. L’obiettivo era di condividere princìpi e azioni per assicurare che in una società multiculturale come quella attuale l’operato delle forze di polizia locali sia rispettoso dei diritti e conforme alla normativa anti-discriminazione (vedi box).     La polizia nella società multiculturale: alcune esperienze europee

In ambito europeo molte sono le iniziative che si sono occupate dell’organizzazione e del modo di operare delle polizie locali in relazione alla tutela dei diritti umani e all’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti dei cittadini stranieri. Una delle esperienze più significative è la Carta di Rotterdam9 elaborata nel corso della Conferenza dal titolo “Il mantenimento dell’ordine pubblico nella società multietnica: principi, pratiche e partenariato”, tenutasi dal 30 maggio al 1 giugno 1996 a Rotterdam, in Olanda. La Carta - nata dal partenariato tra la Polizia di Rotterdam-Rijnmond, il Consiglio Comunale cittadino e la organizzazione per la lotta alla discriminazione (RADAR) - è stata divulgata in Italia attraverso il progetto NAPAP finanziato dall’Unione Europea nel 1997 in occasione dell’Anno europeo contro il razzismo e la discriminazione. Il merito del documento sta nell’aver affrontato per la prima volta il tema dell’organizzazione del servizio di polizia in una società multietnica con una visione d’insieme e un approccio unitario (pur lasciando a ogni Stato il compito di adattarla ai rispettivi contesti nazionali e locali). Esso muove dalla convinzione che la realizzazione di una sicurezza equa e rispettosa dei diritti di tutti sia responsabilità di tutte le istituzioni e tutti i componenti della società, ma che alle polizie spettino un ruolo e una responsabilità particolari in virtù dei compiti loro assegnati e della visibilità pubblica della loro azione. Partendo dalle esperienze positive di alcuni paesi, la Carta individua princìpi comuni e linee guida pratiche da promuovere in tutta l’Europa affinché il servizio di polizia sia equo e rispettoso dei diritti di

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tutti i cittadini. Molti sono i temi affrontati nella Carta: la formazione degli agenti, il reclutamento e l’assunzione di agenti provenienti da minoranze, l’applicazione delle leggi rilevanti, la collaborazione con comunità etniche e la gestione delle statistiche etniche sulla criminalità. La Carta di Rotterdam è stata senza dubbio una tappa decisiva del percorso che ha portato all’elaborazione del Codice europeo di etica per la polizia adottato nel 2001 dal Consiglio d’Europa con la Raccomandazione (2001) 10. Pur non essendo vincolante, il Codice rappresenta tuttavia uno strumento informativo e conoscitivo importante; nel documento sono riassunti standard e norme internazionali relativi ai principi fondamentali, ai diritti dell’uomo ed al diritto umanitario riguardanti la giustizia, con l’obiettivo di renderne più facile l’applicazione da parte degli operatori della Polizia Locale10. Più recentemente, anche a seguito degli attacchi terroristici che hanno colpito gli Stati Uniti nel 2001, le città di Madrid nel 2004 e di Londra nel 2005, l’attenzione delle organizzazioni europee si è spostata sul potenziale discriminatorio della “definizione di profili etnici” nell’ambito dell’attività di controllo della polizia (dall’espressione inglese discriminatory ethnic profiling). Nel 2010 l’Agenzia europea per i diritti umani ha pubblicato la Guida per comprendere ed evitare la definizione discriminazione di profili etnici. Per una maggior efficacia delle operazioni di polizia11, che analizza il tema della definizione dei profili etnici sia da un punto di vista teorico che pratico, esaminando i casi in cui questa prassi è utilizzata nell’attività di mantenimento della sicurezza e dell’ordine, le circostanze nelle quali è consentita e quando invece è illegale e discriminatoria. La Guida si sofferma sull’efficacia e sui limiti dell’adozione di profili etnici nelle attività di controllo, sugli impatti sociali negativi sulla comunità e sulle minoranze etniche, e infine sulle misure alternative a disposizione della polizia.

Percorsi e azioni concrete verso l’integrazione nell’esercizio quotidiano delle funzioni di Polizia Locale

Seguendo l’evoluzione della società e delle competenze in materia di sicurezza urbana, nell’ultimo decennio le polizie municipali, accanto alle attività ordinarie di controllo e contrasto all’illegalità, hanno messo in campo interventi nel segno di una maggiore e più qualificata azione sul territorio. Una ricerca condotta nel 2010 tra gli operatori della Polizia Locale in Emilia-Romagna ha indicato tra le attività in espansione quelle rientranti in funzioni non propriamente di competenza della Polizia Municipale e quelle relative alla sicurezza urbana; secondo gli intervistati, le funzioni di assistenza ai cittadini e di polizia di prossimità, soprattutto per quanto riguarda gli interventi per la risoluzione dei conflitti, la rilevazione del disordine urbano, le attività di prevenzione, informazione e assistenza ai cittadini stranieri hanno acquistato maggior rilevanza (Città sicure, 2010, pag. 91-92). All’interno dei Corpi si sono sperimentate pratiche di servizio incentrate su nuovi approcci e strumenti volti a creare un canale di interazione e dialogo

Le nuove attività della Polizia

Municipale

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con i cittadini, assicurare il benessere nei contesti ad elevata disomogeneità e a rischio di conflittualità e intervenire per contenere fenomeni di intolleranza. Alcune di queste modalità includono: attività di vicinanza e ascolto dei cittadini, lettura e gestione dei problemi a partire dal territorio, iniziative specifiche rivolte agli immigrati, lavoro di rete con i soggetti istituzionali e attivi della comunità, azioni di educazione e promozione della legalità nelle scuole, attività mirate nei confronti di giovani e minori stranieri. Un cambiamento non solo organizzativo, ma anche culturale che è stato sostenuto e accompagnato negli anni anche dalla costante attenzione delle Regioni e dei Comuni alla formazione e specializzazione del personale di polizia locale. Un’evoluzione è stata l’avvio della polizia municipale di prossimità come parte integrante delle politiche di sicurezza messe in campo dagli Enti locali. In questa direzione si sono mosse soprattutto le città medio-grandi che dispongono di più personale che può essere impiegato in attività meno tradizionali. La capacità di instaurare con il cittadino una relazione di fiducia, elemento cardine dell’attività di prossimità, è richiamata già nell’art. 3 della legge n. 58 del 1987 della Regione Piemonte. Il concetto di relazione è stato ripreso e ampliato nel documento sul modello regionale di polizia municipale di prossimità elaborato nel 2004 dalla Regione Piemonte “Il concetto di prossimità risponde all’esigenza di uscire dal recinto del mantenimento dell’ordine pubblico e della prevenzione e repressione del crimine per rispondere a bisogni nuovi, attribuendo alle polizie un ruolo fondato sul radicamento territoriale, sulla conoscenza dei problemi locali e sulla costruzione di un rapporto di conoscenza e fiducia con i cittadini”12 L’azione di prossimità della polizia punta sulla prevenzione e mediazione di quei problemi di convivenza civile che sono potenziali fattori di rischio per la sicurezza urbana e la convivenza sociale. È un modo di fare polizia orientato alla risoluzione dei problemi e che si fonda sulla presenza sul territorio, sulla vicinanza con il cittadino, e sulla persona come destinataria dei servizi erogati dalla polizia locale. La polizia di prossimità agisce insieme ai cittadini, alle realtà dei servizi pubblici e del privato sociale nell’identificare priorità, obiettivi e di conseguenza modalità operative per dare una risposta efficace e concreta rispetto ai problemi di convivenza civile e allarme sociale. Letto attraverso la lente dell’integrazione di cittadini stranieri, il contributo della polizia di prossimità alla coesione e convivenza sociale può essere di grande rilevanza. Alcune funzioni istituzionali della polizia locale assumono

L’approccio di prossimità per gestire

conflittualità e contrastare pregiudizi

e intolleranze

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una particolare valenza nel promuovere l’integrazione e la convivenza sociale. Nella dimensione di prossimità è possibile gestire conflittualità quotidiane tra italiani e stranieri, intercettare casi di abuso e sfruttamento di cui sono vittima gli immigrati (precarietà abitativa, affitti in nero e elevati per abitazioni in pessime condizioni igienico-sanitarie, lavoro irregolare, inosservanza delle norme in materia di tutela dei lavoratori e di sicurezza sul luogo di lavoro, donne straniere vittime di tratta e prostituzione), prevenire situazioni di disagio e devianza giovanile, italiana e straniera, per ridurre l’impatto in termini di insicurezza e paura), promuovere la collaborazione con le comunità straniere per migliorare la gestione dei rapporti con le comunità locali e prevenire, in generale, condotte non conformi alla legalità; come si vede, un ampio spettro di situazioni sulle quali l’approccio diretto, concreto e integrato dell’agente di prossimità può servire a contenere e contrastare atteggiamenti di intolleranza, esclusione, violenza. A questo si aggiunge anche il fatto che le trasformazioni sociali della società hanno in parte determinato una sorta di sostituzione negli interlocutori di

alcune attività in materia di polizia amministrativa, stradale, giudiziaria: rispetto al passato quando alcune attività lavorative oggetto dell’azione di controllo della polizia

erano svolte da italiani (es. attività commerciali fisse e ambulanti nei luoghi pubblici, attività mercatali, cantieri edili) oggi c’è una prevalenza di lavoratori di origine straniera. Gli operatori di polizia si trovano a confrontarsi con situazioni che a volte sono complicate sia da una limitata conoscenza linguistica e delle normative di riferimento, sia da diverse abitudini culturali, con il rischio che la funzione della polizia locale venga percepita come finalizzata esclusivamente alla repressione e al controllo e molto meno alla tutela della legalità e delle norme che regolano la coabitazione dei cittadini su un determinato territorio. Accanto a interventi di carattere organizzativo come quelli sopra descritti, in molte realtà italiane sono state avviate esperienze progettuali più o meno sperimentali che testimoniano l’impegno della Polizia Locale nel far rispettare le leggi e i diritti fondamentali. Si tratta di iniziative con impatto, modalità di intervento e destinatari diversi ma che hanno in comune l’obiettivo di facilitare la relazione e la convivenza tra comunità etniche che vivono sul medesimo territorio: alcune si rivolgono alle comunità a più alto rischio di discriminazione e esclusione sociale (come ad esempio la comunità cinese e i nomadi), altre sono destinate a promuovere una migliore conoscenza da parte degli stranieri della legislazione vigente, altre infine prevedono il coinvolgimento diretto e attivo di cittadini stranieri.

Sempre più stranieri si confrontano con la Polizia Municipale

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Citiamo qui alcune di queste esperienze a titolo esemplificativo: î attività di nuclei operativi specializzati. A partire dal 1989 all’interno della

struttura operativa della Polizia Municipale della Città di Torino si attiva il Nucleo Nomadi con l’obiettivo di avere una conoscenza diretta più approfondita del mondo dei nomadi, al fine di poter affrontare più adeguatamente le problematiche inerenti tale realtà. È un reparto specialistico e specializzato che, attraverso pattuglie dedicate, garantisce un servizio quotidiano di pronto intervento per la verifica delle carovane in transito e degli insediamenti autorizzati o spontanei siti sul territorio della Città. Il Nucleo, che opera su tutto il territorio comunale, supporta le attività delle Sezioni Territoriali di Circoscrizione svolgendo attività di: § prevenzione e monitoraggio nei campi nomadi autorizzati; § relazione con le comunità presenti nei campi; § verifica e controllo del rispetto della normativa vigente; § raccordo delle attività da svolgere in sinergia con l'Ufficio Stranieri -

Rom e Sinti; § monitoraggio degli insediamenti itineranti; § controllo e gestione degli insediamenti itineranti (allontanamento,

violazioni); § collaborazione e supporto ad altre Forze di Polizia o Enti, a livello

nazionale, per interventi nel merito delle competenze specialistiche predette;

§ indagini su richiesta dell’Autorità Giudiziaria. î attività di sensibilizzazione sul reclutamento, all’interno dei corpi di Polizia

Locale e delle forze di polizia, di persone di origine straniera, al fine di rendere queste organizzazioni sempre più uno specchio della società plurale e di sviluppare buone relazioni con i cittadini delle diverse provenienze. Ad oggi, stante il requisito del possesso della cittadinanza italiana per l’accesso al pubblico impiego, esempi di assunzione di questo tipo sono molto limitati poiché attuabili esclusivamente a condizione che le persone di origine straniere siano divenute cittadini.

î attività di mediatori culturali in affiancamento alla Polizia Locale. A inizio 2013 il Comune di Ravenna ha avviato il progetto sperimentale denominato “Affiancamento di collaboratori stranieri agli operatori di polizia municipale” promosso grazie al contributo concesso dalla Regione Emilia Romagna sui fondi della legge regionale per la sicurezza e la polizia locale. Il progetto, innovativo nel suo genere, prevede un periodo di affiancamento al personale della Polizia Municipale da parte di “collaboratori interculturali”, cioè di cittadini immigrati con compiti di

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mediazione e facilitazione con le comunità etniche di riferimento. Oltre all’azione, il progetto ha una parte di formazione e valutazione dei risultati nell’ottica di proporre linee guida da estendere ad altri Comuni.

î stipula di protocolli di intesa interculturale con le comunità straniere. Obiettivo è stabilire un contatto tra le persone immigrate appartenenti a culture straniere e i servizi di polizia locale che consenta di fornire risposte adeguate alle esigenze di integrazione di ogni singolo individuo nel rispetto dei diversi modelli culturali. Nei protocolli si definiscono iniziative di informazione e sensibilizzazione per migliorare la conoscenza sul ruolo della Polizia Municipale (servizio non esclusivamente repressivo, ma a supporto di tutti i cittadini), diffondere i doveri comuni e i diritti garantiti dalle leggi, prevenire casi di maltrattamento e violenza in famiglia, aiutare le vittime di reato anche con il supporto di mediatori culturali madrelingua, accrescere il livello di partecipazione sociale e il senso di appartenenza sul territorio. A Torino protocolli di questo tipo sono stati stipulati tra la Polizia Municipale e le comunità romena ortodossa e filippina13.

î attività di formazione e aggiornamento per gli agenti di Polizia, anche ispirati alle esperienze di altri paesi europei, su temi quali la multiculturalità, il riconoscimento di pregiudizi e stereotipi, razzismo e discriminazione, la conoscenza della dimensione sociale e religiosa delle comunità con le quali gli operatori di polizia devono interagire. Interessante è il progetto “Contro le discriminazioni, al servizio di una società che cambia: manuale per le Polizie locali nella società transculturale” avviato nel 2013 dalla scuola interregionale di polizia locale della Regione Emilia-Romagna, Liguria e Toscana con un co-finanziamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento Pari Opportunità. Il progetto è finalizzato alla redazione di un manuale orientato alla costruzione di specifici percorsi di formazione di ufficiali e operatori di Polizia Locale rispetto al trattamento di soggetti appartenenti a gruppi etnici minoritari. Il manuale e la sua adozione all’interno dei corsi di formazione della polizia rappresentano un contributo concreto per adeguare sempre più l’operato quotidiano della Polizia Locale al rispetto della diversità e alla promozione dell’integrazione.

L’azione del Settore Polizia Locale e Politiche per la Sicurezza della Regione Piemonte in materia di diritto dell’immigrazione14

Il Settore Polizia Locale e Politiche per la Sicurezza della Regione Piemonte, conscio del fatto che la presenza di cittadini stranieri sul territorio piemontese, a partire dall’inizio degli anni novanta, avrebbe registrato

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sensibili trend di crescita, specialmente per i cittadini provenienti da Paesi non facenti parte dell’Unione Europea, ha da tempo inquadrato la tematica del diritto dell’immigrazione come uno dei suoi obiettivi prioritari d’intervento. Ben prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 286/1998, il Settore ha promosso e realizzato azioni formative ad ampio raggio per non lasciare impreparati gli Operatori della Polizia Locale riguardo alle nuove sfide nel controllo del territorio e delle persone che ivi operano, sia sotto il profilo dei controlli di polizia amministrativa e di polizia giudiziaria, sia sotto l’aspetto della vicinanza alle persone, indipendentemente dalla loro provenienza geografica e condizione di regolarità amministrativa. L’azione svolta dal Settore Regionale, infatti, non si è limitata ad una trattazione degli aspetti giuridici, di diritto interno, comunitario ed internazionale, che interessano i migranti, ma si è addentrata nella sfera più propriamente culturale delle persone provenienti da Paesi terzi rispetto all’Italia, cercando di fornire agli Operatori della Polizia Locale le nozioni teorico-pratiche fondamentali per una comprensione dei costumi, dei modi di pensare e di operare nel quotidiano di gruppi diversificati di cittadini stranieri. Le molteplici ed apprezzate iniziative formative regionali, già a partire dalla prima, svoltasi a Grugliasco nel 1991 con il titolo “L’immigrazione”, si sono

avvalse di professionalità esperte di ogni settore pertinente alla sfera degli stranieri. Per innalzare sempre di più il piano dell’offerta formativa messa a disposizione gratuitamente ai Comandi di Polizia Locale piemontesi, il Settore ha cooperato con gli

altri Settori Regionali impegnati nell’azione conoscitiva, informativa e formativa del fenomeno immigrazione, e con Istituzioni ed Enti pubblici, italiani ed internazionali, coinvolti nella promozione di una cultura trasversale della legalità e dell’inserimento integrato di uomini e donne provenienti da altri Paesi. Fra gli esempi maggiormente significativi di quest’azione ad ampio raggio, ricordiamo il convegno di approfondimento delle implicazioni inerenti: “L’Islam in Italia. Culture e sistemi penali a confronto” realizzato nel 1999, e i due convegni dedicati alle problematiche dei Rom e Sinti in Italia, tenutisi nel 2001 e 2002. Anche lo scambio di esperienze con Forze di Polizia, italiane e straniere, ha contribuito ad arricchire il bagaglio teorico ed operativo della Polizia Locale piemontese. Di notevole spessore ed attualità è ancor oggi la pubblicazione “Scambio d’esperienze sulla Polizia Locale, nell’ambito del Programma Ecos - Progetto Pol. Mun.” realizzata con il contributo di rappresentanti,

Iniziative formative e informative sull’immigrazione, sotto il profilo giuridico e culturale

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della Regione Piemonte, del Comune di Collegno, della Regione Galizia (Spagna), della Provincia di Prahova (Romania), del Comune di Pontevedra (Spagna) e del Comune di Sarospatak (Ungheria). Grazie alla cooperazione transnazionale con la Polizia romena, nel solco della positiva esperienza già tracciata con il seminario internazionale e bilaterale del 1999, si sono poi attuati, tra il 2004 e il 2008, tre ulteriori e significativi convegni di approfondimento sulle realtà di tale Paese, sia circa le problematiche relative all’immigrazione di cittadini rumeni in Italia, sia sui rapporti con la Polizia Romena e sulle problematiche circa l’ingresso della Romania nell’Unione Europea. Un altro Paese straniero rispetto al quale il Settore Regionale Polizia Locale e Politiche per la Sicurezza ha prestato molta attenzione, anche in considerazione dell’elevata presenza dei suoi cittadini in Italia, e in Piemonte in particolare, è stato il Marocco. Al riguardo, ricordiamo il convegno “Italia e Marocco: reati minorili e microcriminalità. Leggi e metodi e confronti”15, tenutosi a Torino nel 2004, realizzato unitamente all’Assessorato Regionale Politiche Sociali. Sempre nel 2004, l’incontro a Torino promosso dal Gruppo Abele, dal titolo “Quale ruolo dell’ambasciata del Marocco?”, ha visto la partecipazione attiva di funzionari del Settore Regionale Polizia Locale e Politiche per la Sicurezza, così come avvenuto negli altri due incontri di apprendimento dei bisogni e delle istanze dei cittadini albanesi, romeni e moldavi, sempre promossi congiuntamente dalla Regione Piemonte e dal Gruppo Abele nel corso dello stesso anno. Un focus di particolare attenzione è stato la relazione tra i minori stranieri in Italia, la loro integrazione, assistenza e, in alcuni casi, la loro devianza, ed il rapporto che li collega in maniera del tutto speciale con la Polizia Locale, spesso da questi correttamente intesa quale interlocutore primario. Al proposito, annoveriamo il seminario svolto a Torino nel 2001, in cui l’attenzione è stata dedicata ai minorenni provenienti dai Paesi arabi e che ha annoverato relatori appartenenti alle diverse Istituzioni che operano in tale ambito: dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni, alla Polizia di Stato, all’Ufficio Minori Stranieri del Comune di Torino. Accanto ai sopra menzionati interventi, il Settore Regionale ha sempre creduto anche negli interventi formativi rivolti direttamente al corpo della Polizia Locale, attraverso corsi regionali di diversa tipologia per Operatori di Polizia Locale. Più specificatamente, oltre che nel corso iniziale per

Approfondimenti tematici sulle comunità più presenti e sui

minori stranieri

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Operatori di Polizia Locale neo-assunti, la legislazione sugli stranieri ha costituito e costituisce a tutt’oggi uno dei punti di forza e di pregio dei corsi regionali di aggiornamento per il Ruolo Agenti ed Ispettori di Polizia Locale e per quelli per il Ruolo Commissari di Polizia Locale, pur con livello di approfondimento diverso. Per non trascurare in alcun modo altri delicati aspetti collegati alla presenza

in Italia dei cittadini stranieri, tanto più se determinati dal proliferare di conoscenze tecnologiche nuove o da scelte legislative di rinnovato interesse per la disciplina dell’immigrazione, il Settore Polizia Locale e Politiche per la Sicurezza ha dedicato parte della propria azione ad aspetti innovativi quali il falso

documentale. Ciò, ad esempio, ha contraddistinto il corso di aggiornamento professionale tenutosi ad Alessandria nel 2005 allorché si affacciavano sulla scena i primi strumenti di riconoscimento dei fatti di contraffazione di documenti d’identità o di guida, o, come accaduto più di recente, a Torino nel maggio di quest’anno, allorché si è dato conto delle novità normative nel cosiddetto “diritto penale dell’immigrazione”, in un convegno patrocinato dalla Regione Piemonte e dal Gruppo Abele. Convegno in cui, i quadri della Polizia Locale, dell’Arma dei Carabinieri e della Polizia di Stato hanno potuto beneficiare di relazioni di esperti attivi in materia ed appartenenti oltre che al Settore Regionale Polizia Locale e Politiche per la Sicurezza, alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, alla Polizia di Stato - Ufficio Immigrazione, allo Sportello Inti del Gruppo Abele ed anche al campo della formazione giuridica in materie correlate. Quest’ultima iniziativa ha messo in luce un bisogno di conoscenza ed un desiderio formativo che connoterà certamente l’azione futura d’intervento del Settore Regionale, vale a dire, la necessità di dotare la Polizia Locale di strumenti pratico-operativi puntualmente orientati a tutti i molteplici campi d’azione che coinvolgono i cittadini stranieri e la Polizia Locale: partendo dai mezzi a disposizione per i controlli amministrativi delle persone sino a quelli per il controllo dell’impiego di manodopera nei luoghi di lavoro. Al cospetto di questa sfida propositiva, il Settore Polizia Locale e Politiche per la Sicurezza nel corso del 2013 ha realizzato un seminario di aggiornamento dedicato alla materia dei controlli di polizia. Il proposito è trasmettere agli Operatori di Polizia Locale i risultati degli sviluppi legislativi, giurisprudenziali e anche comportamentali/culturali che devono orientare l’attività quotidiana di servizio della Polizia Locale piemontese per operare autonomamente ed efficacemente nell’ambito, sempre più “sfidante”, degli stranieri e dell’immigrazione, al servizio dell’intera collettività.

La legislazione sugli stranieri al centro dei corsi regionali di formazione e aggiornamento

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Altra azione attuata nel 2013 è quella relativa alla creazione di un moderno Laboratorio Regionale di Polizia Scientifica Locale, avente il compito di implementare l’uso delle tecnologie scientifiche nei servizi di controllo del territorio e dei cittadini, stranieri e non, da parte della Polizia Locale. Ciò potrà avvenire grazie alla messa in rete di tecnologie e di supporto di personale competente, relativamente agli ambiti: dei falsi documentali; delle investigazioni scientifiche; delle foto segnalazioni delle persone arrestate e fermate; di banche dati relative ad un archivio dei falsi documentali e delle persone foto segnalate, di un portale dei falsi documentali e, preventivamente, della necessaria attività della formazione degli Operatori della Polizia Locale che, nella loro quotidiana attività di servizio, si troveranno ad affrontare anche queste problematiche. La misura regionale è particolarmente degna di nota, in quanto, partendo dalla messa a disposizione del Laboratorio di Polizia Scientifica, nonché delle competenze e delle tecnologie di cui dispone il Nucleo Investigativo del Corpo di Polizia Locale della Città di Torino, anche i Corpi di Polizia Locale di tutti gli altri restanti Capoluoghi di provincia piemontesi potranno fruire di unità di personale specializzato nella trattazione degli interventi implicanti l’utilizzo di tali conoscenza. Quest’ultimo settore di finanziamento e di coordinamento regionale rappresenta, però, solamente l’ultimo tassello di un disegno programmatico

e strategico che ha da sempre connotato l’azione propositiva del Settore Polizia Locale e Politiche per la Sicurezza. Al riguardo si deve rammentare la poderosa attività di formazione linguistica, di valorizzazione ed accrescimento

del patrimonio linguistico già in possesso degli Operatori di Polizia Locale, che il Settore ha curato a partire dal 1994, attivando corsi per l’apprendimento di una lingua straniera. Assai significativi sono stati i corsi di apprendimento e perfezionamento delle seguenti lingue: inglese, tedesca e soprattutto quella araba, rispetto alla quale, considerata la presenza predominante in Piemonte della comunità marocchina, i discenti si sono specializzati e perfezionati con il marocchino colloquiale. Soltanto per fornire qualche dato, dal 1998 al 2003 si sono svolti i corsi di lingua araba moderna su 4 livelli, oltre a quello di mantenimento, per un totale complessivo di 14.376 ore di formazione. Accanto ai corsi, l’Amministrazione Regionale, nel periodo compreso tra il 1994 e il 2004, ha realizzato 6 sessioni di esami di lingue (inglese, francese, olandese, tedesco, spagnolo, portoghese, greco,

Il Laboratorio Regionale di Polizia Scientifica Locale: efficienza e

ottimale sfruttamento delle risorse

La formazione linguistica per un miglior servizio di Polizia Locale

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polacco) con 1520 Operatori di Polizia Locali esaminati con successo. L’assunto secondo cui un Comando di Polizia Locale che curi anche gli aspetti connessi ad un adeguato possesso di conoscenze linguistiche da parte dei propri addetti, potrà ragionevolmente disporre di un servizio in più da mettere a disposizione degli stranieri con i quali gli operatori vengono in contatto, si è rivelato vincente ed ha contribuito ad implementare la qualità del servizio della Polizia Locale piemontese, sia nei centri a maggior vocazione turistica sia in quelli interessati dalla presenza di cittadini stranieri, magari anche solo in transito, per ragioni di lavoro temporaneo. L’impegno del Settore Polizia Locale e Politiche per la Sicurezza per gli anni a venire condurrà auspicabilmente ad un’azione formativa regionale multi lingue ancora più capillare e sistematica, in maniera da mettere in grado il numero maggiore possibile di Operatori di Polizia Locale di poter efficacemente interloquire con qualsivoglia cittadino straniero: sia che si presenti al front office del Comando, sia che ci si rapporti sul territorio per una richiesta di informazioni, di controllo o di qualunque altra ragione legata alla funzione di polizia di prossimità propria della Polizia Locale.

Note 1 Secondo il XXII Dossier Statistico Immigrazione, realizzato da Caritas Italiana, Fondazione Migrantes e Caritas diocesana di Roma, che è stato presentato il 30 ottobre 2012 si stima che “il numero complessivo degli immigrati regolari, inclusi i comunitari e quelli non ancora iscritti in anagrafe, abbia di poco superato i 5 milioni di persone alla fine del 2011, un numero appena più alto di quello stimato lo scorso anno (5.011.000 rispetto a 4.968.000)”. 2 Da anni si discute di una riforma della polizia locale e di un coordinamento delle politiche di sicurezza urbana. L’ultimo disegno di legge recante “Norme di indirizzo in materia di politiche integrate per la sicurezza e la polizia locale” è stato presentato all’esame della I Commissione Affari Costiuzionali dal Senatore Saia nella scorsa legislatura ed è attualmente sospeso. 3 Si fa qui riferimento alle modifiche normative e costituzionali, quali l’elezione diretta del Sindaco nel 1993, l’apertura nel 1998 dei Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica ai Sindaci dei Comuni capoluogo, la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 che ha riconosciuto alle Regioni competenza esclusiva in materia di Polizia Locale. 4 Il panorama delle misure adottate in questi ultimi anni sul tema della sicurezza urbana (o sicurezza integrata) è molto ampio e comprende interventi a diverso livello territoriale: dal Programma Operativo Nazionale “Sicurezza per lo sviluppo - Obiettivo convergenza 2007-2013” che coinvolge quattro regioni del Sud di Italia (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) ai programmi promossi dal Ministero dell’Interno in materia di sicurezza e immigrazione (Programma “100 Milioni per la sicurezza”, Fondi europei FEI e FER, Patti per la sicurezza), dalle leggi regionali che negli anni hanno finanziato molti progetti e patti locali sulla sicurezza, alle politiche e interventi messi in campo dai Comuni, in autonomia e in partenariato con altre realtà. 5 Secondo Dickmann, le forme di conflitto territoriale possono ascriversi a due tipologie: a) i conflitti di spazio: con l’arrivo e l’insediarsi di nuove componenti etniche, lo spazio disponibile diventa sempre più ristretto e ridotto; b) i conflitto di uso e di tempo: con l’arrivo

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e l’insediarsi di nuove componenti etniche, lo spazio si modifica in termini qualitativi, rispetto all’immagine (reale o percepita), alle modalità di uso degli spazi collettivi (parchi, piazze, stazioni, etc) e alle modalità d’uso degli spazi privati (cortili e zone comuni dei fabbricati, luoghi di affaccio della ttività commerciali). 6 Secondo i dati dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR) del Dipartimento per le Pari Opportunità, istituito presso la Presidenza del Consiglio, tra i casi di discriminazione istituzionale avvenuti nei primi 11 mesi del 2011 ve ne sono alcuni che vedono coinvolti operatori di forze di polizia municipale, responsabili di un uso sproporzionato della forza negli sgomberi di rifugiati somali ed eritrei (Firenze, 24 maggio), di eccesso di controlli (Palermo, 19 giugno) e di pratiche ritenute discriminatorie nei confronti dei venditori ambulanti di origine straniera (Roma, 24 maggio). Per approfondimenti, si veda la sezione IX del Rapporto dell’European Commission against Racism and Intolerance (ECRI) sull’Italia adottato il 6/12/2011 e pubblicato il 21/02/2012. 7 A metà maggio del 2013 la città di Stoccolma ha vissuto scene di guerriglia urbana in alcuni quartieri periferici abitati per lo più da immigrati, dove si sono ripetuti i roghi di auto e i lanci di pietre contro la polizia. I disordini, che hanno colpito anche le periferie di altre città svedesi, sono stati innescati il 13 maggio dall'uccisione da parte della polizia di un uomo di 69 anni armato di coltello. Gli agenti sono stati accusati di eccessiva brutalità e di cori razzisti contro i manifestanti. 8 Come evidenziato da Rossella Selmini, “le polizia locali - e municipali in particolare - sono oggi un attore istituzionale sottoposto a forti pressioni e in continuo movimento” (pag. 14). L’autrice ricorda le principali pressioni esterne (dinamiche conflittuali tra governi nazionali e locali e politicizzazione della sicurezza) e interne (tra le varie “anime” della polizia locale sui modelli di polizia da adottare, o legate alle caratteristiche del contesto in cui operano e agli orientamenti del Sindaco del Comune di appartenenza). 9 Al link http://www.regione.piemonte.it/polizialocale/dwd/etica/allcartaRotterdam.pdf è possibile scaricare il testo della Carta di Rotterdam. 10 Al link http://www.regione.piemonte.it/polizialocale/dwd/pubblicazioni/cop_piemon.pdf può essere scaricata la pubblicazione. 11 Per il testo della Guida in italiano si rimanda alla traduzione scaricabile al link http://fra.europa.eu/sites/default/files/fra_uploads/1133-Guide-ethnic-profiling_IT.pdf 12 http://www.regione.piemonte.it/polizialocale/dwd/prossimita/allegato1.pdf, p. 28. 13http://www.comune.torino.it/vigiliurbani/poliziamunicipale/struttura/nuclei/protocolli_intesa.shtml). 14 Questo paragrafo è stato redatto da Avv. Alberto Ceste, funzionario del Settore Polizia Locale e Politiche per la Sicurezza. 15 Sul sito http://www.regione.piemonte.it/polizialocale/pubblicazioni.htm sono disponibili gli atti del convegno.

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Capitolo 10 Trasformazioni urbane e sicurezza nelle città. Il percorso a norma per progettare spazi pubblici più sicuri di Sarah Chiodi 1. Introduzione …...……..…….………..………………….......................p. 311 2. Le teorie di prevenzione ambientale del crimine ……..................p. 312 Quale tipologia di prevenzione? Quale ambito di riferimento? I precursori Le principali teorie di prevenzione ambientale del crimine Lo stato dell’arte degli studi sulla CPTED in Italia Il quartiere Città Nuova di Alessandria 3. Le applicazioni più diffuse della prevenzione ambientale ...........p. 323 La manualistica I marchi di sicurezza Le gated communities: un esempio di città sicure? Esempi di città protette in Italia La normativa L’esperienza italiana 4. Indicazioni operative ………..….……………………………............p. 339 Note ………………………………………………...…………………..........p. 344

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Introduzione

Questo capitolo ha l’obiettivo di fornire alcune informazioni sulla prevenzione ambientale del crimine e di offrire spunti per la progettazione di spazi pubblici più sicuri. Si affronta il tema delle relazioni tra l’organizzazione dello spazio fisico e la sicurezza, nonché le forme di sorveglianza e controllo del territorio legate al modo in cui lo stesso è progettato, organizzato e vissuto dagli abitanti. Ci si propone di offrire, agli Enti locali e a tutti i soggetti che hanno competenza in materia di pianificazione e progettazione urbanistica, alcuni elementi di riflessione sui vari aspetti e sui vari livelli a cui si può agire attraverso l’urbanistica in termini di promozione della sicurezza: dalla scala più ampia della città in cui si pianificano le funzioni delle diverse aree cittadine, alla scala di dettaglio in cui si definiscono la disposizione e gli usi degli spazi nei quartieri. Gli studi e le ricerche che a partire dagli anni ’70 si sono sviluppati intorno a questi temi - e che saranno descritti dettagliatamente nel primo paragrafo -

si sono focalizzati su come progettare edifici, quartieri e parchi per ottenere un buon livello di sicurezza dello spazio urbano. Grazie a questi contributi iniziali e alle successive elaborazioni, si è

giunti nel tempo ad affermare l’idea che l’urbanistica, disciplina fino a quel momento considerata del tutto estranea al dibattito sulla sicurezza, può dare un contributo alla creazione di ambienti urbani sicuri e che l’organizzazione delle funzioni e degli usi degli spazi incide in maniera rilevante sulla sicurezza. Questo riconoscimento della rilevanza della progettazione urbanistica ha alimentato un filone di studi e una serie di interventi sperimentali in questo campo. Come anticipato, il primo paragrafo introduce il concetto di prevenzione ambientale del crimine e delinea il quadro storico entro cui si sono sviluppate le principali teorie di riferimento e gli esponenti più noti. Inoltre si dà rilievo alle elaborazioni teoriche sviluppate nel contesto italiano, nonché ad alcuni esempi di concreta applicazione nella realizzazione urbanistica e architettonica delle città italiane. Il secondo paragrafo propone una breve disamina delle applicazioni più diffuse di prevenzione del crimine attraverso la progettazione architettonica e urbanistica; in particolare si presenteranno alcune esperienze di recepimento dei principi della CPTED nella normativa nazionale e nella prassi in campo urbanistico: dalla redazione di manuali e linee guida a

Urbanistica: una disciplina che incide sulla sicurezza

1

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carattere tecnico alla ideazione di marchi di certificazione per arrivare all’evoluzione normativa in materia a livello nazionale ed europeo e alla

realtà delle gated communities. Saranno inoltre presentate alcune esperienze italiane di governo del territorio mediante strumenti di pianificazione urbanistica, interventi di rigenerazione urbana o di

recupero sociale dello spazio sociale progettate e realizzate in un’ottica di sicurezza urbana. Infine, allo scopo di offrire un supporto operativo agli Enti locali e a tutti i soggetti che possano essere coinvolti in interventi locali di questo tipo (es. responsabili tecnici pubblici, progettisti, soggetti locali) sono proposte alcune indicazioni volte alla promozione di strategie di prevenzione ambientale del crimine nell’ambito di progetti di trasformazione urbana, costruite sulla sintesi del quadro teorico e delle applicazioni più diffuse della CPTED illustrate precedentemente. Le teorie di prevenzione ambientale del crimine

Quale tipologia di prevenzione? Una consolidata letteratura sulla prevenzione del crimine distingue alcune grandi tipologie: la prevenzione sociale, la prevenzione comunitaria e la prevenzione situazionale (cfr. capitolo 2). La prevenzione sociale e quella comunitaria si focalizzano sui fattori socio-ambientali che sono causa dell’azione criminale. Cause sociali (disagio sociale, disoccupazione, bassi livelli di istruzione, ecc.) condizionano il comportamento del soggetto che, anche in relazione a fattori psicologici individuali, sarà più o meno propenso a compiere un’azione criminale. Per fare alcuni esempi: cause di disagio economico grave possono favorire comportamenti criminosi, ma questo non significa che tutte le persone che si trovano in quella condizione siano destinate a compiere crimini; allo stesso modo, bassi livelli di istruzione uniti ad ambienti urbani degradati possono contribuire all’insorgere di bande giovanili, ma non tutti i giovani poco istruiti che vivono in quartieri disagiati sono delinquenti. In particolare, la prevenzione comunitaria comprende tutte quelle strategie mirate a sostenere la partecipazione dei cittadini e promuovere nuove forme

Le diverse forme di prevenzione:

sociale, comunitaria e situazionale

Alcuni esempi di applicazione della CPTED

2

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di aggregazione al fine della ricostruzione del controllo sociale informale (Selmini, 2011): dall’animazione territoriale, alla sorveglianza naturale, al sostegno familiare e/o di organizzazioni sociali, religiose o laiche. La prevenzione situazionale, invece, non tiene in conto dei condizionamenti socio-ambientali sul soggetto, ma solo della componente fisico-ambientale, riducendo le potenziali opportunità di compiere crimini e aumentando i rischi per gli autori. Si concentra su misure di sorveglianza meccanica o naturale, sulla configurazione dello spazio fisico, sull’illuminazione, su sistemi di allarme o di sicurezza di varia tipologia. Le applicazioni descritte in questa dispensa sono spesso collocate nell’ambito della prevenzione situazionale, anche se più opportunamente si dovrebbe parlare di prevenzione integrata, ovvero di “prevenzione ambientale” (Acierno, 2003) o di prevenzione “place-based”1 (Schneider e Kitchen, 2007) che comprende l’azione preventiva sia sulla componente fisica dell’ambiente sia su alcune componenti socio-comunitarie.

Quale ambito di riferimento?

Come riportato nel titolo, l’oggetto di questo capitolo sono le trasformazioni urbane, e quindi la disciplina urbanistica che di queste si occupa. La trasformazione di un pezzo di città, infatti, riguarda da una parte la definizione dello spazio fisico (infrastrutture, arredo urbano, morfologia degli edifici, ecc.), e dall’altra coinvolge una sfera immateriale (la programmazione degli usi del suolo, la definizione delle fasi di attuazione degli interventi, la manutenzione degli spazi). Inoltre sulla sicurezza incidono fattori psicologici come l’identità locale e il senso di appartenenza ai luoghi, ai quali si può dare rilievo attraverso il coinvolgimento dei cittadini nelle scelte di trasformazione dello spazio urbano. In sintesi possiamo specificare il rapporto tra urbanistica e sicurezza attraverso quattro ambiti sostanziali: la pianificazione urbana, il disegno urbano, la gestione degli spazi e la partecipazione. Per pianificazione urbana si intende quell’ambito dell’urbanistica che definisce l’assetto fisico del territorio, gli usi del suolo (destinazioni d’uso, infrastrutture, servizi), le densità e tutti gli elementi che concorrono alla pianificazione della città, senza intervenire alla scala di dettaglio della definizione dei volumi, dei tracciati delle strade o della progettazione del verde. Gli strumenti della pianificazione urbana sono rappresentati dai Piani regolatori generali2 e dagli effetti locali derivati dai piani di scala vasta (provinciale e regionale), dunque, fanno riferimento a un’azione di

Gli ambiti da considerare:

pianificazione, disegno, gestione

degli spazi, partecipazione

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programmazione degli usi del suolo e non alla costruzione materiale degli spazi. Consideriamo il disegno urbano come l’assetto morfologico di una porzione di città alla scala di quartiere/isolato, che dettaglia a livello progettuale la forma dello spazio urbano, con una precisa definizione degli spazi pubblici, degli arredi urbani, delle sezioni stradali. Gli strumenti urbanistici di riferimento sono quelli di attuazione dei piani regolatori, ovvero gli strumenti urbanistici esecutivi o negoziati (piani particolareggiati, piani esecutivi convenzionati, programmi integrati d’intervento)3. La gestione degli spazi comprende le politiche locali di gestione e manutenzione del territorio, i controlli e le azioni di sorveglianza (compresi i sistemi di videosorveglianza), i regolamenti locali, la diffusione dei servizi e l’animazione territoriale. Si tratta di attività che possono afferire a settori amministrativi diversi (ambiente e territorio, polizia locale e sicurezza, arte e cultura, istruzione, servizi sociali ed educativi) e che possono essere esercitate anche da soggetti del Terzo Settore o da privati. Non sono quindi strettamente legate alla disciplina urbanistica. In urbanistica la partecipazione ha numerose sfere applicative. Ne sono esempio le pratiche di progettazione partecipata: laboratori di progettazione di varia tipologia svolti con gli abitanti, focus group con testimoni privilegiati su alcuni temi-chiave di un progetto, questionari e altre indagini svolte tra gli abitanti per conoscere le problematiche emergenti o i pareri sulle scelte progettuali intraprese. Oppure le attività di informazione e di consultazione degli abitanti durante la predisposizione degli strumenti di pianificazione (specie dei piani strategici, ove previsti). La partecipazione può anche avvenire solo in forma “istituzionale”, ad esempio attraverso la formazione di tavoli di concertazione o di conferenze di pianificazione, istituiti tra i diversi attori istituzionali e/o portatori di interessi per lo sviluppo di nuovi piani o politiche. Occorre qui fare un’ulteriore distinzione tra la partecipazione inter-istituzionale (tra diversi settori amministrativi o tra gli stakeholder di un progetto) e la partecipazione degli abitanti. Se la prima è pensata in una logica di integrazione tra settori e interessi prevalenti, la seconda mira a promuovere l’identità locale e il senso di appartenenza ai luoghi. Entrambe, tuttavia, sono importanti per la buona riuscita di un progetto di trasformazione territoriale in termini di sicurezza (e non solo).

I precursori

I primi precursori dell’approccio ambientale alla sicurezza possono essere individuati nei ricercatori della Scuola di Chicago attivi nei primi decenni del

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XX secolo. R. Park, E. Burgess, R. McKenzie (1999, ed. or. 1938) espongono una teoria ecologica della criminalità che si basa sulle relazioni tra criminalità e ambiente nello studio della città di Chicago. Le caratteristiche dell’ambiente, inteso come contesto sociale, sono identificate come fattori determinanti dei comportamenti devianti e su di esse si ritiene necessario agire per poter prevenire la criminalità. Elisabeth Wood, direttore esecutivo della Chicago Housing Authority, sviluppò un’articolata teoria a sostegno dell’integrazione razziale attraverso il design mirata a ridurre la criminalità e la povertà nei quartieri di edilizia residenziale pubblica. La sua Social Design Theory (Wood, 1961) si basa sull’idea che un’attenta pianificazione urbanistica possa contribuire alla vivibilità dei quartieri popolari, allo sviluppo delle relazioni sociali e alla prevenzione della criminalità. La progettazione dello spazio pubblico e semi-pubblico intorno alle case è ritenuto essenziale: ad esempio garantendo la presenza di spazi per lo sport, il tempo libero e il gioco che siano ben visibili dagli edifici circostanti; oppure attraverso il semplice disegno delle panchine volto a favorire la socializzazione e il controllo spontaneo; o con attrezzature a “prova di vandalo”. In particolare è bene evitare case a torre, perché chi si affaccia dai piani alti non è in grado di comunicare o vedere distintamente chi passa per la strada.

Fig. 1 Esemplificazione progettuale di prevenzione ambientale

del crimine per gli spazi pubblici (Wood, 1961)

La principale figura di riferimento delle teorie di prevenzione ambientale è Jane Jacobs. Giornalista nota per la sua rilevante influenza sugli studi urbani, pubblicò un testo di larga fama sulle grandi città americane. È considerata dalla letteratura l’ispiratrice dell’approccio ambientale alla sicurezza, inteso come pratica preventiva orientata ad intervenire sulla

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pianificazione urbanistica. Il testo muove un’aspra critica contro i metodi di pianificazione e di ristrutturazione urbanistica moderni che hanno portato alla realizzazione di “complessi di case popolari che diventano centri di criminalità, di vandalismo e di disgregazione sociale senza rimedio” (Jacobs, 2000, ed. or. 1961 p.3). Contesta i princìpi della zonizzazione tanto quanto il modello dell’unità di vicinato, considerandoli radice della disgregazione del tessuto sociale urbano, cui consegue uno scarso controllo informale sullo spazio pubblico. Il rimedio fondamentale suggerito per la sicurezza è “la diversità di usi”, cui conseguono la vitalità delle città e la sicurezza urbana. La vitalità, infatti, implica una sorveglianza spontanea che attraverso “gli occhi sulla strada” garantisce un controllo naturale sulla città. Nell’elaborazione di Jane Jacobs, così come in quella dei teorici successivi, il contesto di riferimento è sempre quello urbano e spesso riferito ad aree metropolitane di una certa dimensione. Se da una parte questo può far sembrare complesso trasferire tali princìpi a contesti territoriali con caratteristiche molto diverse (si pensi ad esempio ai Comuni piemontesi, il 90% dei quali ha meno di 5000 abitanti, o ai Comuni in area montana caratterizzati da frazioni sparse nel territorio), dall’altra si tratta di princìpi generali la cui applicazione richiede sempre un lavoro di “traduzione e adattamento” allo specifico contesto da parte di un Ente locale, piccolo o grande che sia. Sebbene la possibilità di mettere in pratica i princìpi della CPTED sia oggi fortemente condizionata dall’assetto urbanistico e architettonico esistente, negli ultimi anni in Piemonte, anche grazie alle risorse della legge 23/2007 sulla sicurezza integrata, sono stati realizzati interventi interessanti di riqualificazione, rivitalizzazione, manutenzione e cura degli spazi pubblici ispirati ai concetti della prevenzione ambientale della criminalità: la territorialità, la vitalità, l’uso continuo e la manutenzione degli spazi (si vedano gli esempi a p. 35).

I principi fondamentali di prevenzione del crimine secondo J. Jacobs

→ Strade e marciapiedi vanno progettati con grande attenzione perché sono lo specchio della funzionalità urbana

→ La diversità di persone e di usi va favorita attraverso la mescolanza di funzioni (mixitè), la piccola dimensione degli isolati, la presenza di vecchi edifici e una densità di popolazione sufficientemente alta

Un approccio con radici

lontane

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→ La sorveglianza sociale naturale è funzionale alla sicurezza urbana. Va garantita la presenza degli “occhi sulla strada” attraverso un’adeguata conformazione delle strade e degli edifici, e la compresenza di tipologie diverse di persone (percorsi pedonali, ciclistici e automobilistici sullo stesso piano)

→ La formazione di uno spirito comunitario (legami di vicinato) è alla base della sorveglianza sociale naturale ed è favorita dalla stabilità residenziale

→ I parchi sono spazi molto vulnerabili in termini di sicurezza urbana. Devono essere vitali e in numero limitato, caratterizzandosi come elemento distintivo di un quartiere; favorire una molteplicità di usi

Le principali teorie di prevenzione ambientale del crimine Il concetto di prevenzione ambientale del crimine deriva dal testo del criminologo americano C.R. Jeffery, Crime Prevention Through Environmental Design (CPTED), in polemica con il sistema della giustizia penale basato sulla deterrenza e sulla punizione anziché sulla prevenzione. Il testo prende spunto dalla psicologia comportamentista per la quale ogni comportamento prende forma sulla base degli stimoli ambientali e può produrre un rinforzo o una punizione. Secondo questa visione si è dedotto che manipolando l’ambiente in modo adeguato sia possibile indurre nel soggetto reazioni specifiche che incidono sulla commissione o meno di reati. L’idea di prevenzione del crimine di Jeffery (1990) si fondava sulla riqualificazione dell’ambiente urbano orientata alla limitazione della presenza di aree degradate, alla riduzione delle densità abitative, al miglioramento degli standard edilizi, all’adeguamento di servizi e di attrezzature e all’eliminazione dei vuoti urbani. Nessuna parte del suo libro faceva riferimento ad un’idea di manipolazione dell’ambiente legata ai concetti di sorveglianza, controllo degli accessi o territorialità (Acierno, 2003). Questi concetti saranno invece ampiamente utilizzati dalle teorie successive, tanto da poter affermare che il concetto di CPTED oggi diffuso ignora totalmente le idee di Jeffery (Robinson, 1999). Oscar Newman rappresenta il riferimento principale della CPTED nonostante non ne sia stato il fondatore. È il primo architetto ad occuparsi effettivamente di prevenzione ambientale del crimine. La sua teoria sugli spazi difendibili (Defendible Space, 1972) era il risultato di una ricerca condotta per il NILECJ4 che aveva l’obiettivo di valutare le relazioni tra ambiente fisico e rischio di vittimizzazione criminale (Wallis, 1980). Da uno studio realizzato su 169 quartieri di edilizia pubblica residenziale nell’area metropolitana di New York, Newman osservava che alcuni caratteri fisici

Dalla riqualificazione agli spazi difendibili:

una prima evoluzione della CPTED

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sembrano ripetersi nelle aree più insicure: edifici alti, densamente abitati, senza gerarchie funzionali e senza alcun rapporto con la strada. Le teorie di Newman (realizzazione di strade chiuse, controllo degli accessi, chiara suddivisione degli spazi, limitazione degli attraversamenti ecc.) sono state applicate con successo in molte città degli Stati Uniti, specie nei quartieri popolari ad alto tasso di criminalità (Five Oaks, a Dayton, Ohio; Clason Point, nel South Bronx, New York; la cittadina di Yonkers a New York). Il suo approccio tuttavia è stato oggetto di alcune perplessità: in primo luogo rispetto all’efficacia nel ridurre il crimine alla scala di quartiere anziché in piccole aree residenziali, e in secondo luogo rispetto all’efficacia temporale, in quanto i criminali cambierebbero velocemente le proprie strategie adattandosi alle nuove caratteristiche del luogo. Nonostante i numerosi dubbi, i princìpi di Defendible Spaces sono comunque ritenuti validi ancora oggi e rappresentano la base del modello di sicurezza della polizia inglese denominato Secured by Design (SBD). Le caratteristiche dello spazio difendibile secondo O. Newman

La territorialità Capacità dell’ambiente fisico di suscitare un sentimento di appartenenza nei residenti. Può essere favorita attraverso una suddivisione gerarchica e chiara degli spazi ed evitando la presenza di aree non sorvegliate. In termini progettuali, si possono prevedere strade a cul de sac, aree comuni, barriere fisiche o simboliche tra gli spazi pubblici e privati, complessi di piccola dimensione.

La sorveglianza naturale Presenza di diverse persone nelle varie ore del giorno che incrementa la percezione di sicurezza. Gli accorgimenti progettuali riguardano la disposizione delle finestre, la visibilità degli accessi, un’adeguata illuminazione notturna.

L’immagine urbana Qualità percepita dell’ambiente urbano attraverso i suoi caratteri morfologici (impianto stradale, altezza degli edifici, materiali, ecc.). Bisogna evitare la stigmatizzazione dei quartieri popolari di bassa qualità edilizia perché contribuiscono a etichettare negativamente un insediamento, facendolo percepire come insicuro.

Il mix delle funzioni Collocazione degli edifici in aree funzionali e omnicomprensive, favorendo la vitalità urbana. È importante favorire una giusta mixitè, facendo attenzione a combinare opportunamente le funzioni.

Basandosi sul lavoro di Oscar Newman, la geografa inglese Alice Coleman ha svolto alcune ricerche nella periferia londinese con l’obiettivo di

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dimostrare il rapporto tra design urbanistico e comportamenti devianti. Il suo lavoro, decritto nel libro Utopia on Trial. Vision and Reality in Planned Housing (1985), cercava di verificare con un metodo scientifico le influenze dello spazio fisico sul comportamento umano, analizzando le statistiche criminali, alcuni indicatori fisici associati al degrado (la presenza di rifiuti, atti vandalici, escrementi, graffiti e la concentrazione di giovani) e realizzando numerose interviste agli abitanti. I dati relativi al degrado raccolti sono messi in relazione con le variabili architettoniche e urbanistiche, mostrandone la stretta dipendenza attraverso dei grafici matematici (Acierno 2003). In particolare, alcune caratteristiche progettuali si sono dimostrate fortemente correlate con gli indicatori del disagio: il numero di appartamenti per ciascun ingresso, il numero di abitazioni per ciascun isolato, il numero dei piani degli edifici, i passaggi pedonali coperti sopraelevati e l’organizzazione degli spazi aperti del quartiere; tutte sono riferibili alle tipologie abitative tipiche dei quartieri del dopoguerra studiati nella ricerca caratterizzati da edifici alti serviti da ballatoi collocati su spazi pubblici urbani male organizzati. Più di recente si individua una seconda generazione CPTED. Mentre la prima generazione (identificata con la prima formulazione della teoria di Newman) si focalizza sul luogo potenziale del crimine, la seconda si

concentra sull’analisi più ampia del contesto ambientale, incluso l’ambiente fisico, il contesto socio-culturale e politico e gli aspetti di percezione del crimine. Ad esempio, il principio

di sorveglianza è considerato sia come sorveglianza informale “naturale” (come già la intendeva Jane Jacobs), sia come sorveglianza formale ed organizzata (polizia di quartiere, guardie private) o di tipo meccanico (telecamere, sistemi di illuminazione). Gli autori descrivono l’utilità parziale delle singole azioni preventive che, invece, per essere completamente efficaci andrebbero considerate in maniera sinergica e rafforzate dalla partecipazione attiva degli abitanti. I princìpi della seconda generazione CPTED si riassumono in quattro punti fondamentali: la capacità di fare vicinato, ovvero di costituire un ecosistema sociale in un quartiere; la cultura della comunità; la coesione sociale; la connessione territoriale (Saville, Cleveland, 2003). Si apre così una nuova visione della prevenzione ambientale che si estende oltre i confini esclusivamente fisici, facendo riferimento alla valutazione del rischio, alle analisi socio-economiche e demografiche e alla partecipazione attiva della comunità.

Connessione territoriale e sociale: la CPTED amplia i suoi orizzonti

Lo spazio fisico influenza il

comportamento umano

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Lo stato dell’arte degli studi sulla CPTED in Italia

Uno dei principali enti che in Italia si interessa al tema della prevenzione del crimine attraverso la pianificazione urbanistica e la progettazione è il Laboratorio Qualità Urbana e Sicurezza5 del Politecnico di Milano. Il Laboratorio di occupa di fare didattica e ricerca in ambito nazionale ed europeo nel campo dell’urbanistica, con particolare attenzione alla sicurezza di quartieri, spazi pubblici, vie e piazze, parchi urbani, sistemi di trasporto ed edifici. I lavori si ispirano al pensiero di Jane Jacobs secondo la quale il senso di appartenenza ad un luogo e la sorveglianza spontanea sono le migliori garanzie per una città sicura. Una delle iniziative più recenti è la partecipazione, in qualità di ente coordinatore, all’azione europea COST (European Cooperation in Science and Technology), intitolata “Crime Prevention through Urban Design and Planning” (2012-2016)6. Obiettivo dell’iniziativa è lo scambio di conoscenze e approcci in materia di CPTED in Europa attraverso il confronto e lo scambio di esperienze tra i paesi partner. Il Laboratorio inoltre realizza studi e analisi di settore per amministrazioni locali, soprattutto nel Nord Italia. Accanto all’attività del Labqus, sono da menzionare altre realtà che sviluppano ricerche affini al tema della CPTED anche se con finalità prevalenti di ricerca e di scambio delle conoscenze. Tra questi: Transcrime, centro interuniversitario di ricerca sulla criminologia transnazionale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e dell’Università degli Studi di Trento, che sviluppa attività di ricerca e progetti in materia di sicurezza urbana, prevenzione situazionale, analisi spaziale della criminalità e attività di valutazione delle politiche urbane7; il Forum Italiano per la Sicurezza Urbana8, un’associazione di enti territoriali nata nel 1996 con l’obiettivo di promuovere politiche di sicurezza urbana. Il FISU promuove attività di formazione e aggiornamento tematico, di ricerca e diffusione delle iniziative realizzate dalle città nell’ambito delle politiche per la sicurezza urbana.

Non solo urbanisti e architetti si sono occupati del legame tra criminalità e ambiente. Come già accennato nei capitoli 2 e 6, alcune teorie criminologiche, denominate neo-classiche o razionali, hanno posto l’accento sulle opportunità come elemento decisivo nel determinare un comportamento criminale e di conseguenza hanno individuato nella riduzione di tali opportunità l’elemento fondamentale delle politiche volte a ridurre la criminalità. Si tratta della politica denominata prevenzione situazionale che si basa sul presupposto che il comportamento criminale non sia tanto il frutto di una predisposizione individuale, ma che sia fortemente condizionato dalle componenti ambientali in cui si verifica e che sia razionalmente motivato (Selmini, 2011). Per tale ragione si ritiene si

Si riduce il crimine riducendo

le opportunità

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debba agire sulle componenti ambientali attraverso interventi che ad esempio rendano i bersagli delle attività criminali più difficili da avvicinare, mediante una diversa progettazione degli oggetti (si pensi oggi alla impossibilità di rubare autoradio perché incorporate nel cruscotto) o dei luoghi (si pensi alla progettazione di aree verdi evitando gli atti di vandalismo sugli arredi). Inoltre molti criminologi hanno sostenuto che esista un chiaro nesso tra degrado urbano e insicurezza. Una delle teorie più note è quella denominata Broken Windows (teoria delle finestre rotte) di G.L. Kelling e J.Q. Wilson (1982). Secondo questa teoria nei luoghi in cui vi sono segni di disordine (come le finestre rotte e mai riparate) le persone desumono che vi

si possano tenere comportamenti devianti (dagli atti vandalici a comportamenti più gravi) senza alcuna conseguenza; questa situazione, se non controllata, rischia di creare un circolo vizioso: ogni danno alla città che rimane trascurato può

essere ritenuto segno della mancanza di controllo da parte delle autorità e quindi un invito a perpetrare azioni che aumentano il degrado, che attirano di conseguenza fenomeni di criminalità, innescando l’escalation dal disordine alla criminalità9. Per poter prevenire atti criminali è importante aver cura dei propri ambienti di vita, considerandoli la propria casa; perché “comportamenti non curanti portano al fallimento dei controlli comunitari” (Kellin, Wilson, 1982, p. 32). Questa teoria è stata alla base di molte politiche anticrimine negli Stati Uniti, compresa la nota politica della “tolleranza zero” promossa dall’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani. Influenze della prevenzione ambientale nell’urbanistica contemporanea, infine, si possono riscontrare nel New Urbanism (neourbanesimo). Si tratta di un movimento urbanistico che sostiene il modello della città tradizionale

incentrato sulla viabilità pedonale. Nasce come reazione al design modernista e alla monotonia dei suburbi americani a bassa densità, tipici degli anni ’50 e ’60 e contro la perdita dei valori comunitari a causa dell’urbanizzazione intensiva, già criticata

da Jane Jacobs, alla quale il movimento stesso si richiama. Si sviluppa negli Stati Uniti anni a partire dagli anni Ottanta, e in Europa sotto il nome di Rinascimento Urbano. Il movimento promuove la realizzazione di ambienti urbani compatti, a misura d’uomo e in equilibrio con l’ambiente, a sostegno della piccola dimensione e della pedonalizzazione. I princìpi fondamentali che caratterizzano il movimento sono:

Il nesso tra degrado urbano e sicurezza: la teoria delle finestre rotte

New Urbanism: qualità architettonica e vivibilità

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pedonalizzazione, connessione delle infrastrutture, mixitè funzionale e sociale, varietà tipologica degli edifici, qualità dell’architettura e del disegno urbano, struttura di vicinato legata alla tradizione, aumento della densità (contro la dispersione urbana), trasporti intelligenti, sostenibilità, qualità della vita10. I propositi appaiono positivi e le realizzazioni restituiscono spazi di discreta qualità estetica e di buona vivibilità, ma il movimento è stato fortemente criticato (Marcuse, 2000) perché si rivolge sostanzialmente solo a ricchi benestanti bianchi in cerca di sicurezza e protezione dalla povertà e dal degrado urbano. I fondatori del movimento (Duany e Plater-Zyberk) sostengono che la struttura fisica degli insediamenti possa contribuire a risolvere problemi di traffico, inquinamento, isolamento e di criminalità. Questi effetti potenziali deriverebbero dalla struttura aperta e permeabile, cioè fatta da piccoli isolati e strade a scorrimento lento che facilitano il transito e il passaggio, propria degli insediamenti new urbanism, sviluppando l’idea della sorveglianza naturale e lo sviluppo dello spirito di comunità. Tuttavia non c’è alcuna evidenza empirica che dimostri l’efficacia di questo approccio nella prevenzione del crimine (Kitchen 2005). Al contrario, la polizia inglese sostiene che aumenti il numero dei crimini e di conseguenza i costi di protezione a carico della polizia stessa. Mentre in diversi paesi d’Europa come la Francia, la Germania e il Regno Unito il movimento si è ampiamente diffuso, in Italia le poche realizzazioni in Italia sono “Borgo Città Nuova” ad Alessandria (1995-2002) (vedi box seguente), il centro residenziale in via della Pietra a Bologna (2002-2004) e l’isolato urbano di corso Matteotti a Valenza (1997-2002). In particolare, si è aperto un forte dibattito riguardo la presunta efficacia dell’idea di permeabilità sostenuta dal movimento, che sostiene princìpi conflittuali e ambigui rispetto a quelli dello spazio difendibile del Secured By Design. Molti studi, infatti, mostrano che la permeabilità degli insediamenti e le strutture a griglia reticolare promosse dal movimento abbiano effetti negativi sulla sicurezza. Bothwell et al. (1998), ad esempio, affermano che la permeabilità delle strade causi l’aumento dei furti in appartamento. Anni di ricerche sul comportamento ambientale, in definitiva, confutano le teorie di sicurezza sostenute dal new urbanism (Southworth, 2003), che sono ritenute semplicistiche rispetto alla complessità urbana.

Le applicazioni e il dibattito

sull’efficacia

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Il quartiere Città Nuova ad Alessandria Il progetto consiste nella realizzazione di un nuovo quartiere un tempo occupato dalle officine dell’Olva, storica azienda alessandrina. Presenta due piazze aperte porticate e una rete di strade pedonali, incorporando una chiesa già esistente. Quasi tutti gli edifici hanno negozi al piano terra e appartamenti o uffici ai piani superiori. È possibile comunque

accedere direttamente agli edifici con l’automobile grazie alla presenza di appositi parcheggi a filo strada e di garage privati sotterranei. Non sono previsti appartamenti ad edilizia convenzionata e/o agevolazioni fiscali per l’acquisto, ma gli alloggi presentano tagli diversi. Gli edifici sono a due o tre piani e sono caratterizzati da un linguaggio architettonico tradizionale di tipo classicheggiante, con suggestioni di diversa derivazione storico-geografica (non necessariamente locale): la villa urbana, la casa a corte, il palazzo rinascimentale. Gli interventi in materia di sicurezza non sono espliciti ma si concretizzano nell’applicazione dei princìpi di CPTED legati alla qualità dell’ambiente costruito, alla buona manutenzione degli spazi, alla presunta vivacità territoriale (anche se si osserva che il mix di attività non è ben riuscito) e all’eliminazione degli elementi di pericolo legati al traffico (le strade sono pedonali) e al disagio sociale (i costi degli immobili non sono accessibili alle persone indigenti o di ceto basso, il che porta con sé anche evidenti segni di esclusione).

Le applicazioni più diffuse della prevenzione ambientale

Le teorie CPTED sono oggi applicate in diversi paesi con vari approcci che per semplicità in questo paragrafo sono stati ricondotti a tre impostazioni principali: î pratico-operativa, che ha promosso la diffusione della prevenzione

ambientale del crimine attraverso manuali operativi e linee guida contenenti indicazioni pratiche;

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3

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î basata sulla valutazione, che ha portato alla definizione di sistemi di certificazione e marchi di conformità in grado di attestare il rispetto dei principi della prevenzione ambientale del crimine nella progettazione di edifici (ad oggi, come si vedrà, l’adesione a questi sistemi è su base volontaria);

î legislativa/normativa, che ha affrontato il tema della CPTED all’interno di percorsi di normazione a livello statale ed europeo.

La manualistica Esistono molti manuali in materia di CPTED (Gran Bretagna, USA, Canada, Australia, Svizzera, ecc.) ma si riferiscono per lo più alla scala edilizia. Qui prenderemo in considerazione quelli più significativi alla scala urbana. La Gran Bretagna, e in generale gli Stati anglofoni, tendono ad adoperare

metodi operativi basati su un approccio di tipo pragmatico. Le politiche del governo inglese in materia di prevenzione ambientale del crimine, infatti, si sono concretizzate nella pubblicazione

di alcuni testi operativi per la progettazione (guidance). Il manuale più importante sulla prevenzione ambientale del crimine è stato adottato nel 2004 dall’Home Office e dall’Office of the Deputy Prime Minister e si intitola Safer Places. The Planning Sistem and Crime Prevention (ODPM, Home Office, 2004)11. Questa guida rappresenta uno dei riferimenti più noti attorno ai princìpi della CPTED e offre indicazioni pratiche per la progettazione di spazi urbani più sicuri, accompagnati da esempi concreti. La tabella che segue illustra i princìpi della guida e alcune proposte concrete, offrendo cosi un quadro dell’approccio pragmatico di questi documenti.

Principi della guida Safer Places

Una struttura ben definita e coerente dei percorsi contribuisce alla sicurezza del luogo. → Strade, percorsi ciclo-pedonali e ingressi devono essere adeguati e ben visibili, anche nel rispetto delle esigenze dei soggetti deboli (disabili, anziani ecc.), delle destinazioni d’uso e delle specificità dei contesti locali.

La configurazione dei luoghi influenza la sicurezza e la sostenibilità, pertanto bisogna progettare lo spazio urbano in modo adeguato, anche provvedendo al restauro e alla riqualificazione degli spazi esistenti. → Bisogna accostare edifici con funzioni compatibili in modo da limitare potenziali conflitti, anche scegliendo tipologie edilizie adeguate. → L’arredo urbano deve essere flessibile e facilmente modificabile in relazione ai differenti usi contemporanei e ai possibili cambiamenti nel tempo. → Bisogna evitare la presenza di spazi vulnerabili o scarsamente utilizzati.

I manuali con indicazioni pratiche di progettazione

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La sorveglianza naturale e l’illuminazione incidono sulla sicurezza. → Gli spazi devono essere frequentati e ben visibili dagli edifici circostanti. In particolare, parcheggi e garage devono essere adeguatamente sorvegliati, anche con l’utilizzo di apparecchi di videosorveglianza (che devono essere segnalati da cartelli ben visibili che già fungano da deterrenti). → L’illuminazione pubblica ben progettata incrementa la visibilità e la sensazione di vitalità dei luoghi, contribuendo alla sorveglianza naturale dei luoghi.

Il senso di appartenenza dei luoghi deve essere incoraggiato negli abitanti perché contribuisce a prevenire la criminalità, ad esempio dando la possibilità di personalizzare gli spazi. → Gli usi e le proprietà degli spazi devono essere chiaramente riconoscibili (pubblici, semi-privati o comuni, privati), avendo cura di adoperare barriere (cancelli, cespugli ecc.), segni di distinzione (insegne, segnaletiche), pavimentazioni differenziate, colori, piante, ecc. Si incoraggiano standard tecnici di sicurezza degli edifici, ma senza utilizzare grate o fili spinati che possono evocare senso di pericolo e di insicurezza e inficiare la qualità dell’ambiente costruito. → Usare sistemi di videosorveglianza come deterrente è utile soprattutto se sono ben visibili, ma non sono sufficienti a prevenire il crimine. → Prevedere cancelli e grate non oscuranti, in modo che filtri la luce, ne riduce l’impatto negativo e l’effetto “fortificazione”. La vivacità dei luoghi contribuisce alla sicurezza ma bisogna evitare l’eccesso di attività e di presenze umane che potrebbero generare all’opposto un senso di anonimato. → Trovare la giusta combinazione tra le diverse tipologie di attività in ogni contesto locale (ad es. bar e attività rumorose dovrebbero essere tenute lontane dalle residenze). → Garantire una continua vivacità notte-giorno con attività ricreative che non siano a rischio di violenza. → Evitare fenomeni di segregazione favorendo presenze multiculturali e attività miste. → Favorire la mixitè socio-economica. → Spazi sportivi, ricreativi e di ascolto per i giovani possono prevenire comportamenti anti-sociali e criminali. → Parcheggi sicuri, trasporti pubblici e una buona illuminazione possono essere considerate misure preventive.

Un ambiente curato e di qualità è un buon deterrente per il verificarsi di atti criminali. Partnership pubblico-private possono favorire investimenti locali e promuovere il territorio. → È importante curare con attenzione la progettazione degli spazi pubblici, realizzando spazi attrattivi e piacevoli e prevedendo bassi costi di gestione e manutenzione. → La qualità del progetto è accresciuta dal coinvolgimento di tutti gli attori nella gestione del territorio: residenti, cittadini, imprenditori, utilizzatori finali.

In Europa, con il progetto “Agis-Action Safepolis 2006-2007” cofinanziato dalla Commissione Europea, si è cercato di seguire la medesima impostazione proponendo il manuale “Pianificazione, disegno urbano,

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gestione degli spazi per la sicurezza”12. Questo testo ricalca ed esemplifica con un sintetico apparato fotografico le linee guida proposte all’allegato D dalla norma adottata nel 2007 dal Comitato Europeo di Normazione (CEN/TR 14383-2). Qui ne riportiamo i principi fondamentali, rielaborati mettendo in evidenza le linee guida conseguenti.

I principi fondamentali del manuale Safepolis

Il senso di appartenenza e l’identificazione con il luogo aumentano sia la sicurezza reale che quella percepita perché le persone rispettano e curano i luoghi che sentono propri. → Rafforzare l’identificazione e l’appartenenza ai luoghi

La vitalità delle strade e degli spazi pubblici è un importante fattore di prevenzione del crimine. Un buon mix funzionale (commerciale, residenziale, ricreativo, ecc.) produce una sorveglianza spontanea continua perché implica utenti diversi in tempi diversi. → Favorire la mixitè funzionale della progettazione, evitando spazi monofunzionali

Ogni proposta progettuale deve tener conto delle fasce più vulnerabili della popolazione. → Nella progettazione rispettare le fasce deboli e particolarmente sensibili ai problemi di sicurezza (bambini, donne, anziani)

Modelli di sviluppo urbano basati sulla creazione di zone più sicure e protette rispetto al mondo esterno (percepito come fonte di insicurezza) generano esclusione e producono spazi o complessi residenziali chiusi. → Evitare spazi enclave o ghetti

I luoghi frequentati principalmente da utenti temporanei (come le stazioni, i centri di interscambio) sono più vulnerabili perché gli utenti hanno un basso senso di appartenenza. → Considerare con attenzione i “non-luoghi” (luoghi scarsamente identitari, senza storia, privi di relazioni)

Vandalismo e criminalità si concentrano nei luoghi senza vitalità, indefiniti o nascosti. → Evitare spazi indefiniti, poco vissuti o poco visibili

Una maglia urbana continua e un chiaro disegno degli spazi pubblici migliorano l’orientamento degli utenti e la loro percezione di sicurezza. Una buona visibilità degli spazi pubblici e dei percorsi da strade ed edifici circostanti favorisce la prevenzione del crimine e aumenta la percezione di sicurezza. → Favorire l’orientamento attraverso il disegno del tessuto edilizio e delle strade

Una chiara delimitazione tra spazi pubblici e spazi privati facilita gestione e sorveglianza. → Utilizzare segni opportuni per definire la proprietà (cambio di pavimentazione, recinzioni, segnaletica ecc.)

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La progettazione dei percorsi che conducono a residenze e servizi deve garantire a tutti l’accessibilità. → Garantire l’accessibilità dei percorsi (forme, materiali, barriere architettoniche, illuminazione)

Le aree e gli edifici degradati o abbandonati, così come i luoghi squallidi, suscitano paura e attirano comportamenti antisociali e criminali. → Adottare misure di manutenzione e controllo degli spazi per prevenire il degrado; se presente, intraprendere azioni di recupero urbano

In alcuni casi, per migliorare la sicurezza è necessario rinforzare la sorveglianza spontanea con la sorveglianza formale, che può assumere forme diverse. → Favorire la sorveglianza naturale e, ove necessario, introdurre sistemi di sorveglianza organizzata o di videosorveglianza

La sorveglianza tecnologica (CCTV) non è una risposta ad una progettazione inadeguata. → Adottare la sorveglianza tecnologica all’interno di un piano di sicurezza generale

Le opere temporanee (cantieri, deviazioni, recinzioni, ecc.) non solo producono disagi, ma creano anche luoghi potenzialmente pericolosi. → gli apprestamenti temporanei devono essere progettati anche in termini di sicurezza (con allarmi, illuminazione)

I princìpi di CPTED sono parte integrante anche degli indirizzi della pianificazione delineati nella “Policy Guide on Security” (2005)13 dall’America Planning Association (APA) che ha curato un proprio manuale

intitolato “Safescape” (Zelinka, Brennan, 2001). Il testo si presenta come un’alternativa alle politiche tradizionali di repressione della criminalità e agli atteggiamenti di bunkerizzazione degli abitanti, e propone la possibilità di intervenire sulla

prevenzione del crimine attraverso il design urbano e la sensibilizzazione della comunità (Acierno, 2003). La strategia di Safescape è impostata su due livelli: una fase di analisi approfondita del contesto urbano di riferimento e una fase di intervento in funzione delle problematiche emerse. L’analisi include dati fisici (uso del suolo, accessibilità, funzioni ecc.), dati socioeconomici (condizioni economiche, dati demografici, percezione dell’insicurezza ecc.) e un’osservazione “sul campo” (passeggiate di quartiere volte a rilevare i problemi di sicurezza sul territorio, diagnosi locali di sicurezza, raccolta di dati sui reati e sulla vittimizzazione). La fase di intervento si basa su tre sfere di azione: § l’uso del suolo e la progettazione urbana, che riguarda lo spazio fisico; § le attività e la programmazione, che prevedono il coinvolgimento della

comunità;

L’intervento non puo fare a meno dell’analisi: evitare modelli precostituiti

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§ la gestione, manutenzione e cura dell’ambiente fisico pensata nell’ottica della costruzione del senso di appartenenza della comunità.

Le linee d’azione sono legate agli obiettivi generali dell’intervento, che si possono suddividere in tre punti. Il primo riguarda l’informazione e l’orientamento, ovvero ci sentiamo insicuri se non sappiamo dove andare o dove stiamo andando, quindi, in termini di sicurezza sono preferibili percorsi chiari e ben segnalati. Il secondo concerne l’interazione e la socializzazione, cioè evitare spazi isolati e favorire la presenza di luoghi di aggregazione. Il terzo si focalizza su concetti di responsabilizzazione e di territorialità, che sono legati alla cura e alla manutenzione degli spazi quali importanti segnali di appartenenza al territorio.

I marchi di sicurezza

In vari paesi esistono marchi di attestazione del rispetto degli standard di sicurezza negli edifici rilasciati sulla base di sistemi di certificazione

volontaria. Uno dei marchi più diffusi è il Secured by Design (SBD), introdotto in Inghilterra nel 1989 dall’Association of Chief Police Officers (ACPO). L’SBD oggi rappresenta una delle strategie ambientali di prevenzione del crimine più diffuse nell’edilizia. Si pensi che dal 1989 al 2001 in Gran

Bretagna sono state costruite 35.000 case utilizzando l’SBD (Pascoe e Topping, 2000). Il sistema di certificazione SBD coinvolge diverse unità di polizia a livello nazionale, che offrono un servizio di consulenza e accompagnamento per la progettazione nel rispetto dei princìpi della prevenzione ambientale del crimine. I progetti per cui si può chiedere consulenza riguardano diverse tipologie di

costruzioni: edifici residenziali (nuove costruzioni e ristrutturazioni, edilizia sociale) stazioni ferroviarie, ospedali, scuole, impianti sportivi e aree ludiche, parcheggi e attività

commerciali. Inoltre il servizio mette a disposizione alcune linee guida per la progettazione liberamente consultabili dal sito14. La realizzazione di progetti conformi alle linee guida ovvero ai princìpi dell’SBD, se approvati, consente di ottenere il certificato (raffigurato dal marchio) che attesta che nella costruzione dell’edificio sono stati rispettati princìpi di sicurezza volti alla riduzione delle opportunità di crimine. Il certificato comporta benefici economici sia per i proprietari, che possono godere di riduzioni dei premi assicurativi della propria casa, sia per le società immobiliari, che possono utilizzare il logo nelle attività commerciali e

La certificazione di sicurezza: un servizio per i progettisti

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di vendita. I princìpi di Secured by Design sono stati incorporati negli standard previsti dall’agenzia governativa Housing Corporation per lo sviluppo di progetti di edilizia sociale15 in Scozia e in Inghilterra.

I Princìpi generali del Secured by Design (SBD)

Approccio integrato alla progettazione   Per poter prevenire fattori di criminalità difficilmente risolvibili quando il

progetto sarà già concluso, è opportuno, già in fase di progettazione, considerare diversi fattori: di forma (design), pianificazione (planning) e ambiente (layout) e promuovere un dialogo informale con i vari soggetti (le autorità locali, i progettisti e la polizia).

Qualità ambientale e senso di appartenenza   Spazi urbani mal progettati e di bassa qualità possono generare un senso di

alienazione e paura, al contrario ambienti ben progettati (attrattivi, ben definiti e mantenuti) possono innescare maggiore coesione locale, soprattutto se, laddove possibile, le comunità locali vengono coinvolte nel processo di trasformazione o costruzione dei luoghi.

  Luoghi anonimi possono favorire l’azione dei criminali, mentre ambienti curati dimostrano il senso di appartenenza ai luoghi degli abitanti e possono inibire atti vandalici.

  La buona progettazione del paesaggio urbano ha un ruolo importante nel contribuire al senso di appartenenza al luogo e all’identità della comunità.

Sorveglianza naturale   La sorveglianza spontanea da parte degli abitanti del luogo è fortemente

incoraggiata quale principio cardine per ottenere maggior sicurezza a livello locale.

  Per incoraggiarla, gli spazi pubblici e semi-privati devono essere ben visibili dagli edifici vicini o dalla strada. I parcheggi devono essere vicini alle case e ben visibili dalle abitazioni.

  Anche un’attenta cura degli spazi privati favorisce la sorveglianza spontanea, contribuendo a prevenire eventuali intrusioni indesiderate.

Accessi e percorsi   Evitare punti di accesso e strade eccessivamente isolati.   Gli accessi ai retri degli edifici devono essere controllati (ad es. con cancelli

chiusi).   Gruppi di case e strade adiacenti devono essere progettati cercando di

creare un senso di comunità   Prevedere strade pedonali e piste ciclabili solo se saranno effettivamente

utilizzate.   Percorsi, strade pedonali e piste ciclabili dovrebbero essere ampie e

caratterizzate da una vista gradevole, evitando di creare corridoi stretti e pericolosi.

  La disposizione della vegetazione e la scelta delle tipologie di arbusti e alberi

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devono essere fatte evitando di creare nascondigli e spazi non visibili; cespugli spinosi possono aiutare a scoraggiare le intrusioni.

  Strade e canali d’acqua devono essere progettati cercando di prevenire azioni criminali e garantendo una buona visibilità, evitando bruschi cambiamenti di direzione.

  È bene evitare il passaggio dei percorsi dietro gli edifici, ma dove necessario bisogna provvedere all’inserimento di spazi cuscinetto tra i percorsi e la linea di confine degli edifici, piantumando vegetazione che possa dissuadere potenziali intrusi.

  È bene evitare la presenza di facili vie di fuga per i criminali.

Presenza e manutenzione degli spazi aperti pubblici   Gli spazi aperti (pubblici) e i percorsi devono essere ben visibili dagli edifici o

prossimi alle strade trafficate.   Gli ingressi devono essere sicuri, evitando facili accessi alle finestre e

creando spazi cuscinetto oltre le recinzioni per scoraggiare l’intrusione di estranei.

  Bisogna stabilire chiaramente le competenze e le responsabilità per la manutenzione degli spazi nel lungo periodo per evitarne il rischio di degrado e abbandono.

Illuminazione   L’illuminazione notturna aiuta a trasmettere un senso di sicurezza e in certe

circostanze può incidere sulla riduzione del crimine.   Utilizzare sorgenti luminose diverse in relazione alle caratteristiche

dell’ambiente (luci tenui per gli edifici storici o lampade resistenti agli atti vandalici), cercando di limitare l’inquinamento luminoso.

Nel 1996 in Olanda è stato adottato il Police Label Safe Housing, una specie di certificazione di qualità per edifici o complessi urbani nel rispetto di parametri di sicurezza di tipo architettonico-urbanistico. Per ottenere la certificazione, i progetti devono seguire le linee guida del “Safe Housing Label Manual” (Korthals Altes, Wodendorp, 1994) che detta alcuni parametri utili a prevenire il crimine e a ridurre la paura. Ogni parametro è illustrato da una scheda descrittiva (che ne descrive le caratteristiche, gli obiettivi, i vincoli e i requisiti da rispettare) ed è associato a uno specifico livello di riferimento. I livelli di riferimento sono cinque e riguardano:

1. la progettazione a livello di distretto urbano (dimensione del quartiere, volumetrie degli edifici, accessi all’area ecc.);

2. lo schema distributivo del quartiere (tipologie edilizie, spazi interstiziali, piazze interne ecc.);

3. le funzioni specifiche presenti nella zona residenziale (parcheggi aperti, garage, aree gioco, passaggi sotterranei ecc.);

4. la partecipazione degli abitanti e le responsabilità (manutenzione, sorveglianza naturale, supervisione, relazioni di vicinato ecc.);

Un esempio olandese di

certificazione

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5. il design dell’edificio (orientamento delle stanze di soggiorno, collocazione degli accessi, sistemi di difesa ecc.).

La certificazione può essere richiesta sia per nuove costruzioni che per interventi di riqualificazione con alcune diversità16. Nel primo caso è richiesto il rispetto di tutti e cinque i livelli, nel secondo caso invece è possibile ottenere certificati distinti a seconda del livello di intervento, riducendo così i parametri da rispettare. La procedura per il rilascio del certificato prevede una negoziazione strutturata tra gli attori coinvolti sui parametri e gli obiettivi del progetto, secondo un processo di evoluzione continua del metodo volto ad ottimizzare le strategie di prevenzione del crimine e di riduzione della paura (van Soomeren, Woldendorp, 1996). La certificazione è focalizzata sulla prevenzione dei reati predatori, mentre non considera altre cause dell’insicurezza dei cittadini, in particolare quelle di carattere sociale (il disagio sociale, la disoccupazione, ecc.) che vengono demandate ad altre politiche preventive che esulano dalla progettazione (Acierno, 2003). Le strategie di CPTED sono promosse anche nell’ambito della formazione. In particolare, negli Stati Uniti, molte sono le associazioni e gli enti che offrono corsi a professionisti e tecnici sui principi della CPTED e sulla loro applicazione.

Le gated communities, un esempio di città sicure?

Una delle strategie difensive più diffuse negli Stati Uniti è rappresentata dal fenomeno delle gated communities in cui vivono più di 8 milioni di americani (Acierno, 2003). Si tratta di insediamenti residenziali della dimensione di un quartiere, per lo più situati al di fuori delle aree metropolitane e isolati dall’esterno attraverso barriere fisiche, sistemi di allarme e di controllo degli accessi, con strade interne, piazze e sistemi di circolazione privati. Sono vere e proprie “fortezze” legate all’insicurezza, alla “paura di essere oggetto di aggressioni di qualunque tipo, da quelle fisiche a quelle di modelli alternativi di vita” (Gazzola, 2008, p.44). La loro diffusione è rilevante anche in Gran Bretagna, dove nel 2003-2004 ne sono state registrate circa un migliaio solo nell’area metropolitana di Londra e nel sud-est dell’Inghilterra (Blandy, 2005). Sono diffuse anche in Portogallo, Bulgaria, Brasile, Argentina e Cina (Brunn et al. 2004). Rappresentano una interpretazione del concetto di “spazio difendibile” introdotto da Newman17. C’è chi mette in evidenza i rischi insiti nelle gated communities. Mckenzie (1994), ad esempio, ha evidenziato che questi insediamenti privati rappresentano un rischio per la democrazia perché nel lungo termine possono creare forme di disaffezione alla città (esattamente il contrario di

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quel senso di appartenenza legato al principio di territorialità all’origine della CPTED) e di rifiuto verso l’autorità pubblica, fortemente esautorata nei suoi poteri di controllo e regolazione dello spazio pubblico (si pensi all’opposizione alla tassazione locale per i servizi di manutenzione e pulizia delle strade). Inoltre si registrano poche ricerche che misurino gli effetti nel lungo periodo di prevenzione del crimine nelle gated communities e, in ogni caso, quelle esistenti raramente riportano dati negativi. Alcuni autori (Blakely e Snyder, 1997) sostengono che psicologicamente siano efficaci perché fanno sentire gli abitanti più sicuri, ma si tratta di una condizione effimera (Schneider, Kitchen, 2007) in quanto, nella realtà, non riducono i tassi di criminalità. Altri (Clarke, 2003) riconoscono una certa capacità delle gated communities di prevenire il crimine nell’immediato, mentre nel lungo periodo sembrano produrre effetti di dislocazione anziché di eliminazione del crimine. I criminali, infatti, si adattano rapidamente alle nuove condizioni ambientali trovando presto altri terreni d’azione (Ekblom, 1997). Infine, ma non di minore importanza, il limite sociale che, accanto alle barriere fisiche, porta all’isolamento degli abitanti. Questi ghetti volontari, infatti, portano con sé una ultima conseguenza imprevista: “gli abitanti scoprono con sconcerto che quanto più sicuri si sentono all’interno del recinto, tanto meno familiare e più minacciosa appare la giungla all’esterno e tanto più coraggio ci vuole per avventurarsi al di là del vigile occhio delle guardie o delle telecamere a circuito chiuso” (Bauman, 2001, p.114). La sicurezza così si rivela ancor più effimera in quanto la presenza di telecamere e guardie armate aumenta la percezione di una minaccia incombente, anche se questa non è necessariamente presente.

In Italia la realizzazione di comunità residenziali protette è un fenomeno circoscritto. La conformazione del territorio probabilmente non agevola la diffusione di questo tipo di insediamenti. Inoltre, non è un modo di vivere che è ancora penetrato culturalmente nel nostro paese. Sono tuttavia riscontrabili alcuni esempi sia di vere e proprie gated communities, sia di insediamenti che hanno alcuni elementi di questa tipologia residenziale.

Esempi di città protette in Italia

La realizzazione di comunità residenziali protette è un fenomeno che in Italia ha un peso marginale. Ne sono esempio “La Pineta” di Arenzano, un quartiere di fine anni ’50 nel genovese, definito “la prima vera e propria gated community italiana” (Franzone, Patrone, 2010, p.38) e la Cascina Vione, un antico borgo nel milanese recentemente ristrutturato da una società immobiliare che ne ha fatto un villaggio fortificato di lusso. A chi vive in questo tipo di quartieri viene prospettata la garanzia di comprare una casa sicura in una duplice accezione: sicurezza come incolumità della propria persona e delle proprie cose, e sicurezza come garanzia di un investimento immobiliare redditizio (Savoldi, 2006, p. 96). Alla base di queste realtà, oltre alla sicurezza, vi sono anche meccanismi

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negoziali e comportamentali. Chi sceglie di abitare in questi luoghi si impegna a rispettare precise regole comportamentali e di decoro urbano, contribuendo di fatto a costituire delle specie di città indipendenti. Una forma meno rigida e più diffusa di piccole enclave è rappresentata da alcuni quartieri diffusi nella cintura o nelle zone privilegiate delle grandi città (Milano, Roma, Torino, Napoli) o in luoghi di villeggiatura esclusivi, che presentano elementi di separazione come cancelli e mura, ma dove l’accesso non è rigidamente controllato e che non si configurano come città autonome vere e proprie. Tra gli esempi più studiati citiamo il villaggio residenziale di San Felice a Segrate che, seppure recintato, permette il libero accesso ai mezzi pubblici. In particolare si evidenzia che alcune delle strade interne di San Felice hanno la caratteristica conformazione a cul-de-sac, prevista tra i principi cardine di O. Newman. Altri villaggi residenziali presenti sul territorio italiano sono strutturati secondo una idea di esclusione, similmente alle gated communities, ma non a scopi difensivi, bensì per dar vita a spazi fortemente identitari abitati da soggetti legati da una filosofia di vita comune o da princìpi religiosi. Si tratta di insediamenti chiusi nella misura in cui si ispirano al rigoroso rispetto dei propri equilibri interni; per questo sono caratterizzati da una forte dimensione locale che si oppone al globale e spesso anche al consumismo. Ecovillaggi, comunità di famiglie, comunità religiose sono alcune delle tipologie comprese in questa forma leggera di “comunità protette” senza barriere e guardiani. Esemplificando: l’Ecovillaggio Torri Superiore nei pressi di Ventimiglia, di origine medioevale e poi ristrutturato negli anni ’80 per iniziativa dell’Associazione Culturale omonima; Villapizzone, una comunità-famiglia che dalla fine degli anni ’70 abita in una grande cascina ristrutturata nel verde in periferia di Milano, assieme ad un gruppo di gesuiti; Damanhur in Val Chiusella, un centro esoterico di ricerca spirituale, artistica e sociale costituito da una federazione autonoma di piccole comunità autosufficienti.

La normativa

In tutti i paesi del mondo esistono normative in materia di sicurezza urbana, ma di rado fanno esplicito riferimento ad un approccio di prevenzione del crimine attraverso la pianificazione urbanistica. Nel Regno Unito, ad esempio, il più importante riferimento per il contrasto della criminalità è il Crime and Disorder Act del 1998, una legge di carattere generale sulla sicurezza che non impone precisi obblighi normativi in materia di CPTED, ma attribuisce agli Enti locali le competenze in materia di sicurezza, dando ampio spazio di interpretazione delle modalità operative di riferimento. In questo quadro frammentario il Ministero dell’Interno inglese, prima con la guida Safer Places. The planning System and Crime Prevention del 2004, poi con la direttiva Planning Policy Statement 1: Delivery Sustainable Development del 2005 ha definito una serie di direttive su come operare per una corretta prevenzione del crimine sul territorio. In particolare, nel 2006 il Department for Communities and Local Government

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ha emanato la circolare n. 1/2006 che introduce un nuovo strumento: il Design Access Statement. Il DAS è un breve rapporto da allegare alle domande di permesso di costruire che deve specificare la rispondenza dei progetti ai requisiti generali della Planning Policy Statement 1 e a quelli in materia di sicurezza contenuti nella guida Safer Places. Alcuni Enti locali hanno deciso di dotarsi di strumenti tecnici dettagliati per la valutazione dei progetti, tra i quali merita menzione quello adottato dalla città di Manchester. Il Crime Impact Statement messo appunto dal servizio Design for security della Greater Manchester Police, pur non essendo un documento cogente, è uno degli strumenti più avanzati del Regno Unito nell’ambito della CPTED. Attraverso questo strumento i responsabili della pianificazione urbanistica sono in grado di valutare gli aspetti relativi alla criminalità, al disordine e alla paura della criminalità prima di dare l’autorizzazione ai progetti. Soltanto la Francia, con la legge n 73 del 1995, Loi d’orientation et de programmation relative à la sécurité, prevede obblighi di legge in tema di CPTED. La legge introduce nel Codice dell’urbanistica l’obbligo di redigere

studi di impatto sulla sicurezza (Études préalables de sûreté urbaine et aménagement de l’espace public - ESSP) per ottenere l’autorizzazione edilizia per i nuovi progetti urbani di un certo rilievo (oltre i 100.000 abitanti o i 70.000 mq di superficie netta e in altri casi particolari). Tale norma è operativa solo

dal 2007, a seguito all’emanazione del decreto attuativo della legge, ulteriormente modificato nel 2011. Successivamente alla circolare del 2007, il Ministero delle Infrastrutture, in collaborazione con il Ministero dell’Interno e la DIV (Délégation interministérielle à la ville), ha pubblicato una guida in cui si illustrano i princìpi ai quali riferirsi per includere la tematica della sicurezza nei progetti di riqualificazione18. Accanto all’ESSP la normativa francese (nello specifico la Circolare interministeriale del 28/10/2007) prevede un altro strumento per la gestione della sicurezza urbana, non obbligatorio né legato necessariamente alla progettazione urbana. Si tratta del Contrat local de sécurité (CLS), un vero e proprio contratto stipulato tra tutti gli attori coinvolti nel mantenimento della sicurezza locale, attraverso un approccio multidisciplinare e plurisettoriale, e con il co-finanziamento statale. La supervisione della stesura dei contratti è in capo al Prefetto in qualità di rappresentante dello Stato. Un esempio interessante è quello della città di Lione che nell’ambito dei contratti locali di sicurezza ha istituito uno gruppo specifico di lavoro,

La Francia ha obblighi di legge in materia di prevenzione ambientale

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denominato Prévention Situationelle, che promuove un approccio integrato incentrato sull’inclusione dei principi della CPTED nella gestione della sicurezza. Nel contesto italiano, nonostante l’ampia e articolata diffusione di strumenti negoziali, quali i protocolli di intesa e i Patti per la Sicurezza (sulla falsariga dei Contratti Locali di Sicurezza francesi) che contengono tra gli altri alcuni impegni in materia di prevenzione situazionale, non si è assistito negli anni ad un’evoluzione normativa analoga a quella francese per quanto riguarda la progettazione urbanistica e la sicurezza. Alcuni tentativi di introdurre, sulla scia degli ESSP francesi, uno studio sulla sicurezza negli strumenti di pianificazione territoriale sono stati fatti, ma con

poco successo. Si ricorda a questo proposito il processo di riforma della legislazione urbanistica regionale avviato nel 2007 dalla Regione Piemonte che ha fornito la cornice per avanzare una proposta innovativa su questo tema. Il disegno di

legge sul governo del territorio presentato dall’allora Assessore regionale alla Pianificazione Territoriale introduceva, infatti, il concetto di governo del territorio, estendendo il campo di applicazione della disciplina urbanistica a temi connessi alle trasformazioni territoriali, tra i quali quelli collegati alle problematiche della sicurezza. La norma prevedeva uno studio sulla sicurezza, cioè una verifica delle condizioni di sicurezza degli insediamenti da allegare agli elaborati dei piani esecutivi in attuazione del piano strutturale e da redigere sulla base di linee guida formulate dalla Giunta Regionale (cfr. Paludi, 2009). Nonostante le difficoltà nel dare seguito a questa proposta e la nuova direzione segnata dalla attuale legge regionale in materia di urbanistica e edilizia (la l.r. 3/2013), l’esperienza piemontese merita di essere ricordata per avere portato all’attenzione per la prima volta la necessità di adottare un approccio integrato al tema della sicurezza finalizzato alla prevenzione attraverso politiche in campo urbanistica e territoriale. Un altro interessante esempio è rappresentato dal Piano Regolatore del comune di Roma del 2003 che ha previsto un allegato di sicurezza alla Relazione del Piano adottato intitolato “Gli standard minimi di sicurezza locale” (Karrer, Santangelo, 2012, p. 73). A livello europeo vi sono state alcune iniziative verso la standardizzazione, considerata un processo chiave per favorire il mercato europeo e la cooperazione tra gli Stati membri. Nel 1995 la Comunità Europea ha istituito un comitato tecnico per la definizione di un metodo standardizzato di valutazione della sicurezza, che individuasse i requisiti prestazionali per la

La sicurezza nella legge di riforma urbanistica in Piemonte

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prevenzione del crimine nelle aree residenziali di nuova costruzione o già esistenti. Al centro del metodo sono poste le esperienze dei vari rappresentanti del comitato nel campo della prevenzione ambientale del crimine (Olanda, Francia, Regno Unito, Italia, Svezia, Danimarca, Norvegia e Austria), con particolare attenzione al concetto di CPTED. Il lavoro del comitato si è concluso nel 2006 con l’emanazione del Rapporto Tecnico TC 14383-2 (che nella prassi corrisponde a raccomandazioni di buone pratiche e non a una normativa di vincolo), adottato dal CEN (il Comitato Europeo di Normazione) nel 2007 e recepito in Italia come norma UNI nel 2010. Il rapporto tecnico comprende quattro parti: la prima rappresenta una sorta

di glossario specifico, la seconda è sulla pianificazione urbanistica, la terza sugli insediamenti residenziali, l’ultima sui negozi e uffici. La seconda parte è quella più pertinente al tema delle trasformazioni urbane e offre un

quadro metodologico per l’analisi della sicurezza e la definizione di alcune strategie di CPTED. Si pongono innanzitutto alcune questioni preliminari, attraverso quesiti-chiave:

§ Identificazione e descrizione dell’area di studio (dove?); § Identificazione dei problemi di criminalità, insicurezza e degrado

ambientale attuali e potenziali (cosa?); § Identificazione degli attori coinvolti nel processo (chi?).

Fanno seguito alcune linee guida, distinte secondo indirizzi di pianificazione urbanistica, di progettazione urbana e di gestione. Le strategie di intervento non sono rigorose indicazioni pratiche, piuttosto suggerimenti e punti importanti da tenere in considerazione in vista degli obiettivi indicati. Questa modalità, più orientativa che normativa, è intenzionale ed è motivata dal presupposto che ogni contesto ambientale è differente dall’altro, perciò non è possibile imporre norme universalmente valide. L’ultimo capitolo descrive le fasi di attuazione del processo di prevenzione del crimine attraverso la progettazione urbanistica di aree urbane attraverso uno schema che prevede i seguenti passi:

§ Analisi dello stato di fatto e delle previsioni riguardo il crimine e la paura del crimine.

§ Definizione degli obiettivi di prevenzione del crimine e tempi di attuazione.

§ Pianificazione: definizione delle strategie e delle misure preventive, quantificazione dei costi.

La norma UNI, un punto di arrivo che manca ancora di attuazioni pratiche

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§ Presentazione del progetto alle autorità e approvazione. § Attuazione e implementazione del progetto. § Revisione e azioni correttive.

Il rapporto tecnico inoltre si compone di quattro allegati: § gli allegati A e B forniscono indicazioni per l’analisi della sicurezza

nelle aree esistenti (crime review) e nei nuovi progetti (crime assessment);

§ l’allegato C si occupa dei fattori percettivi di allarme e paura per la criminalità;

§ l’allegato D è dedicato alla diagnosi di sicurezza dei progetti urbani (safety audits, su cui si veda il capitolo 3, p. 97-99).

L’allegato D è lo strumento più utile per i progettisti e fornisce alcuni princìpi fondamentali (vedi anche p. 324 e ss.) che possono facilmente essere compresi da una vasta gamma di utilizzatori (Cardia e Bottigelli, 2007).

L’esperienza italiana

In Italia la sicurezza urbana è affrontata dallo Stato e dagli Enti locali quasi sempre al di fuori della materia del governo del territorio. In particolare, nonostante la nuova centralità assunta dalle Regioni e dai Comuni nel governo della sicurezza a seguito delle riforme degli anni’ 90 (su cui si veda il capitolo 1), le relazioni tra pianificazione urbanistica e sicurezza urbana si definiscono prevalentemente solo in forma implicita, attraverso strumenti di intervento non direttamente riconducibili all’urbanistica. Come noto, le Regioni hanno un ruolo importante in materia di sicurezza

urbana, specialmente con la promozione di politiche integrate di sicurezza, alcune delle quali congiunte alle leggi in materia di polizia locale. Si tratta di norme che non incidono direttamente sulla disciplina urbanistica ma

che, facendo proprio un approccio integrato alla sicurezza, fanno riferimento anche a interventi urbanistici sullo spazio pubblico. Le funzioni di programmazione e indirizzo regionale in materia di sicurezza hanno portato inoltre alla promozione di iniziative progettuali da parte di soggetti locali, all’interno di linee di finanziamento specifiche volte a sostenere strategie integrate di urbanistica e sicurezza o interventi di recupero e governo dello spazio pubblico mediante interventi di riqualificazione e rivitalizzazione urbana. In questa direzione si colloca il Programma Città Sicure dell’Emilia Romagna nel 2000 nell’ambito delle aree di riqualificazione urbanistica già individuate dai Comuni, che ha promosso dei progetti pilota volti al

A fronte di una mancanza di elaborazione normativa fioriscono le esperienze progettuali

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miglioramento della sicurezza urbana con un finanziamento regionale pari alla metà dei costi del progetto. Sono stati selezionati progetti in 13 città, tra cui Bologna, Cesena, Ferrara, Modena, Forlì, Salsomaggiore, poi attuati mediante un Accordo di programma Comune-Regione. Gli interventi messi in atto hanno riguardato non solo azioni strettamente progettuali (miglioramento dell’illuminazione, costruzione di piste ciclabili e aree verdi, ecc.), ma anche azioni sociali (animazione degli spazi pubblici) e di sorveglianza (sistemi di videosorveglianza, rafforzamento del controllo del territorio). Uno degli interventi ha interessato il quartiere Braida di Sassuolo, nel quale è stato realizzato uno studio sulla sicurezza del quartiere (affidato al Laboratorio Qualità Urbana e Sicurezza del Politecnico di Milano) svolto con un metodo di osservazione-analisi-interpretazione dei problemi emergenti. Dallo studio sono sorte alcune strategie generali d’intervento e azioni dettagliate di natura urbanistica basate sui princìpi cardine dell’approccio CPTED, tra cui azioni di riqualificazione dello spazio fisico, azioni volte all’eliminazione della situazione di enclave esistente, sostegno all’associazionismo locale, promozione di attività di commercio e animazione del quartiere. Il problema della sicurezza è stato affrontato scegliendo un approccio interdisciplinare, anticipando le linee guida del, già citato, manuale Safepolis (Nobili, 2007). Strumenti diversi ma con finalità simili sono stati adottati in altre regioni italiane, tra cui la Regione Piemonte. Nel quadro dell’attuazione della legge 23/2007 le amministrazioni locali piemontesi hanno messo in campo interventi di riqualificazione ispirati ad alcuni dei princìpi dell’approccio CPTED quali la sorveglianza spontanea, il senso di appartenenza ai luoghi, la presenza continua negli spazi. Pur in considerazione dell’esiguità delle risorse e della limitatezza dei tempi di realizzazione, alcune delle esperienze realizzate si sono rivelate efficaci in termini di miglioramento delle condizioni di sicurezza. In particolare, alcuni Patti locali per la sicurezza hanno affrontato il tema dell’insicurezza urbana mediante interventi di riqualificazione di spazi degradati e insicuri (giardini e aree verdi, aree antistanti la stazione ferroviaria, sottopassaggi ferroviari), di miglioramento dell’illuminazione e dell’arredo urbano, di manutenzione e gestione di spazi urbani da parte della comunità locale, e infine di valorizzazione e promozione dell’uso degli spazi pubblici19 Un’altra eccezione è rappresentata da alcuni “programmi complessi” (ovvero “integrati”) di recupero dei quartieri degradati (Programmi di riqualificazione urbana – PRU, Contratti di Quartiere ecc.), introdotti a partire dagli anni ’90. Nonostante questi non fossero esplicitamente orientati

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alla sicurezza urbana, integravano alcuni importanti princìpi della prevenzione ambientale intervenendo sul degrado edilizio ed urbano (riqualificazione degli edifici, miglioramento dell’accessibilità, integrazione di funzioni e servizi ecc.). I programmi complessi sono stati però strumenti non ordinari di pianificazione realizzati grazie alla disponibilità di risorse di finanziamento ora non più disponibili. Un esempio (Ciaffi, 2008) è quello del Contratto di quartiere (C.d.Q.) di via Arquata a Torino, terminato nel 2007. L’intervento, approvato nel 2000, fa parte di una politica decennale promossa dalla Città di Torino volta a promuovere una serie di esperienze di trasformazione fisica integrate con progetti di qualificazione socio-economica, coinvolgendo attori istituzionali e soggetti locali sia pubblici che privati. I C.d.Q. si inseriscono nel filone dei programmi complessi e si caratterizzano come programmi di recupero urbano di quartieri di edilizia residenziale pubblica che presentano rilevanti aspetti di degrado fisico e di marginalità sociale. Il contratto presuppone un’interazione istituzionale tra i vari settori amministrativi (sussidiarietà orizzontale) per la definizione di varie tipologie di interventi (edilizi, sociali ed economici), ma riferiti ad uno specifico ambito locale. Non nascono, quindi, come interventi riferiti alla sicurezza urbana, ma molti criteri/indicatori di valutazione dei programmi selezionati si riferiscono ai princìpi cardine della CPTED, come la qualità ambientale e il coinvolgimento degli abitanti nel progetto. La volontà di integrazione è stata attuata localmente, già prima della fase di cantiere, dal Programma di integrazione alle azioni sociali (Pias), realizzato dall'Agenzia di Sviluppo locale di via Arquata quale principale struttura gestionale e operativa attiva nel quartiere.

Indicazioni operative

A conclusione del capitolo proponiamo alcune indicazioni operative rivolte alle pubbliche amministrazioni e a professionisti che intendano promuovere strategie di prevenzione ambientale del crimine nell’ambito di progetti di trasformazione urbana. Una premessa è d’obbligo. Tutti i principi di CPTED proposti dai diversi autori e applicati su base volontaria attraverso strumenti specifici nei vari Paesi fanno riferimento ad un contesto territoriale precipuamente urbano e denso: dalle grandi città americane di J.Jacobs alle città europee della norma UNI CEN/TR 14383-2 (che al momento non è ancora stata recepita in alcuna normativa), il riferimento è sempre all’ambiente urbano e non

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riguarda piccole realtà rurali o industriali. Questo aspetto rappresenta forse un limite rispetto all’Italia e alla Regione Piemonte in particolare, che si caratterizza per la presenza di numerosi piccoli Comuni e aree rurali, ma con le dovute cautele è possibile pensare di applicare alcuni dei princìpi fondamentali della CPTED anche a queste realtà non urbane20. Il fatto di intervenire su aree consolidate e già esistenti o su nuove

costruzioni (ad esempio in aree industriali dimesse o in vuoti urbani), invece, non costituisce un limite di applicabilità dei principi CPTED, che già nelle diverse esemplificazioni teoriche e pratiche precedentemente illustrate

non rappresentavano distinzioni operative. Ciò che fa la differenza, semmai, è la specificazione di uno studio attento di valutazione della sicurezza urbana locale che, nel primo caso sarà orientato a far emergere le problematiche esistenti di un quartiere e quindi le possibili soluzioni specifiche, nel secondo caso, invece, dovrà cercare di prevenire la formazione di potenziali problematiche di sicurezza incerte. In ogni caso, lo studio della sicurezza urbana (comprendente sia le caratteristiche dell’ambiente costruito che quelle socio-culturali) rappresenta il supporto fondamentale per la realizzazione di strategie adeguate di prevenzione del crimine e sarà sempre differente in ogni specifico contesto territoriale. Al fine di offrire un supporto utile alla redazione dello studio, nella tabella che segue sono elencate alcune proposte di indicatori. Il Laboratorio Qualità Urbana e Sicurezza del Politecnico di Milano ne ha individuati alcuni, che qui sono stati sintetizzati e rivisti.

Indicatori urbani della sicurezza

Caratteristiche generali della zona (storia e dinamiche di sviluppo): questi dati possono essere utili per interpretare alcuni fenomeni sociali e la morfologia del tessuto urbano oggetto dello studio. Si possono acquisire tramite ricerca bibliografica e altre fonti indirette.

Funzioni e usi prevalenti degli spazi (es. residenziale, produttivo, commerciale, verde pubblico, ecc.): si possono ricostruire tramite l’analisi del PRGC e l’osservazione diretta (quest’ultima utile per le tipologie specifiche non rilevabili dal piano). È bene rappresentarle su più livelli (p.t., 1° p., 2° ecc.) dettagliando le tipologie (ad es. attività commerciali: negozi, ristoranti, bar ecc.).

Struttura dell’edificato, delle aree libere e della maglia stradale (isolati aperti o presenza di corti, continuità del filo stradale, presenza di piazze o altri spazi impliciti di sosta e ritrovo ecc.). Si può rilevare sulla planimetria della zona combinata all’osservazione diretta, in quanto alcuni spazi spontanei di ritrovo possono non emergere dalle mappe.

Fare uno studio di sicurezza per definire strategie di prevenzione efficaci

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Modalità di affaccio su strada di edifici e giardini (presenza di recinzioni, siepi, vetrine ecc.). Si rileva con l’osservazione diretta.

Presenza di mezzi di trasporto pubblico (fermate, frequenza e orari dei passaggi). Si rileva dai servizi di trasporto di zona.

Caratteristiche del traffico veicolare (intensità dei flussi, orari, ampiezza delle strade e distanze dall’edificato). Si rileva dai dati relativi alla viabilità, dal Piano urbano del traffico, dal Piano urbano della mobilità ecc. e dall’osservazione diretta.

Flussi e orari dei movimenti pedonali. Si rilevano tramite l’osservazione diretta o altri studi settoriali, se esistenti.

Animazione del territorio: presenza di attività e iniziative culturali, ricreative, sociali (fiere, manifestazioni, servizi di volontariato su strada ecc.). Non hanno una sede fissa e stabile nel tempo e possono occupare spazi pubblici di norma destinati ad altre funzioni. Le informazioni si possono ricavare dagli uffici del turismo, dai servizi sociali, dai centri culturali di zona ecc.

Orari delle attività (mappa diurna e serale-notturna). È importante osservare il livello di vivacità del territorio nel tempo. Si rilevano localmente o tramite gli uffici interessati.

Stato di degrado e manutenzione dell’ambiente (livello di degrado degli edifici, segnalazione di zone critiche, presenza di cantieri ecc.). Si rileva con l’osservazione diretta.

Illuminazione pubblica e indiretta (da esercizi commerciali). Si rileva con l’osservazione diretta e/o con il supporto delle informazioni degli uffici comunali.

Percezione della sicurezza e della vitalità da parte della popolazione. Si rileva tramite interviste o questionari sottoposti in forma indiretta o su strada.

Una distinzione importante riguarda la tipologia di intervento a cui ci riferiamo nell’applicare i princìpi CPTED. Le trasformazioni urbanistiche infatti intervengono sia sullo spazio fisico che su quello sociale su più livelli.

Da una parte l’intervento sullo spazio fisico si può riferire a scale territoriali differenti, dalla scala vasta (a livello di pianificazione) alla scala di dettaglio (a livello di design). Dall’altra parte l’intervento sullo spazio sociale riguarda vari

ambiti, dalla gestione degli spazi alla partecipazione degli abitanti nelle diverse iniziative. Nelle tabelle che seguono si richiamano quindi i tre livelli di intervento (pianificazione urbanistica, disegno urbano, gestione degli spazi) previsti dalla norma UNI CEN/TR 14383-2 e dal manuale Safepolis, già descritti, integrati con il concetto di partecipazione, già considerato come ambito di riferimento trasversale. Come è ovvio le linee guida proposte non sono esaustive, né costituiscono settori rigorosamente distinti in categorie “pure”, ma ricorrono nessi e rimandi tra le une e le altre. Per gli interventi

Spazio fisico e spazio sociale vanno considerati congiuntamente

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sullo spazio fisico ci si concentra sulla pianificazione urbanistica e il disegno e arredo urbano.

Interventi sullo spazio fisico Pianificazione urbanistica L’impianto urbanistico generale deve essere leggibile: la rete stradale dovrebbe essere chiara e continua, gli ingressi ben visibili o protetti e i percorsi facilmente identificabili (anche attraverso l’ausilio della segnaletica). Un facile orientamento può contribuire a limitare il senso di smarrimento e favorire una percezione di controllo, quindi di sicurezza.

I rapporti tra pieni-vuoti e tra strade-edifici dovrebbero essere pensati favorendo “l’occhio sulla strada”, ad esempio cercando di mantenere la continuità del filo stradale, lasciando i cortili vuoti per il gioco e l’uso collettivo, mantenendo adeguate distanze tra gli edifici ecc.

Una buona densità territoriale (indici fondiari non troppo bassi e la presenza diffusa di funzioni attrattive consentita attraverso la previsione delle destinazioni d’uso) favorisce la presenza di un certo numero di persone e quindi il controllo spontaneo dello spazio pubblico.

La presenza di funzioni miste e l’inserimento di attività commerciali e servizi al piano terra degli edifici favorisce la vivacità del quartiere, la sorveglianza naturale contribuendo ad evitare condizioni di marginalità. Anche la combinazione dei flussi pedonali, ciclabili e carrai può favorire il controllo spontaneo dello spazio, quindi è preferibile evitare separazioni nette con la presenza di passaggi chiusi (ad es. gallerie e sottopassi pedonali angusti o piste ciclabili isolate) e favorire una viabilità mista, con un’adeguata separazione delle corsie, ma lungo percorsi non isolati. Il traffico può offrire un elemento di rassicurazione in termini di sorveglianza indiretta. La mixitè va integrata alle linee guida riferite all’organizzazione di tempi e orari delle attività e servizi.

Nel quartiere vanno garantiti servizi adeguati alla persona e servizi di trasporto, commerciali e ricreativi, per evitare l’isolamento e il formarsi di enclave dove la sorveglianza naturale è assente. Si deve altresì evitare la formazione di quartieri dormitorio dove si possono concentrare problematiche di disagio sociale e insicurezza, favorendo quindi la mixitè socio-economica. La presenza dei servizi da una parte è prevista in termini di funzioni presenti sul territorio, dall’altra si incrocia con il tema della organizzazione e gestione dei servizi, legandosi agli interventi sullo spazio sociale.

Disegno e arredo urbano

Un’alta qualità estetica degli edifici e dell’arredo urbano contribuisce alla prevenzione del degrado (il meccanismo dei “vetri rotti”) ma deve essere associata ad una buona manutenzione. Edifici e spazi pubblici caratterizzati da un buon design favoriscono la percezione di uno spazio gradevole e sicuro perché indica che qualcuno se ne prende cura e dunque è più difficile agire indisturbati.

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La scelta di materiali non facilmente deteriorabili e di facile manutenzione è importante per mantenere elevato il livello della qualità urbana, scoraggiando atti vandalici.

La suddivisione tra spazio pubblico e spazio privato deve essere chiara, stabilendo confini certi di proprietà, responsabilità e cura degli spazi. Bisogna evitare la presenza di “terre di nessuno” che possono favorire la diffusione di atti illeciti e vandalismi. Non significa innalzare barriere e cancelli, ma segnare gli spazi con adeguati segnali (cambio della pavimentazione, cordoli, segnaletica, uso del verde, ecc.) e stabilire competenze certe sulla manutenzione.

Parcheggi, parchi e stazioni devono essere disegnati con accorgimenti specifici orientati allo scoraggiamento di atti illeciti, evitando spazi privi di visuali o vie di fuga, garantendo una corretta illuminazione, prevedendo eventuali strumenti di sorveglianza formale o meccanica (ad es. custodi o telecamere) o inserendo altre attività capaci di favorire meccanismi di sorveglianza naturale (ad es. attività commerciali nelle stazioni, punti bar o ristoro nei parchi ecc.).

Accessi e percorsi devono essere funzionali e sicuri, garantendo adeguati livelli di controllo delle visuali e degli affacci dalle finestre, in termini si sorveglianza naturale, ma anche in termini di incolumità fisica (rischio di caduta, abbattimento delle barriere architettoniche, buona illuminazione ecc.).

L’illuminazione è uno dei fattori più importanti della percezione della sicurezza nelle ore serali e notturne, ma non riguarda solo la presenza di luci pubbliche, può anche essere favorita dalla presenza di vetrine, insegne e altre attività.

Per gli interventi sullo spazio sociale ci si concentra, invece, sulla gestione dello spazio pubblico e la partecipazione.

Interventi sullo spazio sociale Gestione dello spazio pubblico

La buona manutenzione degli spazi collettivi è uno dei primi fattori di prevenzione del degrado e dell’incuria. È bene dunque prevedere in fase di gestione un adeguato piano di manutenzione dello spazio pubblico capace di dare risposte efficaci.

Prevedere programmi e servizi di accompagnamento per le categorie più vulnerabili, con spazi di ascolto, attività di volontariato, attività di animazione rivolte a particolari categorie (ad es. bambini, anziani).

Definire le regole d’uso dello spazio in modo chiaro e comunicarle, adattandole ai bisogni dei diversi utilizzatori nei vari contesti. È bene stabilire le regole in forma condivisa con gli utilizzatori attivando forme adeguate di partecipazione.

L’organizzazione dei tempi e degli orari dei servizi pubblici, specie quelli di trasporto e delle attività commerciali, incide significativamente sul mantenimento costante della vivacità territoriale e della sorveglianza naturale. Ad esempio una strada ricca di negozi aperti di giorno, la sera rischia di trasformarsi in uno spazio desolato e insicuro se non sono presenti luoghi di ritrovo aperti la sera oppure se le vetrine restano buie o oscurate dalle serrande.

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Partecipazione

Le trasformazioni urbanistiche sviluppate attraverso azioni di progettazione partecipata, come i programmi complessi, possono favorire il senso di appartenenza degli abitanti e la cura dello spazio pubblico, con importanti ricadute sulla sicurezza urbana rafforzando la sorveglianza naturale da parte del vicinato e prevenendo il degrado dello spazio fisico.

Una buona comunicazione rappresenta uno dei primi gradi della partecipazione: comunicare adeguatamente le regole d’uso dello spazio, informare sulle misure di prevenzione attraverso incontri collettivi può contribuire efficacemente alla prevenzione del crimine. Al contrario i mass media possono produrre effetti contrari, provocando un allarmismo smisurato rispetto al reale livello di insicurezza di un quartiere.

La sorveglianza naturale e la vivacità del quartiere possono essere favorite da strumenti di rafforzamento non direttamente legati alla pianificazione o al design, quali l’attivazione di case del quartiere, urban center, attività di animazione territoriale (feste di quartiere, sagre, performance artistiche su strada ecc.), che possono contribuire altresì a rafforzare l’identità locale e il senso di appartenenza al luogo con rilevanti ricadute positive in termini di sicurezza urbana.

Favorire la presenza di spazi di ascolto dei cittadini può aiutare a comprendere le problematiche di sicurezza di un quartiere, favorendo l’elaborazione di strategie di prevenzione commisurate alle esigenze locali. In generale la presenza di associazioni, comitati locali spontanei e altre forme di coesione sociale possono favorire il senso di appartenenza al luogo, contribuendo alla sorveglianza spontanea e alla difesa del territorio.

Note 1 Possiamo tradurre il termine di prevenzione “place-based” con l’espressione “prevenzione locale”, facendo riferimento alle caratteristiche ambientali (fisiche e comunitarie) del contesto specifico entro cui si intende agire. 2 Facciamo riferimento al Piano Regolatore Generale Comunale (P.R.G.C.) quale strumento prioritario di pianificazione urbanistica a livello locale, così come individuato dalla legge nazionale e dalla maggior parte delle regioni, nonostante in diverse regioni italiane (Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, ecc.) siano già stati introdotti nuovi strumenti di pianificazione urbanistica. 3 Anche in questo caso, la nomenclatura degli strumenti di attuazione dei piani comunali è diversa a seconda delle leggi urbanistiche di ciascuna regione. 4 Il National Institute of Law Enforcement and Criminal Justice, oggi denominato National Institute of Justice (NIJ), è un’agenzia del dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti dedicata all’approfondimento della conoscenza sul crimine e alla promozione della giustizia. Svolge attività di ricerca, sviluppo e valutazione (www.nij.gov). 5 http://www.labqus.net/it. 6 http://www.cost.eu/domains_actions/tud/Actions/TU1203. 7 http://www.transcrime.unitn.it/tc/1.php 8 htttp://www.fisu.it 9 Sampson ha criticato la teoria delle finestre rotte, affermando che non sia il disordine a causare la criminalità, sebbene i due fenomeni siano collegati. Secondo l’autore, è l’efficacia collettiva - approssimativamente si potrebbe tradurre con un termine di uso comune con coesione sociale - a essere l’elemento determinante (Sampson & Raudenbush, 1999).

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10 http://www.newurbanism.org/newurbanism/principles.html. 11 http://www.gov.uk/government/publications/safer-places-the-planning-system-and-crime-prevention 12 http://www.comune.modena.it/pps/allegati/Italiano_testodef.pdf 13 http://www.planning.org/policy/guides/adopted/security.htm 14 http://www.securedbydesign.com/professionals/guides.aspx. 15 L’edizione più recente è del 2007 e si intitola “Design and Quality Standard”. 16 Inizialmente il Label era previsto solo per i nuovi insediamenti, ma dopo un anno è stato esteso agli interventi di riqualificazione. 17 Sulla scia delle gated communities si sono sviluppate alcune comunità private, non necessariamente recintate, ma caratterizzate da fenomeni sociali di segregazione e dalla sfiducia nei confronti dei sistemi amministrativi pubblici nel garantire città sicure. Sono rappresentate da sigle diverse a seconda che siano a destinazione residenziale oppure commerciale: Common Interests Developments (CID) e Business Interest District (BID). 18 Al link http://www.preventiondelinquance.interieur.gouv.fr/fileadmin/user_upload/03-Champs_d_action/Logement_transports/Guide_principe_amenagement_26_nov_cle05c1bc-1.pdf è possibile scaricare la guida 19 Si fa riferimento ad alcune delle azioni dei Patti per la Sicurezza di Alessandria, Ivrea, Comunità montana Valle Grana, Moncalieri, Trecate (Regione Piemonte, 2012). 20 Alcune riflessioni in merito alla distinzione tra ambiente urbano e rurale sono sviluppate in Chiodi (2012).

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Glossario

Ambiente costruito: insieme delle realizzazioni umane che trasformano l’ambiente naturale; comprendono le costruzioni (complessi abitativi, opere di architettura), i sistemi di infrastrutture urbane e non, e le zone allo stato naturale attraversate da infrastrutture di collegamento come autostrade e ferrovie. Il tema dell’ambiente costruito è spesso al centro di dibattiti in varie sedi soprattutto per l’impatto sul paesaggio di grandi opere di edilizia o infrastrutture. Beneficiari: soggetti che traggono un beneficio da un intervento o da un progetto. Possono essere individui, organizzazioni o gruppi. In quest’ultimo caso viene usato il termine target group (gruppo bersaglio). I beneficiari possono essere diretti e indiretti. CCTV (Closed Circuit Television): acronimo inglese che indica le telecamere a circuito chiuso impiegate nella sorveglianza di spazi pubblici e luoghi considerati “sensibili” dal punto di vista della sicurezza reale o percepita (scuole, edifici di proprietà comunale, impianti sportivi, ecc). Sebbene oggi non siano più televisioni a circuito chiuso, l’acronimo viene ancora utilizzato. Cooperazione inter-istituzionale: collaborazione tra diversi soggetti istituzionali che possono concorrere, in un dato contesto territoriale, a governare o gestire una criticità condividendo obiettivi e modalità di intervento. Può essere formalizzata attraverso atti negoziali o realizzata in maniera più informale. CPTED (Crime Prevention Through Environmental Design): acronimo inglese tradotto con “prevenzione del crimine attraverso la progettazione ambientale”. Il concetto è stato coniato nel 1971 da Clarence R. Jeffrey. Oggi ha un significato più ampio e definisce un approccio alla prevenzione del crimine focalizzato sull’ambiente complessivamente inteso (non solo come ambiente naturale ma come “tutto ciò che ci sta intorno”) e sul disegno dello spazio (che include sia elementi di progettazione minuta come l’arredo urbano, sia di progettazione a scala più ampia come la conformazione degli isolati e la pianificazione urbanistica). Alcuni principi fondamentali ricorrono in letteratura quali strategie positive di prevenzione

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del crimine e del disordine: la territorialità, cioè il senso di appartenenza al luogo, la sorveglianza naturale, il controllo degli accessi, la manutenzione e l’uso continuo degli spazi (la cosiddetta vivacità territoriale). Effetto spostamento (displacement): indica la situazione in cui la persona che intende commettere un reato non rinuncia a delinquere a causa delle misure di prevenzione che sono state adottate ma decide di orientare diversamente la sua azione. Si individuano cinque forme diverse di possibile spostamento conseguenti all’introduzione di misure di prevenzione del crimine: temporale (cambio nel tempo), tattico (cambio nella tecnica), di target (cambio di obiettivo), territoriale (cambio geografico), funzionale (cambio nel tipo di reato). Ente finanziatore: soggetto che approva il progetto e concede il finanziamento, di solito al termine di una selezione delle proposte ricevute. I soggetti finanziati sono tenuti a presentare documentazione tecnica ed economica secondo le modalità e i tempi stabiliti dall’ente finanziatore. Ente promotore o capofila: soggetto, pubblico o privato, formalmente titolare del progetto. È il soggetto che presenta la proposta e che, se il progetto è approvato, riceve il contributo. Fear of crime (paura della criminalità): concetto che attiene all’ambito della vittimizzazione e indica il timore di subire un crimine e le sue conseguenze, nonché la risposta fisica ed emotiva verso una minaccia, reale o potenziale. In letteratura è una delle due dimensioni attraverso le quali è definito il senso d’insicurezza: da un lato la paura personale della criminalità (fear of crimine) e dall’altro la preoccupazione sociale per la criminalità (concern about crime). Funzione di detection: è la capacità delle telecamere di fornire un supporto utile alle indagini delle forze dell’ordine nell’individuazione dei responsabili del crimine una volta che il reato è stato commesso. Funzione di deterrenza: si riferisce alla capacità delle telecamere di agire come strumento di dissuasione nei confronti dei potenziali autori di reati, prima che il reato sia commesso. Ius sanguinis (diritto del sangue): espressione latina che indica l'acquisizione della cittadinanza secondo la cittadinanza del genitore. In

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Italia è il criterio principale di acquisizione della cittadinanza. Ius soli (diritto del suolo): espressione latina che indica l'acquisizione della cittadinanza come conseguenza della nascita di un individuo sul territorio dello Stato, qualunque sia la cittadinanza posseduta dai genitori. Mainstreaming: processo attraverso il quale le innovazioni sperimentate in un progetto sono trasferite a livello di sistema. Si tratta di un percorso di acquisizione, da parte delle politiche e delle normative locali, nazionali e comunitarie, delle innovazioni e prassi sperimentali che hanno dimostrato la loro efficacia a livello di un singolo progetto. Mixitè: l’“uso misto” della città, cioè la presenza nella stessa area di attività e funzioni differenti (residenziale, uffici, commerciale, industriale). Solitamente si fa riferimento alla multifunzionalità in contrasto con l’approccio urbanistico tradizionale che assegnava specifiche funzioni alle diverse aree cittadine, creando in tal modo quartieri monofunzionali vuoti o inutilizzati nei momenti della giornata diversi da quelli legati all’uso prevalente. La varietà di attività con orari, funzioni e flussi di utenza diversi aiuta a produrre un uso più intenso dell’area e di conseguenza a promuoverne la vitalità. Analogamente si parla di mix socio-economico, intendendo la mescolanza nello stesso quartiere di gruppi appartenenti a ceti sociali differenti quale condizione per promuovere la vivibilità e la sicurezza. Evitare quartieri ghetto, sia dal punto di vista spaziale che socio-economico, può essere un’utile azione preventiva per la diffusione di illegalità e criminalità. Partenariato (o partnership): l’insieme di tutti i soggetti che partecipano allo stesso progetto o intervento. Per formalizzare la collaborazione tra i partner e l’ente promotore spesso è previsto un accordo di partenariato, sottoscritto da tutti, nel quale ciascuno si impegna a contribuire al progetto per quanto di sua competenza. I partenariati possono differenziarsi per ampiezza e tipologia di partner coinvolti in funzione della natura e degli obiettivi da realizzare. Partner: soggetto, pubblico o privato, che partecipa alla realizzazione del progetto insieme all’ente promotore. La scelta dei partner viene fatta nella fase di progettazione quando si definiscono i ruoli e compiti di ciascuno. I partner ricevono dall’ente promotore una quota di risorse per realizzare le attività a loro assegnate.

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Politica integrata di sicurezza: insieme di azioni volte a integrare le politiche locali per la sicurezza urbana con le politiche di contrasto della criminalità e di ordine pubblico, di cui è responsabile lo Stato. Politiche locali per la sicurezza: insieme di azioni volte al conseguimento di un’ordinata e civile convivenza nelle città e nel territorio esercitate attraverso le competenze proprie dei Comuni, delle Province e delle Regioni. Prevenzione situazionale: forma di prevenzione che fa riferimento alla possibilità di ridurre la criminalità e i comportamenti che producono disordine intervenendo non tanto sugli autori di reato quanto sul contesto ambientale. Si agisce con l’obiettivo di ridurre le opportunità criminose attraverso una serie di tecniche che aumentano i rischi per l’autore di reato, aumentano gli sforzi necessari per compierlo, ne riducono i vantaggi o rimuovono le giustificazioni. Sono un esempio di prevenzione situazionale la sorveglianza mediante telecamere a circuito chiuso, la cooperazione tra forze dell’ordine, ivi compresa la Polizia Municipale, la sorveglianza affidata a gruppi di cittadini o a categorie di cittadini, ecc. Prevenzione sociale: forme di prevenzione che si propone di intervenire sulle cause sociali della criminalità e non sulle sue manifestazioni. Al centro di questo tipo di interventi ci sono l’individuo che commette reati e le condizioni sociali e economiche che vive. Le aree di intervento della prevenzione sociale sono molto ampie e interessano tanto i soggetti quanto l’ambiente e la comunità. In questo secondo caso si parla spesso di prevenzione comunitaria. Attività di prevenzione sociale possono essere realizzate tanto prima della commissione di atti criminali o devianti, quanto successivamente. Ne costituiscono esempio i servizi di prossimità, le attività di mediazione e riduzione del danno, i servizi alle vittime, gli interventi di rivitalizzazione e gestione dello spazio pubblico. Project management (gestione di progetto): disciplina che si basa sull’applicazione di un insieme di conoscenze, tecniche e strumenti alle attività di un progetto al fine di conseguire i risultati previsti. Nel tempo ha assunto un’importanza crescente fino a diventare un ambito disciplinare e professionale autonomo, riconosciuto e codificato anche a livello internazionale come dimostra l’esistenza di standard internazionali, la diffusione di istituti specializzati accreditati e di manuali dedicati a questo tema.

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Sicurezza: la parola deriva dal latino sine cura e indica l’assenza di preoccupazione, la tranquillità di spirito, la quiete, la calma. Sicurezza pubblica: settore riservato allo Stato relativo alle misure inerenti alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico. Sicurezza urbana: il termine sottolinea un’idea di sicurezza che va oltre i tradizionali concetti di sicurezza e ordine pubblico (incentrati prevalentemente sulla prevenzione e repressione dei reati) e ha avuto un definizione di carattere giuridico nel D.M. 5 agosto 2008 “la sicurezza urbana è un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale”. Tale definizione, a conferma dell’elaborazione di carattere sociologico precedente, include tutta quella vasta gamma di attività positive volte a incrementare la qualità di vita delle città e dei cittadini in un dato territorio, tra cui gli interventi di prevenzione e di contrasto ai fenomeni d’illegalità e di criminalità diffusa. L’aggettivo “urbana” sottolinea quindi l’affermarsi di una sicurezza che trova nella dimensione locale non solo il luogo dove si manifestano le problematiche più rilevanti, ma soprattutto l’ambito dove i soggetti istituzionali che hanno la responsabilità a livello locale sono chiamati sempre più a farsi carico dei problemi dei cittadini, compresi quelli concernenti il rischio oggettivo di vittimizzazione e alla percezione di insicurezza. Sorveglianza naturale: meccanismo di sorveglianza spontanea da parte degli abitanti sul proprio quartiere, generato dalla conformazione degli edifici (affacci su strada e sulle piazze) e dalle attività diffuse sul territorio (presenze continue di giorno e notte). Questo tipo di controllo è normalmente più semplice da ottenere nei quartieri in cui vi è un tessuto sociale denso (legami di vicinato forti e stabili) e una buona combinazione di attività e usi che rendono l’area viva e vitale. È uno dei principi fondamentali della CPTED, secondo la quale per migliorare la sicurezza è necessario aumentare la possibilità di pratiche di controllo informale e spontaneo del territorio. Spazio pubblico: aree destinate all’uso collettivo come strade, piazze, giardini, parchi. Si oppone allo spazio privato per la natura giuridica della proprietà che lo distingue, ma oramai è consolidata l’interpretazione secondo la quale non è “pubblico” tutto ciò che si oppone al “privato”, ma lo

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spazio che è soggetto a un uso collettivo-pubblico in opposizione a un uso esclusivo-privato. Per spazio pubblico si intende dunque uno spazio accessibile e fruibile da tutti, nonostante la proprietà possa essere anche di soggetti privati, fondazioni, associazioni ecc. Stakeholder (portatore di interesse): persona o gruppo che è toccato dal problema alla base di un progetto e quindi può influenzare la sua realizzazione positivamente (sostenendolo e partecipando alle attività) o negativamente (ostacolandolo). Nella fase di progettazione spesso viene fatta l’analisi degli stakeholder che consiste nell’individuare chi sono, in che modo sono toccati dal progetto e quale contributo possono portare per integrare, laddove possibile, le loro esigenze nelle strategie del progetto. Straniero clandestino: indica chi è entrato nel paese di destinazione violando le regole che ne disciplinano l’ingresso. Straniero irregolare: indica chi, entrato regolarmente in un paese, vi permane senza un valido titolo giuridico. Teoria della scelta razionale: la teoria della scelta razionale applicata alla criminologia si basa sull’assunto che l’individuo compie reati in base ad un calcolo razionale tra costi e benefici. Ciò significa che se un bersaglio non è protetto a sufficienza e la ricompensa viene valutata dall’individuo conveniente, il reato avrà più possibilità di essere commesso.

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Bibliografia e link utili

Norme internazionali § Convenzione della Conferenza generale dell’Organizzazione

Internazionale del Lavoro, 24 giugno 1975, n. 143 “sulle migrazioni in condizioni abusive e sulla promozione della parità di opportunità e di trattamento dei lavoratori migranti”

§ Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 29 novembre 1985, n. A/RES/40/34 “Dichiarazione dei principi fondamentali di giustizia per le vittime di reato e di abuso di potere”

§ Trattato di Amsterdam 2 ottobre 1997, in vigore dal 1 maggio 1999 § Consiglio dell’Unione Europea 15 marzo 2001, “Decisione quadro relativa

alla posizione della vittima nel procedimento penale” n. 2001/220/GAI § Direttiva 29 giugno 2000, n. 2000/43/CE “che attua il principio della parità

di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica”

§ Direttiva 27 novembre 2000, n. 2000/78/CE “che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”

§ Direttiva 25 novembre 2003, n. 2003/109/CE “relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo”

§ Direttiva 25 maggio 2009, n. 2009/50/CE “sulle condizioni di ingresso e soggiorno di cittadini di paesi terzi che intendano svolgere lavori altamente qualificati”

§ Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa 28 giugno 1985, Racc. n. R (85) 11 “Raccomandazione concernente la posizione delle vittime nell'ambito del diritto penale e della procedura penale”

§ Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa 17 novembre 1987, Racc. n. R (87) 21 “Raccomandazione concernente l’assistenza alle vittime e la prevenzione della vittimizzazione”

Legislazione costituzionale § Costituzione della Repubblica Italiana: artt. 117 e 118 § L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3 "Modifiche al titolo V della parte seconda

della Costituzione"

Legislazione ordinaria § Regio Decreto 18 giugno 1931, n. 773 “Testo Unico delle Leggi di

Pubblica Sicurezza” (TULPS)

 

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§ Regio Decreto 6 maggio 1940, n. 635 “Approvazione del regolamento per l'esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773, delle leggi di pubblica sicurezza”

§ L. 7 marzo 1986, n. 65 “Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale”

§ D. Lgs. 31 marzo 1998, n.112 “Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59

§ D. Lgs. 27 luglio 1999, n. 279 "Disposizioni integrative del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, in materia di composizione e funzionamento del Comitato provinciale per l'Ordine e la sicurezza pubblica"

§ L. 15 marzo 1997, n. 59 "Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa"

§ D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” (T.U.E.L.)

§ L. 5 maggio 2009, n. 42 “Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione”

§ L. 31 Marzo 2000, n. 78 "Delega al Governo in materia di riordino dell'Arma dei carabinieri, del Corpo forestale dello Stato, del Corpo della Guardia di finanza e della Polizia di Stato. Norme in materia di coordinamento delle Forze di polizia"

§ D.P.R. 4 agosto 2008, n. 153 “Regolamento recante modifiche al regio decreto 6 maggio 1940, n. 635, per l'esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, in materia di guardie particolari, istituti di vigilanza e investigazione privata

§ L. 26 marzo 2001, n. 128 “Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini”

§ L. 24 luglio 2008, n. 125 “Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 23 maggio 2008, n. 92, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”

§ L. 15 luglio 2009, n. 94 "Disposizioni in materia di sicurezza pubblica” § L. 4 aprile 2007, n. 41 "Conversione in legge, con modificazioni, del

decreto-legge 8 febbraio 2007, n. 8, recante misure urgenti per la prevenzione e la repressione di fenomeni di violenza connessi a competizioni calcistiche"

§ L. 31 dicembre 1996, n. 675 “Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali”

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§ D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 “Codice in materia di protezione dei dati personali”

§ D.L. 12 novembre 2010, n.187 “Misure urgenti in materia di sicurezza”, convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2010, n. 217

§ L. 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007), art. 1, comma 439 § D.L. 31 maggio 2010, n. 78 “Misure urgenti in materia di stabilizzazione

finanziaria e di competitività economica”, convertito con modificazioni dalla L. 30 luglio 2010, n. 122

§ D.L. 6 luglio 2011, n. 98 “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria”, convertito con modificazioni dalla L. 15 luglio 2011, n. 111

§ D.L. 13 agosto 2011, n. 138 “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”, convertito con modificazioni dalla L. 14 settembre 2011, n. 148

§ D.L. 6 luglio 2012, n. 95 “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini”, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 135

§ L. 30 dicembre 1986, n. 943 “Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine”

§ L. 6 marzo 1998, n. 40 “Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”

§ D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 “Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”

§ L. 28 febbraio 1990, n. 39 “Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 30 dicembre 1989, n. 416, recante norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari e apolidi già presenti nel territorio dello Stato. Disposizioni in materia di asilo”

§ L. 30 luglio 2002, n. 189 “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”

§ L. 6 giugno 2008, n. 101 "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 8 aprile 2008, n. 59, recante disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e l'esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee"

§ Disegno di legge 29 aprile 2008, n. 77 “Legge quadro per l’assistenza, il sostegno e la tutela delle vittime di reati”

Norme regolamentari

§ D. Ministero dell’Interno 1 dicembre 2010, n. 269 “Regolamento recante disciplina delle caratteristiche minime del progetto organizzativo e dei

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requisiti minimi di qualità degli istituti e dei servizi di cui agli articoli 256-bis e 257-bis del Regolamento di esecuzione del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, nonché dei requisiti professionali e di capacità tecnica richiesti per la direzione dei medesimi istituti e per lo svolgimento di incarichi organizzativi nell'ambito degli stessi istituti”

§ D.P.C.M. 12 settembre 2000 “Individuazione delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative da trasferire alle regioni ed agli enti locali per l'esercizio delle funzioni e dei compiti amministrativi in materia di polizia amministrativa”

§ D. Ministero dell’Interno 5 agosto 2008, “Incolumità pubblica e sicurezza urbana. Interventi del sindaco”

§ D. Ministero dell'Interno 8 Agosto 2007, “Organizzazione e servizio degli steward negli impianti sportivi”

§ D. Ministero dell’Interno 8 agosto 2009, “Determinazione degli ambiti operativi delle associazioni di osservatori volontari, requisiti per l’iscrizione nell’elenco prefettizio e modalità di tenuta dei relativi elenchi, di cui ai commi da 40 a 44 dell’art.3 della l.94/2009”

§ D. Ministero dell’Interno 28 luglio 2011, “Definizione di nuovi servizi ausiliari dell'attività di Polizia affidati agli Steward, nonché ulteriori integrazioni e modifiche al decreto 8 agosto 2007”

§ D. Ministero dell'Interno 15 giugno 2012, “Determinazione dei requisiti per l’iscrizione nell’elenco prefettizio del personale addetto ai servizi di controllo delle attività d’intrattenimento e di spettacolo in luoghi aperti al pubblico o in pubblici esercizi, le modalità per la selezione e la formazione del personale, gli ambiti applicativi e il relativo impiego, di cui ai commi da 7 a 13 dell’art. 3 della legge 15 luglio 2009, n. 94”

§ D. Ministero dell’Interno 30 giugno 2012, “Modifica al decreto 6 ottobre 2009 recante regolamentazione dell'impiego del personale addetto ai servizi di controllo delle attività di intrattenimento e di spettacolo in luoghi aperti al pubblico”

§ Garante per la protezione dei dati personali, 29 novembre 2000, “Videosorveglianza – Il decalogo delle regole per non violare la privacy”

§ Garante per la protezione dei dati personali, 29 aprile 2004, “Videosorveglianza - Provvedimento generale”

§ Garante per la protezione dei dati personali, 8 aprile 2010, “Provvedimento in materia di videosorveglianza”

§ Direttiva Ministero dell’Interno 2 marzo 2012, Prot n. 558/SICPART/421.2/70 “Sistemi di videosorveglianza in ambito comunale”

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§ Circolare Ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza 8 febbraio 2005, Prot. n. 558/A/421.2/70/456 “Sistemi di videosorveglianza. Definizione di linee guida in materia”

§ Circolare Ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza 6 agosto 2010, Prot. n. 558/A/421.2/70/195960 “Sistemi di videosorveglianza”

Leggi Regione Piemonte § L. R. 30 novembre 1987, n. 58 “Norme in materia di Polizia locale” § L. R. 10 dicembre 2007, n. 23 “Disposizioni relative alle politiche regionali

in materia di sicurezza integrata” § L. R. 28 settembre 2012, n. 11 “Disposizioni organiche in materia di Enti

Locali” § L. R. 17 marzo 2008, n. 11 “Istituzione di un fondo di solidarietà per il

patrocinio legale alle donne vittime di violenza e maltrattamenti” § L. R. 29 maggio 2009, n. 16 “Istituzione di Centri antiviolenza con case

rifugio” Letteratura § AA. VV. (2008), Indicatori sociali a livello sub-regionale, Regione

Piemonte - Direzione Politiche Sociali, Università di Torino - Dipartimento di Scienze Sociali, Torino.

§ AA. VV. (2009), Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italiani. Sintesi del rapporto di ricerca, Facoltà di Scienze della Comunicazione, Sapienza Università di Roma, Roma. http://www.unhcr.it/news/download/131/733/91/sintesi-ricerca.html

§ AA. VV. (1995), Tesi di fondo per una politica della sicurezza nella regione Emilia Romagna, Quaderni di Città sicure, n. 1, pp. 9-21. http://autonomie.regione.emilia-romagna.it/sicurezza/risorse/pubblicazioni-e-ricerche/copy_of_volumi-on-line-rapporti

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http://dirittiregionali.org/ § Forum Italiano per la Sicurezza Urbana

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§ Centro Italiano per la Promozione della Mediazione http://www.cipm.it/area-criminologica/

§ Rete Dafne di aiuto e sostegno alle vittime di reato (Torino) http://retedafnetorino.it/

§ Servizio Non da soli (Modena) http://www.comune.modena.it/politichedellesicurezze

§ Institut d’aide aux victimes et de médiation (INAVEM) http://www.inavem.org

§ Victim Support http://www.victimsupport.org/

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