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Card. Ratzinger: Una Chiesa senza teologia immiserisce e diventa cieca; una teologia senza Chiesa si dissolve nell’arbitrario (1986) Il Cardinale Ratzinger su teologia e Chiesa ROMA, sabato, 7 novembre 2009 (ZENIT.org). Pubblichiamo di seguito la lezione sul tema “Teologia e Chiesa” tenuta dal cardinale Joseph Ratzinger, il 22 marzo del 1986, a Brescia, durante un incontro organizzato dalla redazione italiana della rivista cattolica internazionale “Communio”. * * * «Nessun cristiano intelligente vorrà contestare il fatto che la custodia della Parola di Dio tra gli uomini è affidata alla Chiesa soltanto». Non sono parole di un funzionario di curia, fossilizzato nella routine del suo ufficio, in grado di vedere soltanto le sue competenze e ormai incapace di percepire la complessità dei problemi. Si tratta invece di un giudizio che fu formulato nel 1935, nel momento culminante della lotta tra la Chiesa e lo Stato, da un discepolo di Rudolf Bultmann, che si trovava in prima linea nella Chiesa confessante evangelica e che, in un discorso di incitamento e di supplica, richiamava la Chiesa alla sua responsabilità nei confronti dell’insegnamento teologico. Si

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Card. Ratzinger: Una Chiesa senza teologia immiserisce e diventa cieca; una teologia senza Chiesa si dissolve nell’arbitrario (1986)

Il Cardinale Ratzinger su teologia e Chiesa

ROMA, sabato, 7 novembre 2009 (ZENIT.org).

Pubblichiamo di seguito la lezione sul tema “Teologia e Chiesa” tenuta dal cardinale Joseph Ratzinger, il 22 marzo del 1986, a Brescia, durante un incontro organizzato dalla redazione italiana della rivista cattolica internazionale “Communio”.

* * *

«Nessun cristiano intelligente vorrà contestare il fatto che la custodia della Parola di Dio tra gli uomini è affidata alla Chiesa soltanto». Non sono parole di un funzionario di curia, fossilizzato nella routine del suo ufficio, in grado di vedere soltanto le sue competenze e ormai incapace di percepire la complessità dei problemi. Si tratta invece di un giudizio che fu formulato nel 1935, nel momento culminante della lotta tra la Chiesa e lo Stato, da un discepolo di Rudolf Bultmann, che si trovava in prima linea nella Chiesa confessante evangelica e che, in un discorso di incitamento e di supplica, richiamava la Chiesa alla sua responsabilità nei confronti dell’insegnamento teologico. Si tratta di Heinrich Schlier che, con queste parole, aveva tutt’altro che teorie puramente accademiche o istruzioni burocratiche. Il tentativo, da parte dello Stato, di fare del cristianesimo luterano un cristianesimo tedesco, rendendolo così utilizzabile ai fini del totalitarismo del partito, aveva aperto gli occhi a lui come a molti dei suoi compagni di strada: la teologia è nella Chiesa e dalla Chiesa, oppure non è. Quel giudizio è al tempo stesso scelta esistenziale: significa la rinuncia all’insegnamento nella Università. Di questo insegnamento non poteva più farsi carico una Chiesa divenuta timorosa e irresoluta; nella sua apparente libertà accademica, esso in realtà si era reso fantoccio del potere dominante, era ormai pronto a cadere preda del partito. In quella situazione, era diventato chiaro che la libertà della teologia sta nel suo legame con la Chiesa; che con ogni altro genere di libertà la teologia tradisce se stessa e ciò che le è affidato. Era diventato chiaro che non ci può essere un magistero teologico se non c’è un magistero ecclesiale. La teologia, infatti, non avrebbe allora altra

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certezza se non la certezza che è propria di una qualsiasi delle «scienze umane»; vale a dire, la certezza dell’ipotesi, intorno alla quale si può disputare, ma sulla quale nessuno può impegnare la propria vita. Se così fosse, sarebbe una pretesa assurda per la teologia quella di voler essere qualcosa di diverso da una storia, o magari da una psicologia o una sociologia o anche una filosofia del cristianesimo.Quel modo di vedere si impose allora con lucida incisività, anche se non fu affatto riconosciuto come evidente dalla maggioranza dei teologi. Esso divenne la linea di discriminazione tra la scelta liberale, che in ogni modo passò presto al servizio del totalitarismo, e la decisione in favore della Chiesa confessante, decisione che era allo stesso tempo in favore di una teologia legata alla professione di fede e con ciò alla Chiesa docente. Al giorno d’oggi, in un momento storico di maggior pace esteriore, i contorni non si possono vedere con altrettanta nitidezza. Certo, dei teologi cattolici non contesteranno, almeno in linea di principio, l’esistenza di un magistero. Quanto a questo punto, è indubbio il vantaggio che la tradizione della Chiesa con il suo ordinamento rappresenta per i cattolici, altrimenti da quel che avviene nella storia (Tradition) della Riforma. Però, oggi, nella coscienza diffusa della teologia cattolica, ciò che c’è di necessario e di positivo nel Magistero ha perduto la sua evidenza. L’autorità della Chiesa appare come un’istanza estranea alla scienza, un’istanza che di per sé non avrebbe ragione di esserci, stando alla logica della scienza. La scienza - così pare - può seguire soltanto le leggi sue proprie; e, in base a queste, nella scienza non hanno peso se non gli argomenti di ragione, oggettivi. Che decida una autorità, su ciò che si deve insegnare o non insegnare, invece di ricorrere ad argomenti e ad una conoscenza raggiungibile mediante argomenti, è considerato antiscientifico. E una cosa che discredita la teologia nell’organismo dell’Università. Non l’autorità decide, ma gli argomenti, e se ciononostante l’autorità fa il tentativo di decidere e determinare, allora si è di fronte ad una usurpazione e ad una prepotenza contro le quali ci si deve difendere.Spesso, oggi, anche la teologia cattolica pensa in questo modo; e ciò l’ha condotta in una situazione contraddittoria. Nei suoi confronti vale ancora - e vale anzi a maggior ragione - ciò che Romano Guardini opponeva ai suoi maestri di teologia al tempo della crisi modernista e poco dopo: che cioè il loro cattolicesimo era soltanto un «liberalismo col limite dell’obbedienza al dogma». In tal modo il loro pensiero zoppicava da entrambi i lati: come liberalismo non convinceva, per quel suo limite dell’obbedienza al dogma sopportata a fatica; ma neppure poteva rendere accetto il cattolicesimo, in cui vedeva solo vincoli e pastoie, e non qualcosa di proprio, di positivo, di vivente e di grande. Non si può rimanere a lungo in una posizione ambigua di questo genere.

Se, per la teologia, Chiesa e autorità ecclesiale sono qualcosa di estraneo alla scienza, alla scienza teologica, Chiesa e teologia sono entrambe in pericolo. Perché una Chiesa senza teologia immiserisce e diventa cieca; una teologia senza Chiesa si dissolve nell’arbitrario. Per questo motivo, la questione della loro intima connessione deve essere pensata di nuovo dalle fondamenta, e deve essere pienamente chiarita.

Non per delimitare sfere di interessi; non per mantenere o per rimuovere un potere, ma per il bene della teologia e in ultima analisi per il bene della nostra stessa fede.

Il tema è smisurato; in una lezione non è possibile trattarlo con completezza neppure approssimativa. Tenterò soltanto di esporre alcuni punti di vista, che dovranno servire da guida nella riflessione ulteriore. Non vorrei escludere di proposito la questione del magistero e, tuttavia, vorrei toccarla da principio solo marginalmente, perché si tratta di una questione che non può essere posta in maniera adeguata, se non è stato chiarito prima ciò che sta propriamente a fondamento: l’intimo essenziale nesso che lega l’una all’altra Chiesa e teologia. Ci sono molti modi per esporre questo nesso. Col crollo del modello liberale classico nel periodo tra le due guerre mondiali e,

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soprattutto poi, con la lotta tra Stato e Chiesa durante il terzo Reich, quel nesso è stato concepito in maniera nuova dai più significativi teologi dell’epoca, ciascuno dei quali lo ha presentato a suo modo.

Il primo, forse, ad aprire la strada fu l’allora libero docente Romano Guardini, per il quale erano divenute esperienze personali due fenomeni storici: il Dantismo aveva infranto la fede della sua infanzia; la conversione fu un superamento di Kant e il superamento di Kant un nuovo inizio del pensare, nell’obbedienza ad una parola che proviene da quel soggetto vivente e vincolante che è la Chiesa.

Dopo la prima guerra mondiale, fu il grande storico ed esegeta protestante Erich Peterson che, in polemica con Harnack e con Barth, segnalò nell’insufficienza della dialettica e della sua serietà solo apparente l’insufficienza del liberalismo stesso e giunse al dogma e infine alla Chiesa cattolica. A suo modo, anche Karl Barth, polemizzando ancora con Harnack, riconobbe che la teologia o è ecclesiale o non è; il fatto che la sua imponente opera si intitoli Kirchliche Dogmatik (Dogmatica ecclesiale), era e resta testimonianza di una confessione, senza la quale l’opera non esisterebbe. Infine, bisogna fare il nome di Heinrich Schlier, il quale, in polemica col nazionalsocialismo e contro una teologia accademica zoppicante, riscoprì il fatto che la teologia ha bisogno della Chiesa e delle sue decisioni dottrinali, proprio perché la teologia non esiste se non in vista di questo fine, «insegnare a conoscere la Parola di Dio in modo esplicito e ordinato». Anche questa presa di posizione era come le altre, e lo abbiamo già visto, gravida di conseguenze di importanza vitale; prima Schlier deve rassegnarsi a rinunciare al suo impiego a causa della persecuzione politica; in un secondo tempo, la via imboccata lo portò nella Chiesa cattolica. Sarebbe stimolante riflettere sul tema «ecclesialità della teologia» alla luce del pensiero di queste quattro grandi figure, di ciò che hanno in comune, come di ciò che le contrappone l’una all’altra.

Il nuovo soggetto come presupposto e fondamento di ogni teologia

Ma questo ci porterebbe troppo lontano. Vorrei invece provare a cominciare da un punto che a prima vista sembra senza connessione con il nostro tema, e in realtà fornisce invece, a mio parere, il fondamento che è necessario prendere in considerazione se si vuol capire qualcosa del nostro tema. Mi riferisco a quella espressione della lettera ai Galati nella quale Paolo descrive ciò che è peculiarmente cristiano al tempo stesso come sconvolgente esperienza personale e come oggettiva realtà: «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). La frase si trova a conclusione della breve autobiografia spirituale che Paolo traccia per i suoi lettori, non al fine di trarne vanto, ma per render chiaro, col richiamo a quella che è stata la sua storia personale con Cristo e con la Chiesa, quale sia il messaggio che gli è stato affidato. Questa apologia del cammino che egli ha percorso lo induce a procedere, per così dire, dall’esterno verso l’interno: vengono prima indicati gli avvenimenti esteriori della sua chiamata e della sua storia, ma poi, a conclusione, in quell’unica frase, come in un lampo, diventa visibile l’avvenimento interiore, che era accaduto in quegli avvenimenti esteriori e che è a fondamento di tutto. Questo avvenimento interiore è, nello stesso tempo, totalmente personale e totalmente oggettivo. Un’esperienza del tutto individuale e nello stesso tempo dice qual è l’essenza del cristianesimo per tutti. Indeboliremmo troppo il senso di quella frase se la spiegassimo così: il diventare cristiano e l’essere cristiano poggiano su una conversione. Dicendo così, si punta già nella direzione giusta; ma la conversione in senso paolino è qualcosa di molto più radicale che non una semplice revisione di qualche nostra opinione o di qualche nostra posizione. E un processo in cui si muore. Detto in altre parole: è un cambiamento di soggetto. L’io smette di essere un soggetto autonomo che ha in se stesso la sua propria consistenza. Viene strappato a se stesso e inserito in un nuovo soggetto. Non che l’io scompaia semplicemente e definitivamente; deve lasciarsi cadere, perdere, per poter poi riceversi di nuovo in un io più grande e insieme con questo.

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Questo pensiero fondamentale, che la conversione è l’abbandono della vecchia soggettività isolata e il ritrovarsi in un nuovo soggetto unitario, in cui i limiti dell’io sono saltati e diventa possibile così il contatto con il fondamento di ogni realtà; questo pensiero fondamentale ritorna ancora un’altra volta nella lettera ai Galati, in un altro contesto, con accenti nuovi. Per sviluppare il tema se l’uomo possa, per dir così, costruirsi da se stesso o se non debba lasciarsi donare a se stesso, Paolo si serve della coppia di opposti «legge» e «promessa». Ed egli sottolinea con molta insistenza che la promessa è stata fatta al seme di Abramo, al singolare. Essa non vale per una molteplicità di soggetti l’uno accanto all’altro; vale «per il seme di Abramo» (Gal 3,16), al singolare. C’è un unico portatore della promessa e al di fuori di questa c’è il mondo confuso dell’autorealizzazione, un mondo nel quale gli uomini sono in concorrenza gli uni con gli altri e pretendono di mettersi in con-correnza con Dio; ma, in tutto questo loro darsi da fare, succede che sfugge loro proprio ciò in cui sta la loro vera speranza.E tuttavia, come può la promessa essere una speranza se essa vale per uno solo? Ecco la risposta dell’Apostolo: «quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete seme di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3, 27-29). E importante notare che Paolo non dice: «voi siete una cosa sola», ma mette in evidenza: «voi siete uno (una persona sola)». Voi siete diventati un soggetto nuovo, un soggetto unico con Cristo e così, in virtù di questa fusione di soggetti, siete nello spazio della promessa.Questo secondo testo è importante, in quanto esso rende chiaro il contenuto oggettivo che costituisce il fondamento anche della prima formula («io, e però non più io»); ma nel primo testo esso non è altrettanto percepibile dal lettore. È impossibile che ciascuno si prefigga di operare da sé il cambiamento di soggetto di cui qui si tratta. Sarebbe illogico e contraddittorio. In tal caso, infatti, chi sarebbe all’«opera» sarebbe in ogni caso lo stesso vecchio soggetto, chiuso nell’ambito non ol-trepassabile del proprio sé. Il cambiamento di soggetto include un elemento di passività che Paolo designa a ragione come morte, come partecipazione all’evento della croce. Può capitare soltanto dall’esterno, come proveniente da altro. Dato che la conversione cristiana infrange la barriera fra l’io e il non-io, può esser data soltanto da un non-io, non può mai compiersi nella mera interiorità della propria individuale decisione. Essa ha una struttura sacramentale. Il «vivo io, e non sono più io che vivo» non descrive un’esperienza mistica privata, ma definisce piuttosto l’essenza del battesimo. Si tratta di un evento sacramentale e perciò ecclesiale. Il passivo del diventare cristiano esige l’attivo della Chiesa che opera, della Chiesa in cui l’unità di soggetto dei credenti si manifesta nella concretezza delle persone fisiche e della storia. Solo da questo punto di vista l’espressione paolina della Chiesa come «corpo di Cristo» può essere adeguatamente compresa. Non c’è nessuna differenza tra questo e l’esser rivestiti di Cristo; laddove il nuovo abito, che allo stesso tempo ricopre e libera il cristiano, è la nuova corporeità, il corpo del Cristo risorto.Chi legge Paolo in questa prospettiva finisce sempre, partendo dai più diversi aspetti, con l’incontrare la stessa intuizione fondamentale Nella teologia battesimale della lettera ai Romani la troviamo unita al tema della tradizione e cioè ai contenuti che sono l’oggetto del conoscere cristiano e della professione di fede. Il battesimo viene descritto qui come un essere trasferiti nell’ambito di una certa forma di insegnamento (τύποϛ διδαχῆϛ, forma doctrinae), e il soggetto corrispondente a questa sua consegna in un comune spazio di conoscenza mediante un’obbedienza che nasce dal cuore (Rm 6, 17). Sotto un aspetto ancora di-verso, ci imbattiamo nello stesso pensiero nella prima lettera ai Corinzi. Qui Paolo sviluppa il paragone del corpo e delle membra, che è usuale nell’antica riflessione filosofica sulla società. Nella sua applicazione alla Chiesa, abbiamo un cambiamento sorprendente che per lo più passa inosservato. E questo porta ad una interpretazione erronea dei fondamenti della ecclesiologia paolina, la quale non disdegna apporti dalla sociologia dell’epoca, ma è guidata però da una concezione di base che è del tutto diversa. Paolo non dice infatti: come in un organismo ci sono molte membra che collaborano, così è anche nella Chiesa. Si tratterebbe, in questo caso, di un modello di Chiesa puramente sociologico. E vero piuttosto questo: che, dopo aver ripreso ed esposto l’antica metafora, egli sposta il pensiero su un piano del tutto diverso. Dice

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infatti: come è del corpo e delle membra, così anche Cristo (1 Cor 12, 12). Il soggetto che ci è posto di fronte non è la Chiesa; anch’essa infatti, secondo Paolo, non è un soggetto separato e sussistente in se stesso. Il nuovo soggetto è piuttosto «il Cristo» stesso e la Chiesa non è altro che lo spazio di questo nuovo soggetto unitario; essa è perciò molto più di una pura e semplice interazione sociale. Si tratta, in definitiva, dello stesso «singolare» cristologico della lettera ai Galati, che rimanda anche qui al sacramento; in questo caso all’Eucarestia, di cui Paolo, due capitoli prima, aveva definito l’essenza con un’espressione audace: «poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo» (10, 17). «Un corpo»; in base al concetto biblico di soma, potremmo tradurre benissimo «un soggetto», purché non si dimentichi la dimensione di fisicità e di storicità ditale soggetto.Prima di porci la domanda, che cosa tutto questo abbia propriamente a che fare con la teologia, vorrei accennare, almeno di passaggio, al modo in cui questi temi si presentano nel vangelo di Giovanni. Infatti, se Paolo è mosso anzitutto dalla domanda sulla fede e sulla professione di fede, Giovanni pone con molta energia la questione della vera conoscenza. Quel che interessa ad entrambi è, in definitiva, la verità del nostro essere. Giovanni si trova davanti a questo fatto: ogni discorso su Gesù che sia puramente empirico (si potrebbe dire: puramente storico) resta bloccato in un groviglio decisamente assurdo di fraintendimenti. La domanda chi sia Gesù viene ridotta perciò alla domanda da dove Egli venga in realtà. Siamo già di fronte al tipico fraintendimento storicistico che crede di aver compreso un fatto perché ha analizzato il processo che l’ha generato. Per Giovanni, questo è un errore grossolano. Ma se non si può raggiungere una vera conoscenza di Gesù mediante una chiarificazione della sua origine, mediante il ricorso agli accadimenti storici (alla Historie), come lo si può conoscere, allora? Giovanni dà una risposta che per il pensiero moderno suonerà certo, da principio, «mitologica». Egli dice: solo il Paraclito può farcelo conoscere, solo lo Spirito che è lo Spirito del Padre e del Figlio stesso. Si può conoscere qualcuno solo mediante lui stesso. Se poi si fa più attenzione a quella risposta, subito ci si accorge che col rimando alla pneumatologia si viene introdotti nella ecclesiologia e che si tratta di un ben definito processo di comprensione. Infatti, come opera lo Spirito? In primo luogo, opera facendo il dono di ricordare: ed è un ricordare in cui il singolo si congiunge col tutto e questo conferisce al singolo, prima incomprensibile, il suo vero significato. In secondo luogo, ciò che lo caratterizza è l’ascoltare; lo Spirito non parla da se stesso; ascolta ed insegna ad ascoltare; vale a dire, non aggiunge qualcosa d’altro alla Parola, ma introduce nella Parola la quale, nell’ascolto, si fa luce. Lo Spirito non falsa, ma fa sì che Colui che mi sta di fronte parli e penetri in me. In tutto ciò è già incluso anche questo: lo Spirito produce uno spazio dell’ascolto e della memoria, un «noi» che in Giovanni definisce la Chiesa come luogo della conoscenza. Soltanto in questo «noi» che è appartenenza all’origine, solo grazie all’appartenenza, avviene di comprendere. Bultmann lo ha espresso con perfetta chiarezza quando, a proposito della testimonianza dello Spirito in Giovanni, ha detto: «È ripetizione, memoria, nella luce della attuale comunione con Lui».

Conversione, credere e pensare

Sebbene tutto questo sia per ora abbastanza lontano dai nostri problemi che riguardano il concetto e i metodi della teologia, tuttavia, cominciano ormai a delinearsi, a poco a poco, le connessioni. Incominciamo con una apparente banalità. La teologia suppone la fede. Essa vive del paradosso di una unione di fede e di scienza. Chi vuole negare questo paradosso nega la teologia; e allora dovrebbe avere il coraggio di dirlo. Chi invece sostanzialmente lo accetta, accetta anche le tensioni che sono implicite in esso. In quel paradosso viene in luce la peculiarità del modo in cui il cristianesimo pretende di essere verità, ciò che il cristianesimo ha di proprio, quanto alla sua natura stessa, in tutta la storia delle religioni. Il fenomeno teologia, infatti, nello stretto significato del termine, è un fenomeno esclusivamente cristiano che non si ritrova altrove con le stesse caratteristiche. Viene presupposto che, nella fede, abbiamo a che fare con la verità; vale a dire, con una conoscenza che non si riferisce al funzionamento di qualcosa, ma alla verità del nostro essere stesso; in fondo, si tratta di questo: come è necessario che noi siamo per essere come dobbiamo

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essere. Si presuppone che questa verità sia accessibile solo nella fede; che la fede è un nuovo inizio del pensare, dì cui ci e fatto dono e che noi non possiamo procurarci o surrogare da soli. E viene presupposto anche, allo stesso tempo, che questa verità illumina tutto il nostro essere che perciò si rivolge anche al nostro intelletto, che vuole esser compresa dal nostro intelletto. Viene presupposto che questa verità, in quanto verità, si indirizza alla ragione, che deve essere pensata dalla ragione perché l’uomo la faccia propria e perche essa sviluppi pienamente la sua forza. Mentre il mito, in Grecia come in India, vuol dispiegare molteplici immagini di una verità che resta sempre inattingibile, la fede in Cristo, nei suoi asserti fondamentali, non ammette scambi o sostituzioni. Certo, essa non annulla i limiti essenziali dell’uomo nei confronti della verità; vale a dire, non toglie di mezzo la legge dell’analogia; ma l’analogia è qualcosa di diverso dalla metafora. Essa ammette sempre un ampliamento e un approfondimento ma, nei limiti dell’umano, essa dice la verità. Perciò, la razionalità appartiene all’essenza stessa del cristianesimo e le appartiene in un modo che non trova riscontro nelle altre religioni, le quali non avanzano nessuna pretesa in tal senso. Chi volesse soffocarne lo sviluppo, si opporrebbe ad una dimensione irrinunciabile della fede. Sta qui il limite che il magistero della Chiesa deve osservare nei suoi rapporti con la teologia.Ma a questo punto è necessario che noi sviluppiamo fino in fondo quel pensiero che si è venuto delineando a partire da Paolo e da Giovanni. Ormai possiamo dire: alla teologia appartiene il credere e alla teologia appartiene il pensare. La mancanza dell’uno o dell’altro ne provocherebbe la dissoluzione. Ciò significa: la teologia presuppone un nuovo inizio nel pensare che non è il prodotto di una riflessione nostra, ma nasce dall’incontro con una Parola che sempre ci precede. Chiamiamo questo nuovo inizio «conversione». Dato che non c’è teologia senza fede, non c’è teologia senza conversione. La conversione può avere molte forme. Non sempre essa deve verificarsi in un accadimento puntuale, come per Agostino o per Pascal o per Newman o per Guardini. Però, in qualche maniera, il «sì» a quel nuovo inizio deve essere consapevolmente assunto, la svolta dall’io al non più-io deve essere fatta. Diventa subito chiaro, allora, che una teologia creativa tanto più sarà possibile, quanto più la fede sarà divenuta veramente esperienza; quanto più la conversione, con un sofferto e doloroso processo di cambiamento, avrà conseguito evidenza interiore; quanto più essa sarà stata riconosciuta come la strada irrinunciabile per penetrare nella verità del proprio essere. È questo il motivo per cui i convertiti possono sempre essere guide nel cammino verso la fede; per questo essi possono essere di grandissimo aiuto nel riconoscere e nel testimoniare la ragione della speranza che è in noi (1 Pt 3, 15). Quello della connessione fra teologia e santità non è dunque un discorso sentimentale o pietistico, ma ha il suo fondamento nella logica delle cose, e ha dalla sua parte la testimonianza di tutta la storia. Non è pensabile Atanasio senza la nuova esperienza di Cristo di Antonio abate; Agostino senza la passione del suo cammino verso la radicalità cristiana; Bonaventura e la teologia francescana del XIII secolo senza la nuova gigantesca attualizzazione di Cristo nella figura di san Francesco d’Assisi; Tommaso d’Aquino senza la passione di Domenico per il Vangelo e l’evangelizzazione; e si potrebbe continuare, così, lungo tutta la storia della teologia. La pura e semplice razionalità non basta ancora per produrre una grande teologia cristiana: in fondo, anche figure così eminenti come quelle di Ritschl, Jülicher, Harnack, lette a distanza di generazioni, restano singolarmente povere dal punto di vista teologico. È ovvio che, viceversa, una pietà chiusa timorosamente in se stessa non può trovare una espressione in cui la fede riceva una evidenza nuova; e neanche può, oltrepassando i suoi limiti, farsi annuncio per gli uomini in cerca di verità.

Il carattere ecclesiale della conversione e le sue conseguenze per la teologia

Con queste riflessioni si è già fatto un passo ulteriore. La fede, si diceva, richiede conversione. Ma la conversione è un atto di obbedienza nei confronti di ciò che mi precede e che non ha la sua origne in me stesso. E questa obbedienza resta, perché quel qualcosa che mi precede, una volta conosciuto, non diventa una porzione del pensiero mio; accade invece l’opposto: sono io che divento suo, essa resta sempre al di sopra di me. Per il cristiano, poi, questo qualcosa che precede non è un «esso»,

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una cosa, ma un «Egli», una persona; anzi, meglio, un «Tu». il Cristo, il Verbo fatto carne; è Lui il nuovo inizio, a partire dal quale noi pensiamo. E Lui il nuovo soggetto, in cui è saltato il limite della soggettività, sono saltate le barriere tra soggetto e oggetto, tanto che posso dire: io, e però non più io.A partire di qui, si aprono diverse prospettive, in varie direzioni. Tento soltanto di farne un breve cenno. Innanzitutto, è evidente il carattere comunionale di questo processo. La conversione non porta ad un rapporto privato con Gesù che rimarrebbe, pur sempre, in fondo, soltanto un dialogo con se stessi. Essa è un essere consegnato ad una certa forma di insegnamento, come Paolo dice; è ingresso nel «noi» della Chiesa, come abbiamo visto in Giovanni. Solo in questo modo è concreta l’obbedienza dovuta alla verità. In particolare Guardini è tornato più e più volte a dare espressione a questo nucleo della sua esperienza di conversione, che costituisce il centro della sua teologia e un nuovo inizio della teologia dopo il fallimento del modello liberale. La formula della sua conversione, quella che segnò la svolta della sua vita, era stata Mt 10, 39: «Chi vuole trovare la sua vita (chi vuole realizzarsi da sé), la perderà; e chi perde la sua vita per causa mia, la troverà». Dopo tutti gli smacchi dell’autorealizzazione, queste parole gli si erano impresse a fuoco nell’anima, con un’evidenza umana indubitabile. Ci si deve perdere per giungere a se stessi. Ma perdersi dove? Certo non in un posto qualsiasi. Un perdersi del genere può avere solo un destinatario adeguato: Dio. E dove è Dio? L’esperienza di Guardini afferma: «Non c’è un libero accesso a Dio. Di fronte alla pretesa di una ricerca di Dio autonoma... Egli è lo sconosciuto, che abita in una luce inacces-sibile (l Tm 6, 16)». Solo il Dio concreto può essere qualcosa di diverso da una nuova proiezione del proprio io. Solo la sequela di Cristo è il cammino del perdersi che conduce alla mera. Ma, anche a questo punto, sorge un nuovo interrogativo: quale immagine di Gesù è più di una mera immagine? Dove posso trovarlo veramente, dove posso trovare Lui e non soltanto pensieri su di Lui? Guardini accenna alle molteplici immagini di Cristo e afferma: «Un esame accurato è in grado di cogliere un’inquietante somiglianza tra le diverse immagini di Cristo e coloro che le hanno proposte. Spesso sembra che queste figure di Cristo non siano nient’altro se non gli autoritratti idealizzati di chi le ha esco-girate». E la risposta, allora? Colui che si è fatto carne è restato carne. Egli è concreto. «Nella Chiesa di Cristo viene continuamente rivolta ai singoli la richiesta di dare la propria anima, per poterla ricevere ancora, rinnovata e più vera». L’obbedienza alla Chiesa è la concretezza della nostra obbedienza. La Chiesa è il nuovo, grande soggetto, nel quale si toccano passato e presente, soggetto e oggetto. E la nostra contemporaneità con Cristo; non ce n’è altra.La voce «incarnazione» apre ancora altre prospettive; Heinrich Schlier le ha approfondite e sviluppate nel resoconto della sua conversione. Posso solo accennarle qui; prima di tutto c’è il nesso fra tradizione e trasmissione vivente. Questo nesso implica l’autorità apostolica che interpreta la parola della tradizione e le conferisce la sua chiarezza.L’ultimo fondamento di tutto ciò consiste nel fatto della piena e definitiva decisione di Dio per noi espressa e concretizzata nel Figlio che è la Parola, la Verità. A partire di qui, c’è «secondo il Nuovo Testamento... il fatto che la fede si fissa in proposizioni concrete e che esse esigono dalla fede un concreto riconoscimento della loro verità». Stando così le cose, Schlier poteva dire di essere diventato cattolico per una via strettamente protestante, cioè la sola scriptura. Chi ha avuto in dono di essere suo amico sa che egli non aveva perduto niente della grandezza dell’eredità protestante; soltanto, l’aveva portata alle sue ultime conseguenze.Interrompo a questo punto la serie delle mie riflessioni, perché ciò che è decisivo ormai è diventato chiaro: per la scienza teologica, la Chiesa non e un istanza estranea, essa è piuttosto il fondamento della sua esistenza, la condizione della sua possibilità. E la Chiesa non è, a sua volta, un principio astratto; essa è invece soggetto vivente, è contenuto concreto. Per sua natura questo soggetto è più ampio di ogni singola persona; anzi, di ogni singola generazione. La fede implica sempre appartenenza ad un tutto e, proprio per questo, un uscire dal chiuso di sé. Ma la Chiesa non è neppure uno spazio spirituale non tangibile in cui ciascuno ha da scegliere quel che più gli aggrada. Essa è concreta, nella parola vincolante della fede. Ed è voce vivente che dice le parole della fede.

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Fede, annuncio e teologia

Non è necessario sviluppare qui, nei particolari, la conseguente teoria del magistero e delle sue forme; se ne è parlato abbastanza spesso. Dobbiamo però affrontare alcune questioni concrete che in questo contesto vengono continuamente riproposte. E sul piano del concreto, infatti, che sorgono i problemi. Non offre molta difficoltà il riconoscere, sul piano della teoria, che la teologia è ecclesiale per natura sua; che la Chiesa non è soltanto una cornice organizzativa ma il suo intimo fondamento e la sua fonte immediata; che dunque la Chiesa non può essere incompetente sui contenuti e teologicamente muta, ma deve avere una voce vivente: deve avere la facoltà di parlare in modo tale da essere vincolante anche per i teologi. A questo punto, si apre, nel ricorso a quella «concretezza», una nuova possibilità di fuga, oggi sempre più sfruttata. Alla Chiesa, si dice, è stato affidato il ministero pastorale; ad essa spetta di portare l’annuncio ai credenti, non di insegnare ai teologi. Ma una separazione del genere tra annuncio e dottrina è in opposizione profonda con l’essenza della parola biblica. Una tale separazione non fa altro che riprendere quella divisione tra psichici e gnostici, con la quale la cosiddetta gnosi antica ha tentato di crearsi un suo libero spazio, e che di fatto l’ha condotta fuori della Chiesa e fuori della fede. Quella separazione presuppone, infatti, il rapporto che c’è nel paganesimo tra mito e filosofia, simbolismo religioso e ragione illuminata; contro quella separazione era scesa in campo la critica della religione operata dal cristianesimo; come tale, essa è anche critica di un pensiero religioso classista. Ha effettuato l’emancipazione dei semplici, ha rivendicato anche per loro la facoltà di essere, nel vero senso della parola, filosofi; vale a dire, di comprendere ciò che è proprio e peculiare dell’uomo altrettanto bene quanto lo comprendono i dotti; anzi, meglio dei dotti. Le parole di Gesù sulla stoltezza dei sapienti e sulla sapienza dei piccoli (cfr. in particolare Mt 11, 25 e paralleli) hanno proprio questo scopo: fondare il cristianesimo come religione popolare, come una religione in cui non vige un sistema a due classi.E in effetti: l’annuncio della predicazione insegna in maniera vincolante; questa è la sua natura. Non è un modo di occupare il tempo libero, o un intrattenimento religioso. La predicazione intende dire all’uomo chi egli è e che cosa deve fare per essere se stesso. Essa intende manifestargli qual è la verità di se stesso e ciò per cui egli può vivere e morire. Non si muore per un mito che può essere sostituito con un altro mito; se un mito, per qualsiasi ragione, causa difficoltà, lo si può rimpiazzare, si può sceglierne un altro. E neppure di ipotesi si può vivere; perché la vita non è un’ipotesi; è una realtà irripetibile, a cui è legato un destino eterno. Ma come potrebbe la Chiesa insegnare in maniera vincolante, se poi questo insegnamento dovesse essere non vincolante per i teologi? L’essenza del magistero sta proprio in questo, che l’annuncio della fede è il criterio valido anche per la teologia; anzi, l’oggetto della riflessione teologica non è altro che questo stesso annuncio. La fede dei semplici, perciò, non è una teologia ridotta ad uso della massa dei profani, non è una sorta di «platonismo per il popolo». Le cose stanno piuttosto all’inverso: l’annuncio è il metro della teologia, non la teologia il metro dell’annuncio. Questo primato della fede dei semplici corrisponde perfettamente, del resto, ad un fondamentale ordinamento antropologico; le cose veramente importanti per l’uomo vengono comprese con una percezione semplice, in linea di principio accessibile a chiunque, mai totalmente eguagliabile dalla riflessione. Si potrebbe dire, con una espressione un po’ alla buona, che il Creatore si è comportato in maniera molto democratica. Certo, non a tutti gli uomini è dato di coltivare la scienza teologica; però, l’accesso alle grandi, fondamentali conoscenze è aperto a tutti. In questo senso, il magistero ha un carattere democratico; difende infatti la fede comune, in cui non c’è alcuna differenza di rango tra dotti e semplici. Giusto dire che la Chiesa, nel suo ministero pastorale, è abilitata all’annuncio non all’insegnamento teologico-scientifico. Però, proprio l’ufficio della predicazione è ufficio magisteriale anche nei confronti della teologia.Così, la questione cui si accennava ha già avuto risposta, in parte. Si diceva: non è difficile accettare il magistero, in teoria; però, appena si passa sul terreno pratico, sorge un grave timore; in tal modo

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non sì rischia di restringere indebitamente la libertà di movimento del pensiero? Non ne deriva un controllo minuzioso e meschino, tale da mortificare il pensiero? Non c’è forse da temere che la Chiesa travalichi l’ambito dell’annuncio e si immischi abusivamente nel lavoro propriamente scientifico? Sono domande da prendersi sul serio. Perciò, è giusto ricercare una sistemazione dei rapporti fra teologia e magistero che assicuri alla responsabilità propria della teologia lo spazio che le è dovuto. Ma, per quanto questo sia giusto, è necessario avere presenti anche i limiti di quelle domande. Si costruisce in modo sbagliato, in teologia, quando nel magistero della Chiesa si vede solo una palla al piede. È ciò che scoprì Guardini nell’incontro con i suoi maestri, personalmente ortodossi ma scientificamente emuli del liberalismo, ed è ciò che lo condusse ad un inizio radicalmente nuovo: se la teologia considera un ostacolo quello che le è più proprio, come è possibile che porti frutto? Bisogna guardare alla Chiesa e al dogma come ad una forza generatrice, non come a un vincolo oneroso nelle deduzioni teologiche. E, di fatto, è solo questa «forza generatrice» che apre alla teologia le sue grandi prospettive. Lo si può vedere considerando il caso dell’esegesi; è ancora oggi esempio classico della tesi secondo cui la Chiesa, per i teologi, è solo di ostacolo. Ma che cosa diventa una esegesi che si emancipa dalla Chiesa? Nient’altro che antiquariato. Non fa altro che indagare sul passato e presentare ipotesi mutevoli sull’origine dei singoli testi e sul loro rapporto con la realtà storica. Quelle ipotesi ci interessano più di quanto non ci interessino altre teorie letterarie soltanto perché c’è la Chiesa, e la Chiesa afferma che quei libri non danno soltanto informazioni intorno a ciò che è stato, che è passato, ma parlano di ciò che è vero. La situazione non migliora se si cerca di attualizzare la Bibbia con filosofie private, perché ci sono filosofi migliori, che pure ci lasciano freddi. Ma quanto interessante diventa la Bibbia se si ha il coraggio di leggerla come una totalità e una unità! Se essa ha la sua origine in quell’unico soggetto che è il popolo di Dio e, attraverso questo, da quel soggetto che è Dio stesso, allora essa parla del presente. E allora diventano piene di senso anche le conoscenze relative al vario processo della sua formazione; allora si deve scoprire l’unità in questa diversità; la diversità diventa ricchezza dell’unità. C’è un largo spazio per le ipotesi, per la pratica della conoscenza storica; con quest’unico limite, che non si distrugga con ciò l’unità del tutto, un’unità che sta su un piano diverso da quella del materiale dei diversi testi. Sta su un altro piano e appartiene tuttavia alla realtà letteraria della Bibbia stessa.Vorrei accennare brevemente ad un altro esempio soltanto. Quando la critica del Nuovo Testamento cominciò a svelarci l’esistenza di diversi strati nelle testimonianze relative a Gesù Cristo, si aprirono prospettive grazie alle quali era possibile vedere Gesù in nuova luce e apprendere su di Lui cose prima impensabili. Però, se si comincia a separare tra loro i diversi strati e ad identificare la verità con l’età cronologica, del resto ipotetica, di quelle testimonianze, l’immagine di Cristo si impoverisce sempre di più; alla fine, non resta altro che un paio di ipotesi. Come sarebbe entusiasmante e bello andare alla ricerca non del Gesù di questa o di quella fonte presunta, ma del Gesù del Nuovo Testamento stesso. E qui ci imbattiamo in qualcosa di inaspettato: il frazionamento della Bibbia ha portato ad un nuovo genere di allegoresi. Non si legge più il testo, ma le presunte esperienze di presunte comunità; si crea così una interpretazione allegorica spesso molto avventurosa e che, alla fine, non fa altro che convalidare le proprie idee. Per molto tempo si ebbe l’impressione che il magistero, vale a dire l’annuncio della fede da parte della Chiesa, costringesse ad una sovrapposizione della dogmatica al testo biblico ostacolando una serena interpretazione storica. Oggi è chiaro che la serietà storica del testo trova la sua difesa soltanto in un ancoramento alla fede della Chiesa; e che solo così è possibile una attenzione al testo che non è però fondamentalismo. Infatti, senza un soggetto vivente, la lettera o viene assolutizzata, oppure sfuma nell’indeterminato.Resta dunque confermato ancora una volta ciò che abbiamo visto prima, riflettendo sul nesso di conversione, fede e teologia: la dissoluzione dei legami della teologia con la Chiesa non ha mai dato luogo a rifondazioni della teologia stessa capaci di portar frutto; questo si è verificato, invece, quando essa si è rivolta alla Chiesa con rinnovata fiducia.

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L’allontanamento dalla Chiesa ha sempre impoverito e appiattito il pensiero teologico. Il grande risveglio teologico tra le due guerre mondiali, che ha reso possibile il Concilio Vaticano Il, dà una nuova convincente testimonianza, nel nostro secolo, di tale legame. Tutto questo non deve sfociare in una specie di apoteosi del magistero. Il pericolo di un controllo pusillanime e meschino non è parto di fantasia; lo dimostra la storia della disputa sul modernismo, anche se i giudizi sommari oggi diffusi sono unilaterali e non sono all’altezza della serietà della questione. Una abdicazione del magistero e una rinuncia alla disciplina in campo dottrinale non sarebbe una risposta a questi problemi, come non lo sarebbe la negazione del fatto che i problemi esistono.Permettete che ricordi ancora una volta, nel presente contesto, Heinrich Schlier; i suoi discorsi teologici degli anni 1935 e 1936 stanno a rappresentare anzitutto la lotta dei cristiani evangelici per preservare l’identità cristiana contro l’attacco delle forze totalitarie, ma fanno risaltare anche il coraggio del teologo che convince di menzogna la pseudoteologia e ricaccia al suo posto il falso coraggio dell’estraniamento ereticale della fede. Di fronte ad una situazione in cui gli organi ufficiali della Chiesa per lo più tacevano ancora e, nella loro pusillanimità,. lasciavano via libera all’abuso di tutto ciò che era cristiano, egli si rivolse direttamente agli studenti di teologia e disse loro: «… fermatevi un attimo a riflettere: è meglio che la Chiesa, seguendo una retta procedura e dopo matura riflessione, tolga l’insegnamento ad un teologo che sostiene dottrine false, o è meglio che sia il singolo a dichiarare, con procedimenti arbitrari, che l’uno e l’altro studioso è un falso maestro e che bisogna stare in guardia contro di lui? Se si ammette che ciascuno possa giudicare a proprio piacimento, non è pensabile che chi è oggetto di giudizi privati di questo genere possa recedere. A questo punto sarebbe coerente soltanto la concezione liberale, secondo cui non c’è in generale alcuna decisione intorno alla verità di una dottrina e perciò ogni dottrina è in parte vera e ogni dottrina deve essere tollerata nella Chiesa. Ma noi non condividiamo questo modo di vedere. Esso nega che Dio, tra di noi, di fatto ha deciso».Giudicando oggi, è facile affermare che allora si trattava in realtà di questo, se la Chiesa avrebbe continuato ad annunciare il Vangelo, o se sarebbe diventata strumento dell’anticristo. È facile dire oggi che anche l’atteggiamento apparentemente «liberale» in realtà serviva alla causa dell’anticristo; nel momento storico in cui l’uomo è costretto a scegliere ci sono sempre mille pro e mille contro. Non esiste una dimostrazione geometrica che renda superflua la decisione. L’evidenza della fede non è l’evidenza della geometria; è sempre possibile scansarla dialetticamente. Proprio per questo esiste il ministero apostolico che, dopo un esame accurato, traduce nella forma della decisione l’evidenza propria della fede. E importante, senza alcun dubbio, che si trovino regole giu-ridiche atte a salvaguardare l’opportuna autonomia del pensiero scientifico nel suo campo e ad assicurare lo spazio necessario alla disputa scientifica. Però, la libertà dei singoli docenti non è l’unico bene che il diritto abbia da salvaguardare in questa questione e neppure il bene più alto. Quanto al problema della gerarchia dei beni nella comunità cristiana, ci sono parole del Signore inesorabili che la Chiesa non può fare a meno di prendere in tutta la loro serietà: «chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina di mulino al collo e venga gettato nel mare» (Mc 9, 42). I «piccoli» di questo versetto non sono i bambini; con questo termine vengono indicati, nel linguaggio di Gesù, i suoi discepoli, i futuri cristiani. E lo «scandalo» che li seduce non è una seduzione sessuale, ma l’inciampo che li porta alla perdita della fede. «Dare scandalo» vuol dire, secondo i risultati della attuale esegesi, «turbare la fede» e, perciò, «privare della salute eterna». Il bene primario di cui la Chiesa è responsabile è la fede dei semplici. L’attenzione per la fede dei semplici deve essere anche l’intimo criterio di ogni dottrina teologica. Di questo deve essere consapevole chi non fa ricerche puramente private, ma insegna in nome della Chiesa. Assumersi un incarico del genere e parlare non in nome di quel soggetto comune che è la Chiesa, implica l’assunzione di doveri per i quali il singolo si impone dei limiti. Infatti, gli viene così conferita un’autorità che come docente privato e senza la fiducia degli uomini nella parola della Chiesa, egli non avrebbe. Con l’autorità, gli viene dato un potere che è responsabilità, perché non si tratta di un potere che abbia in lui la sua origine; esso ha il suo fondamento nel mandato,

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nella Chiesa, in nome della quale gli è dato di parlare. Coloro che parlano di abuso di potere riferendosi al modo in cui nella Chiesa viene disciplinato l’insegnamento, oggi pensano di solito soltanto all’abuso di potere da parte di chi nella Chiesa ha questo compito. Si dimentica invece, per lo più, che c’è anche un abuso del potere conferito mediante il mandato di insegnare; è l’abuso di chi approfitta, per una parola che è puramente privata, della disponibilità all’ascolto e della fiducia che vengono prestate, ancor oggi, alla parola della Chiesa. L’autorità della Chiesa diventa complice di questo abuso di potere, se tollera che esso venga tranquillamente compiuto e impegna perciò la sua autorità là dove questa non le è concessa. Per lei la preoccupazione per la fede dei piccoli deve essere più importante del timore dell’opposizione dei potenti.Vorrei terminare qui, perché i problemi particolari, come quelli relativi al modo migliore di salvaguardare nella pratica le varie finalità e i vari valori, porterebbero a trattare di difficoltà tecniche, che qui non possono essere discusse. Se però tutti si fanno guidare dalla coscienza e nel loro agire si basano sull’atto fondamentale della conversione al Signore, non ci possono essere difficoltà insolubili, anche se non mancheranno mai del tutto i conflitti. Tanto meglio si metteranno le cose, tra teologia e Chiesa, quanto più le parti penseranno e agiranno a partire dal loro legame col Signore; quanto più ciascuno potrà dire come Paolo: io, e però non più io.

Tentazione e grandezza della teologia

Permettete che concluda riportando una mia piccola esperienza, in cui questi problemi mi si sono resi direttamente percepibili. In occasione di una conferenza che dovevo tenere nell’Italia meridionale, mi è stato possibile visitare nello scorso autunno la magnifica cattedrale romanica della cittadina pugliese di Troia. Di essa, mi ha interessato soprattutto un bassorilievo del pulpito, datato 1158 e alquanto enigmatico. Già molto tempo prima un amico aveva risvegliato la mia curiosità per quel bassorilievo perché, secondo la sua interpretazione, esso contiene una raffigurazione allegorica della teologia che è una vera e propria laus theologiae, una esaltazione della teologia nella Chiesa e per la Chiesa. Il bassorilievo rappresenta tre animali, ed è chiaro che nelle loro posizioni reciproche l’artista ha inteso rappresentare la situazione della Chiesa del suo tempo. In basso si vede un agnello e sull’agnello si getta, pieno di brama e di ferocia, un leone. Lo ha già afferrato con le sue zampe possenti e con i denti. E corpo del povero agnello è già straziato. Si possono vedere le ossa e si vede anche che qua e là la carne è già stata fatta a pezzi e divorata. Soltanto lo sguardo infinitamente triste della bestia dice, a chi osserva la scena, che l’agnello, già mezzo sbranato, tuttavia vive ancora. Di contro alla sua impotenza, il leone è espressione di potenza brutale, alla quale l’agnello non può opporre nient’altro che la sua angoscia, del tutto priva di risorse. E chiaro che l’agnello è la Chiesa, o meglio, la fede della Chiesa e nella Chiesa. In questa scultura, abbiamo dunque a che fare con una specie di «rapporto sulla situazione della fede» che sembra essere estremamente pessimistico: la vera Chiesa, la Chiesa della fede, sembra già mezza divorata dal leone del potere, nei cui artigli essa si trova. Non può far altro, ormai, che subire il suo destino in una inerme desolazione. La scultura, però, pur raffigurando con realismo non dissimulato la situazione della Chiesa come priva di ogni via d’uscita umana, è anche espressione della speranza che sa che la fede non può essere vinta. E singolare il modo in cui questa speranza viene rappresentata: si getta sul leone un terzo animale, un piccolo cane bianco. Quanto a forze esso appare sproporzionatamente inferiore al leone e, tuttavia, si butta sulla fiera immane facendo uso dei denti e degli unghioni. Forse finirà vittima del leone, ma il suo attacco costringerà la bestia a lasciare l’agnello.Se il significato dell’agnello è abbastanza chiaro, resta l’interrogativo: chi è il leone? chi è il piccolo cane bianco? Non mi è stato ancora possibile consultare al proposito nessuna opera di storia dell’arte; non so neppure da quali fonti l’amico che ho ricordato prima abbia tratto la sua interpretazione dell’immagine; sono perciò costretto a lasciare aperta la questione riguardante la correttezza dell’interpretazione storica. Dato che l’opera appartiene al periodo del dominio svevo, si potrebbe presumere che vi sia rappresentata la lotta tra il potere imperiale e la Chiesa.

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Probabilmente, però, è meglio interpretarla in base al linguaggio simbolico classico dell’iconografia cristiana. Il leone allora può rappresentare il demonio o, più concretamente, l’eresia che strappa alla Chiesa la sua carne, la strazia e la divora. Il cane bianco è simbolo della fedeltà; è il cane da pastore, che sta al posto del pastore stesso: «il buon pastore offre la vita per le pecore» (Gv 10, 11). Resta la domanda: qual è il posto della teologia in questo drammatico scontro? Secondo il parere del mio amico, simbolo della sacra dottrina è il piccolo cane coraggioso, che salva la fede dall’assalto del leone. Ma, più ci penso, più mi sembra che la scultura, se pure la si può interpretare su questa linea, lascia aperta la questione. Essa non è soltanto esaltazione della teologia, ma ammonizione, invito ad un esame di coscienza, questione aperta. Soltanto il significato dell’agnello è chiaramente definito. Le altre due bestie, il leone e il cane, non stanno ad indicare per caso le due possibilità della teologia, le due vie opposte che essa può imboccare? Il leone non simboleggia forse la tentazione storica della teologia, di rendersi padrona della fede? Non simboleggia per caso quella violentia rationis, quella ragione dispotica e violenta che un secolo più tardi Bonaventura avrebbe denunciato come forma spuria del pensiero teologico? Il cane coraggioso, allora, è la via opposta, una teologia che sa di essere a servizio della fede e che accetta di rendersi ridicola, ricacciando al suo posto la pura ragione, intemperante e dispotica. Se questa è l’interpretazione corretta, quale monito viene dal bassorilievo del pulpito di Troia a chi annuncia il Vangelo e a chi fa teologia, in tutti i tempi! A chi parla e a chi ascolta, essa è come uno specchio in cui esaminarsi; invita ad un esame di coscienza pastori e teologi. Gli uni e gli altri, infatti, possono essere belva o pastore. E così, indicando una problematica che resta sempre attuale, l’immagine ci riguarda tutti.

[Fonte: Ufficio Stampa della diocesi di Brescia]

Istruzione Libertatis Nuntius su alcuni aspetti della «teologia della liberazione» a firma del card. Joseph Ratzinger (1984)

Istruzione Libertatis Nuntius su alcuni aspetti della «teologia della liberazione»

Il Vangelo di Gesù Cristo è un messaggio di libertà e una forza di liberazione. Questa verità

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essenziale è stata oggetto, negli ultimi anni, di riflessione da parte dei teologi, con rinnovata attenzione ricca in se stessa di promesse. La liberazione è innanzi tutto e principalmente liberazione dalla schiavitù radicale del peccato.

Istruzione su alcuni aspetti della "Teologia della Liberazione"

6 agosto 1984

Documento della S. Congregazione per la Dottrina della Fede

INTRODUZIONE

Il Vangelo di Gesù Cristo è un messaggio di libertà e una forza di liberazione. Questa verità essenziale è stata oggetto, negli ultimi anni, di riflessione da parte dei teologi, con rinnovata attenzione ricca in se stessa di promesse.La liberazione è innanzi tutto e principalmente liberazione dalla schiavitù radicale del peccato. Il suo scopo e il suo punto d'arrivo è la libertà dei figli di Dio, dono della grazia. Essa comporta, di logica conseguenza, la liberazione dalle molteplici schiavitù di ordine culturale, economico, sociale e politico, che in definitiva derivano tutte dal peccato, e costituiscono altrettanti ostacoli che impediscono agli uomini di vivere in conformità alla loro dignità. Quindi per una riflessione teologica sulla liberazione occorre, come condizione indispensabile, discernere chiaramente ciò che è fondamentale da ciò che appartiene alle conseguenze.In realtà, di fronte all'urgenza dei problemi, alcuni sono tentati di porre l'accento in maniera unilaterale sulla liberazione dalle schiavitù di ordine terrestre e temporale, per cui sembrano far passare in secondo piano la liberazione dal peccato, e così non attribuirle più, praticamente, líimportanza primaria che invece ha. Ne consegue una presentazione confusa e ambigua dei problemi. Altri, nell'intenzione di formarsi una conoscenza più esatta delle cause delle schiavitù che vogliono eliminare, si servono senza sufficiente precauzione critica, di strumenti di pensiero che è difficile, per non dire impossibile, purificare da uníispirazione ideologica incompatibile con la fede cristiana e con le esigenze etiche che ne derivano.Questa Congregazione per la Dottrina della Fede non intende qui affrontare nella sua completezza il vasto tema della libertà cristiana e della liberazione. Essa si ripropone di farlo in un documento successivo che ne metterà in evidenza, in maniera positiva, tutte le ricchezze sotto l'aspetto sia dottrinale che pratico.La presente Istruzione ha uno scopo più preciso e limitato: essa intende attirare l'attenzione dei pastori, dei teologi e di tutti i fedeli, sulle deviazioni e sui rischi di deviazioni, pericolosi per la fede e per la vita cristiana, insiti in certe forme della teologia della liberazione, che ricorrono in maniera non sufficientemente critica a concetti mutuati da diverse correnti del pensiero marxista.Questo richiamo non deve in alcun modo essere interpretato come una condanna di tutti coloro che vogliono rispondere con generosità e con autentico spirito evangelico alla "opzione preferenziale per i poveri". Essa non dovrebbe affatto servire da pretesto a tutti coloro che si trincerano in un atteggiamento di neutralità e di indifferenza di fronte ai tragici e pressanti problemi della miseria e dell'ingiustizia. Al contrario, essa è dettata dalla certezza che le gravi deviazioni ideologiche denunciate finiscono ineluttabilmente per tradire la causa dei poveri. Più che mai la Chiesa intende condannare gli abusi, le ingiustizie e gli attentati alla libertà, ovunque si riscontrino e chiunque ne siano gli autori, e lottare, con i mezzi che le sono propri, per la difesa e la promozione dei diritti dell'uomo, specialmente nella persona dei poveri.

I. Un' aspirazione

1. La forte, quasi irresistibile aspirazione dei popoli a una liberazione costituisce uno dei principali

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segni dei tempi che la Chiesa deve scrutare e interpretare alla luce del Vangelo. (1) Questo fenomeno rilevante del nostro tempo ha una dimensione universale, ma si manifesta sotto forme e gradi diversi a seconda dei popoli. È soprattutto tra i popoli che sperimentano il peso della miseria e in seno ai ceti diseredati che tale aspirazione si esprime con forza.

2. Tale aspirazione esprime la percezione autentica, per quanto oscura, della dignità dell'uomo, creato "ad immagine e somiglianza di Dio" (Gen 1, 26-27), schernita e disprezzata da molteplici forme di oppressione culturali, politiche, razziali, sociali ed economiche, spesso conglobate.

3. Annunciando la loro vocazione di figli di Dio, il Vangelo ha suscitato nel cuore degli uomini l'esigenza e la volontà positiva di una vita fraterna, giusta e pacifica, nella quale ciascuno troverà il rispetto e le condizioni del proprio sviluppo spirituale e materiale. Tale esigenza è indubbiamente alla sorgente dell'aspirazione suddetta.

4. Di conseguenza l'uomo non intende più subire passivamente il peso schiacciante della miseria con le sue conseguenze di morte, di malattie e di decadimento. Egli avverte questa miseria come un'intollerabile violazione della propria dignità originaria. Diversi fattori, tra i quali occorre annoverare il lievito evangelico, hanno contribuito al risveglio della coscienza degli oppressi.

5. Nessuno più ignora, neppure tra i ceti ancora analfabeti della popolazione, che grazie al prodigioso sviluppo della scienza e della tecnica, l'umanità pur in costante crescita demografica sarebbe in grado di assicurare a ciascun essere umano quel minimo di beni richiesti dalla sua dignità di persona.

6. Lo scandalo delle palesi disuguaglianze tra ricchi e poveri - si tratti di disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri oppure di disuguaglianze tra ceti sociali nell'ambito dello stesso territorio nazionale - non è più tollerato. Da una parte si è conseguita un'abbondanza, mai vista finora, che favorisce lo sperpero, dall'altra si vive ancora in uno stato di indigenza contrassegnato dalla privazione dei beni di stretta necessità, cosicché non si può più contare il numero delle vittime della denutrizione.

7. La mancanza di equità e di senso di solidarietà negli scambi internazionali torna a vantaggio dei paesi industrializzati, in tal modo la differenza tra ricchi e poveri non cessa di acuirsi. Ne conseguono il sentimento di frustrazione, nei popoli del terzo mondo, e l'accusa di sfruttamento e di colonialismo economico mossa ai paesi industrializzati.

8. Il ricordo dei misfatti di un certo colonialismo e delle sue conseguenze genera spesso ferite e traumi.

9. La Santa Sede, sulla linea del Concilio Vaticano II, come pure le Conferenze Episcopali non hanno mai cessato di denunciare lo scandalo costituito dalla gigantesca corsa agli armamenti che, a parte le minacce che ne derivano per la pace, accaparra somme ingenti, di cui una sola parte sarebbe sufficiente per rispondere alle necessità più urgenti delle popolazioni sprovviste del necessario.

II. Espressioni di questa aspirazione

1. L'aspirazione alla giustizia e al riconoscimento effettivo della dignità di ciascun essere umano richiede, come ogni aspirazione profonda, di essere chiarita e guidata.

2. In effetti, è necessario usare discernimento nei confronti delle espressioni, teoriche e pratiche, di questa aspirazione. Sono molti, infatti, i movimenti politici e sociali che si presentano come porta-

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parola autentici dell'aspirazione dei poveri, e come abilitati, perfino mediante il ricorso ai mezzi violenti, ad operare quei cambiamenti radicali che porranno fine all'oppressione e alla miseria del popolo.

III. La liberazione, tema cristiano

1. Considerata in sé stessa, líaspirazione alla liberazione non può non trovare una vasta e fraterna eco nel cuore e nello spirito dei cristiani.

2. Per questo, in consonanza con tale aspirazione è nato il movimento teologico e pastorale conosciuto sotto il nome di "teologia della liberazione", dapprima nei paesi dell'America Latina, contrassegnati dall'eredità religiosa e culturale del cristianesimo, e poi in altre regioni del terzo mondo, come pure in certi ambienti dei paesi industrializzati.

3. Líespressione "teologia della liberazione" designa innanzi tutto una preoccupazione privilegiata, generatrice di impegno per la giustizia, rivolta ai poveri e alle vittime dellíoppressione. Partendo da questo approccio, si possono distinguere parecchie maniere, spesso inconciliabili, di concepire il significato cristiano della povertà e il tipo d'impegno per la giustizia che esso comporta. Come ogni movimento di idee, "le teologie della liberazione" presentano posizioni teologiche diverse; le loro frontiere dottrinali non sono ben definite.

4. L'aspirazione alla liberazione, come suggerisce il termine stesso, si ricollega ad un tema fondamentale dell'Antico e del Nuovo Testamento. Così pure, presa in se stessa, l'espressione "teologia della liberazione" è un'espressione pienamente valida: essa designa una riflessione teologica incentrata sul tema biblico della liberazione e della libertà e sull'urgenza delle sue applicazioni pratiche. La confluenza dell'aspirazione alla liberazione e delle teologie della liberazione non è dunque fortuita. Il significato di questa confluenza non può essere rettamente compreso se non alla luce della specificità del messaggio della Rivelazione interpretato autenticamente dal Magistero della Chiesa (2).

IV. Fondamenti biblici

1. Una teologia della liberazione correttamente intesa costituisce, quindi un invito ai teologi ad approfondire certi temi biblici essenziali, con la sollecitudine richiesta dai gravi e urgenti problemi posti alla Chiesa dall'aspirazione contemporanea alla liberazione e dai movimenti di liberazione che ad essa fanno eco, più o meno fedelmente. Non è possibile dimenticare le situazioni drammatiche, dalle quali sgorga l'appello lanciato in questo senso ai teologi.

2. L'esperienza radicale della libertà cristiana (3) costituisce qui il primo punto di riferimento. Il Cristo, nostro Liberatore, ci ha liberati dal peccato, e dalla schiavitù della legge e della carne, che è il contrassegno della condizione dell'uomo peccatore. È dunque la nuova vita di grazia, frutto della giustificazione, che ci costituisce liberi. Ciò significa che la schiavitù più radicale è la schiavitù del peccato. Le altre forme di schiavitù trovano dunque la loro ultima radice nella schiavitù del peccato. Per questo la libertà nel senso cristiano più pieno, in quanto caratterizzata dalla vita nello Spirito, non deve mai essere confusa con la licenza di cedere ai desideri della carne. Essa è, infatti, vita nuova nella carità.

3. Le "teologie della liberazione" fanno largo uso del racconto dell'Esodo. Questo costituisce, in effetti, l'evento fondamentale nella formazione del popolo eletto. Esso è la liberazione dalla dominazione straniera e dalla schiavitù. Si dovrà sottolineare come il significato specifico dell'evento gli deriva dalla sua finalità, poiché questa liberazione è ordinata alla fondazione del

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popolo di Dio e al culto dell'Alleanza celebrato sul Monte Sinai (4). Per questo la liberazione dell'Esodo non può essere ridotta ad una liberazione di natura principalmente ed esclusivamente politica. D'altronde è significativo che il termine di liberazione sia talvolta sostituito nella Scrittura con quello, molto vicino, di redenzione.

4. L'episodio fondante dellíEsodo non sarà mai cancellato dalla memoria di Israele. Ad esso ci si rifà quando, dopo la rovina di Gerusalemme e l'esilio di Babilonia, si vive nella speranza di una nuova liberazione e, al di là di essa, nell'attesa di una liberazione definitiva. In questa esperienza Dio è riconosciuto come il Liberatore. Egli stringerà con il suo popolo una Nuova Alleanza, caratterizzata dal dono del suo Spirito e dalla conversione dei cuori. (5)

5. Le angosce e le molteplici tristezze sperimentate dall'uomo fedele al Dio dell'Alleanza costituiscono il tema di parecchi salmi: lamenti, invocazioni di aiuto, azioni di grazia fanno menzione della salvezza religiosa e della liberazione. In questo contesto, l'angoscia non è puramente e semplicemente identificata con una condizione sociale di miseria o con quella di colui che subisce l'oppressione politica. Essa comprende anche l'ostilità dei nemici, l'ingiustizia, la morte, la colpa. I salmi ci rimandano ad un'esperienza religiosa essenziale: solo da Dio ci si può aspettare la salvezza e l'aiuto. Dio, e non l'uomo, ha il potere di cambiare le situazioni di angoscia. Perciò i "poveri del Signore" vivono in una dipendenza totale e fiduciosa nella provvidenza amorosa di Dio. (6) E d'altra parte, durante tutto il cammino nel deserto, il Signore non ha cessato di provvedere alla liberazione e alla purificazione spirituale del suo popolo.

6. Nell'Antico Testamento, i profeti, dopo Amos, non cessano di richiamare, con singolare vigore, le esigenze della giustizia e della solidarietà e di esprimere un giudizio estremamente severo nei confronti dei ricchi che opprimono il povero. Essi prendono le difese della vedova e dell'orfano. Proferiscono minacce contro i potenti: l'accumularsi delle iniquità conduce necessariamente a terribili castighi. La fedeltà all'Alleanza non è concepibile senza la pratica della giustizia. La giustizia verso Dio e la giustizia verso gli uomini sono inseparabili. Dio è il difensore e il liberatore del povero.

7. Tali esigenze si ritrovano anche nel Nuovo Testamento. Esse vi sono anzi radicalizzate, come dimostra il discorso delle Beatitudini. La conversione e il rinnovamento devono operarsi nell'intimo del cuore.

8. Già annunziato nell'Antico Testamento, il comandamento dell'amore fraterno, esteso a tutti gli uomini, costituisce così la norma suprema della vita sociale. (7) Non vi sono discriminazioni o limiti che possano opporsi al riconoscimento di ogni uomo come il prossimo. (8)

9. La povertà per il Regno è magnificata. E nella figura del Povero, noi siamo portati a riconoscere l'immagine e come la presenza misteriosa del Figlio di Dio che si è fatto povero per amore nostro. (9) Questo è il fondamento delle parole inestinguibili di Gesù sul Giudizio in Mt 25, 31-46. Nostro Signore è solidale con ogni infelicità; ogni angoscia è segnata dalla sua presenza.

10. Allo stesso tempo, le esigenze della giustizia e della misericordia, già enunciate nell'Antico Testamento, sono approfondite al punto da rivestire, nel Nuovo Testamento, un nuovo significato. Coloro che soffrono o sono perseguitati vengono identificati col Cristo. (10) La perfezione che Gesù chiede ai suoi discepoli (Mt 5, 18) consiste nel dovere di essere misericordiosi "come è misericordioso il Padre vostro" (Lc 6, 36).

11. I ricchi sono severamente richiamati al loro dovere proprio alla luce della vocazione cristiana all'amore fraterno e alla misericordia. (11) Di fronte ai disordini della Chiesa di Corinto, S. Paolo

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sottolinea con forza il legame esistente tra la partecipazione al sacramento dell'amore e la condivisione con il fratello che si trova in necessità. (12)

12. La Rivelazione del Nuovo Testamento ci insegna che il peccato è il male più profondo, che lede l'uomo nell'intimo della sua personalità. La prima liberazione, alla quale tutte le altre devono riferirsi, è quella dal peccato.

13. Indubbiamente è proprio per sottolineare il carattere radicale della liberazione operata dal Cristo e offerta a tutti gli uomini - siano essi politicamente liberi o schiavi - che il Nuovo Testamento non esige innanzi tutto, come presupposto per l'accesso a questa libertà, un cambiamento di condizione politica e sociale. Tuttavia, la Lettera a Filemone dimostra che la nuova libertà, apportata dalla grazia di Cristo, deve avere necessariamente delle ripercussioni sul piano sociale.

14. Di conseguenza non si può restringere il campo del peccato, il cui primo effetto è quello di introdurre il disordine nella relazione tra l'uomo e Dio, al cosiddetto "peccato sociale". In realtà solo una retta dottrina sul peccato permette d'insistere sulla gravità dei suoi effetti sociali.

15. Neppure è possibile localizzare il male principalmente e unicamente nelle cattive "strutture" economiche, sociali o politiche, come se tutti gli altri mali trovassero in esse la loro causa, sicché la creazione di un "uomo nuovo" dipenderebbe dall'instaurazione di diverse strutture economiche e socio-politiche. Certamente esistono strutture ingiuste e generatrici di ingiustizia, che occorre avere il coraggio di cambiare. Frutto dell'azione dell'uomo, le strutture, buone o cattive, sono delle conseguenze prima di essere delle cause. La radice del male risiede dunque nelle persone libere e responsabili, che devono essere convertite dalla grazia di Gesù Cristo, per vivere e agire come creature nuove, nell'amore del prossimo, nella ricerca efficace della giustizia, nella padronanza di se stesse e nell'esercizio delle virtù. (13)Ponendo come primo imperativo la rivoluzione radicale dei rapporti sociali e criticando, per questo, la ricerca della perfezione personale, ci si mette sulla via della negazione del significato della persona e della sua trascendenza, e si distrugge l'etica e il suo fondamento che è il carattere assoluto della distinzione tra il bene e il male. Per altro, poiché la carità è il principio della perfezione autentica, questa non può essere concepita senza l'apertura agli altri e senza lo spirito di servizio.

V. La voce del Magistero

1. A più riprese, per rispondere alla sfida lanciata alla nostra epoca dall'oppressione e dalla fame, il Magistero della Chiesa, desideroso di promuovere il risveglio delle coscienze cristiane al senso della giustizia, della responsabilità sociale e della solidarietà verso i poveri e gli oppressi, ha richiamato líattualità e líurgenza della dottrina e degli imperativi contenuti nella Rivelazione.

2. Limitiamoci qui a ricordare solo alcuni di questi interventi: gli atti pontifici più recenti, quali la Mater et Magistra e la Pacem in terris, la Populorum progressio e la Evangelii nuntiandi. Ricordiamo inoltre la lettera al Cardinal Roy, Octogesima adveniens.

3. Il Concilio Vaticano II, a sua volta, ha affrontato le questioni della giustizia e della libertà nella costituzione pastorale Gaudium et spes.

4. Il Santo Padre ha insistito più volte su questi temi, soprattutto nelle encicliche Redemptor hominis, Dives in misericordia e Laborem exercens. I numerosi interventi nei quali è richiamata la dottrina dei diritti dell'uomo toccano direttamente i problemi della liberazione della persona umana in riferimento ai diversi tipi di oppressione di cui essa è vittima. A questo proposito si deve menzionare specialmente il Discorso pronunciato davanti alla 36ª Assemblea generale dell'ONU, il

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2 ottobre 1979. (14) Il 28 gennaio dello stesso anno, Giovanni Paolo II, aprendo la 3ª Conferenza del CELAM a Puebla, aveva ricordato che la verità completa sull'uomo è la base della vera liberazione. (15) Questo testo costituisce un documento di riferimento esplicito per la teologia della liberazione.

5. Per due volte, nel 1971 e nel 1974, il Sinodo dei Vescovi ha affrontato dei temi che toccano direttamente la concezione cristiana della liberazione: quello della giustizia nel mondo e quello del rapporto tra la liberazione dalle oppressioni e la liberazione integrale o la salvezza dell'uomo. I lavori dei Sinodi del 1971 e dei 1974 hanno consentito a Paolo VI di precisare nell'esortazione apostolica Evangelii nuntiandi i legami tra l'evangelizzazione e la liberazione o promozione umana. (16)

6. La preoccupazione della Chiesa per la liberazione e la promozione umana si è espressa inoltre nella costituzione della Commissione Pontificia Iustitia et Pax.

7. Anche numerosi episcopati, in accordo con la Santa Sede, hanno richiamato l'urgenza e le vie verso un'autentica liberazione umana. In questo contesto, è opportuno fare una menzione speciale dei documenti delle Conferenze generali dell'episcopato latino-americano a Medellin nel 1968 e a Puebla nel 1979. Paolo VI era presente all'apertura di Medellin, Giovanni Paolo II a quella di Puebla. Sia l'uno che l'altro vi hanno affrontato il tema della conversione e della liberazione.

8. Sulla linea di Paolo VI, che insisteva sulla specificità del messaggio evangelico, (17) specificità che deriva dalla sua origine divina, Giovanni Paolo II, nel discorso a Puebla ha ricordato quali sono i tre pilastri sui quali deve poggiare ogni autentica teologia della liberazione: verità su Gesù Cristo, verità sulla Chiesa, verità sull'uomo. (18)

VI. Una nuova interpretazione del cristianesimo

1. Non si può dimenticare la mole immensa di attività disinteressata svolta dai cristiani, pastori, sacerdoti, religiosi o laici, i quali spinti dall'amore verso i fratelli che vivono in condizioni disumane, si sforzano di portare aiuto e sollievo alle innumerevoli indigenze frutto della miseria. Alcuni di essi si preoccupano di trovare dei mezzi efficaci che permettano di porre fine al più presto ad una situazione intollerabile.

2. Lo zelo e la compassione che devono abitare nel cuore di tutti i pastori rischiano, tuttavia, di essere fuorviati e rivolti verso iniziative altrettanto rovinose per l'uomo e la sua dignità, quanto la miseria che si combatte, se non si è sufficientemente attenti di fronte a certe tentazioni.

3. Infatti il sentimento angoscioso dell'urgenza dei problemi non deve far perdere di vista ciò che è essenziale, né far dimenticare la risposta di Gesù al Tentatore (Mt 4, 4): "Non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (cf. Dt 8, 3). Così alcuni, di fronte all'urgenza di condividere il pane, sono tentati di dimenticare e rinviare al domani l'evangelizzazione: prima il pane, e poi la Parola. È un errore fondamentale separare, anzi contrapporre le due cose. D'altra parte, il senso cristiano suggerisce spontaneamente a molti di fare l'una e l'altra. (19)

4. Ad alcuni sembra addirittura che la lotta necessaria per la giustizia e la libertà dell'uomo, intese nel loro senso economico e politico, costituisca l'aspetto essenziale ed esclusivo della salvezza. Per essi il Vangelo si riduce ad un vangelo puramente terrestre.

5. Le diverse teologie della liberazione si diversificano appunto, da una parte in base all'opzione

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preferenziale per i poveri riaffermata con forza e senza ambiguità, dopo Medellin, alla Conferenza di Puebla (20) e dall'altra parte in base alla tentazione di ridurre il Vangelo della salvezza ad un vangelo terrestre.

6. Ricordiamo tuttavia che l'opzione preferenziale definita a Puebla è duplice: per i poveri e per i giovani (21). È significativo che in generale l'opzione per la gioventù sia completamente passata sotto silenzio.

7. Abbiamo detto sopra (cf. IV, 3) che esiste un'autentica "teologia della liberazione", quella che è radicata nella Parola di Dio, debitamente interpretata.

8. Ma da un punto di vista descrittivo conviene parlare di teologie della liberazione, poiché l'espressione si applica a posizioni teologiche, e talvolta perfino ideologiche, non solo diverse, ma spesso anche incompatibili tra di loro.

9. Nel presente documento si tratterà soltanto di quelle espressioni di questa corrente di pensiero che, sotto il nome di "teologia della liberazione", propongono un'interpretazione innovatrice del contenuto della fede e dellíesistenza cristiana, che si discosta gravemente dalla fede della Chiesa, anzi, ne costituisce la negazione pratica.

10. Alla base della nuova interpretazione, che finisce per corrompere ciò che aveva di autentico l'iniziale impegno per i poveri, sta l'assunzione non critica di elementi dell'ideologia marxista e il ricorso alle tesi di un'ermeneutica biblica viziata di razionalismo.

VII. L'analisi marxista

1. L'impazienza e la volontà di essere efficaci hanno condotto alcuni cristiani, sfiduciati nei confronti di ogni altro metodo, a rivolgersi a quella che essi chiamano "líanalisi marxista".

2. Il loro ragionamento è il seguente: una situazione intollerabile ed esplosiva esige un'azione efficace che non può più attendere. Ma tale azione efficace presuppone un'analisi scientifica delle cause strutturali della miseria. Ora il marxismo ha elaborato gli strumenti per una simile analisi. Basta dunque applicarli alla situazione del terzo mondo, e specialmente a quella dell'America Latina.

3. Che la conoscenza scientifica della situazione e delle possibili vie di trasformazione sociale sia il presupposto di un'azione capace di raggiungere gli scopi prefissi, è evidente. Si ha qui un segno della serietà dell'impegno.

4. Ma il termine "scientifico" esercita un fascino quasi mitico, e non tutto ciò che porta l'etichetta di scientifico è, per ciò stesso, realmente scientifico. Per questo l'adozione di un metodo di approccio alla realtà deve essere preceduto da un esame critico di natura epistemologica. Tale esame critico previo manca in più di una "teologia della liberazione".

5. Nelle scienze umane e sociali è necessario prima di tutto essere attenti alla pluralità dei metodi e dei punti di vista, ciascuno dei quali mette in evidenza solo un aspetto di una realtà che, per la sua complessità, sfugge ad una spiegazione unitaria ed univoca.

6. Nel caso del marxismo, quale all'occorrenza s'intenda utilizzare, la critica previa si impone, tanto più che il pensiero di Marx costituisce una concezione totalizzante del mondo, nella quale numerosi dati di osservazione e di analisi descrittiva sono integrati in una struttura filosofico-ideologica, che

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predeterminano il significato e l'importanza relativa che si riconosce loro. Gli a priori ideologici sono presupposti alla lettura della realtà sociale. Così la dissociazione degli elementi eterogenei che compongono questo amalgama epistemologicamente ibrido diventa impossibile, per cui mentre si crede di accettare solo ciò che si presenta come un'analisi, si è trascinati ad accettare nello stesso tempo l'ideologia. Per questo non di rado sono proprio gli aspetti ideologici che predominano negli elementi che numerosi "teologi della liberazione" mutuano da autori marxisti.

7. Il richiamo di Paolo VI resta pienamente attuale anche oggi: all'interno del marxismo, quale è concretamente vissuto, si possono distinguere diversi aspetti e diversi problemi che si pongono ai cristiani per la riflessione e per l'azione. Tuttavia "sarebbe illusorio e pericoloso giungere a dimenticare l'intimo legame che tali aspetti radicalmente unisce, accettare gli elementi dell'analisi marxista senza riconoscere i loro rapporti con l'ideologia, entrare nella prassi della lotta di classe e della sua interpretazione marxista trascurando di avvertire il tipo di società totalitaria e violenta alla quale questo processo conduce". (22)

8. È vero che il pensiero marxista fin dai suoi inizi, ma in maniera più accentuata in questi ultimi anni, si è diversificato per dare vita a varie correnti che divergono considerevolmente le une dalle altre. Nella misura in cui restano realmente marxiste, queste correnti continuano a ricollegarsi ad un certo numero di tesi fondamentali incompatibili con la concezione cristiana dell'uomo e della società.In questo contesto certe formule non sono neutre, ma conservano il significato che hanno ricevuto nella dottrina marxista originale. Ciò vale anche per la "lotta di classe". Questa espressione risente ancora dell'interpretazione che le ha dato Marx, e pertanto non può essere considerata come l'equivalente, di portata empirica, dellíespressione "acuto conflitto sociale". Pertanto coloro che si servono di formule del genere, con la pretesa di conservare soltanto alcuni elementi dell'analisi marxista, che però sarebbe rifiutata nella sua globalità, quanto meno ingenerano una grave ambiguità nell'animo dei loro lettori.

9. Ricordiamo che l'ateismo e la negazione della persona umana, della sua libertà e dei suoi diritti, sono centrali nella concezione marxista. Questa contiene dunque degli errori che minacciano direttamente le verità di fede sul destino eterno delle persone. Inoltre, voler integrare alla teologia uní"analisi", i cui criteri di interpretazione dipendono da tale concezione atea, significa rinchiudersi in contraddizioni rovinose. Per di più, il disconoscimento della natura spirituale della persona porta a subordinare totalmente quest'ultima alla collettività e a negare, così, i principi di una vita sociale e politica conforme alla dignità umana.

10. L'esame critico dei metodi di analisi mutuati da altre discipline si impone in maniera del tutto particolare al teologo. È la luce della fede che fornisce alla teologia i suoi principi. Perciò l'utilizzazione da parte del teologo degli apporti della filosofia o delle scienze umane ha un valore "strumentale" e deve essere oggetto di un discernimento critico di natura teologica. In altre parole, il criterio ultimo e decisivo di verità non può essere, in ultima analisi, che un criterio esso stesso teologico. È alla luce della fede, e di ciò che essa ci insegna sulla verità dell'uomo e sul significato ultimo del suo destino, che si deve giudicare della validità o del grado di validità di ciò che le altre discipline propongono, spesso d'altronde in maniera congetturale, come verità sull'uomo, sulla sua storia e sul suo destino.

11. L'applicazione degli schemi d'interpretazione mutuati dalla corrente di pensiero marxista alla realtà economica, sociale e politica di oggi può presentare a prima vista una certa verosimiglianza, in quanto la situazione di certi paesi offre alcune analogie con quella descritta e interpretata da Marx nella metà del secolo scorso. Sulla base di queste analogie si fanno delle semplificazioni, che facendo astrazione dai fattori essenziali specifici, di fatto impediscono un'analisi veramente rigorosa

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delle cause della miseria, e ingenerano confusione.

12. In certe regioni dell'America Latina l'accaparramento della maggior parte delle ricchezze ad opera di una oligarchia di proprietari priva di coscienza sociale, la quasi assenza o le carenze dello Stato di diritto, le dittature militari sprezzanti dei diritti elementari dell'uomo, la corruzione di certi dirigenti al potere, le pratiche selvagge di un certo capitale di origine straniera, costituiscono altrettanti fattori che alimentano un violento sentimento di rivolta in coloro che si considerano così le vittime impotenti di un nuovo colonialismo di ordine tecnologico, finanziario, monetario o economico. La presa di coscienza delle ingiustizie si accompagna ad un pathos che spesso mutua dal marxismo il suo linguaggio, presentato abusivamente come se fosse un linguaggio "scientifico".

13. La prima condizione di un'analisi è la totale docilità nei confronti della realtà da descrivere. Per questo l'uso delle ipotesi di lavoro adottate deve essere accompagnato da una coscienza critica. Occorre sapere che queste corrispondono ad un particolare punto di vista, il che comporta la conseguenza inevitabile di sottolineare unilateralmente certi aspetti della realtà, mentre se ne lasciano altri nell'ombra. Questo limite, che deriva dalla natura stessa delle scienze sociali, è ignorato da coloro che, a mo' di ipotesi riconosciute come tali, ricorrono ad una concezione totalizzante quale è il pensiero di Marx.

VIII. Sovvertimento del senso della verità e della violenza

1. Questa concezione totalizzante impone anche la sua logica e trascina le "teologie della liberazione" ad accettare un insieme di posizioni incompatibili con la visione cristiana dell'uomo. In realtà, il nucleo ideologico, mutuato dal marxismo, al quale ci si riferisce, esercita la funzione di principio determinante. Questo ruolo gli è conferito grazie alla qualificazione di scientifico, cioè di necessariamente vero, che gli viene attribuito. In questo nucleo si possono distinguere diverse componenti.

2. Nella logica del pensiero marxista, "l'analisi" non è dissociabile dalla prassi e dalla concezione della storia cui questa prassi è legata. L'analisi è così uno strumento di critica e la critica stessa non è che un momento della lotta rivoluzionaria, cioè della lotta di classe del Proletariato investito della sua missione storica.

3. Di conseguenza solo chi partecipa a questa lotta può operare un'analisi corretta.

4. La coscienza vera è dunque una coscienza di parte. Come si vede, è qui chiamata in causa la stessa concezione della verità, la quale è inoltre completamente sovvertita: la verità - si pretende - si trova solo nella e mediante la prassi di parte.

5. La prassi, e la verità che ne deriva, sono prassi e verità partigiane, poiché la struttura fondamentale della storia è contrassegnata dalla lotta delle classi. Di qui la necessità di entrare nella lotta delle classi (che è il contrario dialettico del rapporto di sfruttamento che si denuncia). La verità è verità di classe, e la verità si trova soltanto nella lotta della classe rivoluzionaria.

6. La legge fondamentale della storia, che è poi la legge della lotta delle classi, implica che la società è fondata sulla violenza. Alla violenza che costituisce il rapporto di dominio dei ricchi sui poveri dovrà rispondere la contro-violenza rivoluzionaria con la quale questo rapporto sarà capovolto.

7. La lotta delle classi è dunque presentata come una legge oggettiva, necessaria. Entrando nel suo processo, dalla parte degli oppressi, si "fa" la verità, si agisce "scientificamente". Di conseguenza, la

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concezione della verità va di pari passo con l'affermazione della necessità della violenza, e quindi con quella dell'amoralismo politico. In questa prospettiva non ha più nessun senso il riferimento ad esigenze etiche che impongono riforme strutturali e istituzionali radicali e coraggiose.

8. La legge fondamentale della lotta delle classi ha un carattere di globalità e di universalità. Essa si riflette in tutti i campi dell'esistenza, religiosi, etici, culturali e istituzionali. Rispetto a questa legge nessuno di questi campi è autonomo. In ciascuno essa costituisce l'elemento determinante.

9. Proprio per il ricorso a queste tesi di origine marxista viene messa radicalmente in causa la natura stessa dell'etica. Infatti, nell'ottica della lotta di classe viene implicitamente negato il carattere trascendente della distinzione tra il bene e il male, principio della moralità.

IX. Interpretazione "teologica" di questo nucleo

1. Le posizioni, di cui qui si parla, si trovano talvolta chiaramente enunciate in certi scritti dei "teologi della liberazione". Presso altri esse derivano logicamente dalle loro premesse. Altrove esse sono presupposte in certe pratiche liturgiche, come ad esempio nell'"Eucarestia" trasformata in celebrazione del popolo in lotta, anche se coloro che partecipano a tali pratiche non ne sono pienamente coscienti. Viene, dunque, proposto un vero sistema, anche se taluni esitano a seguirne fino in fondo la logica. Come tale, questo sistema è una perversione del messaggio cristiano affidato da Dio alla sua Chiesa. Questo messaggio si trova perciò rimesso in causa nella sua globalità dalle "teologie della liberazione".

2. Ciò che è assunto come principio da queste "teologie della liberazione" non è il fatto delle stratificazioni sociali con le disuguaglianze e le ingiustizie che comporta, ma la teoria della lotta di classe come legge strutturale fondamentale della storia. Se ne trae la conclusione che la lotta di classe così intesa divide la Chiesa stessa e che è necessario giudicare le realtà ecclesiali in funzione di essa. Si pretende inoltre che l'affermazione secondo cui l'amore, nella sua universalità, può vincere ciò che costituisce la principale legge strutturale della società capitalista, significa nutrire, in mala fede, un'illusione fallace.

3. In questa concezione la lotta delle classi è il motore della storia. La storia diventa così una nozione centrale. Si arriva ad affermare che Dio si fa storia. E si aggiunge che vi è una sola storia, nella quale non si deve più distinguere tra storia della salvezza e storia profana. Mantenere la distinzione significherebbe cadere nel "dualismo". Simili affermazioni riflettono un immanentismo storicista. In questo modo si tende a identificare il Regno di Dio e il suo divenire con il movimento della liberazione umana e a fare della storia stessa il soggetto del suo proprio sviluppo come processo di auto-redenzione dell'uomo mediante la lotta di classe. Questa identificazione è in opposizione alla fede della Chiesa richiamata dal Concilio Vaticano II. (23)

4. In questa linea alcuni giungono perfino ad identificare, al limite, Dio stesso e la storia e a definire la fede come "fedeltà alla storia", il che significa fedeltà impegnata in una prassi politica conforme alla concezione del divenire dellíumanità inteso nel senso di un messianismo puramente temporale.

5. Di conseguenza, la fede, la speranza e la carità ricevono un nuovo contenuto: esse sono "fedeltà alla storia", "fiducia nel futuro", "opzione per i poveri". Ciò equivale ad una negazione della loro realtà teologale.

6. Da questa concezione deriva inevitabilmente una politicizzazione radicale delle affermazioni della fede e dei giudizi teologici. Non si tratta più soltanto di attirare l'attenzione sulle conseguenze e le incidenze politiche delle verità di fede, che sarebbero rispettate nel loro valore trascendente. Si

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tratta piuttosto di un subordinamento di ogni affermazione della fede o della teologia ad un criterio politico, esso stesso dipendente dalla teoria della lotta di classe, motore della storia.

7. Di conseguenza, si presenta l'inserimento nella lotta di classe come un'esigenza della carità stessa; si denuncia come un atteggiamento rinunciatario e contrario all'amore dei poveri la volontà di amare fin da questo momento ogni uomo, qualunque sia la sua appartenenza di classe, e di andargli incontro per le vie non violente del dialogo e della persuasione. Anche se non si afferma che deve essere oggetto di odio, si afferma tuttavia che a causa della sua appartenenza oggettiva al mondo dei ricchi, egli è per ciò stesso un nemico di classe che deve essere combattuto. Quindi, l'universalità dell'amore del prossimo e la fraternità diventano un principio escatologico, che vale soltanto per "l'uomo nuovo" che nascerà dalla rivoluzione vittoriosa.

8. Quanto alla Chiesa, si tende a considerarla una realtà interna alla storia, che obbedisce anch'essa alle leggi ritenute determinanti per il divenire storico nella sua immanenza. Tale riduzione svuota la realtà specifica della Chiesa, dono della grazia di Dio e mistero di fede. Inoltre, si nega che abbia un senso la partecipazione alla stessa mensa eucaristica di cristiani che pure appartengono a classi opposte.

9. Nel suo significato positivo la Chiesa dei poveri significa la preferenza, senza esclusivismi, data ai poveri intesi in tutte le forme della miseria umana, perché essi sono preferiti da Dio. L'espressione significa inoltre la presa di coscienza del nostro tempo delle esigenze della povertà evangelica, sia da parte della Chiesa come comunione e come istituzione, sia da parte dei suoi membri.

10. Ma le "teologie della liberazione", che pure hanno il merito di avere ridato importanza ai grandi testi dei profeti e del Vangelo sulla difesa dei poveri, procedono ad un pericoloso amalgama tra il povero della Scrittura e il proletariato di Marx. In questo modo il significato cristiano del povero è sovvertito e la lotta per i diritti dei poveri si trasforma in lotta di classe nella prospettiva ideologica della lotta delle classi. La Chiesa dei poveri significa allora una Chiesa di classe, che ha preso coscienza della necessità della lotta rivoluzionaria come tappa verso la liberazione e che celebra questa liberazione nella sua liturgia.

11. Un'analoga osservazione si deve fare a proposito dell'espressione Chiesa del popolo. Dal punto di vista pastorale, si possono intendere con essa i destinatari prioritari dell'evangelizzazione, coloro verso i quali, per la loro condizione, si rivolge innanzi tutto l'amore pastorale della Chiesa. Ci si può anche riferire alla Chiesa come "popolo di Dio", cioè come popolo della Nuova Alleanza stipulata nel Cristo. (24)

12. Ma le "teologie della liberazione", di cui stiamo parlando, per Chiesa del popolo intendono una Chiesa di classe, la Chiesa del popolo oppresso che occorre "coscientizzare" in vista della lotta liberatrice organizzata. Per alcuni il popolo così inteso diventa perfino oggetto della fede.

13. Da una simile concezione della Chiesa del popolo si sviluppa una critica delle stesse strutture della Chiesa. Non si tratta soltanto di una correzione fraterna nei confronti dei pastori della Chiesa, il cui comportamento non riflette lo spirito evangelico di servizio e si attiene a espressioni anacronistiche di autorità che scandalizzano i poveri. È anche messa in causa la struttura sacramentale e gerarchica della Chiesa, quale l'ha voluta il Signore stesso. Nella gerarchia e nel Magistero si denunciano i rappresentanti effettivi della classe dominante che è necessario combattere. Dal punto di vista teologico, questa posizione sta a dire che il popolo è la sorgente dei ministeri e che esso può, dunque, scegliersi i propri ministri, in base alle necessità della sua storica missione rivoluzionaria.

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X. Una nuova ermeneutica

1. La concezione di parte della verità che si manifesta nella prassi rivoluzionaria di classe rafforza questa posizione. I teologi che non condividono le tesi della "teologia della liberazione", la gerarchia e soprattutto il Magistero romano sono così screditati a priori, come appartenenti alla classe degli oppressori. La loro teologia è una teologia di classe. Le loro argomentazioni e i loro insegnamenti non devono perciò essere esaminati in se stessi, poiché non fanno che riflettere degli interessi di classe. Quindi la loro parola è dichiarata falsa per principio.

2. Qui si manifesta il carattere globale e totalizzante della "teologia della liberazione". Di conseguenza, essa deve essere criticata non per questa o per quella delle sue affermazioni, ma a livello del punto di vista di classe che essa adotta a priori e che funge in essa come principio ermeneutico determinante.

3. A causa di questo presupposto classista, risulta estremamente difficile, per non dire impossibile, ottenere da certi "teologi della liberazione" un vero dialogo, nel quale l'interlocutore sia ascoltato e i suoi argomenti vengano discussi con obiettività e attenzione. Infatti questi teologi, più o meno inconsciamente, partono dal presupposto che solo il punto di vista della classe oppressa e rivoluzionaria, che sarebbe il loro, costituisce il punto di vista della verità. Così i criteri teologici di verità si trovano relativizzati e subordinati agli imperativi della lotta di classe. In questa prospettiva, all'ortodossia come retta norma della fede si sostituisce l'ortoprassi come criteri di verità. A questo proposito non si dovrebbe confondere l'orientamento pratico, proprio anch'esso della teologia tradizionale e allo stesso titolo dell'orientamento speculativo, con il primato privilegiato riconosciuto ad un certo tipo di prassi. In realtà, quest'ultima è la prassi rivoluzionaria che diverrebbe così il criterio supremo della verità teologica. Una sana metodologia teologica tiene senz'altro conto della prassi della Chiesa e vi trova uno dei suoi fondamenti, ma perché essa deriva dalla fede e ne è l'espressione vissuta.

4. La dottrina sociale della Chiesa è respinta con disprezzo. Essa procede, si dice, dall'illusione di un possibile compromesso, propria delle classi medie che sono senza destino storico.

5. La nuova ermeneutica, caratteristica delle "teologie della liberazione", conduce ad una rilettura essenzialmente politica della Scrittura. Per questo viene accordata un'importanza particolare all'evento dell'Esodo, in quanto esso è liberazione dalla schiavitù politica. Si propone inoltre una lettura politica del Magnificat. Lo sbaglio non sta nel prestare attenzione ad una dimensione politica dei racconti biblici; sta nel fare di questa dimensione la dimensione principale ed esclusiva, che conduce ad una lettura riduttiva della Scrittura.

6. Inoltre ci si pone nella prospettiva di un messianismo temporale, che è una delle espressioni più radicali della secolarizzazione del Regno di Dio e del suo assorbimento nell'immanenza della storia umana.

7. Privilegiando in questa maniera la dimensione politica, si è portati a negare la radicale novità del Nuovo Testamento e, prima di tutto, a misconoscere la persona di Nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, come pure il carattere specifico della liberazione che egli ci porta, che è soprattutto liberazione dal peccato, sorgente di tutti i mali.

8. Inoltre, mettendo da parte l'interpretazione autentica del Magistero, respinta come interpretazione di classe, ci si allontana anche dalla Tradizione. In questo modo ci si priva di un essenziale criterio teologico d'interpretazione e, nel vuoto che ne deriva, si accolgono le tesi più radicali dell'esegesi

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razionalista. Si riprende così, senza spirito critico, l'opposizione tra il "Gesù della storia" e il "Gesù della fede".

9. Certamente viene conservata la lettera delle formule della fede, e in particolare quella di Calcedonia, ma si attribuisce loro un nuovo significato, che equivale ad una negazione della fede della Chiesa. Da una parte si respinge la dottrina cristologica trasmessa dalla Tradizione, in nome del criterio di classe; dall'altra però si pretende di raggiungere il "Gesù della storia", partendo dall'esperienza rivoluzionaria della lotta dei poveri per la loro liberazione.

10. Si pretende inoltre di rivivere un'esperienza analoga a quella che sarebbe stata di Gesù. L'esperienza dei poveri in lotta per la loro liberazione, che sarebbe stata quella di Gesù, rivelerebbe quindi, e solo essa, la conoscenza del vero Dio e del Regno.

11. È evidente che in tal modo viene negata la fede nel Verbo incarnato, morto e risorto per tutti gli uomini, e "costituito da Dio Signore e Cristo". (25) Gli si sostituisce una "figura" di Gesù che è una specie di simbolo che riassume in sé le esigenze della lotta degli oppressi.

12. La morte di Cristo subisce così un'interpretazione esclusivamente politica. E pertanto si nega il suo valore salvifico e tutta l'economia della redenzione.

13. In conclusione la nuova interpretazione comprende l'insieme del mistero cristiano.

14. In generale, essa opera quella che si potrebbe chiamare un'inversione di simboli. Così, invece di vedere con S. Paolo nell'Esodo una figura del battesimo, (26) si sarà portati, al limite, a farne un simbolo della liberazione politica del popolo.

15. Poiché lo stesso criterio ermeneutico è applicato alla vita ecclesiale e alla costituzione gerarchica della Chiesa, i rapporti tra la gerarchia e la "base" diventano rapporti di dominio che obbediscono alla legge della lotta di classe. Viene semplicemente ignorata la sacramentalità che sta alla base dei ministeri ecclesiali e che fa della Chiesa una realtà spirituale irriducibile ad un'analisi puramente sociologica.

16. L'inversione dei simboli si constata anche nel campo dei sacramenti. Infatti l'Eucarestia non è più compresa nella sua verità di presenza sacramentale del sacrificio di riconciliazione e come il dono del Corpo e del Sangue di Cristo. Essa diventa celebrazione del popolo nella sua lotta. Di conseguenza è negata radicalmente l'unità della Chiesa. L'unità, la riconciliazione, la comunione nell'amore non sono più intesi come un dono che riceviamo da Cristo. (27) L'unità sarà costruita dalla classe storica dei poveri mediante la sua lotta. La lotta di classe è la via verso questa unità. E così l'Eucarestia diventa Eucarestia di classe. Nello stesso tempo viene negata la forza trionfante dell'amore di Dio che ci è donato.

XI. Orientamenti

1. Il richiamo contro le gravi deviazioni, di cui sono portatrici talune "teologie della liberazione", non deve assolutamente essere interpretato come un'approvazione, neppure indiretta, di coloro che contribuiscono al mantenimento della miseria dei popoli, di coloro che ne approfittano e di coloro che questa miseria lascia rassegnati o indifferenti. La Chiesa, guidata dal Vangelo della misericordia e dall'amore dell'uomo, ascolta il grido che invoca giustizia (28) e vuole rispondervi con tutte le sue forze.

2. Pertanto è rivolto alla Chiesa un appello quanto mai impegnativo. Con audacia e coraggio, con

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chiaroveggenza e prudenza, con zelo e forza d'animo, con un amore verso i poveri che si spinge fino al sacrificio, i pastori, come del resto già molti fanno, dovranno considerare come un compito prioritario la risposta a questo appello.

3. Tutti coloro che - sacerdoti, religiosi e laici - udendo il grido che invoca giustizia, vogliono lavorare per l'evangelizzazione e la promozione umana, dovranno farlo in comunione con i loro Vescovi e con la Chiesa, ciascuno secondo la propria specifica vocazione ecclesiale.

4. Coscienti del carattere ecclesiale della loro vocazione, i teologi collaboreranno, con lealtà e in spirito di dialogo, con il Magistero della Chiesa. Essi sapranno riconoscere nel Magistero un dono di Cristo alla sua Chiesa (29) e ne accoglieranno la parola e le direttive con rispetto filiale.

5. Solo partendo dalla missione evangelizzatrice intesa nella sua integralità si possono comprendere le esigenze di una promozione umana e di una liberazione autentica. Questa liberazione ha come pilastri indispensabili la verità su Gesù Cristo, il Salvatore, la verità sulla Chiesa, la verità sull'uomo e sulla sua dignità. (30) La Chiesa che vuole essere nel mondo intero la Chiesa dei poveri, intende servire la nobile lotta per la verità e per la giustizia, alla luce delle Beatitudini, e soprattutto della beatitudine dei poveri di spirito. Essa si rivolge a ciascun uomo e, per questa ragione, a tutti gli uomini. Essa è "la Chiesa universale. La Chiesa dell'incarnazione. Non è la Chiesa di una classe o di una casta soltanto. Essa parla in nome della verità stessa. Questa verità è realista". Essa insegna a tener conto "di ogni realtà umana, di ogni ingiustizia, di ogni tensione, di ogni lotta". (31)

6. Una difesa efficace della giustizia deve appoggiarsi sulla verità dell'uomo, creato ad immagine di Dio e chiamato alla grazia della filiazione divina. Il riconoscimento del vero rapporto dell'uomo con Dio costituisce il fondamento della giustizia, in quanto essa regola i rapporti tra gli uomini. Per questo motivo la lotta per i diritti dell'uomo, che la Chiesa continuamente richiama, costituisce l'autentica lotta per la giustizia.

7. La verità dell'uomo esige che questa lotta sia condotta con mezzi conformi alla dignità umana. Per questo deve essere condannato il ricordo sistematico e deliberato alla violenza cieca, da qualsiasi parte venga. (32) Affidarsi ai mezzi violenti nella speranza di instaurare una maggiore giustizia significa essere vittime di un'illusione mortale. La violenza genera violenza e degrada l'uomo. Essa ferisce la dignità dell'uomo nella persona delle vittime e avvilisce questa stessa dignità in coloro che la praticano.

8. L'urgenza di riforme radicali delle strutture che ingenerano la miseria e costituiscono in se stesse delle forme di violenza non deve far perdere di vista che la sorgente delle ingiustizie risiede nel cuore degli uomini. Quindi soltanto facendo appello alle capacità etiche della persona e alla continua necessità di conversione interiore si otterranno dei cambiamenti sociali che saranno veramente al servizio dell'uomo. (33) Infatti man mano che collaboreranno liberamente, di propria iniziativa e solidarmente, per questi cambiamenti necessari, gli uomini, risvegliati al senso della loro responsabilità si realizzeranno sempre più come uomini. Tale capovolgimento tra moralità e strutture è pregnante di una antropologia materialista incompatibile con la verità sull'uomo.

9. Quindi è un'illusione mortale anche credere che delle nuove strutture daranno vita, per se stesse, ad un "uomo nuovo", nel senso della verità dell'uomo. Il cristiano non può dimenticare che la sorgente di ogni vera novità è lo Spirito Santo, che ci è stato dato, e che il signore della storia è Dio.

10. Così pure, il rovesciamento delle strutture generatrici d'ingiustizia mediante la violenza rivoluzionaria non è ipso facto l'inizio dell'instaurazione di un regime giusto. Tutti coloro che vogliono sinceramente la vera liberazione dei loro fratelli devono riflettere su un fatto di grande

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rilevanza del nostro tempo. Milioni di nostri contemporanei aspirano legittimamente a ritrovare le libertàfondamentali di cui sono privati da parte dei regimi totalitari e atei che si sono impadroniti del potere per vie rivoluzionarie e violente, proprio in nome della liberazione del popolo. Non si può ignorare questa vergogna del nostro tempo: proprio con la pretesa di portare loro la libertà, si mantengono intere nazioni in condizioni di schiavitù indegne dell'uomo. Coloro che, forse per incoscienza, si rendono complici di simili asservimenti tradiscono i poveri che intendono servire.

11. La lotta di classe come via verso una società senza classi è un mito che blocca le riforme e aggrava la miseria e le ingiustizie. Coloro che si lasciano affascinare da questo mito dovrebbero riflettere sulle amare esperienze storiche alle quali esso ha condotto. Comprenderebbero allora che non si tratta di abbandonare un modo efficace di lotta in favore dei poveri per un ideale utopico. Si tratta, al contrario, di liberarsi di un miraggio per appoggiarsi sul Vangelo e sulla sua forza di trasformazione.

12. Una delle condizioni per il necessario ritorno alla retta teologia è la rivalutazione dell'insegnamento sociale della Chiesa. Questo insegnamento non è per niente chiuso, ma, al contrario, è aperto a tutti i nuovi problemi che non mancano di porsi nel corso del tempo. In questa prospettiva, è indispensabile oggi il contributo dei teologi e dei pensatori di tutte le parti del mondo alla riflessione della Chiesa.

13. Così pure, per la riflessione dottrinale e pastorale della Chiesa è necessaria l'esperienza di coloro che lavorano direttamente all'evangelizzazione e promozione dei poveri e degli oppressi. In questo senso occorre dire che si prende coscienza di alcuni aspetti della verità a partire dalla prassi, se per prassi si intendono una prassi pastorale e una prassi sociale che restano di ispirazione evangelica.

14. L'insegnamento della Chiesa in materia sociale fornisce i grandi orientamenti etici. Ma perché possa guidare direttamente l'azione, esso esige delle personalità competenti sia dal punto di vista scientifico e tecnico, che nel campo delle scienze umane e della politica. I pastori dovranno essere attenti alla formazione di tali personalità competenti, che vivano profondamente il Vangelo. I laici, il cui compito specifico è di costruire la società, vi sono coinvolti in maniera particolare.

15. Le tesi delle "teologie della liberazione" sono largamente diffuse, sotto forma ancora semplificata, in circoli di formazione o nei gruppi di base, che mancano di preparazione catechetica e teologica. Per questo sono accettate, senza la possibilità di un giudizio critico, da uomini e donne generosi.

16. Per questo i Pastori devono vigilare sulla qualità e sul contenuto della catechesi e della formazione, che deve sempre presentare la integralità del messaggio della salvezza e gli imperativi della vera liberazione dell'uomo nel quadro di questo messaggio integrale.

17. In questa presentazione integrale del mistero cristiano sarà opportuno mettere l'accento sugli aspetti essenziali che le "teologie della liberazione" tendono in particolar modo a misconoscere o a eliminare: trascendenza e gratuità della liberazione in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, sovranità della sua grazia, vera natura dei mezzi di salvezza, specialmente della Chiesa e dei sacramenti. Si dovranno richiamare il vero significato dell'etica, per la quale non può essere relativizzata la distinzione tra il bene e il male, il senso autentico del peccato, la necessità della conversione e líuniversalità della legge dell'amore fraterno. Si metterà in guardia contro una politicizzazione dell'esistenza, che misconoscendo tanto la specificità del Regno di Dio, quanto la trascendenza della persona, finisce per sacralizzare la politica e per sfruttare la religiosità del popolo in favore di iniziative rivoluzionarie.

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18. I difensori della "ortodossia" sono talvolta rimproverati di passività, di indulgenza o di complicità colpevoli nei confronti delle intollerabili situazioni di ingiustizia e dei regimi politici che mantengono tali situazioni. Si richiede da parte di tutti, e specialmente da parte dei pastori e dei responsabili la conversione spirituale, líintensità dell'amore di Dio e del prossimo, lo zelo per la giustizia e la pace, il senso evangelico dei poveri e della povertà. La preoccupazione della purezza della fede non deve essere disgiunta dalla preoccupazione di dare, mediante una vita teologale integrale, la risposta di un'efficace testimonianza di servizio del prossimo, e in modo tutto particolare del povero e dell'oppresso. Mediante la testimonianza della loro forza di amare, dinamica e costruttiva, i cristiani getteranno così le basi di quella "civiltà dell'amore", di cui ha parlato, dopo Paolo VI, la Conferenza di Puebla. (34) Del resto sono numerosi coloro che - sacerdoti, religiosi o laici - si consacrano in maniera veramente evangelica alla creazione di una società giusta.

Conclusione

Le parole di Paolo VI, nella Professione di fede del popolo di Dio, esprimonocon piena chiarezza la fede della Chiesa, dalla quale non ci si può allontanare senzaprovocare, insieme ai danni spirituali, nuove miserie e nuove schiavitú. «Noi confessiamo che il regno di Dio, cominciato quaggiú nella Chiesa di Cristo,“non è di questo mondo”, “la cui figura passa”; e che la sua vera crescita non può essereconfusa con il progresso della civiltà, della scienza e della tecnica umane, ma consistenel conoscere sempre piú profondamente le imperscrutabili ricchezze di Cristo, nellosperare sempre piú fortemente i beni eterni, nel rispondere sempre piú ardentementeall’amore di Dio, e nel dispensare sempre piú abbondantemente la grazia e la santità tragli uomini. Ma è questo stesso amore che porta la Chiesa a preoccuparsi costantementedel vero bene temporale degli uomini. Mentre non cessa di ricordare ai suoi figli che essi “non hanno quaggiú stabiledimora”, essa li spinge anche a contribuire - ciascuno secondo la propria vocazione e ipropri mezzi - al bene della loro città terrena, a promuovere la giustizia, la pace e lafratellanza tra gli uomini, a prodigare il loro aiuto ai propri fratelli, soprattutto ai piúpoveri e ai piú bisognosi. L’intensa sollecitudine della Chiesa, sposa di Cristo, per lenecessità degli uomini, per le loro gioie e le loro speranze, i loro sforzi e i loro travagli,non è quindi altra cosa che il suo grande desiderio di esser loro presente per illuminarlicon la luce di Cristo e adunarli tutti in lui, unico loro salvatore. Tale sollecitudine nonpuò mai significare che la Chiesa conformi se stessa alle cose di questo mondo, o chediminuisca l’ardore dell’attesa del suo Signore e del Regno eterno».

Il sommo pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell’udienza concessa alsottoscritto cardinale prefetto, ha approvato la presente istruzione, decisa nellariunione ordinaria di questa s. congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione. Roma, dalla sede della Congregazione per la dottrina della fede, il 6 agosto 1984, nella festa della trasfigurazione del Signore.

Joseph card. Ratzinger, Prefetto.

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Prof. Ratzinger: Introduzione al Cristianesimo - Prefazione alla prima edizione (1968)

Leggiamo il testo della prefazione alla prima edizione di "Introduzione al Cristianesimo", scritta nel 1968, a Tubinga.

Introduzione al Cristianesimo - Prefazione alla prima edizione

Il problema di sapere esattamente quale sia il contenuto e il significato della fede cristiana è oggi avvolto da un nebuloso alone di incertezza, come mai forse prima d’ora nella storia.Chi ha seguito il movimento teologico del decennio a noi più vicino, e non appartiene alla schiera di quegli scervellati che considerano sempre il nuovo come automaticamente migliore, potrebbe al riguardo rammentare la vecchia storiella de “La fortuna di Gianni”. Costui, per maggiore comodità, si era messo a scambiare il mucchio d’oro, che gli risultava troppo pesante e faticoso, con una serie di altre cose: dapprima con un cavallo, poi con una mucca, indi con un’oca, e infine con una cote per affilare, che terminò per gettare in acqua senza nemmeno perderci molto; anzi ciò che ora ne aveva ottenuto in cambio, era il dono della piena libertà da lui tanto agognata. Fino a quando poi sia durato il suo stato di ebbrezza, quanto sia stato cupo e deprimente il risveglio dalla vicenda della sua presunta liberazione, la storiella – come si sa – lo lascia immaginare alla fantasia di chi legge.Alla mente preoccupata del cristiano odierno si affacciano con sempre maggiore frequenza interrogativi come i seguenti: negli anni più recenti, la nostra teologia non ha spesso imboccato una via simile a quella dell’apologo di cui sopra? Non è andata forse gradualmente interpretando al ribasso l’esigenza della fede, che sembrava troppo oppressiva, semplicemente perché niente d’importante pareva con ciò perduto, ma ne rimaneva pur sempre tanto da poter subito dopo osare un altro passo in avanti? E il povero Gianni – nel caso nostro il cristiano – che fiduciosamente si era lasciato trascinare di scambio in scambio, d’interpretazione in interpretazione, non rischierà forse di finire davvero presto con l’avere in mano, al posto dell’oro con cui aveva incominciato , soltanto una inutile cote, che gli si può allegramente consigliare di gettar via?Tali interrogativi sono certo non corretti se vengono posti in maniera troppo globale. Non si può,

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infatti, asserire onestamente che la ‘teologia moderna’, presa nel suo complesso, abbia imboccato una rotta del genere. Ma non si potrà certo negare che un’opinione largamente diffusa non appoggi una tendenza generale, che in pratica conduce dall’oro alla cote. Ora, a essa non si potrà sicuramente ovviare ostinandosi a rimanere attaccati solo al metallo nobile delle formule fisse del passato, che resta in fin dei conti pur sempre soltanto un mucchio di metallo: un peso, invece di agevolare, in forza del suo valore, la possibilità di raggiungere la vera libertà. E’ proprio su questo punto che intende far leva l’intento del presente libro: esso si propone di aiutare a far comprendere in maniera nuova la fede, quale possibilità di umanità autentica nel nostro mondo odierno, interpretandola, senza degradarne il valore a chiacchiera che solo con fatica maschera un totale vuoto spirituale.Il libro è scaturito dalle lezioni da me tenute a Tubinga, nel semestre estivo del 1967,a uditori di tutte le facoltà. L’impresa compiuta in questa stessa università quasi mezzo secolo fa da Karl Adam, col suo magistrale corso intitolato Essenza del Cattolicesimo, andava tentata nuovamente allo stesso modo pur nelle condizioni completamente cambiate della nostra generazione. Sotto l’aspetto linguistico il testo è stato rielaborato secondo le esigenze di pubblicazione in volume. Nonostante questo, però, non ho affatto cambiato la struttura né l’ampiezza dell’opera, limitandomi ad aggiungervi delle documentazioni scientifiche solo nella misura in cui occorreva per forza citare gli strumenti che mi erano direttamente serviti per preparare le lezioni.La dedica del libro agli uditori da me avuti nelle varie tappe del mio magistero accademico intende esprimere la gratitudine che io provo nei loro confronti, per la collaborazione che mi hanno dato con i loro interrogativi e il loro pensiero, che costituiscono decisamente le premesse da cui ha preso avvio questo tentativo. Ci tengo poi a ringraziare particolarmente anche l’editore, il Dr. Heinrich Wild,senza le cui pazienti e continue insistenze non so se avrei preso la risoluzione di affrontare un rischio come quello comportato dal presente lavoro. E infine ringrazio ancora tutti i collaboratori che si sono accollati fatiche d’ogni genere per la realizzazione dell’opera.

Tubinga, estate 1968

Presentato il secondo volume delle «Gesammelte Schriften» di Joseph Ratzinger: la prefazione di Benedetto XVI

ùPRIMO VOLUME DELL’OPERA OMNIA DI JOSEPH RATZINGER - BENEDETTO XVI IN EDIZIONE TEDESCA

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Bonaventura e la storia della salvezza

È una vera e propria editio princeps - cioè una prima edizione - il secondo volume delle Gesammelte Schriften di Joseph Ratzinger, edite a cura di Gerhard Ludwig Müller, vescovo di Ratisbona e splendidamente realizzate da Herder. Dopo la Theologie der Liturgie. Die sakramentale Begründung christlicher Existenz uscita nel 2008, è stato infatti appena pubblicato, per la prima volta, il testo integrale della grande tesi di abilitazione alla docenza che il giovane Ratzinger dedicò alla comprensione della Rivelazione e alla teologia della storia di san Bonaventura (Offenbarungsverständnis und Geschichtstheologie Bonaventuras). Dedicato con "gratitudine" al fratello monsignor Georg Ratzinger nel suo ottantacinquesimo compleanno, il volume è stato presentato all'autore domenica 13 a Castel Gandolfo dal vescovo Müller insieme alla curatrice Marianne Schlosser e ad altri membri dell'Institut Papst Benedikt XVI. di Ratisbona e lunedì 14 a Ratisbona a monsignor Ratzinger. Del volume pubblichiamo, in una nostra traduzione, il testo che Benedetto XVI ha voluto premettervi per introdurlo.

Dopo la pubblicazione dei miei scritti sulla liturgia segue ora nell'edizione generale delle mie opere un libro con studi sulla teologia del grande francescano e Dottore della Chiesa Bonaventura Fidanza.Fin dall'inizio è stato evidente che quest'opera avrebbe contenuto anche i miei studi sul concetto di Rivelazione nel santo, condotti assieme all'interpretazione della sua teologia della storia, negli anni 1953-1955, ma finora inediti. Per completare tutto questo lavoro il manoscritto avrebbe dovuto essere rivisto e corretto secondo le moderne modalità editoriali, cosa che io non mi sono sentito in grado di fare. La professoressa Marianne Schlosser di Vienna, profonda conoscitrice della teologia medievale e in particolare delle opere di san Bonaventura, si è degnamente offerta di svolgere tale lavoro necessario e di certo non facile. Per questo non posso che ringraziarla di tutto cuore. Discutendo del progetto ci siamo subito trovati d'accordo che non si sarebbe tentato di rielaborare il libro dal punto di vista contenutistico e di portare la ricerca allo stato attuale. Più di mezzo secolo dopo la stesura del testo, questo avrebbe significato in pratica scrivere un nuovo libro. Inoltre desideravo fosse un'edizione "storica", che offrisse così com'era un testo concepito in un lontano passato, lasciando alla ricerca la possibilità di trarne utilità anche oggi.Della cura editoriale svolta tratta l'introduzione della professoressa Schlosser, che con i suoi collaboratori ha investito molto tempo e molto impegno dedicato all'allestimento di un'edizione storica del testo, confidando nel fatto che teologicamente e storicamente valesse la pena renderlo accessibile a tutti nella sua interezza.Nella seconda parte del libro viene nuovamente presentata la Teologia della storia di san Bonaventura come fu pubblicata nel 1959. I saggi che seguono sono tratti, con poche eccezioni, dallo studio sull'interpretazione della Rivelazione e della teologia della storia. In alcuni casi sono stati adattati per poter costituire un testo in sé completo, modificandoli leggermente secondo il contesto.L'idea di aggiornare il manoscritto e presentarlo come libro al pubblico, dovetti abbandonarla temporaneamente assieme al progetto di uno studio commentato dell'Hexaëmeron, perché l'attività di esperto conciliare e le esigenze della mia docenza accademica erano così impegnative da rendere impensabile la ricerca medievalistica. Nel periodo postconciliare la situazione teologica mutata e la nuova situazione nell'università tedesca mi assorbirono così tanto che rimandai il lavoro su Bonaventura al periodo successivo al pensionamento.Nel frattempo il Signore mi ha condotto lungo altre vie e così il libro viene pubblicato ora nella sua forma presente. Auspico che altri possano svolgere il compito di commentare l'Hexaëmeron. In un primo momento l'esposizione del tema dell'opera potrebbe apparire sorprendente e di fatto lo

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è.Dopo la mia tesi sul concetto di Chiesa di sant'Agostino, il mio maestro Gottlieb Söhngen mi propose di dedicarmi al medioevo e in particolare alla figura di san Bonaventura, che fu il più significativo rappresentante della corrente agostiniana nella teologia medievale.Per quanto riguarda il contenuto ho dovuto affrontare la seconda importante questione di cui si occupa la teologia fondamentale, ovvero il tema della Rivelazione. A quel tempo, in particolare a motivo della celebre opera di Oscar Cullmann Christus und die Zeit (Zürich, 1946), il tema della storia della salvezza, specialmente il suo rapporto con la metafisica, era diventato il punto focale dell'interesse teologico. Se la Rivelazione nella teologia neoscolastica era stata intesa essenzialmente come trasmissione divina di misteri, che restano inaccessibili all'intelletto umano, oggi la Rivelazione viene considerata una manifestazione di sé da parte di Dio in un'azione storica e la storia della salvezza viene vista come elemento centrale della Rivelazione. Mio compito era quello di cercare di scoprire come Bonaventura avesse inteso la Rivelazione e se per lui esistesse qualcosa di simile a un'idea di "storia della salvezza".È stato un compito difficile. La teologia medievale non possiede alcun trattato de revelatione ("sulla Rivelazione") come invece accade nella teologia moderna. Inoltre, dimostrai subito che la teologia medievale non conosce neanche un termine per esprimere da un punto di vista contenutistico il nostro moderno concetto di Rivelazione.La parola revelatio, che è comune alla neoscolastica e alla teologia medievale, non significa, come si è andato evidenziando, la stessa cosa nella teologia medievale e in quella moderna. Per questo ho dovuto cercare le risposte alla mia impostazione del problema in altre forme linguistiche e di pensiero e addirittura modificarla rispetto a quando mi ero avvicinato all'opera di Bonaventura. Innanzitutto bisognava condurre difficili ricerche sul suo linguaggio. Ho dovuto accantonare i nostri concetti per capire cosa Bonaventura intendesse per Rivelazione. In ogni caso si è dimostrato che il contenuto concettuale di Rivelazione si adattava a un gran numero di concetti: revelatio, manifestatio, doctrina, fides, e così via. Soltanto una visione d'insieme di questi concetti e delle loro asserzioni fa comprendere l'idea di Rivelazione in Bonaventura.Il fatto che nella dottrina medievale non esistesse alcun concetto di "storia della salvezza" nel senso attuale del termine, è stato chiaro fin dall'inizio. Tuttavia due indizi dimostrano che in Bonaventura era presente il problema della rivelazione come cammino storico. Innanzitutto si è presentata la doppia figura della Rivelazione come Antico e Nuovo Testamento, che ha posto la questione della sintonia fra l'unità della verità e la diversità della mediazione storica posta sin dall'età patristica e poi affrontata anche dai teologi medievali. A questa forma classica della presenza del problema del rapporto tra storia e verità, che Bonaventura condivide con la teologia del suo tempo e che tratta a suo modo, si aggiunge in lui anche la novità del suo punto di vista storico, nel quale la storia, che è proseguimento dell'opera divina, diviene una sfida drammatica. Gioacchino da Fiore (+ 1202) aveva insegnato un ritmo trinitario della storia. All'età del Padre (Antico Testamento) e all'età del Figlio (Nuovo Testamento, Chiesa) doveva seguire un'età dello Spirito Santo, nella quale con l'osservanza del Discorso della montagna si sarebbero manifestati spirito di povertà, riconciliazione fra greci e latini, riconciliazione fra cristiani ed ebrei, e sarebbe giunto un tempo di pace. Grazie a una combinazione di cifre simboliche l'erudito abate aveva predetto l'inizio di una nuova età nel 1260. Intorno al 1240 il movimento francescano si imbatté in questi scritti che su molti ebbero un effetto elettrizzante: questa nuova età non era forse iniziata con san Francesco d'Assisi? Per questo motivo all'interno dell'Ordine si venne a creare una tensione drammatica fra "realisti", che volevano utilizzare l'eredità di san Francesco secondo le possibilità concrete della vita dell'Ordine quale era stata tramandata, e "spirituali", che invece puntavano alla novità radicale di un periodo storico nuovo. Come ministro generale dell'Ordine, Bonaventura dovette affrontare l'enorme sfida di questa tensione, che per lui non era una questione accademica, ma un problema concreto del suo incarico di settimo successore di san Francesco. In questo senso la storia fu improvvisamente tangibile come realtà e come tale dovette essere affrontata con l'azione reale e con la riflessione teologica. Nel mio studio ho cercato di spiegare in che modo Bonaventura affrontò questa sfida e mise in rapporto la

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"storia della salvezza" con la "Rivelazione".

Dal 1962 non avevo più ripreso in mano lo scritto. Quindi per me è stato entusiasmante rileggerlo dopo così tanto tempo. È chiaro che l'impostazione del problema così come il linguaggio del libro sono influenzati dalla realtà degli anni Cinquanta.

Oltre tutto per le ricerche linguistiche non esistevano i mezzi tecnici che abbiamo ora. Per questo motivo l'opera ha i suoi limiti ed è evidentemente influenzata dal periodo storico in cui è stata concepita. Tuttavia, rileggendola ho ricavato l'impressione che le sue risposte siano fondate, sebbene superate in molti dettagli, e che ancora oggi abbiano qualcosa da dire. Soprattutto mi sono reso conto che la questione dell'essenza della Rivelazione e il fatto di riproporla, che è il tema del libro, hanno ancora oggi una loro urgenza, forse anche maggiore che in passato.Al termine di questa prefazione desidero aggiungere al ringraziamento alla professoressa Schlosser anche quello al vescovo di Ratisbona Gerhard Ludwig Müller, che attraverso la fondazione dell'Institut Papst Benedikt XVI. ha reso possibile la pubblicazione di quest'opera e ha seguito, con attiva partecipazione, il processo editoriale dei miei scritti. Ringrazio inoltre i collaboratori dell'Istituto, il professor Rudolf Voderholzer, il dottor Christian Schaller, i signori Franz-Xaver Heibl e Gabriel Weiten. Non da ultimo ringrazio l'editrice Herder, che si è occupata della pubblicazione di questo libro con l'accuratezza che la caratterizza.Dedico l'opera a mio fratello Georg per il suo ottantacinquesimo compleanno, grato per la comunione di pensiero e di cammino di tutta una vita.

Roma, solennità dell'Ascensione di Cristo 2009.

BENEDETTO XVI

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Card. Ratzinger: "Dal primo momento della vita Maria è totalmente trasparente per Dio, è come un’icona raggiante della bontà divina" (1991)

Un’omelia del cardinale Joseph Ratzinger (1991)

La Casa della Madonna: “Casa aperta alla famiglia di Dio”

Pubblichiamo l’omelia che il cardinal Joseph Ratzinger – ora Benedetto XVI - ha tenuto a Loreto l’8 settembre 1991, durante il solenne pontificale, in occasione della festività della Natività di Maria, alla presenza di numerosi pellegrini, provenienti anche da Altötting per il gemellaggio della città bavarese con Loreto. Il testo è tratto fedelmente da una bobina registrata, parola per parola (vedi Messaggio della S. Casa, novembre 1991, pp. 266-268).

Il giorno della Natività della Vergine Maria non è un compleanno come tanti altri. Celebrando il compleanno di una grande personalità della storia pensiamo ad una vita passata, pensiamo a cose passate, a fatti compiuti da tale personalità e all’eredità da essa lasciata. Pensiamo, in una parola, a cose di questo mondo. Con la Madre di Dio non è così. Maria non parla di se stessa. Dal primo momento della vita lei è totalmente trasparente per Dio, è come un’icona raggiante della bontà divina. Maria, con la totalità della sua persona, è un messaggio vivo di Dio per noi. Perciò Maria non appartiene al passato, Maria è contemporanea a noi tutti, a tutte le generazioni. Con la sua disponibilità alla volontà di Dio ha quasi trasferito, consegnato il tempo umano della sua propria vita nelle mani di Dio e, così, ha unito il tempo umano con il tempo divino. Con il suo presente permanente, perciò, Maria trascende la storia ed è presente sempre nella storia, presente con noi.Maria impersona il messaggio vivo di Dio. Ma cosa ci dice di più precisamente la vita di Maria oggi, nel giorno della sua nascita? Mi sembra che proprio il santuario di Loreto, costruito attorno alla Casa terrena di Maria, costruito attorno alla Casa di Nazareth, possa aiutarci a capire meglio il

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messaggio della vita della Madonna. Queste pareti conservano per noi il ricordo del momento nel quale l’angelo venne da Maria con il grande annuncio dell’Incarnazione, il ricordo della sua risposta: “Eccomi, sono la serva del Signore”. Questa Casa umile è una testimonianza concreta, palpabile dell’avvenimento più grande della nostra storia che è l’incarnazione del Figlio di Dio.Il Verbo si è fatto carne. Maria, la serva di Dio, è divenuta la “porta” per la quale Dio è potuto entrare in questo mondo. Anzi, non solo la “porta”, è divenuta “dimora”del Signore, “casa vivente”, dove ha abitato realmente il Creatore del mondo. Maria ha offerto la sua carne perché il Figlio di Dio diventasse come noi. E qui ci viene in mente la parola con la quale secondo la Lettera agli Ebrei, Cristo ha iniziato la sua vita umana dicendo al Padre: “Non hai voluto né sacrifici né offerta, un corpo invece mi hai preparato [...]. Allora io ho detto: ecco, io vengo, o Dio, per fare la tua volontà” (Ebr 10, 5-7).

La serva del Signore dice proprio la stessa cosa: mi hai preparato un corpo, ecco io vengo. In questa coincidenza della parola del Figlio con la parola della Madre si toccano, anzi si uniscono cielo e terra, Dio creatore e la sua creatura. Dio diventa uomo, Maria si fa “casa vivente” del Signore, “tempio” dove abita l’Altissimo. E qui sopraggiunge un’altra considerazione: dove abita Dio, tutti noi siamo “a casa”; dove abita Cristo, i suoi fratelli e le sue sorelle non sono stranieri. Così è anche con la Casa di Maria e con la vita stessa di lei: è aperta per tutti noi. La madre di Cristo è anche la nostra Madre, di tutti quanti sono divenuti corpo di Cristo e costituiscono la famiglia di Cristo Gesù. Essi sono con Cristo e con la Madre, costituiscono la “sacra famiglia” di Dio.

Maria ci ha aperto la sua vita e la sua Casa perché, aprendosi a Dio, si è aperta a tutti noi e ci offre la sua Casa come Casa comune dell’unica famiglia di Dio. Possiamo dire: dove c’è Maria c’è la Casa; dove c’è Dio, siamo tutti “a casa”. La fede ci dà una casa in questo mondo, ci riunisce in una unica famiglia. Qui però nasce una domanda seria: la fede ci dice che siamo tutti fratelli e sorelle di Cristo, quindi un’unica famiglia; noi dobbiamo chiederci se questo è vero, se siamo realmente un’unica famiglia e, se non è vero, perché non è vero, perché le opposizioni, le lotte, l’egoismo lacerante?

La Casa di Nazareth non è una reliquia del passato, essa ci parla nel presente e ci provoca a un esame di coscienza. Dobbiamo domandarci se siamo realmente aperti anche noi al Signore, se vogliamo offrirgli la nostra vita perché sia una dimora per lui; oppure se abbiamo un po’ di paura della presenza del Signore, se abbiamo paura che essa possa limitare la nostra dignità, se vogliamo forse riservarci una parte della nostra vita che vorremmo appartenesse solo a noi e non fosse conosciuta da Dio, che non dovrebbe avvicinarsi ad essa.Mi sembra che questa Casa di Nazareth conservi, anche sotto questo punto di vista, un simbolismo molto prezioso. Come sapete, questa Casa ha solo tre pareti: è una Casa aperta, dunque, è come un invito, è come un abbraccio aperto. Essa, cosi, ci dice: aprite anche voi le vostre case, le vostre famiglie, la vostra vita alla presenza del Signore.

Questa Casa sia aperta alla famiglia di Dio, a tutti i figli di Dio, ai fratelli e alle sorelle di Cristo! Lasciamoci sfidare, accettiamo la parola della Madre che ci dice: venite, venite nella mia Casa e diventate anche voi, ogni giorno della vostra vita, realmente dimora del Signore.Questa Casa diventa così come una famiglia aperta, nella quale tutti i figli di Dio, tutte le creature di Dio sono anche fratelli e sorelle nostri. Maria, dunque, è “casa vivente” del Signore; la Casa di Nazareth è casa comune di tutti noi, perché, dove abita Dio tutti siamo “a casa”.Questa Casa nazaretana nasconde un altro messaggio. Finora abbiamo detto che Dio non è un Dio astratto, puramente spirituale, lontano da noi: Dio si è legato alla terra, Dio ha una storia comune con noi, una storia palpabile, visibile, qui, in questi segni della sua storia e soprattutto nella Santa Chiesa e nei sacramenti.La fede ci fa “abitare” ma ci fa anche “camminare”. Anche su questo punto la Casa nazaretana

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conserva un insegnamento importante. Quando i crociati hanno trasferito le pietre della Casa nazaretana dalla Terra Santa qui sulla terra italiana, hanno fissato il nuovo posto della Casa sacra su una strada. È una casa - mi sembra - molto strana, perché casa e strada sembrano escludersi: o casa o strada, vogliamo dire. Ma proprio così si esprime il messaggio vero di questa Casa, che non è una casa privata di una persona, di una famiglia, di una stirpe, ma sta sulla via di noi tutti: è una Casa aperta di noi tutti. La stessa Casa ci fa “abitare” e ci fa “camminare”.

La vita stessa è la casa della famiglia di Dio che è in pellegrinaggio con Dio, verso Dio, verso la casa definitiva e verso la “città nuova”. E qui possiamo essere ancora più concreti.Tutti i santuari, i grandi santuari del mondo, hanno offerto sempre a persone di nazioni diverse, di razze, di professioni diverse questa esperienza preziosa della casa nuova della famiglia comune di tutti i figli di Dio. Questa esperienza della casa però presuppone l’esperienza di un cammino, l’esperienza del pellegrinaggio. Il pellegrinaggio è una dimensione fondamentale dell’esistenza cristiana.Solo camminando, pellegrinando possiamo superare le frontiere delle nazioni, delle professioni, delle razze. Possiamo diventare uniti solo andando insieme verso Dio. Il significato di questo gemellaggio tra Loreto e Altötting si inserisce in questa realtà: ci dice lo stesso che dobbiamo andare insieme, dobbiamo divenire pellegrini dell’eterno, dobbiamo alzarci sempre di nuovo verso Dio, verso la pace divina, verso l’unità con Dio e la sua unica famiglia.

Joseph Ratzinger a Heinz-Lothar Barth: "Credo che a lungo termine la Chiesa romana debba avere di nuovo un solo rito romano"

SPECIALE: IL MOTU PROPRIO "SUMMORUM PONTIFICUM"

Lettera del 2003, dell'allora Card. Joseph Ratzinger, in cui sostiene, come teologo privato, che in futuro preferirebbe un solo Rito romano, più o meno come l'attuale Rito Extraordinario. Le decisioni del recente Motu proprio, intese a liberalizzare l'uso del Messale antico, potrebbero pertanto implicare che tale rito non deve essere solo eccezione.

Al dott. Heinz-Lothar Barth, 23 giugno 2003

Caro dottor Barth,

la ringrazio cordialmente per la sua lettera del 6 aprile cui trovo il tempo di rispondere solo ora. Lei mi chiede di attivarmi per una più ampia disponibilità del rito romano antico.In effetti, lei sa da sé che non sono sordo a tale richiesta. Nel contempo, il mio lavoro a favore di questa causa è ben noto.

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Al quesito se la Santa Sede «riammetterà l’antico rito ovunque e senza restrizioni», come lei desidera e ha udito mormorare, non si può rispondere semplicemente o fornire conferma senza qualche fatica.È ancora troppo grande l’avversione di molti cattolici, insinuata in essi per molti anni, contro la liturgia tradizionale che con sdegno chiamano «preconciliare». E si dovrebbe fare i conti con la considerevole resistenza da parte di molti vescovi contro una riammissione generale. Diverso è tuttavia pensare a una riammissione limitata. La stessa domanda verso l’antica liturgia è limitata.So che il suo valore, naturalmente, non dipende dalla domanda nei suoi confronti, ma la questione del numero di sacerdoti e laici interessati, ciononostante, gioca un certo ruolo. Oltre a ciò, una tale misura, a soli 30 anni dalla riforma liturgica di Paolo VI, può essere attuata solo per gradi.Qualunque ulteriore fretta non sarebbe di sicuro buona cosa.Credo tuttavia, che a lungo termine la Chiesa romana deve avere di nuovo un solo rito romano. L’esistenza di due riti ufficiali per I vescovi e per i preti è difficile da «gestire» in pratica. Il rito romano del futuro dovrebbe essere uno solo, celebrato in latino o in vernacolo, ma completamente nella tradizione del rito che è stato tramandato. Esso potrebbe assumere qualche elemento nuovo che si è sperimentato valido, come le nuove feste, alcuni nuovi prefazi della Messa, un lezionario esteso – più scelta di prima, ma non troppa –, una «oratio fidelium», cioè una litania fissa di intercessioni che segue gli Oremus prima dell’offertorio dove aveva prima la sua collocazione.Caro dott. Barth, se lei si impegnerà a lavorare per la causa della liturgia in questa maniera», sicuramente non si troverà solo, e preparerà «l’opinione pubblica ecclesiale» a eventuali misure in favore di un uso esteso dei libri liturgici di prima.Tuttavia bisogna essere attenti a non risvegliare aspettative troppo alte o massimali tra i fedeli tradizionali.Colgo l’occasione per ringraziarla del suo apprezzabile impegno per la liturgia della Chiesa romana nei suoi libri e nelle sue lezioni, anche se qua e là desidererei ancora più carità e comprensione verso il magistero del papa e dei vescovi. Possa il seme da lei seminato germinare e portare molto frutto per la rinnovata vita della Chiesa la cui «sorgente e culmine», davvero il suo vero cuore, è e deve rimanere la liturgia.Con piacere le impartisco la benedizione che lei ha domandato. Saluti sinceri.

+ Joseph Cardinal Ratzinger

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"La direzione ultima dell’azione liturgica, mai totalmente espressa nelle forme esterne, è la stessa per il sacerdote e il popolo: verso il Signore"

Uwe Michael Lang, "Rivolti al Signore. L'orientamento nella preghiera liturgica", Cantagalli 2008

«La direzione ultima dell’azione liturgica, mai totalmente espressa nelle forme esterne, è la stessa per il sacerdote e il popolo: verso il Signore».

L’introduzione del decano del Sacro Collegio al libro di Uwe Michael Lang

del cardinale Joseph Ratzinger

Al cattolico praticante normale due appaiono i risultati più evidenti della riforma liturgica del Concilio Vaticano II: la scomparsa della lingua latina e l’altare orientato verso il popolo. Chi legge i testi conciliari potrà constatare con stupore che né l’una né l’altra cosa si trovano in essi in questa forma.Certo, alla lingua volgare si sarebbe dovuto dare spazio, secondo le intenzioni del Concilio (cfr. Sacrosanctum Concilium 36,2) – soprattutto nell’ambito della liturgia della Parola – ma, nel testo conciliare, la norma generale immediatamente precedente recita: «L’uso della lingua latina, salvo un diritto particolare, sia conservato nei riti latini» (Sacrosanctum Concilium 36,1). Dell’orientamento dell’altare verso il popolo non si fa parola nel testo conciliare. Se ne fa parola in istruzioni postconciliari. La più importante di esse è la Institutio generalis Missalis Romani, l’Introduzione generale al nuovo Messale romano del 1969, dove al numero 262 si legge: «L’altare maggiore deve essere costruito staccato dal muro, in modo che si possa facilmente girare intorno ad esso e celebrare, su di esso, verso il popolo [versus populum]». L’introduzione alla nuova edizione del Messale romano del 2002 ha ripreso questo testo alla lettera, ma alla fine ha fatto la seguente aggiunta: «è auspicabile laddove è possibile». Questa aggiunta è stata letta da molte parti come un irrigidimento del testo del 1969, nel senso che adesso ci sarebbe un obbligo generale di costruire – «laddove possibile» – gli altari rivolti verso il popolo. Questa interpretazione, però, era stata respinta dalla competente Congregazione per il Culto divino già in data 25 settembre 2000, quando spiegò che la parola «expedit» [è auspicabile] non esprime un obbligo ma una raccomandazione. L’orientamento fisico dovrebbe – così dice la Congregazione – essere distinto da quello spirituale.

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Quando il sacerdote celebra versus populum, il suo orientamento spirituale dovrebbe essere comunque sempre versus Deum per Iesum Christum [verso Dio attraverso Gesù Cristo]. Siccome riti, segni, simboli e parole non possono mai esaurire la realtà ultima del mistero della salvezza, si devono evitare posizioni unilaterali e assolutizzanti al riguardo.Un chiarimento importante, questo, perché mette in luce il carattere relativo delle forme simboliche esterne, opponendosi così ai fanatismi che purtroppo negli ultimi quarant’anni non sono stati infrequenti nel dibattito attorno alla liturgia. Ma allo stesso tempo illumina anche la direzione ultima dell’azione liturgica, mai totalmente espressa nelle forme esterne e che è la stessa per sacerdote e popolo (verso il Signore: verso il Padre attraverso Cristo nello Spirito Santo). La risposta della Congregazione dovrebbe perciò creare anche un clima più disteso per la discussione; un clima nel quale si possano cercare i modi migliori per la pratica attuazione del mistero della salvezza, senza reciproche condanne, nell’ascolto attento degli altri, ma soprattutto nell’ascolto delle indicazioni ultime della stessa liturgia. Bollare frettolosamente certe posizioni come “preconciliari”, “reazionarie”, “conservatrici”, oppure “progressiste” o “estranee alla fede”, non dovrebbe più essere ammesso nel confronto, che dovrebbe piuttosto lasciare spazio ad un nuovo sincero comune impegno di compiere la volontà di Cristo nel miglior modo possibile. Questo piccolo libro di Uwe Michael Lang, oratoriano residente in Inghilterra, analizza la questione dell’orientamento della preghiera liturgica dal punto di vista storico, teologico e pastorale. Ciò facendo, riaccende in un momento opportuno – mi sembra – un dibattito che, nonostante le apparenze, anche dopo il Concilio non è mai veramente cessato. Il liturgista di Innsbruck Josef Andreas Jungmann, che fu uno degli architetti della Costituzione sulla Sacra Liturgia del Vaticano II, si era opposto fermamente fin dall’inizio al polemico luogo comune secondo il quale il sacerdote, fino ad allora, avrebbe celebrato “voltando le spalle al popolo”. Jungmann aveva invece sottolineato che non si trattava di un voltare le spalle al popolo, ma di assumere il medesimo orientamento del popolo. La liturgia della Parola ha carattere di proclamazione e di dialogo: è rivolgere la parola e rispondere, e deve essere, di conseguenza, il reciproco rivolgersi di chi proclama verso chi ascolta e viceversa. La preghiera eucaristica, invece, è la preghiera nella quale il sacerdote funge da guida, ma è orientato, assieme al popolo e come il popolo, verso il Signore. Per questo – secondo Jungmann – la medesima direzione di sacerdote e popolo appartiene all’essenza dell’azione liturgica. Più tardi Louis Bouyer – anch’egli uno dei principali liturgisti del Concilio – e Klaus Gamber, ognuno a suo modo, ripresero la questione. Nonostante la loro grande autorità, ebbero fin dall’inizio qualche problema nel farsi ascoltare, così forte era la tendenza a mettere in risalto l’elemento comunitario della celebrazione liturgica e a considerare perciò sacerdote e popolo reciprocamente rivolti l’uno verso l’altro.

Graduale del Capitolo di Santa Maria Maggiore, XVI secolo, Basilica di Santa Maria Maggiore, Roma

Soltanto recentemente il clima si è fatto più disteso e così, su chi pone domande come quelle di Jungmann, di Bouyer e di Gamber, non scatta più il sospetto che nutra sentimenti “anticonciliari”. I progressi della ricerca storica hanno reso il dibattito più oggettivo, e i fedeli sempre più intuiscono la discutibilità di una soluzione in cui si avverte a malapena l’apertura della liturgia verso ciò che l’attende e verso ciò che la trascende. In questa situazione, il libro di Uwe Michael Lang, così piacevolmente oggettivo e niente affatto polemico, può rivelarsi un aiuto prezioso. Senza la pretesa di presentare nuove scoperte, offre i risultati delle ricerche degli ultimi decenni con grande cura, fornendo le informazioni necessarie per poter giungere a un giudizio obiettivo. Molto apprezzabile è il fatto che viene evidenziato, a tale riguardo, non solo il contributo, poco conosciuto in Germania, della Chiesa d’Inghilterra, ma anche il relativo dibattito, interno al Movimento di Oxford

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nell’Ottocento, nel cui contesto maturò la conversione di John Henry Newman. È su questa base che vengono sviluppate poi le risposte teologiche.Spero che questo libro di un giovane studioso possa rivelarsi un aiuto nello sforzo – necessario per ogni generazione – di comprendere correttamente e di celebrare degnamente la liturgia. Il mio augurio è che possa trovare tanti attenti lettori.

\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\Card. Ratzinger: Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana (1990)

MEETING 30/ Ratzinger: la Chiesa, una compagnia sempre riformandaRedazione giovedì 13 agosto 2009

(Joseph Ratzinger, Meeting di Rimini 1990)

Cari amici,

grazie per questa accoglienza così calorosa; conoscete il titolo della mia conferenza: "Una compagnia sempre riformanda". Non c'è bisogno di molta immaginazione per indovinare che la compagnia di cui qui voglio parlare è la Chiesa. Forse si è evitato di menzionare nel titolo il termine "Chiesa", solo perché esso provoca spontaneamente, nella maggior parte degli uomini di oggi, reazioni di difesa. Essi pensano: "Di Chiesa abbiamo già sentito parlare fin troppo e per lo più non si è trattato di niente di piacevole". La parola e la realtà della Chiesa sono cadute in discredito. E perciò anche una simile riforma permanente non sembra poter cambiare qualcosa. O forse il problema è solamente che finora non è stato scoperto il tipo di riforma che potrebbe fare della Chiesa una compagnia che valga davvero la pena di essere vissuta?Ma chiediamoci innanzitutto: perché la Chiesa riesce sgradita a così tante persone, e addirittura anche a credenti, anche a persone che fino a ieri potevano essere annoverate tra le più fedeli o che, pur tra sofferenze, lo sono in qualche modo ancora oggi? I motivi sono tra loro molto diversi, anzi opposti, a seconda delle posizioni. Alcuni soffrono perché la Chiesa si è troppo adeguata ai parametri del mondo d'oggi; altri sono infastiditi perché ne resta ancora troppo estranea. Per la maggior parte della gente, la scontentezza nei confronti della Chiesa comincia col fatto che essa è un'istituzione come tante altre, e che come tale limita la mia libertà. La sete di libertà è la forma in cui oggi si esprimono il desiderio di liberazione e la percezione di non essere liberi, di essere alienati.L'invocazione di libertà aspira ad un'esistenza che non sia limitata da ciò che è già dato e che mi ostacola nel mio pieno sviluppo, presentandomi dal di fuori la strada che io dovrei percorrere. Ma dappertutto andiamo a sbattere contro barriere e blocchi stradali di questo genere, che ci fermano impedendoci di andare oltre. Gli sbarramenti che la Chiesa innalza si presentano quindi come doppiamente pesanti, poiché penetrano fin nella sfera più personale e più intima. Le norme di vita della Chiesa sono infatti ben di più che una specie di regole del traffico, affinché la convivenza umana eviti il più possibile gli scontri. Esse riguardano il mio cammino interiore, e mi dicono come devo comprendere e configurare la mia libertà. Esse esigono da me decisioni, che non si possono prendere senza il dolore della rinuncia. Non si vuole forse negarci i frutti più belli del giardino della vita? Non è forse

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vero che con la ristrettezza di così tanti comandi e divieti ci viene sbarrata la strada di un orizzonte aperto? E il pensiero, non viene forse ostacolato nella sua grandezza, come pure la volontà? Non deve forse la liberazione essere necessariamente l'uscita da una simile tutela spirituale? E l'unica vera riforma, non sarebbe forse quella di respingere tutto ciò? Ma allora cosa rimane ancora di questa compagnia?L'amarezza contro la Chiesa ha però anche un motivo specifico. Infatti, in mezzo ad un mondo governato da dura disciplina e da inesorabili costrizioni, si leva verso la Chiesa ancora e sempre una silenziosa speranza: essa potrebbe rappresentare in tutto ciò come una piccola isola di vita migliore, una piccola oasi di libertà, in cui di tanto in tanto ci si può ritirare. L'ira contro la Chiesa o la delusione nei suoi confronti hanno perciò un carattere particolare, poiché silenziosamente ci si attende da essa di più che da altre istituzioni mondane. In essa si dovrebbe realizzare il sogno di un mondo migliore. Quanto meno, si vorrebbe assaporare in essa il gusto della libertà, dell'essere liberati: quell'uscir fuori dalla caverna, di cui parla Gregorio Magno ricollegandosi a Platone.Tuttavia, dal momento che la Chiesa nel suo aspetto concreto si è talmente allontanata da simili sogni, assumendo anch'essa il sapore di una istituzione e di tutto ciò che è umano, contro di essa sale una collera particolarmente amara. E questa collera non può venir meno, proprio poiché non si può estinguere quel sogno che ci aveva rivolti con speranza verso di essa. Siccome la Chiesa non è così come appare nei sogni, si cerca disperatamente di renderla come la si desidererebbe: un luogo in cui si possano esprimere tutte le libertà, uno spazio dove siano abbattuti i nostri limiti, dove si sperimenti quell'utopia che ci dovrà pur essere da qualche parte. Come nel campo dell'azione politica si vorrebbe finalmente costruire il mondo migliore, così si pensa, si dovrebbe finalmente (magari come prima tappa sulla via verso di esso) metter su anche la Chiesa migliore: una Chiesa di piena umanità, piena di senso fraterno, di generosa creatività, una dimora di riconciliazione di tutto e per tutti.

Riforma inutile

Ma in che modo dovrebbe accadere questo? Come può riuscire una simile riforma? Orbene; dobbiamo pur cominciare, si dice. Lo si dice spesso con l'ingenua presunzione dell'illuminato, il quale è convinto che le generazioni fino ad ora non abbiano ben compreso la questione, oppure che siano state troppo timorose e poco illuminate; noi però abbiamo ora finalmente nello stesso tempo sia il coraggio che l'intelligenza. Per quanta resistenza possano opporre i reazionari e i "fondamentalisti" a questa nobile impresa, essa deve venir posta in opera. Almeno c'è una ricetta oltremodo illuminante per il primo passo. La Chiesa non è una democrazia. Da quanto appare, essa non ha ancora integrato nella sua costituzione interna quel patrimonio di diritti della libertà che l'Illuminismo ha elaborato e che da allora è stato riconosciuto come regola fondamentale delle formazioni sociali e politiche. Così sembra la cosa più normale del mondo recuperare una buona volta quanto era stato trascurato e cominciare coll'erigere questo patrimonio fondamentale di strutture di libertà. Il cammino conduce - come si suol dire - da una Chiesa paternalistica e distributrice di beni ad una Chiesa-comunità.Si dice che nessuno più dovrebbe rimanere passivo ricevitore dei doni che fanno esser cristiano. Tutti devono invece diventare attivi operatori della vita cristiana. La Chiesa non deve più venir calata giù dall'alto. No! Siamo noi che "facciamo" la Chiesa, e la facciamo sempre nuova. Così essa diverrà finalmente la "nostra" Chiesa, e noi i suoi attivi soggetti responsabili. L'aspetto passivo cede a quello attivo.

La Chiesa sorge attraverso discussioni, accordi e decisioni. Nel dibattito emerge ciò che ancora oggi può esser richiesto, ciò che oggi può ancora essere riconosciuto da tutti come appartenente

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alla fede o come linea morale direttiva. Vengono coniate nuove "formule di fede" abbreviate.

In Germania, a un livello abbastanza elevato, è stato detto che anche la Liturgia non deve più corrispondere ad uno schema previo, già dato, ma deve sorgere invece sul posto, in una data situazione ad opera della comunità per cui viene celebrata.

Anche essa non deve più essere niente di già precostituito, ma invece qualcosa di fatto da sé, qualcosa che sia espressione di se stessi. Su questa via si rivela essere un pò di ostacolo, per lo più, la parola della Scrittura, alla quale però non si può rinunciare del tutto. Si deve allora affrontarla con molta libertà di scelta. Non sono molti però i testi che si lasciano impiegare in modo tale da adattarsi senza disturbi a quell'auto-realizzazione, alla quale la liturgia ora sembra essere destinata.In quest'opera di riforma, in cui ora finalmente anche nella Chiesa l'"autogestione" deve sostituire l'esser guidati da altri, sorgono però presto delle domande. Chi ha qui propriamente il diritto di prendere le decisioni? Su quale base ciò avviene? Nella democrazia politica, a questa domanda si risponde con il sistema della rappresentanza: nelle elezioni i singoli scelgono i loro rappresentanti, i quali prendono le decisioni per loro. Questo incarico è limitato nel tempo; è circoscritto anche contenutisticamente in grandi linee dal sistema partitico, e comprende solo quegli ambiti dell'azione politica che dalla Costituzione sono assegnati alle entità statali rappresentative. Anche a questo proposito rimangono delle questioni: la minoranza deve chinarsi alla maggioranza, e questa minoranza può essere molto grande. Inoltre, non è sempre garantito che il rappresentante che ho eletto agisca e parli davvero nel senso da me desiderato, cosicché anche la maggioranza vittoriosa, osservando le cose più da vicino, ancora una volta non può considerarsi affatto interamente come soggetto attivo dell'evento politico. Al contrario, essa deve accettare anche "decisioni prese da altri", onde perlomeno non mettere in pericolo il sistema nella sua interezza.Più importante per la nostra questione è però un problema generale. Tutto quello che gli uomini fanno, può anche essere annullato da altri. Tutto ciò che proviene da un gusto umano può non piacere ad altri. Tutto ciò che una maggioranza decide può venire abrogato da un'altra maggioranza.

Una Chiesa che riposi sulle decisioni di una maggioranza diventa una Chiesa puramente umana. Essa è ridotta al livello di ciò che è plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni ed opinioni. L'opinione sostituisce la fede. Ed effettivamente, nelle formule di fede coniate da sé che io conosco, il significato dell'espressione "credo" non va mai al di là del significato "noi pensiamo". La Chiesa fatta da sé ha alla fine il sapore del "se stessi", che agli altri "se stessi" non è mai gradito e ben presto rivela la propria piccolezza. Essa si è ritirata nell'ambito dell'empirico, e così si è dissolta anche come ideale sognato.

L'essenza della vera riforma

L'attivista, colui che vuole costruire tutto da sé, è il contrario di colui che ammira (l'"ammiratore"). Egli restringe l'ambito della propria ragione e perde così di vista il Mistero. Quanto più nella Chiesa si estende l'ambito delle cose decise da sé e fatte da sé, tanto più angusta essa diventa per noi tutti. In essa la dimensione grande, liberante, non è costituita da ciò che noi stessi facciamo, ma da quello che a noi tutti è donato. Quello che non proviene dal nostro volere e inventare, bensì è un precederci, un venire a noi di ciò che è inimmaginabile, di ciò che "è più grande del nostro cuore". La reformatio, quella che è necessaria in ogni tempo, non consiste nel fatto che noi possiamo rimodellarci sempre di nuovo la "nostra" Chiesa come più ci piace, che noi possiamo inventarla, bensì nel fatto che noi spazziamo via sempre nuovamente le nostre proprie costruzioni di sostegno, in favore della luce purissima che viene dall'alto e che è nello stesso tempo l'irruzione della pura libertà.

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Lasciatemi dire con un'immagine ciò che io intendo, un'immagine che ho trovato in Michelangelo, il quale riprende in questo da parte sua antiche concezioni della mistica e della filosofia cristiane. Con lo sguardo dell'artista, Michelangelo vedeva già nella pietra che gli stava davanti l'immagine-guida che nascostamente attendeva di venir liberata e messa in luce. Il compito dell'artista - secondo lui - era solo quello di toglier via ciò che ancora ricopriva l'immagine. Michelangelo concepiva l'autentica azione artistica come un riportare alla luce, un rimettere in libertà, non come un fare.La stessa idea applicata però all'ambito antropologico, si trovava già in san Bonaventura, il quale spiega il cammino attraverso cui l'uomo diviene autenticamente se stesso, prendendo lo spunto dal paragone con l'intagliatore di immagini, cioè con lo scultore. Lo scultore non fa qualcosa, dice il grande teologo francescano. La sua opera è invece una ablatio: essa consiste nell'eliminare, nel togliere via ciò che è inautentico. In questa maniera, attraverso la ablatio, emerge la nobilis forma, cioè la figura preziosa. Così anche l'uomo, affinché risplenda in lui l'immagine di Dio, deve soprattutto e prima di tutto accogliere quella purificazione, attraverso la quale lo scultore, cioè Dio, lo libera da tutte quelle scorie che oscurano l'aspetto autentico del suo essere, facendolo apparire solo come un blocco di pietra grossolano, mentre invece inabita in lui la forma divina.Se la intendiamo giustamente, possiamo trovare in questa immagine anche il modello guida per la riforma ecclesiale. Certo, la Chiesa avrà sempre bisogno di nuove strutture umane di sostegno, per poter parlare e operare ad ogni epoca storica. Tali istituzioni ecclesiastiche, con le loro configurazioni giuridiche, lungi dall'essere qualcosa di cattivo, sono al contrario, in un certo grado, semplicemente necessarie e indispensabili. Ma esse invecchiano, rischiano di presentarsi come la cosa più essenziale, e distolgono così lo sguardo da quanto è veramente essenziale. Per questo esse devono sempre di nuovo venir portate via, come impalcature divenute superflue. Riforma è sempre nuovamente una ablatio: un toglier via, affinché divenga visibile la nobilis forma, il volto della Sposa e insieme con esso anche il volto dello Sposo stesso, il Signore vivente. Una simile ablatio, una simile "teologia negativa", è una via verso un traguardo del tutto positivo. Solo così il Divino penetra, e solo così sorge una congregatio, un'assemblea, un raduno, una purificazione, quella comunità pura a cui aneliamo: una comunità in cui un "io" non sta più contro un altro "io", un "sé" contro un altro "sé". Piuttosto quel donarsi, quell'affidarsi con fiducia, che fa parte dell'amore, diventa il reciproco ricevere tutto il bene e tutto ciò che è puro. E così per ciascuno vale la parola del Padre generoso, il quale al figlio maggiore invidioso richiama alla memoria quanto costituisce il contenuto di ogni libertà e di ogni utopia realizzata: "Tutto ciò che è mio è tuo..." (Lc 15,31; cfr. Gv 17,1).La vera riforma è dunque una ablatio, che come tale diviene congregatio. Cerchiamo di afferrare in modo un pò più concreto quest'idea di fondo. In un primo approccio avevamo contrapposto all'attivista l'ammiratore, e ci eravamo espressi in favore di quest'ultimo. Ma che cosa esprime questa contrapposizione? L'attivista, colui che vuol sempre fare, pone la sua propria attività al di sopra di tutto. Ciò limita il suo orizzonte all'ambito del fattibile, di ciò che può diventare oggetto del suo fare. Propriamente parlando egli vede soltanto degli oggetti. Non è affatto in grado di percepire ciò che è più grande di lui, poiché ciò porrebbe un limite alla sua attività. Egli restringe il mondo a ciò che è empirico. L'uomo viene amputato. L'attivista si costruisce da solo una prigione, contro la quale poi egli stesso protesta ad alta voce.Invece l'autentico stupore è un "No" alla limitazione dentro ciò che è empirico, dentro ciò che è solamente l'aldiqua. Esso prepara l'uomo all'atto della fede, che gli spalanca d'innanzi l'orizzonte dell'Eterno, dell'Infinito. E solamente ciò che non ha limiti è sufficientemente ampio per la nostra natura, solamente l'illimitato è adeguato alla vocazione del nostro essere. Dove questo orizzonte scompare, ogni residuo di libertà diventa troppo piccolo e tutte le liberazioni, che di conseguenza possono venir proposte, sono un insipido surrogato, che non basta mai. La prima, fondamentale ablatio, che è

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necessaria per la Chiesa, è sempre nuovamente l'atto della fede stessa. Quell'atto di fede che lacera le barriere del finito e apre così lo spazio per giungere sino allo sconfinato. La fede ci conduce "lontano, in terre sconfinate", come dicono i Salmi. Il moderno pensiero scientifico ci ha sempre più rinchiusi nel carcere del positivismo, condannandoci così al pragmatismo.Per merito suo si possono raggiungere molte cose; si può viaggiare fin sulla luna e ancora più lontano, nell'illimitatezza del cosmo. Tuttavia, nonostante questo, si rimane sempre allo stesso punto, perché la vera e propria frontiera, la frontiera del quantitativo e del fattibile, non viene oltrepassata. Albert Camus ha descritto l'assurdità di questa forma di libertà nella figura dell'imperatore Caligola: tutto è a sua disposizione, ma ogni cosa gli è troppo stretta. Nella sua folle bramosia di avere sempre di più, e cose sempre più grandi, egli grida: Voglio avere la luna, datemi la luna! Ora, nel frattempo, è divenuto per noi possibile avere in qualche modo anche la luna. Ma finché non si apre la vera e propria frontiera, la frontiera fra terra e cielo, tra Dio e il mondo, anche la luna è solamente un ulteriore pezzetto di terra, e il raggiungerla non ci porta neanche di un passo più vicini alla libertà e alla pienezza che desideriamo.La fondamentale liberazione che la Chiesa può darci è lo stare nell'orizzonte dell'Eterno, è l'uscir fuori dai limiti del nostro sapere e del nostro potere. La fede stessa, in tutta la sua grandezza e ampiezza, è perciò sempre nuovamente la riforma essenziale di cui noi abbiamo bisogno; a partire da essa noi dobbiamo sempre di nuovo mettere alla prova quelle istituzioni che nella Chiesa noi stessi abbiamo fatto. Ciò significa che la Chiesa deve essere il ponte della fede, e che essa - specialmente nella sua vita associazionistica intramondana - non può divenire fine a se stessa. diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici elevati, l'idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in attività ecclesiali. Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica dell'attività, del darsi da fare; a ciascuno si cerca di assegnare un comitato o, in ogni caso, almeno un qualche impegno all'interno della Chiesa. In un qualche modo, così si pensa, ci deve sempre essere un'attività ecclesiale, si deve parlare della Chiesa o si deve fare qualcosa per essa o in essa.Ma uno specchio che riflette solamente se stesso non è più uno specchio; una finestra che invece di consentire uno sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo fra l'osservatore ed il mondo, ha perso il suo senso. Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente attività associazionistiche ecclesiali e tuttavia non sia affatto un cristiano. Può capitare invece che qualcun altro viva solo semplicemente della Parola e del Sacramento e pratichi l'amore che proviene dalla fede, senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, senza essersi mai occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza aver fatto parte di sinodi e senza aver votato in essi, e tuttavia egli è un vero cristiano.

Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana. E per questo tutto ciò che è fatto dall'uomo, all'interno della Chiesa, deve riconoscersi nel suo puro carattere di servizio e ritrarsi davanti a ciò che più conta e che è l'essenziale.

La libertà, che noi ci aspettiamo con ragione dalla Chiesa e nella Chiesa non si realizza per il fatto che noi introduciamo in essa il principio della maggioranza. Essa non dipende dal fatto che la maggioranza più ampia possibile prevalga sulla minoranza più esigua possibile. Essa dipende invece dal fatto che nessuno può imporre il suo proprio volere agli altri, bensì tutti si riconoscono legati alla parola e alla volontà dell'Unico, che è il nostro Signore e la nostra libertà.

Nella Chiesa l'atmosfera diventa angusta e soffocante se i portatori del ministero dimenticano che il Sacramento non è una spartizione di potere, ma è invece espropriazione di me stesso in favore di Colui, nella persona del quale io devo parlare ed agire.

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Dove alla sempre maggiore responsabilità corrisponde la sempre maggiore autoespropriazione, lì nessuno è schiavo dell'altro; lì domina il Signore e perciò vale il principio che: "Il Signore è lo Spirito. Dove però c'è lo Spirito del Signore ivi c'è la libertà" (2Cor 3, 17).Quanti più apparati noi costruiamo, siano anche i più moderni, tanto meno c'è spazio per lo Spirito, tanto meno c'è spazio per il Signore, e tanto meno c'è libertà. lo penso che noi dovremmo, sotto questo punto di vista, iniziare nella Chiesa a tutti i livelli un esame di coscienza senza riserve. A tutti i livelli questo esame di coscienza dovrebbe avere conseguenze assai concrete, e recare con sé una ablatio che lasci di nuovo trasparire il volto autentico della Chiesa. Esso potrebbe ridare a noi tutti il senso della libertà e del trovarsi a casa propria in maniera completamente nuova.

Morale, perdono ed espiazione: il centro personale della riforma

Guardiamo un attimo, prima di andare avanti, a quanto fin qui abbiamo messo in luce. Abbiamo parlato di un doppio "toglimento", di un atto di liberazione, che è un duplice atto: di purificazione e di rinnovamento. Da prima il discorso ha toccato la fede, che infrange le mura del finito e libera lo sguardo verso le dimensioni dell'Eterno, e non solo lo sguardo, ma anche la strada. La fede è infatti non soltanto riconoscere ma operare; non soltanto una frattura nel muro, ma una mano che salva, che tira fuori dalla caverna. Da ciò abbiamo tratto la conseguenza, per le Istituzioni, che l'essenziale ordinamento di fondo della Chiesa ha sì bisogno sempre di nuovi sviluppi concreti e di concrete configurazioni - affinché la sua vita si possa sviluppare in un tempo determinato - ma che però queste configurazioni non possono diventare la cosa essenziale. La Chiesa infatti non esiste allo scopo di tenerci occupati come una qualsiasi associazione intramondana e di conservarsi in vita essa stessa, ma esiste invece per divenire in noi tutti accesso alla vita eterna.Ora dobbiamo compiere un passo ulteriore, e applicare tutto questo non più al livello generale e oggettivo quale era finora, ma all'ambito personale. Infatti anche qui, nella sfera personale, è necessario un "toglimento" che ci liberi. Sul piano personale non è sempre e senz'altro la "forma preziosa", cioè l'immagine di Dio inscritta in noi, a balzare all'occhio. Come prima cosa noi vediamo invece soltanto l'immagine di Adamo, l'immagine dell'uomo non del tutto distrutto, ma pur sempre decaduto. Vediamo le incrostazioni di polvere e sporcizia, che si sono posate sopra l'immagine. Noi tutti abbiamo bisogno del vero Scultore, il quale toglie via ciò che deturpa l'immagine, abbiamo bisogno del perdono, che costituisce il nucleo di ogni vera riforma. Non è certamente un caso che nelle tre tappe decisive del formarsi della Chiesa, raccontate dai Vangeli, la remissione dei peccati giochi un ruolo essenziale.

C'è in primo luogo la consegna delle chiavi a Pietro. La potestà a lui conferita di legare e sciogliere, di aprire e chiudere, di cui qui si parla, è, nel suo nucleo, incarico di lasciar entrare, di accogliere in casa, di perdonare (Mt 16,19).

La stessa cosa si trova di nuovo nell'Ultima Cena, che inaugura la nuova comunità a partire dal corpo di Cristo e nel corpo di Cristo. Essa diviene possibile per il fatto che il Signore versa il suo sangue "per i molti, in remissione dei peccati" (Mt 26,28). Infine il Risorto, nella sua prima apparizione agli Undici, fonda la comunione della sua pace nel fatto che egli dona loro la potestà di perdonare (Gv 20,19-23). La Chiesa non è una comunità di coloro che "non hanno bisogno del medico", bensì una comunità di peccatori convertiti, che vivono della grazia del perdono, trasmettendola a loro volta ad altri.Se leggiamo con attenzione il Nuovo Testamento, scopriamo che il perdono non ha in sé niente di magico; esso però non è nemmeno un far finta di dimenticare, non è "un fare come se non", ma invece un processo di cambiamento del tutto reale, quale lo Scultore lo compie. Il toglier via la colpa rimuove davvero qualcosa; l'avvento del perdono in noi si mostra nel

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sopraggiungere della penitenza. Il perdono è in tal senso un processo attivo e passivo: la potente parola creatrice di Dio su di noi opera il dolore del cambiamento e diventa così un attivo trasformarsi. Perdono e penitenza, grazia e propria personale conversione non sono in contraddizione, ma sono invece due facce dell'unico e medesimo evento. Questa fusione di attività e passività esprime la forma essenziale dell'esistenza umana. Infatti tutto il nostro creare comincia con l'essere creati, con il nostro partecipare all'attività creatrice di Dio.Qui siamo giunti ad un punto veramente centrale: credo infatti che il nucleo della crisi spirituale del nostro tempo abbia le sue radici nell'oscurarsi della grazia del perdono. Notiamo però dapprima l'aspetto positivo del presente: la dimensione morale comincia nuovamente a poco a poco a venir tenuta in onore. Si riconosce, anzi è divenuto evidente, che ogni progresso tecnico è discutibile e ultimamente distruttivo, se ad esso non corrisponde una crescita morale. Si riconosce che non c'è riforma dell'uomo e dell'umanità senza un rinnovamento morale. Ma l'invocazione di moralità rimane alla fine senza energia, poiché i parametri si nascondono in una fitta nebbia di discussioni. In effetti l'uomo non può sopportare la pura e semplice morale, non può vivere di essa: essa diviene per lui una "legge", che provoca il desiderio di contraddirla e genera il peccato.Perciò là dove il perdono, il vero perdono pieno di efficacia, non viene riconosciuto o non vi si crede, la morale deve venir tratteggiata in modo tale che le condizioni del peccare per il singolo uomo non possano mai propriamente verificarsi. A grandi linee si può dire che l'odierna discussione morale tende a liberare gli uomini dalla colpa, facendo sì che non subentrino mai le condizioni della sua possibilità. Viene in mente la mordace frase di Pascal: "Ecce patres, qui tollunt peccata mundi!". Ecco i padri, che tolgono i peccati del mondo. Secondo questi "moralisti", non c'è semplicemente più alcuna colpa. Naturalmente, tuttavia, questa maniera di liberare il mondo dalla colpa è troppo a buon mercato. Dentro di loro, gli uomini così liberati sanno assai bene che tutto questo non è vero, che il peccato c'è, che essi stessi sono peccatori e che deve pur esserci una maniera effettiva di superare il peccato. Anche Gesù stesso non chiama infatti coloro che si sono già liberati da sé e che perciò - come essi ritengono - non hanno bisogno di Lui, ma chiama invece coloro che si sanno peccatori e che perciò hanno bisogno di Lui.La morale conserva la sua serietà solamente se c'è il perdono, un perdono reale, efficace; altrimenti essa ricade nel puro e vuoto condizionale. Ma il vero perdono c'è solo se c'è il "prezzo d'acquisto", l'"equivalente nello scambio", se la colpa è stata espiata, se esiste l'espiazione. La circolarità che esiste tra "morale - perdono -espiazione" non può essere spezzata; se manca un elemento cade anche tutto il resto. Dall'indivisa esistenza di questo circolo dipende se per l'uomo c'è redenzione oppure no. Nella Torah, nei cinque libri di Mosé, questi tre elementi sono indivisibilmente annodati l'uno all'altro e non è possibile perciò da questo centro compatto appartenente al Canone dell'Antico Testamento scorporare, alla maniera illuminista, una legge morale sempre valida, abbandonando tutto il resto alla storia passata. Questa modalità moralistica di attualizzazione dell'Antico Testamento finisce necessariamente in un fallimento; in questo punto preciso stava già l'errore di Pelagio, il quale ha oggi molti più seguaci di quanto non sembri a prima vista. Gesù ha invece adempiuto a tutta la Legge, non solamente ad una parte di essa e così l'ha rinnovata dalla base. Egli stesso, che ha patito espiando ogni colpa, è espiazione e perdono contemporaneamente, e perciò è anche l'unica sicura e sempre valida base della nostra morale.Non si può disgiungere la morale dalla cristologia, poiché non la si può separare dall'espiazione e dal perdono. In Cristo tutta quanta la Legge è adempiuta, e quindi la morale è diventata una vera, adempibile esigenza rivolta nei nostri confronti. A partire dal nucleo della fede, si apre così sempre di nuovo la via del rinnovamento per il singolo, per la Chiesa nel suo insieme e per l'umanità.

La sofferenza, il martirio e la gioia della Redenzione

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Su questo ci sarebbe ora molto da dire. Cercherò però solo, molto brevemente, di accennare come conclusione, ancora a ciò che nel nostro contesto mi appare come la cosa più importante. Il perdono e la sua realizzazione in me, attraverso la via della penitenza e della sequela, è in primo luogo il centro del tutto personale di ogni rinnovamento. Ma proprio perché il perdono concerne la persona nel suo nucleo più intimo, esso è in grado di raccogliere in unità, ed è anche il centro del rinnovamento della comunità.Se infatti vengono tolte via da me la polvere e la sporcizia, che rendono irriconoscibile in me l'immagine di Dio, allora in tal modo io divengo davvero anche simile all'altro, il quale è anche lui immagine di Dio, e soprattutto io divengo simile a Cristo, che è l'immagine di Dio senza limite alcuno, il modello secondo il quale noi tutti siamo stati creati. Paolo esprime questo processo in termini assai drastici: "La vecchia immagine è passata, ecco ne è sorta una nuova; non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20). Si tratta di un processo di morte e di nascita. Io sono strappato al mio isolamento e sono accolto in una nuova comunità-soggetto; il mio "io" è inserito nell`io" di Cristo e così è unito a quello di tutti i miei fratelli. Solamente a partire da questa profondità di rinnovamento del singolo nasce la Chiesa, nasce la comunità che unisce e sostiene in vita e in morte. Solamente quando prendiamo in considerazione tutto ciò, vediamo la Chiesa nel suo giusto ordine di grandezza.La Chiesa: essa non è soltanto il piccolo gruppo degli attivisti che si trovano insieme in un certo luogo per dare avvio ad una vita comunitaria. La Chiesa non è nemmeno semplicemente la grande schiera di coloro che alla domenica si radunano insieme per celebrare l'Eucarestia.

E infine, la Chiesa è anche di più che Papa, vescovi e preti, di coloro che sono investiti del ministero sacramentale. Tutti costoro che abbiamo nominato fanno parte della Chiesa, ma il raggio della compagnia in cui entriamo mediante la fede, va più in là, va persino al di là della morte. Di essa fanno parte tutti i Santi, a partire da Abele e da Abramo e da tutti i testimoni della speranza di cui racconta l'Antico Testamento, passando attraverso Maria, la Madre del Signore, e i suoi apostoli, attraverso Thomas Becket e Tommaso Moro, per giungere fino a Massimiliano Kolbe, a Edith Stein, a Piergiorgio Frassati. Di essa fanno parte tutti gli sconosciuti e i non nominati, la cui fede nessuno conobbe tranne Dio; di essa fanno parte gli uomini di tutti i luoghi e tutti i tempi, il cui cuore si protende sperando e amando verso Cristo, "l'autore e perfezionatore della fede", come lo chiama la lettera agli Ebrei (12,2).Non sono le maggioranze occasionali che si formano qui o là nella Chiesa a decidere il suo e il nostro cammino. Essi, i Santi, sono la vera, determinante maggioranza secondo la quale noi ci orientiamo. Ad essa noi ci atteniamo! Essi traducono il divino nell'umano, l'eterno nel tempo. Essi sono i nostri maestri di umanità, che non ci abbandonano nemmeno nel dolore e nella solitudine, anzi anche nell'ora della morte camminano al nostro fianco.Qui noi tocchiamo qualcosa di molto importante. Una visione del mondo che non può dare un senso anche al dolore e renderlo prezioso non serve a niente. Essa fallisce proprio là dove fa la sua comparsa la questione decisiva dell'esistenza. Coloro che sul dolore non hanno nient'altro da dire se non che si deve combatterlo, ci ingannano. Certamente bisogna fare di tutto per alleviare il dolore di tanti innocenti e per limitare la sofferenza. Ma una vita umana senza dolore non c'è, e chi non è capace di accettare il dolore, si sottrae a quelle purificazioni che sole ci fanno diventar maturi.Nella comunione con Cristo il dolore diventa pieno di significato, non solo per me stesso, come processo di ablatio, in cui Dio toglie da me le scorie che oscurano la sua immagine, ma anche al di là di me stesso esso è utile per il tutto, cosicché noi tutti possiamo dire con San Paolo: "Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo Corpo che è la Chiesa" (Col 1,24). Thomas Becket, che insieme con l'Ammiratore e con Einstein ci ha guidato nelle riflessioni di questi giorni, ci incoraggia ancora ad un ultimo passo. La vita va più in là della nostra esistenza biologica. Dove non c'è più motivo per cui vale la pena morire, là anche la vita non val più la pena.

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Dove la fede ci ha aperto lo sguardo e ci ha reso il cuore più grande, ecco che qui acquista tutta la sua forza di illuminazione anche quest'altra frase di San Paolo: "Nessuno di noi vive per se stesso, e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore" (Rom 14,7-8). Quanto più noi siamo radicati nella compagnia con Gesù Cristo e con tutti coloro che a Lui appartengono, tanto più la nostra vita sarà sostenuta da quella irradiante fiducia cui ancora una volta San Paolo ha dato espressione: "Di questo io sono certo: né morte né vita, né angeli né potestà, né presente né futuro, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù nostro Signore" (Rom 8,38-39).Cari amici, da simile fede noi dobbiamo lasciarci riempire! Allora la Chiesa cresce come comunione nel cammino verso e dentro la vera vita, e allora essa si rinnova di giorno in giorno. Allora essa diventa la grande casa con tante dimore; allora la molteplicità dei doni dello Spirito può operare in essa. Allora noi vedremo "com'è buono e bello che i fratelli vivano insieme. E' come rugiada dell'Ermon, che scende sul monte di Sion; là il Signore dona benedizione e vita in eterno" (Sal 133,1.3).

(Joseph Ratzinger, Meeting di Rimini 1990)

Card. Ratzinger: La libertà non può essere arbitrarietà, ma ha bisogno dell'ordinamento delle libertà e dell'osservanza delle sue regole (2002)

Intervista al cardinal Ratzinger

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Uscita nel volume AA. VV., Il monoteismo. Annuario di filosofia 2002, Mondadori, Milano 2002.

La religione tra moderno e postmoderno

(a cura di Vittorio Possenti)

1) Quali mutamenti è possibile diagnosticare nel passaggio d'epoca, di cui è segno il nuovo millennio, nell'ambito delle religioni mondiali e in particolare nel cristianesimo?

Oggi tutte le grandi religioni mondiali stanno vivendo un processo di profonde fusioni, trasformazioni e crisi. Nel XIX secolo si era giunti per la prima volta a un intenso contatto fra il cristianesimo e le religioni dell'India. Esso ha portato al fenomeno sfaccettato del neoinduismo, a una nuova interpretazione dell'eredità spirituale indiana, che accoglie sollecitazioni del cristianesimo, ma che proprio così facendo vuole conservare la sua identità e consolidarla di fronte alla religione cristiana. Il fenomeno più saliente a cui si assiste è l'assunzione dell'universalismo cristiano, e dunque della spinta missionaria, da parte dell'induismo; universalismo che fino a ora era del tutto estraneo alla religione induista. In questa prospettiva la propria particolare religione viene vissuta come se fosse universale: la radice mistica della religione indiana sarebbe ciò che veramente accomuna e abbraccia tutto, ciò in cui tutte le singole espressioni religiose troverebbero la loro dimora. La consapevolezza che dietro a tutte le forme di religiosità si nasconda l'Uno ineffabile, in cui noi tutti siamo identici a Dio, si congiunge oggi con il relativismo occidentale ed esercita, a partire da qui, una particolare forza d'attrazione. Qualcosa di simile si potrebbe dire circa gli sviluppi del buddhismo, il cui concetto di compassione viene avvicinato a quello dell'amore cristiano, intendendo così di nuovo evidenziare l'identità ultima delle religioni. Tuttavia alle tendenze universalistiche si contrappongono anche reazioni particolaristiche, che vogliono consapevolmente racchiudere entro ben definiti confini ciò che è estraneo, che intendono affermare la propria identità e che rifiutano il cristianesimo in quanto estraneo e l'attività missionaria in quanto imperialismo religioso. Inoltre è presente in tutto il mondo una tendenza alla politicizzazione della religione: la sua universalità consisterebbe, in definitiva, nel suo utilizzo a fini politici per difendere la giustizia, la pace e per preservare la creazione. Ben vengano questi obiettivi! Ma là dove la religione viene misurata secondo i suoi scopi e secondo la sua utilità nella politica mondiale, la si distrugge dall'interno. A ciò è collegata la tendenza all'universalizzazione della teologia della liberazione. Al buddhismo, in primo luogo, nulla è così estraneo quanto l'idea di cambiare il mondo e di dare un nuovo assetto alle istituzioni mondane. Ma sulla via che conduce a una diversa interpretazione dell'idea di compassione K.N. Jayatilleke, per esempio, è potuto giungere fino al punto di spiegare la democratizzazione della società come una esigenza insita nel buddhismo. Non stupisce allora che nella situazione in cui si trovava il Medio Oriente potessero nascere teologie della liberazione di impronta islamica. Si tratta di un fenomeno marginale nel processo della rinascita dell'islam. Anche questo processo è molto stratificato e non sarebbe concepibile senza il contatto con il cristianesimo. Esso trae vantaggio soprattutto dalla povertà della fede dei cristiani, dal predominio di filosofie radicalmente secolariste nel mondo occidentale, da cui il sentimento religioso dei popoli islamici prende le distanze: il cristianesimo sembra aver perso la sua forza vitale, e ciò fa sì che si faccia sentire ancora di più la forza religiosa dell'islam. In questi processi la componente politica è rilevante, tanto più che per l'islam l'elemento politico non è comunque scindibile da quello religioso. Tuttavia bisognerebbe guardarsi dall'interpretare tutto questo solo in chiave politica misconoscendone la forza religiosa, tutt'altro che assente. Il disgregamento del cristianesimo a opera del pensiero secolarista ha portato in Occidente a nuove forme di religiosità, che si celano dietro la cangiante etichetta di "New Age". Non si cerca la fede ma l'esperienza religiosa, si va alla ricerca dei sentieri che conducono all'unione "mistica", e in tal modo si giunge anche a una riscoperta delle religioni precristiane, si assiste a un ritorno di dèi e riti precristiani. La

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madre terra e il padre sole, se considerati insieme, corrispondono alle idee egualitaristiche dell'epoca più che la fede nel Dio unico; le immagini mitiche sono in auge e i rituali semimagici appaiono più promettenti della sobria ebbrezza della liturgia cristiana, per non parlare delle sue atrofizzazioni razionalistiche dei tempi recenti.

Siamo così giunti al cristianesimo. Si possono subito riconoscere due tendenze fondamentali che si contrappongono reciprocamente: da un lato i tentativi di un proseguimento sul cammino della razionalizzazione e di un adeguamento, il più completo possibile, ai moderni standard di vita. Questi conformismi non conducono però per loro natura a un rafforzamento del vincolo religioso, ma alla sua progressiva dissoluzione. Un cristianesimo che va d'accordo con tutto e che è compatibile con tutto è superfluo. Del resto nei razionalismi estremi è sempre incombente il rovesciamento nel mito, che non ha bisogno di una giustificazione razionale, bensì rappresenta un irrazionale programma aggiunto per la realizzazione della concezione secolarista del mondo. Dall'altro lato si hanno risvegli della fede di rinnovata intensità, che all'interno della Chiesa si manifestano nei movimenti religiosi, mentre al di fuori di essa assumono forme ecclesiali autonome. Ciò che più salta agli occhi è la rapida crescita delle Chiese pentecostali, che mostrano fervore religioso, fede salda e nel contempo un interesse relativamente scarno per le questioni di carattere istituzionale; quello che contraddistingue i pentecostali è il forte risalto dato all'esperienza religiosa. Grande successo hanno le cosiddette comunità fondamentaliste, che sono caratterizzate da una chiara professione di fede e da nette delimitazioni di confini nei confronti del mondo secolare. Chi crede vuole sapere in che cosa crede e perché crede; cerca fermezza, decisione e un percorso chiaro. Tutti questi fenomeni, naturalmente, si possono osservare anche nella Chiesa cattolica. Diventa sempre più evidente come l'adeguamento progressivo, il continuo confondersi dei tratti essenziali della fede, non apra alcuna via verso il futuro. Per la Chiesa cattolica è importante possedere una chiara consapevolezza della sua universalità, sia nella prospettiva sincronica sia in quella diacronica: essa unisce uomini e culture di tutti i luoghi e di tutti i tempi. La Chiesa cattolica è una forza che unisce in un mondo minacciato dai particolarismi. Questo nel contempo sta a significare il suo carattere metapolitico: in se stessa la Chiesa non è uno strumento politico, la fede ha il suo ambito proprio, che costituisce un correttivo di tutto ciò che è politico e contemporaneamente è forza morale per la sua giusta configurazione. In definitiva, la fede dà all'essere umano i contenuti essenziali sul suo "da dove" e sul suo "verso dove": una certezza che ci accomuna e ci sostiene durante la vita e al momento della morte. Tale fede da un lato è aperta alla ragione; l'apertura nei confronti della ragione e la responsabilità verso di essa è essenziale per la fede. Ma la fede conferisce alla ragione anche un'ampiezza di orizzonti e una certezza che la ragione, proprio nelle domande essenziali dell'esser-uomo, da sé sola non può avere e che ci conduce oltre la sola ratio, verso la profondità dell'intellectus (per riprendere una distinzione dei Padri e del Medioevo), dischiudendo anche la dimensione della mistica, del contatto dell'anima da parte del Dio vivente.

2) Dopo il declino della critica, lungamente sollevata, secondo cui la religione varrebbe come oppio dei popoli, quali interrogativi e problemi verosimilmente interpellano con maggior vigore la coscienza umana e religiosa del XXI secolo?

È difficile fare previsioni, perché potrebbero sempre entrare in scena improvvisi cambiamenti della coscienza storica. All'inizio del XX secolo chi avrebbe potuto prevedere che negli anni Venti il liberalismo sarebbe stato improvvisamente considerato una ideologia borghese ormai superata, al cui posto erano subentrati l'esistenzialismo, la filosofia dei valori e nuovi abbozzi della metafisica? All'inizio degli anni Sessanta chi avrebbe potuto prevedere che nel 1968 sarebbe sopraggiunta una svolta che a sua volta rigettava l'esistenzialismo come filosofia borghese e invece implicava di

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rivolgersi con passione al marxismo? Allo stesso modo anche noi oggi non possiamo prevedere i possibili cambiamenti della coscienza collettiva. Come appare dalla situazione attuale, ci saranno da un lato una riabilitazione del mito e delle forme di religiosità di impronta mitica, in cui l'essere umano cerca l'esperienza della comunità, dell'unità di anima e corpo, dell'unitotalità e la fuoriuscita dai vincoli del mondo della tecnica come momenti di libertà, di oblio, in sintesi di felicità. A tale riguardo potrebbe ulteriormente aumentare la frattura fra il mondo del razionale e i mondi dell'esperienza irrazionale. Ciò significherebbe poi in ambito filosofico un ulteriore allontanamento dalla metafisica e un consolidamento del dominio del positivismo come unica forma della razionalità, per cui la capacità di comprendere che cosa sia la ragione e che cosa sia razionale si riduce sempre più. Ma vedo anche possibili nuovi risvegli della fede cristiana, di una cattolicità viva, e da ciò giungeranno anche nuovi impulsi per la filosofia. Come negli anni Venti del secolo scorso la fenomenologia husserliana all'improvviso aveva aperto le porte per un rinnovamento della metafisica e il personalismo aveva mutato il quadro della filosofia, così una fede rinnovata aprirà di nuovo alla filosofia le porte delle domande primigenie dell'essere umano - domande fondamentali e mai risolte - sulla sua origine e il suo futuro, sulla vita e la morte, su Dio e l'eternità.

3) Il liberalismo filosofico, di cui è nota la considerevole diffusione ai vari livelli della cultura occidentale, continua a sostenere che il primo e fondamentale "bisogno umano" debba ravvisarsi nella libertà. Considerando questo assunto, si fa strada la riflessione se non siano presenti nell'uomo bisogni, domande, esigenze almeno (e forse più) fondamentali di quello vertente sulla libertà, la quale dal liberalismo filosofico è intesa solo come libertà di scelta. Non sembra questa una seria restrizione del problema?

In effetti ci troviamo di fronte a una pericolosa unilateralizzazione delle domande fondamentali sull'esistenza umana. Il concetto stesso di libertà viene ridotto indebitamente. In generale il concetto di libertà non solo è ridotto a quello di libertà di scelta, ma è anche concepito da un punto di vista esclusivamente individualistico; per fare un esempio, nel senso in cui una volta era stato formulato dal giovane Marx: La libertà consiste "nel fare oggi questo, domani quello... proprio a seconda di come ne ho voglia". Ma in tal modo si dimentica che l'umanità ci è data solo nel nostro essere l'uno con l'altro e che la mia libertà può funzionare solo in unione con la libertà degli altri. Siamo collegati l'un l'altro in un sistema di prestazioni reciproche: solo così nutrimento, salute, lavoro e tempo libero possono essere assicurati. La mia libertà è sempre una libertà dipendente, una libertà con gli altri e attraverso gli altri. Senza la sinergia con le altre libertà, la mia libertà annienta se stessa. Dunque, la libertà in primo luogo deve tener conto del reciproco essere l'uno con l'altro. Non può essere arbitrarietà, ma ha bisogno dell'ordinamento delle libertà e dell'osservanza delle sue regole. Se così è, segue subito la duplice domanda: chi stabilisce queste regole? E qual è il criterio secondo cui vengono istituite? Alla prima domanda oggi rispondiamo rinviando alla democrazia come forma regolatrice delle libertà, e ciò è giusto. Tuttavia rimane la seconda domanda, perché devono pur esserci dei criteri per il giusto ordinamento delle libertà. Ora, noi diciamo: è la maggioranza che decide. Ma ci possono anche essere maggioranze malate, e il secolo scorso lo ha dimostrato. Ci può essere una maggioranza che decide che una parte della popolazione deve essere sterminata perché ostacola il godimento della propria libertà. Oppure che un popolo confinante deve essere combattuto perché restringe il proprio spazio vitale. Ci sono norme che nessuna maggioranza può abrogare. Così è davvero necessario porre la domanda: quali sono i beni che nessuno può distruggere senza distruggere l'essere umano e in tal modo anche la libertà? La domanda sull'incondizionatamente buono e sull'incondizionatamente malvagio non può essere elusa, se ci deve essere un ordinamento della libertà che sia degno dell'uomo. La libertà è un bene, ma è tale solo in una rete di rapporti con altri beni, dai quali solo risulta chiaro che cosa sia libertà effettiva e che cosa libertà illusoria.

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4) Nonostante la fine catastrofica dell'"ateismo scientifico-dialettico" di origine marxista, permane nella cultura occidentale postmoderna una forte obiezione nei confronti del cristianesimo, che si esprime come agnosticismo e ateismo aggressivi di origine empiristica, scientistica, scettica. Stanno vincendo Hume e Bentham? Come valutare l'atteggiamento che intende prescindere sistematicamente da Dio nel campo civile, procedendo etsi Deus non daretur? Sarebbe questo il canone centrale di ogni autentica morale laicista?

In effetti sembra che attualmente il pensiero continui a svilipparsi in questa direzione. Dopo che il marxismo, di fronte alla svolta del 1989, continua ancora oggi a trovarsi in una pausa di riflessione, le filosofie simili a quella del razionalismo critico di Popper corrispondono maggiormente al senso contemporaneo di ciò che si può considerare razionale. La verità in quanto tale - così si pensa - non può essere conosciuta, ma si può avanzare a poco a poco solo con i piccoli passi della verificazione e della falsificazione. Si rafforza la tendenza a sostituire il concetto di verità con quello di consenso. Ma ciò significa che l'uomo si separa dalla verità e così anche dalla distinzione tra il bene e il male, sottomettendosi completamente al principio della maggioranza. Ho già cercato poc'anzi di indicare dove ciò possa condurre e quale tirannia della falsità possa essere istituita nel dominio esclusivo del principio del consenso. Il cammino in questa direzione comincia già, naturalmente, nell'idealismo tedesco, quando si parte dal presupposto che l'uomo possa conoscere non la realtà in quanto tale ma solo la struttura della sua coscienza. Nel frattempo filosofie come quelle di Singer, Rorty, Sloterdijk indicano ulteriori radicalizzazioni nella stessa direzione: l'uomo progetta e "monta" il mondo senza criteri prestabiliti e così supera necessariamente anche il concetto di dignità umana, sicché anche i diritti umani diventano problematici. In una siffatta concezione della ragione e della razionalità non rimane spazio alcuno per il concetto di Dio. E tuttavia la dignità umana alla lunga non può essere difesa senza il concetto di Dio creatore. Essa perde così la sua logica. Naturalmente noi non possiamo e non ci è consentito di costringere alcuno a credere in Dio. Tanto più urgente è allora il compito di far di nuovo valere il concetto di Dio creatore nella sua razionalità e di tenerlo presente nel conflitto della ragione. Riguardo a ciò i pensatori cristiani hanno una grande missione davanti a sé.

5) Osservatori di varia estrazione sostengono che è in atto un abbandono interno alla Chiesa delle "prove" della verità del cristianesimo, della sua pretesa alla verità. Si adduce a conferma che gli esponenti cristiani amino dialogare solo con quei settori della cultura che accolgono solo la funzione sociale della religione, la sua utilità civile, i suoi simboli, mentre si mostrerebbero indifferenti alla verità degli asserti di fede. A suo parere, si può assegnare validità a tale diagnosi, secondo la quale la prassi attuale del cattolicesimo riterrebbe secondaria la verità dei propri contenuti?

Probabilmente è vero che importanti settori del cattolicesimo attualmente nel dialogo con i non credenti accantonino la domanda sulla verità considerandola priva di prospettive e quindi sterile e vogliano focalizzare il dibattito sull'utilità sociale della fede. Per specifiche fasi della discussione questo può essere ammesso oppure può costituire l'unica via percorribile. Ma se complessivamente si volesse lasciar cadere la pretesa alla verità e in tal modo si intendesse declassare il cristianesimo da "verità" a (utile) abitudine ("tradizione"), questo significherebbe la rinuncia del cristianesimo a se stesso. Il cristianesimo sarebbe certo perfettamente inglobato nel sistema del mondo moderno, però avrebbe perso la sua anima. Dunque Cristo non potrebbe più dire: "Io sono la verità", ma sarebbe retrocesso all'ordine di grandezza di un uomo con una significativa esperienza religiosa oppure a quello di un riformatore della società che purtroppo ha fallito. Del resto la Chiesa proprio grazie all'altezza della sua pretesa rende un servizio alla società; essa non permette di rimanere ancorati alle filosofie del consenso o alle tecniche sociali; la Chiesa ci esorta sempre di nuovo a porci la

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domanda sulla verità, solo così la statura dell'uomo può essere preservata. A partire da ciò mi spiego una buona parte dello scandalo ma anche l'intrinseca necessità della dichiarazione " Dominus Iesus " , che appunto non permette di acquietarsi nella compresenza di differenti "tradizioni religiose", ma pensa più in grande dell'uomo: egli è chiamato alla verità, ed è costituito in modo tale che non ci sono solo differenti forme di esperienza religiosa, ma c'è anche l'uomo che è Dio. Questa pretesa non può essere taciuta oppure sminuita per comodità.

6) Dal lato del cristianesimo e del suo rapporto con le altre religioni si presenta la questione della sua verità (parziale? storica? universale?). Quale posizione assumere fra chi sostiene che il cristianesimo è funzionalmente idoneo a soddisfare i bisogni religiosi, in linea di principio storicamente variabili e situati secondo le culture, del solo uomo europeo e chi difende la portata universale del cristianesimo? Come mantenere la pretesa cristiana alla verità, se si assume che l'idea stessa di verità non sia applicabile alla religione, la quale verterebbe solo sulla pietà e i costumi ed escluderebbe la conoscenza?

In parte ho già risposto alla domanda con quanto ho appena detto. Ho fatto poc'anzi allusione a una bella frase di Tertulliano: "Cristo non ha detto di essere l'abitudine, bensì la verità" (Virg. 1,1). Se Cristo non è la verità, allora non c'è più alcun fondamento per la pretesa cristiana all'universalità e per la missione. Se la fede cristiana è solo una tradizione religiosa, anche se certamente una tradizione significativa, non è più comprensibile il motivo per cui dovrebbe essere impartita agli altri. Al contrario, la verità è per tutti una sola, e se Cristo è la verità, allora riguarda tutti; allora è una colpa occultarla agli altri. Se si definisce il cristianesimo una religione europea si dimentica che non è nato in Europa e che nei primi secoli si è diffuso in modo uniforme sia in Europa sia in Asia; la missione nestoriana aveva raggiunto l'India e la Cina; l'Armenia e la Georgia sono antiche terre cristiane. Anche nella penisola arabica c'era una rilevante presenza di cristiani; presenza che fu notevolmente indebolita dal successo dell'islam, ma che ciò nonostante non si riuscì a far scomparire. Queste comunità cristiane orientali, per le quali già Antiochia e a maggior ragione Costantinopoli e Roma erano considerate "occidente", non hanno mai smesso di esistere. Oggi l'opposizione più forte al cristianesimo proviene dall'Europa e dalla sua filosofia postcristiana, mentre nei paesi extraeuropei la fede trova un sostegno sempre più forte. A questo si obietta che il cristianesimo, nella manifestazione concreta che ha assunto, ha ricevuto la sua impronta soprattutto dalla filosofia greca e dai suoi sviluppi nel pensiero medievale nonché dal pensiero europeo moderno, per far derivare da ciò il diffuso postulato della deellenizzazione e del puro ritorno alla Bibbia. In questa prospettiva si dimentica però in primo luogo che la filosofia greca nell'incontro con il messaggio cristiano ha subito un profondo processo di ri-fusione. In opposizione a ciò ci fu una reazione in campo filosofico che si contrappose a questa trasformazione cristiana e alla nuova sintesi delle culture, con l'intento di preservare l'elemento autenticamente greco. Ma qui si dimentica anche che già nell'Antico Testamento ha avuto luogo un incontro tra il pensiero greco e l'antica tradizione biblica: il processo dell'incontro fra le culture è quindi già avviato nella Bibbia stessa. Inoltre si dimentica che, viceversa, la filosofia greca, in particolare con Platone, ha ricevuto forti influssi dalle tradizioni orientali, e dunque essa stessa presuppone una fusione di culture; con Plotino il pensiero greco si rivolge di nuovo alle tradizioni dell'Asia ed entra in contatto con alcuni orientamenti dello spirito indiano. Ma soprattutto si dimentica il senso autentico e profondo dell'incontro della fede biblica con la filosofia greca: si tratta di impedire un autoisolamento e una riduzione della fede biblica in una tradizione religiosa particolare, di esporsi alla pretesa della ragione che accomuna tutti gli uomini e di tener ancorato il cristianesimo alla domanda sulla verità come unica chiave della sua universalità e come obbligazione che gli viene conferita dalla figura di Cristo. Chi voglia liquidare questo confronto con la ragione e con la domanda sulla verità considerandolo una "ellenizzazione" particolarizza il cristianesimo e lo riduce a espressione di una forma particolare e giammai universale di esperienza religiosa. Il Papa

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nell'enciclica Fides et ratio ha inserito queste connessioni nel dibattito filosofico e teologico contemporaneo: si tratta di superare l'"abitudine" e di rimanere sulla via della verità. È un appello che riguarda tutti. Pubblicato da Raffaella a 20.04 Link a questo post

domenica 9 agosto 2009

Ogni ideologia che estromettesse alcuni esseri umani dalla categoria di coloro che meritano rispetto, segnerebbero un ritorno verso la barbarie (1996)

La grandezza dell’essere umano è la sua somiglianza con Dio

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 11 maggio 2005 (ZENIT.org).

Pubblichiamo di seguito l’intervento pronunciato dal cardinale Joseph Ratzinger in occasione della Conferenza Internazionale organizzata dal Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute sul tema: “A immagine e somiglianza di Dio: Sempre? Il disagio della mente umana” (28 novembre 1996).

* * *

Davanti al tema di questo convegno internazionale, emergono in me ricordi inquietanti. Permettetemi, vi prego, di raccontarvi a modo di introduzione questa esperienza personale, che ci riporta all’anno 1941, quindi nel tempo della guerra e del regime nazionalsocialista. Una delle nostre zie, che visitavamo frequentemente, era madre di un robusto figliolo, che era qualche anno più giovane di me, ma dimostrava progressivamente i segni tipici della sindrome di down. Suscitava simpatia nella semplicità della sua mente offuscata, e sua madre, che aveva già perduto una figlia per morte prematura, gli era sinceramente affezionata. Ma nel 1941 fu ordinato, da parte delle autorità del Terzo Reich, che egli doveva essere portato in un ricovero per ricevere un’assistenza migliore. Non si avevano ancora sospetti sulla operazione di eliminazione dei disabili mentali, che già era stata iniziata. Dopo poco tempo giunse la notizia che il bambino era morto di polmonite ed il suo corpo era stato cremato.

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Da quel momento si moltiplicarono le notizie di tal genere. Nel villaggio, nel quale avevamo abitato prima, facevamo volentieri visita ad una vedova, che era rimasta senza figli e si rallegrava per la visita dei bambini del vicinato. La piccola proprietà, che aveva ereditato da suo padre, poteva a stento darle di che vivere, ma era di buono spirito, anche se non senza qualche timore per il suo futuro. Più tardi venimmo a sapere che la solitudine, nella quale sempre più venne a trovarsi, aveva ottenebrato sempre più la sua mente: il timore per il futuro era divenuto patologico, così che a stento osava ancora mangiare, perché temeva sempre per il domani, nel quale forse sarebbe rimasta completamente senza cibo da mettere sotto i denti. Fu allora classificata come mentalmente disturbata, portata in un ricovero, e anche in questo caso giunse tosto la notizia che era morta di polmonite. Poco dopo accadde nel nostro attuale villaggio nuovamente la stessa cosa: il piccolo podere, attiguo alla nostra casa, era fino allora affidato alle cure di tre fratelli non sposati, ai quali apparteneva. Erano ritenuti mentalmente malati, ma erano nondimeno in grado di occuparsi della loro casa e della loro proprietà. Anch’essi sparirono in un ricovero e poco dopo fu riferito di loro che erano morti. A quel punto non ci poteva più essere dubbio, circa quanto stava accadendo: si trattava di una sistematica eliminazione di tutti coloro, che non erano considerati come produttivi. Lo stato si era arrogato il diritto di decidere chi meritava di vivere e chi doveva essere privato dell’esistenza in vantaggio della comunità e di se stesso, perché non poteva essere utile né agli altri né a se stesso.Agli orrori della guerra, che divenivano sempre più sensibili, questo fatto aggiunse un nuovo, diverso sgomento: avvertivamo la gelida freddezza di questa logica dell’utilità e del potere. Sentivamo come l’uccisione di queste persone umiliava e minacciava noi stessi, l’essenza umana che era in noi: se la pazienza e l’amore, che vengono dedicati alle persone sofferenti, vengono eliminati dall’esistenza umana come perdita di tempo e di denaro, allora non viene fatto solo del male agli uccisi, ma in quel caso vengono mutilati nello spirito proprio gli stessi sopravvissuti. Ci rendevamo conto che là ove il mistero di Dio, la sua dignità intoccabile in ciascun uomo non viene più rispettata, non vengono minacciati solo i singoli, ma l’essere umano stesso è in pericolo. Nel silenzio paralizzante, nel timore, che tutti bloccava, fu allora come una liberazione, quando il Cardinale von Galen levò la sua voce e ruppe la paralisi del timore, per difendere nei disabili mentali l’uomo stesso, immagine di Dio.A tutte le minacce contro l’uomo derivanti dal calcolo del potere e dell’utile si oppone la luminosa parola di Dio, con la quale la Genesi introduce il racconto della creazione dell’uomo: creiamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza – faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram, traduce la Volgata (Gen 1,26). Ma cosa si intende con questa parola? In cosa consiste la somiglianza divina dell’uomo? Il termine all’interno dell’Antico Testamento è per così dire un monolito; non appare più nell’Antico Testamento ebraico, anche se il Salmo 8 – “Cos’è l’uomo, perché tu ti ricordi di lui?” – rivela una parentela interiore con esso. Viene ripreso solo nella letteratura sapienziale. Il Siracide (17,2) vi fonda la grandezza dell’essere umano, senza propriamente voler dare un’interpretazione del significato della somiglianza con Dio. Il libro della Sapienza (2,23) fa un passo ulteriore e vede l’essere immagine di Dio essenzialmente fondato nell’immortalità dell’uomo: ciò che rende Dio Dio e lo distingue dalla creatura è proprio la sua immortalità e perennità. Immagine di Dio la creatura è quindi proprio per il fatto che partecipa dell’immortalità – non per sua natura, ma come dono del creatore. L’orientamento alla vita eterna è ciò che fa diventare l’uomo il corrispondente creato di Dio. Qui la riflessione potrebbe continuare e si potrebbe anche dire: vita eterna significa qualcosa di più che una semplice sussistenza eterna. È riempita di un senso, e solo così è vita che merita ed è capace di eternità. Eterna una realtà può essere solo a condizione che partecipi di ciò che è eterno: all’eternità della verità e dell’amore. Orientamento all’eternità sarebbe quindi orientamento alla eterna comunione di amore con Dio, e l’immagine di Dio rinvierebbe quindi di sua natura oltre la vita terrena. Non potrebbe affatto essere determinata staticamente, essere legata a qualche qualità

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particolare, ma sarebbe questo essere protesi oltre il tempo della vita terrena; si potrebbe comprendere solo nella tensione al futuro, nella dinamica verso l’eternità. Chi nega l’eternità, chi vede l’uomo solo come intramondano, non avrebbe pertanto in partenza alcuna possibilità di penetrare l’essenza della somiglianza con Dio.Ma questo è solo accennato nel libro della Sapienza, e non ulteriormente sviluppato. Così l’Antico Testamento ci lascia con una questione aperta, e si deve dar ragione ad Epifanio, che di fronte a tutti i tentativi di precisare il contenuto della somiglianza divina, afferma che non si deve “cercare di definire ove si colloca l’immagine, ma confessarne l’esistenza nell’uomo, se non si vuol ingiuriare la grazia di Dio” (Panarion, LXX, 2,7). Ma noi cristiani leggiamo in realtà l’Antico Testamento sempre nella tonalità dell’unica Bibbia, nell’unità con il Nuovo Testamento e riceviamo da esso la chiave per comprendere rettamente i testi. Come il racconto della creazione “In principio creò Dio” riceve la sua corretta interpretazione solo nella sua rilettura giovannea “In principio era la Parola”, così anche qui. In questo momento naturalmente io non posso, nel quadro di una breve prolusione, presentare la ricca e pluristratificata testimonianza del Nuovo Testamento relativamente al nostro problema. Cercherò semplicemente di richiamare due temi. Si deve rilevare innanzitutto e come fatto più importante che nel Nuovo Testamento Cristo viene designato come “l’immagine di Dio” (2 Cor 4,4; Col 1,15). I Padri hanno inserito qui un’osservazione linguistica, che forse non è così sostenibile, ma corrisponde certamente all’orientamento interiore del Nuovo Testamento e della sua reinterpretazione dell’Antico. Essi dicono: solo di Cristo viene insegnato che egli è “la immagine di Dio”, l’uomo invece non è la immagine, ma ad imaginem, creato ad immagine, secondo l’immagine. Egli diventa immagine di Dio, nella misura in cui entra in comunione con Cristo, si conforma a lui. Detto con altre parole: l’immagine originaria dell’uomo, che a sua volta ripresenta l’immagine di Dio, è Cristo, e l’uomo è creato a partire dalla sua immagine, su sua immagine. La creatura umana è allo stesso tempo progetto preliminare in vista di Cristo, ovvero: Cristo è l’idea fondamentale del Creatore, ed egli forma l’uomo in vista di lui, a partire da questa idea fondamentale.Il dinamismo ontologico e spirituale, che si cela in questa concezione, diventa particolarmente evidente in Rom. 8,29 e 1 Cor. 15, 49, ma anche in 2 Cor. 4,6. Secondo Rom. 8, 29 gli uomini sono predestinati, “ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli”. Questa conformazione all’immagine di Cristo si compie nella risurrezione, nella quale egli ci ha preceduto – ma la risurrezione, è necessario richiamarlo già qui, presuppone la croce. La prima Lettera ai Corinti distingue il primo Adamo, che divenne “anima vivente” (15,45; cfr Gen 2,7) e l’ultimo Adamo, che divenne Spirito datore di vita. “E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste” (15,49). Qui è rappresentata con tutta chiarezza la tensione interiore dell’essere umano fra fango e spirito, terra e cielo, origine terrena e futuro divino. Questa tensione dell’essere umano nel tempo e oltre il tempo appartiene all’essenza dell’uomo. E questa tensione lo determina proprio nel centro della vita in questo tempo. Egli è sempre in cammino verso se stesso o si allontana da se stesso; è in cammino verso Cristo o si allontana da lui. Egli si avvicina alla sua immagine originaria, o la nasconde e la rovina. Il teologo di Innsbruck F. Lakner ha felicemente espresso questa concezione dinamica della somiglianza divina dell’uomo, caratteristica del Nuovo Testamento, nel seguente modo: “L’essere immagine di Dio dell’uomo si fonda sulla predestinazione alla filiazione divina attraverso la incorporazione mistica in Cristo”; l’essere immagine è quindi finalità insita nell’uomo, fin dalla creazione, “verso Dio per mezzo della partecipazione alla vita divina in Cristo”.Ci avviciniamo così ora però alla questione decisiva per il nostro tema: questa somiglianza divina può essere distrutta? ed eventualmente, come? Esistono esseri umani, che non sono immagine di Dio? La Riforma nella sua radicalizzazione della dottrina del peccato originale aveva risposto affermativamente a questa domanda e aveva detto: sì, con il peccato l’uomo può distruggere in se

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stesso l’immagine di Dio e di fatto l’ha distrutta. Infatti l’uomo peccatore, che non vuol riconoscere Dio e che non rispetta l’uomo o addirittura lo uccide – costui non ripresenta l’immagine di Dio, ma la deturpa, contraddice Lui, che è Santità, Verità e Bontà. Ricordando quanto detto all’inizio, ciò può e deve portarci alla domanda: in chi è più oscurata l’immagine di Dio, più sfigurata o più estinta – nel freddo assassino, ben cosciente di se stesso, potente e forse anche intelligente, che fa se stesso Dio e deride Dio o nel sofferente innocente, nel quale la luce della ragione guizza assai flebile o addirittura non è più percepibile? Ma la domanda in questo momento è prematura. Dapprima dobbiamo dire: la tesi radicale della Riforma si è dimostrata come insostenibile, proprio a partire dalla Bibbia. L’uomo è immagine di Dio in quanto uomo. E finché egli è uomo, è un essere umano, egli è misteriosamente proteso a Cristo, al Figlio di Dio fattosi uomo e quindi orientato al mistero di Dio. L’immagine divina è connessa con l’essenza umana in quanto tale, e non è in potere dell’uomo distruggerla completamente.Ma ciò che l’uomo certamente può fare è lo sfiguramento dell’immagine, la contraddizione interiore con essa. Qui occorre citare ancora una volta Lakner: “...la forza divina riluce proprio nel laceramento causato dalle contraddizioni... in questo mondo l’uomo come immagine di Dio è pertanto l’uomo crocifisso”. Fra la figura dell’Adamo terreno formato dal fango, che Cristo in comune con noi ha assunto nell’incarnazione e la gloria della resurrezione sta la croce: il cammino dalle contraddizioni e dagli sfiguramenti dell’immagine verso la conformazione con il Figlio, nel quale si manifesta la gloria di Dio, passa attraverso il dolore della croce. Fra i Padri della Chiesa, Massimo il Confessore ha più di altri riflettuto su questa connessione fra somiglianza divina e croce. L’uomo, che è chiamato alla “sinergia”, alla collaborazione con Dio, si è invece posto in opposizione a lui. Questa opposizione è “un’aggressione alla natura dell’uomo”. Essa “sfigura il vero volto dell’uomo, l’immagine di Dio, poiché distoglie l’uomo da Dio e lo rivolge verso se stesso ed erige fra gli uomini la tirannia dell’egoismo”. Cristo dall’interno della stessa natura umana ha compiuto il superamento di questo contrasto, la sua trasformazione in comunione: l’ubbidienza di Gesù, il suo morire a se stesso, diviene il vero esodo, che libera l’uomo dal suo decadimento interiore conducendolo all’unità con l’amore di Dio. Il crocifisso diviene così la vivente “icona dell’amore”; proprio nel crocifisso, nel suo volto scorticato e percosso, l’uomo diventa nuovamente trasparenza di Dio, l’immagine di Dio torna a rilucere. Così la luce dell’amore divino riposa proprio sulle persone sofferenti, nelle quali lo splendore della creazione si è esteriormente oscurato; perché esse in modo particolare sono simili al Cristo crocifisso, all’icona dell’amore, si sono accostate in una particolare comunanza a colui, che solo è la stessa immagine di Dio.

Possiamo estendere a loro la parola, che Tertulliano ha formulato in riferimento a Cristo: “Per misero che possa essere stato il suo corpo..., esso sarà sempre il mio Cristo...” (Adv. Marc. III,17,2). Per grande che sia la loro sofferenza, per quanto sfigurati e offuscati possano essere nella loro esistenza umana – essi saranno sempre i figli prediletti di nostro Signore, ne saranno sempre in modo particolare l’immagine. Fondandosi sulla tensione fra nascondimento e futura manifestazione dell’immagine di Dio possiamo del resto applicare alla nostra questione la parola della prima Lettera di Giovanni: “noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (3,2). Noi amiamo in tutti gli esseri umani, ma soprattutto nei sofferenti, nei disabili mentali, ciò che essi saranno e ciò che essi in realtà già sono fin d’ora. Già fin d’ora essi sono figli di Dio – ad immagine di Cristo, anche se non è ancora manifesto ciò che essi diverranno. Cristo nella croce si è definitivamente assimilato ai più poveri, ai più indifesi, ai più sofferenti, ai più abbandonati, ai più disprezzati. E fra questi, vi sono coloro di cui il nostro colloquio oggi si occupa, coloro la cui anima razionale non arriva ad esprimersi perfettamente per mezzo di un cervello infermo o malato, come se, per una ragione o per un’altra, la materia resistesse ad essere assunta da parte dello spirito. Qui

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Gesù rivela l’essenziale dell’umanità, ciò che ne è il vero compimento, non l’intelligenza, né la bellezza, ancor meno la ricchezza o il piacere, ma la capacità di amare e di acconsentire amorosamente alla volontà del Padre, per sconcertante che esso sia.Ma la passione di Gesù sfocia nella sua resurrezione. Il Cristo risuscitato è il punto culminante della storia, l’Adamo glorioso verso il quale tendeva già il primo Adamo, l’Adamo “terreno”. Così si manifesta il fine del progetto divino: ogni uomo è in cammino dal primo al secondo Adamo. Nessuno di noi è ancora pienamente se stesso. Ciascuno deve diventarlo, come il grano di frumento che deve morire per portare frutto, come il Cristo resuscitato è infinitamente fecondo perché si è infinitamente donato.Una delle grandi gioie del nostro paradiso sarà senza dubbio scoprire le meraviglie che l’amore avrà operato in noi, e che l’amore avrà operato in ciascuno dei nostri fratelli e sorelle, e nei più colpiti, nei più sofferenti fra di essi, mentre noi non comprendevamo neppure come l’amore era possibile da parte loro, mentre il loro amore rimaneva nascosto nel mistero di Dio. Sì, una delle nostre gioie sarà di scoprire i nostri fratelli e sorelle in tutto lo splendore della loro umanità, in tutto il loro splendore di immagini di Dio.La Chiesa crede, fin da oggi, a questo splendore futuro. Essa vuole essere attenta e sottolineare anche il minimo segno che già lo lasci intravvedere. Perché, nell’al di là, ciascuno di noi brillerà tanto più quanto più avrà imitato il Cristo, nel contesto e con le possibilità che gli saranno state date.Ma mi sia permesso qui di rendere testimonianza all’amore della Chiesa per le persone mentalmente sofferenti. Sì, la Chiesa vi ama. Essa non ha verso di voi solo la “predilezione” naturale della madre per i più sofferenti dei suoi figli. Essa non resta ammirata solo davanti a ciò che voi sarete, ma a ciò che voi già siete: immagini di Cristo.Immagini di Cristo da onorare, da rispettare, da aiutare nella misura del possibile, certamente, ma soprattutto, immagini di Cristo portatrici di un messaggio essenziale sulla verità dell’uomo. Un messaggio che tendiamo troppo a dimenticare: il nostro valore davanti a Dio non dipende né dall’intelligenza, né dalla stabilità del carattere, né dalla salute che ci permettono molteplici attività di generosità. Questi aspetti potrebbero sparire in ogni momento. Il nostro valore davanti a Dio dipende solamente dalla scelta che avremo fatto di amare il più possibile, di amare il più possibile nella verità.Dire che Dio ci ha creati a sua immagine, significa dire che egli ha voluto che ciascuno di noi manifesti un aspetto del suo splendore infinito, che egli ha un progetto su ciascuno di noi, che ciascuno di noi è destinato a entrare, per un itinerario che gli è proprio, nell’eternità beata.

La dignità dell’uomo non è qualcosa che si impone ai nostri occhi, non è misurabile né qualificabile, essa sfugge ai parametri della ragione scientifica o tecnica; ma la nostra civiltà, il nostro umanesimo, non hanno fatto progressi se non nella misura in cui questa dignità è stata più universalmente e più pienamente riconosciuta a sempre più persone.

Ogni ritorno indietro in questo movimento di espansione, ogni ideologia o azione politica che estromettesse alcuni esseri umani dalla categoria di coloro che meritano rispetto, segnerebbero un ritorno verso la barbarie. E noi sappiamo che sfortunatamente la minaccia della nostra barbarie pende sempre sui nostri fratelli e sorelle che soffrono di una limitazione o di una malattia mentale. Uno dei nostri compiti di cristiani è di far riconoscere, rispettare e promuovere pienamente la loro umanità, la loro dignità e la loro vocazione di creature ad immagine e somiglianza di Dio.

Vorrei approfittare di questa occasione che mi è offerta per ringraziare tutti coloro, e sono qui numerosi, che con la riflessione o la ricerca, lo studio o le diverse cure, si impegnano a rendere sempre più riconoscibile questa immagine.

Sua Eminenza il Cardinale JOSEPH RATZINGERPrefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede

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[Testo distribuito dal Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute]

Oggi il ritenere che vi sia una verità vincolante e valida nella storia, nella figura di Gesù Cristo e della Chiesa, viene ritenuto un fondamentalismo

La fede e la teologia dei nostri giorni

Intervento a Guadalajara (Messico) del maggio 1996

Pubblichiamo il testo integrale dell'intervento tenuto dall’ex cardinale Joseph Ratzinger, durante un incontro tra la Congregazione per la Dottrina della Fede e i Presidenti della omonima Commissione delle Conferenze Episcopali dell'America Latina, tenutosi a Guadalajara (Messico) nel maggio 1996, in cui veniva analizzata la situazione della fede e della teologia, nel contesto contemporaneo della vita della Chiesa.

* * *

La crisi della teologia della liberazione

Negli anni Ottanta la teologia della liberazione, nelle sue espressioni più radicali, costituiva la provocazione più incalzante alla fede della Chiesa, con la sua richiesta di una risposta e di una chiarificazione. Essa infatti offriva una risposta nuova, plausibile e nello stesso tempo pratica, al problema fondamentale del cristianesimo: la redenzione. Il termine liberazione era destinato ad esprimere, solo in una maniera diversa e più comprensibile, ciò che nel linguaggio tradizionale della Chiesa era stato chiamato redenzione.In realtà, il problema fondamentale resta sempre lo stesso: siamo posti di fronte ad un mondo che non corrisponde alla bontà di Dio. La povertà, l'oppressione, le ingiustizie di ogni sorta, la sofferenza dei giusti e degli innocenti sono i segni del tempo, di ogni tempo. E ogni uomo soffre; nessuno può dire a questo mondo e alla propria vita: dura per sempre, perché sei così bella. La teologia della liberazione, di fronte a queste nostre esperienze, si esprimeva nel modo seguente: una tale situazione, che non può perdurare, può essere superata solo con un mutamento radicale delle strutture del nostro mondo, che sono le strutture del peccato, le strutture del male. Se quindi il peccato fa sentire la sua forza sulle strutture e da queste ne deriva necessariamente una situazione di miseria, lo si può vincere non con una conversione personale, ma solo lottando contro le strutture dell'ingiustizia. Questa lotta però - così si diceva - doveva essere di ordine politico, poichè le strutture si consolidano e si sostengono attraverso la politica.Pertanto la redenzione diventava un processo politico, al quale la filosofia marxista forniva gli orientamenti di fondo. Essa diventava un compito che gli uomini potevano, anzi dovevano assumersi direttamente, e si trasformava perciò nello stesso tempo in una speranza del tutto pratica: la fede da «teoria» si trasformava in una prassi, in un'azione concreta e liberatrice, attraverso il processo di liberazione.La caduta dei sistemi di governo di ispirazione marxista nell'est europeo trasformò questa teologia, fondata su una prassi liberatrice di tipo politico, in una specie di crepuscolo degli dèi: proprio dove l'ideologia marxista della liberazione era stata adottata in maniera sistematica, si era instaurata una mancanza totale di libertà, i cui orrori stavano inesorabilmente davanti agli occhi di tutti.

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Quando la politica vuole essere liberatrice, promette troppo. Quando vuole sostituirsi a Dio nel suo agire, diventa non divina ma demoniaca. Gli eventi politici del 1989 hanno mutato perciò anche lo scenario teologico. Il marxismo aveva rappresentato l'ultimo tentativo di fornire una valida formula generale, che intendeva dare al corso della storia la sua giusta configurazione. Riteneva di conoscere quale fosse l'impianto della storia universale e di poter insegnare perciò come questa storia potesse essere condotta definitivamente sulla retta via. Il suo enorme fascino gli derivava dal fatto di fondarsi su metodi in apparenza strettamente scientifici e di sostituire la fede con la scienza, trasformando la scienza in azione pratica. Tutte le promesse disattese delle religioni sembravano realizzarsi tramite una prassi politica scientificamente fondata. La caduta di questa speranza era destinata a provocare un enorme disinganno, che non si è ancora placato del tutto. Ritengo senz'altro possibile che si debba assistere ancora ad altre nuove manifestazioni di una concezione marxista del mondo. Il venir meno dell'unico sistema che proponeva una soluzione dei problemi umani su base scientifica poteva lasciare spazio solo al nichilismo, o per lo meno ad un relativismo totale.

Il relativismo come filosofia dominante

Il relativismo è diventato perciò effettivamente il problema fondamentale della fede dei nostri giorni. Esso non si esprime solo come una forma di rassegnazione di fronte alla verità irraggiungibile, ma si definisce anche positivamente ricorrendo alle idee di tolleranza, conoscenza dialogica e libertà, che erano state coartate dalla concezione di una verità universalmente valida. Il relativismo si presenta inoltre come la base filosofica della democrazia, la quale si fonderebbe appunto sul fatto che nessuno può pretendere di conoscere la strada giusta, la democrazia deriverebbe cioè dal fatto che tutte le strade si riconoscono reciprocamente come tentativi parziali di raggiungere ciò che è migliore e ricercano nel dialogo una qualche comunione, alla quale arreca il proprio contributo anche la conoscenza, che però in ultima analisi non si può ricondurre ad una forma comune. Un sistema di libertà dovrebbe essere per sua natura un sistema di posizioni relative che comunicano tra loro, che dipendono inoltre da varie combinazioni storiche e restano aperte a nuovi sviluppi. Una società liberale dovrebbe essere una società relativista; solo a queste condizioni essa è in grado di rimanere libera e di mantenersi aperta.In ambito politico questo modo di vedere è esatto fino a un certo punto. Non vi è un'opzione politica che possa dirsi esclusivamente giusta. Ciò che è relativo, ossia l'instaurazione di un'ordinata convivenza umana su basi liberali, non può essere assoluto: l'aver pensato il contrario è stato appunto l'errore del marxismo e delle teologie politiche.Certo, anche sul piano politico con il relativismo totale non si risolve nulla: vi è un'ingiustizia che non può mai diventare giusta (per esempio l'uccisione degli innocenti o il negare alle persone o ai gruppi il diritto della dignità umana e di ciò che essa comporta) e vi è una giustizia che non può mai diventare ingiustizia.

In ambito politico-sociale non si può pertanto negare al relativismo una qualche legittimità. Ma il problema deriva dal fatto che esso non si pone dei limiti. Infatti viene adottato espressamente anche sul piano della religione e dell'etica. Su questo punto, posso accennare solo a qualche fattore che condiziona in tal senso il dialogo teologico. La cosiddetta teologia pluralista delle religioni si era già affermata gradualmente fin dagli anni Cinquanta, ma solo oggi ha assunto un'importanza fondamentale per la coscienza cristiana (1). Per la rilevanza della sua problematica e per la sua presenza nei più diversi settori culturali essa assume ora il posto che nel decennio scorso spettava alla teologia della liberazione; del resto spesso

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si riallaccia a quest'ultima e tenta di presentarne un volto più nuovo ed attuale. Le sue configurazioni sono molto diverse, per cui è impossibile ridurla ad una formula unica e delinearne brevemente i tratti essenziali. Da un lato essa è un prodotto tipico del mondo occidentale e delle sue concezioni filosofiche, ma dall'altro si pone in contatto con le intuizioni filosofiche e religiose dell'Asia, soprattutto con quelle del subcontinente indiano, ed è proprio anzi il collegamento tra questi due mondi ciò che determina la sua particolare influenza sul momento storico che stiamo vivendo.

Il relativismo in teologia: l'abolizione della cristologia

Questa situazione può essere colta con particolare evidenza nelle affermazioni di uno dei fondatori ed esponenti principali di tale teologia, il presbiteriano americano J. Hick, che prende le mosse dalla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno: non siamo in grado di raggiungere la realtà ultima in se stessa, ma possiamo solo vederla con «diverse lenti» nel suo apparire, attraverso il nostro modo di percepire. Tutto quello che percepiamo non è la realtà vera e propria, come è in se stessa, ma solo il suo riflesso nel nostro sistema di misura. Questo principio, che Hick in un primo tempo aveva tentato di formulare ancora in un contesto cristocentrico, dopo un soggiorno in India, durato un anno, con una rivoluzione copernicana del suo pensiero (come egli stesso afferma) è stato da lui trasformato in una nuova forma di teocentrismo. L'identificazione di una singola figura storica, Gesù di Nazareth, con la «realtà» stessa, ossia con il Dio vivente, viene respinta come una ricaduta nel mito; Gesù viene espressamente relativizzato come uno dei tanti geni religiosi. Ciò che è assoluto, oppure Colui che è l'assoluto, non può darsi nella storia, dove si hanno solo modelli, solo figure ideali che ci rinviano al totalmente altro, il quale non si può afferrare come tale nella storia. Chiaro che anche la Chiesa, il dogma, i sacramenti non possono più avere il valore di necessità assoluta. Attribuire a questi mezzi finiti un carattere assoluto, considerarli anzi come un incontro reale con la verità, valida per tutti, del Dio che si rivela, significherebbe collocare su un piano assoluto ciò che è particolare e travisare perciò l'infinità del Dio totalmente altro.In base a questa concezione, che ha assunto oggi una posizione rilevante, anche al di là delle tesi di Hick, il ritenere che vi sia realmente una verità, una verità vincolante e valida nella storia stessa, nella figura di Gesù Cristo e della fede della Chiesa, viene ritenuto un fondamentalismo che si presenta come un autentico attentato contro lo spirito moderno e come una minaccia multiforme contro il suo bene principale, la tolleranza e la libertà. Anche il concetto di dialogo, che nella tradizione platonica e cristiana aveva acquisito una funzione significativa, assume ora un senso diverso.

Diventa addirittura l'essenza del Credo relativista e l'opposto della «conversione» e della missione: in una concezione relativista dialogo significa porre su uno stesso piano la propria posizione o la propria fede e le convinzioni degli altri, e in linea di principio non ritenerla più vera della posizione dell'altro. Solo se suppongo veramente che l'altro abbia tanto ragione quanto me, o anche di più, sono realmente all'altezza del dialogo.

Il dialogo dovrebbe essere uno scambio tra posizioni fondamentalmente paritetiche e perciò tra loro relative, con lo scopo di raggiungere il massimo di cooperazione o d'integrazione tra le varie concezioni religiose (2).

Il dissolvimento relativista della cristologia e quindi anche dell'ecclesiologia diventa perciò un precetto fondamentale della religione. Per tornare a Hick: la fede nella divinità di uno solo, così egli dice, condurrebbe al fanatismo e al particolarismo, alla dissociazione tra fede e amore; ma questo è appunto ciò che si deve evitare (3).

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Il richiamo alle religioni asiatiche

Secondo J. Hick, che qui consideriamo in particolare come l'esponente di maggior spicco del relativismo religioso, la filosofia post-metafisica dell'Europa si collega meravigliosamente alla teologia negativa dell'Asia, per la quale il divino, in se stesso e direttamente, non può mai entrare nel mondo delle apparenze, nel quale viviamo: si mostra solo nei riflessi relativi e resta al di là di tutte le parole e al di là di ogni pensiero nella sua trascendenza assoluta (4). Queste due filosofie sono radicalmente diverse nei loro presupposti fondamentali e per i principi su cui regolano l'esistenza umana. Ma nel loro relativismo metafisico e religioso esse sembrano confermarsi a vicenda. Il relativismo areligioso e pragmatico dell'Europa e dell'America può ricevere dall'India una specie di consacrazione religiosa, che sembra conferire alla sua rinunzia al dogma la dignità di un timore più nobile di fronte al Mistero di Dio e dell'uomo. Viceversa, l'appellarsi del pensiero europeo ed americano alla visione filosofica e teologica dell'India rafforza la relativizzazione di tutte le figure religiose, caratteristica per la cultura indiana. Sembra perciò necessario che in India anche la teologia cristiana debba privare la figura di Cristo, considerata occidentale, del suo carattere di unicità e la debba collocare quindi sullo stesso piano dei miti indiani di salvezza: il Gesù storico (così si pensa ora) non è il Logos, come non lo è qualunque altra figura di salvatore che appartenga alla storia (5). Il fatto che il relativismo si presenti, all'insegna dell'incontro delle culture, come la vera filosofia dell'umanità, gli conferisce (come già abbiamo accennato) una grande forza di persuasione, che in pratica non ammette rivali.

Chi vi si contrappone non prende solo posizione contro la democrazia e la tolleranza, che sono i precetti fondamentali della convivenza umana, ma si irrigidisce anche ostinatamente nella preminenza della propria cultura, quella occidentale, e rifiuta l'incontro tra le culture, che è oggi l'imperativo più urgente. Chi vuol rimanere nella fede della Bibbia e della Chiesa si trova relegato anzitutto in una terra di nessuno, e deve orientarsi nuovamente nella «stoltezza di Dio» (1 Cor 1,18), per potervi riconoscere la vera sapienza.

Ortodossia e ortoprassi

Per ricercare questa sapienza, che si trova nella stoltezza della fede, possiamo tentare di chiarire, almeno per sommi capi, a che cosa serva la teoria relativista della religione, sostenuta da Hick e quali strade essa indichi all'uomo. In ultima analisi, per Hick la religione significa che l'uomo passa dalla self-tredness, che caratterizza l'esistenza del vecchio Adamo, alla reality-centredness che contraddistingue l'esistenza dell'uomo nuovo, e quindi si proietta al di fuori del proprio Io verso il Tu del prossimo (6). Questo è bello a parole, ma a ben guardare nel suo contenuto è insignificante e vuoto, come già l'appello di Bultmann all'autenticità, che egli aveva tratto da Heidegger. Per questo non c'è bisogno della religione. P. Knitter, ex sacerdote cattolico, avvertendo questa difficoltà, ha cercato di superare il vuoto di una teoria della religione, che si riduce in sostanza all'imperativo categorico, con una nuova e più concreta sintesi tra Asia ed Europa, più ricca nel suo contenuto (7).La sua proposta è quella di dare una nuova concretezza alla religione collegando la teologia pluralista della religione con le teologie della liberazione. In tal modo il dialogo interreligioso viene semplificato radicalmente e nello stesso tempo viene reso efficace sul piano pratico, in quanto resta fondato su di un'unica premessa: «il primato dell'ortoprassi sull'ortodossia» (8). Questa preminenza accordata alla prassi rispetto alla conoscenza è anch'essa un'eredità marxista, ma il marxismo da parte sua concretizza soltanto ciò che si presenta come una conseguenza logica, una volta che si è rinunciato alla metafisica: se la conoscenza diventa impossibile rimane solo l'agire.

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Per Knitter, l'assoluto non lo si può pensare, ma solo fare. La questione però è: è vera questa affermazione? Da dove mi può venir suggerito il retto agire, se non so che cosa è giusto? Il fallimento dei regimi comunisti è dovuto proprio al fatto che si è cambiato il mondo senza sapere ciò che è buono per il mondo e ciò che non lo è, senza sapere in quale direzione esso deve essere mutato, per diventare migliore. La semplice prassi non è una luce.E’ allora opportuno chiarire criticamente il concetto di ortoprassi. La storia delle religioni tradizionale aveva sostenuto che le religioni dell'India non conoscono in genere un'ortodossia, ma solo un'ortoprassi; di qui probabilmente questo concetto è passato alla teologia moderna. Ma in riferimento alle religioni dell'India esso aveva un senso ben preciso: si voleva dire per suo tramite che queste religioni non conoscono una concezione della fede che sia fondamentalmente vincolante e che l'aderirvi non è condizionato dall'accettazione di un Credo particolare. Queste religioni conoscono però senza dubbio un sistema di pratiche rituali, che viene considerato necessario per la salvezza e distingue i «fedeli» dagli infedeli. Esso non è caratterizzato da particolari contenuti dottrinali, ma dall'adesione scrupolosa ad un rituale che interessa tutta quanta la vita. Ciò che l'ortoprassi significa, ciò che è dunque un «retto agire», viene definito in modo molto preciso: si tratta di un codice di riti. Del resto il termine ortodossia nella Chiesa primitiva e nelle Chiese orientali aveva più o meno lo stesso significato. In questa parola infatti l'elemento -dossia si riferisce a doxa, che non veniva certo inteso nel senso di «opinione» (la giusta opinione): per i Greci le opinioni sono sempre relative. Doxa era inteso invece nel senso di «gloria», «glorificazione». Essere ortodosso significa perciò conoscere e praticare il modo esatto in cui Dio deve essere glorificato. Si riferisce al culto e dal culto viene proiettato nella vita. In questo senso si getterebbe certo un ponte solido per un dialogo fruttuoso tra l'Oriente e l'Occidente.Ma torniamo all'adozione del termine ortoprassi nella teologia moderna. Qui non si è più pensato al fatto di seguire un rituale. La parola ha assunto un significato del tutto nuovo, che non ha nulla a che fare con le concezioni autentiche dell'India. Resta però una cosa: se l'esigenza di un'ortoprassi deve avere un suo significato e non serve solo a mascherare l'arbitrio, vi deve essere allora anche un'ortoprassi comune, riconosciuta da tutti, che va al di là di un semplice parlare dell'incentrarsi sull'Io e del relazionarsi ad un Tu. Se si esclude il significato rituale, come lo si intendeva in Asia, il termine «prassi» può essere adottato in senso etico o politico. L'ortoprassi richiederebbe, nel primo caso, un'etica chiaramente definita nel suo contenuto. Questo però viene espressamente escluso nella discussione sull'etica di impronta relativista: non esisterebbe ciò che è bene in sè e ciò che è male in sè. Se si intende ortoprassi in senso politisociale, sorge analogamente il problema di ciò che debba essere un retto agire politico. Le teologie della liberazione, le quali erano convinte che il marxismo ci dicesse chiaramente qual era la retta prassi politica, potevano usare il termine ortoprassi in modo corretto. In quest'ambito non esisteva ciò che non era vincolante, ma una forma di prassi corretta, valida per tutti, ossia una vera ortoprassi che si estendeva a tutta la società e ne escludeva coloro che rifiutavano il retto agire. In questo senso le teologie della liberazione di ispirazione marxista erano a loro modo logiche e coerenti. Come si può constatare, questa ortoprassi si fonda certamente su una qualche ortodossia (in senso moderno), ossia su un complesso di teorie vincolanti che definiscono la via che conduce alla libertà. Knitter resta vicino a questo assunto quando afferma che il criterio che permette di distinguere l'ortoprassi dalla pseudoprassi è la libertà (9). Ma egli deve ancora spiegarci in maniera persuasiva e pratica che cosa sia la libertà e che cosa porti alla reale liberazione dell'uomo: certo non è l'ortoprassi marxista, come abbiamo constatato. Una cosa però è chiara: le teorie relativiste sfociano necessariamente nell'arbitrio e si rendono perciò superflue, oppure emanano norme assolute che hanno valore nella pratica e creano degli assolutismi proprio là dove in realtà non possono avere alcuna consistenza. Certo comunque che oggi anche in Asia vengono divulgate palesemente delle idee fondate su una teologia della liberazione, le quali vengono presentate come forme di cristianesimo che si ritengono più aderenti allo spirito dell'Asia e che traspongono sul piano politico gli elementi essenziali dell'agire religioso. Quando il mistero

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viene a perdere di valore, è la politica che diventa religione. Ma proprio questo è profondamente contrario alla concezione della religione che è tipica dell'Asia.

Il New Age

Il relativismo di Hick, Knitter e teorie analoghe si fonda in ultima analisi su un razionalismo che, alla maniera di Kant, ritiene che la ragione non possa conoscere ciò che è metafisico (10); la rifondazione della religione segue una strada pragmatica che assume una tonalità più etica o più politica. Vi è però anche una reazione espressamente antirazionalista all'esperienza che «tutto è relativo», e che si riassume nell'etichetta polivalente del New Age (11). Qui la via di uscita dal dilemma della relatività non viene individuata in un nuovo incontro di un Io con un Tu o con il Noi, ma nel superamento del soggetto, nel ritorno estatico nel processo cosmico. Come già la gnosi antica, questa via ritiene di essere in sintonia con tutto ciò che la scienza insegna e pretende inoltre di valorizzare le conoscenze scientifiche di ogni genere (biologia, psicologia, sociologia, fisica). Nello stesso tempo però, partendo da queste premesse, intende offrire un modello del tutto antirazionalista di religione, una moderna «mistica»: l'assoluto non lo si può credere, ma sperimentare. Dio non è una persona che sta di fronte al mondo, ma l'energia spirituale che pervade il Tutto. Religione significa l'inserimento del mio Io nella totalità cosmica, il superamento di ogni divisione. K. H. Menke descrive molto bene la svolta spirituale che ne deriva, quando afferma: «Il soggetto, che pretendeva sottomettere a sè ogni cosa, si trasfonde ora nel "Tutto"» (12). La ragione oggettivante-così ci avverte il New Age-ci sbarra la via che conduce al mistero della realtà; l'essere Io ci esclude dalla pienezza della realtà cosmica, sconvolge l'armonia del Tutto ed è la causa autentica del nostro irredentismo. La redenzione consiste nello svincolamento dell'Io, nell'immergersi nella pienezza della vita, nel ritorno nel Tutto. Si ricerca l'estasi, l'ebbrezza dell'infinito, che si può sperimentare nel suono della musica, nel ritmo, nell'eccitazione della luce e del buio, nella massa umana. Così facendo, non solo si capovolge la strada dell'epoca moderna al dominio assoluto del soggetto; al contrario l'uomo stesso, per essere liberato, deve sciogliersi nel «Tutto». Ritornano gli dei. Essi appaiono più credibili di Dio. Bisogna rinnovare i riti primordiali, con i quali l'Io viene iniziato ai misteri del Tutto e viene liberato da se stesso.Questo rinnovarsi delle religioni e dei culti precristiani, che oggi viene praticato in molte maniere, trova diverse spiegazioni. Se non vi è una verità comune, che ha valore proprio perché è vera, il cristianesimo diventa solo un prodotto importato dall'esterno, un imperialismo spirituale, che bisogna scuotersi di dosso al pari di quello politico. Se nei sacramenti non si realizza un incontro di tutti gli uomini con l'unico Dio vivente, essi diventano dei riti privi di contenuto, che non ci dicono e non ci danno nulla, o tutt'al più ci fanno percepire il numinoso che è presente in tutte le religioni. E’ più sensato cercare ciò che ci appartiene originariamente, piuttosto che lasciarci imporre ciò che è estraneo e antiquato. Ma soprattutto, se la «sobria ebbrezza del mistero cristiano non ci può rendere ubriachi di Dio, bisogna allora evocare l'ebbrezza reale delle estasi efficaci, la cui passione ci eccita e ci rende dèi almeno per un attimo, ci fa sentire per un momento il gusto dell'infinito e ci fa dimenticare la miseria del finito. Quanto più si rende manifesta l'inutilità degli assolutismi politici tanto più diventa forte l'attrattiva dell'irrazionalità, la rinuncia alla realtà del quotidiano (13).

Il pragmatismo nella vita quotidiana della Chiesa

Oltre a queste soluzioni radicali e al grande pragmatismo delle teologie della liberazione vi è anche però il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale in apparenza ogni cosa procede normalmente, ma in realtà la fede si logora e decade nella meschinità. Penso qui a due fenomeni, ai quali guardo con preoccupazione. Il primo riguarda il tentativo che si manifesta a diversi livelli, di estendere il principio della maggioranza alla fede e ai costumi e quindi di

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«democratizzare» decisamente la Chiesa. Ciò che non è gradito alla maggioranza non può essere vincolante, così sembra. Ma di quale maggioranza si tratta in realtà? Domani sarà diversa da oggi? Una fede che siamo in grado di stabilire noi non è una vera fede. E una minoranza non può lasciarsi imporre una fede da una maggioranza. La fede e la sua pratica ci provengono dal Signore attraverso la Chiesa e l'esercizio dei sacramenti, altrimenti non esistono. Molti rinunciano a credere perché sembra loro che la fede possa essere definita da una qualche istanza burocratica, che sia cioè una specie di programma di partito, chi ne ha il potere può definire ciò che bisogna credere, e quindi tutto dipende dal fatto di giungere al potere nella Chiesa oppure - cosa più logica e più plausibile -non credere affatto.

L'altro punto, su cui voglio richiamare l'attenzione, riguarda la liturgia. Le varie fasi della riforma liturgica hanno fatto sorgere l'idea che la liturgia possa venir mutata a piacere. Se c'è qualcosa che non si può cambiare questo riguarderebbe tutt'al più le parole della consacrazione, mentre tutto il resto lo si potrebbe fare anche diversamente. Ne deriva una conseguenza logica: se questo lo può fare un'autorità centrale, perché non anche le istituzioni locali? E se le istituzioni locali, perché allora non anche la stessa comunità? Essa dovrebbe infatti potersi esprimere e ritrovare se stessa nella liturgia.

Dopo le tendenze razionaliste e puritane degli anni Settanta e anche degli anni Ottanta ci si è stancati oggi delle liturgie delle parole e si desidera una liturgia dell'esperienza, che si avvicina molto agli orientamenti del New Age: si ricerca ciò che è rumoroso ed estatico, non la «logikè latreia», la rationabilis oblatio (la liturgia secondo ragione, conforme al logos), di cui parla Paolo e con lui la liturgia romana (Rom 12, 1).Certo, esagero un po'; quello che voglio sottolineare non si riferisce alla situazione normale delle nostre comunità. Ma queste tendenze sono comunque evidenti. Si richiede perciò una certa vigilanza, per non cadere in potere di un vangelo diverso da quello che il Signore ci ha donato, pietre invece di pane.

I compiti della teologia

Ci troviamo dunque, in sostanza, di fronte ad una strana situazione: la teologia della liberazione aveva tentato di dare al cristianesimo, stanco di dogmi, un nuovo assetto pratico, attraverso il quale la redenzione doveva diventare ancora una volta un evento. Ma questa pratica ha lasciato dietro di sè delle rovine, invece di instaurare la libertà. Rimasto quindi il relativismo e il tentativo di adeguarsi ad esso. Ma quello che ne è derivato è ancora una volta così vuoto, che le teorie relativiste cercano aiuto presso la teologia della liberazione per potere trovare attraverso di essa uno sbocco nella pratica. Il New Age giunge a dire: abbandoniamo l'avventura del cristianesimo, che è fallito, e torniamo invece agli dèi, perché lì si vive meglio. Ma sorgono allora diversi problemi. Accenniamo solo a quello più pratico: come mai la teologia classica si è mostrata così impreparata di fronte a questi eventi? Dove si trovano i punti deboli che l'hanno resa così inefficace?Desidero solo rilevare due punti, che emergono dalle posizioni di Hick e Knitter. Questi ultimi si appellano all'esegesi per giustificare la loro distruzione della cristologia: l'esegesi avrebbe provato che Gesù non si è ritenuto il Figlio di Dio, il Dio incarnato, ma che solo in seguito i suoi seguaci lo avrebbero reso tale (14). Ambedue - anche se Hick in modo più chiaro rispetto a Knitter - si richiamano inoltre all'evidenza filosofica. Hick ci assicura che Kant avrebbe dimostrato inconfutabilmente che l'assoluto, o Colui che è l'assoluto, non può essere conosciuto nella storia e come tale non può trovarsi in essa (15). In base alla struttura della nostra conoscenza - secondo Kant - non può essere possibile quello che afferma la fede cristiana: i miracoli i misteri e i mezzi della grazia sono un illusione, così spiega Kant nella sua opera La religione entro i limiti della semplice ragione (16).

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Penso che il problema dell'esegesi e quello dei limiti e delle possibilità della nostra ragione, ossia delle premesse filosofiche della fede, costituiscano effettivamente il vero punto dolente dell'odierna teologia, per il quale la fede - e in misura crescente anche la fede dei semplici - entra in crisi.Voglio solo tentare di delineare qui il compito che ne deriva per noi. Anzitutto, per quanto riguarda l'esegesi bisognerebbe dire in primo luogo che Hick e Knitter non possono certo appellarsi all'esegesi in modo globale, come tutto ciò sarebbe un risultato indiscutibile e riconosciuto da tutti gli esegeti. Ciò non è possibile nell'ambito della ricerca storica, che non conosce questo tipo di certezza. Ed è ancor meno possibile quando si tratta di un problema che non è puramente storico o letterario, ma implica delle decisioni su dei valori, le quali vanno al di là di una semplice ricostruzione del passato e di una pura interpretazione di un testo. E’ vero però che se si guarda all'esegesi moderna nel suo complesso si può ricavarne un'impressione che è simile a quella di Hick e Knitter.Quale grado di certezza vi si può attribuire? Pur supponendo che la maggioranza degli esegeti pensi così (cosa che però resta da provare), rimane il problema di vedere su che cosa si fondi una tale opinione della maggioranza. La mia tesi è la seguente: se molti esegeti pensano come Hick e Knitter e ricostruiscono la storia di Gesù in modo simile, ciò è dovuto al fatto che condividono la loro filosofia. Non è l'esegesi che prova la filosofia, ma è la filosofia che produce l'esegesi (17).

Se so a priori (parlando come Kant) che Gesù non può essere Dio, che i miracoli, i misteri e i mezzi della grazia sono tre forme di illusione, allora non posso neppure ricavare dai testi sacri un dato di fatto che tale non può essere. Posso solo cercare di vedere come si è giunti a simili affermazioni, come esse si sono formate gradualmente.

Ma vediamo le cose un po' più da vicino. Il metodo storico-critico è uno strumento eccellente per leggere le fonti storiche ed interpretare i testi. Ma esso racchiude anche una sua filosofia, alla quale in genere si dà poco peso per esempio quando si tratta di conoscere la storia degli imperatori medievali. Con esso infatti voglio conoscere il passato, e nulla più. Ma anche in questo caso non si può prescindere da un insieme di valori, e perciò in questo senso il metodo ha i suoi limiti. Se si prende in considerazione la Bibbia, subentrano inoltre due altri fattori. Il metodo intende conoscere il passato come passato. Vuole afferrare il più possibile ciò che è avvenuto nella sua fattualità, nel punto preciso in cui è accaduto. E ciò presuppone che la storia in linea di principio sia uniforme: l'uomo in tutta la sua varietà, il mondo in tutte le sue differenziazioni, è governato dalle medesime leggi e dai medesimi limiti per cui io sono in grado di escludere ciò che è impossibile. Quello che oggi non può accadere in nessun modo, non poteva accadere neppure ieri e non potrà accadere domani.Se questo si applica alla Bibbia, viene a dire che un testo, un fatto, una persona resta fissato rigidamente nel suo passato. Si vuole ricavare ciò che l'autore ha detto allora o può aver detto in passato. Tutto dipende dalla «storicità», da «ciò che è accaduto allora». Perciò l'esegesi storico-critica non mi trasfonde la Bibbia nell'oggi, nella mia vita attuale. Questo resta escluso. Al contrario, essa la allontana da me e me la mostra ben ancorata nel passato. Questo è il punto su cui Drewermann ha giustamente criticato l'esegesi storico-critica, in quanto ritiene di essere autosufficiente. Per sua natura essa non parla dell'oggi, di me, ma di ciò che era ieri, di un'altra cosa.

Perciò essa non può mai mostrarmi il Cristo di oggi, di domani e dell'eternità, ma soltanto, se vuole restare fedele a se stessa, del Cristo di ieri. Vi è poi il secondo presupposto, l'omogeneità del mondo e della storia, quello cioè che Bultmann chiama la moderna visione del mondo. M. Waldstein con un'approfondita analisi ha mostrato che la teoria della conoscenza di Bultmann è influenzata completamente dal neokantismo di Marburgo (18). Di qui egli ha tratto l'idea di ciò che può esserci o non esserci. Altri esegeti possono avere una coscienza filosofica meno chiara, ma i presupposti che derivano dalla teoria kantiana della conoscenza si fanno sentire ugualmente, anche se solo nel sottofondo, come una chiave ermeneutica

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spontanea che guida il cammino della critica. Stando così le cose, l'autorità ecclesiastica non può semplicemente imporre che si debba trovare nella Scrittura una cristologia della figliolanza divina. Essa tuttavia può e deve esortare a valutare criticamente la filosofia che soggiace al metodo che si adotta. Infine, con la rivelazione divina Egli, il Vivente e il Vero, irrompe in questo mondo e apre il carcere delle nostre teorie, con le cui sbarre tentiamo di difenderci contro questa venuta di Dio nella nostra vita. Per fortuna, nonostante la crisi della filosofia e della teologia, che stiamo vivendo, si è venuta affermando oggi nell'esegesi una nuova riflessione sui principi fondamentali, elaboratasi anche grazie ai dati emersi da un'accurata analisi storica dei testi (19). Esse ci aiutano a liberarci dal carcere di presupposti filosofici, di cui soffre l'esegesi: la parola ci si apre nuovamente in tutta la sua vastità.Il problema dell'esegesi, come abbiamo visto, coincide ampiamente con il problema della filosofia. Le difficoltà della filosofia, ossia le difficoltà in cui si è dibattuta la ragione orientata in senso positivista, sono diventate le difficoltà della nostra fede. Quest'ultima non può divenire libera, se la ragione stessa non si apre nuovamente. Se rimane chiusa la porta della conoscenza metafisica, se restano invalicabili i confini posti da Kant alla conoscenza umana, la fede è destinata ad atrofizzarsi: le manca il respiro. Certo, il tentativo di volersi tirare fuori dalla palude dell'incertezza, per così dire prendendosi per i capelli, attraverso una ragione strettamente autonoma, che non vuole sapere nulla in fatto di fede, non può avere successo. La ragione umana infatti non è per nulla autonoma. Essa vive sempre in particolari contesti storici. Le contingenze le offuscano la vista (come possiamo constatare); perciò essa ha bisogno anche di venir soccorsa sul piano storico, per poter superare le barriere che le provengono dalla storia (20).Ritengo che il razionalismo neoscolastico sia fallito nel suo tentativo di voler ricostruire i Preambula Fidei con una ragione del tutto indipendente dalla fede, con una certezza puramente razionale; tutti gli altri tentativi che procedono su questa medesima strada, otterranno alla fine gli stessi risultati. Su questo punto aveva ragione Karl Barth, nel rifiutare la filosofia come fondamento della fede, indipendentemente da quest'ultima: la nostra fede si fonderebbe allora, in fondo, su mutevoli teorie filosofiche. Ma Barth sbagliava nel definire perciò stesso la fede come un semplice paradosso, che può sussistere solo contro la ragione e in totale indipendenza da essa. Una delle funzioni della fede, e non tra le più irrilevanti, è quella di offrire un risanamento alla ragione come ragione, di non usarle violenza, di non rimanerle estranea, ma di ricondurla nuovamente a se stessa. Lo strumento storico della fede può liberare nuovamente la ragione come tale, in modo che quest'ultima - messa sulla buona strada dalla fede - possa vedere da sè. Dobbiamo sforzarci di ottenere un simile dialogo nuovo tra fede e filosofia perché esse hanno bisogno l'una dell'altra. La ragione non si risana senza la fede, ma la fede senza la ragione non diventa umana.

Per concludere

Se si guarda all'attuale situazione religiosa, di cui ho cercato di presentare qualche elemento illustrativo, c'è addirittura da restare meravigliati che nonostante tutto si continui ancora a credere cristianamente, non solo nelle forme sostitutive di Hick, Knitter e altri, ma con la fede piena e gioiosa del Nuovo Testamento, della Chiesa di tutti i tempi. Come mai la fede ha ancora una sua possibilità di successo? Direi perché essa trova corrispondenza nella natura dell'uomo. L'uomo infatti possiede una dimensione più ampia di quanto Kant e le varie filosofie postkantiane gli abbiano attribuito. Kant stesso con i suoi postulati lo ha dovuto ammettere in qualche modo. Nell'uomo vi è un inestinguibile desiderio di infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per infrangere la nostra finitezza e condurla nella dimensione della sua infinità, è in grado di venire incontro alle esigenze del nostro essere. Il nostro compito è quello di servire a lui con animo umile, con tutta la forza del nostro cuore.

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NOTE

(1) Una panoramica sugli esponenti di maggior rilievo della teologia pluralista si trova in P. SchmidtLeukel «Das Pluralistische Modell in der Theologie der Religionen. Ein Literaturbericht», in: Theologische Revue 89 (1993) 353-370. Per una critica: M. von Bruck-J. Werbick, Der einzige Weg zum Heil? Die Herausforderung des christlichen Absolutheitsanspruchs durch pluralistische Religionstheologien (QD 143, Freiburg 1993), K. H. Menke, Die Einzigkeit Jesu Christi im Horizont der Sinnfrage (Freiburg 1995), spec. 75-176. Menke offre un'eccellente introduzione alle posizioni di due rappresentanti principali di questa corrente: J. Hick e P.F. Knitter; me ne servo ampiamente per le riflessioni che seguono. Nella trattazione di questi problemi, nella seconda parte della sua opera, Menke offre degli spunti rilevanti e degni di considerazione, ma suscita anche qualche problema. Un interessante tentativo sistematico di affrontare la questione delle religioni in una prospettiva cristologica è quello di B. Stubenrauch, Dialogisches Dogma. Der christliche Auftrag zur interreligiosen Begegnung (QD 158, Freiburg 1995). Del problema della teologia pluralista delle religioni si occupa anche un documento della Commissione Teologica Internazionale in via di preparazione.

(2) Cfr in proposito l'istruttivo editoriale della Civiltà Cattolica, quaderno 1, 1996, pp. 107-120: «Il cristianesimo e le altre religioni». In esso si stabilisce un confronto serrato soprattutto con Hick, Knitter e P. Panikkar.

(3) Cfr per es. J. Hick, An Interpretation of Religion. Human Responses to Transcendent (London 1989); Menke, loc. cit. 90.

(4) Cfr E. Frauwallner, Geschichte der indischen Philosophie, 2 voll. (Salzburg 1953 e 1956); H. v. Glasenapp, Die Philosophie der Inder (Stuttgart 19854); S.N. Dasgupta, History of Indian Philosophy, 5 voll. (Cambridge 1922-1955), K.B. Ramakrishna Rao, Ontology of Advaita with special reference to Maya (Mulki 1964).

(5) Si muove decisamente in questa direzione F. Wilfred, Beyond settled foundations. The Journey of Indian Theology (Madras 1993); Id., «Some tentative reflections on the language of Christian uniqueness: An Indian Perspective», in: Pont. Cons. pro Dialogo inter Religiones. Pro Dialogo. Bulletin 85-86 (1994/1) 40-57.

(6) J. Hick, Evil and the Cod of Love (Norfolk 19754) 240s.; An Interpretation of Religion, 236-240; cfr Menke, loc. cit. 81s.

(7) L'opera principale di J. Knitter: No Other Name! A Critical Survey of Christian Attitudes towards the World Religions (New York 1985) è stata tradotta in molte lingue. Cfr in proposito Menke, loc. cit. 94-110. A. Kolping ne presenta un'accurata valutazione critica nella sua recensione in: Theologische Revue 87 (1991) 234-240.

(8) Cfr Menke, loc. cit. 95.

(9) Cfr Menke, 109.

(10) Knitter e Hick, nel rifiutare l'assoluto nella storia, si richiamano a Kant; cfr Menke 78 e 108.

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(11) Il concetto di New Age, o era dell'Acquario, è stato coniato verso la metà del nostro secolo da Raul Le Cour (1937) e Alice Bailey (la quale affermò di aver ricevuto nel 1945 dei messaggi relativi ad un nuovo ordine universale e una nuova religione universale). Tra il 1960 e il 1970 è anche sorto in California l'istituto Esalen. Oggi l'esponente più famosa del New Age è Marilyn Ferguson. Michael Fuss («New Age: Supermarkt alternativer Spiritualität», in: Communio 20, 1991, 148-157) vede nel New Age una combinazione di elementi giudeocristiani con il processo di secolarizzazione in cui confluiscono anche correnti gnostiche ed elementi delle religioni orientali. Un utile orientamento su questa tematica si trova nella lettera pastorale del Card. G. Danneels, tradotta in diverse lingue, Le Christ ou le Verseau (1990). Cfr anche Menke, loc. cit. 31-36; J. Le Bar (a cura di), Cults, Sects and the New Age (Huntington, Indiana, s.a.).

(12) Loc. cit. 33.

(13) Bisogna rilevare che si vanno configurando sempre più chiaramente due diverse correnti del New Age: una gnostico-religiosa, che ricerca l'essere trascendente e transpersonale e in esso l'Io autentico, e una ecologico-monista, che si rivolge alla materia e alla Madre Terra e nell'ecofemminismo si collega al femminismo.

(14) Le prove sono esposte in Menke, loc. cit. 90 e 97.

(15) Cfr nota 10.

(16) B 302.

(17) Questo si può constatare molto chiaramente nell'incontro fra A. Schlatter e A. von Harnack alla fine del secolo scorso, come è descritto accuratamente in base alle fonti in W. Neuer, Adolf Schlatter. Ein Leben fur Theologie und Kirche (Stuttgart 1996) 301ss. Ho cercato di esporre la mia opinione su questo problema nella «Quaestio disputata» da me curata: Schriftauslegung im Widerstreit (Freiburg 1989) 15-44. Cfr anche l'opera collettiva: I. de la Potterie-R. Guardini-J. Ratzinger-G. Colombo-E. Bianchi, L'esegesi cristiana oggi (Casale Monferrato 1991).

(18) M. Waldstein, «The foundations of Bultmann's work», in: Communio am. 1987, pp. 115-145.

(19) Cfr per es. il volume collettivo curato da C.E. Braaten e R. W. Jensson: Reclaiming the Bible for the Church (Cambridge, USA 1995), e in particolare il contributo di B.S. Childs, «On Reclaiming the Bible for Christian Theology», ibid. pp. 1-17.

(20) L'aver trascurato questo e l'aver voluto cercare un fondamento razionale della fede che fosse presumibilmente del tutto indipendente da essa (una posizione che non persuade per la sua pura razionalità astratta) è a mio avviso l'errore essenziale, sul piano filosofico, del tentativo compiuto da H.J. Verweyen, Gottes letztes Wort (Dusseldorf 1991), di cui parla Menke, loc. cit. 111-176, anche se quello che egli dice contiene molti elementi importanti e validi. Ritengo invece più fondata storicamente e obiettivamente la posizione di J. Pieper (si veda la nuova edizione dei suoi libri: Schriften zum Philosophiebegriff, Hamburg: Meiner 1995).

(Tratto da: L' Osservatore Romano, 1 novembre 1996)

Il libro di Giona e la sua prosecuzione neotestamentaria è la più decisa negazione del relativismo e dell’indifferenza che si possa immaginare

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Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede sulla predicazione del profeta Giona nella città di Ninive

Dio si impietosì

Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede sulla predicazione del profeta Giona nella città di Ninive

del cardinale Joseph Ratzinger

Meditare la Parola

Il libro di Giona non narra avvenimenti che si sono avverati in un lontano passato; è una parabola. Nello specchio di questo racconto parabolico appare il futuro e nello stesso tempo viene sempre di nuovo spiegato alle diverse generazioni il presente, che solo nella luce del futuro – in ultima analisi in quella luce che proviene da Dio – può essere capito e rettamente vissuto. Perciò questa parabola è profezia: essa getta la luce di Dio sul tempo e con ciò ci chiarisce la direzione in cui dobbiamo muoverci perché il presente si apra sul futuro e non vada in rovina. In questa parabola profetica si possono distinguere tre cerchi. Il testo annuncia a Israele incredulo la salvezza per i pagani, anzi, che i pagani precederanno Israele nella fede. L’ingresso dei pagani nella fede nell’unico Dio, che si è rivelato a Israele sul Sinai e oltre, risulta chiaramente in due passi del piccolo libro. I marinai (cfr. Gn 1,4-16), che normalmente venivano considerati come crudeli e lontani da Dio, si convertono quando assistono al placarsi della tempesta. Riconoscono che la descrizione che Giona ha dato del suo Dio è vera: è il Dio del cielo, che ha fatto il mare e la terra. Riconoscono questo Dio del cielo come l’unico vero Dio che tiene in mano l’universo. E sanno che il riconoscimento deve diventare un atto: già sulla nave fanno un sacrificio e promettono nuove azioni di grazie non appena saranno giunti a destinazione. Importante è che Gerusalemme non appare più come l’unico luogo in cui si può sacrificare a Dio – il suo tempio è ovunque. Ancora un altro elemento è importante in questo racconto: i marinai si erano mostrati pieni di compassione e rispetto di fronte alla vita umana e solo su insistenza di Giona avevano osato gettarlo in mare, nello stesso tempo però implorando perdono per questo sacrilegio. In questa loro umanità si può vedere, per così dire, una disposizione alla grazia, che rendeva loro possibile l’accesso alla fede.La seconda profezia (cfr. Gn 3,1-10) davvero centrale per la salvezza dei pagani si trova nella storia di Ninive. Gli assiri, la cui capitale era Ninive, erano il popolo guerriero più brutale dell’antico Oriente; Ninive è indicata nel capitolo terzo di Naum come città sanguinaria. Ci viene data così un’idea della sua "malizia" la cui fama è "salita fino" a Dio (Gn1,2). La città è simbolo per eccellenza dell’infamia del peccato umano, quello che si accumula negli agglomerati delle grandi città. Essa è "paganesimo" nella sua forma più compatta. L’incredibile accade: la città crede al profeta e crede che c’è un Dio, il Dio per eccellenza, e non solo i suoi dei. Crede che c’è un giudizio e fa penitenza. La contrapposizione all’Israele sicuro di sé si fa qui estremamente chiara. Il capitolo 36 di Geremia ci racconta come Geremia abbia fatto leggere al re Ioiakìm il rotolo con l’annuncio delle punizioni. Il re resta seduto sul trono e taglia pezzo per pezzo il rotolo, che alla fine diventa per intero preda delle fiamme. Il re della malvagia città di Ninive invece si alza dal trono, si spoglia di tutte le insegne regali e si mette a sedere come penitente sulla cenere. Il suo potere regale egli lo usa ora soltanto per imporre a tutti – uomini e animali – un digiuno completo, per richiamare alla penitenza, allo scendere dai loro seggi nella cenere. Chi è sceso è colui che sale a Dio: Dio si impietosisce e salva. La salvezza dei pagani è la salvezza di quelli che accettano la discesa di Dio e scendono da se

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stessi. La salvezza è fondata sulla penitenza. Chi è pieno di sé si preclude la salvezza. Vediamo trasparire qui l’intero Vangelo di Cristo. Nel libro di Giona si compenetrano Antico e Nuovo Testamento e si mostrano come una sola cosa.

2) Il libro di Giona ci annuncia l’avvenimento di Gesù Cristo – Giona è una prefigurazione della venuta di Gesù. Il Signore stesso ci dice questo nel Vangelo del tutto chiaramente. Richiesto dai giudei di dar loro un segno che lo riveli apertamente come il Messia, risponde, secondo Matteo: "Nessun segno sarà dato a questa generazione se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra" (Mt12,39s). La versione di Luca delle parole di Gesù è più semplice: "Questa generazione [...] cerca un segno ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona. Poiché come Giona fu un segno per quelli di Ninive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione" (Lc 11,29s). Vediamo due elementi in entrambi i testi: lo stesso Figlio dell’uomo, Cristo, l’inviato di Dio, è il segno. Il mistero pasquale indica Gesù come il Figlio dell’uomo, egli è il segno in e attraverso il mistero pasquale.Nel racconto veterotestamentario proprio questo mistero di Gesù traspare del tutto chiaramente. Nel primo capitolo del libro di Giona si parla di una triplice discesa del profeta: egli scende al porto di Giaffa; scende nella nave; e nella nave egli si mette nel luogo più riposto. Nel suo caso, però, questa triplice discesa è una tentata fuga davanti a Dio. Gesù è colui che scende per amore, non per fuggire, ma per giungere nella Ninive del mondo: scende dalla sua divinità nella povertà della carne, dell’essere creatura con tutte le sue miserie e sofferenze; scende nella semplicità del figlio del carpentiere, e scende nella notte della croce, infine persino nella notte dello Sheòl, il mondo dei morti. Così facendo egli ci precede sulla strada della discesa, lontano dalla nostra falsa gloria da re; la via della penitenza, che è via verso la nostra stessa verità: via della conversione, via che ci allontana dall’orgoglio di Adamo, dal volere essere Dio, verso l’umiltà di Gesù che è Dio e per noi si spoglia della sua gloria (Fil 2,1-10). Come Giona, Gesú dorme nella barca mentre la tempesta infuria. In un certo senso nell’esperienza della croce egli si lascia gettare in mare e così placa la tempesta. I rabbini hanno interpretato la parola di Giona "Gettatemi in mare" come offerta di sé del profeta che voleva con questo salvare Israele: egli aveva timore davanti alla conversione dei pagani e al rifiuto della fede da parte di Israele, e per questo – così dicono – voleva farsi gettare in mare. Il profeta salva in quanto egli si mette al posto degli altri. Il sacrificio salva. Questa esegesi rabbinica è diventata verità in Gesù.

3) Giona rappresenta Gesù ma rappresenta anche Israele nella sua resistenza alla misericordia universale di Dio. Il nome di Giona significa colomba. In Osea 7,11, Efraim è indicato come colomba "ingenua, priva di intelligenza". Giona, in cui da una parte traspare il mistero di Gesù, è, dall'altra, una incarnazione dell’Israele testardo che ha timore della salvezza dei pagani e fa resistenza di fronte a questa salvezza, che insiste sulla unicità della sua predilezione che non vorrebbe dividere con nessuno. Mentre Elia era turbato dal suo insuccesso e per questo voleva fuggire da Dio e morire, Giona ha paura del successo: fin dall’inizio egli teme che alla fine non sarà emesso il giudizio. Egli conosce Dio e sa che alla fine in lui la grazia prevale sempre sul giudizio. Egli però augura ai malvagi abitanti di Ninive il giudizio e non la grazia. Si augura che la sua predicazione si manifesti come vera attraverso il giudizio e non che la misericordia di Dio, per così dire, possa farla apparire superflua. Egli somiglia in questo al fratello maggiore della parabola di Gesù del figliol prodigo, che in realtà è la parabola dei due fratelli. Se il prodigo non viene punito e non sprofonda nel fango allora la mia fedeltà, pensa il fratello maggiore, risulta inutile, poiché la dissolutezza sarebbe meglio della fedeltà: così gli sembra. Una concezione simile si trova in Giona, si trova nella resistenza di Israele contro l’ingresso dei pagani nella promessa "senza l’opera della legge". Ci dobbiamo domandare nel passo successivo che cosa questo significa per noi.

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La Parola illumina la nostra via e la interpella

1) Nella storia il paragone tra i pagani diventati credenti e l’Israele infedele è diventato presto causa di malintesi che dobbiamo constatare e combattere in ogni generazione, poiché adesso nella Chiesa siamo diventati "Israele" e corriamo lo stesso rischio di Israele: il rischio "dell’egoismo della salvezza", il rischio di guardare Israele dall'alto in basso e considerarci automaticamente giusti. Già Paolo, invece, diceva nella Lettera ai Romani: "Essi sono stati tagliati a causa dell’infedeltà mentre tu resti lì in ragione della fede. Non montare dunque in superbia ma temi!... Considera dunque la bontà e la severità di Dio: severità verso quelli che sono caduti, bontà di Dio invece verso di te, a condizione però che tu sia fedele a questa bontà. Altrimenti anche tu verrai reciso" (11,20ss). Troviamo qui due parole chiave: "credere" e "restare nella bontà di Dio". Crediamo veramente? Non soltanto in teoria, ma in modo tale che la fede diventi fondamento della nostra vita, in modo tale che lasciamo la nostra vita nelle mani di Dio? E rimanere in Dio significa rimanere nella sua bontà: questo è il nocciolo del credere. Non temere la sua bontà – non temere che egli potrebbe essere troppo buono con gli altri cosicché la mia fede non avrebbe valore; rimanere nella sua bontà, averne parte: questo è il segno della fede.

Noi cadiamo sempre nella tentazione del fratello maggiore o dell’operaio della prima ora: crediamo che la fede abbia valore solo se gli altri hanno di meno.

Ma pensiamo che sia più bello vivere nell’infedeltà e nella sua apparenza di verità piuttosto che stare nella casa del Padre? La fede è per noi un peso che continuiamo a portare ma di cui in fondo vorremmo sbarazzarci o riconosciamo che la libertà apparente della infedeltà lascia vuota la vita, riconosciamo che è bello stare con Dio? Noi crediamo davvero solo se troviamo gioia in Dio e nella compagnia con lui e se, in forza di questa gioia, vogliamo trasmettere la sua bontà.

2) Se questi pensieri della universalità della misericordia divina e del sempre nuovo volgersi di Dio verso i pagani sono concepiti in modo superficiale, possono diventare pretesto per il relativismo e per l’indifferenza. La salvezza è comunque grazia, possiamo non meritarla, potremmo dire; è la stessa cosa essere pagani e essere cristiani, anzi forse meglio essere pagani, poiché i pagani non sono penetrati dalla giustizia che viene dalle opere e dalla presunzione, e possono così ricevere più facilmente la grazia come grazia. Allora non avrebbe neanche senso predicare il Dio della Bibbia, il Dio di Gesù Cristo. Lasciamo che i pagani rimangono pagani, Dio avrà senz’altro misericordia di loro: così si potrebbe dire. E così ci si sente naturalmente incoraggiati a essere pagani: se io pecco sono più vicino alla grazia, ci si dice; non cadrò così facilmente nella trappola dell'essere pieno di me. Uno sguardo al testo di Giona come all’intera Bibbia, in specie al Nuovo Testamento, mostra come tutto questo sia falso e superficiale. C’è anche un essere pieno di sé dei pagani, uno star bene col peccato. Finisce che il cuore diventa cieco, che non vuole più Dio, non vuole più la grazia, non conosce più alcun pentimento. Però ciò che è cattivo rimane cattivo. La malvagità era giunta fino a Dio, ci dice il libro di Giona, e Dio decide di intervenire, ciò che è malvagio deve essere superato. I misfatti di Hitler, di Stalin, di Pol Pot, di tanti altri, così come dei loro complici e simpatizzanti, sono misfatti che rovinano il mondo e precludono la strada verso Dio. No, il duplice invito a Giona "alzati", non era una finzione, ma un comando impellente il cui adempimento Dio imponeva a dispetto della resistenza del profeta. E Cristo non è venuto perché tutto è già buono e sta sotto il regime della grazia ma perché l’appello alla bontà e al pentimento è assolutamente necessario. Il libro di Giona e la sua prosecuzione neotestamentaria è la più decisa negazione del relativismo

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e dell’indifferenza che si possa immaginare. Anche per i cristiani di oggi vale "Alzati... e annunzia quanto ti dirò" (Gn 3,2). Anche oggi deve essere annunciato l’unico Dio, il Dio che ha fatto il cielo, la terra e il mare, e regna sulla storia. Anche oggi è necessario agli uomini Cristo, il vero Giona. Anche oggi deve esserci pentimento perché ci sia salvezza. E come la strada di Giona fu per lui stesso una strada di penitenza, e la sua credibilità veniva dal fatto che egli era segnato dalla notte delle sofferenze, così anche oggi noi cristiani dobbiamo innanzitutto essere per primi sulla strada della penitenza per essere credibili.

3) Le parole chiave del nostro testo sono valide anche oggi e soprattutto per noi: conversione ("ognuno si converta", Gn 3,8) e penitenza. Di per sé questa parola non è usata espressamente, ma l’annuncio "quaranta giorni e Ninive sarà distrutta" (Gn 3,4) contiene il simbolismo dei quaranta giorni che indica il peregrinare di Israele nel deserto e dà con questo una concreta immagine del tema della penitenza. Traspare qui il messaggio chiave del Nuovo Testamento, che Gesù esprime con le parole "Convertitevi e credete al Vangelo" (Mc 1,15). Ciascuno di noi deve riflettere cosa per lui significhi "conversione". L’esperienza dei grandi convertiti, nella storia della Chiesa, fu che il sì a Cristo e alla sua Chiesa, il battesimo, innanzitutto comportò un inizio completamente nuovo, cambiò dal fondo la loro vita. Ma se avevano pensato che a quel punto tutto era fatto e nuovo per sempre, dovevano sperimentare che la strada della conversione andava quotidianamente ripresa e di nuovo percorsa. Proprio questa è la differenza fra la sicurezza di Israele della sua predilezione e la Chiesa ex gentibus: la conversione non è bella e fatta, non è mai finita. L’immagine di Dio in te deve formarsi lentamente, lentamente deve accadere la trasformazione in Cristo, il "rivestirsi di Cristo". Giorno per giorno io devo combattere contro la mia pigrizia, contro abitudini che mi asservono; contro i pregiudizi nei confronti del prossimo, contro simpatie e antipatie, dalle quali mi lascio trascinare, contro la ricerca del potere e l’autocompiacimento, contro l’avvilimento e la rassegnazione; contro la vigliaccheria e il conformismo come contro l’aggressività e la prepotenza. Giorno per giorno io devo scendere dal trono e cercare di imparare la strada di Gesù. Giorno per giorno devo spogliarmi delle mie sicurezze, superare nella fede i miei pregiudizi; non decidere da me cosa significa essere cristiano, ma imparare dalla Chiesa e lasciarmi condurre da essa. Giorno per giorno devo sopportare gli altri, come essi mi sopportano, visto che Dio sopporta tutti noi...

4) Il libro di Giona è un libro teocentrico. Il vero attore è Dio. Sì, Dio agisce – non si è tirato fuori dalla storia (cfr. Gv 5,17). E Dio ama la creazione. Si occupa degli uomini e degli animali. È un Dio che combatte ciò che è cattivo e per questo deve anche punire come giudice per fare giustizia. L’aspetto del giudizio, della punizione, della "collera" di Dio non deve sparire dalla nostra fede. Un Dio che accetta tutto non è il Dio della Bibbia, ma un’immagine sognata. Gesù si mostra come Figlio di Dio proprio perché può prendere la frusta e irato cacciare dal tempio i venditori. Proprio il fatto che Dio non è indifferente davanti a ciò che è cattivo ci dà fiducia. Ma rimane valido che la misericordia di Dio è senza confini. Dobbiamo sempre combattere contro il peccato e non perdere il coraggio di farlo, soprattutto oggi. Non aiuta la strada dell’imbonimento, ma soltanto attraverso il coraggio della verità, che sa anche dire di no, noi serviamo il bene. Questo coraggio si nutre della consapevolezza della misericordia di Dio, del fatto che egli ama le sue creature, ci ama. Nella lotta contro il male in noi e attorno a noi non possiamo demordere; ma conduciamo questa battaglia nella coscienza che Dio sempre "è più grande del nostro cuore" (1Gv 3,20). Noi conduciamo la battaglia con una infinita fiducia e per amore, poiché vogliamo essere vicini a colui che amiamo e che ci ha amati per primo (1Gv 4,19). Più impariamo a conoscere Dio più possiamo dire con la saggezza veterotestamentaria: "La gioia di Dio è la nostra forza" (Ne 8,10).

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La lectio divina è stata tenuta dal cardinale Joseph Ratzinger nella chiesa romana di Santa Maria in Traspontina il 24 gennaio 2003.

Traduzione di Silvia Kritzenberger e Lorenzo Cappelletti

© Copyright 30Giorni febbraio 2003

FOTO: Rembrandt, "Il ritorno del figliol prodigo" Pubblicato da Raffaella a 09.46 Link a questo post

J. Ratzinger:Nei confronti della liturgia il Papa ha il compito di un giardiniere e non di un tecnico che costruisce macchine nuove e butta le vecchie

Lo sviluppo organico della liturgia

In alternativa ai riformisti radicali e ai loro avversari intransigenti, uno sviluppo adeguato della liturgia è possibile soltanto prestando attenzione alle leggi che dall’interno sostengono questo “organismo”

di Joseph Ratzinger

Negli ultimi decenni, la questione della corretta celebrazione della liturgia è diventata sempre più uno dei punti centrali della controversia attorno al Concilio Vaticano II, ovvero a come dovrebbe essere valutato e accolto nella vita della Chiesa. Ci sono gli strenui difensori della riforma, per i quali è una colpa intollerabile che, a certe condizioni, sia stata riammessa la celebrazione della santa Eucaristia secondo l’ultima edizione del Messale prima del Concilio, quella del 1962. Allo stesso tempo, però, la liturgia è considerata come “semper reformanda”, cosicché alla fine è la singola “comunità” che fa la sua “propria” liturgia, nella quale esprime sé stessa. Un Liturgisches Kompendium [Compendio liturgico, ndr] protestante (curato da Christian Grethlein e Günter Ruddat, Göttingen 2003) ha recentemente presentato il culto come «progetto di riforma» (pp. 13-41) riflettendo il modo di pensare anche di molti liturgisti cattolici.

D’altra parte vi sono anche i critici accaniti della riforma liturgica, i quali non solo criticano la sua

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pratica applicazione, ma anche le sue basi conciliari. Essi vedono la salvezza solo nel totale rifiuto della riforma.

Tra questi due gruppi, i riformisti radicali e i loro avversari intransigenti, viene a perdersi spesso la voce di coloro che considerano la liturgia come qualcosa di vivo, qualcosa che cresce e si rinnova nel suo essere ricevuta e nel suo attuarsi. Costoro, peraltro, in base alla stessa logica, insistono anche sul fatto che la crescita è possibile solo se viene preservata l’identità della liturgia, e sottolineano che uno sviluppo adeguato è possibile soltanto prestando attenzione alle leggi che dall’interno sostengono questo “organismo”. Come un giardiniere accompagna una pianta durante la sua crescita con la dovuta attenzione alle sue energie vitali e alle sue leggi, così anche la Chiesa dovrebbe accompagnare rispettosamente il cammino della liturgia attraverso i tempi, distinguendo ciò che aiuta e risana da ciò che violenta e distrugge. Se le cose stanno in tal modo, allora dobbiamo cercare di definire quale sia la struttura interna di un rito, nonché le sue leggi vitali, così da trovare anche le giuste strade per preservare la sua energia vitale nel mutare dei tempi, per incrementarla e rinnovarla. Il libro di dom Alcuin Reid si colloca in questa linea. Percorrendo la storia del Rito romano (messa e breviario), dalle sue origini fino alla vigilia del Concilio Vaticano II, esso cerca di stabilire quali siano i principi del suo sviluppo liturgico, attingendo così dalla storia, con i suoi alti e bassi, i criteri su cui ogni riforma deve basarsi. Il libro è diviso in tre parti. La prima, molto breve, analizza la storia della riforma del Rito romano dalle sue origini alla fine del XIX secolo. La seconda parte è dedicata al movimento liturgico fino al 1948. La terza – di gran lunga la più estesa – tratta della riforma liturgica sotto Pio XII, fino alla vigilia del Concilio Vaticano II. Questa parte si rivela molto utile, proprio perché tale fase della riforma liturgica non viene più molto ricordata, nonostante che proprio in essa – come anche nella storia del movimento liturgico, evidentemente – si ritrovino tutte le questioni circa le modalità corrette per una riforma, facendo sì che sia possibile acquisire anche dei criteri di giudizio. La decisione dell’autore di fermarsi alla soglia del Concilio Vaticano II è molto saggia. Egli evita così di entrare nella controversia legata all’interpretazione e alla ricezione del Concilio, illustrando il momento storico e la struttura delle varie tendenze, la quale risulta determinante per la questione circa i criteri della riforma. Alla fine del suo libro, l’autore elenca i principi per una corretta riforma: essa dovrebbe essere in egual misura aperta allo sviluppo e alla continuità con la Tradizione; dovrebbe sapersi legata a una tradizione liturgica oggettiva e fare sì che la continuità sostanziale sia salvaguardata. L’autore, poi, in accordo con il Catechismo della Chiesa cattolica, sottolinea che «anche la suprema autorità della Chiesa non deve modificare la liturgia arbitrariamente, ma solo in obbedienza alla fede e con rispetto religioso per il mistero della liturgia» (CCC n. 1125; nel libro a p. 258). Come criteri ulteriori, troviamo infine la legittimità delle tradizioni liturgiche locali e l’interesse per l’efficacia pastorale. Vorrei sottolineare ulteriormente, dal mio punto di vista personale, alcuni dei criteri già brevemente indicati del rinnovamento liturgico. Comincerò con gli ultimi due criteri fondamentali.

Mi sembra molto importante che il Catechismo, nel menzionare i limiti del potere della suprema autorità della Chiesa circa la riforma, richiami alla mente quale sia l’essenza del primato, così come viene sottolineato dai Concili Vaticani I e II: il papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il custode dell’autentica Tradizione e perciò il primo garante dell’obbedienza.

Non può fare ciò che vuole, e proprio per questo può opporsi a coloro che intendono fare ciò che vogliono. La legge cui deve attenersi non è l’agire ad libitum, ma l’obbedienza alla fede. Per cui, nei confronti della liturgia, ha il compito di un giardiniere e non di un tecnico che costruisce macchine nuove e butta quelle vecchie.

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Il “rito”, e cioè la forma di celebrazione e di preghiera che matura nella fede e nella vita della Chiesa, è forma condensata della Tradizione vivente, nella quale la sfera del rito esprime l’insieme della sua fede e della sua preghiera, rendendo così sperimentabile, allo stesso tempo, la comunione tra le generazioni, la comunione con coloro che pregano prima di noi e dopo di noi. Così il rito è come un dono fatto alla Chiesa, una forma vivente di parádosis.

È importante a tale riguardo interpretare correttamente la “continuità sostanziale”. L’autore ci mette espressamente in guardia dalla strada sbagliata sulla quale potremmo essere condotti da una teologia sacramentaria neoscolastica slegata dalla forma vivente della liturgia. Partendo da essa, si potrebbe ridurre la “sostanza” alla materia e alla forma del sacramento, e dire: il pane e il vino sono la materia del sacramento, le parole dell’istituzione sono la sua forma; solo queste due cose sono necessarie, tutto il resto si può anche cambiare. Su questo punto modernisti e tradizionalisti si trovano d’accordo. Basta che ci sia la materia e che siano pronunciate le parole dell’istituzione: tutto il resto è “a piacere”.

Purtroppo molti sacerdoti oggi agiscono sulla base di questo schema; e persino le teorie di molti liturgisti, sfortunatamente, si muovono in questa direzione. Essi vogliono superare il rito come qualcosa di rigido e costruiscono prodotti di loro fantasia, ritenuta pastorale, attorno a questo nocciolo residuo, che viene così relegato nel regno del magico oppure privato del tutto del suo significato.

Il movimento liturgico aveva cercato di superare questo riduzionismo, prodotto di una teologia sacramentaria astratta, e di insegnarci a considerare la liturgia come l’insieme vivente della Tradizione fattasi forma, che non si può strappare in piccoli pezzi, ma che deve essere visto e vissuto nella sua totalità vivente. Chi, come me, nella fase del movimento liturgico alla vigilia del Concilio Vaticano II, è stato colpito da questa concezione, può solo constatare con profondo dolore la distruzione di quel che ad esso stava a cuore.Vorrei brevemente commentare altre due intuizioni che appaiono nel libro di dom Alcuin Reid. L’archeologismo e il pragmatismo pastorale – quest’ultimo, peraltro, è spesso un razionalismo pastorale – sono entrambi errati. Potrebbero essere descritti come una coppia di gemelli profani. I liturgisti della prima generazione erano per la maggior parte storici e, di conseguenza, inclini all’archeologismo. Volevano dissotterrare le forme più antiche nella loro purezza originale; vedevano i libri liturgici in uso, con i loro riti, come espressione di proliferazioni storiche, frutto di passati fraintendimenti e ignoranza. Si cercava di ricostruire la più antica Liturgia romana e di ripulirla da tutte le aggiunte posteriori. Non era cosa del tutto sbagliata; ma la riforma liturgica è comunque qualcosa di diverso da uno scavo archeologico, e non tutti gli sviluppi di qualcosa di vivo devono seguire la logica di un criterio razionalistico/storicistico. Questa è anche la ragione per cui – come l’autore giustamente osserva –, nella riforma liturgica, non deve spettare agli esperti l’ultima parola. Esperti e pastori hanno ciascuno il proprio ruolo (così come, in politica, i tecnici e coloro che sono chiamati a decidere rappresentano due livelli diversi). Le conoscenze degli studiosi sono importanti, ma non possono essere immediatamente trasformate in decisioni dei pastori, i quali hanno la responsabilità di ascoltare i fedeli nell’attuare con intelligenza assieme a loro ciò che oggi aiuta a celebrare i sacramenti con fede oppure no. Una delle debolezze della prima fase della riforma dopo il Concilio fu che quasi soltanto gli esperti avevano voce in capitolo. Sarebbe stata auspicabile una maggiore autonomia da parte dei pastori. Poiché spesso, ovviamente, risulta impossibile elevare la conoscenza storica al rango di nuova norma liturgica, molto facilmente questo “archeologismo” si è legato al pragmatismo pastorale. Si è deciso in primo luogo di eliminare tutto ciò che non era riconosciuto come originale, e di conseguenza come “sostanziale”, per poi integrare lo “scavo archeologico” – qualora fosse sembrato ancora insufficiente – con “il punto di vista pastorale”.

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Ma che cos’è “pastorale”? I giudizi intellettualistici dei professori su queste questioni erano sovente determinati dalle loro considerazioni razionali e non tenevano conto di ciò che realmente sostiene la vita dei fedeli. Cosicché oggi, dopo la vasta razionalizzazione della liturgia nella prima fase della riforma, si è di nuovo alla ricerca di forme di solennità, di atmosfere “mistiche” e di una certa sacralità.

Ma siccome esistono – necessariamente e sempre più evidentemente – giudizi largamente divergenti su che cosa sia pastoralmente efficace, l’aspetto “pastorale” è divenuto il varco per l’irruzione della “creatività”, la quale dissolve l’unità della liturgia e ci mette spesso di fronte a una deplorevole banalità.

Con questo non si vuol dire che la liturgia eucaristica, come anche la liturgia della Parola, non siano molte volte celebrate, a partire dalla fede, in modo rispettoso e “bello” nel senso migliore della parola. Ma dato che stiamo cercando i criteri della riforma, dobbiamo pure menzionare i pericoli che negli ultimi decenni, purtroppo, non sono rimasti soltanto fantasie di tradizionalisti nemici della riforma.Vorrei soffermarmi ancora sul fatto che, in quel compendio liturgico citato sopra, il culto è stato presentato come “progetto di riforma”, e cioè come un cantiere dove ci si dà sempre un gran da fare. Simile, seppure un po’ diverso, è il suggerimento, da parte di alcuni liturgisti cattolici, di adattare la riforma liturgica al mutamento antropologico della modernità e di costruirla in modo antropocentrico. Se la liturgia appare anzitutto come il cantiere del nostro operare, allora vuol dire che si è dimenticata la cosa essenziale: Dio. Poiché nella liturgia non si tratta di noi, ma di Dio. La dimenticanza di Dio è il pericolo più imminente del nostro tempo. A questa tendenza la liturgia dovrebbe opporre la presenza di Dio. Ma che cosa accade se la dimenticanza di Dio entra persino nella liturgia, se nella liturgia pensiamo solo a noi stessi? In ogni riforma liturgica e in ogni celebrazione liturgica, il primato di Dio dovrebbe sempre occupare il primissimo posto. Con questo sono andato molto oltre il libro di dom Alcuin. Ma credo che, comunque, sia risultato chiaro che questo libro, con la ricchezza dei suoi spunti, ci insegna dei criteri e ci invita a un’ulteriore riflessione. Per questo ne raccomando la lettura.

(traduzione di Lorenzo Cappelletti e Silvia Kritzenberger)

© Copyright 30Giorni dicembre 2004

Card. Ratzinger: "il profeta è colui che dice la verità perché è in contatto con Dio...". Intervista a Christian Hvidt (1998)

Il problema della profezia cristiana

Intervista concessa al teologo Niels Christian Hvidt (marzo 1998)

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 13 maggio 2005 (ZENIT.org).-

Pubblichiamo di seguito una intervista concessa dal cardinale Joseph Ratzinger a Niels Christian Hvidt, nella quale l’ex Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede affronta e spiega le questioni sollevate dalla profezia cristiana spiegando che “il profeta non è uno che predice l'avvenire (…) il profeta è colui che dice la verità perché è in contatto con Dio e cioè si tratta della verità valida per oggi che naturalmente illumina anche il futuro”.

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1) Nella storia della rivelazione nell’Antico Testamento è essenzialmente la parola del profeta che ne apre il cammino con la sua critica e che l’accompagna per tutto il suo percorso. Secondo Lei che ne è della profezia nella vita della Chiesa?

Cardinal Ratzinger: Vogliamo soffermarci innanzitutto per un momento sulla profezia nel senso vetero testamentario del termine. Sarà utile stabilire con precisione chi sia veramente il profeta per eliminare ogni malinteso. Il profeta non è uno che predice l’avvenire. L’elemento essenziale del profeta non è quello di predire i futuri avvenimenti; il profeta è colui che dice la verità perché è in contatto con Dio e cioè si tratta della verità valida per oggi che naturalmente illumina anche il futuro. Pertanto non si tratta di predire l’avvenire nei suoi dettagli, ma di rendere presente in quel momento la verità divina e di indicare il cammino da prendere. Per quanto riguarda il popolo di Israele la parola del profeta ha una funzione particolare, nel senso che la fede di questo popolo è orientato essenzialmente verso l’avvenire. Di conseguenza la parola del profeta presenta una doppia particolarità: da una parte chiede di essere ascoltata e seguita, pur rimanendo parola umana, e dall’altra si appoggia alla fede e si inserisce nella struttura stessa del popolo di Israele, particolarmente in ciò che attende. E’ pure importante sottolineare che il profeta non è un apocalittico, anche se ne ha la parvenza, non descrive le realtà ultime, ma aiuta a capire e vivere la fede come speranza.Anche se il profeta deve proclamare la Parola di Dio come fosse una spada tagliente, tuttavia egli non è uno che cerchi di fare critiche sul culto e sulle istituzioni. Egli deve sempre fare presente il malinteso e l’abuso della Parola di Dio da parte delle istituzioni e ha il compito di esprimere le esigenze vitali di Dio; tuttavia sarebbe errato costruire l’Antico Testamento su una dialettica puramente antagonista tra i profeti e la Legge. Dato che tutt’e due provengono da Dio, hanno entrambi una funzione profetica. Questo è un punto per me molto importante perché ci porta nel Nuovo Testamento. Alla fine del Deuteronomio, Mosè viene presentato come profeta e si presenta lui stesso come tale. Egli annunzia a Israele: "Dio ti invierà un profeta come me". Resta la domanda: che cosa significa: "un profeta come me"? Io ritengo che il punto decisivo, sempre secondo il Deuteronomio, consista nel fatto che Mosè parlava con Dio come con un amico. Qui vedrei il nocciolo o la radice della vera essenza profetica in questo "faccia a faccia con Dio", il "conversare con Lui come con un amico". Solo in virtù di questo diretto incontro con Dio, il profeta può parlare nella storia di Israele.

2) Come si può rapportare il concetto di profezia con il Cristo? Si può chiamare profeta il Cristo?

Cardinal Ratzinger: I Padri della Chiesa hanno concepito la profezia del Deuteronomio sopra menzionata come una promessa del Cristo, cosa che io condivido. Mosè dice: "Un profeta come me". Egli ha trasmesso ad Israele la Parola e ne ha fatto un popolo, e con il suo "faccia a faccia con Dio" ha compiuto la sua missione profetica portando gli uomini al loro incontro con Dio. Tutti gli altri profeti seguono quel modello di profezia e dovranno sempre nuovamente liberare la legge mosaica dalla rigidità e trasformarla in un cammino vitale.Il vero e più grande Mosè è quindi il Cristo, che realmente vive "faccia a faccia" con Dio perché ne è il Figlio. In questo contesto tra il Deuteronomio e l’avvento del Cristo si intravede un punto molto importante per comprendere l’unità dei due Testamenti. Cristo è il definitivo e vero Mosè che realmente vive "faccia a faccia" con Dio perché è suo Figlio. Egli non solo ci conduce a Dio attraverso la Parola e la Legge, ma ci assume in sé con la sua vita e la sua Passione, e con l’Incarnazione fa di noi il suo Corpo Mistico. Ciò significa che nel Nuovo Testamento, nelle sue

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radici, la profezia è presente. Se Cristo è il Profeta definitivo perché è il Figlio di Dio, è nella comunione con il Figlio che discende la dimensione cristologica e profetica anche del Nuovo Testamento.

3) Secondo Lei, come si deve considerare tutto ciò concretamente nel Nuovo Testamento? Con la morte dell’ultimo apostolo non viene posto un limite definitivo ad ogni ulteriore profezia, non se ne esclude ogni possibilità?

Cardinal Ratzinger: Sì, esiste la tesi secondo la quale la fine dell’Apocalisse ponga termine ad ogni profezia. A me pare che questa tesi racchiuda un doppio malinteso. Anzitutto dietro a questa tesi può esserci il concetto che il profeta, che è essenzialmente finalizzato ad una dimensione di speranza, non abbia più ragione di essere, proprio perché ormai c’è il Cristo e la speranza si basa sulla sua presenza. Questo è un errore, perché il Cristo è venuto in carne e poi è risuscitato "in Spirito Santo". Questa nuova presenza di Cristo nella storia, nel Sacramento, nella Parola, nella vita della Chiesa, nel cuore di ogni uomo, è l’espressione, ma anche l’inizio dell’Avvento definitivo del Cristo che prenderà possesso di tutto e in tutto. Ciò significa che il cristianesimo è di per sé un movimento perché va incontro ad un Signore risuscitato che è salito al Cielo e ritornerà. E’ questa è la ragione per la quale il cristianesimo porta in sé sempre la struttura della speranza. L’Eucarestia è sempre stata concepita come un movimento da parte nostra verso il Signore che viene. Essa incorpora pure tutta la Chiesa. Il concetto che il cristianesimo sia una presenza già del tutto completa e non porti in sé alcuna struttura di speranza è il primo errore che va rigettato.

Il Nuovo Testamento ha già in sé una struttura di speranza che è un po’ cambiata, ma che è pur sempre una struttura di speranza. Essere un servitore della speranza è essenziale per la fede del nuovo popolo di Dio.Il secondo malinteso è costituito da una comprensione intellettualistica e riduttiva della Rivelazione che viene considerata come un tesoro di verità rivelate assolutamente complete a cui non si può più aggiungere nulla. L’autentico avvenimento della Rivelazione consiste nel fatto che noi veniamo invitati a questo "faccia a faccia" con Dio. La Rivelazione è essenzialmente un Dio che si dona a noi, che costruisce con noi la storia e che ci riunisce e raccoglie tutti insieme. Si tratta di un incontro che ha in sé anche una dimensione comunicativa e una struttura cognitiva. Essa implica anche il riconoscimento delle verità rivelate.Se si accetta la Rivelazione sotto questo punto di vista, si può dire che la Rivelazione ha raggiunto il suo scopo con il Cristo, perché, secondo la bella espressione di San Giovanni della Croce, quando Dio ha parlato personalmente, non vi è più nulla da aggiungere. Non si può più dire nulla oltre il Logos. Egli è in mezzo a noi in modo completo e lo stesso Dio non può più darci, né dirci qualcosa di più di Sé stesso. Quanto a noi, non ci resta che penetrare, giorno dopo giorno, questo mistero della fede, proprio perché noi cristiani abbiamo ricevuto questo dono totale di sé che Dio ci ha fatto con il suo Verbo fatto carne.Ciò si ricollega alla struttura della speranza. La venuta di Cristo è l’inizio di una conoscenza sempre più profonda e di una graduale scoperta di ciò che il Verbo ci ha donato. Così si è aperto un nuovo modo di introdurre l’uomo nella Verità tutta intera, come dice Gesù nel Vangelo di San Giovanni, dove parla della discesa dello Spirito Santo. Ritengo che la cristologia pneumatologica dell’ultimo discorso di addio di Gesù nel Vangelo di San Giovanni sia molto importante per il nostro discorso, dato che Cristo vi spiega che la sua vita terrena in carne non era che un primo passo. La vera venuta del Cristo si realizza al momento in cui lui non è più legato a un luogo fisso o a un corpo fisico, ma come il Risuscitato nello Spirito capace di andare da tutti gli uomini di tutti i tempi, per introdurli nella verità in modo sempre più profondo. A me pare chiaro che - proprio quando questa cristologia pneumatologica determina il tempo della Chiesa, cioè il tempo in cui il Cristo viene a noi in Spirito - l’elemento profetico, come elemento di speranza e di attualizzazione del

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dono di Dio, non possa mancare né venire meno.

4) Se allora è così, la domanda è: in quale modo è presente questo elemento profetico e che cosa dice San Paolo a questo proposito?

Cardinal Ratzinger: In Paolo è particolarmente evidente che il suo apostolato, essendo un apostolato universale rivolto a tutto il mondo pagano, comprende anche la dimensione profetica. Grazie al suo incontro con il Cristo Risorto, San Paolo ha potuto penetrare nel mistero della Risurrezione e nella profondità del Vangelo. Grazie al suo incontro con il Cristo egli ha potuto capire in modo nuovo la sua Parola, mettendo in evidenza l’aspetto di speranza e facendo valere la sua capacità di discernimento.Essere un apostolo come San Paolo è naturalmente un fenomeno unico. Ci si può chiedere che cosa avvenga nella Chiesa dopo la fine dell’era apostolica. Per rispondere a questa domanda è molto importante un passo del secondo capitolo della lettera di San Paolo agli Efesini in cui egli scrive: la Chiesa è fondata "sugli apostoli e sui profeti". Un tempo si pensava che si trattasse dei dodici apostoli e dei profeti dell’Antico Testamento. L’esegesi moderna ci dice che il termine di "apostolo" deve essere inteso in modo più ampio e che il concetto di "profeta" va riferito ai profeti della Chiesa. Dal capitolo dodicesimo della prima lettera ai Corinzi, si apprende che i profeti di allora si organizzavano come membri di un collegio. La stessa cosa viene menzionata dalla Didakhé, la qual cosa significa che questo collegio esisteva ancora quando l’opera fu scritta. Più tardi il collegio dei profeti si dissolse, e questo certamente non a caso, poiché l’Antico Testamento ci dimostra che la funzione del profeta non può essere istituzionalizzata, dato che la critica dei profeti non è diretta solo contro i preti, si dirige anche contro i profeti istituzionalizzati. Ciò appare in modo molto chiaro nel libro del profeta Amos, dove questi parla contro i profeti del regno di Israele. I profeti liberi parlano spesso contro i profeti che appartengono a un collegio, perché Dio trova, per così dire, più margine di manovra e più ampio spazio per agire presso i primi, presso i quali può intervenire e prendere iniziative liberamente, cosa che non potrebbe fare invece con una forma di profezia di tipo istituzionalizzato. A me pare tuttavia che questa dovrebbe sussistere sotto entrambe le forme, come del resto è avvenuto durante tutta la storia della Chiesa. Come gli stessi apostoli erano a loro modo anche profeti, così bisogna riconoscere che nel collegio apostolico istituzionalizzato esiste pur sempre un carattere profetico. Così la Chiesa affronta le sfide che le sono proprie grazie allo Spirito Santo che, nei momenti cruciali, apre una porta per intervenire. La storia della Chiesa ci ha fornito molti esempi di grandi personaggi quali Gregorio Magno e Sant’Agostino che erano anche profeti. Potremmo citare altri nomi di grandi personaggi della Chiesa che sono stati anche figure profetiche in quanto hanno saputo tenere aperta la porta allo Spirito Santo. Solo agendo così essi hanno saputo esercitare il potere in modo profetico, come viene detto molto bene nella Didakhé.Per quanto riguarda i profeti indipendenti, cioè non istituzionalizzati, occorre ricordare che Dio si riserva la libertà, attraverso i carismi, di intervenire direttamente nella sua Chiesa per risvegliarla, avvertirla, promuoverla e santificarla. Credo che nella storia della Chiesa questi personaggi carismatici e profetici si sono continuamente succeduti. Essi sorgono sempre nei momenti più critici e decisivi nella storia della Chiesa. Pensiamo ad esempio al nascere del movimento dei monaci, a Sant’Antonio che va nel deserto e in questo modo dà un forte impulso alla Chiesa. Sono i monaci che hanno salvato la cristologia dall’arianesimo e dal nestorianesimo. Anche San Basilio è una di queste figure, un grande vescovo, ma nello stesso tempo anche un vero profeta. In seguito non è difficile intravedere nel movimento degli ordini mendicanti un’origine carismatica. Né San Domenico né San Francesco hanno fatto profezie sul futuro, ma hanno saputo leggere il segno dei tempi e capire che era arrivato per la Chiesa il momento di

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liberarsi dal sistema feudale, di ridare valore all’universalità e della povertà del Vangelo, come pure alla "vita apostolica". Così facendo hanno ridato alla Chiesa il suo vero aspetto, quello di una Chiesa animata dallo Spirito Santo e condotta dal Cristo stesso. Hanno così contribuito alla riforma della gerarchia ecclesiastica. Altri esempi sono Santa Caterina da Siena e Santa Brigida di Svezia, due grandi figure di donne. Penso sia importante sottolineare come in un momento particolarmente difficile per la Chiesa, quale fu quello della crisi di Avignone e lo scisma che ne seguì, si siano levate figure di donne per annunciare che il Cristo vivente è anche il Cristo che soffre nella sua Chiesa.

5) Quando si legge la storia della Chiesa, risulta chiaro che la maggior parte dei mistici profeti sono donne. Questo è un fatto molto interessante che potrebbe contribuire alla discussione sul sacerdozio delle donne. Che cosa ne pensa Lei?

Cardinal Ratzinger: C’è un’antica tradizione patristica che chiama Maria non sacerdotessa, ma profetessa. Il titolo di profetessa nella tradizione patristica è, per eccellenza, il titolo di Maria. E’ in Maria che il temine di profezia in senso cristiano viene meglio definito e cioè questa capacità interiore di ascolto, di percezione e di sensibilità spirituale che le consente di percepire il mormorio impercettibile dello Spirito Santo, assimilandolo e fecondandolo e offrendolo al mondo. Si potrebbe dire, in un certo senso, ma senza essere categorici, che di fatto la linea mariana incarna il carattere profetico della Chiesa. Maria è sempre stata vista dai Padri della Chiesa come l’archetipo dei profeti cristiani e da lei parte la linea profetica che entra poi nella storia della Chiesa. A questa linea appartengono pure le sorelle dei grandi santi. Sant’Ambrogio deve alla sua santa sorella il cammino spirituale che ha percorso. La stessa cosa vale per San Basilio e San Gregorio di Nysse, come pure per San Benedetto. Più avanti nel tardo Medioevo, incontriamo grandi figure di mistiche, tra cui bisogna menzionare Santa Francesca Romana. Nel XVI secolo troviamo Santa Teresa d’Avila che ha avuto un ruolo molto importante nell’evoluzione spirituale e dottrinale di San Giovanni della Croce.La linea profetica legata alle donne ha avuto una grande importanza nella storia della Chiesa. Santa Caterina da Siena e Santa Brigida di Svezia possono servire da modello come griglia di lettura. Entrambe hanno parlato ad una Chiesa in cui esisteva ancora il collegio apostolico e dove i sacramenti venivano amministrati. Dunque l’essenziale esisteva ancora pur tuttavia, a causa delle lotte interne, rischiava di decadere. Questa Chiesa è stata da loro ravvivata, riportando al suo antico valore il carisma dell’unità e introducendo nuovamente l’umiltà, il coraggio evangelico e il valore dell’evangelizzazione.

6) Lei ha detto che la Rivelazione nel Cristo è avvenuta in modo "definitivo", ciò che non significa chiusura assoluta, non si identifica con l’ultima parola delle dottrine rivelate. Questa affermazione è di grande interesse per la nostra tesi sulla profezia cristiana. Ora la domanda più urgente è naturalmente questa: in quale misura i profeti, nella storia della Chiesa e anche per la teologia stessa, possono dire qualcosa di radicalmente nuovo? E’ verificabile che gli ultimi grandi dogmi sono da mettere direttamente in relazione con le rivelazioni di grandi santi profeti, come ad esempio le rivelazioni di Santa Caterina Laburé per quanto concerne il dogma dell’Immacolata Concezione. Questo è un tema assai poco esplorato nei libri di teologia.

Cardinal Ratzinger: Sì, questo tema potrebbe essere veramente trattato a fondo. Mi pare che Hans Urs von Balthasar abbia trovato, nelle sue ricerche, che dietro ad ogni grande teologo vi sia sempre prima un profeta. Un Sant’Agostino è impensabile senza l’incontro con il monachesimo e soprattutto con sant’Antonio. E la stessa cosa vale per Sant’Athanasio; e San Tommaso d’Aquino non sarebbe concepibile senza San Domenico e il carisma dell’evangelizzazione che gli era proprio.

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Leggendo gli scritti di quest’ultimo, si nota quanto importante sia stato per lui questo tema dell’evangelizzazione. Questo stesso tema ha svolto un ruolo importante nella sua disputa con il clero e con l’università di Parigi, e costrinse San Tommaso a ripensare lo statuto dell’ordine domenicano.Egli qui afferma che la vera regola del suo ordine si trova nelle Sacre Scritture e che è costituita dal quarto capitolo degli Atti degli Apostoli (aveva un cuore solo e un’anima sola) e dal decimo capitolo del Vangelo di San Matteo (annunciare il Vangelo senza pretendere nulla per sé). Questa è per San Tommaso la regola di tutte le regole religiose. Ogni forma monastica non può essere che la realizzazione di questo primo modello che aveva naturalmente un carattere apostolico, ma che la figura profetica di San Domenico gli ha fatto riscoprire in modo nuovo. A partire da questo modello-prototipo San Tommaso sviluppa la sua teologia come evangelizzazione, cioè un muoversi con e per il Vangelo, un essere radicato nel concetto di "un cuore solo e un’anima sola" della comunità dei credenti. Lo stesso si potrebbe dire di San Bonaventura e di San Francesco d’Assisi: la stessa cosa avviene per Hans Urs von Balthasar impensabile senza Adrienne von Speyr.Credo che si possa dimostrare come in tutte le figure dei grandi teologi sia possibile una nuova evoluzione teologica solo nel rapporto tra teologia e profezia. Finché si procede solo in modo razionale, non accadrà mai nulla di nuovo. Si riuscirà forse a sistemare meglio le verità conosciute, a rilevare aspetti più sottili, ma i nuovi veri progressi che portano a nuove grandi teologie non provengono dal lavoro razionale della teologia, bensì da una spinta carismatica e profetica. Ed è in questo senso, ritengo, che la profezia e la teologia vanno sempre di pari passo. La teologia, in senso stretto, non è profetica, ma può diventare realmente teologia viva quando viene nutrita e illuminata da un impulso profetico.

7) Nel Credo si dice dello Spirito Santo che "ha parlato per mezzo dei profeti". La domanda è: i profeti qui menzionati sono solo quelli dell’Antico Testamento, o ci si riferisce anche a quelli del Nuovo Testamento?

Cardinal Ratzinger: Per rispondere a questa domanda bisognerebbe studiare a fondo la storia del Credo di Nicea. Indubbiamente, qui si tratta solo dei profeti dell’Antico Testamento (vedi l’uso del tempo passato: "ha parlato") e quindi la dimensione pneumatologica della rivelazione viene messa fortemente in evidenza. Lo Spirito Santo precede il Cristo per preparagli la strada, per poi introdurre tutti gli uomini alla verità. Esistono vari tipi di simbolismo in cui questa dimensione viene messa in forte risalto. Nella tradizione della Chiesa Orientale i profeti vengono considerati come un’opera di preparazione dello Spirito Santo che parla già prima di Cristo e che parla attraverso i profeti. Sono convinto che l’accento primario è posto sul fatto che è lo Spirito Santo che apre la porta perché il Cristo possa essere accolto "ex Spiritu Sancto". Ciò che è avvenuto in Maria per opera dello Spirito Santo (ex Spiritu Sancto) è un evento preparato accuratamente e a lungo. Maria raccoglie in sé tutta la profezia dell’Antico Testamento nel concepimento del Cristo "ex Spiritu Sancto". Secondo me questo non esclude che si potrebbe continuare nella nostra prospettiva dicendo che il Cristo continua ad essere concepito "ex Spiritu Sancto". Sembra chiaro che l’evangelista San Luca, a ragion veduta, abbia messo in parallelo il racconto dell’infanzia di Gesù nel suo Vangelo con la nascita della Chiesa nel secondo capitolo degli Atti degli Apostoli. Nei dodici apostoli, raccolti attorno a Maria, avviene una "Concepitio ex Spiritu Sancto" che si attualizza nella nascita della Chiesa. Concludendo si può dire che se anche il testo del Credo si riferisce ai soli profeti dell’Antico Testamento, ciò non significa che l’azione dello Spirito Santo si possa dichiarare con questo conclusa.

8) San Giovanni Battista viene spesso designato come l’ultimo dei profeti. Secondo Lei, come va intesa questa affermazione?

Cardinal Ratzinger: Penso che vi siano molte ragioni e contenuti in questa affermazione. Uno di

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questi è la parola stessa di Gesù: "La Legge e tutti i Profeti infatti hanno profetato fino a Giovanni" dopo viene il regno di Dio. Qui Gesù stesso dichiara che Giovanni rappresenta la fine dell’Antico Testamento e che dopo verrà qualcuno più piccolo all’apparenza, ma più grande nel Regno di Dio, cioè Gesù stesso. In questo modo il Battista viene ancora inquadrato nell’Antico Testamento e tuttavia apre una Nuova Alleanza. In questo senso il Battista è l’ultimo dei profeti. Questo è pure il giusto senso del termine: Giovanni è l’ultimo prima di Cristo, colui che raccoglie la fiaccola di tutto il movimento profetico e la consegna nelle mani di Cristo. Egli conclude l’opera dei profeti perché indica la speranza del popolo di Israele: il Messia, cioè Gesù. E’ importante precisare che lui stesso non annuncia nulla che riguarda l’avvenire, ma si ritiene solo uno che chiama alla conversione e che rinnova e attualizza la promessa messianica della Antica Alleanza. Del Messia dice: "In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete". Anche se in questo annuncio vi è una predizione, Giovanni Battista rimane fedele al modello profetico che non è quello di predire l’avvenire, ma di annunciare che è tempo di convertirsi. Il messaggio del Battista è quello di invitare il popolo di Israele a guardarsi dentro e a convertirsi per poter riconoscere, nell’ora della salvezza, Colui che Israele ha sempre atteso e che ora è presente. Giovanni impersonifica in questo senso l’ultimo dei profeti e l’economia specifica della speranza dell’Antica Alleanza. Quello che verrà dopo sarà un altro tipo di profezia. Per questo il Battista può essere chiamato l’ultimo dei profeti dell’Antico Testamento. Ciò non significa tuttavia che dopo di lui la profezia sia finita. Ci si troverebbe in contrasto con l’insegnamento di San Paolo che dice nella sua prima lettera ai Tessalonicesi: "Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie".

9) In un certo senso esiste una differenza tra la profezia del Nuovo e dell’Antico Testamento perché Cristo è entrato nella storia. Ma se si guarda all’essenza stessa della profezia, che è quella di immettere nella Chiesa la Parola ascoltata da Dio, non sembra esserci alcuna differenza.

Cardinal Ratzinger: Sì, esiste effettivamente una comune struttura di base tra le due profezie, che varia solo per il rapporto con il Cristo che deve venire e il Cristo già venuto, ma che dovrà ancora ritornare. Questa questione teologica merita di essere studiata e approfondita maggiormente: il nocciolo di questa questione è sapere perché il tempo della Chiesa sul piano strutturale ha molte più affinità con l’Antico Testamento, o per lo meno a questo è molto simile, e in che cosa consiste la novità portata dalla prima venuta di Cristo.

10) Spesso nella teologia si nota la tendenza a volere assolutamente differenziare l’Antico e il Nuovo Testamento. Questa differenziazione appare spesso artificiale e basata su principi astratti piuttosto che concreti.

Cardinal Ratzinger: Il voler radicalizzare le differenze senza voler vedere l’unità interiore che esiste nella storia di Dio con gli uomini è un errore in cui i Padri della Chiesa non sono incorsi. Essi hanno proposto un triplice schema: "umbra, imago, veritas", dove il Nuovo Testamento è "l’imago", così l’Antico e il Nuovo Testamento non vengono contrapposti l’uno all’altro come ombra e realtà, ma nella triade di ombra, immagine e verità, si tiene aperta l’attesa verso il definitivo compimento e il tempo del Nuovo Testamento, il tempo della Chiesa, come un ulteriore piano più avanzato, ma sempre nel cammino della Promessa. Questo è un punto che fino ad oggi, secondo me, non è stato sufficientemente considerato. I Padri della Chiesa, invece, hanno sottolineato il carattere di incompletezza del Nuovo Testamento, in cui non tutte le promesse si sono ancora avverate. Cristo è sì venuto nella carne, ma la Chiesa attende ancora la sua Rivelazione nella pienezza della sua gloria.

11) Forse sarebbe questa la ragione che spiega perché molte figure profetiche hanno un

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carattere fortemente escatologico nella loro spiritualità?

Cardinal Ratzinger: Penso che l’aspetto escatologico - senza esaltazione apocalittica - appartenga essenzialmente alla natura profetica. I profeti sono coloro che esaltano la dimensione della speranza racchiusa nel cristianesimo. Essi sono gli strumenti che rendono sopportabile il presente invitando ad uscire dal tempo per quanto concerne l’essenziale e il definitivo. Questo carattere escatologico, questa spinta a superare il tempo presente, fa certamente parte della spiritualità profetica.

12) Se poniamo l’escatologia profetica in relazione alla speranza, il quadro cambia completamente. Non è più un messaggio che fa paura, ma che apre un orizzonte al compimento della promessa di Cristo per tutta la creazione.

Cardinal Ratzinger: Che la fede cristiana non ispiri paura, ma la superi è un fatto fondamentale. Questo principio deve costituire la base della nostra testimonianza e della nostra spiritualità. Ma ritorniamo un momento a quanto detto sopra. E’ estremamente importante precisare in che senso il cristianesimo è il compimento della Promessa fatta da Dio e in che senso non lo è. Ritengo che l’attuale crisi della fede sia strettamente legata ad un insufficiente chiarimento di tale questione. Qui si presentano tre pericoli. Il primo pericolo: la promessa dell’Antico Testamento e l’attesa della salvezza degli uomini sono visti solo in modo immanente nel senso di migliori strutture o di prestazioni sempre più perfette. Così concepito il cristianesimo risulta solo una sconfitta. Partendo da questa prospettiva si è tentato di sostituire il cristianesimo con ideologie di fede nel progresso e poi con ideologie di speranza, che altro non sono che varianti del marxismo. Il secondo pericolo è quello di proiettare il cristianesimo completamente nell’al di là, di volerlo solo in modo puramente spirituale e individualistico, negando la totalità della realtà umana. Il terzo pericolo, che è particolarmente minaccioso in tempi di crisi e di svolte storiche, è quello di rifugiarsi in esaltazioni apocalittiche. In opposizione a tutto ciò, diventa sempre più urgente presentare la vera struttura della promessa e del compimento della fede cristiana in modo più comprensibile e realizzabile.

13) Spesso si nota che tra il misticismo puramente contemplativo e senza parole e il misticismo profetico con le parole, esiste una grande tensione. Karl Rahner ha fatto notare questa tensione tra i due tipi di mistica. Alcuni pretendono che la mistica contemplativa e senza parole sia quella più elevata, più pura e spirituale. In tale senso vengono spiegati certi passaggi in San Giovanni della Croce. Altri pensano che tale mistica senza parole in fondo sia estranea al cristianesimo perché la fede cristiana è essenzialmente la religione della Parola.

Cardinal Ratzinger: Sì, direi che la mistica cristiana ha anche una dimensione missionaria. Essa non cerca solo di elevare l’individuo, ma gli conferisce una missione mettendolo in contatto con il Verbo, con il Cristo che parla attraverso lo Spirito Santo. Questo punto viene messo in forte rilievo da San Tommaso d’Aquino. Prima di san Tommaso si diceva: prima monaco e poi mistico; oppure prima prete e poi teologo. Tommaso non accetta questo, perché il dono mistico apre ad una missione. E la missione non è qualcosa di inferiore alla contemplazione, come invece pensava Aristotele che riteneva la contemplazione intellettuale il gradino più alto nella scala dei valori umani. Questo non è un concetto cristiano, dice San Tommaso, perché la forma più perfetta di vita è quella mista, cioè prima quella mistica e da questa poi quella apostolica a servizio del Vangelo. Santa Teresa d’Avila ha esposto questo concetto in modo molto chiaro. Essa mette in relazione la mistica con la cristologia, ottenendo così una struttura missionaria. Con ciò non voglio escludere che il Signore possa suscitare mistici autenticamente cristiani in seno alla Chiesa, ma vorrei precisare che la cristologia come base e misura di ogni mistica cristiana, indica un’altra struttura (Cristo e lo Spirito Santo sono inscindibili). Il "faccia a faccia" di Gesù con il Padre, include "l’essere per gli altri" contiene in sé "l’essere per tutti". Se la mistica è essenzialmente un entrare in intimità con Cristo, questo "essere per gli altri" le verrà impresso nell’intimo.

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14) Molti profeti cristiani, come Caterina da Siena, Brigida di Svezia e Faustina Kowalska attribuiscono a Cristo i loro discorsi profetici o rivelazioni. Queste rivelazioni vengono definite dalla teologia come rivelazioni private. Questo concetto appare molto riduttivo perché la profezia è sempre rivolta a tutta la Chiesa e non è mai privata.

Cardinal Ratzinger: In teologia il concetto di "privato" non significa che il messaggio riguardi solo la persona che lo riceve e non anche tutti gli altri. E’ un’espressione che riguarda piuttosto il grado di importanza come per esempio si ha nel concetto di "Messa privata" Con questo si intende dire che le rivelazioni dei mistici cristiani o dei profeti, non potranno mai assurgere al rango della rivelazione biblica, potranno solo condurre a quella o con quella misurarsi. Questo non significa tuttavia che questo tipo di rivelazioni non sia importante per la Chiesa. Lourdes e Fatima provano il contrario. Esse in definitiva ci riportano alla rivelazione biblica. e appunto per questo rivestono una sicura importanza.

15) Nella storia della Chiesa si può constatare che non si possono evitare ferite reciproche, tanto da parte del profeta quanto da parte dei destinatari. Come spiega questo dilemma?

Cardinal Ratzinger: E’ sempre stato così: l’impatto profetico non può avvenire senza la reciproca sofferenza. Il profeta è chiamato a soffrire in un modo specifico: l’essere pronto a soffrire e a condividere la Croce di Cristo è la pietra di verifica della sua autenticità. Il profeta non cerca mai di imporre se stesso. Il suo messaggio viene verificato e reso fertile dalla Croce.

16) E’ veramente frustrante constatare che la maggior parte delle figure profetiche della Chiesa sono state respinte durante la loro vita. Esse sono state quasi sempre criticate o sottoposte al rifiuto da parte della Chiesa. Ciò è riscontrabile nella maggioranza dei profeti e delle profetesse.

Cardinal Ratzinger: Sì, è vero. Sant’Ignazio di Loyola è stato in prigione, la stessa cosa è accaduta a San Giovanni della Croce. Santa Brigida di Svezia è stata sul punto di essere condannata dal concilio di Basilea; del resto è tradizione della Congregazione per la Dottrina della Fede di essere in un primo momento molto cauti là dove si hanno affermazioni di mistici. Questo atteggiamento è del resto più che giustificato poiché esistono molti falsi mistici, molti casi patologici. Pertanto è necessario un atteggiamento molto critico per non rischiare di cadere nel sensazionale, nel fantasioso e nella superstizione. Il mistico si manifesta nella sofferenza, nell’obbedienza e nella sopportazione e così la sua voce dura nel tempo. Quanto alla Chiesa, essa deve guardarsi dall’emettere un giudizio prematuro per evitare di meritare il rimprovero di "avere ucciso i profeti".

17) L’ultima domanda è forse un po’ imbarazzante. Essa riguarda una figura profetica contemporanea: la greco-ortodossa Vassula Rydén. Essa viene considerata da molti credenti, anche da molti teologi, sacerdoti e vescovi della Chiesa Cattolica come messaggera di Cristo. I suoi messaggi, che dal 1991 vengono tradotti in 34 lingue, sono ampiamente diffusi nel mondo. La Congregazione per la Dottrina della Fede si è pronunciata tuttavia in modo negativo al riguardo. La "Notificazione" del 1995, nella quale accanto ad aspetti positivi negli scritti di Vassula, intravede anche punti meno chiari, è stata interpretata da alcuni commentatori come una condanna. Non è vero?

Cardinal Ratzinger: Qui Lei tocca un tema piuttosto delicato. No, la "Notificazione" è un avvertimento, non una condanna. Da un punto di vista procedurale, nessuna persona potrebbe essere condannata senza

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processo e senza essere stata prima sentita. Ciò che viene detto è che molte cose sono ancora da chiarire. Vi sono elementi apocalittici che suscitano problemi e aspetti ecclesiologici ancora poco chiari. I suoi scritti contengono molte cose buone, ma il grano buono è misto al loglio. E’ per questo che abbiamo invitato i cristiani cattolici ad osservare il tutto con prudenza e misurarlo con il metro della fede trasmessa dalla Chiesa.

18) Esiste dunque ancora un processo in corso per chiarire la questione?

Cardinal Ratzinger: Sì, e, durante tale processo di chiarificazione, i fedeli devono rimanere prudenti e mantenere sveglio lo spirito di discernimento. Indubbiamente negli scritti si constata un’evoluzione che non sembra ancora conclusa. Non dobbiamo dimenticare che le espressioni e le immagini ispirate dall’incontro interiore con Dio, anche in caso di mistica autentica, dipendono sempre dalle possibilità dell’anima umana e dalla sua limitatezza. La fiducia illimitata va posta soltanto nella effettiva Parola della Rivelazione che incontriamo nella fede trasmessa dalla Chiesa.

di Niels Christian Hvidt

[Testo tratto dal sito della Congregazione per il Clero]

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La politica non si desume dalla fede, ma dalla ragione, e la distinzione tra la sfera della politica e la sfera della fede appartiene al Cristianesimo

“La teologizzazione della politica diventerebbe ideologizzazione della fede”

Joseph Ratzinger alla Pontificia Università della Santa Croce (aprile 2003)

ROMA, martedì, 24 maggio 2005 (ZENIT.org).

Pubblichiamo di seguito l’intervento del Cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Joseph Ratzinger, al convegno “L’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica”, promosso dalla Pontificia Università della Santa Croce, a Roma, il 9 aprile 2003 e apparso sulla rivista “30Giorni”.

* * *

Resisto alla tentazione grande di rispondere alle interessanti osservazioni e riflessioni del senatore Francesco Cossiga, e mi limito ad introdurre la “ Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica ” , per indicare qual è la posizione di fondo di questo documento che immediatamente parla ai cattolici – perché solo questi hanno una relazione di fede con la Santa Sede – ma che vuol far pensare naturalmente tutti.

Secondo Paul Ricoeur far pensare è la cosa più nobile che la filosofia può ottenere, e quindi vogliamo far pensare senza imporre qualcosa. In ogni caso la posizione descritta nel nostro documento si potrebbe riassumere così: per noi, e cioè per la convinzione della Chiesa cattolica di tutti i tempi, la politica appartiene alla sfera della ragione, la ragione comune a tutti, la ragione naturale. La politica quindi è un lavoro che implica l’uso della ragione e va governata dalle virtù naturali, così ben descritte dall’antichità greca, le quattro virtù cardinali: la prudenza, la temperanza,

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la giustizia, la fortezza.

La convinzione che il campo della politica è il campo della ragione comune, che deve svolgersi nella reciproca comprensione e che deve comportare anche l’illuminazione della ragione, implica l’esclusione di due posizioni. Esclude innanzitutto la teologizzazione della politica, che diventerebbe ideologizzazione della fede. La politica infatti non si desume dalla fede, ma dalla ragione, e la distinzione tra la sfera della politica e la sfera della fede appartiene proprio alla tradizione centrale del cristianesimo: la troviamo nella parola di Cristo “Date all’imperatore quanto è dell’imperatore, a Dio quanto è di Dio”. In questo senso lo Stato è uno Stato laico, profano, nel senso positivo. Mi vengono in mente per esempio le belle parole di san Bernardo di Chiaravalle al Papa di quel tempo: “Non pensare che tu sia il successore di Costantino; non sei il successore di Costantino, ma di Pietro. Il tuo libro fondamentale non è il Codice di Giustiniano, ma è la Sacra Scrittura”. Questa, diciamo, giusta profanità, o anche laicità della politica, che esclude quindi l’idea di una teocrazia, di una politica determinata dal dettato della fede, esclude, d’altra parte, anche un positivismo ed empirismo che è una mutilazione della ragione. Secondo questa posizione la ragione sarebbe capace di percepire solo le cose materiali, empiriche, verificabili o falsificabili con metodi empirici. Quindi la ragione sarebbe cieca per quanto riguarda i valori morali e non potrebbe giudicarli, perché rientrerebbero nella sfera della soggettività, e non in quella dell’oggettività di una ragione limitata al verificabile, all’empirico, e positivista. Una tale mutilazione della ragione che si limita al constatabile, all’empirico, al verificabile e al falsificabile secondo metodi materiali, distrugge la politica e, come aveva detto il senatore Cossiga, la riduce ad un’azione puramente tecnica, che dovrebbe seguire semplicemente le correnti più forti del momento, sottomettendosi quindi al transitorio ed anche ad un dettato irrazionale. E questo è l’altro impegno del nostro documento: mentre da un lato escludiamo una concezione teocratica ed insistiamo sulla razionalità della politica, dall’altro escludiamo anche un positivismo per cui la ragione sarebbe cieca per i valori morali, e siamo convinti che la ragione ha la capacità di conoscere i grandi imperativi morali, i grandi valori che devono determinare tutte le decisioni concrete. E in questo senso mi sembra che subentri anche un certo legame tra fede e politica: la fede cioè può illuminare la ragione, può sanare, guarire una ragione ammalata. Non nel senso che questo influsso della fede trasferisce il campo della politica dalla ragione alla fede, ma nel senso che restituisce la ragione a se stessa, aiuta la ragione ad essere se stessa, senza alienarla. Le indicazioni che appaiono nella nostra Nota ai politici cattolici, riguardo ai valori che sono da difendere anche contro maggioranze di un momento, non vogliono essere una intromissione nella politica da parte della gerarchia. Ma vogliono essere un necessario aiuto alla ragione in modo che soprattutto i politici credenti possano nella discussione politica aiutare ad una evidenza comune e così ad una presenza reale e concreta dei valori che devono governare ognuno nella politica. Grazie.

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Joseph Ratzinger presenta se stesso: discorso di Presentazione alla Pontificia Accademia delle Scienze (2000)

Joseph Ratzinger presenta se stesso: discorso di Presentazione alla Pontificia Accademia delle Scienze

Pubblichiamo il discorso di presentazione del Card. Joseph Ratzinger pronunciato in occasione della nomina, il 13 novembre del 2000, a membro della Pontificia Accademia delle Scienze. In tale occasione si chiede, infatti, che i nuovi accademici presentino se stessi.

Tratto da Zenit.org, Edizione spagnola (Código: ZS05051611): http://www.zenit.org/spanish/visualizza.phtml?sid=70993 Traduzione di Totus tuus network

Signor Presidente, stimati colleghi,

sono nato nel 1927 a Marktl, nella Baviera del Nord. Ho svolto i miei corsi teologici e filosofici subito dopo la guerra, dal 1946 al 1951. In tale periodo, la formazione teologica della facoltà di Monaco fu essenzialmente determinata dal movimento biblico, liturgico ed ecumenico degli anni compresi tra le due Guerre Mondiali.

Lo studio biblico fu fondamentale ed essenziale nella nostra formazione, ed il metodo storico-critico è sempre stato molto importante per la mia formazione ed il lavoro teologico susseguente.

In generale, la nostra formazione si orientò in senso storico e perciò, benché la mia specializzazione sia stata la teologia sistematica, la mia dissertazione dottorale e il mio lavoro post dottorale trattarono argomenti storici.

La mia dissertazione dottorale fu incentrata sulla nozione di Popolo di Dio in sant’Agostino; in

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questo studio mi fu possibile osservare come sant’Agostino mantenne un dialogo con diverse forme di platonismo, il platonismo di Plotino da un lato e quello di Porfirio dall’altro. La filosofia di Porfirio costituì una ri-fondazione del politeismo e una fondazione filosofica delle idee della religione greca classica, combinata con elementi delle religioni orientali. Nel medesimo tempo, Agostino mantenne un dialogo con l’ideologia romana, specialmente dopo l’occupazione di Roma da parte dei Goti nel 410, e fu per questo che mi risultò assai affascinante osservare come attraverso questi diversi dialoghi e culture egli definisce l’essenza della religione cristiana. Egli vide la fede cristiana non in continuità con le religioni anteriori, ma piuttosto in continuità con la filosofia intesa come vittoria della ragione sulla superstizione. Così, anche il comprendere l’idea originale di Agostino e di molti altri Padri sulla posizione del cristianesimo in questo periodo della storia del mondo fu per me molto interessante e, se Dio me ne darà il tempo, spero di sviluppare quest’idea più avanti.

Il mio lavoro post dottorale fu incentrato su San Bonaventura, un teologo francescano del XIII secolo. Scopersi un aspetto della teologia di san Bonaventura a quanto ne so non basato sulla letteratura precedente: la sua relazione con una nuova idea di storia concepita da Gioacchino da Fiore nel XII secolo. Gioacchino intese la storia come progressione da un periodo del Padre (un tempo difficile per gli esseri umani sotto la legge), ad un secondo periodo della storia, quello del Figlio (con maggiore libertà, più franchezza, più fratellanza), ad un terzo periodo della storia, il periodo definitivo della storia, il tempo dello Spirito Santo. Secondo Gioacchino questo doveva essere il tempo della riconciliazione universale, di riconciliazione tra l’Est e l’Ovest, tra cristiani ed ebrei, un tempo senza legge (in senso paolino), un tempo di vera fraternità nel mondo. L’interessante idea che scopersi fu che una corrente significativa di francescani era convinta che San Francesco di Assisi e l’Ordine francescano segnarono l’inizio di questo terzo periodo della storia, e fu loro ambizione l’attualizzarlo; Bonaventura mantenne un dialogo critico con tale corrente.

Dopo il termine del mio lavoro post dottorale mi offrirono un incarico all’Università di Bonn per insegnarvi teologia fondamentale, ed in questo periodo l’ecclesiologia, la storia e la filosofia della religione erano le mie principali aree di lavoro.

Dal 1962 al 1965 ebbi la meravigliosa opportunità di presenziare al Concilio Vaticano II come esperto; questo fu un tempo molto gratificante della mia vita, nel quale mi fu possibile essere parte di tale riunione, non solo tra vescovi e teologi, ma anche tra continenti, culture diverse e distinte scuole di pensiero e di spiritualità nella Chiesa.

Accettai poi un incarico nell’Università di Tubinga (Tübingen), con l’intenzione di essere più vicino alla "scuola di Tubinga", la quale fece teologia in un modo storico ed ecumenico. Nel 1968 si produsse un’esplosione estremamente violenta di teologia marxista e per questo, quando mi offrirono un incarico nella nuova Università di Ratisbona, accettai non solo perché pensavo fosse interessante collaborare allo sviluppo di una nuova università, ma anche perché mio fratello era il direttore del coro della cappella della Cattedrale. Desideravo pure che fosse un tempo tranquillo per sviluppare il mio lavoro teologico. Là, durante il mio tempo libero, scrissi un libro sull’escatologia e uno sui principi della teologia, quali il problema del metodo teologico, il problema della relazione tra ragione e rivelazione e tra la tradizione e la rivelazione. Anche la Bibbia fu un punto di interesse primario per me.

Quando cominciavo a sviluppare la mia personale visione teologica, nel 1977 Papa Paolo VI mi nominò arcivescovo di Monaco e perciò, come il Cardinal Martini, dovetti interrompere il mio lavoro teologico.

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Nel novembre del 1981, il santo Padre Papa Giovanni Paolo II, mi chiese di impegnarmi come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il Prefetto della Congregazione è anche il Presidente di due importanti Commissioni: la Commissione Teologica Internazionale e la Pontificia Commissione Biblica.

Il lavoro di questi due organismi, ognuno composto da venti o trenta professori proposti dai vescovi del mondo, si svolge in completa libertà ed agisce in connessione tra la Santa Sede e gli uffici della Curia Romana da un lato, ed il mondo teologico dall’altro. Mi è stato molto utile servire come Presidente di queste due Commissioni, perché in qualche modo mi ha permesso di mantenere il contatto con i teologi e la teologia. In questi anni, le due Commissioni hanno pubblicato un buon numero di documenti molto importanti.

In particolare, due documenti della Commissione Biblica furono recepiti molto bene dai circoli ecumenici e dal mondo teologico in generale. Il primo era un documento sui metodi dell’Esegesi. Nei cinquanta anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale siamo stati testimoni di interessanti progressi nella metodologia, non soltanto con il classico metodo storico-critico, ma anche con i nuovi metodi che prendono in considerazione l’unità della Bibbia nei diversi sviluppi letterari e anche con (altri) nuovi metodi. Credo che questo documento sia davvero stato una pietra miliare: fu molto ben accolto, come ho detto, dalla comunità scientifica.

Il secondo documento è stato pubblicato l’anno successivo e si riferisce alla relazione tra la Santa Bibbia ed il Popolo Ebreo, l’Antico testamento e il Nuovo Testamento. Si focalizza sulla questione del senso grazie al quale le due parti della Bibbia – ciascuna con parti molto diverse – possono essere considerate una sola Bibbia, e in quale senso un’interpretazione cristologica dell’Antico Testamento – non molto evidente nel testo come tale – può essere giustificata, così come il nostro rapporto con l’interpretazione giudaica dell’Antico Testamento. In questo senso, la riunificazione dei due libri è nello stesso tempo la riunificazione di due storie attraverso le loro culture e realizzazioni religiose. Speriamo che questo documento sia anche molto proficuo per il dialogo tra cristiani ed ebrei.

La Commissione teologica ha pubblicato documenti circa l’interpretazione del dogma, le mancanze della chiesa nel passato – di somma importanza dopo le richieste di perdono fatte in varie occasioni dal Santo Padre – e altri documenti. Attualmente stiamo pubblicando un documento sul diaconato ed un altro circa la Rivelazione e l’inculturazione.

Quest’ultimo argomento – l’incontro tra diverse culture, cioè il dialogo interculturale e interreligioso – è attualmente il tema centrale per noi nella nostra Congregazione. Dopo la scomparsa della Teologia della Liberazione negli anni successivi al 1989 si sono sviluppate nuove correnti in teologia: per esempio in America Latina esiste una teologia indigena. L’idea è quella di rifare la teologia alla luce delle culturale anteriori a Colombo. Ci stiamo anche occupando del problema di come la fede cristiana può essere presente nella grande cultura indiana con le sue ricche tradizioni religiose e filosofiche.

Le riunioni della Congregazione per la Dottrina della Fede con vescovi e teologi, destinate a scoprire come sia possibile una sintesi interculturale nel presente senza perdere l’identità della nostra fede è per noi emozionante, ed io penso che sia un tema importante persino per quanti non sono cristiani o cattolici.

Vi ringrazio per l’onore di essere presente tra voi.

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+ Card. Joseph Ratzinger Pubblicato da Raffaella a 15.27 Link a questo post

Emerge con chiarezza ciò che la fede può fare per una buona politica: non sostituisce la ragione,ma può contribuire all’evidenza dei valori essenziali

Libertà e religione nell'identità dell'Europa

Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato dal cardinale Joseph Ratzinger nel ricevere il premio “Liberal”, in occasione delle "Giornate internazionali del pensiero filosofico" svoltesi a Trieste sul tema: "Le due libertà: Parigi o Filadelfia?", il 20 settembre del 2002.

* * *

Libertà e religione nell'identità dell'Europa

di Cardinale Joseph Ratzinger

Per i politici di ogni partito è oggi ovvio promettere cambiamenti – naturalmente in meglio. Mentre è attualmente in ribasso il successo una volta mitico della parola rivoluzione, tanto più vengono richieste e promesse decise riforme di ampia portata. Si dovrebbe pertanto concludere che nella società moderna domina un profondo senso di insoddisfazione e questo proprio laddove benessere e libertà hanno raggiunto un livello finora sconosciuto.Il mondo viene sentito come difficilmente sopportabile, deve diventare migliore, e realizzare questo sembra essere il compito della politica. Poiché dunque secondo l’opinione comune il miglioramento del mondo, l’edificazione di un mondo nuovo costituisce il compito essenziale della politica, si può comprendere anche perché la parola «conservatore» è divenuta sospetta e difficilmente qualcuno vuole essere considerato come conservatore: si tratta infatti, così sembra, non di conservare la condizione attuale, ma di superarla. Con questo orientamento di fondo la concezione moderna della politica, anzi, della vita in questo mondo si colloca decisamente in evidente contrapposizione con le visioni di periodi antecedenti, per i quali valeva quale grande compito dell’agire politico proprio la conservazione e la difesa dell’esistente di fronte alla sua minaccia. Qui può essere chiarificatrice una piccola osservazione linguistica. Quando il cristianesimo cercò nel mondo romano una parola, con la quale potesse esprimere, in modo sintetico e comprensibile per tutti, cosa significava Gesù Cristo per loro, ci si imbatté nella

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parola Conservator, con la quale era descritto a Roma il compito essenziale e il servizio più elevato, che era necessario rendere all’umanità. Ma proprio questo titolo i cristiani non poterono e non vollero trasferire sul loro redentore; non potevano proprio tradurre in tal modo la parola Messia-Cristo, il compito del salvatore del mondo.Dal punto di vista dell’impero romano doveva in realtà apparire come il più importante compito quello di conservare la situazione dell’impero contro tutte le sue minacce interne ed esterne, poiché questo impero incarnava uno spazio di pace e di diritto, nel quale gli uomini potevano vivere in sicurezza e dignità. Di fatto i cristiani – già anche la generazione apostolica – hanno saputo apprezzare questa garanzia di diritto e di pace che l’impero romano offriva. Ai padri della Chiesa davanti al caos minacciante, che si annunciava con le invasioni di altri popoli, interessava certamente il mantenimento dell’impero, delle sue garanzie giuridiche, del suo ordinamento di pace. Nondimeno i cristiani non potevano semplicemente volere che tutto rimanesse come era; l’Apocalisse, che certamente con la sua visione dell’impero si colloca al margine del Nuovo Testamento, dimostrava chiaramente per tutti che vi era anche qualcosa che non poteva essere conservato, ma doveva essere cambiato. Che Cristo non potesse essere designato come Conservator, ma come Salvator, non aveva certamente alcun significato politico-rivoluzionario, ma indicava nondimeno i limiti della pura conservazione e rinviava a una dimensione dell’esistenza umana, che va al di là delle funzioni di pace e di ordine proprie della politica. Cerchiamo di approfondire un poco questo episodio particolare di una forma della comprensione esistenziale del compito della politica. Dietro l’alternativa, che si era a noi mostrata finora in modo piuttosto indistinto nella contrapposizione fra il titolo di Conservator e di Salvator, si evidenziano in realtà due diverse visioni di ciò che l’agire politico ed etico deve e può realizzare, in cui non solo politica e morale, ma anche politica, religione e morale appaiono reciprocamente intrecciate in diverse modalità. Da una parte vi è la visione statica, orientata alla conservazione, che forse si manifesta nel modo più evidente nell’universalismo cinese: l’ordine del cielo, eternamente eguale, offre il suo criterio anche all’agire terreno. È il Tao, la legge dell’essere e della realtà, che gli uomini devono riconoscere e riprendere nell’agire. Il Tao è legge sia cosmica che morale. Garantisce l’armonia di cielo e terra e così anche l’armonia della vita politica e sociale. Disordine, turbamento della pace, caos insorgono quando l’uomo si rivolge contro il Tao, vive ignorandolo o contro di esso. Allora contro tali turbamenti e devastazioni della vita comune deve essere restaurato il Tao e così il mondo reso nuovamente vivibile. Tutto dipende dalla conservazione dell’ordine durevole o dal ritorno a esso, qualora fosse stato abbandonato. Qualcosa di analogo è espresso nel concetto indiano del Dharma, che significa l’ordine tanto cosmico che etico e sociale, al quale l’uomo deve adeguarsi, perché la vita si sviluppi armonicamente.Il buddismo ha relativizzato questa visione insieme cosmica, politica e religiosa, in quanto ha spiegato tutto quanto il mondo come un ciclo di sofferenze; la salvezza non va cercata nel cosmo, ma nell’uscire da esso. Ma non ha creato nessuna nuova visione politica, in quanto la ricerca della salvezza è concepita in modo non mondano – come orientamento al Nirvana; per il mondo in quanto tale non vengono proposti nuovi modelli. Diversamente la fede d’Israele. Anch’essa in realtà con l’alleanza stretta da Dio con Noè conosce qualcosa come un ordine cosmico e la promessa della sua stabilità. Ma per la fede dello stesso Israele l’orientamento verso il futuro diventa sempre più evidente. Non l’eternamente immobile, l’oggi sempre uguale a se stesso, ma il domani, il futuro non ancora presente appare come il luogo della salvezza. Il libro di Daniele, la cui redazione si colloca per altro nel corso del Secondo secolo avanti Cristo, offre due grandi visioni storico-teologiche, che divennero di enorme significato per l’ulteriore sviluppo del pensiero politico e religioso. Nel secondo capitolo si trova la visione della statua, che è

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costituita in parte d’oro, in parte d’argento, in parte di ferro e infine anche di argilla. Questi quattro elementi indicano una successione di quattro regni. Alla fine tutti vengono distrutti da una pietra che si stacca da una montagna senza partecipazione di mano d’uomo e che riduce il tutto in polvere, così che il vento ne porta via i resti e di essi non ne rimane più alcuna traccia. La pietra invece diventa una grande montagna e riempie tutta quanta la terra – simbolo di un regno, che il Dio del cielo e della terra erigerà e che non verrà meno per l’eternità (2,44). Nel settimo capitolo del medesimo libro appare con un simbolismo forse ancora più impressionante la successione dei regni come il susseguirsi di quattro belve, sulle quali alla fine Dio – presentato come «vegliardo» – esercita un giudizio. Le quattro belve – i grandi imperi della storia del mondo – erano salite dal mare, che rappresenta il simbolo della potenza di minaccia contro la vita per mezzo della morte e dei suoi poteri; dopo il giudizio tuttavia giunge dal cielo l’uomo («un figlio d’uomo»), e gli vengono consegnati tutti i popoli, le nazioni e le lingue per un regno, che è eterno, intramontabile e che mai passerà. Mentre nelle concezioni del Tao e del Dharma gli ordinamenti eterni del cosmo hanno un ruolo, l’idea di «storia» quindi non appare affatto, qui ora la «storia» è concepita come una realtà specifica, non riconducibile al cosmo, e con questa realtà antropologica e dinamica precedentemente non avvertita si inaugura una visione totalmente diversa. È evidente che una tale rappresentazione di una successione storica di regni, che sono belve voraci in forme sempre più spaventose, non poteva formarsi in uno dei popoli dominatori, ma presuppone quale suo supporto sociologico un popolo che ha coscienza di essere esso stesso minacciato dalla voracità di queste belve e ha anche sperimentato un susseguirsi di potenze che gli hanno conteso il diritto all’esistenza. È la visione degli oppressi, che guardano a una svolta della storia e non possono essere interessati alla conservazione dell’esistente. Nella visione di Daniele la svolta della storia si realizza non per un’azione politica o militare – a questo fine mancano semplicemente le forze necessarie. Essa subentra solo per un intervento di Dio: la pietra, che distrugge i regni, si stacca da una montagna «non per mano di uomo» (2,34).I Padri della Chiesa videro qui un misterioso preannuncio della nascita di Gesù dalla Vergine, solo per la potenza di Dio; in Cristo essi vedono la pietra, che alla fine diventa montagna e riempie la terra. Nuovo rispetto alle visioni cosmiche, nelle quali semplicemente il Tao o il Dharma stesso si presentano come la potenza del divino, come il «divino», è dunque non solo l’apparire della storia non riducibile al cosmo, ma questa terza realtà e allo stesso tempo prima: un Dio che agisce, al quale si rivolge la speranza degli oppressi. Ma già con i Maccabei, che sono da collocare all’incirca nella stessa epoca delle visioni di Daniele, anche l’uomo stesso deve prendere in mano la causa di Dio con un’azione politica e militare; in alcune parti della letteratura di Qumran la fusione di speranza teologica e di azione propriamente umana diventa ancora più evidente. Infine la lotta di Bar Kocheba ha il senso di una chiara politicizzazione del messianismo: Dio si serve per la svolta di un «Messia», che per incarico e con l’autorità di Dio introduce la novità per mezzo di un’azione politica e militare. Il Sacrum imperium dei cristiani sia nella sua variante bizantina che in quella latina non ha potuto né voluto riprendere tali concezioni, tanto più in quanto impegnato nuovamente nella conservazione dell’ordine mondiale fondato ora cristianamente, con la convinzione per altro che si era nella sesta epoca della storia, nell’età della vecchiaia e poi sarebbe venuto l’altro mondo, che come ottavo giorno di Dio già correva parallelamente alla storia e quindi sarebbe a questa definitivamente subentrato. In realtà l’apocalittica – come si definisce la corrente della speranza critica della storia, al cui inizio sta il libro di Daniele – non è mai del tutto scomparsa. Essa emerge nuovamente con crescente virulenza a partire dall’illuminismo e diviene ora a partire dal Diciannovesimo secolo in forma secolarizzata e in variazioni contrastanti, la visione politica dominante. La sua forma radicale si trova nel marxismo, che si ricollega a Daniele in quanto valuta negativamente tutta la storia

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precedente come storia di oppressione e inoltre presuppone come supporto sociologico la classe degli sfruttati, degli operai innanzitutto privati di ogni diritto e dei contadini dipendenti. Con un capovolgimento sorprendente, sui motivi del quale non si è ancora riflettuto abbastanza, è però poi divenuto sempre più la religione degli intellettuali, mentre i lavoratori erano giunti per mezzo di riforme a diritti che rendevano per essi superflua la rivoluzione – la grande evasione dall’attuale forma storica. Per essi non era più necessaria la pietra che distruggeva i regni: puntavano piuttosto sull’altra figura di Daniele, quella del leone, che fu messo sui due piedi come un uomo e al quale fu dato un cuore di uomo (7,4). Ma dobbiamo forse esaminare ancora un poco più da vicino la fisionomia del nuovo messianismo secolare, come esso si è manifestato nel marxismo, perché esso si aggira ancora come uno spettro in forme diverse nelle anime di molti. Il fondamento di questa nuova concezione della storia è costituito da una parte dalla teoria dell’evoluzione trasferita sulla storia, dall’altra – non senza un legame con la precedente – dalla fede nel progresso nella versione che Hegel le aveva dato. Il collegamento con la teoria dell’evoluzione significa che la storia è vista in modo biologistico, anzi, materialistico e deterministico: essa ha le sue leggi e il suo corso, contro il quale si può lottare, ma che alla fine non può essere arrestato. L’evoluzione è subentrata al posto di Dio. «Dio» significa ora: sviluppo, progresso. Ma questo progresso – qui entra Hegel – si realizza in movimenti dialettici; anch’esso ultimamente è compreso in forma deterministica. L’ultima tappa dialettica è il salto dalla storia dell’oppressione nella definitiva storia della salvezza – il passaggio dalle belve al figlio dell’uomo, si potrebbe dire con Daniele. Il regno del Figlio dell’uomo si chiama ora «società senza classi». Sebbene da una parte i salti dialettici come eventi naturali avvengano necessariamente, concretamente essi si verificano di fatto attraverso un cammino politico. Il corrispondente politico del salto dialettico è la rivoluzione. Esso è l’opposto della riforma, che si deve respingere, poiché essa in realtà suscita l’impressione che alla belva sia dato un cuore d’uomo e non sia più necessario combatterla. Le riforme distruggono lo slancio rivoluzionario; pertanto si collocano contro la logica interna della storia, sono un’involuzione invece di un’evoluzione, quindi alla fine nemiche del progresso.

Rivoluzione e utopia – la nostalgia di un mondo perfetto – sono collegate: sono la forma concreta di questo nuovo messianismo, politico e secolarizzato.

L’idolo del futuro divora il presente; l’idolo della rivoluzione è l’avversario dell’agire politico razionale in vista di un concreto miglioramento del mondo. La visione teologica di Daniele, dell’apocalittica in genere, è applicata alla realtà secolare, ma allo stesso tempo mitizzata. Infatti entrambe le due idee politiche portanti – rivoluzione e utopia – sono, nel loro legame con l’evoluzione e la dialettica, un mito assolutamente antirazionale: la smitizzazione è urgentemente necessaria, perché la politica possa svolgere la sua opera in modo veramente razionale. Dove si colloca ora però, prescindendo da Daniele e dal messianismo politico, la fede cristiana? Qual è la sua visione della storia e per quanto riguarda il nostro agire storico? Prima che io possa tentare di formulare un giudizio complessivo, dobbiamo dare uno sguardo ai più importanti testi del Nuovo Testamento. Qui si possono, senza grandi analisi, distinguere facilmente due gruppi di testi: da una parte vi sono i testi dei Vangeli e degli Atti degli apostoli, che al massimo da lontano lasciano intravedere legami con l’apocalittica; dall’altra parte vi è l’Apocalisse di Giovanni, che – come già dice il nome – appartiene alla corrente dell’apocalittica. È noto che i testi delle lettere degli apostoli – in consonanza con la visione tratteggiata nei Vangeli – non sono affatto toccate dal pathos della rivoluzione, anzi, vi si oppongono chiaramente. I due testi fondamentali di Rom 13,1-6 e di 1 Petr 2,13-17 sono molto chiari e da sempre una spina nell’occhio per tutti i rivoluzionari. Romani 13 chiede che «ciascuno» (letteralmente: ogni anima) stia sottomesso alle autorità costituite, perché non c’è alcuna autorità se non da Dio. Un’opposizione all’autorità sarebbe pertanto un’opposizione contro l’ordine stabilito da Dio. Ci si

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deve sottomettere quindi non solo per costrizione, ma per ragioni di coscienza.

In modo del tutto analogo la prima Lettera di Pietro richiede sottomissione alle autorità legittime «per amore del Signore»: «Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia...». Né Paolo né Pietro esprimono qui un’esaltazione acritica dello Stato romano. Sebbene essi affermino l’origine divina degli ordinamenti giuridici statali, sono ben lontani da una divinizzazione dello Stato. Proprio perché essi vedono i limiti dello Stato, che non è Dio e non si può presentare come Dio, riconoscono la funzione dei suoi ordinamenti e il suo valore morale. Si collocano così in una buona tradizione biblica – pensiamo a Geremia, che esorta gli israeliti esiliati alla lealtà nei confronti dello Stato oppressore di Babilonia, nella misura in cui questo Stato garantisce il diritto e la pace e così anche il relativo benessere di Israele, che è la condizione della sua restaurazione come popolo. Pensiamo al Deutero-Isaia, che non ha paura di designare Ciro come l’unto di Dio: il re dei persiani, che non conosce il Dio d’Israele e fa ritornare il popolo in patria per considerazioni puramente pragmatico-politiche, agisce nondimeno, dal momento che si impegna per il ristabilimento del diritto, come strumento di Dio. In questa linea si muove la risposta di Gesù ai farisei e agli erodiani in merito alla questione delle tasse: ciò che è di Cesare, deve essere dato a Cesare (Mc 13,12–17). Nella misura in cui l’imperatore romano è garante del diritto, egli può esigere obbedienza; naturalmente l’ambito del dovere di obbedienza viene allo stesso tempo ridotto: esiste ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio. Laddove Cesare si innalza a Dio, ha superato i suoi limiti e l’obbedienza sarebbe allora rinnegamento di Dio. Sostanzialmente è in questa linea anche la risposta di Gesù a Pilato, nella quale il Signore proprio di fronte al giudice ingiusto riconosce tuttavia che il potere per l’esercizio del ruolo di giudice, del servizio al diritto, può essere dato solo dall’alto (Gv 19,11). Se si considerano queste correlazioni, appare una concezione dello Stato molto sobria: non è determinante la credibilità personale o le buone intenzioni soggettive degli organi dello Stato. Nella misura in cui garantiscono la pace e il diritto, corrispondono a una disposizione divina; con una terminologia di oggi diremmo: rappresentano un ordinamento creaturale. Lo Stato è da rispettare proprio nella sua profanità; è necessario a partire dall’essenza dell’uomo come animal sociale et politicum, si fonda su questa natura umana e così è corrispondente alla creazione. In tutto questo è allo stesso tempo contenuta una delimitazione dello Stato: esso ha il suo ambito, che non può superare; deve rispettare il più alto diritto di Dio. Il rifiuto dell’adorazione dell’imperatore e in genere il rifiuto del culto dello Stato è in fondo semplicemente il rifiuto dello Stato totalitario.Nella prima lettera di Pietro si manifesta molto chiaramente questa linea di demarcazione, quando l’apostolo dice: «Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro o malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome» (4,15s). Il cristiano è vincolato all’ordine giuridico dello Stato come a un ordinamento morale. Qualcosa di diverso è quando egli soffre «come cristiano»: laddove lo Stato punisce l’essere cristiano come tale, non esercita il potere come garante, ma come distruttore del diritto. Allora non è vergogna, ma un onore, essere puniti. Chi soffre per questo motivo, si pone proprio nella sofferenza nella sequela di Cristo: il Cristo crocifisso indica i limiti del potere statale e mostra ove hanno fine i suoi diritti e la resistenza nella sofferenza diventa una necessità. La fede del Nuovo Testamento non conosce il rivoluzionario, ma il martire: il martire riconosce l’autorità dello Stato, conosce però anche i suoi limiti. La sua resistenza consiste nel fatto che egli fa tutto ciò che è al servizio del diritto e della comunità organizzata, anche se proviene da autorità estranee o ostili alla fede, ma egli non obbedisce laddove gli viene ordinato di fare il male, cioè di mettersi contro la volontà di Dio. La sua resistenza non è la resistenza della violenza attiva, ma la resistenza di colui che è pronto a soffrire per la volontà di Dio: il combattente della resistenza, che muore con l’arma in mano, non è un martire nel senso del

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Nuovo Testamento. La medesima linea si rivela anche se guardiamo ad altri testi del Nuovo Testamento, che prendono posizione nei confronti del problema dell’atteggiamento cristiano davanti allo Stato. Tito 3,1 dice: «Ricorda loro di essere sottomessi ai magistrati e alle autorità, di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona...». Molto indicativo è 2 Tess 3,10-12, laddove l’apostolo si rivolge contro coloro che – certamente con il pretesto dell’attesa cristiana del ritorno del Signore – non lavorano e non vogliono fare niente di utile. Essi vengono invece esortati a lavorare pacificamente, perché «chi non lavora, non mangia». L’escatologia entusiasta viene fortemente richiamata a ridimensionarsi. Un aspetto importante appare anche in 1 Tim 2,2, dove i cristiani vengono esortati a pregare per il re e per tutte le autorità, «perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla». Due cose appaiono qui chiaramente: i cristiani pregano per il re e per le autorità, ma non adorano il re. Il testo data o dal tempo di Nerone – se ne è autore Paolo – o, se è da collocare più tardi, all’incirca dal tempo di Domiziano, quindi due tiranni ostili ai cristiani. Nondimeno i cristiani pregano per colui che governa, perché egli possa adempiere il suo compito. Naturalmente qualora egli si faccia Dio, gli rifiutano obbedienza. Il secondo elemento consiste nel fatto che viene formulato il compito dello Stato in una forma straordinariamente sobria, che sembra quasi banale: deve preoccuparsi della pace interna ed esterna. Ciò può, come detto, suonare piuttosto banale, ma in realtà vi è espressa una istanza essenzialmente morale: la pace interna ed esterna sono possibili solo quando sono assicurati i diritti essenziali dell’uomo e della comunità. Cerchiamo ora brevemente di inserire queste indicazioni nelle prospettive che abbiamo incontrato in precedenza. A me sembra che si potrebbero dire due cose. La visione storica dinamicizzata dell’apocalittica e delle speranze messianiche fa la sua apparizione solo indirettamente; il messianismo è essenzialmente modificato dalla figura di Gesù. Esso rimane politicamente rilevante, in quanto indica il punto in cui il martirio diventa necessario e così viene precisato il limite dei diritti dello Stato. Ogni martirio tuttavia sta sotto la promessa del Cristo risorto e che ritornerà; in questo senso rinvia al di là del mondo presente a una nuova, definitiva comunione degli uomini con Dio e fra di loro. Ma questa delimitazione dell’ambito dello Stato e questa apertura dell’orizzonte a un futuro mondo nuovo non dissolve gli attuali ordinamenti statali che sulla base della ragione naturale e della sua logica devono continuare a governare e sono ordinamenti validi per il tempo della storia. Un messianismo entusiasta escatologico-rivoluzionario è assolutamente estraneo al Nuovo Testamento. La storia è per così dire il regno della ragione; la politica non instaura il Regno di Dio, ma certamente deve preoccuparsi per il giusto regno dell’uomo, ciò vuol dire: creare i presupposti per una pace interna ed esterna e per una giustizia, nella quale tutti «possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità» (1 Tim 2,2). Si potrebbe dire che qui è espresso anche il postulato della libertà di religione, come viceversa si ritiene la ragione capace di conoscere i fondamenti morali essenziali dell’essere umano e di realizzarli politicamente. In questo senso vi è una vicinanza con le posizioni che il Tao o il Dharma propongono a fondamento dello Stato. Per questo i cristiani potevano guardare positivamente all’idea stoica della legge morale naturale, che proponeva analoghe concezioni nel contesto della filosofia greca. La dinamicizzazione della storia, particolarmente visibile nel libro di Daniele, che non considera la storia semplicemente in modo cosmico, ma la interpreta come dinamica di bene e male in movimento progressivo, rimane presente attraverso la speranza messianica. Essa evidenzia i criteri morali della politica e indica i limiti del potere politico; grazie all’orizzonte della speranza, che lascia intravedere al di là della storia e in essa dà il coraggio per il retto agire e per il retto soffrire. In questo senso si può parlare di una sintesi della visione cosmica e storica. Io credo che a partire di qui si può perfino definire esattamente dove corre il confine fra l’apocalittica cristiana e quella non cristiana, gnostica. L’apocalittica è cristiana allorquando mantiene il legame con la fede nella creazione; laddove la

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fede nella creazione, la sua permanenza e la sua fiducia nella ragione vengono abbandonate, là si compie il trapasso dalla fede cristiana alla gnosi. All’interno di queste opzioni di fondo vi è senza dubbio una grande possibilità di variazioni, ma certamente una opzione di fondo comune. Un’analisi dei testi, che qui non è possibile, potrebbe mostrare che l’Apocalisse di Giovanni, per quanto il suo pathos di resistenza la distingua dagli scritti apostolici, resta molto chiaramente all’interno dell’opzione cristiana.

* * *

Cosa ne consegue da tutto questo per il rapporto fra visione politica e prassi politica oggi? Sull’argomento ci sarebbe senza dubbio da fare una discussione molto ampia, per la quale io non mi sento competente. Ma in due tesi vorrei brevemente raccogliere indicazioni per la traduzione di questi elementi nell’oggi.

1. La politica è l’ambito della ragione, e più precisamente non di una ragione semplicemente tecnica-calcolatrice, ma morale, poiché il fine dello Stato e così il fine ultimo di ogni politica è di natura morale, cioè la pace e la giustizia. Ciò significa che la ragione morale o – forse meglio – il discernimento razionale di ciò che serve alla giustizia e alla pace, e quindi è morale, deve essere continuamente esercitato e difeso contro oscuramenti che diminuiscono la capacità di discernimento della ragione.

Lo spirito di parte, che si accompagna al potere, produrrà continuamente miti in diverse forme che si presentano come la vera via della realtà morale nella politica, ma in verità sono mascheramenti e rivestimenti del potere. Nel secolo scorso abbiamo sperimentato due grandi elaborazioni mitiche con conseguenze terribili: il razzismo con la sua falsa promessa di salvezza da parte del nazionalsocialismo; la divinizzazione della rivoluzione sullo sfondo dell’evoluzionismo storico dialettico; in entrambi i casi furono di fatto cancellate le intuizioni morali originarie dell’uomo sul bene e sul male. Tutto ciò che serve il dominio della razza, ovvero tutto ciò che serve l’instaurazione del mondo futuro, è bene – così ci veniva detto –, anche se ciò, secondo le conoscenze dell’umanità finora acquisite, fosse stato un male.

Dopo la caduta delle grandi ideologie oggi i miti politici sono presentati in modo meno chiaro, ma esistono anche oggi forme di mitizzazione di valori reali che appaiono credibili, proprio per il fatto che si ancorano ad autentici valori, ma appunto anche per questo sono pericolosi, per il fatto che unilateralizzano questi valori in un modo che si può definire mitico. Direi che oggi tre valori sono dominanti nella coscienza comune, la cui unilateralizzazione mitica rappresenta allo stesso tempo un pericolo per la ragione morale di oggi. Questi tre valori continuamente miticamente unilateralizzati sono il progresso, la scienza, la libertà.

Il progresso è da sempre una parola mitica, che si impone come norma dell’agire politico e umano in generale e appare come la sua più alta qualificazione morale. Chi guarda anche solo al cammino degli ultimi cento anni, non può negare che sono stati raggiunti progressi enormi nella medicina, nella tecnica, nella conoscenza e nello sfruttamento delle forze della natura e progressi ulteriori possono essere sperati. Nondimeno permane di attualità anche l’ambivalenza di questo progresso: il progresso comincia a minacciare la creazione – la base della nostra esistenza; esso produce disuguaglianze fra gli uomini e produce anche sempre nuove minacce al mondo e all’umanità. In questo senso orientare il progresso secondo criteri morali è indispensabile. Secondo quali criteri? Questo è il problema.

Innanzitutto però deve essere chiaro che il progresso si estende al rapporto dell’uomo con il mondo materiale ma non dà luogo in quanto tale – come il marxismo e il liberalismo avevano insegnato –

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all’uomo nuovo, alla nuova società. L’uomo come uomo resta uguale nelle situazioni primitive come in quelle tecnicamente sviluppate e non cresce di livello semplicemente per il fatto che ha imparato ad adoperare strumenti meglio sviluppati. L’essere uomo ricomincia da capo in ogni essere umano. Perciò non può esistere la definitivamente nuova, progredita e sana società, nella quale non solo hanno sperato le grandi ideologie, ma che diviene sempre più – dopo che la speranza nell’aldilà è stata demolita – l’obiettivo generale da tutti sperato.

Una società definitivamente sana presupporrebbe la fine della libertà. Poiché però l’uomo rimane sempre libero, ricomincia a ogni generazione, pertanto si deve anche di nuovo operare per la forma giusta di società nelle sempre nuove condizioni. L’ambito della politica pertanto è il presente e non il futuro – il futuro solo nella misura in cui la politica odierna cerca di creare forme di diritto e di pace che possano valere anche domani e invitare a corrispondenti riforme, che riprendano e continuino ciò che si è raggiunto. Ma non possiamo garantirlo. Io penso che è molto importante tenere presenti questi limiti del progresso ed evitare false scappatoie nel futuro.

Al secondo posto vorrei menzionare il concetto di scienza. La scienza è un grande bene, proprio perché è una forma di razionalità controllata e confermata dall’esperienza. Ma vi sono anche patologie della scienza, stravolgimenti delle sue possibilità in favore del potere, in cui allo stesso tempo viene intaccata la dignità dell’uomo. La scienza può anche servire alla disumanità, se pensiamo alle armi di distruzione di massa o agli esperimenti umani o al commercio di persone per l’esplantazione di organi ecc. Pertanto deve essere chiaro che anche la scienza deve sottostare a criteri morali e la sua vera natura va sempre perduta allorquando invece che della dignità dell’uomo si mette al servizio del potere o del commercio o semplicemente del successo come unico criterio.

Infine vi è il concetto di libertà. Anch’esso nell’epoca moderna ha assunto diversi tratti mitici. La libertà non di rado viene concepita in modo anarchico e semplicemente antistituzionale e così diviene un idolo: la libertà umana può essere sempre solo la libertà del giusto rapportarsi reciproco, la libertà nella giustizia, altrimenti diventa menzogna e conduce alla schiavitù.

2. Il fine di ogni sempre necessaria smitizzazione è la restituzione della ragione a se stessa. Qui però deve ancora una volta essere smascherato un mito che solo ci mette davanti all’ultima decisiva questione di una politica ragionevole: la decisione a maggioranza è in molti casi, forse nella maggioranza dei casi, la via «più ragionevole» per giungere a soluzioni comuni. Ma la maggioranza non può essere il principio ultimo; ci sono valori che nessuna maggioranza ha il diritto di abrogare. L’uccisione degli innocenti non può mai divenire un diritto e non può essere elevato a diritto da alcun potere. Anche qui si tratta ultimamente della difesa della ragione: la ragione, la ragione morale, è superiore alla maggioranza.

Ma come possono essere conosciuti questi valori ultimi, che costituiscono i fondamenti di ogni politica «ragionevole», moralmente giusta e pertanto vincolano tutti al di là di ogni cambiamento delle maggioranze? Quali sono questi valori? La dottrina dello Stato sia nell’antichità e nel Medioevo come anche nei contrasti dell’epoca moderna ha fatto appello al diritto naturale che la recta ratio può riconoscere. Ma oggi questa recta ratio sembra non dare più una risposta e il diritto naturale non viene più considerato come ciò che è evidente per tutti, ma piuttosto come una dottrina cattolica particolare. Questo significa una crisi della ragione politica, il che equivale a una crisi della politica come tale. Sembra che ormai esista solo la ragione partitica, non più la ragione comune a tutti gli uomini almeno nei grandi ordinamenti fondamentali dei valori. Lavorare al superamento di questa situazione è un compito urgente di tutti coloro che hanno nel mondo responsabilità per la pace e la giustizia – e questo in definitiva lo siamo di fatto noi tutti. Questo impegno non è affatto senza prospettive, non lo è proprio per il fatto che la ragione si fa continuamente sentire contro il potere e

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lo spirito di parte. Esiste oggi un canone dei valori mutato, che praticamente non è messo in discussione, ma in realtà resta troppo indeterminato e mostra zone oscure.

La triade pace, giustizia, integrità della creazione è universalmente riconosciuta, ma dal punto di vista del contenuto totalmente indeterminata: che cosa è al servizio della pace? Che cosa è la giustizia? Come si protegge nel modo migliore la creazione? Altri valori universalmente praticamente riconosciuti sono l’uguaglianza degli uomini in opposizione al razzismo, la pari dignità dei sessi, la libertà di pensiero e di fede.

Anche qui vi sono mancanze di chiarezza dal punto di vista dei contenuti, che possono perfino diventare di nuovo minacce per la libertà del pensiero e della fede, ma gli orientamenti di fondo sono da approvare e sono importanti. Un punto essenziale resta controverso: il diritto alla vita per ciascuno, che sia un essere umano, l’inviolabilità della vita umana in tutte le sue fasi. In nome della libertà e in nome della scienza vengono inferte ferite sempre più gravi nei confronti di questo diritto: laddove l’aborto è considerato un diritto di libertà, la libertà di uno è posta al di sopra del diritto alla vita dell’altro. Laddove esperimenti umani con embrioni vengono reclamati in nome della scienza, la dignità dell’uomo viene negata e calpestata nell’essere più indifeso. Qui si deve dare spazio alle smitizzazioni dei concetti di libertà e di scienza, se non vogliamo perdere i fondamenti di ogni diritto, il rispetto per l’uomo e per la sua dignità. Un secondo punto oscuro consiste nella libertà di deridere ciò che è sacro per altri. Grazie a Dio presso di noi nessuno si può permettere di deridere ciò che è sacro per un ebreo o per un musulmano. Ma si annovera fra i diritti di libertà fondamentali il diritto di dileggiare e di coprire di ridicolo ciò che è sacro per i cristiani. E infine vi è un ulteriore punto oscuro: matrimonio e famiglia sembrano non essere più valori fondamentali di una società moderna. È richiesto con urgenza un completamento della tavola dei valori e una smitizzazione di valori miticamente alterati. Nel mio dibattito con il filosofo Paolo Flores d’Arcais si toccò proprio questo punto – i limiti del principio del consenso. Il filosofo non poteva negare che esistono valori, i quali non possono essere messi in discussione anche da maggioranze. Ma quali? Davanti a questo problema il moderatore del dibattito, Gad Lerner, ha posto la domanda: perché non prendere come criterio il Decalogo? E in realtà il Decalogo non è una proprietà privata dei cristiani o degli ebrei. È un’altissima espressione di ragione morale che come tale si incontra largamente anche con la sapienza delle altre grandi culture. Riferirsi nuovamente al Decalogo potrebbe essere essenziale proprio per il risanamento della ragione, per un nuovo rilancio della recta ratio. Qui emerge ora anche con chiarezza ciò che la fede può fare per una buona politica: essa non sostituisce la ragione, ma può contribuire all’evidenza dei valori essenziali. Attraverso la concretezza della vita nella fede conferisce a essi una credibilità, che poi illumina e risana anche la ragione. Nel secolo trascorso – come in tutti i secoli – proprio la testimonianza dei martiri ha posto dei limiti agli eccessi del potere e ha così contribuito in modo decisivo al risanamento della ragione.

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Risposte alle obiezioni sull'Istruzione “Dominus Iesus”. Intervista del cardinal Ratzinger al quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung (2000)

Risposte alle obiezioni sull'Istruzione “Dominus Iesus”

Intervista del cardinal Ratzinger al quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung

(Intervista condotta da Christian Geyer)

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 29 aprile 2005 (ZENIT.org).

Il 22 settembre 2000 il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung ha pubblicato una intervista al cardinale Joseph Ratzinger, nella quale il porporato rispondeva alle principali obiezioni sollevate contro la Dichiarazione " Dominus Iesus " , pubblicata nel 2000 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, della quale egli era allora Prefetto.Successivamente l' Osservatore Romano (8 ottobre 2000) ha pubblicato il testo dell'intervista tradotto in italiano, omettendo solo quelle le parti legate alla particolare situazione tedesca.

Di seguito riportiamo la parte di intervista apparsa sul quotidiano vaticano:

Signor Cardinale, Lei è a capo di una struttura nella quale "esistono tendenze alla ideologizzazione e alla penetrazione eccessiva di elementi di fede stranieri e fondamentalisti?". Il rimprovero è contenuto in una comunicazione diffusa la scorsa settimana dalla sezione tedesca della Società Europea per la Teologia Cattolica.

Devo confessare di essere molto annoiato da questo tipo di dichiarazioni. Conosco a memoria da molto tempo questo vocabolario, nel quale i concetti di fondamentalismo, centralismo romano e assolutismo non mancano mai. Certe dichiarazioni potrei formularle da solo senza neanche

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aspettare di riceverle, perché si ripetono ogni volta indipendentemente dall'argomento che si tratta. Mi chiedo per quale motivo non escogitino mai qualcosa di nuovo.

Sta dicendo che le critiche sono false perché ripetute troppo spesso?

No. Solo che in questo tipo di critica predefinita manca la trattazione dei vari argomenti. Alcuni muovono critiche con tanta facilità perché considerano tutto ciò che viene da Roma dal punto di vista della politica e della spartizione del potere e non affrontano i contenuti.

In effetti i contenuti sono abbastanza esplosivi. Si stupisce veramente del fatto che un documento nel quale si pretende che solo il cristianesimo sia depositario della verità e agli anglicani e ai protestanti viene disconosciuto lo status ecclesiale incontri tanta opposizione?

Innanzitutto desidero esprimere la mia tristezza e la mia delusione per il fatto che le reazioni pubbliche, a parte alcune lodevoli eccezioni, hanno ignorato completamente il tema vero e proprio della dichiarazione. Il documento comincia con le parole "Dominus Iesus"; si tratta della breve formula di fede contenuta nella Prima Lettera ai Corinzi versetto 12, 3, in cui Paolo ha riassunto l'essenza del cristianesimo: Gesù è il Signore. Con questa Dichiarazione, la cui redazione ha seguito fase per fase con molta attenzione, il Papa ha voluto offrire al mondo un grande e solenne riconoscimento di Gesù Cristo come Signore nel momento culminante dell'Anno Santo, portando così con fermezza l'essenziale al centro di questa occasione, sempre soggetta a esteriorizzazioni.

Il risentimento di molti riguarda proprio questa "fermezza". Nel momento culminante dell'Anno Santo non sarebbe stato più opportuno inviare un segnale alle altre religioni invece che mettersi ad autoconfermare la propria fede?

All'inizio di questo millennio ci troviamo in una situazione simile a quella descritta da Giovanni alla fine del sesto capitolo del suo Vangelo: Gesù aveva spiegato chiaramente la sua natura divina nell'istituzione dell'Eucaristia. Nel versetto 66 leggiamo: "Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui". Oggi nei discorsi generali la fede in Cristo rischia di appiattirsi e di disperdersi in chiacchiere. Con questo documento, il Santo Padre, quale Successore dell'Apostolo Pietro, ha inteso dire: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio" (Gv 6, 68 e seg.). Il documento vuole essere un invito a tutti i cristiani ad aprirsi nuovamente al riconoscimento di Gesù Cristo come Signore e a conferire cosi all'Anno Santo un significato profondo. Mi ha fatto piacere che il Presidente delle Chiese protestanti della Germania Kock nella sua reazione, peraltro molto composta, abbia riconosciuto questo elemento importante del testo e lo abbia paragonato alla Dichiarazione di Barmen, con la quale nel 1934 la "Bekennende Kirche", ai suoi inizi, rifiutò la Chiesa del Reich creata da Hitler. Anche il prof. Jüngel di Tubinga ha trovato in questo testo - nonostante le sue riserve sulla parte ecclesiologica - un respiro apostolico, simile alla Dichiarazione di Barmen. Inoltre il Primate della Chiesa anglicana, l'Arcivescovo Carey, ha manifestato il suo sostegno grato e deciso al vero tema della dichiarazione. Perché la maggior parte dei commentatori invece lo trascura? Gradirei volentieri una risposta.

L'elemento dirompente di carattere politico-ecclesiastico è contenuto nella sezione del documento relativa all'ecumenismo. Per la parte evangelica si è pronunciato Eberhard Jüngel, affermando che il documento tralascia il fatto che tutte le Chiese "a loro proprio modo" vogliono essere ciò che di fatto sono: "Chiesa una, santa, cattolica, apostolica". Dunque la Chiesa cattolica si illude quando pretende di avere l'esclusiva dal momento che,

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secondo Jüngel, condivide questi diritti con le altre Chiese?

Le questioni ecclesiologiche ed ecumeniche, delle quali ora tutti parlano, occupano solo una piccola parte del documento, che ci è parso necessario redigere per sottolineare la presenza viva e concreta di Cristo nella Storia. Mi meraviglia che Jüngel dica che la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica sia presente in tutte le Chiese a loro proprio modo e con ciò (se ho capito bene) consideri risolta la questione dell'unità della Chiesa. Queste numerose "Chiese" però si contraddicono! Se tutte sono Chiesa a "loro proprio modo", allora questa Chiesa è un insieme di contraddizioni e non è in grado di offrire agli uomini indicazioni chiare.

Ma da questa impossibilità normativa deriva anche un'impossibilità effettiva?

Che tutte le comunità ecclesiali esistenti facciano ricorso allo stesso concetto di Chiesa mi sembra contrario alla loro coscienza di sé. Lutero riteneva che la Chiesa in senso teologico e spirituale non potesse incarnarsi nella grande struttura istituzionale della Chiesa cattolica, che anzi considerava uno strumento dell'Anticristo. Secondo la sua visione la Chiesa era presente laddove la Parola veniva annunciata correttamente e i sacramenti erano amministrati nel modo giusto. Lutero stesso ritenne impossibile considerare Chiesa le Chiese locali sottoposte ai prìncipi: erano istituzioni esterne di assistenza sicuramente necessarie, ma non Chiesa in senso teologico. E chi direbbe oggi che strutture sorte per casualità storiche, ad esempio la Chiesa dell'AssiaWaldeck e dello Schaumburg-Lippe, sono Chiese nello stesso modo in cui la Chiesa cattolica ritiene di essere tale? E' chiaro che l'unione delle Chiese luterane in Germania (VELKD) e l'unione delle Chiese protestanti in Germania (EKD) non vogliono essere "Chiesa". A un esame realistico pare che la realtà della Chiesa per i protestanti risieda altrove e non in quelle istituzioni chiamate Chiese regionali. Di questo si sarebbe dovuto discutere.

Il fatto è che ormai la parte evangelica considera la definizione "comunità ecclesiale" un'offesa. Le dure reazioni al suo documento ne sono una chiara dimostrazione.

La pretesa dei nostri amici luterani mi sembra francamente assurda, cioè che noi consideriamo queste strutture sorte da casualità storiche come Chiesa nello stesso modo in cui crediamo Chiesa la Chiesa cattolica, fondata sulla successione degli apostoli nell'Episcopato. Sarebbe più giusto che i nostri amici evangelici ci dicessero che per loro la Chiesa è qualcosa di diverso, una realtà più dinamica e non così istituzionalizzata, neanche nella successione apostolica. La questione allora non è se le Chiese esistenti siano Chiesa tutte allo stesso modo, cosa che evidentemente non è, ma in che cosa consista o non consista la Chiesa. In questo senso non offendiamo nessuno dicendo che le strutture evangeliche effettive non sono Chiesa nel senso in cui quella cattolica vuole esserlo. Esse stesse non desiderano esserlo.

Questa questione è stata affrontata dal Concilio Vaticano II?

Il Concilio Vaticano II ha cercato di accogliere questo diverso modo di determinare il luogo della Chiesa, affermando che le Chiese evangeliche effettive non sono Chiese nello stesso modo in cui ritiene di esserlo quella cattolica, ma in esse esistono "elementi di salvezza e verità". Può darsi che il termine "elementi" non sia il migliore. In ogni caso il suo senso fu di indicare una visione ecclesiologica, per la quale la Chiesa non esiste in strutture, ma nell'avvenimento della predicazione e dell'amministrazione dei sacramenti. Il modo in cui lo scontro viene condotto ora è senz'altro errato. Vorrei che non ci fosse bisogno di precisare che la Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede ha solo ripreso i testi conciliari e i documenti post-conciliari, senza aggiungere o togliere nulla.

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Invece Eberhard Jüngel vi vede qualcosa di diverso. Il fatto che a suo tempo il Concilio Vaticano II non avrebbe affermato che l'unica e sola Chiesa di Cristo è esclusivamente la Chiesa romana cattolica suscita in Jüngel delle perplessità. Nella Costituzione "Lumen gentium" si dice soltanto che la Chiesa di Cristo "sussiste nella Chiesa cattolica governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui", non esprimendo con la parola latina "subsistit" alcuna esclusività.

Purtroppo ancora una volta non riesco a seguire il ragionamento dello stimato collega Jüngel. Io ero presente quando durante il Concilio Vaticano II venne scelta l'espressione "subsistit" e posso dire di conoscerla bene. Purtroppo in un'intervista non si può scendere nei dettagli. Pio XII nella sua Enciclica aveva detto: la Chiesa cattolica romana "è" l'unica Chiesa di Gesù Cristo. Ciò parve esprimere una identità totale, per la quale al di fuori della comunità cattolica non c'era Chiesa. Tuttavia non è così: secondo la dottrina cattolica, condivisa ovviamente anche da Pio XII, le Chiese locali della Chiesa orientale separata da Roma sono autentiche Chiese locali, le comunità scaturite dalla Riforma sono costituite diversamente, come ho appena detto. In esse la Chiesa esiste nel momento in cui si verifica l'evento.

Ma allora non si dovrebbe dire: non esiste un'unica Chiesa. Essa si è disgregata in numerosi frammenti?

In effetti, molti contemporanei la considerano così. Esisterebbero solo frammenti ecclesiali e bisognerebbe cercare il meglio dei diversi pezzi. Ma se fosse così si consacrerebbe il soggettivismo: allora ognuno dovrebbe comporsi il proprio cristianesimo e alla fine risulterebbe determinante il gusto personale.

Forse è proprio la libertà che spetta al cristiano a far interpretare un tale "patchwork" anche come soggettivismo o individualismo.

La Chiesa cattolica, come quella ortodossa, è convinta che una definizione del genere sia inconciliabile con la promessa di Cristo e con la fedeltà a Lui. La Chiesa di Cristo esiste veramente e non a brandelli. Essa non è un'utopia irraggiungibile, ma una realtà concreta. Il "subsistit" intende proprio questo: il Signore garantisce l'esistenza della Chiesa contro tutti i nostri errori e i nostri peccati, che senza dubbio e in maniera palese sono presenti in essa. Con il "subsistit" si è voluto dire anche che, sebbene il Signore mantenga la sua promessa, esiste una realtà ecclesiale anche al di fuori della comunità cattolica ed è proprio questa contraddizione la più forte sollecitazione a perseguire l'unità. Se il Concilio avesse voluto dire semplicemente che la Chiesa di Gesù Cristo è anche nella Chiesa cattolica, avrebbe detto una banalità. Il Concilio sarebbe entrato in netta contraddizione con tutta la storia di fede della Chiesa, il che non sarebbe venuto in mente a nessun Padre conciliare.

Le argomentazioni di Jüngel sono di carattere filologico e in questo senso egli ritiene che l'interpretazione della Congregazione per la Dottrina della Fede, che lei ha appena esposto, sia "fuorviante". Infatti secondo la terminologia della Vecchia Chiesa "sussiste" anche l'unico essere divino e non in una sola Persona, ma in tre Persone. La domanda che sorge da questa riflessione è la seguente: se dunque Dio stesso "sussiste" nella differenza fra Padre, Figlio e Spirito Santo e tuttavia non si separa da se stesso, creando così tre reciproche alterità, perché ciò non dovrebbe valere anche per la Chiesa che rappresenta il "mysterium trinitatis" nel mondo?

Mi rattrista dovermi opporre ancora una volta a Jüngel. Prima di tutto bisogna osservare che la

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Chiesa d'Occidente nella traduzione della formula trinitaria in latino non ha accolto direttamente la formula orientale, nella quale Dio è un essere in tre ipostasi ("sussistenze"), ma ha tradotto la parola ipostasi con il termine "persona" perché in latino la parola sussistenza come tale non esisteva e quindi non sarebbe adeguata per esprimere l'unità e la differenza fra Padre, Figlio e Spirito Santo. Ma soprattutto sono molto determinato a lottare contro questa tendenza sempre più diffusa a trasferire il mistero trinitario direttamente alla Chiesa. Non va bene. Così finiremo per credere in tre divinità.

Insomma, perché non si può paragonare "l'alterità" del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo con la diversità delle comunità ecclesiali? Quella di Jüngel non è forse una formula affascinante e piena di armonia?

Fra le comunità ecclesiali esistono molti contrasti e che contrasti! Le tre "Persone" costituiscono un solo Dio in un'unità autentica e somma. Quando i Padri conciliari sostituirono la parola "è" con la parola "subsistit" lo fecero con uno scopo ben preciso. Il concetto espresso da "è" (essere) è più ampio di quello espresso da "sussistere". "Sussistere" è un modo ben preciso di essere, ossia essere come soggetto che esiste in sé. I Padri conciliari dunque intendevano dire che l'essere della Chiesa in quanto tale è un'entità più ampia della Chiesa cattolica romana, ma in quest'ultima acquista, in maniera incomparabile, il carattere di soggetto vero e proprio.

Facciamo un passo indietro. Colpisce la curiosa semantica a volte presente nei documenti ecclesiali. Lei stesso ha evidenziato che l'espressione "elementi di Verità", che è centrale nello scontro attuale, non è proprio felice. L'espressione elementi di verità non tradisce forse una sorta di concetto chimico di verità? La verità come sistema periodico degli elementi? Ossia: l'idea di poter separare mediante teoremi la verità dalla falsità o dalla verità parziale, non ha un che di prepotente, dal momento che certi teoremi pretendono di ridurre la complessa realtà di Dio a un modello disegnato con il compasso?

La costituzione ecclesiale del Concilio Vaticano II parla di "parecchi elementi di santificazione e di verità", che si trovano al di fuori dell'organismo visibile della Chiesa (I n. 8); il decreto sull'ecumenismo elenca alcuni di questi elementi: "La parola di Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità, e altri doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili" (I n. 3). Forse esiste un termine migliore di "elementi", ma il significato reale è chiaro: la vita della fede, al servizio della quale è la Chiesa, è una struttura molteplice e vi si possono distinguere diversi elementi che sono all'interno o anche all'esterno di essa.

Ciononostante, non deve forse sorprendere che si voglia rendere intelligibile mediante teoremi un fenomeno che si sottrae alla verificabilità empirica come quello della fede religiosa?

Per quanto riguarda la fede e il suo essere comprensibile attraverso teoremi, si travisa il Dogma se lo si considera una raccolta di teoremi: il contenuto della fede si esprime nella sua professione, che trova il suo momento privilegiato nell'amministrazione del Sacramento del Battesimo, e che dunque è parte di un processo esistenziale. E' l'espressione di un nuovo orientamento dell'esistenza che però non ci offriamo da soli, ma che riceviamo in dono. Questo nuovo orientamento dell'esistenza significa al contempo uscire dal nostro io e dal nostro individualismo ed entrare in quella comunità di fedeli che si chiama Chiesa. Il punto focale della formula del Battesimo è il riconoscimento del Dio trinitario. Tutti i dogmi successivi non sono altro che precisazioni di questa professione e fanno in modo che il suo orientamento di fondo, il dono di sé al Dio vivente, resti inalterato. Solo quando si interpreta il dogma in questo modo, lo si comprende in maniera giusta.

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Ciò significa che da questa prospettiva spirituale non si giunge più così al contenuto della fede?

No, la fede cristiana ha una sua certezza contenutistica. Non è un'immersione in una dimensione mistico - inesprimibile, nella quale non si arriva mai ai contenuti. Il Dio, nel quale il cristiano crede, ci ha mostrato il suo volto e il suo cuore in Gesù Cristo: si è rivelato a noi. Come ha detto san Paolo, questa concretezza di Dio era già uno scandalo per i Greci e naturalmente lo è ancora oggi. Questo è inevitabile.

Colpisce anche la facilità con cui proprio in ambito ecclesiale si è inclini a mostrarsi "feriti" o "pieni di dolore" di fronte a definizioni contenutistiche della fede. Lei, come spiega una tale moralizzazione dello scontro intellettuale, che ormai per i teologi appare una costante?

Non è solo una moralizzazione, ma anche una politicizzazione: il Magistero è considerato un potere a cui contrapporre un altro potere. Già lo scorso secolo Ignaz Döllinger aveva espresso l'idea che nella Chiesa al Magistero dovesse opporsi l'opinione pubblica e che in essa i teologi dovessero svolgere un ruolo determinante. Tuttavia, allora, i credenti si allontanarono in massa dalle posizioni di Döllinger e sostennero il Concilio Vaticano I. Ritengo che la durezza di certe reazioni si spieghi anche così, con il fatto che i teologi si sentano minacciati nella loro libertà accademica e vogliano intervenire a difesa della loro missione intellettuale. Naturalmente un ruolo determinante è svolto anche dal clima alimentato dalla cultura secolare, che può andare più d'accordo con il Protestantesimo che non la Chiesa cattolica.

Colgo una certa ironia quando parla di missione intellettuale dei teologi. E allora la libertà accademica dei teologi cattolici? L'insistere su un'ecclesialità della teologia fedele alla dottrina non è forse un condizionamento? E nel conferimento della licenza di insegnare la dottrina ecclesiale (nihil obstat) non manca spesso trasparenza?

Per la teologia aderire alla fede della Chiesa non è una sottomissione a condizioni estranee alla teologia. La teologia è per sua natura volta a comprendere la fede della Chiesa, che è il presupposto della sua esistenza. Inoltre, in alcuni casi anche i responsabili ecclesiali evangelici hanno dovuto togliere ad accademici la missione di insegnare perché avevano abbandonato i fondamenti di questa loro missione. Per quanto riguarda noi e il nihil obstat, dobbiamo innanzitutto ricordare che una cattedra d'insegnamento non è un diritto per nessuno. Le Facoltà di teologia non sono obbligate a comunicare ai singoli candidati il motivo per il quale non sono stati scelti e a motivare la loro decisione. Comunichiamo ai nostri Vescovi per quale motivo, secondo noi, non si può concedere il nihil obstat a un certo candidato. Spetta poi al Vescovo decidere come comunicarlo. In un certo numero di casi si è iniziato uno scambio epistolare con i candidati le cui spiegazioni hanno spesso reso possibile mutare la decisione da negativa a positiva.

La critica mossa da Peter Hünermann si incentra su quanto segue: attraverso il rafforzamento dell'obbligo di giuramento di fedeltà si esige che i teologi e il clero ritengano validi anche insegnamenti legati solo indirettamente alla verità di fede rivelata, ma non esplicitamente rivelati.

Ho già affrontato in maniera particolareggiata le informazioni false che esistono a questo riguardo in due miei interventi nella "Stimmen der Zeit" nel 1999 e in un mio contributo contenuto nel libro

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di Wolfgang Beinert, pubblicato in quello stesso anno, "Gott - ratlos vor dem Bösen?" e per questo sarò breve. Hünermann rivolge la sua critica contro il cosiddetto secondo livello della professione di fede, che distingue l'insegnamento valido e legato indissolubilmente alla Rivelazione dalla Rivelazione vera e propria. E' assolutamente falso affermare che i Padri del primo e del secondo Concilio Vaticano avrebbero rifiutato espressamente questa distinzione. E' invece vero proprio il contrario. Il concetto di Rivelazione è stato rielaborato all'inizio dell'età moderna con lo sviluppo del pensiero storico. Si cominciò a distinguere fra ciò che era stato effettivamente rivelato e ciò che derivava dalla Rivelazione, che non era da quest'ultima separato, ma neanche direttamente in essa contenuto. Tale storicizzazione del concetto di Rivelazione non era mai esistita nel Medioevo. Questa separazione fra i due piani ha assunto forma concettuale nel Concilio Vaticano I, mediante la distinzione fra "credenda" (da credere) e "tenenda" (a cui attenersi). L'Arcivescovo Pilarczyk di Cincinnati ha spiegato poco fa questo concetto nel documento "Papers from Vallembrosa Meeting" (2000). Inoltre, è sufficiente sfogliare un qualsiasi libro di Teologia del periodo preconciliare per vedere che c'è scritto proprio questo, anche se dettagli della elaborazione del secondo livello rimasero motivo di discussione e lo sono ancora oggi. Il Concilio Vaticano II ha naturalmente accolto la distinzione formulata dal Concilio Vaticano I e l'ha rafforzata. Non riesco a capire come si possa affermare il contrario.

Il culmine della critica non riguarda tanto distinzioni come queste, ma piuttosto la rivendicazione della somma autorità magisteriale di insegnamenti che godono solo dello status di "teologicamente ben fondati", nei quali nonostante le buone basi esistono ancora obiezioni, che non sono state completamente eliminate

Naturalmente con insegnamenti a cui attenersi ("tenenda") si intende qualcosa di più di "teologicamente ben fondati"; questi in realtà sono mutevoli. La letteratura annovera fra questi "tenenda" gli importanti insegnamenti morali della Chiesa (per esempio il rifiuto dell'eutanasia, del suicidio assistito), i cosiddetti fatti dogmatici (per esempio che i Vescovi di Roma sono i Successori di San Pietro, la legittimità dei concili ecumenici e così via).

Torniamo ancora una volta al discusso documento della sua Congregazione. Spesso si rimprovera alla dichiarazione "Dominus Iesus", più che una mancanza contenutistica, una forma poco diplomatica che irrita gli interlocutori delle altre religioni e confessioni. Il Cardinale di Berlino Sterzinsky ha dichiarato che nella formazione teologica si richiede di non dimenticare nei sermoni il "quando, come e dove". Nei documenti romani pare che invece ciò sia stato dimenticato. E il Vescovo di Magonza Lehmann ha affermato che avrebbe desiderato "un testo redatto nello stile dei grandi testi conciliari" e si chiede fino a che punto la Congregazione per la Dottrina della Fede abbia collaborato con le altre autorità curiali nella formulazione del documento. A questo proposito fa riferimento al Consiglio per il Dialogo con le Religioni non cristiane e al Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani.

Per quanto riguarda la collaborazione con le altre autorità curiali, il Presidente e il Segretario del Consiglio per l'Unità, il Cardinale Cassidy e il Vescovo Kasper, sono membri della nostra Congregazione, così come il Presidente del Consiglio per il Dialogo con le Religioni, il Cardinale Arinze. Tutti loro hanno voce in capitolo nella Congregazione come me. Il Prefetto, infatti, è solo il primo fra pari e ha la responsabilità dello svolgimento ordinato del lavoro. I tre membri della Congregazione che ho appena citato hanno partecipato attivamente alla stesura del documento che più volte è stato presentato alla riunione ordinaria dei Cardinali e una volta alla riunione plenaria, alla quale partecipano tutti i nostri membri stranieri. Purtroppo il Cardinale Cassidy e il Vescovo Kasper, a causa di impegni concomitanti, non hanno

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potuto prendere parte ad alcune sedute, le cui date erano comunque state loro rese note con molto anticipo. Tuttavia hanno ricevuto tutta la documentazione e sono stati comunicati i loro voti scritti dettagliati ai partecipanti, e discussi approfonditamente.

Hanno trovato ascolto?

Quasi tutte le proposte delle due persone in questione sono state accolte, perché naturalmente nella trattazione di questa materia per noi era molto importante l'opinione del Consiglio per l'Unità. Inoltre, posso ben comprendere che i Vescovi tedeschi siano particolarmente sensibili alle difficoltà che emergono dal contesto del nostro Paese. Tuttavia, esiste anche un'altra faccia della medaglia. Per esempio proprio in questi giorni, mentre tornavo a casa, ho incontrato due uomini nel fiore degli anni che, venuti verso di me, mi hanno detto: "Siamo missionari in Africa. Per quanto tempo abbiamo atteso queste parole! Incontriamo costanti difficoltà e i missionari diminuiscono sempre di più". La gratitudine di queste due persone che sono in prima linea nella predicazione del Vangelo mi ha profondamente commosso. E questa è solo una delle tante reazioni di questo tipo. La verità dà sempre fastidio e non è mai comoda.Le parole di Gesù sono spesso terribilmente dure e formulate senza tanta accortezza diplomatica. Walter Kasper ha detto a ragione che lo scalpore suscitato dal documento nasconde un problema di comunicazione, perché il linguaggio dottrinale classico, così come viene utilizzato nel nostro documento per continuità con i testi del Concilio Vaticano II, è completamente diverso da quello dei giornali e dei mezzi di comunicazione sociale. Ma allora il testo va tradotto, non disprezzato.

Nel dibattito sul Documento della sua Congregazione si è posta di nuovo la questione delle possibilità e dei limiti dell'ecumenismo. I problemi legati al progetto ecumenico non riguardano solo l'esistenza di una tendenza a sfumare ciò che divide e a non prendere più sul serio le esigenze irrinunciabili di predominare di entrambe le parti. Già 15 anni fa, in un contributo contenuto nella "Theologische Quartalschrift" Lei aveva ammonito contro il considerare "l'ecumenismo come un compito diplomatico di natura politica" e in questo senso aveva criticato "l'ecumenismo di trattativa" del primo periodo post-conciliare. Che cosa intendeva dire?

Innanzitutto distinguerei il dialogo teologico dalla trattativa di tipo politico o economico. Nel dialogo teologico non si tratta di trovare l'accettabile e alla fine il conveniente per entrambe le parti, ma di scoprire profonde convergenze dietro distinte forme linguistiche e di imparare a distinguere fra quanto è legato a un determinato periodo storico e quanto invece è fondamentale. Ciò è possibile soprattutto quando il contesto dell'esperienza di Dio e di sé è cambiato e quindi la lingua può essere affrontata con un certo distacco e dalle passioni che dividono possono scaturire intuizioni fondamentali.

Può fare un esempio?

Nella dottrina della giustificazione ciò è evidente: l'esperienza religiosa di Lutero era essenzialmente condizionata dal difficile aspetto della collera di Dio e dal desiderio della certezza del perdono e della salvezza. Tuttavia, l'esperienza della collera di Dio si è perduta del tutto nella nostra epoca e che Dio non possa condannare nessuno è diventata un'idea generale fra i cristiani. In un contesto ormai così diverso si potevano ricercare i punti comuni alle due parti partendo dalla Bibbia, che è il nostro fondamento comune. Perciò non posso trovare alcuna contraddizione fra "Dominus Iesus" che ripete soltanto le idee centrali del Concilio e il consenso della giustificazione. E' importante che il dialogo si svolga con molta pazienza, con molto rispetto e soprattutto in totale onestà. La sfida agnostica, rivolta a tutti noi, consiste nell'abbandonare i preconcetti di tipo storico e

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giungere a ciò che è centrale. Per esempio, tornando a un momento precedente del nostro colloquio, onesto è non pretendere di applicare lo stesso concetto di Chiesa alla Chiesa cattolica e ad una delle Chiese formate secondo i confini dei principati del passato.

Allora, dopo la pubblicazione del suo Documento la formula ecumenica della "Diversità riconciliata" è ancora valida?

Accetto il concetto di "diversità riconciliata", se con esso non si intende uguaglianza di contenuti ed eliminazione della questione della verità al fine di considerarci una cosa sola, anche se crediamo in cose diverse e le insegniamo. Secondo me questo concetto è utilizzato bene se afferma che noi, nonostante i contrasti che non ci permettono di considerarci meri frammenti di una Chiesa di Gesù Cristo che in realtà non esisterebbe, ci incontriamo nella pace di Cristo riconciliati l'uno con l'altro, ossia quando riconosciamo la nostra divisione come contraddizione alla volontà del Signore e il dolore ci spinge a cercare l'unità e implorare il Signore sapendo che abbiamo tutti bisogno del suo amore.

Occasionalmente si leggono passaggi del Papa e anche suoi che relativizzano la divisione della Cristianità in una trattazione della storia della salvezza dialettica. Il Papa allora parla di "cause metastoriche" della divisione e nel suo libro "Varcare la soglia della speranza" si chiede: "Non potrebbe essere, dunque, che le divisioni siano state anche una via che ha condotto e conduce la Chiesa a scoprire le molteplici ricchezze contenute nel Vangelo di Cristo e nella redenzione da Lui operata? Forse tali ricchezze non sarebbero potute venire alla luce diversamente". Così la divisione dei cristiani sembra un compito didattico dello Spirito Santo, poiché, come dice il Papa, per la conoscenza e l'azione umane è significativa anche una "certa dialettica". Lei stesso scrive: "Anche se le divisioni sono opere umane e colpe umane, esiste in esse una dimensione propria della compagine divina". Se le cose stanno così, ci si chiede con quale diritto si contrasta la didattica divina identificando la Chiesa di Cristo con la Chiesa romana cattolica. Le indeterminatezze concettuali che si deplorano nel dialogo ecumenico non esistono anche nelle speculazioni della storia della salvezza sulla didattica di Dio?

Questo è un argomento difficile che riguarda la libertà umana e il governo divino. Non esistono risposte valide in maniera assoluta perché noi non oltrepassiamo il nostro orizzonte umano e quindi non possiamo svelare il mistero che lega questi due elementi. Ciò che lei ha citato del Santo Padre e di me, si potrebbe applicare grossolanamente alla nota formula secondo la quale Dio scrive anche con righe storte. Le righe restano storte e ciò significa che le divisioni hanno a che fare con la colpa umana. La colpa non diventa qualcosa di positivo per il fatto che da essa può derivare un processo di maturazione quando la si interpreta come qualcosa che si può superare con la conversione e eliminare con il perdono.Già Paolo aveva dovuto spiegare ai Romani l'equivoco scaturito dal suo insegnamento sulla grazia, secondo il quale dal momento che il peccato produce grazia, allora nel peccato si può stare tranquilli (Rm 6, 19). Il fatto che Dio possa trasformare in bene anche i nostri peccati non significa certo che il peccato sia una cosa buona. E il fatto che Dio possa trarre frutti positivi dalla divisione, non la trasforma in una cosa di per sé positiva. Le indeterminatezze concettuali che di fatto esistono sono dovute all'inquietante insondabilita del rapporto fra la libertà di peccare e la libertà della grazia. La libertà della grazia si mostra anche nel fatto che da una parte la Chiesa non affonda e non si disgrega in frammenti ecclesiali antitetici all'interno di un sogno irrealizzabile. Il soggetto Chiesa per la grazia di Dio esiste e sussiste realmente nella Chiesa cattolica; la promessa di Cristo è la garanzia che questo soggetto non sarà mai distrutto. Ma dall'altra parte è vero che questo soggetto è ferito, in quanto realtà ecclesiali

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esistono ed operano al di fuori di esso. In ciò si delinea al massimo il dramma della colpa e l'ampiezza paradossale della promessa di Dio. Se si rimuove questa tensione, per addivenire a formule chiare e si afferma che tutte le comunità ecclesiali sono Chiesa e tutte sono pur con i loro contrasti quella Chiesa una e santa, l'ecumenismo viene meno perché non esiste più alcun motivo per ricercare l'unità autentica.

La stessa questione si ripropone sotto un altro aspetto: se la questione della professione religiosa sia in rapporto con quella della salvezza personale. Perché missione, perché lo scontro sulla "verità" e documenti vaticani, se l'uomo alla fine può giungere a Dio attraverso tutte le vie?

Il Documento non riprende assolutamente la tesi soggettivistica e relativistica, secondo la quale ognuno può divenire santo a suo modo. Questa è un'interpretazione cinica, nella quale io percepisco disprezzo per la questione della verità e della giusta etica. Il Documento afferma con il Concilio che Dio dona luce ad ognuno. Chi cerca la verità si trova obiettivamente sulla via che porta a Cristo e con ciò anche sulla via verso la comunità, nella quale egli rimane presente alla storia, cioè alla Chiesa. Cercare la verità, ascoltare la coscienza, purificare il proprio ascolto interiore, queste sono condizioni di salvezza per tutti. In esse esiste un legame intimo e obiettivo con Cristo e con la Chiesa. In questo senso si dice allora che nelle religioni esistono riti e preghiere, che possono assumere un ruolo di preparazione evangelica, occasioni o pedagogie in cui i cuori degli uomini sono stimolati ad aprirsi all'azione di Dio. Ma si dice anche che ciò non vale per tutti i riti. Ne esistono infatti alcuni (chiunque conosce un po' di Storia delle Religioni non può che essere d'accordo), che allontanano l'uomo dalla luce. Così la vigilanza e la purificazione interiori si ottengono mediante una vita che segue la coscienza, che aiuta a individuare le differenze, un'apertura che alla fine significa appartenenza interiore a Cristo.Per questo il Documento può affermare che la missione resta importante in quanto offre quella luce di cui gli uomini hanno bisogno nella loro ricerca della verità e del bene.

Ma la domanda resta: se la salvezza, purché, come lei ha detto, si viva ascoltando la propria coscienza, si può ottenere mediante tutte le vie, allora la missione non perde urgenza teologica? Infatti, la tesi del "collegamento intimo e obiettivo" di vie di salvezza non cattoliche con Cristo cos'altro significa se non che Cristo stesso rende superflua la distinzione fra verità di salvezza "piena" e "deficitaria", dal momento che Egli, se è presente come strumento di salvezza, lo è sempre e logicamente in modo "pieno"?

Io non ho detto che la salvezza si può ottenere mediante tutte le vie. La via della coscienza, il tenere lo sguardo fisso sulla verità e sul bene obiettivo, è una strada unica, anche se assume molte forme a motivo del gran numero di persone e di situazioni. Tuttavia il bene è uno e la verità non si contraddice. Il fatto che l'uomo non raggiunga l'uno o l'altra, non relativizza l'esigenza di verità e di bene. Per questo non è sufficiente persistere nella religione ereditata, ma è necessario rimanere attenti al vero bene e così essere capaci anche di superare i confini della propria religione. Ciò ha un senso soltanto se esistono veramente la verità e il bene. Non si potrebbe essere sulla via di Cristo se egli non esistesse. Vivere con gli occhi del cuore aperti, purificarsi interiormente, cercare la luce sono condizioni indispensabili per la salvezza dell'uomo. Annunciare la verità, ossia lasciar risplendere la luce ("non sotto il moggio, ma sul candelabro") è assolutamente necessario.

A irritare il protestante non è il concetto di Chiesa, ma l'interpretazione biblica di "Dominus Iesus", in cui si afferma che "bisogna opporsi alla tendenza a leggere e ad interpretare la Sacra Scrittura fuori dalla Tradizione dal Magistero della Chiesa" e a "presupposti che

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ostacolano l'intelligenza e l'accoglienza della verità rivelata". Dice Jüngel: "La rivalutazione inopportuna dell'autorìtà del Magistero ecclesiale corrisponde a una svalutazione altrettanto inopportuna dell'Autorità delle Sacre Scritture".

Forte di 500 anni di esperienza, l'esegesi moderna ha riconosciuto chiaramente, insieme alla moderna letteratura e filosofia del linguaggio, che la semplice autointerpretazione delle Scritture e la chiarezza che ne deriva semplicemente non esistono. Nel 1928, Adolf von Harnack, nel suo carteggio con Erik Peterson, dichiarò con la sua tipica crudezza che: "Il cosiddetto ‘principio formale’ del vecchio luteranesimo è una impossibilità critica e che al contrario quello cattolico è il migliore". Ernst Käsernann ha dimostrato che il canone delle Sacre Scritture in quanto tale non fonda l'unità della Chiesa, ma la molteplicità delle confessioni. Di recente uno degli esegeti evangelici più importanti, Ulrich Luz, ha mostrato che la "Scrittura da sola" dà adito a tutte le possibili interpretazioni. Infine, anche nella prima generazione della Riforma si dovette cercare "il centro della Scrittura" per ottenere una chiave di interpretazione che non si riusciva a estrapolare dal testo in quanto tale. Ancora un esempio pratico: nello scontro con Gerd Lüdemann, un professore che negava la risurrezione di Cristo, la sua divinità ecc., si è evidenziato che anche la Chiesa evangelica non può fare a meno di una sorta di Magistero. Nello sfumare dei contorni della fede in un coro di sforzi esegetici antitetici (esegesi materialista, femminista, liberazionista, ecc.) appare evidente che proprio il rapporto con le professioni di fede, quindi con la tradizione viva della Chiesa, garantisce l'interpretazione letterale delle Sacre Scritture, proteggendole dal soggettivismo e conservandone l'originarietà e l'autenticità. Perciò il Magistero non sminuisce l'autorità delle Sacre Scritture, ma le protegge collocandosi in un posizione inferiore rispetto ad esse e lasciando affiorare la fede che da esse deriva.

Quale criterio decisivo per la definizione di "Chiesa sorella" della Chiesa cattolica romana, la Dichiarazione della sua Congregazione indica l'accettazione della "Successione apostolica". Un protestante come Jüngel rifiuta questo principio come non biblico. Per lui successore degli apostoli non è il Vescovo, ma il Canone biblico. Secondo lui chi vive secondo le Scritture è successore degli apostoli.

L'affermazione che il Canone sarebbe il successore degli apostoli è un'esagerazione e mescola cose troppo diverse fra loro. Il canone della scrittura è stato trovato dalla Chiesa in un processo che sarebbe durato fino al quinto secolo. Il canone quindi non esiste senza il ministero dei successori degli apostoli, e nello stesso tempo stabilisce il criterio del loro servizio. La parola scritta non sostituisce i testimoni vivi, così come questi ultimi non possono sostituirsi alla parola scritta. Testimoni vivi e parola scritta rimandano l'uno all'altro. Condividiamo la struttura episcopale della Chiesa come modo per essere in comunione con gli Apostoli, con tutta la Chiesa antica e con le Chiese ortodosse e ciò dovrebbe far riflettere. Quando si afferma che chi vive secondo le Scritture è successore degli Apostoli, non si risponde alla seguente domanda: chi decide che cosa significa vivere secondo le Scritture e chi giudica se si viva effettivamente secondo le Scritture? La tesi secondo la quale il Successore degli Apostoli non è il Vescovo, bensì il Canone biblico è un chiaro rifiuto del concetto di Chiesa cattolica. Al contempo però si pretende che noi applichiamo questo stesso concetto per definire le Chiese della riforma. Francamente è una logica che non capisco.

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venerdì 31 luglio 2009

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Card. Ratzinger: Laddove si manipola sempre più liberamente la liturgia, è comprensibile che i credenti la abbandonino e con essa la Chiesa

La teologia della liturgia

Intervento alla Conferenza tenutasi nel monastero di Fontgombault nel 2001

ROMA, venerdì, 15 luglio 2005 (ZENIT.org).

Pubblichiamo di seguito il testo dell’intervento tenuto dall’allora Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, durante una Conferenza svoltasi presso l’Abbazia benedettina di “Notre Dame de Fontgombault”, in Francia (22-24 luglio 2001).

* * *

Il Concilio Vaticano II definisce la liturgia come "l'opera del Cristo sacerdote e del suo corpo che è la Chiesa" (Sacrosanctum Concilium , n. 7). L'opera di Gesù Cristo è designata nello stesso testo come l’opera della redenzione che il Cristo ha compiuto in modo particolare attraverso il mistero pasquale della Sua passione, della Sua Resurrezione dai morti e della Sua gloriosa ascensione. "Con questo mistero, morendo, ha distrutto la nostra morte e, risorgendo, ha restaurato la vita" (Sacrosanctum Concilium , n. 5).

A prima vista, in queste due frasi la parola "opera del Cristo" sembra utilizzata in due distinti significati. L’opera del Cristo designa in primo luogo le azioni redentrici storiche di Gesù, la Sua morte e la Sua Resurrezione; d’altra parte si definisce "opera del Costo" la celebrazione della liturgia. In realtà, i due significati sono inseparabilmente legati: la morte e la Resurrezione, il mistero pasquale non sono soltanto avvenimenti storici esteriori. Per la Resurrezione, questo appare molto chiaramente.Raggiunge e penetra la storia, ma la trascende in un doppio senso; non è l’azione di un uomo bensì una azione di Dio, e conduce in tal modo Gesù risuscitato oltre la storia, là dove siede alla destra del Padre. Neanche la croce è una semplice azione umana.L’aspetto puramente umano è presente nelle persone che condussero Gesù alla croce. Per Gesù, la croce non è un’azione, ma una passione, e una passione che significa che Egli è un tutt’uno con la volontà divina, un’unione della quale l’episodio dell’Orto degli Ulivi ci fa vedere l’aspetto drammatico.Così la dimensione passiva della Sua messa a morte si trasforma nella dimensione attiva dell’amore: la morte diventa abbandono di se stesso al Padre per gli uomini. In questo modo l’orizzonte si estende, qui come nella Resurrezione, ben al di là del puro aspetto umano e ben al di là del puro fatto di essere stato crocifisso e di essere morto.Il linguaggio della fede ha chiamato mistero questa eccedenza riguardo al mero istante storico e ha condensato nel termine mistero pasquale il nocciolo più intimo dell’avvenimento redentore. Se possiamo dire da allora in poi che il mistero pasquale costituì il nocciolo dell’opera di Gesù, il rapporto con la liturgia è già patente; è precisamente questa opera di Gesù che è il vero contenuto della liturgia. Tramite questa, con la fede e la preghiera della Chiesa, l’opera di Gesù raggiunge continuamente la storia per penetrarla.Nella liturgia il puro istante storico è così trasceso di nuovo ed entra nell’azione divino-umana permanente della redenzione. In questa Cristo è il vero soggetto: e l’opera del Cristo, ma in essa Egli attira a sé la storia, precisamente in questa azione che è il luogo della nostra

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salvezza.

Il sacrificio rimosso in questione

Tornando al Vaticano II, vi troviamo la seguente descrizione di questi rapporti: "La liturgia, mediante la quale, soprattutto nel divino sacrificio dell’Eucaristia, si attua l’opera della nostra redenzione, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e l’autentica natura della vera Chiesa" (ibid. n. 2).

Tutto ciò è diventato estraneo al pensiero moderno e nemmeno trent’anni dopo il concilio, persino tra i liturgisti cattolici, è oggetto di punti interrogativi. Oggi chi parla ancora del sacrificio divino dell’Eucaristia? Certo le discussioni intorno alla nozione di sacrificio sono tornate ad essere sorprendentemente vive, sia da parte cattolica che protestante. Si avverte che in un’idea che ha sempre occupato, sotto molte forme, non soltanto la storia della Chiesa, ma la storia intera dell’umanità, vi deve esserci l’espressione di qualche cosa di essenziale che riguarda anche noi. Ma nello stesso tempo restano ancora vive ovunque le vecchie posizioni dell’illuminismo: accusa a priori di magia e di paganesimo, sistematiche opposizioni tra rito ed ethos, concezione di un cristianesimo che si libera dal culto ed entra nel mondo profano; teologi cattolici che non hanno per nulla voglia, per l’appunto, di vedersi tacciare di anti-modernità.Anche se si ha in un modo o nell'altro il desiderio di ritrovare il concetto di sacrificio, ciò che alla fine resta è l’imbarazzo e la critica. Così recentemente Stephan Orth, in un vasto panorama della bibliografia recente consacrata al terna del sacrificio, ha creduto di riassumere tutta la sua inchiesta con le constatazioni seguenti: oggi, persino molti cattolici ratificano il verdetto e le conclusioni di Martin Lutero, per il quale parlare di sacrificio è il più grande e spaventoso errore, è una maledetta empietà.Per questo motivo vogliamo astenerci da tutto ciò che sa di sacrificio, compreso tutto il canone e considerare solo tutto ciò che è santo e puro. Poi Orth aggiunge: dopo il Concilio Vaticano II questa massima fu seguita anche nella Chiesa cattolica, per lo meno come tendenza, e condusse a pensare anzitutto il culto divino a partire dalla festa della Pasqua, citata nel racconto della Cena. Facendo riferimento ad un’opera sul sacrificio edita da due liturgisti cattolici di avanguardia, dice in seguito, in termini un po’ più moderati, che appare chiaramente che la nozione di sacrificio della Messa, più ancora di quella del sacrificio della Croce, è nel migliore dei casi una nozione che si presta motto facilmente a malintesi.Non è necessario che dica che io non faccio parte dei "numerosi" cattolici che considerano con Lutero come il più spaventoso errore e una maledetta empietà il fatto di parlare di sacrificio della Messa. Si comprende parimenti che il redattore abbia rinunciato a menzionare il mio libro sullo Spirito della liturgia che analizza nel dettaglio la nozione di sacrificio.La sua diagnosi risulta costernante. È anche vera? Io non conosco questi numerosi cattolici che considerano come una maledetta empietà il fatto di comprendere l’Eucaristia come un sacrificio. La seconda diagnosi, più cauta, secondo la quale si considera la nozione di sacrificio della Messa come concetto altamente esposto a malintesi, si presta invece a facile verifica. Ma, se si lascia da parte la prima affermazione del redattore, non trovandoci che una esagerazione retorica, resta un problema sconvolgente che occorre risolvere. Una parte non trascurabile di liturgisti cattolici sembra essere praticamente arrivata alla conclusione che occorre dare sostanzialmente ragione a Lutero contro Trento nel dibattito del XVI secolo; si può del pari ampiamente constatare la medesima posizione nelle discussioni post-conciliari sul sacerdozio.

Il grande storico del Concilio di Trento, Hubert Jedin, indicava questo fatto nel 1975, nella prefazione all’ultimo volume della sua Storia del Concilio di Trento: "il lettore attento... non sarà, leggendo ciò, meno costernato dell’autore, quando si renderà conto del numero di cose, a dire il vero quasi tutte, che, avendo una volta agitato gli uomini, sono di nuovo proposte oggi".

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Solo a partire da qui, dalla squalifica pratica di Trento, si può comprendere l’esasperazione che accompagna la lotta contro la possibilità di celebrare ancora, dopo la riforma liturgica, la Messa secondo il messale del 1962. Questa possibilità è la contraddizione più forte e quindi la meno tollerabile in rapporto all’opinione di colui che ritiene che la fede nell’Eucaristia formulata a Trento abbia perso il suo valore. Sarebbe facile raccogliere prove a sostegno di questa situazione.

Faccio astrazione dalla teologia liturgica estrema di Harald Schutzeichel, che si stacca completamente dal dogma cattolico ed espone, per esempio, l’affermazione avventurosa che soltanto nel Medioevo l’idea di presenza reale sarebbe stata inventata. Un liturgista di punta, come David N. Power, ci insegna che nel corso della storia non solo la maniera con la quale una verità viene espressa, ma lo stesso contenuto di ciò che vi è espresso può perdere il suo significato. Mette concretamente questa teoria in rapporto con gli enunciati di Trento.Th. Schnitker ci dice che una liturgia rinnovata include egualmente una espressione differente della fede e dei cambiamenti teologici. Del resto, secondo lui ci sarebbero teologi, per lo meno nel cerchio della Chiesa romana e della sua liturgia, che non avrebbero ancora colto la portata di queste trasformazioni promosse dalla riforma liturgica nel campo della dottrina della fede. L’opera senza dubbio seria di R. Messner sulla riforma della Messa in Martin Lutero e l’Eucaristia della Chiesa antica, che contiene molte interessanti riflessioni, giunge tuttavia alla conclusione che Lutero comprese la Chiesa antica meglio di Trento.

La gravità di queste teorie consiste nel fatto che frequentemente passano subito nella pratica. La tesi secondo la quale è la comunità in quanto tale il soggetto della liturgia passa per una autorizzazione a manipolare la liturgia secondo la comprensione di ciascuno.

Pretese nuove scoperte e le forme che ne conseguono si diffondono con una stupefacente rapidità e con una obbedienza riguardo a tali mode che da tempo non esiste più riguardo alle norme dell’autorità ecclesiastica. Delle teorie nel campo della liturgia si trasformano oggi molto rapidamente in pratica e la pratica, a sua volta, crea o distrugge comportamenti e forme di comprensione

La problematica del resto si è nel frattempo aggravata per il motivo che il movimento più recente dell’illuminismo supera di gran lunga Lutero. Mentre Lutero prendeva ancora alla lettera i racconti della Istituzione e li poneva come norma normans, come fondamento dei suoi tentativi di riforma, le ipotesi della critica storica stanno da tempo provocando un’ampia erosione dei testi.I racconti della Cena appaiono come un prodotto della costruzione liturgica della comunità; dietro ad essi si cerca un Gesù storico che "naturalmente" non poteva aver pensato al dono del Suo corpo e del Suo sangue, né aver compreso la Sua croce come sacrificio di espiazione; bisognerebbe piuttosto pensare a un pasto d’addio contenente una prospettiva escatologica. Non solo l’autorità del Magistero ecclesiale è declassata agli occhi di molti, ma anche la Scrittura, al posto della quale entrano delle ipotesi pseudo-storiche mutevoli, che in fondo daranno spazio a qual si voglia arbitrio ed espongono la liturgia alla mercé della moda. Laddove sulla base di tali idee si manipola sempre più liberamente la liturgia, i credenti sentono che in realtà nulla vi è celebrato ed è comprensibile che abbandonino la liturgia e con questa la Chiesa.

I principi della ricerca teologica

Torniamo dunque alla questione fondamentale: è giusto qualificare l’Eucaristia di sacrificio divino, oppure è una maledetta empietà? In questo dibattito occorre per prima cosa stabilire i principali presupposti che determinano in ogni caso la lettura della Scrittura e conseguentemente le

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conclusioni che se ne traggono. Per il cristiano cattolico qui si impongono due linee ermeneutiche essenziali di orientamento. La prima: noi diamo fiducia alla Scrittura e ci basiamo sulla Scrittura, non su ricostruzioni ipotetiche che si collocano al di qua di essa e ricostruiscono a modo loro una storia nella quale svolge un ruolo fondamentale la domanda presuntuosa di sapere ciò che si può o ciò che non si può attribuire a Gesù; il che significa "naturalmente" solo ciò che un erudito moderno vuole attribuire a un uomo di un tempo che lui stesso ha ricostruito.La seconda è che noi leggiamo la scrittura nella comunità vivente della Chiesa e dunque sulla base di decisioni fondamentali, grazie alle quali è divenuta storicamente efficace e ha precedentemente gettato le basi della Chiesa. Non bisogna separare il testo da questo contesto vivente. In questo senso la Scrittura e la Tradizione formano un tutto inseparabile e questo è il punto che Lutero, all’alba del risveglio dalla coscienza storica, non è riuscito a vedere. Egli credeva alla univocità della lettera, univocità che non esiste e alla quale ha da lungo tempo rinunciato la storiografia moderna.Che nella Chiesa nascente, l’Eucaristia sia stata sin dall’inizio compresa come sacrificio, persino in un testo come la Didachè, difficile e piuttosto marginale in rapporto alla grande tradizione, è un elemento di interpretazione di prim’ordine. Ma c’è ancora un oltre aspetto ermeneutico fondamentale nella lettura e nella interpretazione della testimonianza biblica. Il fatto che io possa o no riconoscere un sacrificio nell’Eucaristia, così come il Signore l’ha istituita, si collega essenzialmente alla questione di sapere ciò che io intendo per sacrificio, dunque a ciò che si chiama pre-comprensione. La pre-comprensione di Lutero, per esempio, in particolare la sua concezione dell’avvenimento e della presenza storica della Chiesa, era tale che la categoria di sacrificio, così come egli la vedeva, non poteva nella sua applicazione all’Eucaristia della Chiesa apparire che come un’empietà.I dibattiti ai quali si riferisce Stephan Orth mostrano quanto confusa e ingarbugliata è la nozione di sacrificio in quasi tutti gli autori e mettono in condizione di vedere tutto il lavoro da farsi sull’argomento. Per il teologo credente risulta evidente che è la stessa Scrittura che deve fargli da guida verso la definizione essenziale di sacrificio e ciò a partire da una lettura "canonica" della Bibbia nella quale la Scrittura è letta nella sua unità e nel suo movimento dinamico, le cui diverse tappe ricevono il loro significato ultimo da Cristo, al quale questo movimento nella sua interezza conduce. In questa stessa misura, l’ermeneutica qui presupposta è una ermeneutica della fede, fondata sulla sua logica interna. Non dovrebbe essere, in fondo, una evidenza? Poiché senza la fede, la stessa Scrittura non è la Scrittura, ma un insieme piuttosto disparato di brani letterari, il che non potrebbe rivendicare oggi alcun significato normativo.

Il sacrificio e la Pasqua

Il compito al quale si fa qui allusione supera di molto, beninteso, i limiti di una conferenza; mi sia allora permesso di rimandare al mio libro su Lo spirito della liturgia, nel quale ho cercato di tracciare le grandi linee di questa questione. Ciò che se no deduce è che, nel suo percorso attraverso la storia delle religioni e la storia biblica, la nozione di sacrificio assume delle connotazioni che vanno ben oltre la problematica che noi leghiamo abitualmente alla nozione di sacrificio. Di fatto, apre l’accesso alla comprensione globale del culto e della liturgia: sono queste grandi prospettive che vorrei tentare di indicare qui. In questo modo devo necessariamente rinunciare a questioni speciali d’esegesi, in particolare al problema fondamentale dell’interpretazione dei racconti dell’istituzione, riguardo alla quale, oltre al mio libro sulla liturgia, ho cercato di fornire alcuni elementi nel mio contributo su Eucaristia e Missione.

C’è tuttavia una indicazione che non posso impedirmi di dare, Nella menzionata rassegna bibliografica Stephan Orth dice che il fatto di avere evitato, dopo il Vaticano II, la nozione di sacrificio, ha condotto a "pensare il culto divino soprattutto a partire dal rito della Pasqua, rapportata nei racconti della Cena".

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Questa formulazione appare a prima vista ambigua: si pensa il culto divino a partire dalla Cena, oppure dalla festa di Pasqua che vengono indicate come quadro temporale, ma non vengono descritte ulteriormente?

Sarebbe giusto dire che la Pasqua ebraica, la cui istituzione è riportata in Es 12, acquista nel Nuovo Testamento un nuovo senso. Proprio in essa si manifesta un grande movimento storico che va dalle origini fino alla Cena, alla Croce e alla Resurrezione di Gesù. Ma ciò che stupisce, soprattutto nella formulazione di Orth, è l’opposizione costruita tra l’idea di sacrificio e la Pasqua.I dati veterotestamentari giudaici privano tutto ciò di senso, poiché dalla legislazione deutoronomistica l’uccisione degli agnelli è legata al tempio; ma persino nel periodo primitivo, in cui la Pasqua era ancora una festa familiare, l’uccisione degli agnelli aveva già un carattere sacrificale. Così, per l’appunto attraverso la tradizione della Pasqua, l’idea di sacrificio arriva fino alle parole e ai gesti della Cena, dove è presente, del resto, sulla base di un secondo passaggio veterotestamentario, Es 24, che riporta la conclusione dell’Alleanza del Sinai. Là è riferito che il popolo fu asperso col sangue delle vittime condotte in precedenza e che Mosè disse in quella occasione: "Questo è il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole" (Es 24,8).La nuova Pasqua cristiana è così espressamente interpretata nei racconti della Cena come un avvenimento sacrificate e, sulla base delle parole della Cena, la Chiesa nascente sapeva che la croce era un sacrifico, poiché la Cena sarebbe stata un gesto vuoto senza la realtà della croce e della Resurrezione, che vi è anticipata e resa accessibile per tutti i tempi nel suo contenuto interno.

Menziono questa strana opposizione tra la Pasqua e il sacrificio, perché rappresenta il principio architettonico di un libro recentemente pubblicato dalla Fraternità San Pio X, che pretende esista una rottura dogmatica tra la nuova liturgia di Paolo VI e la precedente tradizione liturgica cattolica.

Questa rottura è vista precisamente nel fatto che tutto ormai si interpreta a partire "mistero pasquale" al posto del sacrificio redentore d’espiazione del Cristo; la categoria del mistero pasquale sarebbe l’anima della riforma liturgica ed e proprio questo che care la prova della rottura verso la dottrina classica della Chiesa.

È chiaro che vi sono autori che prestano il fianco a un simile malinteso. Ma che si tratti di un malinteso è assolutamente evidente per chi osserva il fatto da vicino. In realtà, il termine di mistero pasquale rinvia chiaramente agli avvenimenti che hanno avuto luogo nei giorni che vanno dal Giovedì Santo al mattino di Pasqua: la Cena come anticipazione della Croce, il dramma del Golgota e la Resurrezione del Signore. Nel termine di mistero pasquale, questi episodi sono visti sinteticamente come un unico avvenimento, unitario, come "l’opera del Cristo", così come l’abbiamo inizialmente sentito dire dal Concilio, come una realtà che è storicamente avvenuta e allo stesso tempo trascende questo preciso istante. Poiché questo avvenimento è, interiormente, un culto reso a Dio, ha potuto diventare un culto divino e in questo modo essere presente in ogni istante. La teologia pasquale del Nuovo Testamento, alla quale abbiamo dato un rapido sguardo, dà precisamente a intendere questo: l’episodio apparentemente profano della crocifissione del Cristo è un sacrificio d’espiazione, un atto salvatore dell’amore riconciliatore del Dio fatto uomo. La teologia della Pasqua è una teologia della redenzione, una liturgia di un sacrificio espiatorio. Il pastore è diventato agnello. La visione dell’agnello, che appare nella storia di Isacco, dell’agnello che rimane impigliato negli sterpi e riscatta il figlio, è diventata una realtà: il Signore si fa agnello, si lascia legare e sacrificare, per liberarci.Tutto ciò è divenuto estremamente estraneo al pensiero contemporaneo. Riparazione, "espiazione",

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può forse evocare qualche cosa nel quadro dei conflitti umani e nella liquidazione della colpabilità che regna tra gli esseri umani, ma la sua trasposizione al rapporto tra Dio e l’uomo non può sortire buon esito. Ciò si collega sicuramente al fatto che la nostra immagine di Dio è impallidita, si è avvicinata al deismo. Non ci si può più immaginare che l’errore umano possa ferire Dio e ancor meno che debba avere bisogno di una espiazione, simile a quella che costituisce la croce del Cristo. Stessa cosa per la sostituzione vicaria: non possiamo affatto rappresentarci qualche cosa a questo riguardo. La nostra immagine dell’uomo è diventata troppo individualista per questo.

Così la crisi della liturgia ha per base delle concezioni centrali sull’uomo. Per superarla, non è sufficiente banalizzare la liturgia e trasformarla in una semplice riunione o in un pasto fraterno.

Ma come uscire da questi disorientamenti? Come ritrovare il senso di questa realtà immensa che è nel cuore del messaggio della Croce e della Resurrezione? In ultima istanza, certamente non attraverso delle teorie e delle riflessioni erudite, ma solo per mezzo della conversione, per mezzo di un radicale cambiamento di vita, al quale possono certamente aprire la strada taluni elementi di discernimento, e vorrei proporre delle indicazioni in questo senso e ciò in tre tappe.

L’amore, cuore del sacrificio

La prima tappa deve essere una questione preliminare alla comprensione essenziale del termine sacrificio. Si considera comunemente il sacrificio come la distruzione di una realtà preziosa agli occhi dell’uomo; distruggendola, egli vuole consacrare questa realtà a Dio, riconoscere la sua sovranità. Tuttavia, una distruzione non onora Dio. Ecatombi di animali o di qualsiasi cosa non possono onorare Dio. "Se avessi fame, a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode e sciogli nell’Altissimo i tuoi voti" — dice Dio a Israele nel salmo 50 (49), 12-14.In che cosa consiste allora il sacrificio? Non nella distruzione, ma nella trasformazione dell’uomo. Nel fatto che diventa lui stesso conforme a Dio, e diventa conforme a Dio quando diventa amore. "È per questo che il vero sacrificio è qualsiasi opera che ci permette di unirci a Dio in una santa comunità", dice a proposito Agostino. A partire da questa chiave neotestamentaria, Agostino interpreta i sacrifici veterotestamentari come simboli che significano questo sacrificio propriamente detto, ed per questo, dice, che il culto doveva essere trasformato, il segno doveva scomparire in favore della realtà: "Tutte le prescrizioni divine della Scrittura concernenti i sacrifici del tabernacolo o del tempio, sono delle figure che si riferiscono all’amore di Dio e del prossimo" (La Città di Dio, X, 5).Ma Agostino sa anche che l’amore diventa vero solo quando conduce l’uomo a Dio e così lo indirizza verso il suo vero fine; solo qui si può verificare l’unità degli uomini tra loro. Così il concetto di sacrificio rinvia alla comunità e la prima definizione tentata da Agostino si trova, a partire da questo momento, ampliata dal seguente enunciato: "Tutta la comunità umana riscattata, cioè l’unione e la comunità dei santi è offerta a Dio in sacrificio dal Gran Sacerdote che si è offerto lui stesso" (ibid. X, 6). E più semplicemente ancora: "Tale è il sacrificio dei cristiani: la moltitudine, un solo corpo nel Cristo" (ibid. X, 6).

Il "sacrificio" consiste dunque —diciamolo ancora una volta — nella conformazione dell’uomo a Dio nella sua theiosis, direbbero i Padri. Consiste, per esprimersi in termini moderni, nell’abolizione delle differenze, nell’unione tra Dio e l’uomo, tra Dio e la creazione: "Dio tutto in tutti" (1 Cor 15, 28). Ma come ha luogo questo processo che fa sì che diventiamo amore e un solo corpo con il Cristo, che noi diventiamo una sola cosa con Dio, come avviene questa abolizione della differenza? Prima di tutto esiste a questo proposito una netta frontiera tra le religioni fondate sulla fede di Abramo da una parte e dall’altra parte le altre forme di religione come le troviamo in particolare in Asia, ma anche — probabilmente sulla base di tradizioni asiatiche - nel neo-

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platonismo di impronta plotiniana. Là l’unione significa liberazione dalla finitezza che si svela infine come apparenza, abolizione dell’io nell’oceano del tutto che, di fronte al nostro mondo di apparenze, e il nulla, tuttavia in verità è il solo vero essere. Nella fede cristiana, che dà compimento alla fede dl Abramo, l’unità è vista in modo completamente diverso: è l’unità dell’amore, nella quale le differenze non sono abolite, ma si trasformano nell’unità superiore degli amanti, quale si trova, come in archetipo, nell’unità trinitaria di Dio. Mentre, per esempio, presso Plotino, il finito è decadenza in rapporto all’unità ed è per così dire il livello del peccato e in quanto tale e al tempo stesso il livello di ogni male, la fede cristiana non vede il finito come una negazione, ma come una creazione, come il frutto di un volere divino, che crea un partner libero, una creatura che non deve essere abolita, ma deve essere compiuta e inserirsi nell’atto libero dell’amore. La differenza non è abolita, ma diventa la modalità di una superiore unità. Questa filosofia della libertà, che è alla base della fede cristiana e la differenzia dalle religioni asiatiche, include la possibilità della negazione. Il male non è una semplice decadenza dell’essere, ma la conseguenza di una libertà male utilizzata. Il cammino dell’unità, il cammino dell’amore, è perciò un cammino di conversione, un cammino di purificazione, prende la figura della croce, passa attraverso il mistero pasquale, attraverso la morte e la Resurrezione. Ha bisogno di un Mediatore che nella Sua morte e nella Sua Resurrezione diventa per noi la via, ci attira tutti a lui (Gv 12, 32) e ci esaudisce.Gettiamo un colpo d’occhio addietro.

Nella sua definizione: sacrificio eguale amore, Agostino si appoggia con ragione sul termine presente sotto diverse varianti nell’Antico e nel Nuovo Testamento che egli cita secondo Osea: "Voglio l’amore e non il sacrificio" (6, 6; 5. Agostino, La città di Dio, X, 5). Ma questa affermazione non mette semplicemente una opposizione tra ethos e culto — in questo caso il cristianesimo si ridurrebbe a un moralismo —, rinvia a un processo che è più che la morale, a un processo di cui Dio prende l’iniziativa. Lui solo può avviare nell’uomo il cammino verso l’amore. È solo l’amore con cui Dio ama che fa crescere l’amore verso di Lui. Questo fatto di essere amato avvia un processo di purificazione e di trasformazione, nel quale noi non siamo solo aperti a Dio, ma uniti gli uni agli altri. L’iniziativa di Dio ha un nome: Gesù Cristo — il Dio che si è fatto Lui stesso uomo e si dona a noi. Ecco perché Agostino può sintetizzare tutto questo dicendo "Tale è il sacrificio dei cristiani: la moltitudine è un solo corpo nel Cristo. La Chiesa celebra questo mistero con il sacrificio dell’altare, ben conosciuto dai credenti, perché in questo le è mostrato che nelle cose che essa offre, essa stessa è offerta" (ibid. X, 6). Chi ha compreso questo non sarà del parere che parlare del sacrificio della Messa è perlomeno altamente ambiguo e anche uno spaventoso errore. Al contrario: se non ritroviamo questa verità, perdiamo di vista la grandezza di ciò che Dio ci dona nell’Eucaristia.

Il nuovo tempio

Vorrei ora richiamare ancora, in modo molto breve, altre due linee di avvicinamento all’aspetto centrale della questione. A mio avviso, una indicazione importante è data nella scena della purificazione del tempio, in particolare nella forma trasmessa da Giovanni. In realtà Giovanni riferisce una parola di Gesù che nei Sinottici è presente soltanto durante il processo a Gesù sulle labbra di falsi testimoni e in modo deformato. La reazione di Gesù riguardo ai mercanti e ai cambiavalute del tempio era nella pratica un attacco contro le immolazioni di animali che vi erano presentati, dunque un attacco contro la forma esistente del culto del sacrificio in generale. È questo il motivo per cui le competenti autorità ebraiche gli domandano, con pieno diritto, con quale segno Egli giustifichi una tale azione che equivaleva a un attacco contro la legge di Mosè e le sacre prescrizioni dell’Alleanza. In proposito Gesù risponde: "Distruggete (dissolvete) questo tempio e in tre giorni lo faro risorgere" (Gv 2,19).Questa sottile formula evoca una visione di cui Giovanni stesso dice che i discepoli non la

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compresero, se non dopo la Resurrezione, ricordandosi gli eventi, e che ricondusse a credere alle Scritture e alla Parola detta da Gesù (Gv 2, 22). Ora infatti comprendono che al momento della crocifissione di Gesù il tempio è stato abolito: secondo Giovanni, Gesù fu crocifisso esattamente nel momento in cui gli agnelli pasquali venivano immolati nel santuario.Nel momento in cui il Figlio si consegna in persona come agnello, vale a dire si dona liberamente al Padre e così (pure) a noi, giungono alla fine le antiche prescrizioni del culto, che non potevano essere altro che un segno delle realtà autentiche. Il tempio è distrutto. E ormai il Suo corpo risuscitato — Lui stesso — diventa il vero tempio dell’umanità, nel quale si svolge l’adorazione in Spirito e verità (Gv 4, 23). Ma Spirito e verità non sono concetti filosofici astratti — Lui stesso è la verità, e lo Spirito è lo Spirito Santo che da Lui procede.In tal modo, anche qui appare con chiarezza che il culto non è sostituito dalla morale, ma che il culto antico giunge alla fine, con le sue sostituzioni e i suoi malintesi, spesso tragici, perché la realtà stessa, il nuovo tempio, si manifesta: il Cristo risuscitato che ci attiva, ci trasforma e ci unisce a Lui. Ed è di nuovo chiaro che l’Eucaristia della Chiesa — per parlare con Agostino — è sacramentum del vero sacrificium — segno sacro nel quale si produce ciò che è significato.

Il sacrificio spirituale

Infine vorrei segnalare molto brevemente una terza via secondo la quale è progressivamente diventato più chiaro il passaggio dal culto di sostituzione, quello della immolazione di animali, al vero sacrificio — alla comunione, alla offerta del Cristo. Presso i profeti pre-esilici c’era stata contro il culto del tempio una critica estremamente dura, che Stefano, con stupito terrore dei dottori e dei sacerdoti del tempio, riprese nel suo grande discorso. segnatamente questo versetto di Amos: "Mi avete forse offerto vittime e sacrifici per quarant’anni ne! deserto, o casa di Israele? Avete preso con voi la tenda di Moloc e la stella del dio Refan, simulacri che vi siete fabbricati per adorarli" (5,25, At 7,42). La critica dei profeti fu il presupposto interno che per mise ad Israele di attraversare la prova della distruzione del tempio, dell’epoca senza culto. Allora ci si trovò nella necessità di mettere in luce in modo più profondo e nuovo che cosa è il culto, l’espiazione, il sacrificio. Al tempo della dittatura ellenistica, in cui Israele fu di nuovo senza tempio e senza sacrificio, il libro di Daniele ci ha trasmesso questa preghiera: "Ora, Signore, noi siamo diventati più piccoli dl qualunque altra nazione.., ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovare misericordia. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti dl montoni e di tori, come migliaia di grassi agnelli. Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a Te e ti sia gradito, perché non c’è delusione per coloro che confidano in te. Ora ti seguiamo con tutto i! cuore, ti temiamo e cerchiamo il Tuo volto" (Dn, 37-41). Così lentamente maturò la scoperta che la preghiera, la parola, l’uomo che prega e diviene lui stesso parola è il vero sacrificio. A questo proposito la lotta di Israele poté entrare in fecondo contatto con la ricerca del mondo ellenistico: anche esso cercava il ripiego per uscire dal culto di sostituzione delle immolazioni di animali, per arrivare a un culto propriamente detto, alla vera adorazione. In questa prospettiva è maturata l’idea della loghikè tysia — del sacrificio consistente nella parola che noi incontriamo nel Nuovo Testamento in Romani 12,1, dove l’apostolo esorta i credenti ad offrire se stessi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio.Questo è indicato come loghikè latreia, come servizio divino secondo la parola, ragionevole. Sotto un’altra forma, troviamo la stessa affermazione in Eb 13, 15: "Per mezzo di Lui — il Cristo — offriamo a Dio continuamente un sacrificio di fede, cioè il frutto di labbra che confessano il Suo nome". Numerosi esempi, provenienti dai Padri della Chiesa, mostrano come queste idee furono sviluppate e divennero il punto di congiunzione tra la cristologia, la fede eucaristica e la traduzione pratico-esistenziale del mistero pasquale.Vorrei solo citare, a titolo di esempio, alcune frasi di Pietro Crisologo, di cui si dovrebbe in verità

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leggere l’intero Sermone in questione per poter seguire questa sintesi da capo a fondo: "Singolare sacrificio, dove il corpo si offre senza il corpo, il sangue senza il sangue! Vi scongiuro, dice l’Apostolo, per la misericordia di Dio, di offrire i vostri corpi come sacrificio vivente. Fratelli questo sacrificio prende ispirazione dall’esempio di Cristo che immolò il Suo corpo, perché gli uomini abbiano la vita. Diventa, uomo, diventa il sacrificio di Dio e il suo sacerdote. Dio cerca la fede, non la morte. Ha sete della tua promessa, non del tuo sangue. Il fervore lo placa, non l’uccisione".Anche qui si tratta di tutt’altra cosa che di un puro moralismo, tanto l’uomo vi è impegnato nel suo essere totale: sacrificio consistente nella parola. I pensatori greci avevano già messo questo aspetto in relazione al logos, alla parola stessa, indicando che il sacrificio della preghiera non deve essere un puro discorso, bensì la trasformazione del nostro essere ne logos, l’unione con Lui. Il culto divino implica che noi stessi diventiamo degli esseri della Parola, che ci conformiamo alla Ragione creatrice. Ma è nuovamente chiaro che non possiamo ottenere tutto questo da noi stessi e così tutto sembra di nuovo finire nel nulla, fino al giorno in cui viene il Logos, il vero, il Figlio, fino al giorno in cui sì fa carne e ci attira a se stesso nell’esodo della croce.Questo vero sacrificio, che ci trasforma tutti in sacrificio, vale a dire ci unisce a Dio, fa di noi degli esseri conformi a Dio, è certamente fissato e fondato in un avvenimento storico, ma non si trova come una cosa del passato dietro di noi; anzi diventa contemporaneo e accessibile a noi nella comunità della Chiesa, che crede e prega, nel suo sacramento: ecco che cosa significa il sacrificio della Messa. L’errore di Lutero si fondava - ne sono convinto — su un falso concetto di storicità, in una errata comprensione dell’unicità ( ephapax). Il sacrificio di Cristo non si trova dietro di noi come una cosa del passato. Raggiunge tutti i tempi ed è presente in noi.L’Eucaristia non è semplicemente la distribuzione di ciò che viene dal passato, ma più a fondo è la presenza dei mistero pasquale del Cristo che trascende ed unisce i tempi. se Il Canone romano cita Abele, Abramo, Melchisedec, annoverandoli tra coloro che celebrano l’Eucaristia, lo fa nella convinzione che anche in essi, i grandi offerenti, il Cristo attraversava i tempi, oppure meglio che nella loro ricerca essi camminavano incontro al Cristo. La teologia dei Padri, così come la troviamo nel Canone, non nega l’insufficienza dei sacrifici precristiani; però il Canone include, con le figure di Abele e Melchisedec, gli stessi "santi pagani" nel mistero di Cristo.La conclusione è precisamente che tutto ciò che precedeva è visto nella sua insufficienza come ombra, ma pure che il Cristo attira tutto a sé, che vi è anche nel mondo pagano una preparazione al Vangelo, che anche elementi imperfetti possono condurre al Cristo, qualunque siano le purificazioni di cui hanno bisogno.

Il Cristo soggetto della liturgia

Vengo alla conclusione. Teologia della liturgia — questo significa che Dio agisce per mezzo del Cristo nella liturgia e che noi non possiamo agire che per mezzo Suo e con Lui. Da noi stessi non possiamo costruire la nostra via verso Dio. Questa via non è percorribile, eccetto il caso che Dio stesso si faccia la via. E una volta per sempre: le vie dell’uomo che non pervengono accanto a Dio sono delle non-vie.Teologia della liturgia significa inoltre che nella liturgia il Logos stesso ci parla e non solo parla: viene con il Suo corpo, la Sua anima, la Sua carne, il Suo sangue, la Sua divinità, la Sua umanità per unirci a Lui, per fare di noi "un solo corpo". Nella liturgia cristiana tutta la storia della salvezza, anzi tutta la storia della ricerca umana di Dio, è presente, viene assunta e portata al suo compimento. La liturgia cristiana è una liturgia cosmica —abbraccia la creazione intera che attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio (Rm 8, 19).Trento non si ingannò, si appoggiò sul solido fondamento della Tradizione della Chiesa. Rimane un criterio affidabile. Ma noi possiamo e dobbiamo comprenderlo in un modo più profondo, attingendo alle ricchezze della testimonianza biblica e della fede della Chiesa di tutti i tempi. Vi sono autentici segni di speranza di questa comprensione rinnovata e approfondita di Trento possa, in particolare

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tramite la mediazione delle Chiese di Oriente, essere resa accessibile ai cristiani protestanti.Una cosa dovrebbe essere chiara. La liturgia non deve essere il terreno di sperimentazione per ipotesi teologiche. In questi ultimi decenni, congetture di esperti sono entrate troppo rapidamente nella pratica liturgica. spesso anche passando a lato dell’autorità ecclesiastica, tramite il canale di commissioni che seppero divulgare a livello internazionale il loro consenso del momento e nella pratica seppero trasformarlo in legge liturgica. La liturgia trae la sua grandezza da ciò che essa è e non da ciò che noi ne facciamo.La nostra partecipazione è certamente necessaria, ma come un mezzo per inserirci umilmente nello spirito della liturgia a per servire Colui che è il vero soggetto della liturgia: Gesù Cristo. La liturgia non è l’espressione della coscienza di una comunità, che del resto è varia e cangiante. Essa è la Rivelazione accolta nella fede e nella preghiera e di conseguenza la sua norma è la fede della Chiesa, nella quale la Rivelazione è accolta. Le forme che si danno alla liturgia possono variare in relazione ai luoghi e ai tempi, così come i riti sono diversi. Essenziale è il legame con la Chiesa che, a sua volta, è vincolata dalla fede nel Signore. L’obbedienza della fede garantisce l’unità della liturgia, oltre la frontiera dei luoghi e dei tempi e così ci lascia sperimentare l’unità della Chiesa, della Chiesa come patria del cuore.Infine, l’essenza della liturgia è riassunta nella preghiera trasmessa da S. Paolo (1 Cor 16, 22) e dalla Didaché (10, 6) Maranà tha — il Signore viene — vieni o Signore! . Nella liturgia si compie già ora la parusia, ma questo avviene protendendoci verso il Signore che viene e precisamente insegnandoci ad invocare "Vieni Signore Gesù". Ed essa ci fa sempre percepire ancora oggi la sua risposta e ce ne fa provare la verità: sì, vengo presto (Ap 22, 1 7-20).

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giovedì 30 luglio 2009

Introduzione del card. Ratzinger al Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (2005)

CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA

COMPENDIO DEL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA

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INTRODUZIONE DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER AL COMPENDIO DEL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA

1. L'11 ottobre del 1992, Papa Giovanni Paolo II consegnava ai fedeli di tutto il mondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, presentandolo come «testo di riferimento»1 per una catechesi rinnovata alle vive sorgenti della fede.A trent'anni dall'apertura del Concilio Vaticano II (1962-1965), veniva così portato a felice compimento l'auspicio espresso nel 1985 dall'Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, perché venisse composto un catechismo di tutta la dottrina cattolica sia per la fede che per la morale.

Cinque anni dopo, il 15 agosto del 1997, promulgando l'editio typica del Catechismus Catholicae Ecclesiae, il Sommo Pontefice confermava la finalità fondamentale dell'opera: «Porsi come esposizione completa e integra della dottrina cattolica, che consente a tutti di conoscere ciò che la Chiesa stessa professa, celebra, vive, prega nella sua vita quotidiana»2.

2. Per una maggiore valorizzazione del Catechismo e per venire incontro a una richiesta emersa nel Congresso Catechistico Internazionale del 2002, Giovanni Paolo II istituiva nel 2003 una Commissione speciale, presieduta dal Card. Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, con il compito di elaborare un Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, contenente una formulazione più sintetica dei medesimi contenuti di fede.Dopo due anni di lavoro, fu preparato un progetto di compendio, che fu inviato per la consultazione ai Cardinali e ai Presidenti delle Conferenze Episcopali. Il progetto, nel suo complesso, ha avuto una valutazione positiva da parte della maggioranza assoluta di quanti hanno risposto. La Commissione ha, pertanto, proceduto alla revisione del suddetto progetto, e, tenendo conto delle proposte di miglioramento pervenute, ha approntato il testo finale dell'opera.

3. Sono tre le caratteristiche principali del Compendio: la stretta dipendenza dal Catechismo della Chiesa Cattolica; il genere dialogico; l'utilizzo delle immagini nella catechesi.

Anzitutto, il Compendio non è un'opera a sé stante e non intende in alcun modo sostituire il Catechismo della Chiesa Cattolica: piuttosto, rinvia continuamente ad esso sia con la puntuale indicazione dei numeri di riferimento sia col continuo richiamo alla sua struttura, al suo sviluppo e ai suoi contenuti. Il Compendio, inoltre, intende risvegliare un rinnovato interesse e fervore per il Catechismo, che, con la sua sapienza espositiva e con la sua unzione spirituale, resta pur sempre il testo di base della catechesi ecclesiale oggi.

Come il Catechismo, anche il Compendio si articola in quattro parti, in corrispondenza delle leggi fondamentali della vita in Cristo.

La prima parte, intitolata «La professione della fede», contiene un'opportuna sintesi della lex credendi, e cioè della fede professata dalla Chiesa Cattolica, ricavata dal Simbolo Apostolico, illustrato con il Simbolo niceno-costantinopolitano, la cui costante proclamazione nelle assemblee cristiane mantiene viva la memoria delle principali verità della fede.

La seconda parte, intitolata «La celebrazione del mistero cristiano», presenta gli elementi essenziali della lex celebrandi. L'annuncio del Vangelo trova, infatti, la sua risposta privilegiata nella vita sacramentale. In essa i fedeli sperimentano e testimoniano in ogni momento della loro esistenza l'efficacia salvifica del mistero pasquale, per mezzo del quale Cristo ha compiuto l'opera della nostra redenzione.

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La terza parte, intitolata «La vita in Cristo», richiama la lex vivendi e cioè l'impegno che i battezzati hanno di manifestare nei loro comportamenti e nelle loro scelte etiche la fedeltà alla fede professata e celebrata. I fedeli, infatti, sono chiamati dal Signore Gesù a compiere le opere che si addicono alla loro dignità di figli del Padre nella carità dello Spirito Santo.

La quarta parte, intitolata «La preghiera cristiana», offre una sintesi della lex orandi e cioè della vita di preghiera. Sull'esempio di Gesù, il modello perfetto di orante, anche il cristiano è chiamato al dialogo con Dio nella preghiera, una cui espressione privilegiata è il Padre nostro, la preghiera insegnataci da Gesù stesso.

4. Una seconda caratteristica del Compendio è la sua forma dialogica, che riprende un antico genere letterario catechistico, fatto di domande e risposte. Si tratta di riproporre un dialogo ideale tra il maestro e il discepolo, mediante una sequenza incalzante di interrogativi, che coinvolgono il lettore invitandolo a proseguire nella scoperta dei sempre nuovi aspetti della verità della sua fede. Il genere dialogico concorre anche ad abbreviare notevolmente il testo, riducendolo all'essenziale. Ciò potrebbe favorire l'assimilazione e l'eventuale memorizzazione dei contenuti.

5. Una terza caratteristica è data dalla presenza di alcune immagini, che scandiscono l'articolazione del Compendio. Esse provengono dal ricchissimo patrimonio dell'iconografia cristiana. Dalla secolare tradizione conciliare apprendiamo che anche l'immagine è predicazione evangelica. Gli artisti di ogni tempo hanno offerto alla contemplazione e allo stupore dei fedeli i fatti salienti del mistero della salvezza, presentandoli nello splendore del colore e nella perfezione della bellezza. È un indizio questo, di come oggi più che mai, nella civiltà dell'immagine, l'immagine sacra possa esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico.

6. A quarant'anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II e nell'anno dell'Eucaristia, il Compendio può rappresentare un ulteriore sussidio per soddisfare sia la fame di verità dei fedeli di tutte le età e condizioni, sia anche il bisogno di quanti, senza essere fedeli, hanno sete di verità e di giustizia. La sua pubblicazione avverrà nella solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, colonne della Chiesa universale ed evangelizzatori esemplari del Vangelo nel mondo antico. Questi apostoli hanno visto ciò che hanno predicato e hanno testimoniato la verità di Cristo fino al martirio. Imitiamoli nel loro slancio missionario e preghiamo il Signore affinché la Chiesa segua sempre l'insegnamento degli Apostoli, dai quali ha ricevuto il primo gioioso annunzio della fede.

20 marzo 2005, Domenica delle Palme.

Joseph Card. RatzingerPresidente della Commissione speciale

1 GIOVANNI PAOLO II, Cost. ap. Fidei depositum, 11 ottobre 1992.

2 GIOVANNI PAOLO II, Lett. Ap. Laetamur magnoepre, 15 agosto 1997.

© Copyright 2005 - Libreria Editrice Vaticana Pubblicato da Roberta a 20.20 Link a questo post

"Ciò che offende i musulmani e i fedeli di altre religioni non è parlare di Dio o delle nostre radici cristiane, ma piuttosto il disprezzo di Dio..."

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Dialogo su storia, politica e religione

ROMA, lunedì, 9 maggio 2005 (ZENIT.org).

Pubblichiamo di seguito il testo completo del colloquio a due fra l’allora cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e lo storico Ernesto Galli della Loggia su “storia, politica e religione”, tenutosi nell’ottobre 2004 nell'ambito degli incontri organizzati dal Centro di orientamento politico, presieduto da Gaetano Rebecchini.

* * *

Joseph Ratzinger: Nello scorso gennaio ho avuto un dialogo con Habermas, il filosofo considerato nel mondo di lingua tedesca come il laico più puro. Nella sorpresa dei suoi ammiratori aveva detto, più o meno due anni fa, a Francoforte, che conviene per un laico essere attento alla saggezza nascosta nelle tradizioni religiose. Era per lui stesso una scoperta nuova, e in quell'incontro ha espresso il desiderio che si trovino delle persone religiose capaci di decifrare il linguaggio tradizionale e di tradurre in linguaggio laico il tesoro di saggezza che, nella sua convinzione strettamente laica, è nelle tradizioni religiose. Ci troviamo in una situazione del mondo in cui conviene mobilitare tutte le forze morali per riuscire a stabilire una convivenza pacifica. Abbiamo bisogno del dialogo di tutti i responsabili. Vediamo certamente che nel mondo di oggi esistono tante nuove possibilità positive, tante speranze, ma anche tante minacce e tanti pericoli. E su questo sottofondo del nostro dialogo vorrei indicare due elementi. Il primo: il nostro mondo, come vediamo e tocchiamo ogni giorno, è caratterizzato da una progressiva unificazione. Tutte le culture si toccano in permanenza, in Europa sono presenti l'Asia e l'Africa, è presente il mondo musulmano e nelle altre parti del mondo sono presenti le altre culture. Soprattutto c'è una presenza universale della cultura tecnica nata in occidente e determinante in tutte le parti del mondo per la vita di ogni giorno. C'è una presenza unificante, in un certo senso, della cultura tecnica e così della cultura laica. Vediamo come gli edifici siano uguali ovunque nel mondo, la televisione dà uniformazione al

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nostro comportamento, fino al vestiti e ai canti, e questo fattore tuttavia ha due aspetti: da una parte crea unificazione fino alla uniformità, ma nello stesso tempo provoca ribellione, resistenza contro questa imposizione, contro una cultura aliena che appare anche, nonostante tutti i vantaggi che comporta, una imposizione straniera e una minaccia contro la propria identità. Così vediamo che insieme a questa unificazione cresce anche una ribellione contro l'uniformità, un desiderio, una volontà ferma, radicale, anzi violenta di difendere la propria identità contro questa uniformazione, un'esacerbazione contro un'imposizione che appare da una parte utile, dall'altra come schiavitù. C'è da aggiungere che si vede in tutte le parti del mondo il lusso del mondo occidentale, si può immaginare che tutti qui vivano nella ricchezza e nel lusso, e fare esperienza nello stesso momento della propria povertà e della propria espropriazione non solo culturale ma anche materiale. La contraddittorietà di questa cultura che appare dall'occidente e si mostra nel proprio mondo radicalizza il senso di una schiavitù contro la quale ci si deve difendere. Così l'uniformazione crea anche la parzializzazione delle culture del mondo e l'opposizione tra queste culture. Questa cultura è considerata occidentale, l'occidente è identificato con cristianesimo e quindi questa opposizione si dirige non solo contro l'occidente ma diventa anche un'opposizione crescente contro la cristianità e il cristianesimo. Trovare una risposta giusta tra unità e molteplicità mi sembra una cosa importante, nel rispetto delle altre culture, e tra l'insieme della cultura uniformante dell'occidente e la ricchezza delle grandi culture. E' un compito di grande importanza e priorità. L'altro punto della nostra situazione al quale volevo accennare consiste nel fatto che è cresciuto, in un modo inimmaginabile fino a poco tempo fa, il potere dell'uomo. Potere che arriva fino alla possibilità dell'autodistruzione, della distruzione del proprio pianeta, potere che d'altra parte è arrivato alle radici del nostro essere: l'uomo è capace di fare l'uomo, di produrre in laboratorio l'uomo. L'uomo non appare più come un dono della natura, di Dio, ma diventa un prodotto nostro, che si può fabbricare, e quando si può fabbricare si può anche distruggere, sostituire con altre cose. Così, questa capacità di per sé positiva di andare fino alle radici del suo essere, diventa man mano una minaccia più pericolosa dei mezzi di distruzione, perché tocca l'essere umano nel più intimo fondamento. L'uomo “fatto”, l'uomo fabbricato, diventa anche una merce; si possono produrre esseri umani per scopi di ricerca, sempre con apparenti benefici. Tuttavia l'uomo diventa, la stessa creatura umana diventa, un laboratorio con il quale cercare dei progressi in certi settori. E così automaticamente si è introdotto anche il commercio dell'essere umano, l'uomo come merce. Lo vediamo non solo nel mercato degli organi, ma anche nel mercato della prostituzione e della pedofilia, in tutti questi fenomeni di una società veramente ammalata, che non vede più nell'uomo lo splendore divino ma solo un prodotto fatto da noi. Da una parte abbiamo questa crescita, inimmaginabile fino a poco tempo fa, delle nostre capacità, delle nostre possibilità, del nostro potere, che potrebbe essere, ed è in molti sensi, una cosa positiva. Ma è anche, come ho accennato, qualcosa che implica grandi pericoli. Dobbiamo dire che con questa capacità di fare, con questa capacità di produrre, con queste conoscenze della ricerca che arrivano fino alle radici dell'essere non è cresciuta ugualmente la nostra capacità morale. Questa mi sembra la formula più precisa per esprimere il dilemma del nostro tempo che vediamo con il crescere permanente delle nostre capacità, del nostro potere, e una crescita non equivalente delle nostre capacità morali. Questo squilibrio tra potere tecnico, potere di fare, e la capacità di dominare il nostro essere con principi che garantiscono la dignità dell'uomo e il rispetto della creatura, del mondo, questo squilibrio è la grande sfida alla quale rispondere positivamente è dovere di noi tutti. Quindi provoca necessariamente la necessità di un dialogo aperto, franco, tra rappresentanti della fede cristiana e laici di diverse sfumature, perché sappiamo bene che il concetto di laico, come quello di cristiano, implica tante diverse realizzazioni. Sono venuto quindi a questo dialogo con la consapevolezza di una comune responsabilità nel far fronte alla sfida dello squilibrio tra il nostro

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potere e la nostra capacità morale, e il mio scopo nel dialogo con il professor Galli della Loggia è proprio quello di cercare insieme, forse non risposte già pronte, ma almeno piste sulle quali si può andare avanti.

Ernesto Galli della Loggia: Sua Eminenza ha spiegato l'intendimento di questo colloquio. Non so se posso considerarmi il più puro dei laici, come Habermas si considera, forse qualcuno avrebbe qualche obiezione in merito. Comunque anch'io, come Habermas, penso che oggi la considerazione per gli elementi spirituali e religiosi sia diventata un elemento fondamentale per l'orientamento nella situazione storica nella quale ci troviamo, indipendentemente dalla fede che ognuno di noi custodisce nel proprio cuore o manifesta all'esterno. Proprio per questo anche la parola “laico” è una parola che forse copre a stento la molteplicità di significati che oggi più che mai le possono essere attribuiti. Mi sono posto di fronte al tema gigantesco del nostro colloquio con le mie competenze culturali e professionali, per quello che sono, cioè quelle di uno storico. Mi sembra, da questo punto di vista, se è possibile rinvenire un filo rosso che lega molti aspetti della situazione odierna, che si potrebbe cominciare forse con l'ipotesi che la globalizzazione segni un momento di crisi e di rottura nella secolarizzazione, in quel processo cioè che l'Europa vive da duecento anni, e che ha visto la sostituzione dell'antica fede religiosa come elemento di orientamento e di guida per la maggior parte degli abitanti di una società nel suo complesso. Questa appartenenza religiosa è stata via via erosa e sostituita da altre due appartenenze identitarie: l'appartenenza ideologica e le appartenenze nazionali. Esse sono state, mi sembra, i due grandi surrogati della fede religiosa tradizionale che hanno caratterizzato il lungo percorso della secolarizzazione occidentale. Oggi però, se non m'inganno, la globalizzazione mette in crisi precisamente queste due grandi prospettive che da duecento anni accompagnano l'occidente, e cioè appartenenza ideologica e nazionale. Entrambe segnano evidentissimi momenti di difficoltà, se non addirittura di discredito culturale. L'identità nazionale e le identità ideologiche le sentiamo sempre più come cose che non funzionano. La globalizzazione segna un processo di sgretolamento di queste due identità e il mondo politico reagisce con difficoltà alla riproposizione del problema dell'identità. Nelle nostre società si sta creando, proprio per effetto della globalizzazione, un grande vuoto identitario, e a reagire con difficoltà è soprattutto il mondo politico democratico, perché il tema dell'identità è un tema sentito come pericoloso. E' un tema che contrasta, forse semplicemente in apparenza, ma in realtà per alcuni aspetti contrasta realmente, con la tensione universalistica tipica del pensiero democratico. Quella che ormai noi abbiamo assorbito nelle nostre istituzioni, che il nostro stesso pensare sociale ha assorbito. Il fattore identitario sembra contraddire questa spinta universalistica, tipica della democrazia. A me pare che ci siano molti aspetti che possano essere ricondotti a questa difficoltà, a questo vuoto identitario.Ne cito soltanto uno, perché mi sembra naturalmente quello più importante: l'emergere rapido e prepotente, dappertutto in occidente, della tematica dei diritti umani come unica possibile appartenenza identitaria dei popoli dell'occidente. Anche perché il tema dei diritti umani è un tema metanazionale e in qualche modo metaideologico, anche se in realtà assistiamo a una forte ideologizzazione di quel tema. Non è un caso, credo, che l'Unione europea abbia deciso, e abbia scritto nella sua Costituzione, che essa è quel soggetto politico che esiste per l'appunto per sostenere i diritti umani, che la sua vera sostanza ideologica ideologica è nei diritti umani, non nella democrazia: nei diritti umani (questo è scritto, se non vado errato, nei primissimi articoli della Costituzione) e in quella sorta di appendice esterna dei diritti umani che è la promozione della pace, e in generale la promozione di tutte le organizzazioni e dell'idea di organizzazione internazionale. Penso che forse bisogna chiedersi da dove nascono i diritti umani, ma mi pare ci sia stato il rifiuto di farsi questa domanda. Sono un prius oppure nascono su un terreno storico, sono a loro volta le conseguenze di qualcosa? E se così è, come credo sia difficile negare, si può riandare alla fonte dei diritti umani oppure no? L'Unione europea ha risposto di no, che non si può andare a vedere da

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dove vengono i diritti umani. Perché ci sarebbe il problema, storicamente inoppugnabile, che i diritti umani nascono nell'ambito della cultura e della civiltà giudaico-cristiana. Ma questo non si può dire, perché giudaismo e cristianesimo sono religioni e quindi, a maggioranza, è stato deciso che sarebbe inopportuno. Può darsi che si tratti di una decisione saggia, non lo discuto, però è interessante ripercorrere lo svolgimento delle cose. Quindi, in questa logica, i diritti umani esistono a prescindere da ciò da cui sono nati, da qualsiasi loro elemento fondativo. Bastano a se stessi, di per sé sono un'identità. In questo modo sono una pura identità procedurale, svincolati dalla propria base storica, diventano un'identità. Habermas ha parlato molte volte di “patriottismo costituzionale”, per contrapporlo al patriottismo valoriale, fondato cioè sui valori di tipo identitario storico. Ora mi sembra che siamo di fronte a qualcosa che assomiglia al patriottismo costituzionale, a un'identità procedurale. Il problema è che le altre culture, gli altri protagonisti della scena internazionale non credono che i diritti umani siano procedurali. Pensano viceversa che siano, come è difficile negare, il frutto di una cultura determinata, e che questa è la cultura dell'occidente. Quindi non vedono affatto nei diritti umani quella sorta di identità metanazionale di cui tutti potrebbero fruire. Bensì, molto spesso, proprio nelle sedi internazionali, vedono nei diritti umani uno strumento dell'imperialismo ideologico dell'occidente, ne denunciano l'apparenza falsa di ideologia per tutti, di segno universale. Ne denunciano l'aspetto, a loro giudizio, assolutamente ideologico e assolutamente occidentale, e quindi il tentativo imperialistico di sopraffazione che sarebbe dietro la diffusione di questi diritti. Anche da qui la risposta del fondamentalismo cui ha accennato il cardinale Ratzinger.

Ratzinger: La struttura del nostro incontro è suddivisa in tre blocchi tematici. Il primo è dedicato al relativismo occidentale come grande problema della nostra situazione etica, e dall'altra parte se di fronte a questo dilemma possano valere le risposte tradizionali della fede cristiana, cioè il diritto naturale e la visione di libertà sviluppata dal cristianesimo. Io penso, per rispondere a quanto è stato detto dal professore, che il puro positivismo dei diritti umani come tale non può essere in nessun senso un'ultima parola. Forse è sufficiente per una costituzione, non lo posso decidere, ma per il nostro dibattito culturale umano, per il nostro incontro con le altre culture non è sufficiente. Questo positivismo è però solo la facciata di un dilemma più profondo. Non ci sono più motivazioni per i nostri grandi principi etici, per la dignità umana e si arriva finalmente al positivismo perché anche il patriottismo costituzionale di Habermas è un positivismo. La costituzione, così ha detto anche a Monaco durante il nostro dialogo, di per sé produce la moralità. Ma non è vero, non lo fa, ha bisogno di forze precedenti, e dobbiamo ritrovare e risvegliare queste forze. Il relativismo da un parte può apparire come positivo, in quanto invita alla tolleranza, facilita la convivenza, il riconoscimento fra culture, fino al punto di ridimensionare le proprie convinzioni e riconoscere il valore degli altri relativizzando se stessi: è un passo positivo. Ma se si trasforma in un assoluto, il relativismo diventa contraddittorio in se stesso, distrugge l'agire umano e in ultima istanza mi sembra una mutilazione della nostra ragione. Ragionevole viene considerato allora soltanto ciò che è calcolabile e falsificabile o provabile nell'esperimento del grande settore, settore ammirevole, delle scienze. Qui si vede se questo è falso, se questo non lo è, se questo funziona e questo non funziona. Questo settore appare come l'unica espressione della razionalità, tutto il resto è soggettivo. Il grande fisico Max Planck si considerava come un uomo religioso, tuttavia ha detto che dobbiamo ripristinare la religione ma come una cosa del soggetto. Ma se le questioni essenziali della vita umana, le grandi decisioni sulla vita, sulla famiglia, sulla morte, sui comportamenti, sulla condivisione della libertà e il modo etico di condividerla, sono tutti solo nella sfera della soggettività, allora non abbiamo più criteri. Ogni uomo può e deve agire soltanto secondo la sua cosiddetta coscienza. Coscienza, nella modernità, diventa la divinizzazione della soggettività, mentre nella tradizione cristiana è proprio il contrario, è la convinzione che l'uomo è trasparente e può sentire in se stesso la voce della ragione stessa, della ragione fondante del mondo. E quindi il

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soggetto non è chiuso in sé, un'ultima istanza, come una divinità, ma è una realtà aperta, per la ragione stessa che ciò ci permette di comunicare nelle grandi decisioni della nostra vita. Superare quindi un razionalismo unilaterale che in realtà non allarga la ragione, non eleva la ragione ma amputa e riduce, e arrivare a una più larga concezione della ragione, che è creata non soltanto per poter fare ma per poter conoscere le cose essenziali della vita umana, è un imperativo urgente, del resto espresso nell'enciclica “ Fides et ratio ” . Il professore ha notato la questione se il ius naturale difeso dalla Chiesa cattolica può essere una risposta a questo e sappiamo bene che il mondo di oggi è convinto che non sia una risposta. Per la Chiesa era l'idea, la visione di un diritto naturale insito nella stessa creatura umana, il mezzo per poter dialogare con quanti non condividono la fede. Adesso anche il concetto di natura è ridotto al puramente empirico, a quanto si può osservare con la scienza, con la biologia nella dottrina dell'evoluzione. Quindi natura non indica più niente di umano, il diritto naturale si riduce quindi, aveva detto Ulpiano nel secondo secolo dopo Cristo, “ natura naturale est quod natura omnia animalia ducet”. Ma noi non abbiamo bisogno soltanto di ciò che possono imparare tutti gli animali ma proprio dello specifico umano, e questo in una natura così considerata non appare. Ma dobbiamo forse tenere presente in quale senso nell'epoca moderna il concetto di diritto naturale che viene dall'antichità è rinato ed è stato rafforzato da due fonti: la scoperta delle Americhe era un grande appello, una grande domanda anche alla cristianità. Queste genti, questi popoli che non appartengono alla cristianità, che non sono battezzati, che non appartengono alla nostra sfera di diritto, hanno un diritto o no? Sono da rispettare come soggetti di diritto o essendone fuori non hanno diritti e possiamo farne ciò che vogliamo? La posizione che finalmente ha vinto, con tante difficoltà, era quella che sì, hanno un diritto perché sono persone umane e come creature umane hanno il diritto insito nell'essere umano come tale. Questa non è una dottrina occidentale ma era proprio la difesa dei non occidentali contro l'occidente e rimarrà tale. E' fondamentale, nel nostro essere insieme, che l'uomo di per sé, senza nessun sistema precedente di diritto, è portatore di un diritto della persona umana come tale. Il secondo punto è la divisione confessionale dell'Europa. C'era da ritrovare tra gli Stati una forma di pace anche morale, non solo giuridica e qui si è capito che se nella fede siamo divisi, abbiamo tutti la natura umana che indica comportamenti morali fondamentali. Penso che non dovrebbe essere così impossibile, con tutte le riserve contro la metafisica che ben conosciamo, capire che questa non è un'invenzione cattolica ma è proprio la risposta alle sfide dell'essere umano: il riconoscimento che l'uomo, prima di tutte le costituzioni, ha diritti, e il diritto deve conformarsi ai diritti e non i diritti alla costituzione. Dobbiamo anche ritrovare questi elementi in un dialogo interculturale perché, in forme diverse, questa stessa conoscenza è presente anche nelle altre culture, seppure non nello stesso modo, e dal nostro punto di vista è ancora da migliorare, come le nostre conoscenze. Pensiamo all'idea del Tao nel mondo cinese, del Dharma nel mondo indiano: concetti che presuppongono che l'uomo si trovi in un ordine del cosmo, che gli indica come vivere, e che precede le nostre decisioni. Quindi questa interculturalità, per riguadagnare un concetto comprensibile e accettabile, che divenga la piattaforma per una visione etica comune, mi sembra di grande importanza. Arrivo al problema se la tradizione cristiana sia compatibile con il concetto di libertà sviluppato nella modernità, nel laicismo. Io distinguo tra laicismo e laicità, e se è così, per me è molto importante superare un malinteso concetto individualistico della libertà. C'è un concetto di libertà per il quale esiste solo, come portatore della libertà, il soggetto, l'individuo. E' il vecchio sogno di essere come un dio. Ma da due punti di vista è assolutamente sbagliato. E' sbagliato dal punto di vista antropologico, perché l'uomo è un essere finito, è un essere creato per convivere con altri e quindi la sua libertà necessariamente deve essere una libertà condivisa, che insieme garantisca per tutti la libertà e quindi supponga anche la rinuncia alla assolutizzazione dell'io, che è contro la verità e contro la realtà empirica. Reimparare che la libertà è ben definita antropologicamente e sociologicamente soltanto se interpretata come libertà condivisa, è una cosa che implica il diritto comune, l'autorità. C'è il grande

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errore di considerare l'autorità in contrasto con la libertà. In realtà, un'autorità ben definita è la condizione della libertà, non in contrasto con essa. Siamo sulla strada delle migliori tradizioni cristiane, che sempre suppongono che l'uomo è creato per la libertà, una libertà umana, che è libertà condivisa. E' errata la convinzione che la mia volontà sia la mia unica misura e il mio unico criterio, anche da un punto di vista teologico. Questa idea, rendendo l'uomo come un dio, implica che possa fare come vuole, vede un idolo e non Dio, perché il vero Dio è verità e amore, e quindi la sua libertà è una libertà definita dalla verità e dall'amore. Anche la nostra libertà diventa vera se si concilia con la nostra verità umana che è quella di una dipendenza dal creatore, di una intercomunione della libertà, e una dipendenza che è amore non è dipendenza ma è la condizione del nostro essere. Quando si vede nella relazione tra due persone l'amore come dipendenza siamo sulla strada sbagliata, tanto più se consideriamo la nostra relazione con Dio come dipendenza. In realtà siamo esseri relazionali e questo non è un limite ma un'apertura infinita del nostro essere. In questo senso qui si nasconde, per tornare a Habermas, una delle ricchezze della saggezza della fede che devono essere trasportate nel nostro mondo di oggi.

Ernesto Galli della Loggia: Sua Eminenza ha citato l'antico antagonismo tra giusnaturalismo e positivismo, che è al cuore della riflessione del liberalismo ormai da più di tre secoli. Prima di toccare questo punto vorrei sottolineare il perché oggi c'è questo interesse, anche da parte di chi ha l'etichetta di laico, per il fatto religioso, spirituale. Penso che quel vuoto identitario di cui parlavo nel mio precedente intervento spinga a considerare il ruolo che il fatto spirituale ha sempre avuto nel costituire l'identità dei popoli, l'identità delle culture, l'identità della civiltà. Anche un non credente non può non interrogarsi sulla forza storica che il fatto spirituale religioso ha avuto nel costituire le identità, e soprattutto su come il fatto religioso sia un tramite fondamentale per il rapporto con il passato, che è al cuore dell'identità storica di ogni popolo. Certo, oggi il ruolo della fede cristiana si trova messo in discussione anche da questo punto di vista. Credo che la non forte attenzione alle radici cristiane sia dovuta a un importante fatto storico intervenuto negli ultimi decenni: delle fedi cristiane è rimasto in piedi soltanto il cattolicesimo. Non si può fare a meno di osservare come, dal punto di vista teologico e organizzativo, tutti gli altri cristianesimi siano sostanzialmente scomparsi come forze politiche attive sulla scena del mondo, e come fatto organizzato spirituale sia rimasto soltanto il cattolicesimo. Finché il cristianesimo si presentava come un'articolazione di confessioni, alcune delle quali storicamente anche molto diverse dal cattolicesimo dal punto di vista teologico, culturale e politico (anzi a volte anche ostili), quella modularità e quella varietà di posizioni rendevano in qualche modo più difficile isolarlo e contrastarlo. Ma da quando il cattolicesimo ha assunto il ruolo di assoluta preminenza rispetto alle altre confessioni cristiane, è cresciuta la manifestazione di ostilità nei suoi confronti. Arrivo ora alla contrapposizione tra giusnaturalismo e positivismo, sulla quale c'è stata una divisione classica del pensiero liberale. Il liberalismo classico era giusnaturalista. Pensava che i diritti dell'uomo, la libertà umana si fondassero su un elemento naturale che rendeva l'uomo libero. Poi, dalla fine dell'Ottocento in poi, si è affermato che la libertà è soltanto un fatto di diritto positivo: se c'è una legge che stabilisce la libertà, quella è la vera origine della libertà. Personalmente aderisco all'idea del giusnaturalismo, perché è evidente quale problema ci sia sotto: se la libertà poggia sul diritto naturale, poggia su qualcosa di enormemente più solido che non sulla semplice decisione di un parlamento, di un potere che come fa una legge può farne un'altra. Questa divisione rimanda a un'altra divisione, oggi di primaria importanza all'interno del mondo liberale, e che molto ha a che fare con il rapporto tra il pensiero laico e la religione. Nel liberalismo sono sempre esistite due libertà spesso in contrasto tra loro: la libertà dei liberali e la libertà dei libertari: due cose molto legate ma con una forte differenza. Per il liberalismo classico la libertà era soprattutto la libertà dall'arbitrio. In inglese c'è ancora un'espressione che designa bene questo tipo di liberalismo, “rule of law”, il dominio della legge. Il liberalismo è innanzitutto la protezione

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dall'arbitrio che solo la legge, strumento che si applica a tutti, può garantire, e poi la limitazione dello Stato: questi sono i due fondamenti del liberalismo classico. La libertà dei libertari è invece quella definita nel modo migliore da Jeremy Bentham: “Ogni legge è un male perché ogni legge è una violazione della libertà”. Bentham vedeva in ogni legge un attentato a quello che Sua Eminenza chiamava il soggettivismo. Qui siamo su un terreno scivoloso, perché non riesco a dare pienezza di contenuti a che cosa sia la libertà condivisa, e in quale modo essa si differenzi dalla concreta libertà dei soggetti. Il problema è che quando i liberali pensavano la libertà degli individui, pensavano sostanzialmente all'individuo storico, all'umanità europea che avevano davanti, all'antropologia europea che era di tipo cristiano, e mai avrebbero pensato che il progresso della scienza avrebbe in un secolo o due dilatato enormemente le possibilità della soggettività. Noi applichiamo le stesse parole, “soggetto, individuo, libertà”, a cose che nel tempo sono mutate in maniera assoluta. Questo ampliamento della soggettività è giunto sino al punto che il singolo individuo è padrone, o è vicino a esserlo, di decidere le modalità della generazione umana, cioè di quanto sembrava consegnato all'eternità della natura. Il fatto che anche questo sia entrato nella disponibilità del soggetto ripropone il discorso della differenza della libertà dall'arbitrio, e della protezione dall'arbitrio, che può essere del potere e del sovrano. I vecchi liberali conoscevano solo quello, ma mi domando se anche la volontà soggettiva non possa presentarsi con forti caratteri arbitrari quando può disporre di decisioni come quelle che il progresso scientifico consente. Io penso che sia sbagliato ostentare certezze di fronte a questo tipo di problemi. Chi non ha il dono della fede non può ostentare certezze, deve mantenere un atteggiamento altamente problematico, cosa che spesso non accade. Credo soprattutto che non ci si possa limitare a dire: “questo campo è complesso, ognuno ha la sua verità, vanno bene tutte le verità purché non facciano male a nessuno, accettiamo il principio che non sia possibile definire nessuna verità”. Credo che questo sia un approccio assolutamente sbagliato. Su aspetti come i confini tra la libertà e l'arbitrio su certi argomenti, il discorso pubblico deve essere animato da una tensione di verità. Il problema del vero e del falso si pone quando avvertiamo razionalmente che c'è un problema di giusto e di ingiusto, di bene e di male. Affidare la verità alla decisione individuale rischia di diventare un peccato contro il bene. Una società che non osserva su questi argomenti la tensione alla verità non può neanche essere una società giusta. L'ideale di una società giusta poggia sull'idea che la verità stia nella giustizia e la menzogna stia dalla parte dell'ingiustizia. Naturalmente discutere su ciò che è vero e ciò che è falso non porta alla conclusione che si debba adottare per legge una delle molte opinioni espresse durante la discussione stessa. Ma c'è un elemento di progresso morale nella discussione adeguata all'oggetto delle cose, che è altrettanto importante, per una società, dell'affermazione della verità. Mi colpisce che molte persone che sostengono l'impossibilità di arrivare a una verità e quindi l'inutilità delle discussioni e quindi l'inevitabilità di delegare tutto all'arbitrio individuale perché tutto dipende dai valori individuali, siano poi le stesse persone che rivendicano la positività dell'utopia, cioè di un ideale astratto di giustizia, che dicono “guai alle società che non hanno utopia”. Ma che cos'è l'utopia, se non il porre al centro della discussione pubblica gli ideali di giustizia? Io penso che sia vero che l'utopia abbia una funzione positiva, a meno che non si trasformi in sogno concreto, penso che abbia un grande valore di promozione, di chiarificazione della realtà delle cose. Ciò che colpisce un laico come me è il fatto che molto spesso, in Italia, quando si parla di questioni come la fecondazione assistita, la posizione prevalente da parte laica è di dire che il solo interrogarsi sul bene e sul male, sul giusto e sull'ingiusto, sul vero e sul falso a proposito di questi temi sia ozioso. Questo non significa che, per esempio, io personalmente aderisca alla posizione della Chiesa. A me pare che nella posizione della Chiesa ci sia stata una trasposizione singolare, un'identificazione tra il concetto di vita e il concetto di persona e che questa coincidenza tra due cose, che a mio giudizio sono molto diverse, sia stata segnata dall'enciclica “Evangelium vitae”. Essa è stata, così almeno io l'ho letta, una specie di affermazione panvitalistica all'interno dell'idea

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cattolica. Perché sicuramente l'embrione è vita, chi potrebbe negarlo?, ma che sia persona mi pare difficile. Ora, attribuire alla vita gli stessi diritti che sono attribuiti e che tradizionalmente, nella teologia cattolica, erano attribuiti alla persona, farne la stessa cosa, a me pare inaccettabile. Non mi convince, perché urta contro un elemento di carattere razionale: l'embrione e la persona sono due cose diverse, due cose diverse devono avere diritti, statuti diversi. Sono sicuro che il Cardinale Ratzinger saprà in poche parole dare una risposta chiarificatrice che smantellerà la mia posizione abbondantemente eretica.

Joseph Ratzinger: Vorrei soltanto dire che anche io penso che l'uso della parola vita, che diverse volte sostituisce l'uso della parola persona, sia sbagliato e dobbiamo realmente distinguere tra vita (anche una pianta è vita, anche un verme è vita) e persona. La questione è se l'embrione sia una persona o no. Sarebbe una lunga discussione. Posso soltanto dire che nel documento della nostra congregazione abbiamo trattato la questione se si possa chiamare o no persona l'individuo. Ma è vero che la terminologia adesso molto diffusa è vaga e non chiarisce ma oscura il vero problema, perché vita e persona sono realtà da distinguere. Ma seguiamo la nostra pista, e le cose notate dal professor Galli della Loggia. Temi quali la presenza delle culture religiose mondiali, se il monoteismo possa essere un minimo comun denominatore per l'unificazione e la coesione pacifica dei popoli, come spiegare l'ingresso del fondamentalismo religioso, se la convivenza tra cristiani e non cristiani sia realmente possibile, come l'elemento religioso entra in gioco in tale mutamento della nostra situazione, e con quali varie conseguenze. Io rispondo che naturalmente il monoteismo, soprattutto un monoteismo costruito artificialmente fuori dalla realtà dei monoteismi concreti, non può essere comun denominatore. Non solo perché un monoteismo astratto dalle realtà vissute non ha vita, quindi non ha forza, ma anche perché il monoteismo copre solo una parte del mondo e delle culture. Abbiamo culture non monoteiste, soprattutto il buddhismo, e abbiamo il fatto che in diverse parti del mondo il laicismo radicale non ha distrutto la religione ma ha terribilmente debilitato la forza delle religioni. Pensiamo alla Cina, dove il marxismo, così come un tipo di presunto razionalismo ha in ampia misura distrutto la tradizione religiosa. Pensiamo al Giappone, dove il laicismo occidentale ha marginalizzato in gran parte le tradizioni religiose. Quindi abbiamo un panorama culturale e religioso molto diversificato. Abbiamo le religioni monoteiste molto divise tra di loro, con concetti diversi di monoteismo, abbiamo religioni non teiste, abbiamo religioni cosmiche con idee della divinità diverse e abbiamo la presenza del laicismo, una forza presente in tutte le civilizzazioni. Così, invece della questione se il monoteismo possa essere un minimo comun denominatore, chiediamoci se il laicismo potrebbe essere la forza che crea la convivenza, essendo esso realmente presente in tutte le culture, in tutte le parti del mondo. Mi sembra che si dovrebbe rispondere di no. Non solo perché il laicismo, nonostante tutta la sua presenza, va considerato come un'imposizione non corrispondente alla propria cultura, ma anche perché il laicismo è un'ideologia, lo dico non in un senso negativo, un'ideologia parziale in un duplice senso: è parziale proprio perché vuol rispondere alla sfida morale. Si limita alla superficie dell'essere umano e lascia aperte tutte le questioni realmente decisive per la vita umana, frammenta la persona umana e non dà le risposte che possono dare una coesione comune. Al contrario, debilita decisamente queste forze, e in diverse parti del mondo si vede come abbia paralizzato le capacità di convivenza. Pensiamo alle eredità lasciate dal marxismo in Russia, ma dobbiamo pensare anche alla realtà africana. Qui l'occidente ha importato la sua visione del mondo, ha armato l'Africa in permanenza e ha distrutto i mores maiorum, cioè le regole morali che erano il fondamento di quelle tribù. Naturalmente, prima della colonizzazione l'Africa non era un paradiso. Era, parlando da cristiano, marcata dal peccato originale, da violenza, problemi, aspetti negativi. Ma c'era una forza fondante, la vita comune, la condivisione della libertà, la definizione dell'essere umano nelle diverse tribù. Questa forza morale con l'illuminismo europeo è stata distrutta. Ora vediamo gli effetti della duplice importazione di cui parlavo prima. Vediamo la violenza

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crescente, che comincia a distruggere veramente i popoli, la distruzione morale, con l'epidemia dell'Aids che distrugge intere popolazioni, e la responsabilità di introdurre un razionalismo che non risponde a nessuna delle questioni fondamentali della nostra vita. Questa duplice parzialità è importante anche nel senso che la laicità, rappresentata da Habermas e da tanti altri, non è come tale considerata realmente la risposta della nostra ragione. Habermas raccontava che a Teheran un professore iraniano gli aveva suggerito di riflettere sul fatto se anche la sua filosofia, il razionalismo, non fosse solo un'idea parziale e non espressione universale della ragione. Non è vero che la razionalità stessa sia la risposta della ragione. E' un'espressione cresciuta su un humus culturale determinato, un'espressione parziale della ragione umana e non semplicemente la luce della nostra ragione. Dobbiamo, insieme con gli altri, imparare una totalità della ragione che ci aiuti a convivere. In questo senso il fondamentalismo religioso è anche una reazione contro la violenza del razionalismo. Personalmente non amo la parola fondamentalismo, perché copre troppe cose totalmente diverse. Ma usiamola, in mancanza di un'altra parola, per definire l'affermazione cieca di se stessi, che diventa poi violenta ed è certo una grande minaccia per noi tutti. Ma dobbiamo vedere che essa reagisce a un pretesto di universalità che in realtà non è verificabile e difende un'altra visione della realtà della vita. Si difende soprattutto contro il cinismo e l'arroganza che calpesta il rispetto del sacro e calpesta il rispetto delle grandi tradizioni morali cresciute nei secoli, che sono sacre alle nazioni, e che, benché discutibili, garantiscono tuttavia un minimo di convivenza e dovrebbero essere nel dialogo per la convivenza aperte, per aprirsi a una comunione e a una comune definizione della vita. Il monoteismo come tale non è il comune denominatore, ma possiamo noi creare nel laboratorio della nostra ragione una religione in grado di scoprire tutto? Tantomeno, a maggior ragione, il laicismo può essere una religione universale: è parziale e non risponde alle sfide fondamentali dell'uomo. Mi sembra che le grandi culture religiose debbano trovarsi in un dialogo interculturale e interreligioso per non perdere i tesori di verità nel relativismo che li distrugge, i grandi tesori della saggezza che sono comuni. Soprattutto mi sembra importante che ci siano persone e comunità che vivono in purezza e con convinzione i grandi tesori della fede. Per esempio Madre Teresa è divenuta una figura interculturale. Il Signore ha detto una volta : “Chi crede in me diventa una fontana dalla quale si diffonde acqua viva nei deserti del mondo”. Le persone che vivono in modo puro il nucleo fondamentale della religione cristiana, o riescono forse a vivere il modo puro il loro nucleo, sono fontane di vita che aiutano anche gli altri a vivere e ad andare al centro non astrattamente ma con l'esperienza di verità che si verifica nella vita.

Galli della Loggia: Non mi azzardo a entrare nella disquisizione sul confronto tra vari monoteismi. Ma mi colpisce un aspetto che riguarda il rapporto politico tra alcuni monoteismi e altri. Nel mondo attuale, soprattutto in Asia e in Africa, ci sono state e ci sono forti persecuzioni anticristiane. C'è chi ha fatto il calcolo dei martiri cristiani del Novecento e lo ha indicato come il secolo che ha visto il maggior numero di cristiani perseguitati e uccisi, non soltanto per i grandi cataclismi totalitari che lo hanno caratterizzato, ma anche per quanto è accaduto negli ultimi decenni, quando apparentemente le cose erano più tranquille. Piuttosto che la condanna di queste persecuzioni, si sente risuonare l'invito a non drammatizzare, a non usare mai l'espressione “guerra di religione” o, men che mai, “scontro di civiltà”, che immediatamente consegnano, se usate, al politicamente scorretto. Non so se quelle espressioni siano adeguate a descrivere quanto succede nel mondo, ma mi colpisce la diffusa paura delle parole. Mi fa paura la paura delle parole. Perché è la paura di una cultura politica, e pubblica, che non riesce neanche a pensare che il mondo possa avviarsi verso orizzonti sgradevoli. Invece gli orizzonti sgradevoli esistono, le cose possono andare male, c'insegna la storia. Il male esiste, i cristiani lo sanno, ed è sbagliato non chiamarlo con il suo nome. E' lo stesso meccanismo che fa trasformare l'antisemitismo in antisionismo. Non si può dire che gli studenti di estrema sinistra di Pisa che hanno impedito al rappresentante dell'ambasciata di Israele

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di parlare sono antisemiti, bisogna dire che in fondo erano “solo” antisionisti. Ho parlato all'inizio del problema dell'identità. Credo che su questo ci sia un problema anche da parte della Chiesa, che è stata molto decisa nel condurre la battaglia, poi persa, sul riconoscimento delle radici cristiane dell'Europa, dimostrando di voler rivendicare l'identità culturale cristiana del continente. A questo sacrosanto impegno identitario si accompagna però, a mio giudizio, sulla scena del mondo, dove la Chiesa si scontra con altre fedi e altri monoteismi, una forte tendenza a dissociarsi dall'identità europea e occidentale. La Chiesa è attentissima a mostrare di non voler avere nulla a che fare con quell'identità. Lo capisco, politicamente teme di essere presa per la religione dell'occidente ed è una preoccupazione politica che ovviamente comprendo. Ma mi appare contraddittorio rivendicare da un lato un'identità connessa con l'Europa, dall'altro invece ostentare la massima distanza. C'è il problema dell'autoriconoscimento della propria storia, un problema di conoscenza e autoidentificazione. Tra i cattolici con cui parlo c'è una, per me sconvolgente, non conoscenza della storia della propria identità religiosa. Ed è vero che l'occidente imperialistico e capitalistico ha distrutto i mores maiorum in Africa, ma la distruzione culturale operata dal cristianesimo non è stata seconda a nessuno. Intendiamoci. Sono un laico che non cerca di imputare peccati storici a nessuno, tantomeno alla Chiesa, ma essa è stata uno dei maggiori vettori di globalizzazione e di modifica delle culture. Se oggi il Sud America è un continente integralmente cristiano, è perché i mores maiorum degli incas o degli aztechi sono stati fatti a pezzi. Credo che la Chiesa possa trarre vantaggio da un clima di fine della scomunica secolarizzatrice e di attenzione nuova al fatto religioso, da parte di tanti ambienti laici, nella genuina convinzione che la Chiesa e il cristianesimo facciano parte in maniera vitale della nostra cultura. E che questa cultura è complessivamente confrontata da una sfida mondiale, o si avvia a esserlo. E' necessario, da parte della Chiesa, senza cercare sacre alleanze, capire legami e scambi e ascoltare osservazioni e critiche che possano aiutarla a fare il suo mestiere, che comunque ha fatto assai bene nel corso degli ultimi venti secoli.

Ratzinger: Siamo impegnati nella comune ricerca per capire l'enigma uomo e per aiutarlo a vivere in questo tempo, rispondendo alle nostre responsabilità. La Chiesa sostanzialmente non può riconoscersi nella categoria “occidente”. Sarebbe sbagliato storicamente, empiricamente, ideologicamente. Storicamente, sappiamo che il cristianesimo è nato nell'incrocio di Europa, Asia e Africa, e questo indica anche qualcosa della sua essenza interna. E' nato in un incontro delle culture come capacità, possibilità e sfida di una sintesi delle culture e come possibilità di trascendere le culture in qualcosa che è l'essere umano come tale e che precede e trascende le culture. Ai suoi inizi, l'espansione del cristianesimo andava ugualmente a oriente, verso Cina, India, Persia, Arabia, e a occidente. Purtroppo, dopo la nascita dell'islam gran parte di questa cristianità orientale è scomparsa. Ma non del tutto, perché esistono elementi di queste cristianità storiche che testimoniano la sua universalità, e anche la cristianità europea si divide in occidentale e orientale. Quindi l'estensione della Chiesa riferita alla nostra cultura è molto grande e si dettaglia in diverse culture. Empiricamente, non solo abbiamo questa grande eredità storica, ma il cristianesimo è presente, con minoranze di forza spirituale riconosciuta, in tutti i continenti. Sempre più l'asse della cristianità si sposta verso i nuovi continenti, verso Africa, Asia, America latina. L'Europa è ancora una fonte essenziale per lo sviluppo del cristianesimo, tuttavia comincia a emarginarsi proprio con la discussione sulla sua identità. Teologicamente, perché la Chiesa, per sua essenza, dovrebbe trascendere le culture, essere il fatto che non è legato a una cultura determinata ma aiuta l'esodo dal carcere di una cultura e la comunicazione delle culture. E' quanto gli Atti degli Apostoli dicono sul giorno di Pentecoste, sulla presenza di tutte le culture conosciute e di tutte le lingue. E' come la carta costituzionale che indica come dovrebbe essere

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l'essenza di una Chiesa che parla in tutte le lingue, abbraccia, unisce le culture e allo stesso tempo ne rispetta le diverse ricchezze. Non è un comportamento politico dettato dal bisogno di non perdere la simpatia per la Chiesa in Africa, Asia o America latina, ma è un comportamento teologico. La Chiesa non può riconoscersi semplicemente come occidente, ma deve sempre di nuovo trascendere la sua definizione occidentale e estendersi realmente verso l'universalità, soprattutto trascendendo se stessa verso il divino, che è l'unica realtà che può creare una comunicazione delle culture. E' vero, a volte la Chiesa si comporta in modo politico, ma è anche giusto che avvenga. Rispetto alla distruzione delle culture precedenti: c'è una differenza sostanziale tra l'espropriazione fatta dall'invasione del laicismo in Africa, dove i mores maiorum sono stati sostituiti con una razionalità che non conosce mores e non conosce risposte in questo campo e quindi li distrugge come irrazionali ma non offre nuove risposte. La visione cristiana ha almeno cercato di non distruggere semplicemente ma di assimilare l'essenza delle religioni che, secondo la nostra convinzione, era in attesa di una risposta. Possiamo osservare che le culture africane erano e sono in attesa di una risposta nuova, così come lo erano le culture mediterranee del tempo di Cristo. Il politeismo greco-romano non poteva sopravvivere, era superato, era divenuto irrazionale, pura tradizione senza cuore e senza ragione, e aspettava una risposta che trasformasse profondamente. La stessa cosa è avvenuta per i popoli africani, nell'Ottocento e Novecento. Si attendeva una nuova risposta che integrasse le ricchezze al loro interno, trasformandole in una nuova apertura che rispondesse alla nuova situazione storica. La predicazione cristiana ha trovato in tutte quelle religioni una mistica di morte e resurrezione, prefigurazione di quanto insegna la fede cristiana, idee di iniziazione, di sacramentalità. Anche in America latina: pensiamo all'immagine della Madonna di Guadalupe, che è realmente una sintesi interculturale incredibile, che nessuno poteva escogitare. Così sono state salvate sostanze essenziali, e questi popoli non avrebbero accettato con tanto entusiasmo il messaggio cristiano se non avessero trovato nel Dio sofferente una risposta a quanto si aspettavano, e nella Madonna una risposta al desiderio di una madre. Ci sono state distruzioni, certo, ma oso dire, da cattolico, che le due distruzioni sono state diverse. Ultimo punto, che cosa è l'Europa. E' evidente l'elemento geografico, ma la geografia sola non crea un continente. Nell'epoca greco-romana i limiti erano molto diversi, e solo per la religione e la cultura comune si è formato questo continente, che non si definisce come tale senza quel fondamento che non è solo una radice storica del passato ma è fonte e condizione di vita, come la radice per un albero. Per ridefinire che cosa sia l'Europa non possiamo fermarci al positivismo, a ciò che siamo, alle leggi e ai diritti definiti. Se vogliamo definire l'Europa in modo che possa vivere e contribuire al mondo di oggi e non vivere “contro” gli altri, ma per se stessa e gli altri essere una fonte di umanizzazione nel mondo, abbiamo bisogno di ridefinire il nostro continente. Ci sono due cose che a mio avviso dobbiamo difendere come la grande eredità europea che vive e deve vivere. Il primo è la razionalità, che è un dono dell'Europa al mondo ed è anche voluta dal cristianesimo. I Padri della Chiesa hanno visto la preistoria della Chiesa non nelle religioni ma nella filosofia. Loro erano convinti che “semina verbi”, “logos spermatikos” non erano le religioni ma il movimento della ragione cominciato con Socrate, che non si accontentava della tradizione ma sorpassava le tradizioni per trovare ciò che è vero, e trovarlo con la forza della ragione. Così è stata aperta la porta al cristianesimo, con la critica delle tradizioni, l'esperienza della necessità di uscire dal carcere di una tradizione non più valida, con questo cammino avventuroso, questo cercare di più, cercare con tutte le forze della ragione umana la realtà, da dove veniamo e dove dobbiamo andare. Questa critica delle tradizioni, che ha aperto la questione se il cristianesimo fosse la risposta, era necessaria per aprire le porte al movimento cristiano. La razionalità è voluta dalla fede. San Pietro dice nella sua prima lettera: “Siate sempre pronti a dare apologia per il logos della vostra speranza”. Cioè, la vostra speranza, che è identica alla fede, porta con sé un logos e questo logos può divenire una apologia, una risposta che può essere comunicata agli altri. Non vogliamo creare un impero di potere, ma abbiamo una cosa comunicabile alla quale va incontro un'attesa della nostra ragione, è comunicabile perché appartiene alla nostra comune natura umana e

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c'è un dovere di comunicare da parte di chi ha trovato un tesoro di verità e amore. La razionalità era quindi postulato e condizione del cristianesimo, e rimane un'eredità europea per confrontarci, in modo pacifico e positivo, sia con l'islam sia con le grandi religioni asiatiche. Secondo punto: questa razionalità diventa pericolosa e distruttiva per la creatura umana se diventa positivista e riduce i grandi valori del nostro essere alla soggettività, e diventa così un'amputazione della creatura umana. Non vogliamo imporre a nessuno una fede che si può accettare solo liberamente, ma come forza vivificatrice della razionalità dell'Europa essa appartiene alla nostra identità. E' stato detto che non dobbiamo parlare di Dio nella Costituzione europea perché non dobbiamo offendere i musulmani e i fedeli di altre religioni. E' vero il contrario. Ciò che offende i musulmani e i fedeli di altre religioni non è parlare di Dio o delle nostre radici cristiane, ma piuttosto il disprezzo di Dio e del sacro, che ci separa dalle altre culture e non crea una possibilità d'incontro ma esprime l'arroganza di una ragione diminuita, ridotta, che provoca reazioni fondamentaliste. L'Europa, sottolineo, deve difendere la razionalità e su questo punto anche noi credenti dobbiamo essere grati al contributo dei laici, dell'illuminismo, che deve rimanere una spina nella nostra carne. Ma anche i laici devono accettare la spina nella loro carne, cioè la forza fondante della religione cristiana per l'Europa, non solo ieri ma anche oggi e domani.

[L’articolo è tratto da “Il Foglio”, 27 e 28-10-2004]

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domenica 26 luglio 2009

La rivoluzione delle Beatitudini. Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI

"GESU' DI NAZARET" DI JOSEPH RATZINGER-BENEDETTO XVI

La rivoluzione delle Beatitudini

Nel primo libro del Papa lo scandalo dei «comandamenti nuovi» proposti da Gesù

Di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI

Da lunedì sarà in libreria «Gesù di Nazaret», la prima opera «firmata» Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. In Italia viene pubblicato da Rizzoli e dalla Libreria Editrice Vaticana. Sono già 22 le edizioni in altri Paesi. Il volume è stato presentato ieri in Vaticano dal cardinale Christoph Schoenborn, arcivescovo di Vienna, dal pastore protestante Daniele Garrone, decano della Facoltà valdese di Teologia di Roma, e da Massimo Cacciari, ordinario di Estetica all’università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Non è un atto del Magistero, spiega l’autore nella premessa, «ma unicamente l’espressione della mia ricerca personale del volto di Cristo». Ai lettori chiede «quell’anticipo di simpatia senza il quale non c’è alcuna comprensione». In questa pagina pubblichiamo alcuni estratti del capitolo dedicato alle Beatitudini.Le Beatitudini vengono non di rado presentate come l'antitesi neotestamentaria al Decalogo, come, per così dire, l'etica più elevata dei cristiani nei confronti dei comandamenti dell'Antico Testamento. Questa interpretazione fraintende completamente il senso delle parole di Gesù. Gesù ha sempre dato per scontata la validità del Decalogo (cfr., per es., Mc 10,19; Lc 16,17); il Discorso della montagna

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riprende i comandamenti della Seconda tavola e li approfondisce, non li abolisce (cfr. Mt 5,21-48); ciò si opporrebbe diametralmente al principio fondamentale premesso a questo discorso sul Decalogo: "Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà dalla Legge neppure un iota o un segno, senza che tutto sia compiuto " (Mt 5,17s). Intanto è sufficiente notare che Gesù non pensa di abolire il Decalogo, al contrario: lo rafforza.Ma allora che cosa sono le Beatitudini? Anzitutto, esse si inseriscono in una lunga tradizione di messaggi veterotestamentari, quali troviamo, per esempio, nel Salmo 1 e nel testo parallelo di Geremia 17,7s: "Benedetto l'uomo che confida nel Signore...". Sono parole di promessa, che nello stesso tempo contribuiscono al discernimento degli spiriti e diventano così parole guida.La cornice data da Luca al Discorso della montagna chiarisce la destinazione particolare delle Beatitudini di Gesù: "Alzati gli occhi verso i suoi discepoli...". Le singole affermazioni delle Beatitudini nascono dallo sguardo verso i discepoli; descrivono per così dire lo stato effettivo dei discepoli di Gesù: sono poveri, affamati, piangenti, odiati e perseguitati (cfr. Lc 6,20ss).Sono da intendere come qualificazioni pratiche, ma anche teologiche, dei discepoli - di coloro che hanno seguito Gesù e sono diventati la sua famiglia.Tuttavia la situazione empirica di minaccia incombente in cui Gesù vede i suoi si fa promessa, quando lo sguardo su di essa si illumina a partire dal Padre. Riferite alla comunità dei discepoli di Gesù, le Beatitudini rappresentano dei paradossi: i criteri mondani vengono capovolti non appena la realtà è guardata nella giusta prospettiva, ovvero dal punto di vista della scala dei valori di Dio, che è diversa dalla scala dei valori del mondo. Proprio coloro che secondo criteri mondani vengono considerati poveri e perduti sono i veri fortunati, i benedetti, e possono rallegrarsi e giubilare nonostante tutte le loro sofferenze. Le Beatitudini sono promesse nelle quali risplende la nuova immagine del mondo e dell'uomo che Gesù inaugura, il "rovesciamento dei valori". Sono promesse escatologiche; questa espressione tuttavia non deve essere intesa nel senso che la gioia che annunciano sia spostata in un futuro infinitamente lontano o esclusivamente nell'aldilà.Se l'uomo comincia a guardare e a vivere a partire da Dio, se cammina in compagnia di Gesù, allora vive secondo nuovi criteri e allora un po' di éschaton, di ciò che deve venire, è già presente adesso. A partire da Gesù entra gioia nella tribolazione. (…) Ma ora si pone la que stione fondamentale: è giusta la direzione che ci indica il Signore nelle Beatitudini e nei moniti a esse contrapposti? È davvero male essere ricchi, sazi, ridere, essere apprezzati? Per la sua rabbiosa critica del cristianesimo Friedrich Nietzsche ha fatto leva proprio su questo punto. Non sarebbe la dottrina cristiana che si dovrebbe criticare: sarebbe la morale del cristianesimo che bisognerebbe attaccare come "crimine capitale contro la vita". E con "morale del cristianesimo" egli intende esattamente la direzione che ci indica il Discorso della montagna."Quale è stato fino ad oggi sulla terra il più grande peccato? Non forse la parola di colui che disse: "Guai a coloro che ridono!"?". E contro le promesse di Cristo dice: noi non vogliamo assolutamente il regno dei cieli. "Siamo diventati uomini - vogliamo il regno della terra".La visione del Discorso della montagna appare come una religione del risentimento, come l'invidia dei codardi e degli incapaci, che non sono all'altezza della vita e allora vogliono vendicarsi esaltando il loro fallimento e oltraggiando i forti, coloro che hanno successo, che sono fortunati. All'ampia prospettiva di Gesù viene contrapposta un'angusta concentrazione sulle realtà di quaggiù: la volontà di sfruttare adesso il mondo e tutte le offerte della vita, di cercare il cielo quaggiù e in tutto ciò non farsi inibire da nessun tipo di scrupolo.Molto di tutto questo è passato nella coscienza moderna e determina in gran parte il modo in cui oggi si percepisce la vita. Così il Discorso della montagna pone la questione dell'opzione fondamentale del cristianesimo e, da figli del nostro tempo, avvertiamo la resistenza interiore contro quest'opzione - anche se non siamo insensibili di fronte all'elogio dei miti, dei misericordiosi, degli operatori di pace, degli uomini sinceri.Dopo le esperienze dei regimi totalitari, dopo il modo brutale con cui essi hanno calpestato gli uomini, schernito, asservito, picchiato i deboli, comprendiamo p ure di nuovo coloro che hanno

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fame e sete di giustizia; riscopriamo l'anima degli afflitti e il loro diritto a essere consolati. Di fronte all'abuso del potere economico, di fronte alla crudeltà del capitalismo che degrada l'uomo a merce, abbiamo cominciato a vedere più chiaramente i pericoli della ricchezza e comprendiamo in modo nuovo che cosa Gesù intendeva nel metterci in guardia dalla ricchezza, dal dio Mammona che distrugge l'uomo prendendo alla gola con la sua mano spietata gran parte del mondo. Sì, le Beatitudini si contrappongono al nostro gusto spontaneo per la vita, alla nostra fame e sete di vita. Esigono "conversione" - un'inversione di marcia interiore rispetto alla direzione che prenderemmo spontaneamente. Ma questa conversione fa venire alla luce ciò che è puro, ciò che è più elevato, la nostra esistenza si dispone nel modo giusto.Il mondo greco, la cui gioia di vivere si rivela in modo meraviglioso nell'epopea omerica, era tuttavia profondamente consapevole del fatto che il vero peccato dell'uomo, la sua minaccia più intima è la hy´ bris: l'autosufficienza presuntuosa, in cui l'uomo eleva se stesso a divinità, vuole essere lui stesso il suo dio, per essere completamente padrone della propria vita e sfruttare fino in fondo tutto ciò che essa ha da offrire.Questa consapevolezza che la vera minaccia per l'uomo consiste nell'autosufficienza ostentata, a prima vista così convincente, viene sviluppata nel Discorso della montagna in tutta la sua profondità a partire dalla figura di Cristo.Abbiamo visto che il Discorso della montagna è una cristologia nascosta. Dietro di essa c'è la figura di Cristo, di quell'uomo che è Dio, ma che proprio per questo discende, si spoglia, fino alla morte sulla croce. I santi, da Paolo a Francesco d'Assisi fino a madre Teresa, hanno vissuto questa opzione mostrandoci così la giusta immagine dell'uomo e della sua felicità. In una parola: la vera "morale" del cristianesimo è l'amore. E questo, ovviamente, si oppone all 'egoismo - è un esodo da se stessi, ma è proprio in questo modo che l'uomo trova se stesso. Nei confronti dell'allettante splendore dell'uomo di Nietzsche, questa via, a prima vista, sembra misera, addirittura improponibile. Ma è il vero "sentiero di alta montagna" della vita; solo sulla via dell'amore, i cui percorsi sono descritti nel Discorso della montagna, si dischiude la ricchezza della vita, la grandezza della vocazione dell'uomo.

© Copyright Avvenire, 14 aprile 2007

La parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31). Da "Gesù di Nazaret" di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI

"GESU' DI NAZARET" DI JOSEPH RATZINGER-BENEDETTO XVI

La parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31)

In questa storia ci troviamo un’altra volta di fronte a due figure contrastanti: il ricco che gozzoviglia nella sua agiatezza e il povero che non può nemmeno afferrare i bocconi che i ricchi crapuloni buttano dal tavolo, i pezzetti di pane con cui i commensali, secondo il costume del tempo, si pulivano le mani e che poi buttavano via. I Padri, in parte, hanno inquadrato anche questa parabola nello schema dei due fratelli applicandola al rapporto tra Israele (il ricco) e la Chiesa (il povero Lazzaro), perdendo però in questo modo la tipologia completamente diversa che qui è in gioco.

Lo si vede già nella differente conclusione. Mentre i testi sui due fratelli restano aperti, terminando come domanda e invito, qui viene descritta la fine irrevocabile di entrambi i protagonisti.

Come sfondo che schiude a noi la comprensione di questo racconto dobbiamo considerare la serie

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di Salmi nei quali si leva a Dio il lamento del povero che vive nella fede in Dio e nell’obbedienza ai suoi comandamenti ma conosce solo sventura, mentre i cinici che disprezzano Dio passano da un successo all’altro e godono tutta la felicità della terra. Lazzaro fa parte di quei poveri, la cui voce udiamo per esempio nel Salmo 44: «Ci hai resi la favola dei popoli, su di noi le nazioni scuotono il capo. [...]Per te ogni giorno siamo messi a morte, stimati come pecore da macello» (v. 15-23; cfr. Rm 8,36). L’antica sapienza di Israele si fondava sul presupposto che Dio premia il giusto e punisce il peccatore, che cioè al peccato corrisponde l’infelicità e alla giustizia la felicità. Almeno dal tempo dell’esilio, questa sapienza era entrata in crisi.

Non solo Israele come popolo nel suo insieme pativa più dei popoli che lo circondavano, che lo avevano costretto all’esilio e lo opprimevano, anche in ambito privato diventava sempre più evidente che il cinismo è vantaggioso e che, in questo mondo, il giusto è destinato alla sofferenza. Nei Salmi e nella tarda letteratura sapienziale assistiamo alla faticosa ricerca di sciogliere questa contraddizione, a un nuovo tentativo di diventare «saggi», di comprendere la vita in modo corretto, di trovare e intendere in modo nuovo Dio, che sembra ingiusto o del tutto assente.

Uno dei testi più penetranti di questa ricerca, il Salmo 73, sotto certi aspetti può essere considerato come lo sfondo culturale della nostra parabola. Vediamo quasi stagliarsi innanzi a noi la figura del ricco epulone, del quale l’orante – Lazzaro – si lamenta: «Ho invidiato i prepotenti, vedendo la prosperità dei malvagi. Non c’è sofferenza per essi, sano e pasciuto è il loro corpo. Non conoscono l’affanno dei mortali [...]. Dell’orgoglio si fanno una collana [...]. Esce l’iniquità dal loro grasso [...]. Levano la loro bocca fino al cielo [...]. Perciò seggono in alto, non li raggiunge la piena delle acque. Dicono: "Come può saperlo Dio? C’è forse conoscenza nell’Altissimo?"» (Sal 73,3-11).

Il giusto sofferente guarda Dio

Il giusto che soffre e vede tutto ciò corre il pericolo di smarrirsi nella sua fede. Davvero Dio non vede? Non sente? Non lo preoccupa la sorte degli uomini? «Invano dunque ho conservato puro il mio cuore [...]poiché sono colpito tutto il giorno, e la mia pena si rinnova ogni mattina. [...]Si agitava il mio cuore» (Sal 73,13s.21). Il cambiamento improvviso sopraggiunge quando il giusto sofferente nel santuario volge lo sguardo verso Dio e, guardandolo, allarga la sua prospettiva. Adesso vede che l’apparente intelligenza dei cinici ricchi di successo, osservata alla luce, è stupidità: questo genere di sapienza significa essere «stolti e non capire», essere «come una bestia» (cfr. Sal 73,22). Essi rimangono nella prospettiva delle bestie e hanno perduto la prospettiva dell’uomo che va oltre l’aspetto materiale: verso Dio e la vita eterna.

A questo punto ci tornerà alla memoria un altro Salmo, in cui un perseguitato dice alla fine: «Sazia pure dei tuoi beni il loro ventre, se ne sazino anche i figli [...]. Ma io per la giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua presenza» (Sal 17,14s). Qui si contrappongono due generi di sazietà: la sazietà dei beni materiali e il saziarsi «della tua presenza», la sazietà del cuore mediante l’incontro con l’amore infinito. «Al risveglio», ciò rimanda, in definitiva, al risveglio alla vita nuova, eterna, ma si riferisce anche a un «risveglio» più profondo già in questo mondo: il destarsi alla verità, che già fin d’ora dona all’uomo una nuova sazietà.

Di questo destarsi nella preghiera parla il Salmo 73. Ora, infatti, l’orante vede che la tanto invidiata felicità dei cinici è solo «come un sogno al risveglio»; vede che il Signore, quando sorge, fa «svanire la loro immagine» (Sal 73,20). E adesso l’orante riconosce la vera felicità: «Ma io sono con te sempre: tu mi hai preso per la mano destra. [...] Chi altri avrò per me in cielo? Fuori di te nulla bramo sulla terra. [...] Il mio bene è stare vicino a Dio» (Sal 73,23.25.28).

Queste non sono soltanto belle parole per far sperare nell’aldilà, bensì è il destarsi alla percezione

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della vera grandezza dell’essere uomo, della quale naturalmente fa parte anche la vocazione alla vita eterna.

Ogni invidia è superata

Con ciò solo apparentemente ci siamo allontanati dalla nostra parabola. In realtà, con questa storia il Signore ci vuole introdurre proprio nel processo del «risveglio» che ha trovato la sua espressione nei Salmi. Non si tratta di una condanna meschina della ricchezza e dei ricchi, generata dall’invidia. Nei Salmi su cui abbiamo brevemente riflettuto ogni invidia è superata: anzi, all’orante si rende ovvio che l’invidia per questo genere di ricchezza è stolta, perché egli ha conosciuto il vero bene.

Dopo la crocifissione di Gesù incontriamo due uomini benestanti – Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea – che hanno trovato il Signore e sono persone che stanno «risvegliandosi». Il Signore ci vuole condurre da un’intelligenza stolta alla vera sapienza, ci vuole insegnare a riconoscere il vero bene. E così, anche se ciò non si trova nel testo, possiamo in base ai Salmi dire che il ricco epulone già in questo mondo era un uomo dal cuore vuoto, che nei suoi stravizi voleva solo soffocare il vuoto che era in lui: nell’aldilà viene solo alla luce la verità che era ormai presente anche nell’aldiqua. Naturalmente questa parabola, risvegliandoci, è al contempo anche un’esortazione all’amore che dobbiamo donare ora ai nostri fratelli poveri e alla responsabilità nei loro confronti – su ampia scala, nella società mondiale – così come nell’ambito ridotto della nostra vita di tutti i giorni.

La richiesta di segni

Nella descrizione dell’aldilà, che segue poi nella parabola, Gesù si attiene ai concetti correnti nel giudaismo del suo tempo. Pertanto non è lecito forzare questa parte del testo: Gesù adotta gli elementi immaginifici preesistenti senza con questo elevarli formalmente a suo insegnamento sull’aldilà. Approva, tuttavia, chiaramente la sostanza delle immagini. Pertanto non è privo d’importanza il fatto che Gesù riprenda qui le idee dello stato intermedio tra morte e risurrezione, che ormai erano diventate patrimonio comune del giudaismo. Il ricco si trova nell’Ade come luogo provvisorio, non nella «geenna» (l’inferno), che è il termine per lo stato definitivo.

Gesù non conosce una «risurrezione nella morte». Ma, come detto, non è questo il vero insegnamento che il Signore ci vuole trasmettere con questa parabola. Come ha illustrato in modo convincente Jeremias, si tratta piuttosto, in un secondo vertice della parabola, della richiesta di segni.

L’uomo ricco dice dall’Ade ad Abramo quello che, allora come oggi, tanti uomini dicono o vorrebbero dire a Dio: se vuoi che ti crediamo e che conformiamo la nostra esistenza alla parola di rivelazione della Bibbia, allora devi essere più chiaro. Mandaci qualcuno dall’aldilà che ci possa dire che è davvero così. Il problema della richiesta di segni – la pretesa di una maggiore evidenza della rivelazione – pervade l’intero Vangelo. La risposta di Abramo, come, al di fuori della parabola, quella di Gesù alla richiesta di segni da parte dei suoi contemporanei, è chiara: chi non crede alla parola della Scrittura, non crederà nemmeno a uno che venga dall’aldilà. Le verità più sublimi non possono essere costrette alla stessa evidenza empirica che, appunto, è propria solo della dimensione materiale.

Abramo non può mandare Lazzaro nella casa paterna dell’uomo ricco. Ma ora ci viene in mente una cosa che ci colpisce. Pensiamo alla risurrezione di Lazzaro di Betania, narrata nel Vangelo di Giovanni. Che cosa succede? «Molti dei Giudei [...]credettero in lui», ci racconta l’evangelista. Vanno dai farisei e riferiscono l’accaduto. Il Sinedrio si riunisce per discuterne. La faccenda, in

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quella sede, viene considerata sotto l’aspetto politico: un movimento del popolo, che può risultarne, potrebbe chiamare in causa i romani e generare una situazione pericolosa. Così si decide di uccidere Gesù: il miracolo non porta alla fede bensì all’indurimento (Gv 11,45-53).

© Copyright Famiglia Cristiana, n. 15/2007

«Il messaggio delle parabole»: ampi stralci del capitolo VII del "Gesù di Nazaret" di Benedetto XVI

"GESU' DI NAZARET" DI JOSEPH RATZINGER-BENEDETTO XVI

Sulle orme di Gesù, dal battesimo nel fiume Giordano fino al monte della Trasfigurazione: il 16 aprile prossimo, giorno in cui compirà 80 anni, Benedetto XVI pubblica per Rizzoli il primo volume della sua opera sulla misteriosa figura del Figlio di Dio. Il libro si intitola semplicemente «Gesù di Nazaret», dieci capitoli a cui il Papa ha cominciato a lavorare durante le vacanze estive del 2003 dedicandovi poi ogni momento libero anche dopo il 19 aprile 2005, giorno della sua elezione al soglio di Pietro. «Ognuno è libero di contraddirmi», avverte il Pontefice: non si tratta dunque di un atto magistrale ma di una sua «personale ricerca del "volto del Signore"». Ecco l'anteprima assoluta di uno stralcio tratto dal capitolo VII, «Il messaggio delle parabole».

ANTEPRIMA

IL NUOVO LIBRO DEL PAPA GESÙ E IL RISCHIO DELLA VITA GIUSTA

di JOSEPH RATZINGER - BENEDETTO XVI

La parabola del buon samaritano (Lc 10,25-37). Al centro della storia del buon samaritano vi è la domanda fondamentale dell'uomo. È un dottore della Legge, quindi un maestro dell'esegesi, che la pone al Signore: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» (10,25). Luca aggiunge che il dottore avrebbe fatto quella domanda a Gesù per metterlo alla prova. Egli personalmente, in quanto dottore della Legge, conosce la risposta che a essa dà la Bibbia, ma vuole vedere che cosa dice al riguardo quel profeta digiuno di studi biblici. Il Signore lo rimanda molto semplicemente alla Scrittura che questi, appunto, conosce e lascia che sia lui stesso a dare la risposta. Il dottore della Legge risponde con esattezza mettendo insieme Deuteronomio 6,5 e Levitico 19,18: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27). Riguardo a questa domanda Gesù non insegna cose diverse dalla Torah, il cui intero significato è unito in questo duplice comandamento. Ora, però, quest'uomo dotto, che da sé conosce benissimo la risposta alla sua domanda, deve giustificarsi: la parola della Scrittura è indiscussa, ma come essa debba essere applicata nella pratica della vita solleva questioni che sono molto dibattute nella scuola (e anche nella vita stessa).La domanda, nel concreto, è: chi è «il prossimo»? La risposta abituale, che poteva poggiarsi anche su testi delle Scritture, affermava che «prossimo» significava «connazionale». Il popolo costituiva una comunità solidale, in cui ognuno aveva delle responsabilità verso l'altro, in cui ogni individuo era sostenuto dall'insieme e quindi doveva considerare l'altro, «come se stesso», parte di quell'insieme che gli assegnava il suo spazio vitale. Gli stranieri allora, le persone appartenenti a un altro popolo, non erano «prossimi»? Ciò, però, andava contro la Scrittura, che esortava ad amare proprio anche gli stranieri ricordando che in Egitto Israele stesso aveva vissuto un'esistenza da forestiero. Tuttavia, dove porre i confini restava argomento di discussione. In generale si

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considerava appartenente alla comunità solidale e quindi «prossimo» solo lo straniero che si era stanziato nella terra d'Israele. Erano diffuse anche altre limitazioni del concetto di «prossimo». Una dichiarazione rabbinica insegnava che non bisognava considerare «prossimo» eretici, delatori e apostati (Jeremias, p. 170). Inoltre era dato per scontato che i samaritani, che a Gerusalemme, pochi anni prima (tra il 6 e il 9 dopo Cristo) avevano contaminato la piazza del tempio proprio nei giorni della Pasqua spargendovi ossa umane (Jeremias, p. 171), non erano «prossimi».Alla domanda, resa in questo modo concreta, Gesù risponde con la parabola dell'uomo che sulla strada da Gerusalemme a Gerico viene assalito dai briganti che lo abbandonano ai bordi della via, spogliato e mezzo morto. È una storia assolutamente realistica, perché su quella strada assalti simili accadevano regolarmente. Passano sulla medesima strada un sacerdote e un levita — conoscitori della Legge, esperti circa la grande domanda della salvezza di cui erano al servizio per professione — e vanno oltre. Non dovevano essere necessariamente uomini particolarmente freddi; forse hanno avuto paura anche loro e hanno cercato di arrivare più presto possibile in città; forse erano maldestri e non sapevano da che parte cominciare per prestare aiuto – tanto più che, comunque, sembrava che non ci fosse più molto da aiutare. Poi sopraggiunge un samaritano, probabilmente un mercante che deve percorrere spesso quel tratto di strada ed evidentemente conosce il padrone della locanda più vicina; un samaritano — quindi uno che non appartiene alla comunità solidale di Israele e non è tenuto a vedere nella persona assalita dai briganti il suo «prossimo».Bisogna qui ricordare che, nel capitolo precedente, l'evangelista ha raccontato che Gesù, in cammino verso Gerusalemme, aveva mandato avanti dei messaggeri che erano giunti in un villaggio di samaritani e volevano preparare per Lui un alloggio: «Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme» (9,52s). Infuriati, i figli del tuono — Giacomo e Giovanni — dissero allora a Gesù: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Il Signore li rimproverò. Si trovò poi alloggio in un altro villaggio.Ed ecco ora apparire il samaritano. Che cosa farà? Egli non chiede fin dove arrivino i suoi doveri di solidarietà e nemmeno quali siano i meriti necessari per la vita eterna. Accade qualcos'altro: gli si spezza il cuore; il Vangelo usa la parola che in ebraico indicava in origine il grembo materno e la dedizione materna. Vedere l'uomo in quelle condizioni lo prende «nelle viscere», nel profondo dell'anima. «Ne ebbe compassione», traduciamo oggi indebolendo l'originaria vivacità del testo. In virtù del lampo di misericordia che colpisce la sua anima diviene lui stesso il prossimo, andando oltre ogni interrogativo e ogni pericolo. Pertanto qui la domanda è mutata: non si tratta più di stabilire chi tra gli altri sia il mio prossimo o chi non lo sia. Si tratta di me stesso. Io devo diventare il prossimo, così l'altro conta per me come «me stesso».Se la domanda fosse stata: «È anche il samaritano mio prossimo?», allora nella situazione data la risposta sarebbe stata un «no» piuttosto netto. Ma ecco, Gesù capovolge la questione: il samaritano, il forestiero, si fa egli stesso prossimo e mi mostra che io, a partire dalmio intimo, devo imparare l'essere- prossimo e che porto già dentro di me la risposta. Devo diventare una persona che ama, una persona il cui cuore è aperto per lasciarsi turbare di fronte al bisogno dell'altro. Allora trovo il mio prossimo, o meglio: è lui a trovarmi.Helmut Kuhn, nella sua interpretazione della parabola, va certamente oltre il senso letterale del testo e tuttavia individua correttamente la radicalità del suo messaggio quando scrive: «L'amore politico dell'amico si fonda sull'uguaglianza dei partner. La parabola simbolica del samaritano, invece, sottolinea la radicale disuguaglianza: il samaritano, che non appartiene al popolo d'Israele, sta di fronte all'altro, a un individuo anonimo, egli che aiuta di fronte alla vittima inerme dell'attacco dei briganti. L'agape, così ci fa intendere la parabola, attraversa ogni tipo di ordinamento politico in cui domina il principio deldo ut des, superandolo e caratterizzandosi in questo modo come soprannaturale. Per principio essa si colloca non solo al di là di questi ordinamenti, ma si comprende anzi come il loro capovolgimento: i primi saranno ultimi (cfr. Mt 19,30). E i miti erediteranno la terra (cfr. Mt 5,5)» (p. 88s). Una cosa è evidente: si manifesta una nuova universalità, che poggia sul fatto che io intimamente già divengo fratello di tutti quelli che incontro e che hanno bisogno del mio aiuto.

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L'attualità della parabola è ovvia. Se la applichiamo alle dimensioni della società globalizzata, vediamo come le popolazioni dell'Africa che si trovano derubate e saccheggiate ci riguardano da vicino. Allora vediamo quanto esse siano «prossime» a noi; vediamo che anche il nostro stile di vita, la storia in cui siamo coinvolti li ha spogliati e continua a spogliarli. In questo è compreso soprattutto il fatto che le abbiamo ferite spiritualmente. Invece di dare loro Dio, il Dio vicino a noi in Cristo, e accogliere così dalle loro tradizioni tutto ciò che è prezioso e grande e portarlo a compimento, abbiamo portato loro il cinismo di un mondo senza Dio, in cui contano solo il potere e il profitto; abbiamo distrutto i criteri morali così che la corruzione e una volontà di potere priva di scrupoli diventano qualcosa di ovvio. E questo non vale solo per l'Africa.Sì, dobbiamo dare aiuti materiali e dobbiamo esaminare il nostro genere di vita. Ma diamo sempre troppo poco se diamo solo materia. E non troviamo anche intorno a noi l'uomo spogliato e martoriato? Le vittime della droga, del traffico di persone, del turismo sessuale, persone distrutte nel loro intimo, che sono vuote pur nell'abbondanza di beni materiali. Tutto ciò riguarda noi e ci chiama ad avere l'occhio e il cuore di chi è prossimo e anche il coraggio dell'amore verso il prossimo. Perché — come detto — il sacerdote e il levita passarono oltre forse più per paura che per indifferenza. Dobbiamo, a partire dal nostro intimo, imparare di nuovo il rischio della bontà; ne siamo capaci solo se diventiamo noi stessi interiormente «buoni», se siamo interiormente «prossimi» e se abbiamo poi anche lo sguardo capace di individuare quale tipo di servizio, nel nostro ambiente e nel raggio più esteso della nostra vita, è richiesto, ci è possibile e quindi ci è anche dato per incarico.I Padri della Chiesa hanno dato alla parabola una lettura cristologica. Qualcuno potrebbe dire: questa è allegoria, quindi un'interpretazione che allontana dal testo. Ma se consideriamo che in tutte le parabole il Signore ci vuole invitare in modi sempre diversi alla fede nel regno di Dio, quel regno che è Egli stesso, allora un'interpretazione cristologica non è mai una lettura completamente sbagliata. In un certo senso corrisponde a una potenzialità intrinseca del testo e può essere un frutto che si sviluppa dal suo seme. I Padri vedono la parabola in dimensione di storia universale: l'uomo che lì giace mezzo morto e spogliato ai bordi della strada non è un'immagine di «Adamo», dell'uomo in genere, che davvero «è caduto vittima dei briganti»? Non è vero che l'uomo, questa creatura che è l'uomo, nel corso di tutta la sua storia si trova alienato, martoriato, abusato? La grande massa dell'umanità è quasi sempre vissuta nell'oppressione; e da altra angolazione: gli oppressori — sono essi forse le vere immagini dell'uomo o non sono invece essi i primi deformati, una degradazione dell'uomo? Karl Marx ha descritto in modo drastico l'«alienazione» dell'uomo; anche se non ha raggiunto la vera profondità dell'alienazione, perché ragionava solo nell'ambito materiale, ha tuttavia fornito una chiara immagine dell'uomo che è caduto vittima dei briganti.La teologia medievale ha interpretato i due dati della parabola sullo stato dell'uomo depredato come fondamentali affermazioni antropologiche. Della vittima dell'imboscata si dice, da un lato, che fu spogliato (spoliatus); dall'altro lato, che fu percosso fin quasi alla morte (vulneratus: cfr. Lc 10,30). Gli scolastici riferirono questi due participi alla duplice dimensione dell'alienazione dell'uomo. Dicevano che è spoliatussupernaturalibus e vulneratus in naturalibus: spogliato dello splendore della grazia soprannaturale, ricevuta in dono, e ferito nella sua natura. Ora, questa è allegoria che certamente va molto oltre il senso della parola, ma rappresenta pur sempre un tentativo di precisare il duplice carattere del ferimento che grava sull'umanità. La strada da Gerusalemme a Gerico appare quindi come l'immagine della storia universale; l'uomo mezzo morto sul suo ciglio è immagine dell'umanità. Il sacerdote e il levita passano oltre — da ciò che è proprio della storia, dalle sole sue culture e religioni, non giunge alcuna salvezza. Se la vittima dell'imboscata è per antonomasia l'immagine dell'umanità, allora il samaritano può solo essere l'immagine di Gesù Cristo. Dio stesso, che per noi è lo straniero e il lontano, si è incamminato per venire a prendersi cura della sua creatura ferita. Dio, il lontano, in Gesù Cristo si è fatto prossimo. Versa olio e vino sulle nostre ferite — un gesto in cui si è vista un'immagine del dono salvifico dei sacramenti — e ci conduce nella locanda, la Chiesa, in cui ci fa curare e dona anche l'anticipo per il costo dell'assistenza.

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I singoli tratti dell'allegoria, che sono diversi a seconda dei Padri, possiamo lasciarli serenamente da parte. Ma la grande visione dell'uomo che giace alienato e inerme ai bordi della strada della storia e di Dio stesso, che in Gesù Cristo è diventato il suo prossimo, la possiamo tranquillamente fissare nella memoria come una dimensione profonda della parabola che riguarda noi stessi. Il possente imperativo contenuto nella parabola non ne viene infatti indebolito, ma è anzi condotto alla sua intera grandezza. Il grande tema dell'amore, che è l'autentico punto culminante del testo, raggiunge così tutta la sua ampiezza. Ora, infatti, ci rendiamo conto che noi tutti siamo «alienati» e bisognosi di redenzione. Ora ci rendiamo conto che noi tutti abbiamo bisogno del dono dell'amore salvifico di Dio stesso, per poter diventare anche noi persone che amano. Abbiamo sempre bisogno di Dio che si fa nostro prossimo, per poter diventare a nostra volta prossimi.Le due figure, di cui abbiamo parlato, riguardano ogni singolo uomo: ogni persona è «alienata», estraniata proprio dall'amore (che è appunto l'essenza dello «splendore soprannaturale» di cui siamo stati spogliati); ogni persona deve dapprima essere guarita e munita del dono. Ma poi ogni persona deve anche diventare samaritano — seguire Cristo e diventare come Lui. Allora viviamo in modo giusto. Allora amiamo in modo giusto, se diventiamo simili a Lui, che ci ha amati per primo (cfr. 1 Gv 4,19).L'attualità della parabola è ovvia. I popoli dell'Africa derubati ci guardano da vicino. Noi abbiamo portato loro il cinismo di un mondo senza Dio, dove contano potere e profitto.

© Copyright Corriere della sera, 4 aprile 2007

GESU' DI NAZARET: LA PREFAZIONE DI JOSEPH RATZINGER-BENEDETTO XVI

"GESU' DI NAZARET" DI JOSEPH RATZINGER-BENEDETTO XVI

Di seguito viene riportata la prefazione del libro tratta dal blog di Sandro Magister.

”La mia interpretazione della figura di Gesù nel Nuovo Testamento...”

di Joseph Ratzinger / Benedetto XVI

Al libro su Gesù, di cui ora presento al pubblico la prima parte, sono giunto dopo un lungo cammino interiore.

Al tempo della mia giovinezza – negli anni Trenta e Quaranta – vennero pubblicati una serie di libri entusiasmanti su Gesù. Ricordo solo il nome di alcuni autori: Karl Adam, Romano Guardini, Franz Michel Willam, Giovanni Papini, Jean Daniel-Rops. In tutti questi libri l’immagine di Gesù Cristo venne delineata a partire dai Vangeli: come Egli visse sulla terra e come, pur essendo interamente uomo, portò nello stesso tempo agli uomini Dio, con il quale, in quanto Figlio, era una cosa sola. Così, attraverso l’uomo Gesù, divenne visibile Dio e a partire da Dio si poté vedere l’immagine dell’uomo giusto.

A cominciare dagli anni Cinquanta la situazione cambiò. Lo strappo tra il “Gesù storico” e il “Cristo della fede” divenne sempre più ampio; l’uno si allontanò dall’altro a vista d’occhio. Ma che significato può avere la fede in Gesù Cristo, in Gesù Figlio del Dio vivente, se poi l’uomo Gesù era così diverso da come lo presentano gli evangelisti e da come lo annuncia la Chiesa a partire dai Vangeli?

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I progressi della ricerca storico-critica condussero a distinzioni sempre più sottili tra i diversi strati della tradizione. Dietro di essi, la figura di Gesù, su cui poggia la fede, divenne sempre più incerta, prese contorni sempre meno definiti.

Nello stesso tempo le ricostruzioni di questo Gesù , che doveva essere cercato dietro le tradizioni degli Evangelisti e le loro fonti, divennero sempre più contraddittorie: dal rivoluzionario nemico dei romani che si oppone al potere costituito e naturalmente fallisce al mite moralista che tutto permette e inspiegabilmente finisce per causare la propria rovina.

Chi legge di seguito un certo numero di queste ricostruzioni può subito constatare che esse sono molto più fotografie degli autori e dei loro ideali che non la messa a nudo di una icona diventata confusa. Nel frattempo è sì cresciuta la diffidenza nei confronti di queste immagini di Gesù, e tuttavia la figura stessa di Gesù si è allontanata ancor più da noi.

Tutti questi tentativi hanno comunque lasciato dietro di sé, come denominatore comune, l’impressione che noi sappiamo ben poco di certo su Gesù e che solo più tardi la fede nella sua divinità ha plasmato la sua immagine. Questa impressione, nel frattempo, è penetrata profondamente nella coscienza comune della cristianità.

Una simile situazione è drammatica per la fede perché rende incerto il suo autentico punto di riferimento: l’intima amicizia con Gesù, da cui tutto dipende, minaccia di annaspare nel vuoto.

* * *

Ho sentito il bisogno di fornire ai lettori queste indicazioni di metodo perché esse determinano la strada della mia interpretazione della figura di Gesù nel Nuovo Testamento.

Per la mia presentazione di Gesù questo significa anzitutto che io ho fiducia nei Vangeli. Naturalmente dò per scontato quanto il Concilio e la moderna esegesi dicono sui generi letterari, sull’intenzionalità delle affermazioni, sul contesto comunitario dei Vangeli e il loro parlare in questo contesto vivo. Pur accettando, per quanto mi era possibile, tutto questo ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il vero Gesù, come il “Gesù storico” nel vero senso della espressione.

Io sono convinto, e spero che se ne possa rendere conto anche il lettore, che questa figura è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni.

Io ritengo che proprio questo Gesù – quello dei Vangeli – sia una figura storicamente sensata e convincente. Solo se era successo qualcosa di straordinario, se la figura e le parole di Gesù superavano radicalmente tutte le speranze e le aspettative dell’epoca, si spiegano la sua crocifissione e la sua efficacia.

Già circa vent’anni dopo la morte di Gesù troviamo pienamente dispiegata nel grande inno a Cristo della Lettera ai Filippesi (2, 6-8) una cristologia, in cui di Gesù si dice che era uguale a Dio ma spogliò se stesso, si fece uomo, si umiliò fino alla morte sulla croce e che a lui spetta l’omaggio del creato, l’adorazione che nel profeta Isaia (45, 23) Dio proclamò come dovuta a lui solo.

La ricerca critica si pone a buon diritto la domanda: che cosa è successo in questi vent’anni dalla crocifissione di Gesù? Come si giunse a questa cristologia?

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L’azione di formazioni comunitarie anonime, di cui si cerca di trovare gli esponenti, in realtà non spiega nulla. Come mai dei raggruppamenti sconosciuti poterono essere così creativi, convincere e in tal modo imporsi? Non è più logico anche dal punto di vista storico che la grandezza si collochi all’inizio e che la figura di Gesù fece nella pratica saltare tutte le categorie disponibili e poté così essere compresa solo a partire dal mistero di Dio?

Naturalmente, credere che proprio come uomo egli fosse Dio e fece conoscere questo avvolgendolo nelle parabole e tuttavia in un modo sempre più chiaro, va al di là delle possibilità del metodo storico. Al contrario, se a partire da questa convinzione di fede si leggono i testi con il metodo storico e la sua apertura per ciò che è più grande, essi si aprono, per mostrare una via e una figura, che sono degne di fede.

Diventano allora chiare anche la lotta a più strati presente negli scritti del Nuovo Testamento intorno alla figura di Gesù e nonostante tutte le diversità, il profondo accordo di questi scritti.

È chiaro che con questa visione della figura di Gesù io vado al di là di quello che dice ad esempio Schnackenburg in rappresentanza di una buona parte dell’esegesi contemporanea.

Io spero, però, che il lettore comprenda che questo libro non è stato scritto contro la moderna esegesi, ma con grande riconoscenza per il molto che ci ha dato e continua a darci. Essa ci ha fatto conoscere una grande quantità di fonti e di concezioni attraverso le quali la figura di Gesù può divenirci presente in una vivacità e profondità che solo pochi decenni fa non riuscivamo neppure a immaginare.

Io ho solo cercato di andare oltre la mera interpretazione storico-critica applicando i nuovi criteri metodologici, che ci permettono una interpretazione propriamente teologica della Bibbia e che naturalmente richiedono la fede senza per questo volere e poter affatto rinunciare alla serietà storica.

Di certo non c’è affatto bisogno di dire espressamente che questo libro non è assolutamente un atto magisteriale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del “volto del Signore” (Salmo 27, 8). Perciò ognuno è libero di contraddirmi. Chiedo solo alle lettrici e ai lettori quell’anticipo di simpatia senza la quale non c’è alcuna comprensione.

Come ho detto all’inizio della prefazione, il cammino interiore verso questo libro è stato lungo.

Ho potuto cominciare a lavorarci durante le vacanze estive del 2003. Nell’agosto del 2004 ho poi dato forma definitiva ai capitoli dall’1 al 4. Dopo la mia elezione alla sede episcopale di Roma ho usato tutti i momenti liberi per portarlo avanti.

Poiché non so quanto tempo e quanta forza mi saranno ancora concessi mi sono ora deciso a pubblicare come prima parte del libro i primi dieci capitoli, che vanno dal battesimo al Giordano fino alla confessione di Pietro e alla Trasfigurazione.

Roma, festa di san Gerolamo30 settembre 2006

© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana

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Joseph Ratzinger: "Prefazione al volume iniziale dei miei scritti"

PRIMO VOLUME DELL’OPERA OMNIA DI JOSEPH RATZINGER - BENEDETTO XVI IN EDIZIONE TEDESCA

Prefazione al volume iniziale dei miei scritti

di Joseph Ratzinger

Il Concilio Vaticano II iniziò i suoi lavori con la discussione dello schema sulla sacra liturgia, che poi venne solennemente votato il 4 dicembre 1963 come primo frutto della grande assise della Chiesa, con il rango di una costituzione.Che il tema della liturgia si trovasse all’inizio dei lavori del Concilio e che la costituzione sulla liturgia divenisse il suo primo risultato venne considerato a prima vista piuttosto un caso. Papa Giovanni aveva convocato l'assemblea dei vescovi con una decisione da tutti condivisa con gioia, per ribadire la presenza del cristianesimo in una epoca di profondi cambiamenti, ma senza proporre un determinato programma. Dalla commissione preparatoria era stata messa insieme un’ampia serie di progetti. Ma mancava una bussola per poter trovare la strada in questa abbondanza di proposte. Fra tutti i progetti il testo sulla sacra liturgia sembrò quello meno controverso. Così esso apparve subito adatto: come una specie di esercizio, per così dire, con il quale i Padri potessero apprendere i metodi del lavoro conciliare.

Ciò che a prima vista potrebbe sembrare un caso, si rivela, guardando alla gerarchia dei temi e dei compiti della Chiesa, come la cosa anche intrinsecamente più giusta. Cominciando con il tema "liturgia", si mise inequivocabilmente in luce il primato di Dio, la priorità del tema "Dio". Dio innanzitutto, così ci dice l’inizio della costituzione sulla liturgia. Quando lo sguardo su Dio non è determinante ogni altra cosa perde il suo orientamento. Le parole della regola benedettina "Ergo nihil Operi Dei praeponatur" (43, 3: "Quindi non si anteponga nulla all’Opera di Dio") valgono in modo specifico per il monachesimo, ma hanno valore, come ordine delle priorità, anche per la vita della Chiesa e di ciascuno nella sua rispettiva maniera. È forse utile qui ricordare che nel termine "ortodossia" la seconda metà della parola, "doxa", non significa "opinione", ma "splendore", "glorificazione": non si tratta di una corretta "opinione" su Dio, ma di un modo giusto di glorificarlo, di dargli una risposta. Poiché questa è la domanda fondamentale dell’uomo che comincia a capire se stesso nel modo giusto: come debbo io incontrare Dio? Così, l’apprendere il modo giusto dell’adorazione – dell’ortodossia – è ciò che ci viene donato soprattutto dalla fede.

Quando ho deciso, dopo qualche esitazione, di accettare il progetto di una edizione di tutte le mie opere, mi è stato subito chiaro che vi dovesse valere l’ordine delle priorità del Concilio, e che quindi il primo volume ad uscire doveva essere quello con i miei scritti sulla liturgia.La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia, l’attività centrale della mia vita, ed è diventata, alla scuola teologica di maestri come Schmaus, Söhngen, Pascher e Guardini, anche il centro del mio lavoro teologico.Come materia specifica ho scelto la teologia fondamentale, perché volevo innanzitutto andare fino in fondo alla domanda: perché crediamo? Ma in questa domanda era inclusa fin dall’inizio l’altra sulla giusta risposta da dare a Dio, e quindi anche la domanda sul servizio divino. Proprio da qui debbono essere intesi i miei lavori sulla liturgia. Non mi interessavano i problemi specifici della scienza liturgica, ma sempre l’ancoraggio della liturgia nell’atto fondamentale della nostra fede e quindi anche il suo posto nella nostra intera esistenza umana.

Questo volume raccoglie ora tutti i miei lavori di piccola e media dimensione con i quali nel corso

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degli anni, in occasioni e da prospettive diverse, ho preso posizione su questioni liturgiche. Dopo tutti i contributi nati in questo modo, sono stato spinto infine a presentare una visione d'insieme che è apparsa nell'anno giubilare 2000 sotto il titolo " Lo spirito della liturgia. Un'introduzione " e che costituisce il testo centrale di questo libro.

Purtroppo, quasi tutte le recensioni si sono gettate su un unico capitolo: "L’altare e l’orientamento della preghiera nella liturgia". I lettori delle recensioni hanno dovuto dedurne che l’intera opera abbia trattato solo dell’orientamento della celebrazione e che il suo contenuto si riduca a quello di voler reintrodurre la celebrazione della messa "con le spalle rivolte al popolo". In considerazione di questo travisamento ho pensato per un momento di sopprimere questo capitolo (di appena nove pagine su duecento) per poter ricondurre la discussione sul vero argomento che mi interessava e continua ad interessarmi nel libro. Questo sarebbe stato tanto più facilmente possibile per il fatto che nel frattempo sono apparsi due eccellenti lavori nei quali la questione dell’orientamento della preghiera nella Chiesa del primo millennio è stata chiarita in modo persuasivo. Penso innanzitutto all’importante piccolo libro di Uwe Michael Lang, "Rivolti al Signore. L'orientamento nella preghiera liturgica" (traduzione italiana: Cantagalli, Siena, 2006), ed in modo del tutto particolare al grosso contributo di Stefan Heid, "Atteggiamento ed orientamento della preghiera nella prima epoca cristiana" (in "Rivista d’Archeologia Cristiana" 72, 2006), in cui fonti e bibliografia su tale questione risultano ampiamente illustrate e aggiornate.

Il risultato è del tutto chiaro: l’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non fosse possibile, verso una immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della sua Passione (Giovanni 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione nella mia opera: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo.

Ma con questo ho forse detto troppo di nuovo su questo punto, che rappresenta appena un dettaglio del mio libro, e che potrei anche tralasciare. L’intenzione fondamentale dell’opera era quella di collocare la liturgia al di sopra delle questioni spesso grette circa questa o quella forma, nella sua importante relazione che ho cercato di descrivere in tre ambiti che sono presenti in tutti i singoli temi. C'è innanzitutto l'intimo rapporto tra Antico e Nuovo Testamento; senza la relazione con l'eredità veterotestamentaria la liturgia cristiana è assolutamente incomprensibile. Il secondo ambito è il rapporto con le religioni del mondo. E si aggiunge infine il terzo ambito: il carattere cosmico della liturgia, che rappresenta qualcosa di più della semplice riunione di una cerchia più o meno grande di esseri umani; la liturgia viene celebrata dentro l'ampiezza del cosmo, abbraccia creazione e storia allo stesso tempo. Questo è ciò che si intendeva nell'orientamento della preghiera: che il Redentore che noi preghiamo è anche il Creatore, e così nella liturgia rimane sempre l'amore anche per la creazione e la responsabilità nei suoi confronti. Sarei lieto se questa nuova edizione dei miei scritti liturgici potesse contribuire a far vedere le grandi prospettive della nostra liturgia e a far relegare nel loro giusto posto certe grette controversie su forme esteriori.

Infine, e soprattutto, sento il dovere di ringraziare. Il mio ringraziamento è dovuto innanzitutto al vescovo Gerhard Ludwig Muller, che ha preso nelle sue mani il progetto delle "Opera omnia" e ha creato le condizioni sia personali che istituzionali per la sua realizzazione. In modo del tutto particolare correi ringraziare il Prof. Dr. Rudolf Voderholzer, che ha investito tempo ed energie in

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misura straordinaria nella raccolta e nell'individuazione dei miei scritti. Ringrazio anche il Signor Dr. Christian Schaler, che lo assiste in maniera dinamica. Infine, il mio sincero ringraziamento va alla casa editrice Herder, che con grande amore e accuratezza si è assunta l'onere di questo difficile e faticoso lavoro. Possa tutto ciò contribuire a che la liturgia venga compresa in modo sempre più profondo e celebrata degnamente. "La gioia del Signore è la nostra forza" (Neemia 8,10).

Roma, festa dei santi Pietro e Paolo, 29 giugno 2008__________

Intervista di Antonio Socci al cardinale Ratzinger nella trasmissione Excalibur (20 novembre 2003!)

LE INTERVISTE AL CARDINALE JOSEPH RATZINGER

Ecco la trascrizione dell'intera intervista:

Oggi è l'Occidente a opporsi al cristianesimo

Antonio Socci

In tempi di islamismo e "scontro di civiltà" le religioni giocano un ruolo cruciale. Dunque l'autorevole voce del cardinale Joseph Ratzinger, da decenni custode dell'ortodossia nella Chiesa per volontà del Papa, è preziosa: non solo per un miliardo e mezzo di cattolici, ma per tutti. Nel bellissimo libro, appena uscito da Cantagalli, Fede, Verità, tolleranza, ha affrontato - con la sua abituale profondità - tutti i temi che oggi infiammano il mondo. Grazie a Davide Cantagalli, l'editore che ha propiziato l'incontro, abbiamo avuto la possibilità di parlarne con lo stesso prelato. Excalibur giovedì ha mandato in onda alcuni flash dell'intervista.Considerata la sua importanza, qui la riportiamo per intero.

Domanda - Eminenza c'è un'idea che si è affermata nella cultura alta e nel pensiero comune secondo cui le religioni sono tutte vie che portano verso lo stesso Dio, quindi l'una vale l'altra. Cosa ne pensa, dal punto di vista teologico?

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Cardinale Ratzinger - Direi che anche sul piano empirico, storico, non è vera questa concezione molto comoda per il pensiero di oggi. È un riflesso del relativismo diffuso, ma la realtà non è questa perché le religioni non stanno in un modo statico unaaccanto all'altra, ma si trovano in un dinamismo storico nel quale diventano anche sfide l'una per l'altra. Alla fine la Verità è una, Dio è uno, perciò tutte queste espressioni, così diverse, nate in vari momenti storici, non sono equivalenti, ma sono un cammino nel quale si pone la domanda: dove andare? Non si può dire che sono vie equivalenti perché sono in un dialogo interiore e naturalmente mi sembra evidente che non possono essere mezzi della salvezza cose contraddittorie: la verità e la menzogna non possono essere allo stesso modo vie della salvezza. Perciò questa idea semplicemente non risponde alla realtà delle religioni e non risponde alla necessità dell'uomo di trovare una risposta coerente alle sue grandi domande.

In diverse religioni si riconosce la straordinarietà della figura di Gesù. Sembra non sia necessario essere cristiani per venerarlo. Dunque non c'è bisogno della Chiesa?

Già nel Vangelo troviamo due posizioni possibili in riferimento a Cristo. Il Signore stesso distingue: che cosa dice la gente e che cosa dite voi. Chiede cosa dicono quelli che Lo conoscono di seconda mano, o in modo storico, letterario, e poi cosa dicono quelli che Lo conoscono da vicino e sono entrati realmente in un incontro vero, hanno esperienza della Sua vera identità. Questa distinzione rimane presente in tutta la storia: c'è una impressione da fuori che ha elementi di verità. Nel Vangelo si vede che alcuni dicono: "è un profeta". Così come oggi si dice che Gesù è una grossa personalità religiosa o che va annoverato fra gli avataras (le molteplici manifestazioni del divino). Ma quelli che sono entrati in comunione con Gesù riconoscono che è un'altra realtà, è Dio presente in un uomo.

Non è confrontabile con le altre grandi personalità delle religioni?

Sono molto diverse l'una dall'altra. Buddha in sostanza dice: "dimenticatemi, andate solo sulla strada che ho mostrato". Maometto afferma: "Il signore Dio mi ha dato queste parole che verbalmente vi trasmetto nel Corano". E così via. Ma Gesù non rientra in questa categoria di personalità già visibilmente e storicamente diverse. Ancora meno è uno degli avataras, nel senso dei miti della religione induista.

Perché?

È una realtà del tutto diversa. Appartiene ad una storia, che comincia da Abramo, nella quale Dio mostra il suo volto, Dio si rivela come una persona che sa parlare e rispondere, entra nella storia. E questo volto di Dio, di un Dio che è persona e agisce nella storia, trova il suo compimento in quell'istante nel quale Dio stesso, facendosi uomo Lui stesso, entra nel tempo. Quindi, anche storicamente, non si può assimilare Gesù Cristo alle varie personalità religiose o alle visioni mitologiche orientali.

Per la mentalità comune questa "pretesa" della Chiesa - che proclama "Cristo, unica salvezza" - è arroganza dottrinale.

Posso capire i motivi di questa moderna visione la quale si oppone all'unicità di Cristo e comprendo anche una certa modestia di alcuni cattolici per i quali "noi non possiamo dire che abbiamo una cosa migliore che gli altri". Inoltre c'è anche la ferita del colonialismo, periodo durante il quale alcuni poteri europei hanno strumentalizzato il cristianesimo in funzione del loro potere mondiale. Queste ferite sono rimaste nella coscienza cristiana, ma non devono

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impedirci di vedere l'essenziale.Perché l'abuso del passato non deve impedire la comprensione retta. Il colonialismo - e il cristianesimo come strumento del potere - è un abuso. Ma il fatto che se ne sia abusato non deve rendere i nostri occhi chiusi di fronte alla realtà dell'unicità di Cristo. Soprattutto dobbiamo riconoscere che il Cristianesimo non è un'invenzione nostra europea, non è un prodotto nostro. E' sempre una sfida che viene da fuori dell'Europa: all'origine venne dall'Asia, come sappiamo bene. E si trovò subito in contrasto con la sensibilità dominante. Anche se poi l'Europa è stata cristianizzata è rimasta sempre questa lotta tra le proprie pretese particolari, fra le tendenze europee, e la novità sempre nuova della Parola di Dio che si oppone a questi esclusivismi e apre alla vera universalità. In questo senso, mi sembra dobbiamo riscoprire che il cristianesimo non è una proprietà europea.

Il cristianesimo contrasta anche oggi la tendenza alla chiusura che c'è in Europa?

Il cristianesimo è sempre qualcosa che viene realmente da fuori, da un avvenimento divino che ci trasforma e contesta anche le nostre pretese e i nostri valori. Il Signore cambia sempre le nostre pretese e apre i nostri cuori per la Sua universalità. Mi sembra molto significativo che al momento l'Occidente europeo sia la parte del mondo più opposta al cristianesimo, proprio perché lo spirito europeo si è autonomizzato e non vuole accettare che ci sia una Parola divina che gli mostra una strada che non è sempre comoda.

Riecheggiando Dostoevskij mi chiedo se un uomo moderno può credere, credere veramente che Gesù di Nazaret è Dio fatto uomo. E' percepito come assurdo.

Certo, per un uomo moderno è una cosa quasi impensabile, un po' assurda e facilmente si attribuisce ad un pensiero mitologico di un tempo passato che non è più accettabile. La distanza storica rende tanto più difficile pensare che un individuo vissuto in un tempo lontano possa essere adesso presente, per me, e sia la risposta alle mie domande.

Mi sembra importante allora osservare che Cristo non è un individuo del passato lontano da me, ma ha creato una strada di luce che pervade la storia cominciando con i primi martiri, con questi testimoni che trasformano il pensiero umano, vedono la dignità umana dello schiavo, si occupano dei poveri, dei sofferenti e portano così una novità nel mondo anche con la propria sofferenza. Con quei grandi dottori che trasformano la saggezza dei greci, dei latini, in una nuova visione del mondo ispirata proprio da Cristo, che trova in Cristo la luce per interpretare il mondo, con figure come San Francesco d'Assisi, che ha creato il nuovo umanesimo. O figure anche del nostro tempo: pensiamo a Madre Teresa, Massimiliano Kolbe.. .

È un'ininterrotta strada di luce che si fa cammino della storia e una ininterrotta presenza di Cristo e mi sembra che questo fatto - che Cristo non è rimasto nel passato ma è stato sempre contemporaneo con tutte le generazioni ed ha creato una nuova storia, una nuova luce nella storia, nella quale è presente e sempre contemporaneo, fa capire che non si tratta di un qualunque grande della storia, ma di una realtà davvero Altra, che porta sempre luce. Così, associandosi a questa storia, uno entra in uncontesto di luce, non si mette in rapporto con una persona lontana, ma con una realtà presente.

Perché, secondo lei, un uomo del 2003 ha bisogno di Cristo?

E' facile accorgersi che le cose rese disponibili solo da un mondo materiale o anche intellettuale, non rispondono al bisogno più profondo, più radicale che esiste in ogni uomo: perché l'uomo ha il desiderio - come dicono già i Padri - dell'infinito. Mi sembra che proprio il nostro tempo con le sue

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contraddizioni, le sue disperazioni, il suo massiccio rifugiarsi in scorciatoie come la droga, manifesti visibilmente questa sete dell'infinito e solo un amore infinito che tuttavia entra nella finitudine, e diventaaddirittura un uomo come me, è la risposta.E' certo un paradosso che Dio, l'immenso, sia entrato nel mondo finito come una persona umana. Ma è proprio la risposta della quale abbiamo bisogno: una risposta infinita che tuttavia si rende accettabile e accessibile, per me, "finendosi" in una persona umana che tuttavia è l'infinito. È la risposta della quale si ha bisogno: si dovrebbe quasi inventare se non esistesse.

C'è una novità nel suo libro a proposito del tema del relativismo. Lei sostiene che nella pratica politica, il relativismo è il benvenuto perché ci vaccina, diciamo, dalla tentazione utopica. E' il giudizio che la Chiesa ha sempre dato sulla politica?

Direi proprio di sì. E' questa una delle novità essenziali del cristianesimo per la storia. Perché fino a Cristo l'identificazione di religione e stato, divinità e stato, era quasi necessaria per dare stabilità allo stato. Poi l'islam ritorna a questa identificazione tra mondo politico e religioso, col pensiero che solo con il potere politico si può anche moralizzare l'umanità.In realtà, da Cristo stesso troviamo subito la posizione contraria: Dio non è di questo mondo, non ha legioni, così dice Cristo, Stalin dice non ha divisioni. Non ha un potere mondano, attira l'umanità a sé non con un potere esterno, politico, militare ma solo col potere della verità che convince, dell'amore che attrae. Egli dice: "attirerò tutti a me". Ma lo dice proprio dalla croce. E così crea questa distinzione tra imperatore e Dio, tra il mondo dell'imperatore al quale conviene lealtà, ma una lealtà critica, e il mondo di Dio, che è assoluto. Mentre non è assoluto lo stato.

Quindi non c'è potere o politica o ideologia che possa rivendicare per sé l'assoluto, la definitività, la perfezione..

Questo è molto importante. Perciò sono stato contrario alla teologia della liberazione, che di nuovo ha trasformato il Vangelo in ricetta politica con l'assolutizzazione di una posizione, per cui solo questa sarebbe la ricetta per liberare e dare progresso.In realtà, il mondo politico è il mondo della nostra ragione pratica dove, con i mezzi della nostra ragione, dobbiamo trovare le strade. Bisogna lasciare proprio alla ragione umana di trovare i mezzi più adatti e non assolutizzare lo stato. I padri hanno pregato per lo stato riconoscendone la necessità, il suo valore, ma non hanno adorato lo stato: mi sembra proprio questa la distinzione decisiva.

Ma questo è uno straordinario punto d'incontro tra pensiero cristiano e cultura liberal-democratica.

Io penso che la visione liberal-democratica non potesse nascere senza questo avvenimento cristiano che ha diviso i due mondi, così creando pure una nuova libertà. Lo stato è importante, si deve ubbidire alle leggi, ma non è l'ultimo potere. La distinzione tra lo stato e la realtà divina crea lo spazio di una libertà in cui una persona può anche opporsi allo stato. I martiri sono una testimonianza per questa limitazione del potere assoluto dello stato. Così è nata una storia di libertà. Anche se poi il pensiero liberal democratico ha preso le sue strade, l'origine è proprio questa.

I sistemi comunisti europei sono crollati. Ma lei, nel suo libro, non esclude che il pensiero marxista possa comunque ripresentarsi in altre forme nei prossimi tempi.

E' una mia ipotesi, ma mi sembra cominci già a verificarsi perché il puro relativismo che non conosce valori etici fondanti e quindi non conosce realmente neanche un perché della vita

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umana, anche della vita politica, non è sufficiente. Perciò per un non credente che non riconosce la trascendenza, resta questo grande desiderio di trovare qualcosa di assoluto ed un senso morale del suo agire.

I sommovimenti noglobal di questi anni sono di nuovo una trasposizione della sete d'assoluto in un obiettivo politico ?

Direi di sì. È sempre questa sete, perché l'uomo ha bisogno dell'assoluto e se non lo trova in Dio lo crea nella storia.

Sempre a proposito del tema del relativismo. Tutti gli usi e i costumi e le civiltà debbono comunque essere sempre rispettate a priori oppure c'è un canone minimo di diritti e doveri che deve valere per tutti.

Ecco, questo è l' altro aspetto della medaglia. Prima abbiamo constatato che la politica è il mondo dell'opinabile, del perfettibile, dove si devono cercare con le forze della ragione le strade migliori, senza assolutizzare un partito o una ricetta. Tuttavia è anche un campo etico, la politica, perciò non può alla fine comportare un relativismo totale dove, per esempio, uccidere e creare pace hanno la stessa legittimità. Abbiamo in diversi documenti della nostra Congregazione sottolineato questo fatto, pur riconoscendo totalmente l'autonomia politica.

Dunque non tutto è permesso.

Abbiamo sempre detto che neanche la maggioranza è l'ultima istanza, la legittimazione assoluta di tutto, in quanto la dittatura della maggioranza sarebbe ugualmente pericolosa come le altre dittature. Perché potrebbe un giorno decidere, per esempio, che vi sia una "razza" da escludere per il progresso della storia, aberrazione purtroppo già vista. Quindi, ci sono limiti anche al relativismo politico. Il limite è delineato da alcuni valori etici fondamentali che sono proprio la condizione di questo pluralismo. E sono quindi obbligatori anche per le maggioranze.

Qualche esempio ?

Sostanzialmente il Decalogo offre in sintesi queste grandi costanti.

Torno a un altro aspetto del "relativismo culturale". Anche fra i cattolici c'è chi considera la missione quasi una violenza psicologica nei confronti di popoli che hanno un'altra civiltà.

Se uno pensa che il cristianesimo sia solo il suo proprio mondo tradizionale evidentemente sente così la missione. Ma si vede che non ha capito la grandezza di questa perla, come dice il Signore, che gli si dona nella fede. Naturalmente, se fossero solo tradizioni nostre, non si potrebbero portare ad altri. Se invece abbiamo scoperto, come dice San Giovanni, l'Amore, se abbiamo scoperto il volto di Dio, abbiamo il dovere di raccontare agli altri. Non posso mantenere solo per me una cosa grande, un amore grande, devo comunicare la Verità. Naturalmente nel pieno rispetto della loro libertà, perché la verità non s'impone con altri mezzi che con la propria evidenza e solo offrendo questa scoperta agli altri - mostrando cosa abbiamo trovato, che dono abbiamo in mano, che è destinato a tutti - possiamo annunciare bene il cristianesimo, sapendo che suppone l'altissimo rispetto della libertà dell'altro, perché una conversione che non fosse basata sulla convinzione interiore - "ho trovato quanto desideravo"- non sarebbe una vera conversione.

Di recente è venuto alla luce sulla stampa un fenomeno doloroso: la conversione di tanti immigrati che provengono dall'islam, e che - oltre a trovarsi in pericolo - si ritrovano soli, non

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accompagnati dalla comunità cristiana.

Sì, ho letto e mi addolora molto. E' sempre lo stesso sintomo, il dramma della nostra coscienza cristiana che è ferita, che è insicura di sè. Naturalmente dobbiamo rispettare gli stati islamici, la loro religione, ma tuttavia anche chiedere la libertà di coscienza di quanti vogliono farsi cristiani e con coraggio dobbiamo anche assistere queste persone, proprio se siamo convinti che hanno trovato qualcosa che è la risposta vera. Non dobbiamo lasciarli soli. Si deve fare tutto il possibile perchépossano in libertà e con pace vivere quanto hanno trovato nella religione cristiana.

© Copyright Il Giornale, 26 novembre 2003

J. Ratzinger ricorda gli anni del Concilio: la riforma liturgica e la discussione sulle "fonti della rivelazione":Scrittura e Tradizione (La mia vita)

Grazie al sapiente lavoro della nostra Gemma, possiamo leggere alcune pagine dell'autobiografia di Benedetto XVI. Si tratta di una fonte preziosa, utile per capire come si sono svolti i lavori del Concilio ed il ruolo che ebbe il teologo Ratzinger nella stesura della " Dei Verbum " .Grazie ancora a Gemma :-)Raffaella

da " La mia vita. Ricordi (1927-1977) "

……..La prima questione che si poneva, era come cominciare il Concilio, quale compito si dovesse più precisamente attribuirgli. Il Papa aveva indicato solo in termini molto generali la sua intenzione riguardo al Concilio lasciando ai Padri uno spazio quasi illimitato per la concreta configurazione: la fede doveva tornare a parlare a questo tempo in modo nuovo, mantenendo pienamente l’identità dei suoi contenuti, e, dopo un periodo in cui ci si era preoccupati di fare definizioni restando su posizioni difensive, non si doveva più condannare, ma “usare la medicina della misericordia”. C’era, certo, un tacito consenso circa il fatto che la Chiesa sarebbe stato il tema principale dell’adunanza conciliare, che in tal modo avrebbe ripreso e portato a termine il cammino del concilio Vaticano I, precocemente interrotto a causa della guerra franco-prussiana del 1870. I cardinali Montini e Suenens predisposero dei piani per un impianto teologico di vasto respiro dei lavori conciliari, in cui il tema “Chiesa” doveva essere articolato nelle questioni “Chiesa

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ad intra” e “Chiesa ad extra”.La seconda articolazione tematica doveva permettere di affrontare le grandi questioni del presente dal punto di vista del rapporto Chiesa-mondo. Per la maggioranza dei padri conciliari la riforma proposta dal movimento liturgico non costituiva una priorità, anzi per molti di loro essa non era nemmeno un tema da trattare. Per esempio, il cardinale Montini, che poi come Paolo VI sarebbe divenuto il vero papa del Concilio, presentando una sua sintesi tematica all’inizio dei lavori conciliari aveva detto con chiarezza di non riuscire a trovare qui alcun compito essenziale per il Concilio. La liturgia e la sua riforma erano divenute, dalla fine della prima guerra mondiale, una questione pressante solo in Francia e in Germania, e più precisamente nella prospettiva di una restaurazione la più pura possibile dell’antica liturgia romana; a ciò si aggiungeva anche l’esigenza di una partecipazione attiva del popolo all’evento liturgico. Questi due paesi, allora teologicamente in primo piano (a cui bisognava ovviamente associare il Belgio e l’Olanda), nella fase preparatoria erano riusciti a ottenere che venisse elaborato uno schema sulla sacra liturgia, che si inseriva piuttosto naturalmente nella tematica generale della Chiesa. Che, poi, questo testo sia stato il primo a essere esaminato dal Concilio non dipese per nulla da un accresciuto interesse per la questione liturgica da parte della maggioranza dei Padri, ma dal fatto che qui non si prevedevano grosse polemiche e che il tutto veniva in qualche modo considerato come oggetto di un’esercitazione, in cui si potevano apprendere e sperimentare i metodi di lavoro del Concilio. A nessuno dei Padri sarebbe venuto in mente di vedere in questo testo una “rivoluzione”, che avrebbe significato “la fine del medioevo”, come nel frattempo alcuni teologi hanno ritenuto di dover interpretare. Il tutto, poi, era visto come una continuazione delle riforme avviate da Pio X e portate avanti, con prudenza, ma anche con risolutezza, da Pio XII. Le norme generali come “i libri liturgici siano riveduti quanto prima” (n. 25) intendevano appunto dire: in piena continuità con quello sviluppo che vi è sempre stato e che con i pontefici Pio X e Pio XII si è configurato come riscoperta delle classiche tradizioni romane. Ciò comportava naturalmente anche il superamento di alcune tendenze della liturgia barocca e della pietà devozionale del secolo XIX, promuovendo una sobria sottolineatura della centralità del mistero della presenza di Cristo nella sua Chiesa.In questo contesto non sorprende che la “messa normativa”, che doveva subentrare all’Ordo missae precedente, e di fatto poi vi subentrò – venne respinta dalla maggioranza dei Padri convocati in un sinodo speciale nel 1967. Che poi, alcuni (o molti?) liturgisti, che erano presenti come consulenti, avessero fin dal principio intenzioni che andavano molto più in là, oggi lo si può dedurre da certe loro pubblicazioni; sicuramente, essi però non avrebbero avuto il consenso dei Padri conciliari a questi loro desideri. In ogni caso di essi non si parla nel testo del Concilio, anche se in seguito si è cercato di trovarne a posteriori le tracce in alcune delle norme generali.

Il dibattito sulla liturgia fu tranquillo e procedette senza vere tensioni. Vi fu, invece, uno scontro drammatico quando venne presentato per la discussione il documento sulle “fonti della rivelazione”. Per “fonti della rivelazione” si intendevano la Scrittura e la tradizione; il rapporto tra loro e con il magistero aveva trovato una solida trattazione nelle forme della scolastica post-tridentina, sul modello dei manuali allora in uso. Nel frattempo però, il metodo storico-critico dell’esegesi biblica aveva trovato un suo posto stabile anche all’interno della teologia cattolica. Di per sé questo metodo, per sua stessa natura, non tollera alcuna delimitazione a opera di un magistero autoritativo: esso non può, cioè, riconoscere alcuna istanza diversa da quella dell’argomento storico. Di conseguenza anche il concetto di tradizione era divenuto problematico, dato che, partendo dal metodo storico, non si riesce a comprendere una tradizione orale, che procede accanto alla Scrittura e risale fino agli Apostoli, che possa rappresentare una fonte di conoscenza storica accanto alla Bibbia: proprio questo aveva già reso tanto difficile e insolubile la disputa sul dogma dell’assunzione corporea di Maria in cielo. Con questo testo era quindi in discussione tutto il problema dell’esegesi biblica moderna, ma soprattutto

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la questione di come storia e spirito possano rapportarsi e comporsi nella struttura della fede.Determinante per la forma concreta che assunse questo dibattito si rivelò una presunta scoperta storica che il teologo di Tubinga, J.R. Geiselmann, riteneva di aver fatto negli anni cinquanta. Negli atti del concilio di Trento egli aveva scoperto che, nell’elaborazione del decreto sulla tradizione, in un primo tempo era stata proposta una formula secondo cui la rivelazione sarebbe “in parte nella Scrittura, in parte nella tradizione”. Nel testo finale. Però l”in parte-in parte” fu evitato e sostituito da “e”.Scrittura e tradizione ci trasmettono insieme la rivelazione. Geiselmann ne traduceva che Trento aveva voluto insegnare che non esiste alcuna divisione dei contenuti della fede tra Scrittura e tradizione , ma che, piuttosto, ambedue –Scrittura e tradizione – contengono, ciascuna per conto proprio, il tutto, siano cioè in se stesse complete. Ora, però, in quel momento non interessava la presunta o reale completezza della tradizione; quel che interessava era l’affermazione che secondo la dottrina di Trento la Scrittura conteneva l’intero deposito della fede. Si parlava della “completezza materiale” della Bibbia nelle questioni di fede.Questa formula, che ora girava dappertutto e che era considerata la nuova, grande scoperta, si svincolò ben presto dal suo punto di partenza, che era l’interpretazione del decreto tridentino.L’inevitabile conseguenza fu che si cominciò a ritenere che la Chiesa non potesse insegnare nulla che non fosse espressamente rintracciabile nella Sacra Scrittura, dato che quest’ultima contiene appunto in modo completo tutto ciò che riguarda la fede. E dato che interpretazione della Scrittura ed esegesi storico-critica venivano identificate, ciò significava che la Chiesa non poteva insegnare nulla che non reggesse alla prova del metodo storico-critico. Con ciò era ampiamente messo in ombra il principio luterano della “sola Scriptum”, che era poi ciò di cui si sera trattato a Trento. Infatti, questa nuova tendenza significativa che nella Chiesa l’esegesi doveva diventare l’ultima istanza, ma, dato che per la stessa natura della ragione umana e della ricerca storica non può sussistere la piena unanimità tra gli esegeti di testi tanto difficili (poiché in gioco ci sono sempre delle opzioni pregiudiziali, siano esse consce o inconsce), la conseguenza era che la fede doveva ritrarsi nell’indeterminatezza e nella continua mutabilità di ipotesi storiche o apparentemente tali:alla fine “credere” significava qualcosa come “ritenere”, aver un’opinione soggetta a continue revisioni. Naturalmente il Concilio dovette opporsi a teorie così formulate, ma nell’opinione pubblica ecclesiale la parola d’ordine della “completezza materiale”, con tutte le sue conseguenze, era ben più forte del testo finale del Concilio. Il dramma dell’epoca postconciliare è stato ampiamente determinato da questa parola d’ordine e dalle sue conseguenze logiche. Personalmente avevo già avuto modo di conoscere le tesi di Geiselmann nell’aprile del !956 , durante il già citato convegno dogmatico di Konigstein, in cui il professore di Tubinga presentò per la prima volta la sua presunta scoperta (che, peraltro, egli non estendeva fino alle conseguenze fin qui descritte, che si sono sviluppate in questi termini solo nella “propaganda conciliare”).All’inizio ne fui affascinato, ma molto presto mi balzò agli occhi che il grande tema del rapporto tra Scrittura e tradizione non poteva essere risolto in maniera così semplice. In seguito ho io stesso minuziosamente studiato gli atti di Trento e ho potuto constatare che la variante redazionale, che Geiselmann considerava di importanza centrale, non era stata che un insignificante aspetto secondario nel dibattito tra i Padri conciliari, che si spinse molto più a fondo per illuminare la questione fondamentale di come la rivelazione possa tradursi in parola umana e, quindi, in parola scritta. In questo fui aiutato dalle mie conoscenze acquisite con i miei studi sul concetto di rivelazione di Bonaventura. Trovai che l’orientamento di fondo dei Padri di Trento nel modo di pensare la rivelazione nella sostanza era rimasto lo stesso del tardo medioevo. Proprio a partire da queste acquisizioni, che ora non posso certo sviluppare oltre, le mie obiezioni nei confronti dello schema conciliare che ci era stato sottoposto erano di tutt’altra natura rispetto alle tesi sostenute da Geiselmann e alla loro grossolana volgarizzazione nell’eccitato clima conciliare. Tuttavia vorrei

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almeno accennare al suo aspetto essenziale: la rivelazione, cioè il volgersi di Dio verso l’uomo, il Suo venirgli incontro è sempre più grande di quanto può essere espresso in parole umane, più grande anche delle parole della Scrittura.

Come si è già visto a proposito dei miei lavori su Bonaventura, nel medioevo e a Trento sarebbe stato impossibile definire la Scrittura semplicemente come “la rivelazione”, come oggi invece avviene nel linguaggio corrente. La Scrittura è la testimonianza essenziale della rivelazione, ma la rivelazione è qualcosa di vivo, di più grande – perché sia tale essa deve giungere a destinazione e deve essere percepita, altrimenti essa non è divenuta “rivelazione”. La rivelazione non è una meteora precipitata sulla terra, che giace da qualche parte come una massa rocciosa da cui si possono prelevare dei campioni di minerale, portarli in laboratorio e analizzarli. La rivelazione ha degli strumenti, ma non è separabile dal Dio vivo, e interpella sempre la persona viva a cui essa giunge.

Il suo scopo è sempre quello di raccogliere gli uomini , di unirli tra loro – per questo essa implica la Chiesa. Ma se si da questa sporgenza della rivelazione rispetto alla Scrittura, allora l’ultima parola su di essa non può venire dall’analisi dei campioni minerali – il metodo storico-critico - , ma di essa fa parte l’organismo vitale della fede di tutti i secoli.Proprio questa sporgenza della rivelazione sulla Scrittura, che non può a sua volta essere espressa in un codice di formule, è quel che noi chiamiamo “tradizione”. Nel clima generale del 1962, che si era impadronito delle tesi di Geiselmann nella forma sopra descritta, mi fu impossibile far comprendere questa mia prospettiva, che avevo acquisito dallo studio delle fonti e rispetto alla quale, del resto, già nel 1956, non ero stato capito. La mia posizione venne semplicemente annoverata nell’opposizione generale allo schema ufficiale e valutata come un’altra voce in direzione di Geiselmann.

Per desiderio del cardinale Frings, misi allora per iscritto un piccolo schema, in cui cercavo di esprimere la mia prospettiva; alla sua presenza, potei quindi leggere quel testo a un gran numero di influenti cardinali, che lo trovarono interessante, ma sul momento non vollero, né potevano esprimere alcun giudizio in proposito.

Ora, quel piccolo saggio era stato scritto in gran fretta e non poteva nemmeno lontanamente competere per solidità e precisione con lo schema ufficiale, che aveva avuto origine in un lungo processo di elaborazione ed era passato attraverso molte revisioni di studiosi competenti. Era chiaro che il testo doveva essere ulteriormente elaborato e approfondito.

Un simile lavoro richiedeva l’intervento anche di altre persone. Fu dunque stabilito che io redigessi insieme con Karl Rahner, una seconda redazione, più approfondita.

Questo secondo testo, che va ascritto molto più a Rahner che a me, fu poi fatto circolare tra i Padri e suscitò in parte delle aspre reazioni. Lavorando insieme con lui, mi resi conto che Rahner e io, benché ci trovassimo d’accordo su molti punti e in molte aspirazioni, dal punto di vista teologico vivevamo su due pianeti diversi. Anch’egli, come me, era impegnato a favore di una riforma liturgica, di una nuova collocazione dell’esegesi nella Chiesa e nella teologia e di molte altre cose, ma le sue motivazioni erano parecchio diverse dalle mie. La sua teologia – malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni – era totalmente caratterizzata dalla tradizione della scolastica suareziana e dalla sua nuova versione alla luce dell’idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica in cui, alla fin fine, la Scrittura e i Padri non avevano una parte tanto importante, in cui, soprattutto la dimensione storica era di scarsa importanza.

Io, al contrario, proprio per la mia formazione, ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai

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Padri, da un pensiero essenzialmente storico: in quei giorni ebbi la chiara percezione di quale fosse la differenza tra la scuola di Monaco, da cui io ero passato, e quella di Rahner, anche se dovette passare ancora qualche tempo prima che la distanza che separava le nostre strade fosse pienamente visibile all’esterno.

Ora era chiaro che lo schema di Rahner non poteva essere accolto, ma anche il testo ufficiale andò incontro alla bocciatura con un’esigua differenza di voti. Si dovette quindi procedere al rifacimento del testo. Dopo complesse discussioni, solo nell’ultima fase dei lavori conciliari si potè arrivare all’approvazione della Costituzione sulla parola di Dio, uno dei testi di spicco del Concilio, che peraltro non è stato ancora recepito appieno.

All’inizio si impose in pratica solo quello che era passato come la presunta novità nel modo di pensare questi argomenti da parte dei Padri. Il compito di comunicare le reali affermazioni del Concilio alla coscienza ecclesiale e di plasmarla a partire da queste ultime è ancora da realizzare.

da Joseph Ratzinger "La mia vita: ricordi, 1927-1977", Edizioni San Paolo, 1997. Pubblicato da Roberta a 15.45 Link a questo post

Card. Ratzinger: "Lo sguardo dei Magi arrivava lontano: erano persone che andavano alla ricerca di Dio e quindi di se stesse..." (Sul Natale)

Grazie alla nostra grandissima Gemma possiamo leggere la straordinaria omelia che il cardinale Ratzinger presso la chiesa collegiata di Berchtesgaden, il 6 gennaio 1994, Solennita' dell'Epifania del Signore.E' stato difficilissimo trovare un titolo a questo post perche' ogni parola, ogni frase, del futuro Papa merita attenzione e riflessione.Grazie ancora a Gemma :-)Raffaella

Da " Sul Natale " :

“Abbiamo visto una stella”

Nel novembre scorso ho potuto visitare con i miei collaboratori l’osservatorio astronomico pontificio di Castel Gandolfo, un tempo molto famoso. Abbiamo visto i potenti telescopi con i quali i dotti padri, fino a poco tempo fa, cercavano di studiare la carta del cielo. Oggi tutte queste strutture non sono altro che un museo. Non che gli strumenti non siano più in grado di

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funzionare, ma le luci sulla città di Roma e su quasi tutta l’Europa occidentale sono diventate talmente forti che ormai è praticamente impossibile vedere le stelle; l’esplorazione del cielo non può più essere fatta con quei mezzi. Ci si dovrebbe recare in una zona remota e disabitata dell’America e proseguire lì l’esplorazione.

La luce degli uomini – la luce prodotta da noi – nasconde alla vista le luci del cielo. Le nostre luci nascondono le stelle di Dio. E’ quasi una metafora: a causa delle troppe cose che abbiamo creato riusciamo a malapena a riconoscere la creazione di Dio e le sue tracce.

Ed ecco questi uomini venuti dall’Oriente, che dicono di sé: “Abbiamo visto la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”. Che genere di persone erano, e che specie di stella era quella?La nuova versione della Sacra Scrittura ha tradotto il termine “magoi”, “magi”, con “astrologi”, ma quegli uomini non erano sicuramente né maghi intenzionati a impossessarsi di Dio e del mondo, né astronomi nel significato che oggi la scienza dà a questo termine, né astrologi desiderosi di sondare i misteri del futuro e di vendere la conoscenza che ne avrebbero potuto trarre.

Erano persone che andavano in cerca di qualcosa di più, andavano in cerca della vera luce che ci indica la strada sulla quale dobbiamo camminare nella nostra vita. Erano persone convinte che la firma di Dio è riportata nella creazione e che noi dobbiamo (e possiamo) tentare di decifrarla. Che a noi è dato di trovare le tracce di Dio e farci guidare da esse per arrivare alla vera vita.

Non erano dunque avventurieri come i circumnavigatori del globo dell’età moderna, che volevano ottenere nuove conoscenze sul mondo e crearsi in tal modo una fama. E neppure c’era in loro quella curiosità tipica della scienza, che invia razzi nel cosmo per strappargli i suoi segreti più reconditi. Il loro sguardo arrivava molto più lontano. Erano persone che andavano alla ricerca di Dio e quindi andavano alla ricerca di se stesse. Erano sulle tracce di Abramo, che aveva acconsentito a che la voce di Dio lo chiamasse e per amor suo si era fatto pellegrino. Erano persone dal cuore irrequieto, alle quali non bastava la carta geografica e il puro e semplice sapere erudito, che cercavano invece l’autentica saggezza che insegnasse loro come si deve vivere, come si fa a essere uomini.

Forse ciò che ci permette di comprendere meglio quello che di particolare e di caratteristico avevano quegli uomini misteriosi è il modo, opposto al loro, di concepire la vita che trovarono a Gerusalemme.

Prima di tutto, Erode. Egli è senz’altro interessato al bambino, ma non per adorarlo, come egli afferma, bensì per eliminarlo. Erode è l’uomo di potere, che nell’altro riesce a vedere soltanto il rivale. E in fondo egli considera anche Dio come un rivale, anzi, come il rivale più pericoloso, che vorrebbe togliere agli uomini lo spazio vitale e la volontà individuale e non vuole riconoscere loro la possibilità di disporre di sé come meglio credono.

Perciò per lui Dio deve essere eliminato e le persone devono essere ridotte a semplici pedine nel gioco di potere che lui, Erode, sta tramando. E’ facile giudicare negativamente un sovrano così brutale, ma penso che dovremmo chiederci se non ci sia qualcosa di Erode anche in noi. Se anche noi non consideriamo Dio un rivale nella nostra vita, un rivale che pone dei limiti che ci impediscono di volere e di fare quello che ci piacerebbe e che riduce la possibilità di disporre della vita a nostro piacimento.

E così ci sentiamo profondamente irritati e scontenti, perché nella nostra ribellione siamo contro ciò

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che sta a fondamento di tutte le cose. E possiamo trovare una rappacificazione e una via d’uscita soltanto se smettiamo di essere ossessionati dall’idea della rivalità e se riconosciamo che l’amore onnipotente non ci toglie niente, non ci minaccia, ama anzi è la sola cosa che ci offre lo spazio in cui possiamo realmente vivere.

Per quanto riguarda gli abitanti di Gerusalemme, non dobbiamo condannarli! Erano persone come noi, tra loro c’erano dei buoni e dei cattivi. A loro bastavano le preoccupazioni, le fatiche e le piccole gioie della vita di tutti i giorni, non avevano tempo e forze per guardare più in alto. Anche a noi succede spesso di affogare nel tran tran quotidiano e di non voler aspirare a cose più grandi e più elevate, al cammino che conduce a Dio.

Infine gli eruditi, i teologi, gli specialisti della Sacra Scrittura che sanno tutto su di essa, che ne conoscono ogni possibile interpretazione, che sono in grado di citarne a memoria ogni passo e che pertanto sono davvero l’aiuto a chi si mette in ricerca. Ma, come dice Agostino, essi sono guide per gli altri.Indicano la via, ma restano fermi. In fondo per essi la Scrittura era solo un atlante per la loro curiosità, una quantità di concetti da passare al vaglio e sui quali discutere.

L’idea che la Scrittura non dovesse soltanto essere conosciuta e discussa, ma anche essere vissuta non veniva loro più mente. E di nuovo la domanda è rivolta a noi: non siamo anche noi tentati di ritenere la Sacra Scrittura, la fede della Chiesa, più un oggetto di discussione che una via che conduce alla vita? Tra coloro che sapevano ma non agivano in base alle loro conoscenze e coloro che non sapevano ma trovavano la via andandone in cerca, anche noi dobbiamo riconoscere che Cristo non ha voluto la Chiesa perché discutesse la parola di Dio, ma perché fosse un luogo in cui quella parola veniva vissuta.Nei nostri cuori dovrebbe nascere nuovamente la disponibilità a considerare la parola della Bibbia non come un oggetto di curiosità, accanto a molti altri, ma come la verità che ci dice che cosa è un uomo e come può diventare retto, la verità che è la via e che perciò interpella la nostra esistenza e riceve una risposta appropriata soltanto nella vita e nel cammino condivisi con gli altri.

Possiamo immaginare che i Magi abbiano dovuto subire derisioni di ogni sorta.Stando a quanto si dice, in Israele sarebbe nato il re del mondo e costoro si mettono in cammino seguendo le indicazioni di una qualche stella. Alle persone dabbene tutto ciò sembra quanto mai assurdo e puerile.I Magi sono certamente stati presi in giro. Hanno dovuto subire anch’essi la sorte di Abramo, che aveva detto di sé quello che ripetevano i primi cristiani: “Siamo pellegrini e forestieri in questo mondo”, siamo visti come estranei che non fanno del tutto parte di questa società. Ma per i Magi non era granchè importante quello che la gente raccontava sul loro conto, quello che su di loro diceva la pubblica opinione, che cambia quasi da un giorno all’altro. Per essi era importante quello che è vero e dà la vita autentica, e per questo prendevano di buon grado su di sé le beffe della gente.

E ancora una volta essi ci provocano e ci sfidano anche oggi . Proprio oggi è di nuovo rischioso vivere davvero la fede, ritenere la parola della Chiesa non una teoria tra le altre, magari ampiamente superata, ma osare veramente essere cristiani, con le esigenze che questa realtà porta con sé, credere e vivere da cristiani. Perciò anche oggi si è visti come delle persone strane e si è spesso esposti alla derisione, anche oggi si è in certo qual modo pellegrini e forestieri.

Ma è proprio questo quello che ci occorre per andare oltre il conformismo, per attingere la verità e la vera dimensione dell’essere uomo che Dio ci ha riservato. Tale dimensione consiste nel fatto che diventiamo simili a Dio, poiché la sua verità e il suo amore diventano la nostra luce e la

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nostra vita.

Così anche oggi deve essere valido per noi il tema che ricorre in tutta la Scrittura:non abbiamo quasi una dimora stabile, andiamo in cerca di quella futura.Siamo riconoscenti per la bella patria che ci è stata data in sorte, ma che è diventata bella proprio perché gli uomini hanno saputo guardare al di là di essa e l’hanno provvista del segnavia dell’eternità. E continua a rimanere bella soltanto se noi continuiamo nel nostro cammino, in modo che la luce della città futura illumini le nostre città, le nostre piazze e i nostri villaggi.Ed eccoci così alla seconda domanda. Che stella era quella che i magi hanno visto? Nel corso dei secoli vi sono stati al riguardo accesi dibattiti tra gli astronomi. Keplero ha detto che doveva essere una nova o una supernova, vale a dire una di quelle stelle che in genere emanano una luce fioca, ma nelle quali una violenta esplosione interna, libera rapidamente una luminosità eccezionale. Altri hanno detto che doveva essere la cometa di Halley, altri ancora una congiunzione di Giove e Saturno. Sono tutti pareri interessanti, che però non ci portano all’essenziale.

Quegli uomini volevano riconoscere le tracce di Dio.Erano convinti che i cieli annunciano la grandezza di Dio e che Dio può essere visto nel creato. Erano convinti che non chi cerca con un cannocchiale qualsiasi, ma soprattutto chi usa il cannocchiale del cuore, del suo desiderio di Dio mosso dalla fede, può trovarlo ed è in grado di avvicinarsi a lui. Il mondo non è soltanto un prodotto del caso, come molte teorie ci vogliono far credere. Tramite esso si intravede qualcosa di più: il discernimento del creatore, l’infinita e inesauribile fantasia di Dio, l’amore con cui egli ha preparato questo mondo per noi. Oggi non dovremmo lasciarci ottundere la mente da teorie che possono arrivare soltanto fino a un certo punto e che – a ben guardare – non sono affatto in concorrenza con la fede. Non possiamo fare a meno di vedere nella bellezza del mondo, nel suo mistero, nella sua grandezza e nella sua razionalità la razionalità eterna, e non possiamo fare a meno di lasciarci sempre di nuovo condurre da essa all’unico Dio, creatore del cielo e della terra. Se faremo ciò, constateremo anche che colui che ha creato il mondo e colui che è nato a Betlemme e nell’Eucaristia dimora in mezzo a noi sono lo stesso Dio vivente che ci chiama e che ci vuole preparare per la vita eterna.Così, con i Magi, si è avverata per la prima volta la parola che poi si realizzerà sempre più lungo tutti isecoli: verranno da Oriente e Occidente, da Nord e da Sud, e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe.

Ciò significa non solo che i cristiani, i chiamati da Dio, verranno da tutti i punti cardinali, ma anche che i segnavia conducono a Dio da qualsiasi provenienza spirituale, dalla scienza, dalle religioni. E che in ogni cuore umano è impressa quella stessa che alla fine arriva a Betlemme e che ci indica che lì c’è colui che tutte le cose attendono nella pace.

Ma ecco che ora quegli uomini arrivano a Gerusalemme, e sopra la grande città la stella si spegne, non è più visibile. Che significa? Certo a quel tempo Gerusalemme non era illuminata come oggi lo è Roma, e le luci della città non avrebbero di sicuro nascosto le stelle. In questo caso abbiamo a che fare con qualcosa di diverso e più profondo.Quegli uomini avevano considerato ovvio che il nuovo re sarebbe nato nel palazzo reale. Avevano considerato ovvio che il nuovo re, che era la saggezza e la fonte di ogni conoscenza, si sarebbe dovuto trovare là dove si trovavano gli eruditi. Ma dovettero constatare che nei luoghi del potere e della cultura il neonato non era rintracciabile, anche se lì venivano fornite loro informazioni su di lui. Dovettero riconoscere che Dio è molto diverso da come se l’erano immaginato, che non si trova affatto dove c’è il potere di questo mondo e che neppure si fa rintracciare nella scienza o nella teologia. Dovettero anzi riconoscere che il potere, anche il potere della conoscenza, speso gli sbarra

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la strada. Dovettero cambiare il loro modo di pensare e di vedere le cose, lasciare che la loro stessa esistenza mutasse. Dovettero recarsi a Betlemme, la piccola città che anticamente era una delle meno importanti in Israele, ma che da allora in poi non lo sarebbe mai più stata. E anche lì dovettero andare a far visita agli immigrati, ai più poveri, per rintracciare il re del mondo. Dovettero riconoscere che i criteri di Dio sono molto diversi da quelli degli uomini, che Dio non si manifesta nella potenza di questo mondo, ma si rivolge a noi in modo del tuttodifferente: nell’umiltà del suo amore, che solo può chiedere alla nostra libertà di accoglierlo, trasformandoci e facendoci così diventare capaci di arrivare a lui.

Neppure per noi le cose sono diverse da come lo erano per i Magi. Se dovessimo esprimere la nostra opinione sul modo in cui Dio avrebbe dovuto redimere il mondo, diremmo che avrebbe dovuto eliminare con il suo potere le cose come sono adesso e instaurare con precisione scientifica un sistema economico mondiale più giusto, in modo che tutti potessero avere tutto ciò che desideravano. Questo è il nostro modo di pensare.

In realtà si tratterebbe di una violenza operata sull’uomo e di un’alienazione, perché in questo modo nell’uomo verrebbero meno proprio le sue caratteristiche autentiche. Infatti né la nostra libertà né il nostro amore sarebbero chiamati in causa. Per questo la potenza di Dio deve manifestarsi in maniera differente: a Betlemme, nell’umile impotenza del suo amore. Là noi andiamo, là è la stella. Chiediamo al Signore che ci conceda di continuare a vivere questo processo di trasformazione che nella vita non ha mai fine. Che impariamo a conoscere in modo sempre nuovo quest’altro Dio, che troviamo il coraggio di liberarci delle nostre fantasie e dei nostri sogni e che cerchiamo questo coraggio nell’umiltà della fede.Appare così evidente il secondo aspetto relativo ai fatti accaduti a Gerusalemme: il linguaggio del creato e i simboli delle religioni permettono di percorrere un buon tratto di strada, ma non danno l’illuminazione definitiva. Alla fine i Magi hanno avuto bisogno della voce della Sacra Scrittura. In fondo soltanto essa poteva indicare loro il cammino. La parola di Dio è la vera stella, la parola di Dio è la grande nova in cui all’improvviso, dall’incertezza del discorso degli uomini, erompe l’infinita luminosità della verità divina che ci guida. Seguiamo quella nova, la stella della parola di Dio. Se viviamo con essa nella Chiesa di Dio, in cui la parola ha piantato la sua tenda, siamo sulla retta via. Troviamo allora quella chiarezza che tutti gli altri segni non possono dare.

La festa dell’Epifania, come il Natale, ha influenzato profondamente il nostro paese con le sue usanze. Sulle porte delle nostre case scriviamo il numero dell’anno in cui stiamo vivendo e le lettere C+M+B, che stanno a significare Christus mansionem benedicat, “Cristo benedica questa nostra dimora”. Chiediamogli di abitare con noi, chiediamogli di proteggere la nostra casa e di tenere lontano da essa ogni male, ogni minaccia e rovina. Chiediamogli di spalancare la nostra casa allo spirito del vero amore, di farla diventare la casa dell’ospitalità, nella quale ci sentiamo legati da reciproco affetto. Diventiamo insieme pellegrini dell’eternità.Ma quelle tre lettere sono anche le iniziali del nome dei tre Magi, che sono ricordati già nella prima metà del II secolo, anche se in forma un po’ diversa, e ciò sta anche a significare che vogliamo sentirci legati a quei Magi venuti dall’Oriente. Che, pur restando nelle nostre dimore e pur essendo riconoscenti per il riparo che ci offrono, vogliamo essere nomadi, pellegrini che vanno dietro alla stella. E se osserviamo bene come stanno le cose, possiamo dire che nel corso dei secoli i Magi venuti dall’Oriente sono essi stessi diventati stelle che ci guidano e ci mostrano dov’è Cristo. I santi sono come nove, sono persone che grazie a un’esplosione di luce, per virtù della parola di Dio, cominciano a irradiare lo splendore della verità divina che ci indica la strada.

Ed ecco l’ultima esortazione: il Signore vuole che anche noi diventiamo stelle, che anche in noi si verifichi quella sconvolgente esplosione della fede grazie alla quale si libera la luce che Lui ha fatto scendere su di noi, affinché troviamo la strada e diventiamo segnavia per gli altri. Questo è

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quanto chiediamo al Signore in questo giorno di festa.Amen.

Omelia per l’Epifania del 1994, tenuta dal cardinale Ratzinger presso la chiesa collegiata di Berchtesgaden

Card. Ratzinger: "Il Battesimo è l'arcobaleno di Dio sulla nostra vita, la promessa del suo grande sì, la porta della speranza...("Sul Natale")

Grazie al grande lavoro del nostro Marco, possiamo leggere il testo della bellissima omelia che l'allora cardinale Ratzinger pronuncio' il 7 gennaio 1990 a Berchtesgaden (Baviera) in occasione della Solennita' del Battesimo di Gesu'.Grazie ancora a Marco :-)Raffaella

SANTA MESSA NELLA FESTA DEL BATTESIMO DI GESU'

OMELIA DI SUA EMINENZA CARD. JOSEPH RATZINGER

Chiesa Collegiata di BerchtesgadenDomenica, 7 gennaio 1990

Cari fratelli e sorelle!

In tutte le solennità del tempo natalizio ci troviamo di fronte allo stesso concetto, quello dell'Epifania, vale a dire dell'apparizione della luce di Dio in questo mondo. Così queste solennità rispondono ad una domanda e a un'esigenza che nell'uomo sono sempre state vive e che anche oggi si pongono in maniera più o meno chiara, poiché sono insite nella nostra natura.

Anche se apparentemente il mondo di oggi vive molto lontano da Dio, anche se la parola di Dio sembra quasi diventata un forestierismo, tuttavia non possiamo fare a meno di chiederci se dietro a tutto quello che in esso c'è di grande, di bello e di terribile non ci sia la forza originaria del divino. Pertanto nel cuore dell'uomo resta indelebile anche il desiderio indelebile che questa forza, se esiste, si manifesti. Che la sua luce risplenda nell'oscurità delle nostre domande, perché si possa sapere da dove veniamo e dove andiamo, perché questa luce ci sia di conforto e al tempo stesso di guida.

Il ciclo delle solennità natalizie ci parla della nascita di Gesù nella stalla, annunciata dagli angeli circonfusi dallo splendore luminoso di Dio. Ci parla della stella che guida i Magi giunti dall'Oriente fino alla mangiatoia di Betlemme. E infine ci parla del cielo che apre sul Giordano e nel quale risuona la voce di Dio.

Sono tutti segni che ha posto nella storia e tramite i quali ci dice: "Si, sono qui. Vi conosco. Vi amo. C'è una strada che da me viene a voi. E c'è una strada che da voi sale a me." Dio ha assunto dimensioni per così dire umane nel bambino e nell'uomo Gesù, perché noi lo possiamo toccare, vedere e comprendere. E al tempo stesso, con questo suo farsi piccolo, ha fatto risplendere la luce della sua grandezza. Perché, proprio come colui che può permettersi di abbassarsi fino all'impotenza dell'amore, egli dimostra che cosa sia la vera grandezza, anzi, che cosa sia essere Dio.

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Il significato di tali solennità e in genere il significato dell'anno liturgico, è soltanto quello di avvicinarci ancora una volta a questi segni di Dio, al di là della nostra smemoratezza e del buio della nostra quotidianità, a questi segni che una volta per tutte sono impressi nella storia, affinché il nostro cuore si apra nuovamente e affinché li vediamo e ne siamo guidati.

Se il Natale e l'Epifania servono soprattutto a renderci capaci di vedere, ad aprirci gli occhi e il cuore, la festa del Battesimo di Gesù ci introduce alla quotidianità della vita. Infatti tramite il Battesimo, Gesù si è unito a noi, il Battesimo è per così dire il ponte che Egli ha costituito tra sé e noi, la strada tramite la quale diventa a noi accessibile.

Così il Battesimo di Gesù ci ricorda soprattutto il nostro Battesimo e ci chiede cosa è cambiato nella nostra vita con l'ingresso in essa di Dio. Ci chiede: "Che cosa significa in realtà per me essere battezzato?" Che cosa significa per me il Battesimo? Se siamo onesti dobbiamo rispondere che in realtà non significa gran che. Non lo comprendiamo bene. Abbiamo presente il significato della confessione, della prima comunione e della cresima, ma il nostro battesimo, posto com'è all'inizio della nostra vita, non fa parte dei nostri ricordi. E anche in occasione del Battesimo dei bambini di amici e parenti non sappiamo bene che cosa in effetti voglia dire questo rito, che cosa in esso avvenga in realtà. Oggi molti ritengono che il Battesimo sia modalità un po' superata per accogliere una persona in una comunità di fedeli. Pensano che probabilmente si facesse così perché la maggior parte delle persone non sapeva né leggere né scrivere. Oggi, secondo costoro, sarebbe molto più semplice valersi di una registrazione, un attestato o qualcosa del genere.

E poiché pensano in questa maniera, non fanno battezzare i loro figli, dicendo: "Lasciamo che siano loro stessi a decidere se un giorno vorranno entrare a far parte della comunità". Ma al di là dell'apparente rispetto per la libertà del bambino, dimenticano che non gli hanno chiesto se voleva venire al mondo. Siamo sicuri che egli volesse davvero entrare a far parte della vita degli uomini? E in effetti l'azzardo di vivere nell'ignoranza di un futuro a cui ci si sente estranei può essere giustificato soltanto se si è in grado di offrire al bambino che nasce qualcosa di più della semplice esistenza biologica. Soltanto se insieme alla vita che si affaccia a un futuro indefinibile si sa proporre anche un senso: una forza del bene che è più potente di tutte le eventuali minacce e pericoli a cui il bambino potrà essere esposto. Soltanto se si è in grado di offrire al bambino questa chance è giusto e ha senso decidere di metterlo al mondo.

Ed eccoci ora di fronte alla domanda a cui il Battesimo dà risposta. Poiché gli uomini nel loro intimo sentono l'importanza di questa domanda e la forza dirompente che ha in sé, esso desiderano qualcosa che assomigli al battesimo. Vogliono che il momento che una nuova creatura fa il suo ingresso nella vita acquisti un particolare risalto rispetto alla vita di tutti i giorni, vogliono che quel momento sia una festa al di là di quella che è la semplice sfera del privato, un giorno di gratitudine e di gioia per il fatto che è nata una nuova vita e con essa viene trasmessa una nuova speranza per il mondo e per la storia. Al tempo stesso in tale richiesta c'è anche un gesto di supplica rivolto all'ignoto, affinché il bambino sia tutelato e protetto. Con questo desiderio di innalzare un solenne ringraziamento e sottolineare l'efficacia di un gesto supplichevole rivolto all'ignoto, di fatto siamo già molto vicini a quello che è il Battesimo. Al di là di questo sentimento primordiale, nella storia degli uomini ci sono sempre stati tentativi di esprimere con rituali sacri la gratitudine e il bisogno di protezione del futuro. La nascita e la morte sono i due momenti in cui per un attimo le due mura della vita terrena per così dire si aprono e lasciano intravedere il diverso.

Di fronte alla morte sentiamo che c'è un limite al nostro fare e che andiamo verso l'ignoto, e affiora in noi il pensiero che forse ci verrà chiesto conto di cosa abbiamo fatto della nostra vita. Al momento della nascita vediamo che, con la nuova creatura che viene alla luce, ha fatto il suo

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ingresso nel mondo qualcosa che va ancora una volta al di là di quello che noi siamo in grado di produrre.

Perché il bambino è qualcosa di più della combinazione dei cromosomi del padre e della madre, qualcosa di più del frutto dell'unione di due persone, è qualcosa di completamente nuovo: non si può prevedere in anticipo come sarà. Non è semplicemente il prodotto di quelle due persone, è un nuovo essere vivente: si tratta di una creazione. Si tratta ancora una volta di un inizio, in virtù della potenza di Colui che con il suo fiat ha dato vita al mondo. Questo nuovo bambino non è una "proprietà" del padre e della madre; è affidato a loro, con la dignità del proprio io, dignità che i genitori devono proteggere e custodire, ma che, pur con le loro caratteristiche peculiari, devono rispettare proprio così com'è. Su questo si basa la responsabilità dei genitori, anzi di tutti gli uomini gli uni per gli altri. Da ciò deriva il fatto che ogni nuova creatura è una speranza per il mondo e al tempo stesso una questione aperta, piena di incognite e di pericoli.

Visto che riguardo all'uomo le cose stanno in questo modo, è per questo che egli ha bisogno del Battesimo, dell'intervento dell'altro. È per questo – l'ho già detto – che lungo la storia si sono susseguiti riti analoghi al Battesimo in un certo qual modo anticipazioni del mistero di Gesù Cristo. Ed è per questo che in seguito anche nelle società atee si sono avute imitazioni o scimmiottature del Battesimo. Perché mentre l'andare verso ciò che è ancora sconosciuto rappresenta realmente la mano dell'uomo tesa in un gesto di richiesta, ciò che avviene nelle società atee è vuota imitazione, che la miseria di un mondo senza Dio rende percepibile in maniera ancora più drastica. Quello che volevano rappresentare i riti del mondo pagano – gratitudine e al tempo stesso supplica – è ripreso nel Battesimo, che però è qualcosa di più di un gesto di supplica rivolto a ciò che è imperscrutabile. Esso è nello stesso tempo risposta e accettazione: adito ad una risposta che è già avvenuta. Perché da quando il Figlio si è fatto battezzare il cielo è realmente aperto e continua ad aprirsi. Da allora non lanciamo più il nostro grido all'ignoto, ma possiamo porre questa nuova vita nelle sue mani, nelle mani forti di Colui che è più forte delle potenze oscure del mondo. È lui stesso che accoglie una nuova vita tra le sue braccia.

Il Battesimo allora significa questo: che noi restituiamo a Lui quello che da Lui è venuto. Il bambino non è mio come può esserlo una somma di denaro o un oggetto qualsiasi. Egli non è mai proprietà di qualcuno. È affidato da Dio alla nostra responsabilità, liberamente e in modo sempre nuovo, affinché noi gli permettiamo di essere un libero figlio di Dio. Solo grazie a questa consapevolezza è possibile trovare la giusta via tra l'autoritarismo e la mancanza di autorità, tra la pretese che molti hanno di disporre dei propri figli come se fossero una loro proprietà, il tentativo di plasmare i figli in base alle proprie idee e ai propri desideri, tentativo che finisce per rovinarli e far loro violenza, e quell'assurdo lasciar correre che viene spacciato come rispetto per la libertà, ma che in realtà è disprezzo della natura umana e della sua dignità. Perché in questo modo si nega al bambino il dono dell'amore e della comunità in cammino, lo si abbandona alle forze oscure dell'esistenza. Questo timore distruttivo della garanzia offerta dalla verità e dall'amore è inevitabile se l'uomo non sa più chi egli sia e per che cosa viva. In questo caso egli non può dare al bambino altro che la vita , che da sola è senza senso. Ma noi sappiamo a chi effettivamente appartiene il bambino e a chi è debitore. Se lo introduciamo alla luce di Dio e ai suoi insegnamenti, non gli facciamo violenza inculcandogli nostre idee personali, ma lo formiamo e lo guidiamo verso quella che è la sua natura più autentica. Allora gli doniamo la sua vera libertà, il suo essere sé stesso. Lo consegniamo nelle mani di Colui che è creatore e salvatore. Questo è il dono e l'impegno del Battesimo.

Così al tempo stesso doniamo al bambino la nuova famiglia, che è più grande, più forte e più stabile, più aperta, più ampia e più completa di quanto non sia la sua: la famiglia dei credenti, della Chiesa. Questa famiglia a sua volta non si basa solo su sé stessa e non cerca da sola la sua

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strada, ma in unione con Cristo è collegata alla luce eterna di Dio stesso, quindi alla verità che per noi è diventata la via. Così il battesimo è veramente una garanzia al di là della morte e al di là di tutte le tenebre del futuro. È la certezza legata al fatto che affidiamo questo bambino ad una bontà che è potenza, ad una bontà che non gli risparmierà le difficoltà della vita, ma che siamo sicuri che è più forte di tutte le tenebre. In virtù della forza di questa bontà la vita umana è e resta buona, anche nelle notti che deve attraversare.

Così il Battesimo è l'arcobaleno di Dio sulla nostra vita, la promessa del suo grande sì, la porta della speranza e nello stesso tempo il segno che ci mostra come si fa ad essere un uomo: in unione con la propria famiglia e con la Chiesa di Dio, e quindi seguendo Gesù Cristo in maniera attiva e personale e percorrendo le sue strade. Con lui procediamo bene. Guardando a lui ci rendiamo conto che Dio è più grande del nostro cuore. Con questa certezza gioiosa iniziamo fiduciosi il nuovo anno. Amen.

(dal libro “ Sul Natale ” del 2005, Lindau)