Ratzinger J. - Introduzione Allo Spirito Della Liturgia

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Joseph Ratzinger

Introduzione allo spirito della liturgia

Titolo originale dell'opera Einjìihrung in den Geisl der Liturgie

Traduzione dal tedesco di Giuseppe Reguzzoni

Prima edizione febbraio 2001 Seconda edizione marzo 2001

> EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2001 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino

PREMESSA

Una delle mie prime letture dopo l'inizio degli studi teologici, al principio del 1946, fu l'opera prima di Ro­mano Guardini Lo spirito della liturgia, un piccolo libro pubblicato nella Pasqua del 1918 come volume inaugu­rale della collana «Ecclesia orans», a cura dell'abate Herwegen, più volte ristampato fino al 1957. Quest'o­pera può a buon diritto essere ritenuta l'avvio del movi­mento liturgico in Germania. Essa contribuì in maniera decisiva a far sì che la liturgia, con la sua bellezza, la sua ricchezza nascosta e la sua grandezza che travalica il tempo, venisse nuovamente riscoperta come centro vitale della Chiesa e della vita cristiana. Essa diede il suo contributo perché si celebrasse la liturgia in maniera «essenziale» (termine assai caro a Guardini); la si vole­va comprendere a partire dalla sua natura e dalla sua forma interiori, come preghiera ispirata e guidata dallo stesso Spirito Santo, in cui Cristo continua a divenire a noi contemporaneo, a fare irruzione nella nostra vita.

Vorrei arrischiare un paragone, che come tutti i para­goni è in gran parte inadeguato, ma che aiuta a capire. Si potrebbe dire che la liturgia era allora - nel 1918 -, per certi aspetti, simile a un affresco che si era conser­vato intatto, ma che era quasi coperto da un intonaco successivo: nel messale, con cui il sacerdote la cele­brava, la sua forma era pienamente presente, così co­me si era sviluppata dalle origini, ma per i credenti es­sa era ampiamente nascosta da istruzioni e forme di preghiera di carattere privato. Grazie al movimento li­turgico e - in maniera definitiva - grazie al concilio

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Vaticano II, l'affresco fu riportato alla luce e per un momento restammo tutti affascinati dalla bellezza dei suoi colori e delle sue figure. Ma nel frattempo, a cau­sa dei diversi errati tentativi di restauro o di ricostru­zione, nonché per il disturbo arrecato dalla massa dei visitatori, questo affresco è stato messo gravemente a rischio e minaccia di andare in rovina, se non si prov­vede rapidamente a prendere le misure necessarie per porre fine a tali influssi dannosi. Naturalmente non si deve tornare a coprirlo di intonaco, ma è indispensabi­le una nuova comprensione del suo messaggio e della sua realtà, così che l'averlo riportato alla luce non rap­presenti il primo gradino della sua definitiva rovina.

Questo libro vorrebbe proprio rappresentare un con­tributo a tale rinnovata comprensione. Le sue intenzio­ni coincidono quindi sostanzialmente con ciò che Guardini si era proposto a suo tempo; per questo ho volutamente scelto un titolo che ricorda espressamente quel classico della teologia liturgica. Solo che bisogna­va ripensare ciò che Guardini aveva elaborato alla fine della prima guerra mondiale in un contesto storico completamente diverso, applicandolo alle problemati­che, alle speranze e ai pericoli del nostro tempo. Come Guardini, anch'io non ho voluto sviluppare una tratta­zione o condurre una ricerca di tipo scientifico, ma of­frire uh aiuto per la comprensione della fede e per una corretta attuazione della sua forma precipua di espres­sione nella liturgia. Se questo libro riuscisse a sua vol­ta a essere di stimolo a qualcosa come un «movimento liturgico», un movimento verso la liturgia e verso una sua corretta celebrazione, esteriore ed interiore, l'in­tenzione che mi ha spinto a tale lavoro sarebbe piena­mente realizzata.

Roma, nella festa di sant'Agostino 1999

JOSEPH RATZINGER

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PARTE PRIMA

SULL'ESSENZA DELLA LITURGIA

Capitolo primo

LITURGIA E VITA: IL POSTO DELLA LITURGIA NELLA REALTÀ

Che cosa si intende per «liturgia»? Che cosa avvie­ne in essa? In quale tipo di realtà ci imbattiamo in es­sa? Negli anni Venti del 1900 si fece il tentativo di ri­comprendere la liturgia come «gioco»; il punto di paragone era anzitutto il fatto che la liturgia, come il gioco, ha regole proprie e crea un suo mondo che vale quando si entra in essa e che poi, altrettanto natural­mente, viene meno quando il «gioco» finisce. Un altro punto di paragone era che il gioco è sì dotato di senso, ma allo stesso tempo è libero e, proprio per questo, ha in sé qualcosa di terapeutico, anzi, di liberatorio, dal momento che ci fa uscire dalla vita di tutti i giorni e dai fini che la caratterizzano, insieme con le costrizio­ni che questi ultimi comportano, liberandoci quindi, per qualche tempo, da tutto ciò che opprime la nostra vita lavorativa. Il gioco sarebbe, per così dire, un altro mondo, un'oasi di libertà in cui possiamo per un mo­mento lasciar scorrere liberamente l'esistenza; di tali momenti di evasione dal potere del quotidiano noi ab­biamo bisogno per riuscire a sopportarne il peso. In questo ragionamento c'è qualcosa di vero, ma una si­mile osservazione non può bastare. Infatti, se così fos­se, sarebbe in fondo del tutto secondario a quale gioco giochiamo; tutto ciò che si è detto può essere applica­to a qualunque gioco, il cui necessario e intrinseco le­game al rispetto delle regole sviluppa subito la sua particolare fatica e conduce a situazioni a loro volta

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intricate; si pensi al mondo attuale dello sport, ai cam­pionati di scacchi o ad altri giochi: dovunque si vede che il gioco, dal totalmente altro di un mondo diverso o di un non-mondo, subito diventa un pezzo di mon­do, con sue leggi, sempre che non voglia perdersi in puri, vuoti trastulli.

C'è ancora un aspetto di questa teoria del gioco che merita di essere menzionato e che ci porta molto più vicino all'essenza particolare della liturgia: il gioco dei bambini appare in molti suoi aspetti una sorta di anticipazione della vita, un addestramento a quella che sarà la loro vita successiva, senza però comporta­re tutto il peso e la serietà di quest'ultima. Allo stesso modo la liturgia potrebbe ricordarci che noi tutti, da­vanti alla vera vita, cui desideriamo arrivare, restiamo in fondo come dei bambini o, in ogni caso, dovremmo restare tali; la liturgia sarebbe allora una forma com­pletamente diversa di anticipazione, di esercizio preli­minare: preludio della vita futura, della vita eterna, di cui Agostino dice che, a differenza della vita attuale, non è intessuta di bisogno e di necessità, ma in tutto e per tutto della libertà del donare e del dare. La liturgia sarebbe allora riscoperta del nostro vero essere bambi­ni, dentro di noi, dell'apertura alla grandezza che ci sta davanti e che non è ancora compiuta con la vita adulta; essa sarebbe una forma ben definita della spe­ranza, che anticipa la vera vita, che ci introduce alla vita autentica - quella della libertà, dell'immediatezza con Dio e della totale apertura reciproca. Così, essa imprime anche nella vita apparentemente reale di tutti i giorni i segni anticipatori della libertà, che rompono le costrizioni e lasciano trasparire il cielo sulla terra.

Una simile applicazione della teoria del gioco in­nalza la liturgia ben al di sopra del gioco in generale, in cui vive pur sempre l'anelito del vero «gioco», del

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totalmente altro di un mondo in cui ordine e libertà si fondono tra loro; rispetto alla superficialità del gioco usuale, prigioniero comunque delle proprie finalità e, insieme, .umanamente vuoto, essa fa emergere la parti­colarità e l'alterità del «gioco» della sapienza, di cui parla la Bibbia e che si può quindi porre in rapporto con la liturgia. Ma ci manca ancora un contenuto es­senziale di questo abbozzo, dato che il pensiero della vita futura vi compare per ora solo come un vago po­stulato e la vista di Dio, senza la quale la «vita eterna» sarebbe solo deserto, resta ancora del tutto indetermi­nata. Voglio quindi proporre un nuovo approccio, traendolo, questa volta, dalla concretezza dei testi bi­blici.

Nei racconti degli eventi che precedettero l'uscita di Israele dall'Egitto, così come delle modalità dell'e­sodo, emergono due diverse finalità di questo evento straordinario. Una, nota a tutti noi, è il raggiungimen­to della Terra Promessa, in cui Israele deve vivere fi­nalmente libero e indipendente su una terra propria, tra confini sicuri. Accanto a essa compare però ripetu­tamente un'altra finalità. L'ordine che originariamente Dio dà al faraone è il seguente: «Manda via il mio po­polo, perché mi serva nel deserto» (Es 7,16). Questa espressione -" «Manda via il mio popolo, perché mi serva» - viene ripetuta con leggere varianti quattro volte, vale a dire in tutti gli incontri del faraone con Mosè e Aronne (Es 7,26; 9,1; 9,13; 10,3). Nel corso delle trattative con il faraone lo scopo si viene poi ul­teriormente concretizzando. Il faraone si mostra di­sposto al compromesso. Per lui il problema è quello della libertà di culto degli israeliti, cui in un primo momento acconsente nella forma seguente: «Andate a sacrificare al vostro Dio nel paese» (Es 8,21). Ma Mo­sè - tenendo fede al comando di Dio - insiste nell'af-

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fermare che per il culto è necessario l'esodo. Il luogo in cui andarerè"if tteiétto: «Per un cammino di tre giorni andremo nel deserto a sacrificare al Signore, nostro Dio, come ci aveva detto» (8,23). Dopo le pia­ghe successive, il faraone si manifesta ancora più di­sponibile al compromesso. Ora concede che il culto abbia luogo secondo il volere della divinità, dunque nel deserto, ma vuole che a uscire siano solo gli uomi­ni, mentre le donne e i bambini, così come il bestia­me, dèvontTrimanere in Egitto. In tal modo presuppo­ne una prassi cultuale allora usuale, secondo cui solo gli uominTtJrMcrprotagonistr5 attivi del culto. jVlosè, però,""norTpTàò negoziare con il sovrano straniero la modalità del culto, non può subordinarlo a un com­promesso politico: la forma del culto non è una que­stione Tflfìi trèslfl&ni politiche; esso ha in se stesso la propria ^misura, può essere regolato solo dalla misura della rivelazione, a partire da Dio. Per questo viene respinta anche la terza proposta di compromesso del faraone, cVè*^efta"volta è disposto a concedere molto di più e acconsente che anche donne e bambini possa­no partire. «Solo restinoli vostro gregge e il vostro ar­mento» (10,24). Mosè ribatte che deve portare con sé tutto il bestiame, poiché «noi non sappiamo con che cosa servire il Signore finché non arriveremo laggiù» (10,26). In tutto ciò non si parla della Terra Promessa; unico scopo dell'esodo appare l'adorazione, che può avvenire solò secondò la misura di Dio e che, quindi, sfugge alle regole di gioco del compromesso politico.

Israele non jparte per essere un popolo come tutti gli altri; parte per servire Dio. La meta dell'esodo è il monte di Dio, ancora sconosciuto, è il servizio da ren­dere a Dio. Ora si potrebbe obiettare che l'accento po­sto sul culto nel corso delle trattative con il faraone sarebbe stato di natura tattica. Lo scopo vero e ultimo

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dell'esodo non sarebbe stato cioè il culto, ma la terrai; , che costitois©@f«HzistìrvW'ò"oggetto (ìeffapromessa fat ; ta ad Àbramo. Non credo che con ciò si renda giusti-1

zia alla gravità che si percepisce nei testi. In fonda, la contrapposizione di terra e culto è priva di senso: la sterra viene data perche sia un luogo di culto del vero t)io. Il semplice possesso della terra, la semplice auto­nomia nazionale farebbero scendere Israele al livello di tutti gli altri popoli. Questa finalità porterebbe a disconoscere la specificità dell'elezione: l'intera storia dei libri dei Giudici e dei Re, ripresa e rispiegata nelle Cronache, mostra appunto che la terra come tale, pre­sa in se stessa, resta ancora un bene indeterminato, che diventa vero bene, vero dono della promessa com­piuta solo sevTrégha Dio; se la terra non esiste come una sorta di statò autonomo, ma se è lo spazio dell'ob­bedienza, in cui si compie la volontà di Dio e così si realizza la giusta forma dell'esistenza umana. L'esa­me del testo biblico ci consente però di determinare ancora più precisamente il rapporto che intercorre tra i due scopi dell'esodo. L'Israele peregrinante non ap­prende ancora, dopo tre giorni (come era stato annun­ciato nel colloquio con il faraone), quale forma di sa­crificio Dio pretenda da lui. Tre mesi dopo, però, «dall'uscita dei figli d'Israele dalla terra d'Egitto, in quel giorno, arrivarono nel deserto del Sinai» (Es 19,1). Il terzo giorno avviene allora la discesa di Dio sulla cima del monte (19,16.20). Ora Dio parla al po­polo, gli manifesta la sua volontà nelle dieci sante pa­role (20,1-17) e stabilisce con Mosè l'alleanza (Es 24), che si concretizza in una forma minuziosamente regolata di culto. In tal modo lo scopo della peregrina­zione nel deserto, annunciato al faraone, si è compiu­to: Israele impara ad adorare Dio nel modo da Lui stesso voluto. Di tale adorazione fa parte il culto, la li­turgia in senso stretto; ma essa richiede anche il vive-

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se fosse in Egitto. Il semplice possesso della propria terra e del proprio stato non garantisce la libertà, può divenire una brutale schiavitù; ma quando lo smarri­mento della legge è totale, finisce per perdere anche la terra. Quanto il «servire Dio», la libertà del giusto cul­to di Dio - che di fronte al faraone appare come l'uni­co scopo dell'uscita dall'Egitto -, sia davvero ciò di cui tratta nell'Esodo, lo si può vedere in tutto il Penta­teuco: questo vero e proprio «canone nel canone», il cuore della Bibbia di Israele, si svolge tutto al di fuori della Terra Santa. Esso si conclude ai margini del de­serto, «al di là del Giordano», dove Mosè riassume di nuovo il messaggio del Sinai. Diventa così evidente qual è il fondamento del permanere nella Terra, la con­dizione per poter vivere in comunità e in libertà: lo sta­re nella legge di Dio, che ordina le cose umane secon­do giustizia, plasmandole a partire da Dio e per Dio.

Che significa tutto ciò per il nostro problema? An­zitutto si vede ancora una volta che il «culto», inteso nella sua vera pienezza e profondità, va ben oltre l'a­zione liturgica. Esso in definitiva abbraccia l'ordine di tutta la vita umana, nel senso delle parole di Ireneo: l'uomo diventa glorificazione di Dio, lo mette per così dire in luce (ed è questo il culto), quando vive guar­dando a Lui. D'altra parte è vero che il diritto e la mo­rale non stanno insieme se non sono ancorati nel cen­tro liturgico e non traggono da esso ispirazione. Che tipo di realtà troviamo allora nella liturgia? Possiamo dire anzitutto che chi elimina Dio dal concetto di real­tà è solo apparentemente un realista. Egli astrae da Colui in cui noi «viviamo, ci muoviamo e siamo» (At 17,28). Ciò significa che solo se il rapporto con Dio è giusto anche tutte le altre relazioni dell'uomo - quelle degli uomini tra di loro e dell'uomo con le altre realtà create - possono funzionare. Il diritto - lo abbiamo

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già visto - è costitutivo per la libertà e la comunità; il culto, vale a dire il giusto modo di rapportarsi a Dio è, a sua volta, costitutivo per il diritto. Possiamo ora am­pliare questa visione facendo un altro passo avanti: l'adorazione, la giusta modalità del culto, del rapporto con Dio, è costitutiva per la giusta esistenza umana nel mondo; essa lo è proprio perché attraverso la vita quotidiana ci fa partecipi del modo di esistere del «cielo», del mondo di Dio, lasciando così trasparire la luce del mondo divino nel nostro mondo. In questo senso il culto ha di fatto - come abbiamo detto a pro­posito dell'analisi del «gioco» - il carattere di un'anti­cipazione. Esso prefigura una vita più definitiva e, in tal modo, dà alla vita presente la sua misura. Una vita in cui manca tale anticipazione, in cui il cielo non è più abbozzato, diverrebbe plumbea e vuota. Per questo non esistono società totalmente prive di culto. Persino i sistemi decisamente ateistici e materialistici hanno realizzato nuove forme di culto, che risultano però so­lo illusorie e che inutilmente cercano di nascondere la loro nullità nella loro ampollosa millanteria.

Con ciò arriviamo a un'ultima riflessione. L'uomo non può «farsi» da sé il proprio culto; egli afferra solò il vuoto, se Dio non si mostra. Quando Mosè dice al!i

faraone: «noi non sappiamo con che cosa servire il Si­gnore» (Es 10,26), nelle sue parole emerge di fatto ?Uno dei principi basilari.di tutte le liturgie. Se Dio non si móstra"; l'ùòrno, sulla base di quell'intuizione di Dio che è iscritta nel suo intimo, può certamente co­struire degli altari «al dio ignoto» (cfr. At 17,23); può protendersi con il pensiero verso di lui, cercarlo pro­cedendo a tastoni. TVIa la vera liturgia presuppone che Dio risponda e mostri come noi possiamo adorarlo. Essa implica una qualche^orrna 4Lls£jtuzione«f;Essa non può trarre origine dalia nostra "fantasia, darla no-

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stra creatività, altrimenti rimarrebbe un grido nel buio o una semplice autoconferma. Essa presuppone qual­cosa che stia concretamente di fronte, che si mostri a noi e indichi così la via alla nostra esistenza.

Di questa non arbitrarietà del culto vi sono nell'An­tico Testamento numerose e impressionanti testimo­nianze. In nessun altro passo, però, questo tema si ma­nifesta con tanta drammaticità come nell'episodio del vitello d'oro (o meglio, del torello). Questo culto, gui­dato dal sommo sacerdote Aronne, non doveva affatto servire un idolo pagano. L'apostasia è più sottile. Essa non passa apertamente da Dio all'idolo, ma resta ap­parentemente presso lo stesso Dio: si vuole onorare il Dio che ha condotto Israele fuori dall'Egitto e si crede di poter rappresentare in modo appropriato la sua mi­steriosa potenza nell'immagine del torello. In appa­renza tutto è in ordine e presumibilmente anche il ri­tuale procede secondo le prescrizioni. E tuttavia è una caduta nell'idolatria. Due cose portano a questo cedi­mento, inizialmente appena percettibile. Da una parte la violazione del divieto delle immagini: non si riesce a mantenere la fedeltà al Dio invisibile, lontano e mi­sterioso. Lo si fa scendere al proprio livello, riducen­dolo a categorie di visibilità e comprensibilità. In tal modo il culto non è più un salire verso di lui, ma un abbassamento di Dio alle nostre dimensioni: Egli deve essere lì dove c'è bisogno di Lui e deve essere così come si ha bisogno di Lui. L'uomo si serve di Dio se­condo il proprio bisogno e così si pone in realtà al di sopra di lui. Con ciò si è già accennato alla seconda cosa: si tratta di un culto fatto di propria autorità. Se Mosè rimane assente a lungo e Dio diventa quindi inaccessibile, allora lo si porta al proprio livello. Que­sto culto diventa così una festa che la comunità si fa da sé; celebrandola, la comunità non fa che conferma­re se stessa. Dall'adorazione di Dio si passa a un cer-

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chio che gira intorno a se stesso: mangiare, bere, di­vertirsi. La danza intorno al vitello d'oro è l'immagi­ne di questo culto che cerca se stesso, che diventa una sorta di banale autosoddisfacimento. La storia del vi­tello d'oro è un monito contro un culto realizzato a propria misura e alla ricerca di se stessi, in cui in defi­nitiva non è più in gioco Dio, ma la costituzione, di propria iniziativa, di un piccolo mondo alternativo. Allora la liturgia diventa davvero un gioco vuoto. O, ancora peggio, un abbandono del Dio vivente camuf­fato sotto un manto di sacralità. Ma alla fine resta an­che la frustrazione, il senso di vuoto. Non c'è più quell'esperienza di liberazione che ha luogo lì dove avviene un vero incontro con il Dio vivente.

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Capitolo secondo

LITURGIA, COSMO, STORIA

Nella teologia.moderna si è andata sempre più affer­mando l'idea che nelle cosiddette religioni naturali, così come nelle grandi religioni non teistiche, il culto sia orientato cosmicamente, mentre nell'Antico Testamento e nel cristianesimo esso abbia un indirizzo storico; l'Islam - analogamente al giudaismo postbiblico - conosce solo la liturgia de.llj gaffilaj*che riceve la sua impronta e il suo indirizzo da una rivelazione avvenuta storicamente, ma che per il suoorientamento universale pretènde di essere valida perilmondp nel suo complesso.: L'idea di un orientamento cosmico o storico del culto nonlfclel tutto infondata, ma è erronea se porta a una contrapposizione radicale: allora si disconosce la coscienza storica che è sempre presente anche nelle religioni naturali e si svilisce il significato del culto cristiano di Dio; si dimentica che la fede nella redenzione non può essere separata dal ricono­scimento di fede nel Creatore. Vedremo in seguito quale importanza abbia' questo problema, anche negli aspetti apparentemente più esteriori del rito liturgico.

Vorrei cercare di chiarire quanto detto in diversi passaggi progressivi. Nejle^ejigioni del mondo il cul­to e il cosmo sono sempre strettamente congiunti; l'a­dorazione degli dei non è mai unicamente un atto di socializzazione della "comunità, interessata, che me­diante riti simbolici diverrebbe consapevole della pro­pria reciproca appartenenza.

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È diffusa l'idea che si tratti dLunsistema_dLdare e averci: gli deTmantengono nell'esistenza il mondo, ma ; gli uomini devono nutrire e mantenere gli dei con i lo-; ro doni cultuali. Il circuito dell'essere implica ambe­due le cose: la potenza degli dei, che sostÌene*iTmon-dó, ma anche il dono degli uomini, che sostenta gli dei all'interno di questo mondo. Si arriva a pensare che gli uòmini siano stati creati proprio per mantenere gli dei e siano quindi una parte essenziale in questo circuito del tutto. Per quanto questa visione possa ap­parire semplicistica, vi si scorge comunque una pro-sfonda consapevolezza del destino dell'umanità: l'uo-| |mo esiste per Dio e in questo modo serve al tutto. In-§ dubbiamente, c'è in agguato anche il rischio di un ro­vesciaménto di questa prospettiva e di un suo possibi­le abuso: l'uomo ha un qualche potere sugli dei: gra- j zie al suo rapporto con loro egli ha in mano la chiave i della realtà. Gli dei hanno bisogno di Jui4 ma certa­mente anch'egli ha bisognò dì loro: se abusasse del proprio potere, potrebbe sì recar loro danno, ma fini­rebbe per distruggere se stesso.

Nel racconto yeterqtestamejitario della creazione (Gn 1,1-2,4) questi modi di vedere sono pienamente riconoscibili, ma allo stesso tempo trasformati. La creazione va verso il sabato, verso quel giorno in cui l'uomo e tutta la creazione prendono parte al riposo di Dio, alla sua libertà. Non si parla direttamente di culto, né tanto meno si dice che il Creatore ha biso­gno dei doni dell'uomo. Il sabato è una visione della libertà: schiavi e padroni in questo giorno sono ugua-liTlà «santificazione» del sabato significa appunto-questo, che tutte le relaziomj>djSiisiy[bordinazione ven-, gono meno e tutta l'affatica del lavoro si interrompe per un momento. Se però se ne volesse dedurre che l'Antico Testamento non ha legato creazione e adora-

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zione, che esso porta ad una mera visione della libera­zione della società come scopo di tutta la storia, quasi che essa fosse fin dal principio orientata solo antropo­logicamente e socialmente, in una prospettiva rivolu­zionaria, si interpreterebbe erroneamente il significato del sabato. Infatti il racconto della creazione e le pre­scrizioni sinaitiche sul sabato provengono dalla stessa fonte; si devono leggere le leggi sabbatiche della Torà per comprendere correttamente il significato del rac­conto della creazione. Diventa allora evidente che il sabato è il segno dell'alleanza tra Dio e l'uomo; esso riassume molto bene l'essenza dell'alleanza. A partire di qui possiamo così definire l'intenzione dei racconti di creazione: vi è creazione perché vi sia un luogo per l'alleanza che Dio vuole concludere con l'uomo. Lo scopo della areaziorie _è L'aUean^a^J^^Qrj^4'^rn.oj:e tra Dio e l'uomo. La libertà e l'uguaglianza degli uo­mini, che il sabato 'deve attuare, non sono una visione puramente antropologica o sociologica; si tratta di una prospettiva che è pensabile solo teorlogicamente: solo se ii trova nell'alleanza con Dio l'upmo, diventa libe­ro, solo così si manifestano l'uguaglianza e la dignità di tuttigtì'UOmini. Se dunque tutto deve essere ricon­dotto all'alleanza, allora è importante riconoscere che l'alleanza è relazione: è un donarsi di Dio all'uomo, ma anche ufi" rispondere dell'uomó'a'Eùi. La risposta dell'uomo a uh Dio che è buono con lui si chiama «amore», fi amare Dio significa adorarlo. Se la crea­zione è ftitesà come uno spazio dell' alleanza, luogo dell'incontro tra Dio e l'uomo, ciò significa anche^cne è pensata toltìS luogo deli'adulazione. Ma che signifi­ca propriamente «adorazione»0 Che cosa c'è di diver­so rispetto alla ccafcezione circolare di dare e avere che caratterizzava ampiamente il mondo cultuale pre­cristiano?

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Prima di affrontare questa domanda decisiva, vorrei fare ancora una volta riferimento al testo con cui nel libro dell'Esodo si conclude la legislazione cultuale.

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Questo testo è costruito in stretto parallelismo con il racconto della creazione: sette volte vi si dice che Mo­sè fece «come il Signore aveva ordinato»; in tal modo l'opera di costruzione del santuario, compiuta in sette giorni, appare come un'immagine dei sette giorni del­la creazione. Infine, il racconto della costruzione del tempio si conclude con una sorta di visione sabbatica: così Mosè terminò il lavoro. La nube coprì la tenda della rivelazione e la gloria del Signore riempì la di­mora (Es 40,33ss). Il completamento della tenda ri­chiama il completamento della creazione: Dio prende dimora nel mondo, il cielo e la terra si uniscono. In questo contesto rientra anche il fatto che il verbo bara nell'Antico Testamento ha sempre e solo due signifi­cati. Da una parte esso indica il processo di creazione del mondo, la separazione degli elementi, che trasfor­marono il caos in cosmo; dall'altra indica il processo fondamentale della storia della salvezza, vale a dire l'elezione e la separazione del puro dall'impuro, e quindi l'emergere della storia di Dio con l'uomo e la creazione spirituale, la creazione dell'alleanza, senza la quale il cosmo creato rimarrebbe una scatola vuota. Creazione e storia, creazione, storia e culto stanno dunque in un rapporto di interdipendenza: la creazio­ne attende l'alleanza, ma l'alleanza completa la crea­zione e non le è indifferente. Se però il culto - retta­mente inteso - è l'anima dell'alleanza, allora ciò si­gnifica che non solo esso salva l'uomo, ma deve coin­volgere l'intera realtà nella comunione con Dio.

Ci troviamo così nuovamente davanti alla doman­da: che cosa è propriamente l'adorazione? Che cosa accade in essa? In tutte le religioni il nucleo fonda-

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mentale del culto sembra essere il sacrificio. Si tratta però di un concetto sovraccarico di un cumulo di equivoci. La concezione comune parte dall'idea che il sacrificio abbia a che fare con la distruzione. Signifi­cherebbe la cessione a Dio di una realtà che per l'uo­mo è in qualche modo preziosa: questa cessione pre­supporrebbe però che tale realtà sia sottratta all'uso dell'uomo, e ciò potrebbe aver luogo solo mediante la sua distruzione, con cui essa verrebbe definitivamente sottratta alla disponibilità umana. Ma allora vien subi­to da replicare: quale gioia ne avrebbe Dio da questa distruzione? Che cosa gli vien dato da questa distru­zione? Si risponde che nel distruggere si nasconde co­munque un atto di riconoscimento della sovranità di Dio su tutte le cose. Ma un simile atto formale può davvero servire alla gloria di Dio? È chiaro che no. La vera cessione a Dio deve quindi apparire molto diver­sa. Essa consiste - così la vedono i padri della Chiesa interpretando il pensiero biblico - nella riunificazione dell'uomo e della creazione con Dio. L'appartenenza a Dio non ha nulla a che fare con la distruzione o il non essere, ma piuttosto con un certo modo di essere: essa significa l'uscita dallo stato di separazione, di ap­parente autonomia, dell'essere solo per se stesso e in se stesso. Essa significa quel perdere se stessi che è l'unico modo per ritrovare se stessi (cfr. Me 8,35; Mt 10,39). Per questo Agostino poteva dire che il vero «sacrificio» è la civitas Dei, cioè l'umanità divenuta amore, che rende divina la creazione ed è la consegna di tutto a Dio:(DjoTS25TnJutt| (ICor 15,28) - è que­sto lo scopo del mondo, è questa l'essenza del «sacri­ficio» e del culto.

Possiamo allora dire che lo scopo del culto e lo sco-p_o_della_creazione nel suo insieme è lo stesso: fla divi-hizzazioflgjun mnnHo Hi libera p Hi amnm in questo

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modo, però, anche nella dimensione «cosmica» appa­re la dimensione storica: il cosmo non è una sorta di edificio chiuso in se stesso, non è un contenitore iner­te in cui la storia può comunque svolgersi. Anch'esso è movimento, da un inizio verso una meta. Esso stesso è in certo qual modo storia.

Ciò può essere illustrato in molti modi. Per esem­pio, sullo sfondo della moderna concezione evoluzio­nistica Teilhard de Chardin ha descritto il cosmo come un processòdTascesa, come un cammino di unifica­zione. Partendo dalle realtà più semplici questo cam-mino conduce a unita sempre più grandi e complesse, in cui la molteplicità non è annullata, ma fusa in una sintesi crescente, fino alla noosfera, in cui lo spirito e la sua intelligenza afferrano il tutto, fondendolo in una sorta di organismo vivente. A partire dalle lettere agli Efesini e ai Colossesi, Teilhard considera Cristo come quell'energia che porta fino alla noosferaTcrìe Illa fi­ne include tutto nella sua pienezza. Sulla base di tale presupposto Teilhard cerca di reinterpretare a suo mo­do il culto cristiano: l'ostia transustanziata è per lui l'anticipazione della trasformazione della materia e della sua divinizzazione nella «pienezza» cristologica. Ceucaristia indica, per così dire, la direzione del mo­vimento cosmico; essa anticipa il suo fine e allo stesso tempo spinge verso di esso.

La tradizione più antica procede, naturalmente, a partire da un altro modello. La sua immagine non è quella della freccia scagliata verso l'alto; essa pensa, piuttosto, a una sorta di movimento circolare, i cui due fondamentali elementi direzionali sono chiamati exitus e reditus, uscita e ritorno. Questo «paradigma», comune a tutta la storia delle religioni come pure al­l'antichità e al medioevo cristiani, può però presentar-

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si in forme molto diverse tra loro. Il circolo può essere inteso come un grande movimento cosmico, come av­viene nei pensatori cristiani; ma può anche essere pensato come un movimento che si ripete in maniera sempre nuova, come accade nelle religioni naturali e in molte filosofie non cristiane. Il contrasto tra questi due modi di vedere, se si guarda con attenzione, non è così radicale come può apparire a prima vista. Infatti anche per la visione cristiana del mondo nel grande circolo della storia, che procede daìYexitus al reditus, sono iscritti i molti piccoli circoli della vita individua­le, che portano tutti in sé il grande ritmo del tutto, lo realizzano ciascuno in maniera sempre nuova e gli danno così la forza che lo muove. E nell'unico grande circolo sono iscritti anche i molti circoli vitali delle diverse culture e delle comunità storiche in cui si svolge in maniera sempre nuova il dramma dell'ini­zio, dell'ascesa e della fine: in essi continua a ripetersi il mistero dell'inizio; ma si produce anche sempre la fine del tempo e il declino, che a suo modo può prepa­rare il terreno a un nuovo inizio. La somma dei circoli rispecchia il grande circolo, ambedue i circoli si ri­chiamano e si intersecano reciprocamente. E così an­che il culto ha a che fare con tutte e tre le dimensioni di questi movimenti circolari: quello personale, quello sociale e quello universale.

Prima, però, di cercare di chiarire meglio quest'ulti­mo punto, dobbiamo prestare attenzione alla seconda e, per molti versi, più importante alternativa che si na­sconde nello schema di exitus e reditus. La prima con­cezione che si incontra è quella che è stata elaborata nella tarda antichità, nella maniera forse più impres­sionante, dal filosofo Plotino, ma che in forme diverse caratterizza vasti settori dei culti e delle religioni non cristiane. Uexodus, attraverso il quale in definitiva

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appare l'essere non divino, non viene concepito come uscita, ma come caduta, come un precipitare dalla sommità del divino che, conformemente alle leggi sulla caduta dei gravi, porta a scendere in profondità sempre maggiori, a una distanza sempre più grande dal divino. Ciò significa che l'essere non divino è di per sé un essere caduto; la finitezza è di per sé già una forma di peccato, il negativo, che deve essere sanato mediante il ritorno nell'infinito. Il ritorno - il reditus - consiste allora nel fatto che, arrivati al fondo, la ca­duta viene frenata e la freccia punta verso l'alto. Alla fine il «peccato» del finito, del non-essere-dio, si dis­solve, e in questo senso Dio diventa «tutto in tutti». La via del reditus significa redenzione, e redenzione significa liberazione dalla finitezza che, come tale, è il vero fardello del nostro essere. Il culto è dunque lega­to all'inversione del movimento: è la consapevolezza della caduta, è per così dire il momento del pentimen­to del figliol prodigo, il tornare a guardare all'origine. Poiché secondo molte di queste filosofie la conoscen­za e l'essere finiscono per coincidere, il tornare a guardare all'inizio è già al tempo stesso un risalire. Il culto, che è lo sguardo sollevato verso ciò che è prima di ogni essere e al di sopra di ogni essere, è per sua stessa natura conoscenza e, in quanto conoscenza, è movimento, ritorno, redenzione. Naturalmente le filo­sofie del culto seguono poi strade diverse. Ora vi è la teoria secondo cui solo i filosofi, solo gli spiriti capaci di un pensiero più elevato, possono raggiungere quel­la conoscenza che è appunto la via. Solo essi sono ca­paci di ascesa, della piena divinizzazione, che è re­denzione e liberazione dalla finitezza. Per gli altri, per le anime più semplici, che non riescono a levare pie­namente lo sguardo verso l'alto, vi sono le diverse li­turgie, che possono offrire loro una qualche redenzio­ne, senza peraltro innalzarli alla pienezza della divini-

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tà. A parte queste differenze, una consolazione viene spesso dalla dottrina della trasmigrazione delle anime, che offre la speranza di poter raggiungere prima o poi, nella peregrinazione delle esistenze, il punto in cui fi­nalmente si riesce a uscire dalla finitezza e dal dolore che essa rappresenta. Dato che qui la conoscenza (= gnosi) è la vera forza della redenzione e quindi anche la forma più alta di elevazione, cioè di unione con la divinità, questi sistemi di pensiero e queste dottrine religiose - peraltro molto diversi tra di loro - vengono definiti «gnostici». Per il cristianesimo delle origini il confronto con la gnosi ha rappresentato lo scontro de­cisivo per la propria identità. In effetti, il fascino di ta­li concezioni è grande ed esse paiono facilmente iden­tificabili con il messaggio cristiano. Il «peccato origi­nale», per esempio, solitamente così difficile da inten­dere, viene identificato con la caduta nel finito, e così risulta chiaro che esso grava su tutti coloro che si tro­vano nel circolo della finitezza. Inoltre, la redenzione è allora chiaramente intesa come liberazione dal peso della finitezza, e così via. Anche oggi lo gnosticismo torna a esercitare il suo fascino in molti modi: le reli­gioni dell'estremo Oriente recano in sé la stessa strut­tura fondamentale. Di conseguenza le forme di appli­cazione della dottrina di redenzione sono molto con­vincenti. Gli esercizi di rilassamento corporeo e di svuotamento psichico sembrano dare accesso alla re­denzione. Esse mirano a liberare dalla finitezza, anzi ne offrono una momentanea anticipazione e hanno co­sì forza risanatrice.

Il pensiero cristiano, come si è detto, ha certo ripre­so lo schema di exitus e reditus, ma vi ha distinto due movimenti. U exitus non è anzitutto caduta dall'infini­to, separazione dell'essere e quindi causa di tutta la miseria del mondo; al contrario, è anzitutto qualcosa

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di positivo: il libero atto creativo del Creatore, che vuole che la creatura faccia qualcosa di buono di fron­te a lui, da cui possa derivare una risposta di libertà e di amore. L'essere non divino non è quindi di per sé qualcosa di già negativo, ma, al contrario, frutto posi­tivo di un volere divino. Esso non si basa su una cadu­ta, ma su una disposizione di Dio, che è buona e crea bene. L'atto essenziale di Dio che dà origine all'essere creato, è un atto di libertà. Proprio per questo nello stesso essere è presente, fin dall'origine, il principio della libertà. Uexitus o meglio il libero atto creatore di Dio mira infatti al reditus, ma con ciò non si inten­de la ripresa o restituzione dell'essere creato, ma ciò che più sopra abbiamo descritto: il venire-a-se-stessa della creatura che ha fondamento in se stessa risponde liberamente all'amore di Dio, accoglie la creazione come suo comandamento d'amore: sorge così un dia­logo d'amore, quell'unità completamente nuova che solo l'amore può creare. In essa l'essere dell'altro non viene assorbito, non viene dissolto, ma proprio nel darsi ritrova pienamente se stesso. Nasce allora quel­l'unità che è più alta dell'unità della particella ele­mentare non più divisibile. Questo reditus è un «ritor­no a casa», ma non liquida la creazione, le conferisce piuttosto la sua piena definitività. E questa l'idea cri­stiana del Dio «tutto in tutti». Ma il tutto è appunto le­gato alla libertà, e la libertà della creatura è ciò che piega Yexitus positivo della creazione, anzi, che ne provoca la caduta: nel non voler essere dipendente, nel no al reditus. L'amore viene allora inteso come di­pendenza e rifiutato; al suo posto subentrano l'autono­mia e l'autarchia: essere solo da sé e in sé, essere nel­la propria sfera un dio. Così si spezza l'arco che porta daWexitus al reditus. Il ritorno non è più voluto e, d'altra parte, l'ascesa con le sole proprie forze si rive­la impossibile. Se il «sacrificio» per sua natura è sem-

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plicemente il ritorno nell'amore e dunque la diviniz­zazione, ora nel culto deve essere presente il momento della guarigione della libertà ferita, dell'espiazione, della purificazione e della liberazione dall'estranea­zione. L'essenza del culto, del «sacrificio» come pro­cesso di assimilazione, di trasformazione nell'amore e quindi di cammino verso la libertà, resta immutata. Ma ora prende in sé il momento della guarigione, del­l'amorosa trasformazione della libertà spezzata nella sofferta modalità della riconciliazione. Proprio perché tutto mirava alla propria autonomia, al rifiuto di di­pendere dall'altro, essa implica ora l'affermazione della propria dipendenza, che deve liberarmi dal cap­pio che non riesco più a sciogliere da solo. La reden­zione implica cioè il redentore: i Padri hanno ritenuto che questa verità trovasse espressione nella parabola della pecorella smarrita. Questa pecora, che è prigio­niera tra i rovi e che non riesce più a trovare la strada del ritorno, è per loro un'immagine dell'uomo, che non riesce più a liberarsi dalle sue spine e che non può trovare da solo la strada che porta a Dio. Il pastore, che la raccoglie e la porta a casa, è per loro lo stesso Logos, la parola eterna, il significato eterno del tutto, che dimora nel Figlio di Dio, che si mette lui stesso in cammino verso di noi e che ora prende la pecora sulle sue spalle, cioè fa sua la natura umana e come Dio fatto uomo riporta nuovamente a casa la creatura uo­mo. Così diventa possibile il reditus che ci dona il ri­torno a casa. Il sacrificio assume allora la forma della croce di Cristo, dell'amore che si dona nella morte, la quale non ha nulla a che fare con la distruzione, ma è un atto di nuova creazione che riporta la creazione a se stessa. Ogni culto è ora partecipazione a questa Pe-sach di Cristo, a questo suo «passaggio» dal divino al­l'umano, dalla morte alla vita, all'unità di Dio e uo­mo. Il culto cristiano è dunque concreto riscatto e rea-

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lizzazione di quanto Gesù ha detto nel tempio di Ge­rusalemme all'inizio della settimana della Passione, nella domenica delle palme: «Quando io sarò innalza­to da terra, attrarrò tutti a me» (Gv 12,32).

Il circolo cosmico e quello storico sono ora distinti: l'elemento storico riceve il suo peculiare e definitivo significato dal dono della libertà come centro dell'es­sere divino e di quello creato, ma non viene per que­sto separato da quello cosmico. Malgrado la loro dif­ferenza, ambedue i circoli restano in definitiva all'in­terno dell'unico circolo dell'essere: la liturgia storica del cristianesimo è e rimane - inseparabilmente e in­confondibilmente - cosmica, e solo così essa sussiste in tutta la sua grandezza. C'è la novità unica della realtà cristiana, e tuttavia essa non ripudia la ricerca della storia delle religioni, ma accoglie in sé tutti gli elementi portanti delle religioni naturali, mantenendo in tal modo un legame con loro.

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Capìtolo terzo

DALL'ANTICO AL NUOVO TESTAMENTO: LA FORMA BASE DELLA LITURGIA CRISTIANA

DETERMINATA DALLA FEDE BIBLICA

Dopo quanto si è detto finora, la finalità essenziale del culto in tutte le religioni naturali può essere indivi­duata nella pace del tutto attraverso la pace con Dio, nell'unione di ciò che sta in alto con ciò che sta in basso. Questo orientamento fondamentale delle cele­brazioni cultuali è però concretamente caratterizzato dalla consapevolezza della caduta e dell'estraniazione e si compie quindi necessariamente come lotta per l'e­spiazione, per il perdono, per la riconciliazione. La consapevolezza del peccato grava sull'umanità. Il cul­to è il tentativo, presente in tutta la storia, di superare la colpa e di ricondurre così al giusto ordine il mondo e la propria vita. Su tutto ciò, però, domina una pro­fonda sensazione di inutilità, che rappresenta il lato tragico della storia del culto: come può l'uomo essere in grado di riportare il mondo al rapporto con Dio? Come può ottenere una vera riconciliazione? Il vero dono a Dio può essere solo se stesso; la consapevolez­za che ogni altra cosa è in qualche modo inadeguata, anzi, priva di senso, è tanto più forte quanto più è evo­luta la coscienza religiosa. Da questo senso di inade­guatezza si sono sviluppate nella storia anche forme grottesche e crudeli di culto, in particolare i sacrifici umani, che apparentemente vorrebbero offrire alla di­vinità quanto di meglio esiste e che, tuttavia, appaiono il modo più crudele e quindi più riprovevole di sot­trarsi al dono del proprio io. Ecco perché con il pro-

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gredire delle religioni questo spaventoso tentativo di riconciliazione è stato sempre più rigettato, mentre, nel contempo, è divenuto sempre più chiaro che in ogni culto viene offerta non una determinata realtà ma un suo sostituto. L'essenza del sacrificio nelle religio­ni naturali, compresa quella di Israele, si fonda sull'i­dea della sostituzione; ma come possono i sacrifici animali o le offerte di primizie rappresentare e sosti­tuire l'uomo, ottenere la sua espiazione? Tutto ciò non è vera rappresentanza, ma un surrogato; il culto così inteso risulta un culto sostitutivo, cui in qualche modo manca l'essenziale.

Ma in che cosa consiste la specificità della liturgia di Israele? Innanzi lutto nel_ suojd,eslinatario. Le altre religioni indirizzano spesso il loro culto a potenze che sono realtà «penultime». Proprio partendo dalla con­sapevolézza che l'unico vero Dio non può essere ser­vito con sacrifici di animali, lo si lascia senza culto; i sacrifici "sonò destinati alle «fòrzée potenze» con cui l'uomo ha a che fare quotidianamente, che egli deve temere, dì cui deve ottenere la benevolenza, con cui deve riconciliarsi. Israele non solo ha ripudiato questi «dei», ma li ha sempre più visti come demoni, che rendono l'uomo estraneo a se stesso e al vero Dio: so­lo Dio merita l'adorazione, è questo il primo coman­damento. Quest'unico Dio viene certamente adorato con un sacrificio accuratamente regolato dai precetti minuziosi della Torà, ma se guardiamo più da vicino la stòria cultuale di Israele ci imbattiamo in una se­conda caratteristica che, seguita con coerenza, alla fi­ne ci porta a Gesù Cristo, al Nuovo Testamento. Pro­prio a partire daTmTIetmra teologica del culto il Nuo­vo Testamento si trova ili strettissimo rapporto con l'Antico. Il Nuovo Testamento è la mediazione inte­riore corrispondente al dramma interiore dell'Antico

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Testamento degli elementi inizialmente in lotta tra lo­ro, che nella figura di Gesù Cristo, nella sua croce e nella sua resurrezione gtuffg^n^alanTta; questa media­zione corrisponde al dramma interiore dell'Antico Te­stamento. Proprio quello che al principio sembrava una frattura si dimostra, a una lettura più attenta, co­me il vero «compimento», in cui inaspettatamente sboccano tutte le strade precedenti.

Chi leggesse il libro del Levitico in se stesso - a prescindere dal capitolò 25*con ìa sua minaccia dell'e­silio e con la promessa di nuovi doni di grazia - po­trebbe farsi l'idea che in esso venga istituita una for­ma di culto eternamente valida, un ordine del mondo permanente, che non può avere davanti a sé nessun'al­tra storia perché nel corso degli anni produce conti­nuamente espiazione, purificazione e ricostituzione. Sembra un ordine cosmico statico o - se si vuole - ci­clico, che resta sempre tale perché porta in sé gli op­portuni pesi e contrappesi. Ma già. il capitolo 26 in­frange in certo qual modo questa apparenza; è impor­tante leggere il Levitico nel contesto della Torà e della Bibbia. Mi sembra significativo il fatto che Ggnesi ed Esodo pongano all'inizio della storia del culto due av­venimenti in cui la problematica della rappresentanza è affrontata molto chiaramente. Il primo è il sacrificio di Abramo. Il patriarca, ubbidendo all'Ordine imparti­togli da Dio, vuole sacrificare^ suo unico figlio Isac­co, il portatore della promessa. Offrendolo egli offri­rebbe davvero tutto, dato che se egli resta privo di di­scendenza diverrebbe priva di senso anche la terra che è stata promessa a" tale discendenza. All'ultimo mo­mento è Dio stesso a impedirgli questo tipo di sacrifi­cio; in luogo di Isacco gli viene dato un ariete - un agnello maschio - che egli può sacrificare a Dio al posto del figlio. Così il sacrificio di rappresentanza

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viene istituito su indicazione stessa di Dio: Dio dà l'a­gnello che Àbramo a sua volta restituisce come dono. «Noi ti offriamo ciò che Tu ci hai donato» recita con-segnenterfteìlte"rFTSaTfSKeTomano. In qualche modo di questa storia dovette restare un pungolo, un'attesa del vero «agnello», che viene da Dio e che proprio per questo non è'per" noi solo un sostituto, ma una vera «rappresentanza», in cui noi stessi veniamo portati fi­no a Dio. La teologia cultuale cristiana - a partire da Giovanni Battista - ha riconosciuto in Cristo 1'«agnel­lo» donato da Dio; l'Apocalisse presenta questo agnello sacrificato, che vive immolato, come centro della liturgia celegte^che ora grazie al sacrificio di Cristo è presente nel mondo e rende superflue le litur­gie sostitutive (Ap 5).

Il secondo evento è quello che sta alla base dell'i­stituzione della liturgia pasquale in Es 12, Qui l'A­gnello sacrificale della Pasqua è posto al centro del­l'anno liturgico e, regola la memoria di fede di Israele. Questa, peraltro, è anche il fondamento perenne della fede. L'agnello appare chiaramente come un sostituto, mediante il quale a Israele viene risparmiata la morte dei primogeniti. Ma questa sostituzione ha anche ca­rattere ammonitorio: alla fine è sulla primogenitura stessa che Dio rivendica il suo diritto: «Consacrami ogni primogenito, che apre il ventre, tra i figli d'Israe­le: uomo e animale sono miei» (Es 13,2). L'agnello immolato parla della necessaria santità dell'uomo e della creazione nel suo insieme, rinvia oltre se stesso; il sacrificio pasquale non ha il suo senso in se stesso, ma vincola i primogeniti e con essi tutto il popolo, tut­ta la creazione. E a partire di qui che si può compren­dere l'enfasi con cui Luca, già nei vangeli dell'infan­zia, designa Gesù come «primogenito» (Le 2,7). Tale enfasi si ritrova anche nelle epistole della prigionia,

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che presentano Cristo come «il primogenito della' creazione», in cui è avvenuta questa santificazione della primogenitura che abbraccia tutti noi.

Ma restiamo ancora all'Antico Testamento. Qui la natura del sacrificio è costantemente accompagnata e messa in crisi da una irrequietezza profetica. Già in ISam 15,22 incontriamo una sentenza profetica, che si ritrova con molte varianti in tutto l'Antico Testa­mento e che viene ripresa di nuovo da Cristo: «L'ob­bedienza è migliore del sacrificio, la docilità migliore del grasso dei montoni!». In Osea questo concetto si trova espresso con altri termini: «io voglio l'amore, non i sacrifici, la conoscenza di Dio, non gli olocau­sti» (6,6). L'espressione si ritrova poi sulla bocca di Gesù in una forma semplicissima ed elementare: «Mi­sericordia cerco e non sacrificio» (Mt 9,13; 12,7). Il culto del tempio fu quindi sempre accompagnato da una bruciante consapevolezza della sua inadeguatez­za. «Se avessi fame non mi rivolgerei a te, perché mio è il mondo e tutto ciò che contiene. Che forse ho biso­gno di mangiare la carne dei tori e di bere il sangue degli arieti? Offri a Dio il sacrificio di ringraziamento per adempiere a Dio i tuoi voti» (Sai 50 [49], 12-14). La critica radicale al tempio che secondo il racconto di At 7 Stefano espose in un discorso infiammato è certamente inusitata nella forma, caratterizzata dal nuovo pathos della fede cristiana, ma non è del tutto nuova nella storia di Israele, in cui ci fu sempre un'e­splicita messa in questione della forma concreta del sacrifìcio. Difatti, Stefano trae l'affermazione centrale della sua critica dal profeta Amos: «Odio, respingo le vostre festività, non odorerò il profumo delle vostre adunanze solenni. Anche se mi offrirete olocausti e oblazioni non li gradirò; a sacrifici pacifici di grasse vittime non volgerò il mio sguardo. Via da me il tu-

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multo dei tuoi canti: lo squillare delle tue cetre non ascolterò» (Am 5,21-23; At 7,42s cita Am 5,25-27).

Tutto il discorso di Stefano prende le mosse dall'ac­cusa che gli è stata rivolta di aver detto: «Gesù Naza­reno distruggerà questo luogo [il tempio] e cambierà le leggi che ci ha tramandato Mosè». Stefano risponde solo indirettamente a tale affermazione, mettendo in evidenza l'atteggiamento critico dell'Antico Testa­mento riguardo al tempio e al culto. Egli legge la dis­cussa critica al culto di Amos 5,25-27, il cui senso ori­ginale è di difficile interpretazione, nella versione gre­ca della Bibbia, dove il culto dei quarant'anni nel de­serto viene messo sullo stesso piano dell'adorazione del vitello d'oro, tanto che la liturgia, in questo perio­do fondamentale della storia di Israele, appare come la prosecuzione della prima caduta: «Mi avete forse offerto vittime e sacrifici per quarant'anni nel deserto, casa d'Israele? Avete piuttosto portato a spalle la ten­da di Moloch e la stella del dio Refàn, simulacri che vi siete fatti per adorarli!». I sacrifici di animali in quanto tali appaiono qui un travisamento dell'adora­zione dell'unico Dio. A queste parole profetiche - che nella versione alessandrina citata da Stefano dovettero provocare negli astanti un vero e proprio choc - egli avrebbe potuto aggiungere anche le drammatiche pa­role del profeta Geremia: «Eppure io non parlai ai vo­stri padri, né diedi ordini a loro, quando li feci uscire dal paese d'Egitto, riguardo all'olocausto e al sacrifi­cio» (7,22). Stefano rinuncia ad approfondire questi testi, che ci lasciano intuire il difficile confronto inter­no in atto in Israele prima dell'esilio, e aggiunge inve­ce tre altri argomenti per far capire il senso della sua interpretazione del messaggio di Cristo.

Mosè, afferma, obbedendo al comando di Dio, ave-

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va costruito la tenda secondo il modello che aveva vi­sto sul monte (7,45; Es 25,40). Ciò significa che.il tempio terreno è solo una copia, e non il vero tempio; esso è immagine e simbolo, che rinvia oltre se stesso. Davide, che aveva trovato grazia davanti a Dio, aveva chiesto di poter costruire una tenda per il Dio di Gia­cobbe. «Ma fu Salomone che gli costruì una casa» (7,48): il passaggio dalla tenda, con tutta la sua prov­visorietà, alla casa, che cerca di far dimorare Dio in un edificio di pietra, è visto come una caduta, dal mo­mento che «l'Altissimo non abita in edifici eretti da mano d'uomo». Stefano, infine, insieme con l'idea della provvisorietà, che era ancora visibile nella tenda ma restava nascosta nella casa, mette in evidenza la dinamica interiore della storia veterotestamentaria, che cerca di andare oltre questa provvisorietà: egli ci­ta la profezia messianica che costituisce in un certo senso il culmine del Deuteronomio (18,15) e che per Stefano offre la chiave di lettura di tutto il Pentateuco: «Un profeta vi susciterà il Signore di tra i vostri figli, come me» (7,37). Se l'opera essenziale di Mosè è sta­ta l'erezione della tenda e l'ordinamento del culto, che al tempo stesso costituiva il nocciolo dell'ordinamen­to giuridico e dell'insegnamento morale, allora è chia­ro che il nuovo e definitivo profeta condurrà fuori dal tempo della tenda e della sua provvisorietà, dai falsi sacrifici, «distruggerà» il tempio e, di fatto, «cambierà le leggi date da Mosè. La linea dei profeti, che segui­rono Mosè e furono i grandi testimoni della provviso­rietà di tutte queste consuetudini, e che con la loro chiamata fecero camminare la storia in direzione del nuovo Mosè, si conclude nel Giusto che muore sulla croce (7,5 ls).

Stefano non confuta le affermazioni che gli vengo­no contestate; cerca piuttosto di dimostrare perché es-

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se siano più profondamente fedeli al messaggio del­l'Antico Testamento e al messaggio di Mosè. In tutto ciò è importante rilevare come l'accusa rivolta al pri­mo martire della storia della Chiesa sia identica, fin nella formulazione, a quella che gioca un ruolo centra­le nel processo a Gesù. Gesù venne infatti accusato di aver detto: «Io distruggerò questo tempio, fatto da ma­ni d'uomo, e in tre giorni ne ricostruirò un altro, non fatto da mani d'uomo» (Me 14,58). Certo, i testimoni non si trovarono concordi sul contenuto preciso della profezia di Gesù (14,59), ma è chiaro che quelle paro­le ebbero un ruolo centrale nella disputa intorno a Ge­sù. Siamo giunti così al cuore stesso della questione cristologica, alla domanda su chi fosse Gesù, e nel contempo al cuore della questione della vera adorazio­ne di Dio. La profezia della distruzione del tempio, che veniva contestata a Gesù, rinvia già di per sé all'e­pisodio della purificazione del tempio, raccontato da tutti e quattro gli evangelisti. Questo non poteva essere visto solo come uno sfogo d'ira contro gli abusi che si verificano in tutti i santuari, ma andava spiegato come un attacco al culto del tempio, del quale facevano ora parte non solo i sacrifìci di animali ma anche l'ecces­sivo attaccamento al denaro del tempio che vi veniva guadagnato. È vero che nessuno dei sinottici riferisce in questo contesto parole simili pronunciate da Gesù, tuttavia Giovanni le presenta come un detto profetico con cui Egli annuncia la propria azione: «Distruggete questo santuario e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19). Gesù non dice che lui distruggerà il tempio: questa sarà la versione data dai falsi testimoni contro di lui. Anzi, egli profetizza che saranno proprio i suoi accusatori a far ciò. Questa è una profezia della croce; la fine della sua vita terrena sarà al tempo stesso la fi­ne del tempio: è questo ciò che egli lascia intendere. Con la sua resurrezione comincerà il nuovo tempio: il

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corpo vivente di Gesù Cristo, che allora sarà al cospet­to di Dio e che sarà il luogo di ogni culto. In questo corpo egli abbraccia tutti gli uomini; non è la tenda eretta da mani d'uomo, è il luogo della vera adorazio­ne di Dio, che dissolve le tenebre e le sostituisce con la realtà. La profezia della resurrezione, letta nel suo significato profondo, è al tempo stesso una profezia eucaristica: vi si annuncia il mistero del corpo di Cri­sto, sacrificato e proprio per questo vivente, che si co­munica a noi e ci conduce in tal modo al legame reale con il Dio vivente. In tale contesto rientra anche una notizia che si trova nei tre vangeli sinottici. Essi riferi­scono tutti che al momento della morte di Gesù il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo (Me 15,38; Mt 27,51; Le 23,45). In tal modo essi intendo­no dire che nell'istante della morte di Gesù la funzione del tempio antico viene meno. Esso è «distrutto». Non è più il luogo della presenza di Dio, lo «sgabello dei suoi piedi», su cui egli ha fatto scendere la sua gloria. La distruzione esteriore del tempio, che sarebbe segui­ta pochi decenni dopo, è già annunciata teologicamen­te: il culto delle immagini, il culto sostitutivo, finisce nel momento in cui si realizza il vero culto: l'offerta del Figlio, che si è fatto uomo ed è divenuto «agnel­lo», «primogenito», che ora raccoglie e riunifica ogni forma di culto di Dio, che conduce fuori dalle ombre e dalle immagini nella realtà dell'unità dell'uomo con il Dio vivente. Il gesto profetico della purificazione del tempio, del rinnovamento del culto di Dio verso la sua vera forma, è giunto così al suo fine. La profezia che esso implicava si è compiuta: «Lo zelo per la tua casa mi ha divorato» (Sai 69 [68], 10; Gv 2,18): è stato, al­la fine, lo «zelo» di Gesù per il vero culto quello che lo ha portato sulla croce. Proprio così si è sgombrata la strada per la vera casa di Dio «non costruita da mani d'uomo»: il corpo risorto di Cristo. E anche le parole

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con cui i sinottici accompagnano il gesto profetico di Gesù si sono avverate: «La mia casa sarà chiamata ca­sa di preghiera per tutte le nazioni» (Me 11,17): con la fine del tempio si apre un nuovo universalismo dell'a­dorazione «in spirito e verità» (Gv 4,23), che Gesù ha preannunciato nel suo colloquio con la samaritana, laddove certamente i termini spirito e verità non pos­sono essere intesi in chiave illuministica e soggettivi­stica, ma devono essere visti a partire da colui che di se stesso dice: Io sono la verità ... (Gv 14,6).

Prima di cercare di trarre delle conclusioni da que­sti rapidi cenni alla dinamica interna dell'idea di culto propria dell'Antico Testamento, dalla profondissima consapevolezza della provvisorietà dei sacrifici nel tempio e dalla ricerca di qualcosa di più grande, di una novità ancora indescrivibile, dobbiamo cercare di ascoltare le voci della tendenza essenzialmente critica che si è manifestata finora nei confronti del dato tradi­zionale, proprio perché in queste voci si va già deli­neando il nuovo. Se in Israele prima dell'esilio c'era­no sempre state voci che mettevano in guardia contro forme di sacrificio che si andavano sempre più cristal­lizzando in direzione di un culto puramente esteriore e talvolta anche sincretistico, l'esilio divenne uno sti­molo a formulare in maniera chiara il positivo, l'og­getto della propria attesa. Non c'era più il tempio, non c'erano più forme pubbliche e comunitarie di culto, così come erano previste dalla Legge. Israele doveva sentirsi infinitamente povero e misero in questo vuoto cultuale; stava davanti a Dio a mani vuote. Non c'era più nessuna espiazione, e il canto di lode del «sacrifi­cio totale» non saliva più fino a Dio. In questo perio­do critico si formò sempre più chiaramente l'idea che la sofferenza di Israele con Dio e per Dio, il grido del suo cuore oppresso, la sua fervida preghiera al Dio si-

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lenzioso dovevano essere davanti a Lui come «grassi sacrifici di animali» e come profumo d'incenso; che proprio le mani vuote e il cuore colmo erano in sé «culto» e potevano interiormente compensare i sacri­fici del tempio venuti a mancare. All'epoca della nuo­va persecuzione del culto giudaico, sotto Antioco IV Epifane (175-163), questi concetti, che troviamo espressi nel libro di Daniele, acquisirono nuova forza e profondità. Rimasero in voga anche dopo il ripristi­no del tempio a opera dei Maccabei, allorché in oppo­sizione alla monarchia sacerdotale dei Maccabei si formò la comunità di Qumran, che non voleva ricono­scere questo tempio e in tal modo si orientava nuova­mente verso un «culto spirituale». A ciò si aggiunge, in ambito alessandrino, il contatto con la critica al cul­to da parte del pensiero greco; in tal modo va sempre più maturando l'idea della logike latreia (thysia) che si incontra in Rm 12,1 come risposta cristiana alla cri­si cultuale di tutto il mondo antico: la «parola» è il sa­crificio, la parola orante che sale dall'uomo e porta in sé tutta l'esistenza dell'uomo e la fa diventare «paro­la» (logos). L'uomo che si forma come logos e diven­ta logos mediante la preghiera: è questo il sacrificio, la vera gloria di Dio nel mondo. Se a partire dall'espe­rienza dolorosa dell'esilio e dell'epoca ellenistica la parola orante veniva a trovarsi in primo piano, come equivalente del sacrificio esteriore, così ora, attraver­so la parola logos, si introduceva in questo pensiero tutta la filosofia della parola sviluppata dal mondo greco. Lo spirito greco lo innalza poi nell'idea dell'u­nione mistica con il Logos, con il senso stesso di tutte le cose.

I padri della Chiesa hanno fatto loro questa evolu­zione spirituale, definendo l'eucaristia, nella sua natu­ra, come oratio, come sacrificio nella parola, e circo-

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scrivendo così il luogo del culto cristiano all'interno della lotta spirituale dell'antichità, nella sua ricerca del vero cammino dell'uomo e del suo incontro con Dio. Quando definiscono l'eucaristia come «preghie­ra», dunque come sacrificio della parola, pongono un di più rispetto all'idea greca del sacrificio del logos e danno una risposta alla questione, che era rimasta aperta nella teologia veterotestamentaria, della pre­ghiera come equivalente del sacrificio. Le forti spinte veterotestamentarie in direzione dell'idea di culto «nella parola» erano segnate da una profonda ambi­guità: da una parte aprivano le porte a una nuova e po­sitiva forma di culto divino, dall'altra lasciavano die­tro di sé qualcosa di insufficiente. La semplice parola non basta, si attende la restaurazione del tempio in una forma purificata. Si spiegano così apparenti con­traddizioni, come quella che incontriamo nel salmo 50 (50), in cui da una parte si trova grandiosamente svi­luppata la nuova idea di culto: - «il sacrificio tu non gradisci [...]. Il mio sacrificio, o Dio, è uno spirito contrito -, mentre dall'altra il tutto si conclude ancora nella visione di una pienezza futura: «Allora gradirai di nuovo i sacrifici legittimi, l'olocausto e l'intera oblazione; allora s'immoleranno le vittime sul tuo al­tare» (vv. 18-21). Al contrario, la mistica ellenistica del logos, per quanto bella e grandiosa, vanifica la di­mensione corporale, si risolve in una pura speranza di ascesa e ricongiunzione con il tutto, secondo lo sche­ma gnostico di cui abbiamo parlato prima. In essa manca qualcosa. L'idea del sacrificio del logos si compie pienamente solo nel logos incarnatus, nella parola che è diventata carne e che attira «ogni carne» nell'adorazione di Dio. Ora il Logos non è più mero «senso» dietro e sopra le cose. Ora è entrato nella car­ne, è divenuto corporeo. Assume in sé le nostre soffe­renze e le nostre speranze, assume in sé l'attesa della

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creazione e la porta sino a Dio. Le due linee che il sal­mo 50 non aveva saputo riconciliare e che corrono parallele in tutto l'Antico Testamento senza mai unir­si, ora si incontrano realmente. Ora la «parola» non è più solo rappresentanza di qualcos'altro, di qualcosa di corporeo; ora nell'autodonazione di Gesù sulla cro­ce, essa è ricongiunta a tutta la realtà della vita e della sofferenza dell'uomo. Ora non c'è più un culto sosti­tutivo, ma il sacrificio vicario di Gesù che ci accoglie e ci conduce a quella somiglianza con Dio, a quell'e­vento di amore che è l'unica vera adorazione. Così l'eucaristia, a partire dalla croce e dalla resurrezione di Gesù, è il punto d'incontro di tutte le linee dell'an­tica alleanza, anzi, della storia delle religioni in gene­rale: il vero culto sempre atteso e tuttavia al di là delle nostre possibilità, l'adorazione «in spirito e verità». Il velo squarciato del tempio è il velo squarciato tra il volto di Dio e questo mondo: nel cuore trafitto del Crocifisso è aperto il cuore stesso di Dio; noi vediamo chi è Dio e com'è. Il cielo non è più chiuso: Dio è uscito dal suo nascondimento. Per questo Giovanni ri­assume il significato della croce e, allo stesso tempo, l'essenza del nuovo culto di Dio nelle misteriose pa­role del profeta Zaccaria (12,10): guarderanno a colui che hanno trafitto (Gv 19,37). Incontreremo ancora questa espressione, che ritorna con un significato nuo­vo in Ap 1,7. Per il momento cerchiamo di riassumere alcuni risultati che da quanto abbiamo detto si manife­stano con chiarezza.

1. Il culto cristiano, o meglio, la liturgia jlejla fede cristianà"*hT5ff ptìSR*essére intesa semplicemente come una forma cristianizzata del cuho ^inagogale, per quanto essà,"nél suo concreto configurarsi, sia debitri­ce della liturgia della, sinagoga. La sinagoga fu sempre subordinata al tempio e restò tale anche dopo la di-

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struzione di questo. La litujrjjiajje.lla parola, che si compie in essa con grandiosa intensità, è intimamente consapevole della propria incompiutezza e si distin­gue, proprio per questo, dallaliturgia della parola pro­pria dell'Islam, che - unitamente al pellegrinaggio e al drgttìtta — costituisce la totalità del culto divino ri­chiesto dal Corano. La liturgia che si,svolge nella si­nagoga è, invece, culto che si celebra nel tempo, dal momento che il tempio non c*S più e si attende la sua restaurazione. Il culto cristiano, invece, considera de­finitiva e teologicamente necessaria la distruzione del tempio di Gerusalemme: al suo posto è subentrato il tempio universale del Cristo risorto, le cui braccia di­stese sulla croce sono protese verso il mondo per atti­rare tutti nell'abbraccio dell'amore eterno. Il nuovo tempio esiste già e così pure il nuovo e definitivo sa­crificio: l'umanità di Cristo manifestata nella sua mor­te in croce e resurrezione; la preghiera dell'uomo Ge­sù è ora una sola cosa con il dialogo intratrinitario dell'amore eterno. Mediante l'eucaristia Gesù intro­duce gli uomini in questa preghiera, che è così la por­ta sempre aperta dell'adorazione e il vero sacrificio, il sacrificio della nuova alleanza, il «culto spirituale» (Rm 12,1). Le discussioni teologiche dell'epoca mo­derna hanno avutocorner fatale conseguenza che il culto divino della nuova alleanza è stato concepito co­me puramente sinagdgalé, in stretta contrapposizione con il tèmpio, che era considerato come espressione della Legge e quindi come uno stadio ormai superato della «religione». In tal modo non si era più in grado di intendere il sacerdozio e il sacrificio; il definitivo «compimento» della storia precristiana dellà^^Satfézzà e riMtnrra"iin!t§~èei'Testaménti non era più visibile. Una prospetfiva^più approfondita deve riconoscere che nella liturgia cristiana è stata recepita non solo la sinagoga, ma anche il tempio.

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2. Ciò^sjjmifica che il culto cristiano implicaXuni-versalità. E il culto del cielo aperto. Non è-jrjàÌj>ol0

revèritS'^una^^rrmnità che hauna determinata col­locazione spaziale. Celebrarejf^caristia significa in­vece entrare nell'adorazione di Dio che abbraccia il cielo e la terra, che sTe apèrti con la croce e la resur­rezione. La liturgia cristiana non è mai l'iniziativa di un determinato gruppo, di un determinato circolo o di una determinata chiesa locale. Il cammino dell'umani­tà verso l'unico Cristo si incontra con il venire di Cri­sto verso gli uomini. Egli vuole unificare l'umanità ed edificare l'unica Chiesa, l'assemblea di tutti gli uomi-fri radunata da Dio. Dimensione orizzontale e vertica­le, l'unicità di Dio e l'unità dell'umanità, la comunio­ne di tutti coloro che adorano in spirito e verità costi­tuiscono una sola cosa.

3. È in questa prospettiva che si deve considerare il concetto paolino della logike latreia^, il cujto spiritua­le, come la" formula pia adeguata ad esprimere la for­tuna essenziale della liturgia cristiana. In questo con­cetto confluiscono i movimenti spirituali dell'Antico Testamento e i processi di purificazione interiore della storia delle religioni, la ricerca umana e la risposta di­vina. Il Logos della creazione, il Logos nell'uomo, e il vero ed eterno Logos incarnato - il Figlio - si incon­trano. Tutti gli altri tentativi di determinare questa for­ma risultano riduttivi. Se, per t e m p i o , si descrive l'eucaristia come «assemblea», partendo dal fenome­no liturgico, o come «cena», a partire dall'atto fonda­tivo compiuto nell'ultima Pasqua di Gesù, si colgono solo alcuni singoli elementi, ma si perde di vista il grande contesto storico e teologico. Al contrario, la parola «eucaristia», che rinvia all'adorazione cioè alla forma universale delf adorazione che avviene nell'in­carnazione, passione e resurrezione di Cristo, può cer-

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tamente servire a esprimere in una formula breve l'i­dea della logike latreia e può quindi servire come ade­guata definizione della liturgia cristiana.

4. Tutte queste osservazioni permettono di eviden­ziare una dimensione essenziale della liturgia cristia­na, su cui dovremo riflettere concretamente nel pros­simo capitolo: la liturgia cristiana è, come abbiamo visto, liturgia dellapromessa compiuta, del movimen­to di ricerca della storia delle religioni giunto alla pro­pria meta, ma resta comunque liturgia della speranza. Anch'essa porta in sé il segno della provvisorietà. Il nuovo tempio, non eretto da mani d'uomo, è presente, ma è al 'tempo stesso ancora in costruzione. Il grande gesto dell'abbraccio che viene dal Crocifisso non è ancora giunto al traguardo, ma è solo cominciato. La liturgia cristiana è liturgia in cammino, liturgia del pellegrinaggio verso il cambiamento del mondo, che avverrà quando Dio sarà «tutto in tutti». X

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PARTE SECONDA

TEMPO E LUOGO NELLA LITURGIA

Capitolo primo

OSSERVAZIONI PRELIMINARI SUL RAPPORTO DELLA LITURGIA

CON LO SPAZIO E IL TEMPO

Nel realtà della fede cristiana possono ancora esser­ci dei particolari luoghi e tempi santi? Il culto cristia­no non è forse liturgia cosmica che abbraccia il cielo e la terra? Cristo ha sofferto «fuori della porta», sottoli­nea la lettera agli Ebrei, che aggiunge l'esortazione: «Usciamo dunque verso di lui fuori degli accampa­menti, portando il suo obbrobrio» (Eb 13,12). Non è forse il mondo intero il suo santuario? La santità non si compie forse proprio nella vita vissuta secondo giu­stizia? La nostra liturgia non consiste forse in una vita quotidiana vissuta nell'amore, nell'aprirsi al vero sa­crificio, divenendo così simili a Dio? Può forse esser­ci una sacralità diversa della sequela di Cristo nella sobria pazienza della vita quotidiana? Un tempo sacro diverso dal tempo dell'amore vissuto per il prossimo, quando e laddove le circostanze della nostra vita lo ri­chiedano?

Chi pone queste domande tocca un aspetto decisivo del concetto cristiano di culto e di adorazione, ma di­mentica qualcosa di essenziale del limite permanente dell'esistenza umana in questo mondo, dimentica il «non ancora», che appartiene all'esistenza cristiana, e sostiene che il nuovo cielo e la nuova terra sono già giunti. La venuta di Cristo e la diffusione della Chiesa fra tutti i popoli, il passaggio dal sacrificio del tempio all'adorazione universale «in spirito e verità», sono un

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primo passo importante, un passo verso il compimen­to delle promesse dell'Antico Testamento. Ma è chia­ro che la speranza non è ancora pienamente giunta al suo traguardo. La nuova Gerusalemme, che non ha più bisogno del tempio perché Dio, l'Onnipotente e l'Agnello stesso sono il suo tempio, avviata a divenire la città che non ha bisogno della luce del sole né della luna, perché la gloria di Dio la illumina e l'Agnello ne è la lampada (Ap 21,22s): non è ancora qui. Per que­sto i Padri hanno descritto gli stadi del compimento non semplicemente nella contrapposizione di Antico e Nuovo Testamento, ma nel triplice passo di ombra-immagine-realtà: nella Chiesa del Nuovo Testamento all'ombra subentra l'immagine: «La notte è avanzata nel suo corso, il giorno è imminente» (Rm 13,12). Ma - come afferma Gregorio Magno - è ancora il tempo dell'aurora, in cui tenebra e luce si mescolano, in cui il sole comincia a sorgere, ma non è ancora spuntato del tutto. Per questo il tempo del Nuovo Testamento rappresenta un particolare momento intermedio, una mescolanza di «già» e «non ancora», in cui le condi­zioni empiriche continuano a valere, ma allo stesso tempo sono già spezzate, continuano a spezzarsi, fino alla definitività che ha già avuto inizio in Cristo.

Da questo modo di intendere il Nuovo Testamento come tempo di transizione, come immagine tra ombra e realtà, deriva la forma specifica della teologia litur­gica. Essa si chiarisce meglio se teniamo presenti i tre livelli che sono essenziali per la costituzione del culto cristiano. C'è il piano intermedio, quello propriamen­te liturgico, che è a tutti noi ben conosciuto; esso si manifesta nelle parole e nelle azioni di Gesù durante l'ultima cena. Queste costituiscono il nucleo della ce­lebrazione liturgica cristiana, la cui struttura deriva tra l'altro dalla sintesi del culto sinagogale e di quello del

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tempio, benché al posto degli atti sacrificali del tem­pio subentrino il canone eucaristico, come partecipa­zione all'azione compiuta da Gesù nella cena, e la dis­tribuzione dei doni trasformati. Ma questo piano pro­priamente liturgico non si regge da sé; esso ha senso solo se si riferisce a un evento reale e a una realtà che nella sua essenza è rimasta presente. Diversamente sa­rebbe come un ricordo privo di consistenza, senza un contenuto reale. Il Signore poteva dire che il suo cor­po era «offerto» solo perché egli lo ha realmente of­ferto; poteva offrire nel nuovo calice il sangue versato per molti, perché egli lo ha realmente versato. Questo corpo non è, insomma, il corpo per sempre morto di un defunto, né il sangue un elemento vitale ormai pri­vo di vita, ma l'offerta diventa dono perché il corpo dato nell'amore, il sangue versato nell'amore, me­diante la resurrezione è entrato nell'eternità dell'amo­re, che è più forte della morte. Senza croce e resurre­zione il culto cristiano è privo di valore e una teologia della liturgia che tralasci questo riferimento non fa­rebbe che parlare di un gioco vuoto.

Se riflettiamo su questo fondamento reale che so­stiene la liturgia cristiana, c'è ancora qualcosa di im­portante da osservare. La crocifissione di Cristo, la sua morte sulla croce e, in modo diverso, l'atto della resurrezione dal sepolcro, che dà incorruttibilità al corruttibile, sono eventi storici unici, che come tali appartengono al passato. Per essi vale in senso stretto il «semel» iephapax) - l'«una volta sola» che la lette­ra agli Ebrei mette in evidenza rispetto alla moltepli­cità dei sacrifici dell'Antico Testamento. Ma se fosse­ro solo fatti del passato, come tutti i dati che appren­diamo dai libri di storia, non sarebbe possibile alcuna contemporaneità con essi. Essi resterebbero per noi ir­raggiungibili. All'atto esteriore della crocifissione corrisponde però un atto interiore dell'offerta (il corpo

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è «dato per voi»): nessuno può togliermi la vita, io la do da me stesso, afferma il Signore nel Vangelo di Giovanni (10,18). Questo atto di offerta non è affatto un avvenimento solo spirituale. E un atto spirituale che include in sé quello corporale, che abbraccia l'uo­mo nella sua interezza, anzi, è al tempo stesso un atto del Figlio: l'obbedienza della volontà umana di Gesù affonda nel persistente sì del Figlio al Padre, secondo la magnifica formulazione di Massimo il Confessore. Così questo «dare», che nel passivo del venire croci­fisso coinvolge la passione della natura umana nell'a­zione dell'amore, abbraccia tutte le dimensioni della realtà: corpo, anima, spirito, logos. Come il dolore corporale è coinvolto nel pathos dello spirito e diventa il sì dell'obbedienza, così il tempo è coinvolto in ciò che va oltre il tempo. Il vero atto interiore, che peral­tro non avrebbe consistenza senza quello esteriore, su­pera il tempo, ma, poiché viene dal tempo, questo può sempre essere in esso recuperato. Per questo la con­temporaneità è possibile. E ciò che intende Bernardo di Chiaravalle quando dice che il vero semel (una vol­ta) porta in sé il semper (sempre): nell'Unico accade il Permanente. Nella Bibbia l'«una volta sola» è sottoli­neato nella maniera più forte dalla lettera agli Ebrei, ma se la si legge attentamente si troverà che proprio questa relazione di cui parla san Bernardo esprime la sua vera intenzione. Vephapax (una volta sola) è le­gato all'aionios (perpetuo). L'«oggi» abbraccia tutto il tempo della Chiesa. Proprio per questo nella liturgia cristiana non solo si partecipa del passato, ma vi è contemporaneità con ciò che fonda questa liturgia: è questo il vero nucleo e la vera grandezza della cele­brazione eucaristica, che è sempre più che una cena: è l'essere coinvolti nella contemporaneità con il mistero pasquale di Cristo, nel suo passaggio dalla tenda della transitorietà al cospetto del volto di Dio.

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Torniamo al nostro punto di partenza. Abbiamo det­to che c'è il piano dell'evento fondante e, in secondo luogo, quello dell'attuazione liturgica, il vero e proprio piano liturgico. Ho cercato di mostrare come i due pia­ni siano tra loro intrecciati. Se il passato e il presente si compenetrano, se l'essenziale del passato non è affatto passato, ma è forza che si trasmette ai presenti che si succedono, ciò significa che anche il futuro è presente in questo evento, che esso per sua natura deve essere definito anticipazione di ciò che avverrà. Ma su questo non dobbiamo essere precipitosi. Il pensiero dell'e-schaton, del Cristo che tornerà, si impone subito, ed è giusto. Ma qui c'è un'altra dimensione che va conside­rata: questa liturgia - come abbiamo visto - non è un surrogato, ma ha una funzione vicaria. Ciò che si in­tende con tale distinzione diventa qui chiaro. Non ven­gono sacrificati degli animali, un «qualcosa» che in fondo mi resta estraneo. Questa liturgia si basa sulla passione di un uomo che con il suo io entra nel mistero del Dio vivente - che è «Figlio». Per questo essa non può mai essere semplicemente actio liturgica. La sua origine porta in sé il suo futuro anche nel senso che la funzione vicaria coinvolge coloro che sono rappresen­tati, non rimane loro esteriore, ma dà loro forma. La contemporaneità con la Pasqua di Cristo, che ha luogo nella liturgia della Chiesa, è anche una realtà antropo­logica. La celebrazione non è solo rito, non è solo un «gioco» liturgico, essa vuole essere logike latreia, tra­sformazione della mia esistenza in direzione del logos, contemporaneità interiore tra me e l'offerta di Cristo. La sua offerta vuole diventare la mia, perché la con­temporaneità si compia e avvenga l'assimilazione con Dio. Per questo nella Chiesa antica il martirio è stato considerato una vera celebrazione eucaristica: realizza­zione estrema della contemporaneità con Cristo, del­l'essere una cosa sola con Lui. La liturgia rinvia infatti

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alla vita quotidiana, a me nella mia esistenza persona­le. Essa mira, come osserva Paolo nel testo già citato, a far sì che «i nostri corpi» (cioè le nostre esistenze cor­poree terrene) diventino «sacrificio vivente», in comu­nione con il sacrificio di Cristo (Rm 12,1). Solo così si spiega l'insistenza delle preghiere di accettazione, che sono caratteristiche di ogni liturgia cristiana. Una teo­logia che non vede i nessi ora evidenziati può conside­rarle solo come contraddittorie o come una ricaduta nel precristiano, dal momento che il sacrificio di Cristo è già stato accettato da lungo tempo. Sì, ma nella sua funzione vicaria esso non è ancora giunto alla fine. Il semel (una volta) vuole arrivare al suo semper (sem­pre). Questo sacrificio è completo solo quando il mon­do è divenuto spazio di amore, come lo vede Agostino nella sua «città di Dio». Allora - come abbiamo accen­nato all'inizio - il culto completo è il completamento dell'evento del Golgota. Per questo nelle preghiere di accettazione noi chiediamo che la funzione vicaria di­venti realtà e ci afferri. Per questo nelle preghiere del Canone romano ci associamo ai grandi sacrificatori della preistoria: Abele, Melchisedek, Abramo. Essi si rivolgevano al Cristo che doveva venire, erano antici­pazioni di Cristo o, come dicono i Padri, typoi di Cri­sto. Anche coloro che lo hanno preceduto potevano en­trare nella contemporaneità con Lui, quella che implo­riamo per noi stessi.

Si è quasi tentati di dire che questa terza dimensione della liturgia, il suo essere protesa tra la croce di Cristo e il nostro procedere vitale verso colui che ci ha rap­presentati e che vuole essere «uno» con noi (Gal 3,18.28), esprima la sua pretesa morale. E senza dub­bio nel culto cristiano è contenuta una pretesa morale, ma si tratta di molto più che un puro moralismo. Il Si­gnore ci ha anticipati, ha già fatto la nostra parte, ha

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aperto la strada che noi non potevamo aprire perché la nostra forza non era sufficiente a costruire il ponte fino a Dio. Lui stesso è divenuto questo ponte. E ora si trat­ta di lasciarci assorbire in questo essere «per», di la­sciarci accogliere dalle sue braccia aperte che ci porta­no verso l'alto. Egli, il Santo, ci santifica con la santità che non potremmo mai darci da soli. Veniamo inclusi nel grande processo storico in cui il mondo procede verso la promessa del Dio «tutto in tutti». In questo senso, quella che da principio appare come dimensione morale è al tempo stesso la dinamica escatologica del­la liturgia: la «pienezza» di Cristo, di cui parlano le lettere della prigionia di san Paolo, diventa realtà, e so­lo così l'evento pasquale si compie attraverso la storia: sino alla fine dura l'«oggi» di Cristo (Eb 4,7ss).

Se ora riesaminiamo le riflessioni fin qui svolte in questo capitolo, notiamo che due volte - in ambiti di­versi - abbiamo incontrato un triplice passaggio. La liturgia, come abbiamo visto, è caratterizzata dalla tensione con la Pasqua storica di Gesù (croce e resur­rezione), suo fondamento reale. Nella singolarità di questo evento si è formato qualcosa di permanente che - ed è il secondo passo - nell'azione liturgica en­tra nel nostro presente e - terzo passo - a partire da lì vuole raggiungere e investire la vita di coloro che ce­lebrano e, quindi, l'intera realtà storica. L'evento im­mediato - la liturgia - ha un senso ed è significativo per la nostra vita solo se porta in sé le altre due di­mensioni; passato, presente e futuro si compenetrano e toccano l'eternità. In precedenza avevamo incontra­to tre gradi della storia della salvezza che - secondo la formula dei padri della Chiesa - procede dall'ombra all'immagine fino alla realtà. Inoltre avevamo visto che nel nostro tempo - il tempo della Chiesa - ci tro­viamo in una fase intermedia del cammino della sto-

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ria: il velo del tempio si è squarciato, il cielo si è aper­to grazie all'unione dell'uomo Gesù, e quindi di tutta l'umanità, con il Dio vivente. Ma questa nuova apertu­ra si comunica a noi solo attraverso i segni della sal­vezza. Abbiamo bisogno della mediazione e non ve­diamo ancora il Signore «così come egli è». Se ora so­vrapponiamo i due schemi tripartiti - quello storico e quello liturgico -, vediamo che la liturgia è appunto l'espressione di questa situazione storica, esprime il carattere intermedio del tempo delle immagini in cui ci troviamo. La teologia della liturgia è in modo partico­lare «teologia simbolica», teologia dei simboli che ci legano a Colui che è al contempo presente e nascosto.

Da ciò deriva in definitiva la risposta alla domanda da cui siamo partiti: dopo che il velo del tempo si è squarciato e il cuore di Dio è aperto per noi nel cuore trafitto del Crocifisso, abbiamo ancora bisogno dello spazio sacro, del tempo sacro, dei simboli mediatori? Sì, ne abbiamo bisogno proprio per imparare attraver­so 1'«immagine», attraverso il segno, a vedere il cielo aperto, per riuscire a riconoscere nel cuore trafitto del Crocifisso il mistero di Dio. La liturgia cristiana non è più culto sostitutivo, ma un venirci incontro di colui che ci rappresenta, partecipazione alla sua azione vi­caria come partecipazione alla realtà stessa. Prendia­mo parte alla liturgia celeste, sì, ma questa partecipa­zione si comunica a noi attraverso i segni terreni che il Redentore ci ha mostrato come spazio della sua realtà. Nella celebrazione liturgica si compie in certo qual modo il passaggio d&Wexitus al reditus, l'uscita diventa ritorno, la discesa di Dio diventa nostra asce­sa. La liturgia introduce il tempo terreno nel tempo di Gesù Cristo e nella sua presenza. Essa è il punto di svolta nel processo della redenzione: il pastore si met­te sulle spalle la pecora smarrita e la porta a casa.

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Capitolo secondo

LUOGHI SANTI: IL SIGNIFICATO DELL'EDIFICIO CHIESA

Anche i più decisi avversari della sacralità - nel ca­so specifico del luogo sacro - ammettono che la co­munità cristiana ha bisogno di un"lùog^~3ove riunirsi e definiscono a partire da qui la funzione dell'edificio chiesa in sen§g..non sacrale, rna,rigorosamente, funzio­nale: esso rende possibile l'incontro liturgicoJ Questa è indiscutibilmente una funzione essenziale dell'edifi­cio chiesa, grazie alla quale esso differisce dalla for­ma classica del tempio nella maggior paté delle reli­gioni. Il rito di espiazione nel Santo dei Santi dell'an­tica Alleanza è celebrato solamente dal sommo sacer­dote; nessuno al di fuori di lui può accedervi e lui stesso può farlo solo una volta all'anno. Similmente, anche i templi di tutte le altre religioni non sono di so­lito luoghi di riunione degli oranti, ma spazi cultuali riservati alla divinità. Il fatto che l'edific[q_cristiano venga ben presto denominato domus ecclesiae (casa della «Chiesa», dell'assemblea del pòpolo di Dio) e che poi il termine ecclesia (assemblea, chiesa) venga usato per definire in forma abbreviata non solo la co­munità vivente ma anche la casa che la ospita, mani­festa un'altra concezione: il «culto» lo celebra Cristo stesso nel suo stare davanti afPàctre,e Lui il culto dei suoi nermo'fflenfÒ in cui essi si radunano con Lui e in­torno a Lui. Questa differenza essenziale tra lo spazio della liturgia cristiana e i «templi» non può tuttavia essere spinta sino a una falsa contrapposizione, in cui

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viene interrotta la continuità interna della storia reli­giosa dell'umanità, che non appare mai annullata nel­l'Antico come nel Nuovo Testamento, malgrado tutte le differenze esistenti. Cirillo di Gerusalemme nella sua XVIII Catechesi (23-^5fpne giustamente l'ac­cento sul fatto che la parola cotiygfqtio' (aynagogé-ek-klesia = assemblea del popolo convocato), laddove compare per la prima volta - nel Pentateuco, in occa­sione della consacrazione di Aronne -, è esplicitamen­te ordinata al culto. Egli mostra che questo è vero an­che in tutti gli altri passi della Torà e che tale correla­zione non va perduta nel passaggio al nuovo Testa­mento. La convocazione, l'assemblea, ha uno scopo; e tale scopo è il culto, da cui deriva e verso cui tende la chiamata. È il culto che riunisce i convocati, che dà dignità e significato al loro incontro, vale a dire al lo­ro essere una cosa sola in quella «pace» che il mondo non può dare. Ciò è chiaro anche nel prototipo della ekklesia per l'Antico come per il Nuovo Testamento: la comunità del, Sinai. Essa si raduna per ascoltare la parola di "Dio* e per suggellarla nell'evento sacrificale, così che si stabilisca il «patto» tra Dio e l'uomo.

Ma anziché proseguire con riflessioni di carattere generale, osserviamo più attentamente il modo in cui lo spazio ecclesiale ha concretamente preso forma. Louis Bouyer - richiamandosi soprattutto alle ricer­che di E.L. Sukenik - ha mostrato come la casa di Dio cristiana sia sorta in stretta continuità con la sinagoga e, senza drammatiche rotture, abbia ricevuto la sua specifica novità cristiana mediante la comunione con Gesù Cristo, crocifisso e risorto. Questo stretto nesso con la sinagoga, con la sua struttura architettonica e le sue forme cultuali, non contraddice affatto ciò che ab­biamo detto sinora, e cioè che la liturgia cristiana in­clude in sé anche il tempio e non è solo una continua-

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zione della sinagoga. Difatti la sinagoga stessa si ri­chiamava al tempio. La sinagoga non era semplice­mente un luogo di insegnamento, una sorta di sala di insegnamento religioso - secondo l'espressione di Bouyer -, ma era sempre incentrata sulla presenza di Dio. Questa presenza di Dio, però, per gli ebrei era (ed è) strettamente legata al tempio. La sinagoga era dunque caratterizzata da due punti focali. Il primo era la «cattedra di Mosè», della quale parla anche Gesù nel Vangelo (Mt 23,2). Il rabbino non dice niente di suo, non è nemmeno un professore che analizza e fa una riflessione di tipo intellettuale sulla parola di Dio; egli rende presente la parola che Dio attraverso Mosè ha comunicato a Israele e comunica tutt'oggi. Dio parla oggi attraverso Mosè. La cattedra di Mosè esiste perché il Sinai non sia solo esperienza del passato, perché qui non avviene solo un discorso umano, ma è Dio a parlare.

La cattedra di Mosè non esiste quindi come un polo autonomo. Né è semplicemente rivolta al popolo: il rabbino - come tutti coloro che si trovano nella sina­goga - è rivolto all'arca dell'Alleanza, o meglio, allo scrigno della Torà che rappresenta l'arca scomparsa. L'arca dell'Alleanza fu sino all'esilio l'unico «ogget­to» che poteva trovar posto nel Santo dei Santi e gli conferiva il suo carattere peculiare. L'arca era intesa come un trono vuoto, su cui si posava la Shekhinà, la nube della presenza di Dio. I cherubini, in cui erano rappresentati gli elementi del mondo, vi figuravano come «assistenti del trono»; non più divinità autono­me, ma espressione delle forze della creazione in ado­razione dell'unico Dio. «Tu che siedi tra i cherubini», così viene invocato il Dio che i cieli non possono con­tenere, ma che ha scelto l'arca santa come «sgabello» della Sua presenza. In questa prospettiva l'arca sim-

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boleggia in qualche modo la presenza reale di Dio tra i suoi: essa è al tempo stesso impressionante raffigura­zione dell'assenza di immagini nel culto veterotesta­mentario, che lascia Dio nella sua sovranità e, per così dire, gli offre solo lo sgabello del suo trono. L'arca dell'Alleanza era andata smarrita nell'esilio, da allora il Santo dei Santi era vuoto: così lo trovò Pompeo quando, attraversando il tempio, scostò il velo, entrò incuriosito nel Santo dei Santi e proprio in quello spa­zio vuoto incontrò ciò che è più peculiare della reli­gione biblica: il Santo dei Santi vuoto era divenuto ora anche un atto di attesa, di speranza che Dio stesso ricostruirà il suo trono.

Se la sinagoga contiene nello scrigno della Torà una sorta di arca dell'Alleanza, essa è proprio per questo il luogo di una specie di «presenza reale», poiché in essa sono conservati i rotoli della Torà: la parola vivente di Dio, attraverso la quale egli dimora in Israele in mezzo al suo popolo. Per questo lo scrigno era circondato da segni di riverenza, rivolti alla misteriosa presenza di Dio: esso era protetto da un velo, davanti al quale ar­devano le sette luci della menorà, il candelabro a sette bracci. Tuttavia la presenza nella sinagoga di un'«arca dell'alleanza» non significa affatto che ora la comunità locale sia divenuta autarchica, sufficiente a se stessa, ma che proprio essa è il luogo del proprio autosupera­mento in direzione del tempio, della comunità dell'u­nico popolo di Dio a partire dall'unico Dio: si tratta ovunque dell'unica e medesima Torà. In tal modo l'ar­ca rinvia oltre se stessa, all'unico luogo della sua pre­senza che Dio si è scelto - il Santo dei Santi nel tem­pio di Gerusalemme. Questo Santo dei Santi del tem­pio restò, come spiega Bouyer, «il fulcro ultimo del culto della sinagoga» (18). Così «tutte le sinagoghe, al tempo di Gesù e da quell'epoca in poi, sono orientate

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verso Gerusalemme». Il rabbino e il popolo guardano all'«arca dell'Alleanza» e, facendo questo, si volgono verso Gerusalemme, verso il Santo dei Santi del tem­pio in quanto luogo della presenza di Dio per il suo po­polo. Le cose restarono così anche dopo la distruzione del tempio. Se già il Santo dei Santi vuoto era stato espressione di una speranza, è ora il tempio distrutto ad attendere il ritorno della Shekhinà, la propria rico­struzione ad opera del Messia che verrà.

Questo orientamento verso il tempio e il conse­guente legame della liturgia della parola sinagogale con la liturgia sacrificale del tempio si manifesta nella forma della preghiera. Le preghiere recitate durante lo svolgimento e la lettura del rotolo della Torà proven­gono dalle preghiere rituali originariamente connesse alle azioni sacrificali del tempio e che ora - secondo la tradizione dell'epoca in cui non c'era più il tempio - potevano essere considerate un equivalente del sa­crificio stesso. La prima delle due grandi preghiere del rito sinagogale culmina nella recita comune della Qedushà, di cui fanno parte l'inno dei serafini di Isaia 6 e l'inno dei cherubini di Ezechiele 3. Bouyer osser­va in proposito: «la verità dev'essere che l'associarsi degli uomini a questi cantici celesti, nel culto del tem­pio, era stato indubbiamente un aspetto centrale del­l'offerta del sacrificio dell'incenso, mattina e sera» (21). Tutto ciò non fa ricordare il Trisaghion della li­turgia cristiana, il «tre volte santo» all'inizio del cano­ne, in cui la comunità non riporta propri pensieri o poesie, ma si innalza al di sopra di sé, associandosi al­l'inno di lode cosmico dei cherubini e dei serafini? L'altra grande preghiera della sinagoga culmina «con la recita della 'Avodà che, secondo i rabbini, era stata a suo tempo la preghiera di consacrazione dell'olo­causto quotidiano al tempio» (21). La supplica qui ag-

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giunta per invocare l'avvento del Messia e la restaura­zione finale di Israele potrebbe, secondo Bouyer, es­sere intesa «come l'espressione dell'essenza del culto sacrificale» (21). Ricordiamoci qui del passaggio dai sacrifici di animali all'«adorazione razionale» che se­gna il passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento. Resta infine da accennare al fatto che per la sinagoga non fu inventata una tipologia architettonica propria, ma si utilizzò la costruzione tipicamente greca riser­vata alle riunioni pubbliche: la «basilica» (19), le cui navate laterali, separate da file di colonne, facilitava­no la circolazione di quanti entravano.

Mi sono soffermato così a lungo sulla descrizione della sinagoga perché qui si rendono già visibili le co­stanti essenziali dello spazio liturgico cristiano e, quindi, si può chiaramente cogliere l'unità essenziale dei due Testamenti. Non desta meraviglia che questo stretto legame tra sinagoga ed edificio di culto cristia­no, come continuità e rinnovamento nello spirito, si sia mantenuto nella sua forma originale soprattutto negli edifici della cristianità semitica, non greca, dun­que nell'ambito delle chiese monofisite e nestoriane dell'Asia Minore, che al tempo delle controversie cri-stologiche del V secolo si separarono dalla Chiesa im­periale bizantina. Rispetto alla forma fin qui delineata della sinagoga, dall'essenza della fede cristiana deri­vano tre innovazioni che costituiscono il tratto pro­priamente nuovo e specifico della liturgia cristiana. In primo luogo non si guarda più a Gerusalemme, il tem­pio distrutto non è più considerato il luogo della pre­senza terrena di Dio. Il tempio di pietra non esprime più la speranza dei cristiani; il suo velo è squarciato per sempre. Ora si guarda a oriente, al sole che sorge. Non si tratta di un culto solare, ma è il cosmo che par­la di Cristo. In riferimento a Lui viene ora interpretato

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l'inno solare del salmo 19 (18), dove si dice: «egli [il sole] è come uno sposo che esce dal suo talamo [...]. Dall'estremità dei cieli è la sua levata, ai loro confini è il suo ritorno» (vv. 6s). Questo salmo passa diretta­mente dalla celebrazione della creazione alla lode del­la legge. Ciò viene ora inteso a partire da Cristo, che è la vera parola, il logos eterno e, dunque, la vera luce della storia, che è sorto a Betlemme dalla camera nu­ziale della Vergine Madre e che ora illumina il mondo intero. L'oriente sostituisce come simbolo il tempio di Gerusalemme, Cristo - rappresentato nel sole - è il luogo della Shekhinà, il vero trono del Dio vivente; nell'incarnazione la natura umana è divenuta vera­mente il trono di Dio, che è così legato per sempre al­la terra e accessibile alla nostra preghiera. La preghie­ra verso oriente fu considerata nella Chiesa antica una tradizione apostolica. Benché non si possa datare con certezza l'inizio di questo cambiamento di orienta­mento, dalla direzione del tempio all'oriente, è co­munque certo che esso risale a un'epoca remotissima e che è sempre stato considerato un tratto caratteristi­co della liturgia cristiana (anche nella preghiera priva­ta). A questo «orientamento» (oriens - est, oriente; orientamento significa quindi «indirizzare verso est») della preghiera cristiana sono associati diversi signifi­cati. Orientamento è anzitutto semplice espressione dello sguardo rivolto a Cristo come luogo di incontro tra Dio e l'uomo. Esso esprime la forma cristologica fondamentale della nostra preghiera. Il fatto però che si veda Cristo simboleggiato nel sole che sorge rinvia anche a una cristologia escatologicamente determina­ta. Il sole simboleggia il Signore che tornerà, l'ultima alba della storia. Pregare rivolti a oriente significa an­dare incontro a Cristo che viene. La liturgia rivolta a oriente opera, allo stesso tempo, l'ingresso nel corso della storia che muove verso il suo futuro, verso il

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nuovo cielo e la nuova terra che in Cristo ci vengono incontro. Essa è preghiera della speranza, è il pregare camminando nella direzione che ci indicano la vita di Cristo, la sua passione e la sua resurrezione. Proprio per questo, ben presto, in diverse parti della cristiani­tà la direzione dell'oriente venne indicata dalla croce. Lo si può desumere anche da un parallelo tra Ap 1,7 e Mt 24,30. Nell'Apocalisse di Giovanni si legge: «Ec­co: viene tra le nubi; tutti gli uomini lo contempleran­no, anche quelli che l'hanno trafitto; e si batteranno per lui il petto tutte le tribù della terra. Sì, amen!». L'autore dell'Apocalisse si richiama qui a Gv 19,37, dove, alla fine della scena della crocifissione, viene citato il misterioso detto profetico di Zc 12,10: «Guarderanno a colui che hanno trafitto», che ora ac­quista d'un tratto un significato concreto. Infine, in Mt 24,30 vengono riportate queste parole del Signo­re: «Allora [alla fine dei giorni] apparirà nel cielo il segno del Figlio dell'uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra [Zc 12,10] e vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi del cielo [Dn 7,13] con grande potenza e splendore». Il segno del Figlio dell'uomo, di Colui che è stato trafitto, è la croce, che diviene ora il segno della vittoria del Risorto. In tal modo il simbolismo della croce e quello dell'oriente si intrecciano; ambedue sono espressione della stessa e unica fede, in cui la memoria della Pasqua di Gesù si fa presenza e le conferisce la dinamica della spe­ranza che va incontro a Colui che viene. Infine, que­sto volgersi a oriente significa anche che il cosmo e la storia della salvezza sono tra loro collegati. 11 co­smo entra in questa preghiera, anch'esso attende la li­berazione. Proprio questa dimensione cosmica è un elemento essenziale della liturgia cristiana. Essa non si compie mai solo nel mondo che l'uomo si è fatto da sé. Essa è sempre liturgia cosmica - il tema della

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creazione è parte integrante della preghiera cristiana. Essa perde la sua grandezza se dimentica questo stretto rapporto. Per questo bisognerebbe assoluta­mente riprendere la tradizione apostolica dell'orienta­mento verso est degli edifici cristiani e della stessa prassi liturgica, almeno dove ciò è possibile. Tornere­mo su questo tema quando parleremo dell'ordina­mento della preghiera liturgica.

La seconda novità rispetto alla sinagoga consiste nel fatto che compare un elemento completamente nuovo, che nella sinagoga non poteva esserci: alla pa­rete orientale, ovvero nell'abside, c'è ora l'altare, su cui viene ora celebrato il sacrificio eucanstìcoTCome abbiamo visto, l'eucaristia è un entrare nella liturgia celeste, un divenire contemporanei all'atto di adora­zione di Gesù Cristo in cui egli, mediante il suo cor­po, assume- irrse il tempo del mondo e contempora­neamente lo innalza al di sopra del tempo stesso por­tandolo fino alla comunione dell'eterno amore. Per questo Va][tare.significa un ingresso dell'oriente nella comunità radunata e un'uscita della comunità dal car­cere di questo mondo attraverso il velo ora aperto; si­gnifica, inoltre, partecipazionealla Pasqua, al «pas­saggio» dal mondo aT^icTcne Cristo ci ha aperto. È chiaro che l'altare nell'abside guarda verso 1'«Orien­te» e ne è al tempo stesso parte. Se nella sinagoga, al di là dell'arca santa, dello scrigno della parola, si era guardato verso Gerusalemme, ora con l'altare si è po­sto un nuovo baricentro: in esso - Tcfripetiamo - torna a essere presente ciò che prima era significato dal tempio. Esso serve anzi alla nostra contemporaneità con il sacrificio del logos. Trattiene così il cielo nella comunità radunata o, piuttosto, la porta al di sopra di sé nella comunione dei santi di ogni luogo e di ogni tempo. Potremmo anche affermare che l'altare è, per

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così dire, il luogo del cielo squarciato; esso non chiu­de lo spazio ecclesiale, ma lo apre alla liturgia eterna. Avremo modo in seguito di parlare delle conseguenze pratiche di questo significato dell'altare cristiano, dal momento che la questione della giusta collocazione dell'altare sta al centro delle polemiche postconciliari.

Prima, però, dobbiamo ancora finire di trattare i cambiamenti che investono la sinagoga a partire dal­l'essenza della fede cristiana. Il terzo elemento che va notato, a questo proposito, è che l'arca della Scrittura viene conservata e mantiene la sua collocazione nel­l'edificio ecclesiastico, ma anche qui con una novità sostanziale. Alla Torà si aggiungono i Vangeli, che so­li possono svelare il senso della Torà: «Di me ha scrit­to Mosè», dice Cristo (Gv 5,46). Lo scrigno della pa­rola, l'«arca dell'alleanza», diventa ora il trono del­l'Evangelo, che certo non abolisce le «Scritture», non le mette da parte, ma le spiega, così che esse formano ora anche le «Scritture» dei cristianie senza di loro il Vangelo sarebbe senza fondamento. Viene mantenuta l'usanza sinagogale di coprire lo scrigno con un velo per esprimere la santità della parola. Ne deriva del tut­to spontaneamente che anche il nuovo, il secondo luo­go santo, l'altare, viene avvolto con un velo, da cui nella Chiesa orientale si è sviluppata l'iconostasi. La duplicità dei luoghi santi ebbe una conseguenza im­portante per la prassi liturgica: nella liturgia della pa­rola la comunità era radunata into*ffl9' alto scrigno dei libri sacri, ovvefóssia intorno alla cattedra ad esso as­sociata e che da cattedra di Mosè divenne cattedra episcopale. Come il rabbino non parlava per sua auto­rità, così ora il vescovo spiega la Bibbia in nome e per conto di Cristo, per cui essa da parola scritta e passata torna a essere ciò che è: discorso presente che Dio ri­volge a noi. A conclusione della,.liturgia della parola,

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durante la quale i fedeli si raccolgono attorno al seg­gio erjiscojgale, tutti i presenti con il vescovo si spo­stano attorno all'altare, dove si ode l'appello: conversi ad Dominion - volgetevi al Signore, vale a dire: guar­date ora, insieme con il vescovo, verso oriente, nel senso dell'affermazione della lettera agli Ebrei: «avendo lo sguardo fisso su Gesù, autore e consuma­tore della fede» (12,2). La liturgia eucaristica si com­pie tenendo lo sguardo su Gesù, è sguardo rivolto a Lui. La liturgia ha dunque nella struttura della chiesa cristiana primitiva due luoghi. Il primo è quello della liturgia della parola, al centro dello spazio, nel quale i fedeli sono radunati attorno al bema, una sorta di tri­buna su cui si trovavano il trono dell'Evangelo, il seg­gio episcopale e il leggio. La liturgia eucaristica vera e propria ha il suo luogo nell'abside, presso l'altare, che i fedeli circondano, rivolti tutti, con il celebrante, verso oriente, al Signore che viene.

Bisogna, infine, accennare a un'ultima differenza tra la sinagoga e le chiese delle origini: in Israele solo la presenza degli uomini era considerata fondamentale per la celebrazione del culto. Solo a loro si riferiva il sacerdozio universale descritto in Esodo 19. Nella si­nagoga le donne potevano quindi trovar posto solo sulle tribune o nelleJbgge. Nella Chiesa di. Cristo, già a partire dagli apostoli, da Gesù stesso, non esisteva tale distinzione. Anche se alle donne non veniva affi­dato il servizio pubblico della parola, esse erano co­munque pienamente coinvolte nella celebrazione litur­gica, esattamente come gii nomini. Per questo esse -sia pur separate dagli uomini - trovavano posto nello spazio sacro, attorno al bema come attorno all'altare.

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Capitolo terzo

L'ALTARE E L'ORIENTAMENTO DELLA PREGHIERA NELLA LITURGIA

Le trasformazioni fin qui descritte della sinagoga in funzione della liturgia cristiana permettono - come si è già detto - di riconoscere molto chiaramente la conti­nuità e la novità nel rapporto tra Antico e Nuovo Testa­mento anche dal punto di vista architettonico. Prendeva così forma lo spazio per il culto cristiano vero e proprio, la celebrazione eucaristica, con il servizio della parola ad essa ordinato. È chiaro che ulteriori sviluppi erano non solo possibili, ma necessari. Il battesimo doveva trovare un suo spazio appropriato. Il sacramento della penitenza ha avuto una lunga evoluzione, i cui risultati dovevano trovare riscontro nella conformazione della chiesa. La devozione popolare, nelle sue molteplici for­me, ha trovato necessariamente espressione anche nello spazio liturgico. Bisognava chiarire la questione delle immagini, trovare una giusta collocazione alla musica sacra. Ma anche il canone architettonico della liturgia della parola e di quella sacramentale, così come noi lo conosciamo, non era affatto rigido; naturalmente di fronte a ogni evoluzione e cambiamento ci si deve chie­dere che cosa corrisponde all'essenza della liturgia e che cosa allontana da essa. In relazione a questa doman­da la forma degli spazi liturgici della cristianità di lin­gua e cultura semitica, di cui abbiamo parlato poco so­pra, offre dei criteri che non è possibile trascurare. So­prattutto, però, al di là di tutti i cambiamenti, una cosa è rimasta chiara per tutta la cristianità, fino al secondo

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millennio avanzato: la preghiera rivolta a oriente è una tradizione che risale alle origini ed è espressione fonda­mentale della sintesi cristiana di cosmo e storia, di at­taccamento alla unicità della storia della salvezza e di cammino verso il Signore che viene. La fedeltà a ciò che ci è stato già donato così come la dinamica del pro­gredire trovano in essa pari espressione.

L'uomo contemporaneo comprende poco tale «orientamento». Mentre per l'ebraismo e per l'Islam continua a essere ovvio che si deve pregare rivolti verso il luogo centrale della rivelazione - verso Dio che si è mostrato a noi, dove e come egli si è mostrato a noi -, nel mondo occidentale è divenuto dominante un pensiero astratto che, per qualche aspetto, è persi­no frutto della stessa evoluzione della cultura cristia­na. Dio è spirito, e Dio è dappertutto. Ciò non signifi­ca forse che la preghiera non è legata a nessun luogo e a nessuna direzione? In effetti, noi possiamo pregare dovunque, e Dio è per noi raggiungibile dovunque. Questa universalità del pensiero cristiano è conse­guenza dell'universalità cristiana, dello sguardo cri­stiano al Dio che è al di sopra di tutti gli dei, che ab­braccia il cosmo e che è più intimo a noi di noi stessi. Ma la consapevolezza di questa universalità è frutto della rivelazione: Dio si è mostrato a noi. Solo per questo lo conosciamo, solo per questo possiamo ab­bandonarci con fiducia a lui nella preghiera in ogni luogo. E proprio per questo continua a essere appro­priato il fatto che nella preghiera cristiana trovi espressione la dedizione fiduciosa al Dio che si è rive­lato a noi. E come Dio stesso ha preso un corpo, è en­trato nello spazio e nel tempo della terra, così è giusto - almeno nella preghiera liturgica comunitaria - che il nostro parlare con Dio sia «incarnato», cristologico, si volga al Dio trinitario attraverso la mediazione del

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Verbo Incarnato. Il simbolo cosmico del sole che sor­ge esprime ad un tempo l'universalità al di sopra di tutti i luoghi e mantiene comunque la concretezza del­la rivelazione di Dio. La nostra preghiera si colloca così nella processione dei popoli verso Dio.

Come stanno però le cose con l'altare? In quale di­rezione preghiamo nella liturgia eucaristica? Mentre nella costruzione delle chiese bizantine la struttura ora descritta veniva sostanzialmente mantenuta, a Roma si è andata sviluppando una diversa disposizione. Il seggio episcopale viene spostato al centro dell'abside; di conseguenza, anche l'altare viene portato nella na­vata centrale. Pare che nella basilica Lateranense e in Santa Maria Maggiore le cose siano state così fino al secolo nono. Nella basilica di San Pietro, invece, sotto il pontificato di Gregorio Magno (590-604) l'altare fu collocato vicino al seggio episcopale, probabilmente perché così veniva a trovarsi sopra la tomba di san Pietro. Trovava così espressione concreta il fatto che noi celebriamo il sacrificio del Signore nella comu­nione dei santi, che abbraccia ogni tempo. L'usanza di edificare l'altare sopra le tombe dei martiri risale mol­to indietro nel tempo ed esprime sempre lo stesso con­cetto: i martiri rendono presente lungo tutto il corso della storia il sacrificio di Cristo; essi sono, per così dire, l'altare vivente della Chiesa, che non è fatto di pietra, ma di persone che sono divenute membra del corpo di Cristo e che esprimono così il nuovo culto: il sacrificio è l'umanità che con Cristo si trasforma in amore. Sembra, poi, che la disposizione adottata nella basilica di San Pietro sia stata imitata anche in molte altre chiese romane.

I singoli particolari di questi sviluppi sono oggetto di discussioni che, per le nostre riflessioni, rivestono

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scarsa importanza. Nel nostro secolo il dibattito è sta­to piuttosto acceso da altre innovazioni. Le indagini topografiche hanno infatti rivelato che la basilica di san Pietro guardava verso occidente. Se, dunque, il sa­cerdote celebrante voleva guardare verso oriente - co­sì come esige la tradizione liturgica cristiana -, allora egli doveva trovarsi dietro il popolo e, di conseguen­za, guardava verso il popolo. In ogni caso, per influs­so diretto della basilica di San Pietro, si può ritrovare questa disposizione in tutta una serie di altre chiese. Il rinnovamento liturgico del nostro secolo si è rifatto a questa presunta posizione del celebrante, per svilup­pare sulla sua base una nuova idea di forma liturgica: l'eucaristia deve essere celebrata versus populum (in direzione del popolo); l'altare - come si può dedurre dalla configurazione di San Pietro, ritenuta normativa, deve essere disposto in maniera tale che il sacerdote e il popolo possano guardarsi a vicenda e costituire così nel loro insieme il cerchio dei celebranti. Solo questa forma corrisponderebbe al senso della liturgia cristia­na, all'impegno della partecipazione attiva. Solo così si corrisponderebbe, inoltre, all'immagine originaria dell'Ultima Cena. Queste conclusioni appaiono poi tanto convincenti che dopo il Concilio (che, di per sé, non parla di «disposizione verso il popolo») da tutte le parti si sono eretti nuovi altari; la celebrazione orien­tata versus populum appare oggi come il vero frutto del rinnovamento liturgico operato dal concilio Vati­cano II. In effetti essa è la conseguenza più visibile di una nuova forma che non significa solo una diversa disposizione esteriore degli spazi liturgici, ma implica anche una nuova idea dell'essenza della liturgia come pasto comunitario.

È evidente che in questo modo si è frainteso il sen­so della basilica romana e della disposizione dell'alta-

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re al suo interno. Quanto meno approssimativa è poi anche l'immagine dell'Ultima Cena di Gesù. Ascoltia­mo in proposito ciò che scrive Louis Bouyer: «L'idea che una celebrazione di fronte al popolo abbia potuto essere una celebrazione primitiva, e in particolare quella della cena eucaristica, non ha altro fondamento se non un'errata concezione di ciò che poteva essere un pasto nell'antichità, cristiano e no che fosse. In nessun pasto dell'inizio dell'era cristiana il presidente di un'assemblea di commensali stava di fronte agli al­tri partecipanti. Essi stavano tutti seduti, o distesi, sul lato convesso di una tavola a forma di sigma... Da nessuna parte, dunque, nell'antichità cristiana, sareb­be potuta venire l'idea di mettersi di fronte al popolo per presiedere un pasto. Anzi, il carattere comunitario del pasto era messo in risalto proprio dalla disposizio­ne contraria, cioè dal fatto che tutti i partecipanti si trovassero dallo stesso lato della tavola» (p. 38).

A questa analisi della «forma del convito» si deve comunque aggiungere che l'eucaristia non può certa­mente essere descritta con precisione dal termine «pa­sto» o «convito». Il Signore, infatti, ha indubbiamente istituito la novità del culto cristiano nell'ambito di un banchetto pasquale ebraico, ma ci ha comandato di ri­petere questa novità, non il banchetto come tale. Pro­prio per questo la novità si è molto presto liberata dal suo antico contesto e ha trovato una forma a lei pro­pria, che era già stata anticipata dal fatto che l'eucari­stia rinvia alla croce e, quindi, alla trasformazione del sacrificio del tempio nella liturgia razionale. Altra conseguenza è che la liturgia sinagogale della parola fu rinnovata e approfondita cristianamente, permeata della memoria della morte e resurrezione di Cristo e, proprio in questo modo, si restò fedeli all'incarico del «fate questo». Questa nuova immagine complessiva

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non poteva, in quanto tale, essere desunta semplice­mente dal «pasto», ma dall'insieme di tempio e di si­nagoga, di parola e di sacramento, di dimensione co­smica e storica. Essa si esprìme appunto nella forma che abbiamo ritrovato nella struttura liturgica delle chiese antiche della cristianità semitica. Essa è rima­sta ovviamente fondamentale anche per Roma. Cito, in proposito, ancora una volta Bouyer: «Prima di quella data (cioè prima del secolo XVI) non abbiamo mai e da nessuna parte la benché minima indicazione che si sia attribuita qualche importanza o anche solo qualche attenzione al fatto che il presbitero celebrasse con il popolo davanti a sé oppure dietro a sé. Come ha dimostrato Cyrille Vogel, l'unica cosa su cui si sia ve­ramente insistito e di cui sia fatta menzione è che egli doveva dire la preghiera eucaristica, al pari di tutte le altre preghiere, rivolto verso oriente... Anche quando l'orientamento della Chiesa permetteva al celebrante di pregare rivolto verso il popolo allorché era all'alta­re, non era solo il presbitero a doversi volgere verso oriente: era l'assemblea intera che lo faceva insieme a lui» (p. 39).

La consapevolezza di questo stato di cose si andò certamente oscurando nel corso della modernità o, ad­dirittura, andò del tutto persa, tanto nel modo di co­struire le chiese che in quello di celebrare la liturgia. Solo così si può spiegare il fatto che l'orientamento comune del sacerdote e del popolo sia stato etichettato come «celebrazione verso la parete» o come «un mo­strare le spalle al popolo» e che, quindi, sia apparso come qualcosa di assurdo e completamente inaccetta­bile. Solo così si può spiegare che l'idea del «convito» o «banchetto» - ulteriormente ripresa nelle raffigura­zioni artistiche moderne - sia divenuta ora normativa per la celebrazione liturgica dei cristiani. In verità si è

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così introdotta una clericalizzazione quale non si era mai data in precedenza. Ora, infatti, il sacerdote - o, il «presidente», come si preferisce chiamarlo - diventa il vero e proprio punto di riferimento di tutta la celebra­zione. Tutto termina su di lui. È lui cui bisogna guar­dare, è alla sua azione che si prende parte, è a lui che si risponde; è la sua creatività a sostenere l'insieme della celebrazione. E altresì comprensibile che si cerchi poi di ridurre questo ruolo or ora attribuitogli, distribuendo numerose attività e affidandosi alla «creatività» dei gruppi che preparano la liturgia, i quali vogliono e de­vono anzitutto «portare se stessi». L'attenzione è sem­pre meno rivolta a Dio ed è sempre più importante quello che fanno le persone che qui si incontrano e che non vogliono affatto sottomettersi a uno «schema pre­disposto». Il sacerdote rivolto al popolo dà alla comu­nità l'aspetto di un tutto chiuso in se stesso. Essa non è più - nella sua forma - aperta in avanti e verso l'alto, ma si chiude su se stessa. L'atto con cui ci si rivolgeva tutti verso oriente non era «celebrazione verso la pare­te», non significava che il sacerdote «volgeva le spalle al popolo»: egli non era poi considerato così importan­te. Difatti, come nella sinagoga si guardava tutti insie­me verso Gerusalemme, così qui ci si rivolgeva insie­me «verso il Signore». Per usare l'espressione di uno dei padri della costituzione liturgica del concilio Vati­cano II, J.A. Jungmann, si tratta piuttosto di uno stesso orientamento del sacerdote e del popolo, che sapevano di camminare insieme verso il Signore. Essi non si chiudono in cerchio, non si guardano reciprocamente, ma, come popolo di Dio in cammino, sono in partenza verso l'oriente, verso il Cristo che avanza e ci viene in­contro.

Ma tutto questo non è forse romanticismo e nostal­gia per il passato? La forma originaria della preghiera

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cristiana può dirci ancora oggi qualcosa o dobbiamo semplicemente cercare la nostra forma, la forma per il nostro tempo? Ovviamente non vi è solo il desiderio di imitare il passato. Ogni età deve ritrovare ed espri­mere l'essenziale. Quel che importa è, quindi, conti­nuare a scoprire quello che è essenziale attraverso i cambiamenti epocali. Sarebbe certamente errato rifiu­tare in blocco le nuove forme del nostro secolo. Era giusto avvicinare al popolo l'altare spesso troppo lon­tano dai fedeli, anche se, nelle chiese cattedrali ci si poteva comunque richiamare alla tradizione dell'alta­re del Crocifisso, che aveva trovato posto nel passag­gio dal presbiterio alla navata. Era anche importante tornare a distinguere con chiarezza il luogo della litur­gia della parola rispetto alla liturgia eucaristica vera e propria, dal momento che qui si tratta effettivamente di un discorso e di una risposta e, quindi, ha anche senso che stiano l'uno di fronte all'altro colui che an­nuncia e coloro che ascoltano, i quali rielaborano nel salmo ciò che hanno ascoltato, lo riprendono interior­mente e lo trasformano in preghiera, così che diventi risposta. Resta, invece, essenziale il comune orienta­mento verso est durante la preghiera eucaristica. Qui non si tratta di qualcosa di casuale, ma dell'essenzia­le. Non è importante lo sguardo rivolto al sacerdote, ma l'adorazione comune, l'andare incontro a Colui che viene. Non il cerchio chiuso in se stesso esprime l'essenza dell'evento, ma la partenza comune, che si esprime nell'orientamento comune.

Contro queste idee, da me già esposte in altra occa­sione, A. HauBling ha avanzato diverse obiezioni. Ho già toccato la prima di esse: queste idee sarebbero ri­cerca romantica dell'antico, erronea nostalgia del pas­sato. Inoltre sarebbe strano il fatto che io mi richiami solo al cristianesimo antico, prescindendo da tutti i se-

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coli seguenti. Da parte di uno specialista di liturgia si tratta di un'obiezione seria, dato che a me sembra che il punto problematico di gran parte della moderna scienza liturgica consista proprio nella pretesa di rico­noscere nell'Antico l'unico criterio di originarietà e quindi di autorevolezza al punto da considerare tutto ciò che è successivo, che è stato elaborato in seguito, nel medioevo e dopo Trento, solo della spazzatura. Si arriva così a delle discutibili ricostruzioni di ciò che è più antico, a dei criteri mutevoli e, quindi, a delle con­tinue proposte di forme sempre nuove che, alla fine, fi­niscono per dissolvere la liturgia cresciuta con la vita. Contro tutto ciò è importante e necessario riconoscere che non è l'Antico a poter essere in sé e per sé un tale criterio e che ciò che è venuto in seguito non può esse­re automaticamente etichettato come estraneo alle ori­gini. Ci può essere senz'altro un'evoluzione viva in cui il seme dell'origine giunge a maturazione e porta frut­to. Dovremo ritornare su questo pensiero. Nel nostro caso, però, come si è già mostrato, non si tratta affatto di una fuga romantica nell'antico, ma della riscoperta dell'essenziale, in cui la liturgia cristiana esprime il suo orientamento permanente. HàuBling, evidentemen­te ritiene che oggi non si può più cercare di riproporre nella liturgia l'orientamento ad est, verso il sole che sorge. Davvero ciò non è possibile? Il cosmo non ci ri­guarda più? Oggi siamo davvero chiusi senza speranza nel nostro cerchio? O non è forse proprio oggi impor­tante pregare insieme con tutta la creazione? Non è forse proprio oggi importante dare spazio alla dimen­sione del futuro, della speranza nel Signore che torne­rà? riconoscere, quindi, e vivere la dinamica della nuo­va creazione come forma essenziale della liturgia?

Un'ulteriore obiezione è che non vi è bisogno di guardare verso oriente e verso la croce, dal momento

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che quando il sacerdote e i fedeli si guardano recipro­camente, essi vedono nell'uomo l'immagine di Dio; di conseguenza, il giusto orientamento della preghiera è quello in cui ci si rivolge gli uni verso gli altri. Mi risulta difficile credere che il noto recensore abbia po­tuto sostenere seriamente una scusa di questo genere, dal momento che l'immagine di Dio nell'uomo non la si vede poi così facilmente. «Immagine di Dio» non è nell 'uomo ciò che si può fotografare o che si può scorgere con uno sguardo puramente fotografico. La si può certamente vedere, così come si può vedere in un uomo la bontà, la sincerità, la verità interiore, l'u­miltà, l'amore: ciò che lo rende simile a Dio. Ma pro­prio per questo si deve apprendere lo sguardo nuovo, e anche per questo esiste l'eucaristia.

Più importante è un'obiezione pratica. Si dovrebbe allora di nuovo cambiare tutto? Niente è più dannoso per la liturgia che il mettere continuamente tutto sotto­sopra, anche se apparentemente non si tratta di vere novità. Mi sembra che una via d'uscita possa venire dall'osservazione cui ho accennato all'inizio richia­mandomi a delle osservazioni di Erik Peterson. La di­rezione verso oriente si trovava in stretto rapporto con il «segno del Figlio dell'uomo», con la croce, che an­nuncia il ritorno del Signore. L'Oriente fu quindi po­sto molto presto in relazione con il segno della croce. Dove non è possibile rivolgersi insieme verso oriente in maniera esplicita, la croce può servire come l'o­riente interiore della fede. Essa dovrebbe trovarsi al centro dell'altare ed essere il punto cui rivolgono lo sguardo tanto il sacerdote che la comunità orante. In tal modo seguiamo l'antica invocazione pronunciata all'inizio dell'eucaristia: «Conversi ad Dominum» -rivolgetevi al Signore. Guardiamo insieme a colui la cui morte ha squarciato il velo del tempio, a colui che

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sta presso il Padre in nostro favore e ci stringe nelle sue braccia, a colui che fa di noi un nuovo tempio vi­vente. Tra i fenomeni veramente assurdi del nostro tempo io annovero il fatto che la croce venga colloca­ta su un lato per lasciare libero lo sguardo sul sacerdo­te. Ma la croce, durante l'eucaristia, rappresenta un disturbo? Il sacerdote è più importante del Signore? Questo errore dovrebbe essere corretto il più presto possibile e questo può avvenire senza nuovi interventi architettonici. Il Signore è il punto di riferimento. È lui il sole nascente della storia. Può trattarsi tanto del­la croce della passione, che rappresenta Gesù soffe­rente che lascia trafiggere il suo fianco per noi, da cui scaturiscono sangue ed acqua - l'Eucaristia e il Batte­simo -, come pure di una croce trionfale, che esprime l'idea del ritorno e attira l'attenzione su di esso. Per­ché è Lui, comunque, l'unico Signore: Cristo ieri, og­gi e in eterno (Eb 13,8).

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Capitolo quarto

LA CUSTODIA DEL SANTISSIMO SACRAMENTO

La Chiesa del primo millennio non conosce il taber­nacolo. Al suo posto c'era inizialmente lo scrigno del­la parola, poi soprattutto l'altare come tenda santa. Dei gradini facilitavano la salita all'altare che era pro­tetto dal «ciborium», un baldacchino di marmo da cui pendevano delle lampade ardenti. Questo, nello stesso tempo, ne metteva in rilievo il carattere sacrale. Tra le colonne del ciborio era posto un velo (Bouyer, pp. 71-73). Iltàbernacolo come tenda santa, come luogo del­la Shekhinà, della presenza del Signore vivente, si è sviluppato solo nel secondo millennio, come frutto di chiarificazioni teologiche sofferte, in cui veniva posta in grande rilievo la presenza di Cristo nell'Ostia con­sacrata. Ed è qui che ci imbattiamo nella teoria della decadenza, nella canonizzazione degli inizi, nell'idea­lizzazione romantica del primo millennio. La tran­sustanziazione (trasformazione del pane e dePvTno), l'adorazione del Signore nel sacramento, il culto eu­caristico con l'ostensorio e le processioni - tutte que­ste cose, ci viene detto, non sono che errori medioeva­li, da cui bisognerebbe distanziarsi il più presto possi­bile. I doni eucaristici, cioè, ci vengono dati per essere mangiati, non per essere guardati. Questi ed altri slo­gan simili ci è dato di sentire. La superficialita*con cui vengono messe insieme idee di questo genere può so­lo suscitare meraviglia, sé sì pensa alle profonde di­spute dogmatiche, teologiche ed ecumeniche sostenu-

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te da grandi teologi nel secolo .scorso e nella prima metà di quésto secolo. Esse sembrano ora del tutto di­menticate.

Affrontare più profondamente tali questioni teologi­che non può essere lo scopo di questo piccolo libro. Resta comunque del tutto evidente che già in Paolo si legge che il pane e il vino diventano il corpo e il san­gue di Cristo, che Lui stesso, il Risorto, è presente e si offre a noi come cibo. La forza con cui Gv 6 sottoli­nea la presenza reale, solo a fatica può essere supera­ta. Anche nei padri della Chiesa, fin dai primi testimo­ni - pensiamo a Giustino Martire o a Ignazio di Antio­chia -, non sussiste alcun dubbio sul grande mistero di questa presenza che ci viene donata, sulla trasfor­mazione dei doni nella preghiera eucaristica. Anche un teologo come Agostino così sensibile alla dimen­sione spirituale non ha mai lasciato alcun dubbio in proposito, anzi, in lui si può vedere come proprio la professione di fede nell'Incarnazione e nella Resurre­zione, che sì trova in stretta connessione con la fede eucaristica nella presenza corporea del Risorto, abbia trasformato il platonismo, come «la carne e il sangue» abbiano così guadagnato una nuova dignità e come si sia fatta largo la speranza cristiana dell'eternità. Spes­so viene fraintesa un'importante scoperta che dobbia­mo ad Henri de Lubac. Lo scopo dell'eucaristia - è stato sempre chiaro - è la nostra stessa trasformazio­ne, così che noi diventiamo «un"corpo S'uno spirito» con Cristo (cfr. iCor 6,17). Questo dato, che l'eucari­stia ci trasforma, che essa vuole cambiare l'umanità nel tempio vivente di Dio, nel corpo di Cristo, ha tro­vato espressione fin dal primo medioevo nella coppia concettuale di «corpus mysticum» e di «corpus ve­runi». Nel linguaggio dei Padri il termine «mysticum» non ha lo stesso significato odierno, ma significa: ap-

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partenente al mistero, all'ambito del sacramento. Con il termine «corpus mysticum» trovava cipè espressio­ne il corpo sacramBnìaTe, la presenza corporea di Cri­sto nel sacramento. Esso, secondo i Padri, ci viene da­to perché noiTliventiànio «cqfpj^verum», corpo reale di Cristo. I mutamenti nell'uso linguistico^nelle for­me di pensiero hanno fatto sì che nel medioevo i si­gnificati si siano invertiti. Come «corpus veruni» (ve­ro corpo) si intese così il sacramento, mentre «corpus^ mysticum», «corpo mistico», veniva detta la Chiesa, intendendosi ora per «rmstico» rion-più iL .significato di «sacramentale», ma quello di «mistico», di «miste­rioso». Da questo mutamento terminologico, minuta­mente descritto da De Lubac, taluni hanno tratto la conseguenza che ora nella dottrina eucaristica si è fat­to strada un realismo fino ad allora sconosciuto, anzi un vero e proprio naturalismo, e che la grande pro­spettiva patristica è stata liquidata in favore di un'idea statica e unilaterale di presenza reale.

E vero che un simile mutamento linguistico è espressione anche di un mutamento spirituale, che pe­rò non può essere descritto in manrefàtànitò unilatera­le, come invece accade nelle tendenze cui ora si ac­cennava. Correttamente si dovrà riconoscere che qual­che cosa della dinamica escatologica e del carattere comunitario (il «noi») della fede eucaristica è andato perduto o, quanto meno, è passato in secondo piano. Certamente non si aveva più tanto presente il fatto che il sacramento stesso, così come abbiamo visto più so­pra, porta in sé una dinamica che mira alla trasforma­zione dell'umanità e del mondo nel nuovo cielo e nel­la nuova terra, nell'unità del corpo risorto di Cristo. Che l'eucaristia non mira primariamente al singolo, mà"cTìB"iTpè?sBnaTìsrho eucaristico muove verso la co­munione, verso il superamento del muro tra Dio e

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l'uomo, tra io e tu, nel nuovo «noi» della comunione dei santi, non lo si era dimenticato, ma non se ne era più tanto chiaramente consapevoli come in preceden­za. Se è vero che ci sono state delle perdite nella co­scienza cristiana a cui noi, oggi, cerchiamo di porre rimedio, è pur vero che nell'insieme c'è stato anche un guadagno. Sì, il corpo eucaristico del Signore ci vuole radunare perché~hoi diventiamo tutti «il suo ve­ro corpo». Ma il dono eucaristico può farlo solo per­ché il Signore ci dà il suo vero corpo; solo il vero corpo presente nel sacramentò può costruire il vero corpo della nuova città di Dio. Questa prospettiva unisce i due periodi; è da essa che si deve anzitutto partire. Anche nella Chièsa antica si è sempre avuta la consapevolezza che il pane trasformato una volta, resta trasformato. Per questo lo si conservava per i malati; per questo gli si portava rispetto, come avvie­ne ancora oggi nella Chiesa d'Oriente. Ma ora questa consapevolezza si approjondisce; il donauLtcasforma­to. Il Signore ha tratto a sé definitivamente questa materia, e in ciò non è contenuto un dono materiale, ma è presente Lui stesso, l'indivisibile, il Risorto: con carne e sangue, con corpo e anima, con divinità e umanità. Qui è presente Cristpjtutto intero. Alle origi­ni del movimenfìf*lifvjTgico si è talvolta creduto di do­ver distinguere tra una «concezione oggettiva» del­l'eucaristia in epoca patristica e una personalistica, a partire dal medioevo. La presenza eucaristica non sa­rebbe stata cioè concepita come presenza personale, ma come presenza di un dono, distinto dalla persona. Tutto questo è privo di senso. Chi legge i testi non può trovare nessun appiglio per simili idee. Del resto, come potrebbe il corpo di Cristo diventare una «co­sa»? C'è solo la piena presenza di Cristo. E ricevere l'eucaristia"non significa mangiare un dono «materia­le» (corpo e sangue?), ma quel che avviene qui è il

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reciproco e profondo incontro tra persona e persona. Il Signore vivente si dona a me, entra in me e mi in­vita a consegnarmTà Lui, così che vale: Io vivo, ma non più io, è Cristo che vive in me (Gal 2,20). Solo così comunicarsi è uri atto veramente umano, che in­nalza e trasforma l'uomo.

Questa consapevolezza che «Egli è qui, proprio lui, e resta qui», è stata ripresa nel medioevo della cristia­nità con un'intensità del tutto nuova. A ciò ha contri­buito in maniera decisiva l'approfondimento del pen-srèWTSologico, ma ancora più importante dell'appro-fòMiménto del pensiero è stata la nuova esperienza del sacro, sviluppata soprattutto nel movimento fran­cescano e nella nuova evangelizzazione ad opera dei frati predicatori. Non siamo davanti a un fraintendi­mento medioevale di un pensiero marginale: attraver­so l'esperienza del sacro - sostenuta e illuminata dal pensiero dei teologi - si dischiude una nuova dimen­sione della realtà cristiana" che'resta comunque nella più profonda continuità con quanto si è creduto sino ad allora. Ripetiamolo ancora una volta: un'approfon­dita consapevolezza di fede libera la conoscenza che nella forma trasformata Lui è presente e vi rimane. Dove questa esperienza è approfondita cori tutte Te fi­bre del cuore, della ragione e dei sensi, la conseguen­za è inevitabile: allora dobbiamo realizzare per questa presenza il luogo che le spetta. Ed è così che; a poco a jpoco, prende forma il tabernacolo che finisce sempre ipiù, e sempre più naturalmente, per prendere il posto che un tempo era dell'«arca dell'Alleanza» (frattanto scornpàfsa): II tàBerriàcolo cioé"Ea pienamente realiz­zato lo scopoper cui uri tèmpo esisteva l'arca dell'Al­leanza. Esso è il luogo del «SàritissihiO>>:'Tla tenda di Dio, il trono, dal momento che Egli è óra tràrTOf^ctré la sua presenza fShekhìnà) 'abita ora realmente tra di noi - nella più povera chiesa di villaggio non meno

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che nella più grande delle cattedrali. Anche se il tem­pio definitivo ci sarà solo quando il mondo sarà dive­nuto la nuova* Gerusalemme - ciò, a cui il tempio di Gerusalemme rinviava, qui è presente nella maniera più alta. La nuova Gerusalemme è anticipata nell'u­miltà della forma del pane.

Nessuno dica allora: l'eucaristia deve essere man­giata e nOff'adorata: Essa non è affatto un «pane co­mune», come sottolineano senza interruzione le tradi­zioni più antiche. Cibarsene - lo abbiamo appena det­to - è un evento spirituale, che investe tutta la realtà umana. «Cibarsi» drS'ssalignifica adorarla. Significa permettere che entri ih "me, così che il mio io venga trasformato e si apra nel grande noi, così che noi di­ventiamo «una cosa sola» in Lui (Gal 3,17). Per que­sto ràdoràztìSInè non si contrappone alla comunione, e neppure si pone accanto a essa: la comunione rag­giunge la sua profondità solo quando è sostenuta e compresa dall'adorazione. L^presenza eucaristica nel tabernacolo non suppone una concezione dell'eucari­stia parallela o contraria a quella della celebrazione eucaristica, màsignifica la sua piena realizzazione. Questa presenza, infatti, fa sì che nella chiesa ci sia sempre l'eucaristia. La chiesa non diventa mai uno spazio morto, ma è sempre ravvivata dalla presenza del Signore, che viene dalla celebrazione eucaristica, ci introduce in essa e ci fa partecipare per sempre al­l'eucaristia cosmica. Quale persona credente non lo ha sperimentato? Una chiesa senza presenza eucaristi­ca è in qualche modo morta, anche se invita alla pre­ghiera. Invece, una chiesa nella quale la luce eterna arde davanti al tabernacolo, vive sempre, è sempre di più che un semplice edificio di pietra: in essa il Signo­re mi aspetta sempre, mi chiama, vuole rendere «eu­caristica» anche la mia persona. In questo modo egli

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mi prepara all'eucaristia, mi pone in movimento verso il suo ritorno.

La svolta medioevale ha prodotto delle perdite, ma ha anche donato uno straordinario approfondimento spirituale, ha sviluppato la grandezza del mistero isti­tuito nel cenacolo, permettendoci di sperimentarlo in una nuova pienezza. Quanti santi - e, anzi, proprio i santi dell'amore del prossimo - sono stati nutriti, con­dotti incontro al Signore da questa esperienza! Non possiamo perdere questa ricchezza. Perché la presenza del Signore ci tocchi in maniera concreta, il taberna­colo deve trovare il posto che gli spetta anche nella struttura architettonica delle chiese.

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Capitolo quinto

TEMPO SANTO

Se ora ci interroghiamo circa il significato dei tem­pi sacri nello svolgimento della liturgia cristiana, dob­biamo considerare acquisito tutto quello che è stato oggetto della nostra riflessione nel primo capitolo di questa sezione, a proposito del significato di spazio e tempo nella liturgia cristiana. Tutto il tempo è tempo di Dio. La parola eterna, accogliendo l'esistenza uma­na nella sua Incarnazione, ha accolto anche la tempo­ralità, ha tratto il tempo dentro lo spazio dell'eternità. Cristo è Lui stesso il ponte tra il tempo e l'eternità. Se in un primo momento non pare possa esserci alcun rapporto tra il «sempre» dell'eternità e il tempo che scorre via, ora è l'Eterno stesso che ha tratto a sé il tempo; nel Figlio il tempo coesiste con l'eternità. L'e­ternità di Dio non è semplicemente assenza di tempo, negazione del tempo, ma è potere sul tempo, che si realizza come essere-con ed essere dentro il tempo. Nel Verbo Incarnato, che resta sempre uomo, questo essere-con si rende corporeo e concreto.

Tutto il tempo è tempo di Dio. Ma, ancora una vol­ta, è vero che la struttura particolare del tempo della Chiesa, che noi abbiamo conosciuto come un «tra» -tra l'ombra e la pura realtà -, esige un segno, un tem­po scelto e ben determinato per attrarre il tempo, nella sua totalità, dentro le mani di Dio. È questo, difatti, che caratterizza l'universalismo biblico, che esso,

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cioè, non si poggia su una concezione genericamente trascendentale dell'uomo, ma vuole arrivare alla tota­lità attraverso una scelta. Ora, però, diventa inevitabi­le la domanda: ma che cosa è, poi, il tempo? Questa domanda, che ha mosso i grandi pensatori in ogni epoca della storia, non possiamo pretendere di esau­rirla come tale. Ma un paio di rapide indicazioni resta­no comunque imprescindibili, in modo da poter inten­dere la specificità del rapporto tra la liturgia e il tem­po. 11 tempo è anzitutto una realtà cosmica: il giro del­la terra intorno al sole (o, come ritenevano gli antichi, del sole intorno alla terra) dà all'essere un ritmo, che noi chiamiamo tempo - di ora in ora, dal mattino alla sera e dalla sera al mattino, dalla primavera, attraver­so l'estate e l'autunno, fino all'inverno. Accanto a questo ritmo solare si pone quello più breve della luna - dal suo lento crescere fino al suo scomparire nel no­vilunio e al suo nuovo inizio. Ambedue i ritmi hanno creato due misure, che nella storia della cultura risul­tano legati da scambi reciproci. Ambedue sono espressione dell'intreccio tra l'uomo e la totalità del­l'universo: il tempo è anzitutto un fenomeno cosmico. L'uomo vive con le stelle; il percorso del sole e della luna permea la sua stessa vita.

Accanto a questi e al di sotto di essi, ci sono però altri ritmi, che, in una certa misura, sono propri di altri gradi dell'essere: la pianta ha il suo tempo; gli anelli sul tronco degli alberi, per esempio, mostrano il tem­po interiore e specifico dell'albero che, certamente, si intreccia con il tempo cosmico. Nel cammino che lo vede maturare e appassire l'uomo ha, a sua volta, un suo tempo specifico; si potrebbe dire che il battito del suo cuore è in qualche modo il ritmo interiore del suo tempo, in cui ancora una volta il livello organico e quello psichico e spirituale giungono a una misterio-

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sissima sintesi che, a sua volta, si colloca dentro la grandezza dell'universo, ma anche nel patrimonio co­mune della storia. La via dell'umanità, che noi chia­miamo storia, è una modalità particolare del tempo.

Tutto questo è presente nella liturgia e nella specifi­ca modalità in cui essa si relaziona al tempo. Lo spa­zio sacro del culto cristiano di Dio è già di per se stes­so aperto sul tempo: l'orientamento significa, difatti, che la preghiera è rivolta al sole che sorge, che è ora divenuto portatore di un significato storico. Esso rin­via al mistero pasquale di Cristo, alla morte e al nuo­vo inizio. Esso rinvia al futuro del mondo e al compi­mento di tutta la storia nella venuta definitiva del Re­dentore. Ecco perché nella preghiera cristiana il tem­po e lo spazio si compenetrano vicendevolmente; lo spazio stesso è divenuto tempo, e il tempo diventa, per così dire, spaziale, entra nello spazio. E come spa­zio e tempo si intrecciano, così anche la storia e il co­smo. Il tempo cosmico, che viene determinato dal so­le, diventa rappresentazione del tempo dell'uomo e, quindi, del tempo storico, che va verso l'unità di Dio e mondo, di storia e universo, di materia e spirito: in una parola, va verso la «città nuova», la cui luce è Dio stesso, così che il tempo diventa eternità e l'eternità si comunica al tempo.

Nella pietà anticotestamentaria noi troviamo una duplice distinzione del tempo: da una parte con il rit­mo delle settimane, che muove verso il sabato, dal­l'altra con le feste, che in parte sono determinate dagli eventi della creazione - semina e raccolto, più le feste della tradizione nomadica -, in parte dalla memoria dell'agire storico di Dio; spesso queste due origini si legano tra di loro. Questa figura fondamentale vale ancora nel cristianesimo, che proprio nell'ordinamen-

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to del tempo sta in una profonda continuità interiore con l'eredità giudaica. Nel cristianesimo, inoltre, vie­ne poi accolta anche l'eredità delle religioni del mon­do, che viene così consegnata all'unico Dio ed è da lui purificata e illuminata.

Cominciamo con il ritmo delle settimane. Abbiamo visto che il sabato introduce nel tempo il segno del­l'Alleanza, stabilisce un legame reciproco tra la crea­zione e l'Alleanza. Questo ordine fondamentale, che è entrato anche nel decalogo, continua a sussistere an­che nel cristianesimo. Ma ora, mediante l'Incarnazio­ne, la Croce e la Resurrezione, l'Alleanza è stata in­nalzata a un nuovo grado, tanto che si può parlare di «nuova Alleanza». Dio ha agito ancora una volta e in modo nuovo, per dare all'Alleanza la sua ampiezza universale e la sua forma definitiva. Questo agire però ha influito sul ritmo delle settimane: il suo vertice, a cui tutto il resto era orientato, è stata la resurrezione di Gesù «il terzo giorno». Riflettendo sull'Ultima Cena abbiamo visto che la Cena, la croce e la resurrezione sono strettamente legate tra di loro - che la dedizione di Gesù fino alla morte conferisce alle parole della Cena il loro realismo. Questo dono, tuttavia, sarebbe privo di senso se la morte avesse l'ultima parola. Ecco perché la nuova alleanza si compie solo mediante la resurrezione: ora l'uomo è unito per sempre a Dio. Ora sono ambedue realmente e indissolubilmente le­gati tra loro. Ecco perché il giorno della resurrezione è il nuovo sabato. È il giorno in cui il Signore si fa presente tra i suoi e li invita nella sua «liturgia», nella sua esaltazione di Dio, e si partecipa a loro. Il mattino del «terzo giorno» diventa l'ora della celebrazione cri­stiana. Partendo dalla connessione tra Cena, croce e resurrezione, sant'Agostino ha mostrato come, me­diante la loro unità, la Cena diventi in modo del tutto

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ovvio il sacrificio del mattino e proprio in questo mo­do sia attuato il comandamento impartito nell'ora del­la Cena. Il passaggio dall'antica alla nuova Alleanza è percepibile proprio nel passaggio dal sabato al giorno della resurrezione come nuovo segno dell'Alleanza; la domenica fa quindi suo il senso che era stato del saba­to. Questo giorno viene denominato in tre modi diver­si: a partire dalla croce è il terzo giorno; nell'Antico Testamento il terzo giorno era stato visto come il gior­no della teofania, dell'ingresso di Dio nel mondo do­po il tempo dell'attesa. Se si parte dallo schema delle settimane, è il primo giorno della settimana; infine, i Padri hanno aggiunto l'idea che, se si considera la set­timana appena trascorsa, esso è l'ottavo giorno.

In questo modo i tre simbolismi finiscono per inter­secarsi: il più importante di essi, comunque, è quello di primo giorno della settimana. Nel mondo mediter­raneo, in cui il cristianesimo si è formato, il primo giorno della settimana era visto come il giorno del so­le, mentre gli altri giorni erano legati ai diversi pianeti allora noti. Il giorno della celebrazione liturgica dei cristiani era stato scelto come memoria dell'agire di Dio, a partire dalla data della resurrezione di Gesù. Apparve però subito che questa data esprimeva lo stesso simbolismo cosmico dell'orientamento della preghiera cristiana. Il sole annuncia Cristo, cosmo e storia parlano insieme di Lui. A ciò si aggiungeva pe­rò un'altra constatazione: il primo giorno è il giorno dell'inizio della creazione. La nuova creazione ripren­de l'antica. La domenica cristiana è anche festa della creazione: ringraziamento per il dono della creazione, per il «sia fatto» con cui Dio ha posto l'essere del mondo. Essa è ringraziamento per il fatto che Dio non permette che la creazione sia distrutta, ma la ricosti­tuisce dopo tutte le distruzioni operate dall'uomo. Nel

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primo giorno è contenuta l'idea paolina secondo cui la creazione attende la rivelazione dei figli di Dio (Rm 8,19): come il peccato distrugge la creazione (e noi lo vediamo molto bene!), così essa guarisce quando i «figli di Dio» si fanno presenti. La domenica esplicita così anche il compito di cui si parla nel racconto della creazione: «soggiogate la terra!» (Gn 1,28). Questo non significa: rendetela schiava! saccheggiatela! Fate di essa quello che volete! Ma: riconoscetela come do­no di Dio! Custoditela e curatela come i figli curano l'eredità paterna. Abbiatene cura, così che essa diven­ga un vero giardino di Dio e si realizzi il suo senso più profondo, così che anche per essa sia vero che Dio è «tutto in tutti». E proprio questo orientamento che i Padri volevano esprimere quando chiamarono il gior­no della resurrezione anche ottavo giorno. La domeni­ca non guarda solo indietro, ma anche avanti. Guarda­re alla resurrezione significa guardare al compimento. Con il giorno della resurrezione, subito dopo il sabato, Cristo ha superato il tempo, ma, insieme, lo ha portato fuori, oltre se stesso. I Padri ne trassero la conclusione che la storia del mondo, nel suo insieme, deve essere vista come una grande settimana paragonabile alle età dell'uomo. L'ottavo giorno significa così il nuovo tempo, che ha avuto inizio con la resurrezione. Esso scorre già ora, insieme con la storia. Nella liturgia noi giungiamo già ad afferrarlo, ma, allo stesso tempo, es­so resta pur sempre davanti a noi: segno del mondo definitivo di Dio, in cui ombra e immagine sono supe­rati nella reciprocità definitiva di Dio con le sue crea­ture. A partire da questo simbolismo dell'ottavo gior­no si sono spesso e volentieri costruiti i battisteri - le chiese battesimali - su pianta ottagonale, per spiegare il battesimo come nascita nell'ottavo giorno, nella re­surrezione di Cristo e nel nuovo tempo che essa ha dischiuso.

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La domenica è, dunque, per i cristiani, la vera misu­ra del tempo, l'unità di misura della loro vita. Essa non si poggia su delle convenzioni arbitrarie, ma porta in sé una sintesi unica di memoria storica, di richiami alla creazione e di teologia della speranza. È la festa della resurrezione dei cristiani, che torna tutte le settimane, che, però, non rende affatto superfluo il ricordo speci­fico della Pasqua di Gesù. Dal Nuovo Testamento si deduce molto chiaramente che Gesù andò incontro in piena consapevolezza alla sua «ora». Il richiamo all'«ora di Gesù», messo in evidenza nel Vangelo di Giovanni, ha indubbiamente diversi livelli di significa­to. Ma, anzitutto, esso rinvia a una data: Gesù non vo­leva morire in un giorno qualsiasi. La sua morte aveva significato per tutta la storia, per l'umanità, per il mon­do. Per questo essa doveva intrecciarsi con una precisa ora cosmica e storica. Essa coincide con la Pasqua dei Giudei, così come è presentata e ordinata in Es 12. Giovanni e la lettera agli Ebrei mostrano che essa as­sume in sé anche il contenuto di altre feste, soprattutto quella della riconciliazione, ma la sua vera data è la Pasqua: la sua morte non è un qualche incidente im­previsto, è una «festa» - porta a compimento ciò che nella Pasqua era stato simbolicamente inaugurato. Es­sa - come abbiamo visto - porta dal surrogato alla realtà, alla sua donazione vicaria intesa come servizio.

La Pasqua è l'«ora» di Gesù. Proprio nel legame con questa data si palesa il significato storico univer­sale del morire di Gesù. La Pasqua era all'inizio una festa di nomadi; da Abele fino all'Apocalisse l'agnel­lo sacrificato è prefigurazione del Redentore, del sa­crificio puro. In questa sede non è necessario seguire ulteriormente l'importanza dell'elemento nomadico nell'origine della religione biblica. Per quanto riguar­da il sorgere del monoteismo è importante ricordare

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che esso non ha avuto origine nelle grandi città e nelle terre fertili presso i grandi corsi d'acqua. Esso ha po­tuto crescere nel deserto, in cui il cielo e la terra si tro­vano l'uno di fronte all'altro; nell'assenza di dimora e di riparo del viandante, che non divinizza un luogo particolare, ma che doveva continuamente sostenersi sul Dio che camminava con lui. In tempi recenti si è altresì richiamata l'attenzione sul fatto che la festa della Pasqua cade nel tempo della costellazione del­l'ariete - dell'agnello. E pur vero che per quanto ri­guarda la determinazione della data della Pasqua que­sta coincidenza, se pur vi è stata, è stata comunque marginale. Essenziale, invece, è stato il richiamo alla data della morte e resurrezione di Gesù, che implicava già di per se stesso lo stretto legame con il calendario giudaico. Indubbiamente, però, proprio questo lega­me, che ancora una volta aveva a che fare con la cor­relazione tra Antico e Nuovo Testamento così come con la novità dell'avvenimento cristiano, portava in sé la miccia di quella controversia sulla data della Pa­squa che sarebbe scoppiata nel secolo secondo e che solo il concilio di Nicea (325) potè risolvere, almeno per la Grande Chiesa. Difatti, esisteva, da una parte, la consuetudine diffusa nell'Asia Minore, che si richia­mava al calendario giudaico e che celebrava quindi la Pasqua cristiana nel quattordicesimo giorno del mese di Nisan, la «Pasqua dei Giudei». D'altra parte, c'era la consuetudine, formatasi soprattutto a Roma, di con­siderare in maniera esclusiva la domenica come il giorno della resurrezione; la Pasqua cristiana doveva quindi essere celebrata sempre di domenica dopo il primo plenilunio di primavera. Il concilio di Nicea impose questa decisione. Con questa disposizione il calendario solare e quello lunare venivano a legarsi strettamente, le due grandi forme di ordinamento co­smico del tempo si trovavano reciprocamente legate a

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partire dalla storia di Israele e dal destino di Gesù. Torniamo, però, ancora una volta all'immagine dell'a­gnello (dell'ariete). Nel V secolo ci fu una controver­sia tra Roma e Alessandria sul termine ultimo per la data della Pasqua. Secondo la tradizione alessandrina doveva essere il 25 aprile. Papa Leone Magno (440-461) criticò questa data, ritenuta troppo tarda, richia­mando l'indicazione biblica secondo cui la Pasqua do­veva cadere nei primi mesi. Con questo non si inten­deva il mese di aprile, ma il tempo in cui il sole per­corre il primo segmento del cerchio zodiacale - la co­stellazione dell'ariete. Il segno zodiacale nel cielo sembrava parlare in anticipo e per tutti i tempi dell'«agnello di Dio», che toglie i peccati del mondo (Gv 1,29), di colui che riassume in sé tutti i sacrifici degli innocenti e dà loro significato. Il racconto miste­rioso dell'ariete - che era rimasto impigliato nei rovi e che si offrì al posto di Isacco come sacrificio prescelto da Dio stesso -, viene ora inteso come pre-istoria di Gesù, i rami in cui è preso, come immagine del segno zodiacale dell'ariete e questo, a sua volta, come prefi­gurazione celeste del Cristo crocifisso. Con ciò si de­ve ancora osservare che la tradizione giudaica datava il sacrificio di Abramo al 25 di marzo. Questo giorno - come avremo modo di approfondire più avanti - era però visto anche come il giorno in cui aveva avuto inizio la creazione del mondo, quello in cui Dio aveva detto: «sia la luce!». Molto presto esso venne visto anche come il giorno in cui Cristo era morto e, final­mente, come quello in cui era stato concepito. Un ri­chiamo a questa serie di pensieri è certo presente nelle parole della prima lettera di Pietro, che definisce Cri­sto come F «agnello senza macchia» di cui parla Es 12,5, che è stato «scelto prima della creazione del mondo» (1,20); le parole misteriose di Ap 13,8 sul!'«agnello che è stato immolato fin dal principio

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del mondo» potrebbero forse essere comprese a parti­re da qui, anche se sono possibili altre traduzioni che accentuano ulteriormente il paradosso. È chiaro che, a partire da queste immagini cosmiche, i cristiani com­prendevano il significato universale di Cristo in ma­niera inaudita e diveniva, quindi, comprensibile anche la grandezza della speranza prefigurata nella fede. Mi pare chiaro che anche noi dobbiamo recuperare questo sguardo cosmico, se vogliamo tornare a comprendere e vivere l'avvenimento cristiano in tutta la sua am­piezza e profondità.

Vorrei aggiungere altre due considerazioni sulla fe­stività pasquale. Nel corso delle riflessioni fin qui condotte abbiamo visto quanto il cristianesimo abbia fatto suo il simbolismo solare. La datazione della Pa­squa, divenuta definitiva con il concilio di Nicea, ha collegato la festa al calendario solare, senza però se­pararla da quello lunare. Nel mondo delle religioni la luna, con le sue fasi cangianti, appare spesso come un simbolo del femminile, soprattutto però come simbolo della transitorietà. Il simbolismo cosmico della luna corrisponde così al mistero della morte e della resur­rezione che ha avuto luogo nella Pasqua cristiana. Nella data della festa di Pasqua fissata nella domenica dopo il primo plenilunio di primavera si uniscono il simbolismo del sole e della luna: la transitorietà è ri­assunta e contenuta nella non transitorietà. La morte diventa resurrezione e sfocia nella vita eterna.

Infine dobbiamo però ricordare che già per Israele la Pasqua non è solo una festa cosmica, ma è sostan­zialmente ordinata a una memoria storica: è la festa dell'uscita dall'Egitto, la festa della liberazione, con cui Israele comincia la sua strada come popolo di Dio nella storia. La Pasqua di Israele è memoria di un agi-

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re di Dio che è stato evento di liberazione e ha istitui­to la comunità. Anche questo contenuto della festa è entrato nella Pasqua cristiana e ha aiutato a compren­dere la profondità di significato della resurrezione di Cristo. Gesù aveva consapevolmente legato i suoi ul­timi passi alla Pasqua di Israele, l'aveva scelta come la sua «ora». Deve quindi esserci uno stretto legame tra la memoria di Israele e il nuovo evento del santo triduo della cristianità. L'ultima minaccia dell'uomo è la morte. L'uomo sarà pienamente liberato solo se sa­rà liberato dalla morte. In effetti, l'oppressione di Israele in Egitto era una forma di morte, che doveva e voleva distruggere il popolo in quanto tale. Su tutti i discendenti di sesso maschile gravava la morte. Nella notte di Pasqua, al contrario, l'angelo della morte per­corre ora l'Egitto e colpisce i suoi figli primogeniti. La liberazione è liberazione per la vita. Cristo, il pri­mogenito della creazione, prende su di sé la morte e schiaccia nella resurrezione il potere della morte: la morte non ha più l'ultima parola. L'amore del Figlio si rivela così più forte della morte, perché unisce l'uo­mo con l'amore di Dio, che è l'essere stesso. Nella re­surrezione di Cristo non viene così richiamato alla memoria solamente un destino individuale: Egli, ora, è stabilmente qui, perché Egli vive. È Lui che ci rac­coglie, perché anche noi viviamo: «Io vivo, e voi vi­vrete» (Gv 14,19). A partire dalla Pasqua i cristiani si comprendono come «viventi», come coloro che hanno trovato la via d'uscita da un'esistenza che è più un es­sere morti che vera vita, come coloro che hanno sco­perto la vita reale: «Questa è la vita eterna, che essi conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai man­dato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). La liberazione dalla morte è allo stesso tempo liberazione dalla prigionia dell'individualismo, dal carcere dell'io, dall'incapaci­tà di amare e di parteciparsi. La Pasqua diventa così la

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grande festa battesimale, in cui l'uomo compie, per così dire, il passaggio del mar Rosso, esce dalla sua vecchia esistenza per entrare nella comunione con Cristo, il Risorto, e, così, nella comunione con tutti coloro che gli appartengono. La resurrezione costrui­sce la comunione. Essa crea il nuovo popolo di Dio. Il seme di frumento, che è morto da solo, non resta solo, ma porta molto frutto. Il Risorto non resta solo, attira verso di sé l'umanità e realizza così la nuova, univer­sale comunione tra gli uomini. L'intero significato della Pasqua ebraica è presente nella Pasqua cristiana. Il punto qui non è il ricordo di un evento di per sé pas­sato e irripetibile, ma - come abbiamo già visto -quello che è avvenuto una sola volta, diventa evento per sempre: il Risorto vive e dà vita, vive e opera co­munione, vive e apre il futuro, vive e indica la strada. Ma non dimentichiamo neppure che questa festa della storia della salvezza, aperta in avanti, verso il futuro, ha le sue radici in un evento cosmico e non rinuncia a queste radici: la luna, che muore e sorge di nuovo, di­venta il segno cosmico della morte e resurrezione, il sole del primo giorno diventa il messaggero di Cristo, che «esce come uno sposo dalla stanza nuziale e per­corre la sua strada esultante come un prode», fino agli estremi confini dello spazio e del tempo (Sai 18 [19], 6s). Per questo i tempi delle feste cristiane non posso­no essere manipolati arbitrariamente; l'«ora» di Gesù continua a mostrarsi anche a noi nell'unità del tempo cosmico e storico. Mediante la festa entriamo nel rit­mo della creazione e nell'ordine della storia di Dio con gli uomini.

A questo punto sorge spontanea una domanda, che desidero affrontare, prima di passare alla trattazione della festività del Natale. Il simbolismo cosmico qui presentato si realizza alla lettera solo nell'ambiente

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del Mediterraneo e in quello del Medio Oriente, in cui sono sorte la religione ebraica e quella cristiana. Ma esso, in sostanza, continua a valere anche per l'emi­sfero settentrionale. Tuttavia, nell'emisfero meridio­nale tutto appare rovesciato: la Pasqua cristiana non cade in primavera, ma in autunno, Natale non cade nel solstizio d'inverno, ma al centro dell'estate. Qui la questione della «inculturazione» liturgica si pone in tutta la sua urgenza: se la simbologia cosmica è così importante, in questi luoghi non si dovrebbe allora ro­vesciare il calendario? G.VoB ha giustamente risposto che così finiremmo per ridurre il mistero di Cristo a una religione puramente cosmica, che finiremmo per sottomettere la dimensione storica a quella cosmica. Ma non è l'elemento storico ad essere funzionale a quello cosmico, ma quello cosmico allo storico, per­ché è solo in quest'ultimo che al cosmo viene donato il suo centro e il suo scopo. L'incarnazione significa anche legame con l'origine, con la sua singolarità e anche con la sua «casualità», per esprimerci con paro­le umane. Proprio essa è per noi garanzia che non stia­mo seguendo dei miti, ma che Dio ha agito con noi realmente, ha preso il nostro tempo nelle sue mani, e ora, sul ponte di questa «unica volta», possiamo spin­gerci fino al «per sempre» della sua misericordia. È però vero che l'ampiezza del simbolo e quella dell'a­gire storico di Dio devono essere equilibrati. Vo6 ha saputo molto ben evidenziare taluni aspetti «autunna­li» nel mistero della Pasqua, che ci aiutano ad appro­fondire e ampliare la nostra comprensione della festa e possono conferirle una sua particolare fisionomia nell'altro emisfero. Del resto tanto la Scrittura che la liturgia offrono dei richiami per una interiore delimi­tazione dei simbolismi. Avevo già richiamato l'atten­zione sul fatto che il Vangelo di Giovanni e la lettera agli Ebrei nell'interpretare la passione di Gesù non

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fanno riferimento solo alla Pasqua ebraica, che dal punto di vista cronologico coincide con la sua «ora», ma la interpretano anche a partire dal rito della festa della riconciliazione, che viene celebrata nel decimo giorno del «settimo mese» (settembre-ottobre). Nella Pasqua di Gesù si intrecciano così la Pasqua ebraica (in primavera) e il giorno della riconciliazione (in au­tunno). Egli congiunge la primavera e l'autunno del mondo: l'autunno del tempo che passa diventa un nuovo inizio, ma anche la primavera diventa, come ora della sua morte, un richiamo alla fine dei tempi, all'autunno del mondo, in cui, secondo i Padri, Cristo è venuto. Prima della riforma postconciliare il calen­dario liturgico conosceva una particolare ripartizione dei tempi che, però, non era più compresa da molto tempo ed era concepita troppo esteriormente. A secon­da che la data di Pasqua cadesse in anticipo o in ritar­do si doveva abbreviare o allungare il tempo dopo l'Epifania. Le domeniche che così venivano a cadere, venivano spostate alla fine dell'anno liturgico. Chi consideri con attenzione le letture proposte in tali oc­casioni, vedrà che si tratta in larga misura di testi che sono ordinati al tema della semina, che diventa così segno del seme del Vangelo che deve essere sparso. Proprio per questo tali testi, e le domeniche in cui ve­nivano letti, possono trovare il loro posto tanto in pri­mavera che in autunno: in ambedue le circostanze è tempo di semina. In primavera il contadino semina per l'autunno, in autunno per l'anno che verrà. La se­mina rinvia sempre in avanti, essa appartiene tanto al­l'anno che comincia quanto a quello che se ne va, pro­prio perché l'anno che se ne va rinvia a un nuovo fu­turo. Il mistero della speranza è in gioco in ambedue le circostanze e ha la sua profondità proprio nell'anno che sta per finire, che, attraverso il tramonto, conduce a un nuovo inizio. Mettere in risalto questi spunti di

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riflessione e farli entrare nella coscienza comune dei cristiani di ambedue gli emisferi terrestri potrebbe es­sere un'opera di vera inculturazione, in cui il sud po­trebbe aiutare il nord a scoprire nuovi aspetti nella va­stità e profondità del mistero. È questa, peraltro, una via per la quale ambedue possiamo ricevere nuova­mente la sua ricchezza.

Rivolgiamoci ora - sia pure brevemente - al secon­do centro gravitazionale dell'anno liturgico, il periodo del Natale, che si è formato più tardi dell'ordinamento pasquale, a partire e in funzione della Pasqua stessa. La domenica - così come la direzione ad oriente della preghiera cristiana - è un elemento essenziale della cronologia cristiana, che risale alle stesse origini della cristianità. Fin dal principio è questo un elemento sta­bile e determina a tal punto la forma dell'esistenza cristiana che Ignazio di Antiochia giunge ad afferma­re: «Noi non viviamo più secondo il sabato, ma appar­teniamo alla domenica...» (Ad Magn. 9,1). Ma già nel Nuovo Testamento lo sguardo dei cristiani risale dal­l'evento pasquale fino all'Incarnazione di Cristo nel grembo della Vergine Maria. Nel Vangelo di Giovan­ni, sintesi conclusiva della fede neotestamentaria, la teologia dell'incarnazione è posta allo stesso livello della teologia pasquale, o, ancora meglio: la teologia dell'Incarnazione e la teologia pasquale non stanno l'una accanto all'altra, ma appaiono come i due inse­parabili punti forti dell'unica fede in Gesù Cristo, il Figlio di Dio incarnato e il Redentore. Croce e resur­rezione presuppongono l'Incarnazione. Solo perché il Figlio - e con Lui Dio stesso - è realmente «disceso» e «si è incarnato nel seno della Vergine Maria», la morte e la resurrezione di Gesù sono eventi che sono contemporanei a tutti noi e che ci toccano tutti, ci strappano dal passato segnato dalla morte e ci aprono

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al presente e al futuro. A sua volta, l'incarnazione mi­ra a far sì che questa «carne», l'esistenza terrena e transitoria, giunga a una forma non più transitoria, en­tri cioè nel cambiamento pasquale. Dopo che l'Incar­nazione era stata riconosciuta come il punto forte del­la fede in Cristo, essa doveva trovare espressione an­che nella celebrazione liturgica, essere rappresentata anche nel ritmo del tempo sacro. E difficile stabilire con precisione a quanto indietro risalgano le radici della festa del Natale. Essa ha comunque preso la sua forma definitiva nel secolo terzo. Più o meno nello stesso periodo emergono in Oriente la festa dell'Epi­fania, al 6 gennaio, e in Occidente quella del Natale, al 25 dicembre, con accenti diversi, in dipendenza dai diversi contesti religiosi e culturali in cui erano sorte ambedue le feste, ma con un ultimo significato comu­ne: la nascita di Cristo come alba della nuova luce, del vero sole della storia. I complicati e talvolta discussi particolari della formazione di queste due feste esula­no dai limiti di questo volume. Qui vorrei accennare solo a ciò che, a mio avviso, è di aiuto per compren­dere ambedue questi giorni di festa. Il punto di parten­za per fissare il giorno della nascita di Cristo è dato, sorprendentemente, dal 25 marzo. Per quanto mi è no­to, la più antica notizia in proposito si trova nelle ope­re dello scrittore ecclesiastico di origine africana Ter­tulliano (ca 150-ca 207), il quale, evidentemente pre­suppone come tradizione conosciuta che Cristo sia morto sulla croce il 25 marzo. In Gallia questo giorno fu conservato fino al sesto secolo come data fissa del­la Pasqua. In uno scritto che ha come argomento il calcolo della data della Pasqua, risalente al 243 e pure originario dell'Africa, nel contesto di un'interpreta­zione del 25 marzo come giorno della creazione, tro­viamo un calcolo davvero molto particolare del giorno della nascita di Cristo: secondo il racconto della crea-

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zione il sole era stato creato nel quarto giorno, ovvero il 28 marzo. Per questo tale giorno dovrebbe essere considerato come il giorno della nascita di Cristo, co­me quello che ha visto sorgere il vero sole della storia. Questa idea si trova ancora nel quarto secolo, con la variante che il giorno della Passione e quello del Con­cepimento di Cristo erano visti come identici e, per questo, il 25 marzo si celebrava l'annunciazione del­l'angelo e il Concepimento del Signore per opera del­lo Spirito Santo nel grembo della Vergine Maria. La festa della nascita di Cristo il 25 dicembre - nove me­si dopo il 25 marzo - si è formata in Occidente nel corso del terzo secolo, mentre in Oriente - sulla base di una differenza di calendario - il Natale di Cristo veniva inizialmente celebrato il 6 gennaio. In tal mo­do si rispondeva anche a una festa pagana che veniva celebrata ad Alessandria in quello stesso giorno e che aveva come oggetto la mitica nascita di una divinità. Le vecchie ipotesi, secondo cui il 25 dicembre era sta­to scelto a Roma in polemica con il culto mitraico o anche come risposta cristiana al culto del sole invitto, che era stato promosso dagli imperatori romani nel corso del terzo secolo come tentativo di stabilire una nuova religione di stato, oggi non paiono più sosteni­bili. Decisivo fu piuttosto lo stretto rapporto tra crea­zione e croce, tra creazione e Concepimento di Cristo, nella misura in cui a partire dall'«ora di Gesù» queste date venivano a coinvolgere il cosmo, lo interpretava­no come pre-figurazione e pre-annuncio di Cristo, il primogenito della creazione (Col 1,15), di cui parla la creazione stessa e attraverso il quale viene decifrato il suo tacito messaggio. Dal primogenito della creazio­ne, che ora è entrato nella storia, il cosmo riceve il suo vero senso: a partire da Lui ora è certo che l'avventu­ra della creazione, dell'esistenza del mondo - libera e diversa da Dio - non si conclude nell'assurdo e nel

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tragico, ma resta positiva attraverso tutti gli sconvol­gimenti e le distruzioni. L'approvazione del settimo giorno da parte di Dio è confermata in maniera auten­tica e definitiva. A partire da questo contenuto origi­nariamente cosmico della data del Concepimento e della Nascita poteva essere anche ripresa la sfida del culto solare e inserita positivamente nella teologia della festa. Nei Padri si trovano testi grandiosi che esprimono questa sintesi. San Gerolamo, per esempio, in una sua predica natalizia afferma: «La stessa crea­tura dà ragione alla nostra predica, il cosmo è testimo­ne della verità della nostra parola. Fino a questo gior­no crescono i giorni oscuri, da questo giorno regredi­sce l'oscurità... Cresce la luce, arretra la notte». Anche Agostino così predicava ai suoi fedeli di Ippona nella notte di Natale: «Rallegriamoci anche noi, o fratelli. Giubilino pure i pagani: poiché non il sole visibile ci consacra questo giorno, ma il suo invisibile creatore». I Padri si richiamano continuamente ai versetti del salmo 18 (19) già citati in precedenza, che per la Chiesa antica sono divenuti il vero salmo natalizio: Egli (il sole, cioè Cristo) è come uno sposo che esce dalla sua stanza nuziale. In questo salmo, interpretato come profezia di Cristo, si sentiva riecheggiare il mi­stero mariano. Tra queste due date, del 25 marzo e del 25 dicembre, si inserisce poi la festa del precursore, Giovanni Battista, il 24 giugno, nel giorno del solsti­zio d'estate. La correlazione tra queste date appare ora come un'espressione liturgica e cosmica delle parole del Battista: Egli (Cristo) deve crescere, io devo dimi­nuire. La festa del natale di Giovanni coincide con il momento dell'anno in cui il giorno comincia a dimi­nuire, così come la festa del Natale di Cristo è l'inizio della nuova alba. L'intreccio di questa festa è pura­mente cristiano, senza un richiamo diretto all'Antico Testamento, ma si trova comunque in continuità con

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la sintesi di cosmo e storia, di memoria e speranza, che era già caratteristico della festa anticotestamenta-ria e che viene ripresa in modo nuovo nel calendario cristiano. L'intima compenetrazione di Incarnazione e Resurrezione emerge così nella loro specifica e insie­me comune correlazione con il ritmo solare e il suo simbolismo.

Ora desidero accennare brevemente alla festa del­l'Epifania - il 6 gennaio -, che si trova in stretto rap­porto con il Natale. Tralasciamo qui tutti i dettagli sto­rici e anche i numerosi e splendidi testi patristici su questo argomento. Cerchiamo semplicemente di com­prendere questa festa a partire dalla forma che essa si è data presso di noi, in Occidente. L'Epifania interpre­ta l'Incarnazione del Logos a partire dall'antica cate­goria della «Epifania», vale a dire dell'autorivelazione di Dio, che si mostra alla creatura e, in questo modo, stabilisce un legame tra le diverse epifanie: l'adora­zione dei magi come inizio della Chiesa dei pagani, della processione dei popoli verso il Dio di Israele, se­condo la profezia di Isaia 60; il battesimo di Gesù nel Giordano, in cui la voce dall'alto proclama aperta­mente che Gesù è il Figlio di Dio; le nozze di Cana, in cui egli manifesta la sua gloria. Il racconto dell'adora­zione dei magi è importante per il pensiero cristiano, perché mostra l'intima correlazione tra la sapienza dei popoli e la promessa di cui parla la Scrittura; perché esso mostra come il linguaggio del cosmo e il pensie­ro umano alla ricerca della verità muovono verso Cri­sto. La stella misteriosa potè diventare il simbolo di questa correlazione, sottolineando inoltre che il lin­guaggio del cosmo e quello del cuore umano hanno ambedue origine dalla «parola» del Padre, che in Be­tlemme è uscita dal silenzio di Dio e ricompone in unità i frammenti della nostra conoscenza umana.

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Le grandi feste che danno forma all'anno della fede sono feste di Cristo e, proprio in questo modo, sono ordinate all'unico Dio, che si era manifestato a Mosè nel roveto ardente e che aveva scelto Israele come as­sertore della confessione della Sua unicità. Il fatto poi che, come immagine di Cristo, accanto al sole si trovi la luna, che non brilla di luce propria, ma riceve la sua luminosità dal sole, ci ricorda che noi uomini abbiamo sempre bisogno anche dei piccoli «lumi», la cui luce nascosta sola ci aiuta a riconoscere e amare la luce creativa, il Dio Uno e Trino. Per questo fin dai primis­simi tempi della cristianità le feste dei santi entrano a dar forma all'anno cristiano. Ci siamo già imbattuti in Maria, la cui figura è così strettamente intrecciata con il mistero di Cristo che la formazione del ciclo natali­zio introduce necessariamente una nota mariana nel­l'anno liturgico: la dimensione mariana delle feste cri-stologiche è così divenuta visibile. Compaiono poi an­che la memoria degli apostoli, dei martiri e, infine, il ricordo dei santi di tutti i secoli. Si potrebbe anche di­re che i santi costituiscono in un certo modo i nuovi segni zodiacali cristiani, nei quali si rispecchia la ric­chezza della bontà di Dio. La loro luce, proveniente da Dio, ci permette di riconoscere meglio la ricchezza interiore della grande luce di Dio, che da soli non po­tremmo cogliere nello splendore della sua purissima gloria.

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PARTE TERZA

ARTE E LITURGIA

Capìtolo primo

LA QUESTIONE DELLE IMMAGINI

Nel primo comandamento del decalogo, che mette in evidenza l'unicità di Dio, a cui solo spetta l'adora­zione, leggiamo questo precetto: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né db quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle ac-jj que sotto la terra» (Es 20,4; cfr. Dt 5,8). C'è comun-l que una notevole eccezione a questo divietcfxfelle im­magini nel cuore stesso dell'Antico Testamento, nel santo dei santi dove era conservato il coperchio d'oro dell'Arca dell'Alleanza, che era considerato còme luogo di espiazione. «Là io vogliojj^/^ì.ax^d^te>>, di­ce Dio a Mosè (Es 25,22}.*«Farai due cherubini d'oro: li farai lavorati a martello sulle due estremità del co­perchio... I cherubini avranno le due ali stese di sopra ... saranno rivolti l'uno verso l'altro e le facce dei che­rubini saranno rivolte verso il coperchio» (Es 25,18-20). Gli esseri misteriosi, che coprono e custodiscono il luogo della rivelazione di Dio, possono essere rap­presentati proprio per nascondere il mistero della pre­senza di Dio. Come abbiamo già udito, Paolo ha com­preso il Cristo crocifisso come il vero e vivente «luo­go dell'espiazione», che era stato prefigurato dalla Kapporeth - il «coperchio» - perso dall'epoca dell'e­silio. In Lui Dio aviv^'mosffato il suo volto. L'icona orientale della resurrezione di Cristo si ricollega a questa correlazione tra l'arca dell'Alleanza e la Pa­squa di Cristo, rappresentando Cristo che sta in piedi

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su una piattaforma sbarrata, che rappresenta il sepol­cro, ma che ricorda anchela Kapporeth dell'Antico Testamento. Cristo vi appare infatti affiancato dai che­rubini; verso di Lui si muovono le donne che erano venute al sepolcro per ungerne il corpo. L'immagine dell'Antico Testamento vi appare quindi mantenuta hella sua sostanza, ma acquista nuovo significato a partire dalla resurrezione intorno a un nuovo centro ideale: Dio, che ora non si nasconde più totalmente, ma si mostra nel volto del Figlio. Con questa trasfor­mazione del ricordo dell'Arca dell'Alleanza in un'im­magine della resurrezione è già delineato ciò che è più essenziale nell'evoluzione dall'Antica alla Nuova Al­leanza. Ma per comprendere correttamente il tutto, dobbiamo accostare più da vicino le grandi linee di questo sviluppo.

Mentre il divieto delle immagini nell'Islam e nel Giudaismo, a partire dal terzo o dal quarto secolo do­po Cristo, fu inteso in maniera radicale, al punto che ad ornamento dei luoghi di culto erano permesse solo rappresentazioni npn^igurative^ di carattere geomete­co, il Giudaismo dell'epoca di Gesù (fino al secolo terzo inoltrato)*avevl sviluppato una beri più benevola intepretazione della questione delle immagini. Para­dossalmente nelle immagini della salvezza tra sinago­ga e Chiesa vi è la stessa continuità che abbiamo avu­to modo di constatare negli spazi liturgici. Le ricerche archeologiche ci permettono di verificare che le anti­che's"iM|&|Ke erano riccamente decorate con figura­zioni di scene bibliche. Queste non erano affatto sem­plici immagini di eventi passati, una sorta di insegna­mento della storia attraverso le immagini, ma una for­ma di racconto che, facendo memoria, attualizza una presenza (Haggada): nelle feste liturgiche le gesta compiute da Dio sono presenza. Le feste sono parteci-

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pazione all'agire di Dio nel tempo, e le immagini con­tribuiscono^ loro volta all'attualizzazione liturgica, proprio come figura che è divenuta memoria. Le im­magini cristiane, così come le troviamo nelle cata­combe*, riprendono con semplicità e su vasta scala il canone iconico creato dalla sinagoga, ma gli conferi­scono una nuova modalità di presenza. I singoli eventi vengono ora sufrortlmati ai sacramenti cristiani e a Cristo stesso. L'arca di Noè, così come il passaggio del mar Rosso, diventa un richiamo al battesimo; il sacrificio di Isacco e il pasto còfTsurfiatò dai tre angeli con Abramo parlarlo del sacrificio di Cristo e dell'eu­caristia. Eventi di salvazione, cóme quello dei tre gio­vani nella fornace ardente e di Daniele nella fossa dei leoni, lasciano trasparire la resurrezione di Cristo e la nostra stessa resurrezione. Ancor più che nella sinago­ga qui si conferma che le immagini non raccontano del passato, ma riassumono nel sacramento gli avve­nimenti della storia. Nella storia passata Cristo è in cammino attraverso i tempi con i suoi sacramenti. Noi siamo recuperati in questi eventi. Per parte loro, que­sti eventi superano la transitorietà del tempo, e sono presenti in mezzo a noi nell'azione sacramentale della Chiesa. La concentrazione cristologica di tutta la sto­ria è allo stesso tempo mediazione liturgica di questa storia ed espressione di una nuova esperienza del tem­po, in cui passato, presente e futuro si toccano, perché sono raccolti e riassunti nella presenza del risorto. Co­me si è già visto e come ancora una volta vediamo confermato, la presenza liturgica porta sempre in sé la speranza escatologica. Così come tutte queste imma­gini sono in un certo senso immagini della resurrezio­ne, storia riletta a partire dalla resurrezione, esse sono, anche per questo, immagini della speranza, che ci co­municano la certezza del mondo che verrà, della ve­nuta definitiva di Cristo. Per quanto le immagini delle

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origini possano sembrare povere di qualità artistica, in esse srè-cornunqué compiuto uao straordinario pro­cesso spirituale e culturale, che si trova comunque in profónda unità interiore con l'intento delle opere arti­stiche sinagogali. La stòria ricevè"una luce nuova gra­zie alla resurrezione e viene così intesa come un cam­mino di speranza, verso cui le immagini ci attraggono. In questo senso le opere figurative della Chiesa delle origini hanno sempre carattere di mistero, significato sacramentale, e vanno ben oltre l'elemento didattico della comunicazione di storie bibliche.

Nessuna delle immagini antiche cerca di trasmetter­ci un'immagine-ritratto di Gesù. Cristo viene piuttosto rappresentato nel suo significato, in immagini «alle­goriche»: come il vero filosofo, che ci comunica l'arte di vivere e di morire; come il maestro, ma soprattutto ci è presentato sótto la figura del pastore. Questa im­magine, tratta dalla Sacra Scrittura, è divenuta tanto cara alla cristianità delle origini proprio perché il pa­store veniva allo stesso tempo considerato un'allego­ria del Logos: il Logos, mediante il quale tutto è stato; creato, che porta in sé le idee originarie di tutte le co-j se che esistono, e il custode deìla creazione. Nell'Indi carnazione Egli prende sulle sue spalle la natura umai • na, l'umanità nel suo insieme, e la riporta a casa. L'immagine del pastore ricomprendè così Finterà-sto­ria della salvezza: l'ingresso di Dio nella storia, l'In­carnazione, la ricerca della pecora perduta e il cammi­no che riconduce a casa nella Chiesa dei giudei e dei pagani. Una svolta di importanza decisiva nella storia delle immagini della fede ebbe luogo nel momento in cui, per la prima volta, ci si trovò davanti a un cosid­detto «Acheiropoietqs»: un'imm.agijje^che era consi­derata non laTfaaa mani d'uomo e che raffigurava il volto di Cristo stèsso. Due di queste immagini «non

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fatte da mano d'uomo» compaiono più o meno nello stessQ.teffipervers©4a"TTieT&"tK^ te: il cosiddetto «Kamulianium» - che presenta l'im­magine di Cristo impressa sulla veste di una donna - e quella che, in seguito, fu detta «Mandylion», che pare sia stata portata a Costantinopoli da Edessa di Siria e che oggi taluni ricercatori ritengono di poter identifi­care con la sindone di Torino. Nell'uno e nell'altro ca­so - come per la sindone di Torino -, deve essersi trat­tato di un'immagine misteriosa, un'immagine che non poteva essere il prodotto dell'arte pittorica dell'uomo, ma che in maniera inspiegabile apparve impressa sul materiale e prometteva così di mostrare il vero volto di Cristo, Crocifisso e Risorto. Fin dalla sua compar­sa, questa immagine deve aver suscitato un grande fa­scino. Ora, finalmente, si poteva vedere il volto del Signore, fino a quel momento nascosto, e sentire così che si era compiuta la promessa: chi vede me, vede il Padre (Gv 14,9). Lo sguardo sul Dio-Uomo e, me­diante Lui, su Dio stesso, sembrava aperto, la nostal­gia greca della visione dell'eterno pareva compiuta. L'icona veniva così a trovarsi formalmente sullo stes­so piano di un sacramento: essa consentiva una comu­nione che non era inferiore a quella eucaristica. Si pensò quasi a una sorta di presenza reale, nell'imma­gine, di Colui che veniva raffigurato; l'immagine, poi, nel senso pieno di non fatta da mani d'uomo, è parte­cipazione alla realtà stessa, irradiazione e presenza di Colui che dona se stesso nell'immagine. E facile de­durre che le immagini modellate sufi'Acheiropoietos divennero il centro di tutto il canone iconico che nel frattempo si era sviluppato e che era in ulteriore svi­luppo.

E però altresì chiaro che qui stava in agguato un pe­ricolo, una falsa sacramentalizzazione dell'immagine,

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che pareva condurre oltre il sacramento e il suo na­scondimento, fino all'immediatezza di una presenza divina visibile. Si capisce quindi che la novità che qui compariva, doveva portare a dure reazioni in senso contrario, a quel radicale rifiuto dell'immagine che noi chiamiamo «iconoclasmo» - ostilità alle immagini e distruzione delle immagini stesse. L'iconoclasmo traeva la sua forza da motivi realmente religiosi - da­gli innegabili pericoli di una sorta di adorazione del­l'immagine -, ma anche da tutta una serie di ragioni politiche. Per gli imperatori bizantini era importante non provocare inutilmente musulmani ed ebrei. La re­pressione delle immagini poteva rendersi necessaria per tutelare l'unità dell'Impero e le relazioni con i vi­cini islamici. Cristo non poteva essere rappresentato: questa era la tesi sostenuta. Solo il segno (privo di im­magini) della Croce poteva essere il suo sigillo. Si im­pose allora l'alternativa: croce o immagine. In questa lotta maturò poi la vera teologia dell'icona, il cui mes­saggio proprio oggi, nel pieno della crisi delle imma­gini che investe anche l'Occidente, ci tocca tanto pro­fondamente.

L'icona di Cristo - di ciò si divenne ora consapevo­li e se ne trassero le conseguenze - è icona del Risor­to. Non c'è alcun ritratto del risorto. Al primo mo­mento i discepoli non lo riconoscono. Essi devono es­sere condotti a un nuovo modo di vedere, con il quale i loro occhi si aprono dal di dentro, così che essi lo ri­conoscono di nuovo e gridano: È il Signore! Il raccon­to più ricco in tal senso è quello dei discepoli di Em-maus. Dapprima deve essere cambiato il loro cuore, perché possano poi riconoscere gli eventi esteriori della Scrittura attraverso il suo centro interiore, da cui tutto viene e a cui tutto muove: la croce e la resurre­zione di Gesù Cristo. Poi devono trattenere il loro mi-

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sterioso compagno di viaggio, offrirgli la loro ospitali­tà, così che quando Egli spezza il pane accade loro, in maniera opposta, quello che Adamo ed Eva avevano sperimentato mangiando il frutto dell'albero della co­noscenza: i loro occhi si aprono. Ora essi non vedono più solo l'esteriore, ma vedono ciò che non appare ai sensi, ma che attraverso i sensi traspare: È il Signore, Lui che vive in un modo nuovo! Nell'icona non con­tano questi tratti del volto (sebbene, nella sostanza, ci si attenga alla figura dell'Acheiropoietos); ciò che conta, in essa, è questo nuovo modo di vedere. L'ico­na stessa deve provenire da un'apertura dei sensi inte­riori, da un diventare vedenti che supera la superficie dell'empirico e guarda a Cristo, come dice la succes­siva teologia dell'icona, nella luce del Tabor. A sua volta, essa conduce chi la contempla mediante lo sguardo interiore, che ha preso forma nell'icona, a guardare nel sensibile oltre il sensibile, che pure è pe­netrato nei sensi. L'icona suppone, come già osserva­va Evdokimov, un «digiuno del vedere». Gli icono­grafi - così dice questo autore - devono imparare il digiuno con gli occhi e prepararsi mediante un lungo cammino di ascesi orante, che segua il passaggio dal­l'arte all'arte sacra (161). L'icona viene dalla preghie­ra e conduce alla preghiera: essa libera dalla chiusura dei sensi che percepisce solo l'esteriore, la superficie materiale, e non nota la trasparenza dello spirito, la trasparenza del Logos nella realtà. In fondo qui è in gioco il salto della fede stessa; è presente tutto il pro­blema della conoscenza nell'epoca moderna: se nel­l'uomo non accade un'apertura interiore, che vede più di ciò che è misurabile e ponderabile, che percepisce lo splendore del divino nella creazione, allora Dio re­sta escluso dal nostro campo visivo. L'icona rettamen­te intesa ci distoglie dalla falsa questione del ritratto afferrabile con i sensi e, proprio in questo modo, ci

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permette di riconoscere il volto di Cristo e, in Lui, quello del Padre. Così nell'icona è all'opera lo stesso orientamento spirituale che abbiamo già conosciuto nella liturgia: essa vuole attrarci in un cammino inte­riore, nel cammino che va verso 1'«oriente», verso Cristo che sta per tornare. La sua dinamica è in tutto e per tutto identica alla dinamica della liturgia. La sua cristologia è trinitaria. È lo Spirito che ci rende capaci di vedere, la sua opera libera sempre un movimento verso Cristo. «Abbeverati dello Spirito, beviamo Cri­sto», dice sant'Atanasio (citato da Evdokimov). Quel modo di guardare che Cristo ci insegna, non «secondo la carne», ma secondo lo Spirito (2Cor 5,16), ci dona allo stesso tempo anche lo sguardo verso il Padre.

Solo quando si è compresa questa direzione interio­re dell'icona, si può anche comprendere nel modo giusto perché il secondo concilio di Nicea e tutti i si­nodi posteriori che hanno trattato delle icone vedono nell'icona una professione di fede nell'Incarnazione e considerano l'iconoclasmo come una negazione del­l'incarnazione, come la somma di tutte le eresie. In­carnazione significa anzitutto che Dio, l'invisibile, en­tra nello spazio del visibile, perché noi, che siamo le­gati al materiale, possiamo riconoscerlo. Proprio per questo l'incarnazione è sempre in atto nell'azione sal­vifica storica e nel parlare storico di Dio. Ma questa discesa di Dio esiste per questo, per attrarre noi in un processo di ascesa: l'incarnazione ha come fine la tra­sformazione mediante la croce e la nuova corporeità della resurrezione. Dio ci cerca, là dove siamo, ma non perché rimaniamo là, ma perché giungiamo là, dove Lui è, perché ci innalziamo al di sopra di noi stessi. Per questo la riduzione della figura di Cristo a un «Gesù storico» appartenente al passato fraintende il senso della sua figura, misconosce il senso dell'in-

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carnazione. I sensi non devono essere eliminati, ma devono essere allargati alla loro massima possibilità. Noi vediamo Cristo solo quando, con Tommaso, di­ciamo: Mio Signore e mio Dio». Ma come finora ab­biamo appurato la dimensione trinitaria dell'icona, co­sì dobbiamo adesso cogliere la sua dimensione antica: il Figlio di Dio potè incarnarsi nell'uomo, perché l'uomo era già stato pensato in sua funzione, come immagine di Colui che è, a sua volta, icona di Dio. La luce del primo giorno e la luce dell'ottavo giorno si toccano nell'icona, come ancora una volta dice Evdo-kimov in maniera molto appropriata. Nella creazione stessa è già presente quella luce che poi nell'ottavo giorno, con la resurrezione del Signore, e nel nuovo mondo giunge al suo pieno fulgore, ci lascia vedere lo splendore di Dio. L'Incarnazione è rettamente intesa solo se è vista nella più ampia tensione di creazione, storia e mondo nuovo. Proprio allora diventa chiaro che i sensi appartengono alla fede, che il nuovo modo di vedere non li sopprime, ma li porta alla destinazio­ne originaria. L'iconoclasmo si poggia ultimamente su una teologia unilateralmente apofatica. che conosce solo il totalmente-altro di Dio, che è al di là di tutti i pensieri e di tutte le parole, così che, alla fine, anche la rivelazione è vista come il riflesso umanamente in­sufficiente di Colui che resta sempre inafferrabile. Al­lora la fede viene meno. La nostra forma contempora­nea di sensibilità, che non riesce più a cogliere la tra­sparenza dello Spirito nei sensi, porta quasi necessa­riamente alla fuga nella teologia puramente «negati­va» (apofatica): Dio è al di là di ogni pensiero, e per questo tutto ciò che possiamo dire di Lui e tutte le for­me delle immagini di Dio sono allo stesso tempo vali­de e indifferenti. Questa umiltà apparentemente pro­fondissima di fronte a Dio diventa, già di per se stes­sa, superbia che non lascia più la parola a Dio e che

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non gli concede di potersi fare realmente presenza nella storia. Da una parte si assolutizza la materia e, allo stesso tempo, la si dichiara impermeabile per Dio, materia pura, privandola così della sua dignità. Ma -come dice Evdokimov - c'è anche un sì apofatico, non solo un no apofatico che nega ogni analogia. Con Gregorio Palamas egli sottolinea che Dio è radical­mente trascendente nella sua essenza, ma nella sua esistenza ha voluto e ha potuto presentarsi come vi­vente. Dio è il totalmente Altro, ma è abbastanza po­tente da potersi mostrare. E ha fatto la sua creatura ta­le da essere capace di «vederlo» e di amarlo.

Con queste riflessioni ci avviciniamo già al nostro presente e tocchiamo quindi anche l'evoluzione della liturgia, dell'arte e della fede nel mondo occidentale. Questa teologia dell'icona, che è stata sviluppata in Oriente, è vera e, quindi, valida anche per noi, oppure non è che una variante orientale del cristianesimo? Partiamo ancora una volta dalle circostanze storiche. Nell'arte cristiana delle origini e fino alla fine dell'ar­te romanica, cioè fino alla svolta del secolo XIII, non c'è nessuna differenza sostanziale tra Oriente e Occi­dente per quel che riguarda la questione delle immagi­ni. In ogni caso l'Occidente - pensiamo ad Agostino o a Gregorio Magno - ha sottolineato con una certa esclusività la funzione didattico-pedagogica dell'im­magine. I cosiddetti Libri Carolini, così come i sinodi di Francoforte (794) e di Parigi (824) prendono posi­zione contro il fraintendimento del settimo concilio ecumenico, il Niceno secondo, che canonizza il supe­ramento dell'iconoclasmo e il fondamento incarnazio-nistico dell'icona; essi sostengono, al contrario, la funzione puramente didattica ed educativa delle im­magini: «Cristo non ci ha liberato mediante la pittu­ra», così essi affermano (Evdokimov 144).

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Ma la tematica e l'orientamento fondamentale del­l'arte figurativa restarono gli stessi, sebbene ora nel romanico entrava in scena l 'arte plastica, che in Oriente non ha avuto seguito. È sempre - anche sulla Croce - il Cristo crocifisso, Colui al quale la comuni­tà guarda, come al vero oriente. E sempre l'arte si ca­ratterizza per l'unità di creazione, cristologia ed esca­tologia: dal primo giorno fino all'ottavo, che riassume in sé anche il primo. L'arte restò ordinata al mistero che si fa presenza nella liturgia. Essa restò ordinata al­la liturgia celeste: le figurazioni angeliche dell'arte ro­manica non sono sostanzialmente diverse da quelle della pittura bizantina; proprio esse mostrano che noi partecipiamo alla lode dell'Agnello insieme con i che­rubini, i serafini con tutte le potenze celesti, che nella liturgia il velo che separa il cielo e la terra è squarcia­to, così che noi siamo ricompresi nell'unica liturgia che abbraccia il cosmo intero.

Con la fioritura del gotico si compie lentamente una svolta. Naturalmente persiste la continuità, soprattutto la corrispondenza interiore tra Antico e Nuovo Testa­mento, che, a sua volta, è anche un richiamo a ciò che ancora ci aspetta. Ma l'immagine centrale muta. Non è più il Pantocrator a essere rappresentato - il Signore del Cosmo, che ci introduce nell'ottavo giorno, bensì l'immagine gloriosa viene sostituita dall'immagine del Crocifisso nella sua dolorosissima passione e mor­te. Non è la Resurrezione a essere resa visibile, ma viene raccontato l'evento storico della Passione. In primo piano viene così a trovarsi l'elemento storico-narrativo: come è stato detto, l'immagine misterica viene sostituita dall'immagine devozionale. Molti fat­tori possono aver contribuito a questo mutamento di prospettiva. Evdokimov ritiene che vi abbia giocato un ruolo importante la svolta dal platonismo all'ari -

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stotelismo, avvenuta in Occidente nel corso del secolo XIII. Il platonismo considera le realtà sensibili come ombra delle idee eterne; in esse noi possiamo e dob­biamo riconoscere le idee eterne e innalzarci per loro verso di esse. L'aristotelismo rifiuta la dottrina delle idee. La realtà, costituita di materia e forma, rimane in se stessa; mediante l'astrazione io riconosco la specie a cui essa appartiene. Al posto del vedere, per cui il sovrasensibile diventa visibile nel sensibile, subentra l'astrazione. La relazione dello spirituale e del mate­riale è cambiata e con essa l'atteggiamento dell'uomo di fronte alla realtà che gli si manifesta. Per Platone la categoria del bello era stata determinante: il bello e il buono per lui ultimamente coincidono in Dio. Dal­l'apparire del bello noi veniamo feriti nel profondo, e questa ferita ci strappa al di fuori di noi stessi, mette in moto il volo della nostalgia e ci spinge incontro a quello che è il vero bello, il bene stesso. Nella teolo­gia dell'icona è rimasto vivo qualcosa del fondamento platonico, anche se l'idea platonica del bello e della contemplazione vi risultano ripensate e trasfigurate dal riflesso della luce del Tabor; anche mediante lo strettissimo rapporto tra creazione, cristologia ed escatologia il concetto platonico viene profondamente riplasmato, mentre alla realtà materiale in quanto tale vengono conferiti una nuova dignità e un nuovo valo­re. Questo platonismo trasformato e riplasmato dal­l'Incarnazione scompare in Occidente a partire dal se­colo XIII, al punto che le arti figurative tendono in primo luogo a rappresentare eventi accaduti, mentre la storia della salvezza è vista meno come sacramento e più come storia svoltasi nel tempo. Cambia così anche il rapporto con la liturgia: essa diventa, per così dire, imitazione simbolica dell'evento della croce. La devo­zione vi corrisponde appieno, nella misura in cui si volge soprattutto alla contemplazione dei misteri della

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vita di Gesù. L'arte trova la sua ispirazione meno nel­la liturgia che nella pietà popolare e quest'ultima, a sua volta, si alimenta delle immagini della storia, in cui essa può vedere la via che porta a Gesù Cristo, la via di Gesù stesso e la sua prosecuzione nella vita dei santi. La separazione che si è compiuta tra Oriente e Occidente nel modo di concepire le immagini a parti­re, al più tardi, dal secolo XIII, è indubbiamente mol­to profonda: vi si sovrappongono i motivi diversissimi di percorsi spirituali differenti. Una devozione alla croce di carattere più storicizzante sostituisce la dis­posizione verso l'Oriente, verso il Cristo risorto che ci precede nel cammino.

Tuttavia non si dovrebbe sopravvalutare la differen­za che si è così venuta costituendo. La rappresentazio­ne del Cristo sofferente che muore sulla croce è nuo­va, ma essa continua a metterci davanti Colui che ha portato i nostri dolori e dalle cui piaghe noi siamo guariti. Essa manifesta, nel dolore più estremo, l'amo­re liberante di Dio. Se la crocifissione di Grùnewald radicalizza fino all'estremo il realismo della sofferen­za, non si deve comunque dimenticare che si trattava di un'immagine di consolazione che consentiva agli ammalati di peste curati dagli Antoniti di riconoscere l'identificazione di Dio con il loro destino; di vedere che egli è disceso nella loro sofferenza e che la loro sofferenza è accolta nella sua. La svolta decisa verso l'umano, verso la realtà storica di Cristo, vive comun­que dell'appartenenza della sua sofferenza umana al mistero. Le immagini consolano perché rendono visi­bile il superamento delle nostre tribolazioni nella compassione del Dio fattosi uomo e, in questo modo, portano in sé il messaggio della resurrezione. Anche queste immagini vengono dalla preghiera, vengono dalla meditazione interiore della via di Cristo; sono

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identificazioni con Cristo, che si fondano sul fatto che in Lui Dio si è identificato con noi. Esse manifestano il realismo del mistero, ma non se ne distaccano. E per quanto riguarda la Messa come presenza della Croce: a partire da questa non la si può forse com­prendere con nuova penetrazione? Il mistero viene dispiegato in tutta la sua estrema concretezza e la pie­tà popolare, proprio in questo modo, può aiutare a raggiungere in modo nuovo il cuore della liturgia. Inoltre queste immagini non mostrano solo «l'epider­mide», il mondo sensibile esterno; anch'esse vogliono condurci attraverso ciò che è puramente fenomenico e aprire il nostro sguardo al cuore di Dio. Quello che qui è stato accennato a partire dall'immagine della croce, vale anche per la rimanente arte «narrativa» del gotico. Quale forza di interiorizzazione si trova nelle immagini della Madre di Dio! In esse si manifesta la nuova umanità della fede. Immagini come queste in­vitano alla preghiera, perché sono interiormente se­gnate dalla preghiera. Esse ci mostrano la vera imma­gine dell'uomo, così come è stata pensata e rinnovata dal Creatore mediante Cristo. Esse ci conducono den­tro la vera umanità. E non dimentichiamo infine la grandiosa arte delle vetrate gotiche! Le finestre delle cattedrali gotiche trattengono la luce abbagliante del­l'esterno, la fasciano e vi lasciano trasparire tutta la storia di Dio con gli uomini, dalla creazione fino al Suo ritorno. La parete stessa, nel gioco di luci provo­cato dai raggi del sole, diventa Immagine, l'iconostasi dell'Occidente, che conferisce allo spazio una sacrali­tà che tocca persino il cuore degli agnostici.

Il Rinascimento ha certamente fatto un ulteriore passo avanti, in una direzione del tutto nuova. Esso «emancipa» l'uomo. Ora nasce l'estetico in senso mo­derno - una visione della bellezza che non vuole più

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andare oltre se stessa, ma che, come bellezza di ciò che appare, basta ultimamente a se stessa. L'uomo si sperimenta in tutta la sua grandezza, nella sua autono­mia. L'arte parla di questa grandezza dell'uomo, ne è addirittura sorpresa; non ha più bisogno di cercare al­tra bellezza. Tra le rappresentazioni dei miti pagani e quelle della storia cristiana spesso si stenta a cogliere una qualche differenza. La percezione tragica che per­corre l'antichità è dimenticata, ora viene vista solo la sua bellezza divina, e scaturisce la nostalgia degli dei, del mito, di un mondo senza paura del peccato e senza il dolore della croce, che forse aveva avuto una posi­zione anche troppo preponderante nelle immagini del tardo medioevo. I contenuti cristiani vengono ancora rappresentati, ma tale «arte religiosa» non è un'arte sacra in senso stretto. Essa non si inserisce nell'umiltà del sacramento e nel suo dinamismo che supera il tempo. Vuole gustare l'oggi e liberare se stessa attra­verso la bellezza. Forse l'iconoclasmo della riforma deve essere compreso anche da qui, sebbene le sue ra­dici siano indubbiamente ben più profonde.

L'arte barocca, successiva al Rinascimento, presen­ta aspetti molteplici e si realizza in modi differenti. Nella sua forma migliore essa si fonda sui principi della riforma inaugurata dal concilio di Trento che -ancora una volta sulla scia della tradizione occidentale - metteva particolarmente in rilievo il carattere didat-tico-pedagogico dell'arte, ma, come principio di un rinnovamento dall'interno, conduceva anche a una nuova visione dall'interno verso l'interno. La pala d'altare è come una finestra attraverso la quale il mondo di Dio si fa strada verso di noi; il velo della temporalità viene sollevato e noi possiamo dare uno sguardo nella profondità del mondo di Dio. Questa ar­te vuole coinvolgerci nuovamente nella liturgia cele-

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ste, tanto che ancora oggi noi possiamo percepire una chiesa barocca come un'unica, fortissima, tonalità di gioia, come un alleluja che è divenuto immagine: la gioia nel Signore è la nostra forza - questo detto vete­rotestamentario (2 Esdra 8,10) esprime il sentimento ultimo di cui vive tale iconografia. L'illuminismo ha poi sospinto la fede in una sorta di ghetto intellettuale e sociale; la cultura contemporanea si è poi allontana­ta da essa e ha percorso un altro cammino, così che la fede o si è rifugiata nello storicismo - nell'imitazione del passato - o ha cercato di adattarsi o si è persa nel­la rassegnazione e nell'astinenza culturale, cosa che poi ha portato a un nuovo iconoclasmo, che talvolta è stato anzi visto come un compito del concilio Vatica­no II. La furia iconoclasta, i cui primi segni in Germa­nia risalgono comunque già agli anni Venti, ha portato ad accantonare molto kitsch e molte opere indegne, ma, in definitiva, si è anche lasciata dietro un vuoto, di cui noi oggi torniamo a percepire con chiarezza tut­ta la miseria.

Come si andrà avanti? Noi, oggi, non snerimentia-mo solo tfna cfist dell' arte sacra, ma una crisi dell'arte in quanto taleré con un'intensità finora sconosciuta. La crisi dell'arte è un altro sintomo della crisi dell'u­manità, che proprio nell'estrema esasperazione del dominio materiale del mondo è precipitata nell'acce­camento di fronte alle grandi questioni dell'uomo, a quelle domande sul destino ultimo dell'uomo che van­no oltre la dimensione materiale. Questa situazione può essere certamente definita come un accecamento dello spirito. Alla domanda su come dobbiamo vivere, su come dobbiamo affrontare la morte, se la nostra esistenza abbia un fine e quale, a tutte queste doman­de non ci sono più risposte comuni. Il positivismo, formulato in nome della serietà scientifica, restringe

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l'orizzonte a ciò che è dimostrabile, a ciò che può es­sere verificato nell'esperimento; esso rende il mondo opaco. Contiene ancora la matematica, ma il Logos, che è il presupposto di questa matematica e della sua applicabilità, non vi compare più. Allora il nostro mondo delle immagini non supera più l'apparenza sensibile e lo scorrere delle immagini che ci circonda­no significa, allo stesso tempo, anche la fine dell'im­magine: oltre ciò che può essere fotografato non c'è più nulla da vedere. A questo punto, però, non è im­possibile solamente l'arte delle icone, l'arte sacra, che si fonda su uno sguardo che si apre in profondità; l'ar­te stessa, che in un primo momento aveva sperimenta­to nell'impressionismo e nell'espressionismo le possi­bilità estreme della visione sensibile, resta priva di un oggetto, in senso letterale. L'arte diventa sperimenta­zione con mondi che si crea da sé, una vuota «creati­vità», che non percepisce più lo Spirito Creatore. Essa tenta di prendere il suo posto e non riesce a fare altro che produrre l'arbitrario e il vuoto, che rendere l'uo­mo cosciente dell'assurdità della sua pretesa creatrice.

Ancora una volta: come si andrà avanti? Cerchiamo di riassumere quel che si è detto sinora, di riconoscere i principi fondamentali di un'arte ordinata alla litur­gia:

1. La totale assenza di immagini non è conciliabile con la fede nell'Incarnazione di Dio. Nel suo agire storico Dio è entrato nel nostro mondo sensibile per­ché esso diventasse trasparente a Lui. Le immagini del Bello, in cui si rende visibile il mistero del Dio in­visibile sono parte integrante del culto cristiano. Può certamente esserci un su e giù dei tempi, un'ascesa e una discesa, e quindi possono anche esserci tempi di una certa povertà nelle immagini. Ma esse non posso-

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no mai mancare del tutto. L'iconoclasmo non è un'op­zione cristiana.

2. L'arte sacra trova i suoi contenuti nelle immagini della storia della salvezza, a cominciare dalla creazio­ne e dal primo giorno fino all'ottavo: quello della re­surrezione e del ritorno, in cui la linea della storia si compie come un cerchio. Di essa fanno parte soprat­tutto le immagini della storia biblica, ma anche la sto­ria dei santi come spiegazione della storia di Gesù Cristo, come il farsi fecondo lungo tutto il corso della storia del seme di grano che, caduto in terra, muore. «Tu non combatti solo contro le icone, tu combatti contro i santi», aveva replicato Giovanni Damasceno all'imperatore iconoclasta Leone III. Nella stessa li­nea papa Gregorio III in questo periodo aveva intro­dotto a Roma la festa di Ognissanti (Evdokimov, 141s).

3. Le immagini della storia di Dio con gli uomini non mostrano solo una sequenza di eventi passati, ma fanno vedere in essi l'unità interiore dell'agire di Dio. Esse rimandano al sacramento - soprattutto al battesi­mo e all'Eucaristia, ed in esso sono contenute, costi­tuendo, proprio in questo modo, anche un richiamo al presente. Esse, quindi, sono strettamente e intimamen­te legate all'azione liturgica. La storia, però, diventa sacramento in Gesù Cristo, che è la fonte dei sacra­menti. Per questo l'immagine di Cristo è il centro del­l'arte figurativa sacra. Il centro dell'immagine di Cri­sto è poi il mistero pasquale: Cristo viene rappresenta­to come Crocifisso, come Risorto, come Colui che ri­torna e che già ora regna nel mistero. Ogni immagine di Cristo deve portare in sé questi tre aspetti fonda­mentali del mistero di Cristo, deve, cioè, essere un'immagine pasquale. In questo sono certamente

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possibili sottolineature diverse: l'immagine può met­tere in primo piano la croce, la passione e, con essa, la situazione di sofferenza che segna anche il nostro og­gi; oppure, può mettere più in evidenza la resurrezio­ne o il ritorno di Cristo. Solo, non si può mai isolare del tutto un aspetto particolare: in tutte le diverse sot­tolineature deve sempre essere presente l'intero miste­ro pasquale. Un'immagine della croce in cui la Pasqua non trasparisse in alcun modo, sarebbe altrettanto fal­sata quanto un'immagine pasquale che dimenticasse le stigmate, e quindi la presenza del dolore. In quanto immagine centrata sulla Pasqua, l'immagine di Cristo è sempre icona dell'Eucaristia: essa rinvia, cioè, alla presenza sacramentale del mistero pasquale.

4. L'immagine di Cristo e le immagini dei santi non sono delle fotografie. La loro essenza è quella di con­durre al di sopra di ciò che è puramente constatabile sul piano materiale e di insegnare un nuovo modo di vedere, che percepisca l'invisibile dentro il visibile. La sacralità dell'immagine consiste proprio nel fatto che proviene da una visione interiore e proprio per questo conduce, a sua volta, a una visione interiore. Essa deve essere frutto di una contemplazione interiore, di un in­contro credente con la nuova realtà del Risorto e, in questo modo, condurre di nuovo allo sguardo interiore, all'incontro orante con il Signore. L'immagine serve alla liturgia; la preghiera e lo sguardo, in cui si forma­no le immagini, devono quindi essere preghiera e sguardo condiviso, in comunione con la fede vedente della Chiesa: la dimensione ecclesiale è essenziale al­l'arte sacra e così pure il legame interiore con la storia della fede, con la Scrittura e la tradizione.

5. La Chiesa d'Occidente non deve affatto smentire il cammino da lei percorso a partire dal secolo XIII.

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Deve però fare finalmente sue le conclusioni del setti­mo concilio ecumenico, il Niceno Secondo, che ha ri­conosciuto l'importanza fondamentale e il luogo teolo­gico dell'immagine all'interno della Chiesa. Essa non deve per forza sottomettersi a tutte le singole norme che sono state sviluppate nei successivi concili e sino­di tenuti in Oriente e che hanno trovato una certa siste­mazione definitiva nel concilio di Mosca del 1551, il concilio dei cento canoni. Dovrebbe però considerare normative anche per sé le linee fondamentali di questa teologia dell'immagine. E pur vero che non devono es­serci delle norme rigide: le nuove esperienze religiose e i doni di nuove intuizioni devono poter trovare un lo­ro spazio nella Chiesa. Resta però una differenza tra l'arte sacra (quella che si riferisce alla liturgia, che ap­partiene all'ambito ecclesiastico) e l'arte religiosa in generale. Nell'arte sacra non c'è spazio per l'arbitra­rietà pura. Le forme artistiche che negano la presenza del Logos nella realtà e fissano l'attenzione dell'uomo sull'apparenza sensibile, non sono conciliabili con il senso dell'immagine nella Chiesa. Dalla soggettività isolata non può venire alcuna arte sacra. Essa suppone piuttosto il soggetto interiormente formato dalla Chie­sa e aperto verso il noi. Solo così l'arte rende visibile la fede comune e torna a parlare ai cuori credenti. La libertà dell'arte, che deve esserci anche nell'ambito delimitato dell'arte sacra, non coincide con l'arbitra­rietà. Essa si sviluppa secondo quei criteri che sono stati indicati nei primi quattro punti di queste riflessio­ni conclusive e che rappresentano un tentativo di rias­sumere le costanti della tradizione figurativa della Chiesa. Senza fede non c'è arte adeguata alla liturgia. L'arte sacra si trova sotto l'imperativo della seconda lettera ai Corinzi: guardando a Cristo, noi «veniamo trasformati nella sua immagine, di gloria in gloria, me­diante lo Spirito del Signore» (3,18).

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Che cosa significa tutto questo in pratica? L'arte non può essere prodotta, così come si commissionano e si producono delle apparecchiature tecniche. Essa è sempre un dono. L'ispirazione non la si può decidere, la si deve ricevere - gratuitamente. Il rinnovamento dell'arte nella fede non sarà conseguito né con il de­naro né con le commissioni. Esso presuppone, prima di ogni altra cosa, il dono di una nuova visione. Per questo tutti noi dovremmo essere preoccupati di giun­gere nuovamente a una fede capace di vedere. Dove questo avviene, anche l'arte trova la sua giusta espres­sione.

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Capitolo secondo

MUSICA E LITURGIA

Quale importanza ha la musica per la religione del­la Bibbia lo si può dedurre facilmente dal fatto che la parola «cantare» (insieme con i suoi derivati) è una delle parole più usate della Bibbia: nell'Antico Testa­mento il termine ricorre 309 volte, nel Nuovo Testa­mento 36 volte. Dove Dio entra in contatto con l'uo­mo, la semplice parola non basta più. Vengono toccati punti dell'esistenza che diventano spontaneamente canto: ciò che è proprio dell'uomo non basta più per ciò che egli deve esprimere, tanto che egli invita tutta la creazione a divenire canto insieme con lui: «Sve­gliati mio cuore, svegliatevi, arpa e cetra, voglio sve­gliare l'aurora. Ti loderò tra i popoli, Signore, a te canterò inni tra le genti, perché la tua bontà è grande fino ai cieli, e la tua fedeltà fino alle nubi» (Sai 57,9-11). La prima menzione del canto si trova, nella Bib­bia, dopo il passaggio del mar Rosso. Ora Israele è definitivamente liberato dalla servitù, ha sperimentato in maniera travolgente la potenza salvatrice di Dio in una situazione disperata. Come Mosè da bambino fu salvato dalle acque del Nilo e proprio in questo modo ricevette realmente la vita, così Israele si sente a sua volta salvato dalle acque, libero, donato nuovamente a se stesso dalla potente mano di Dio. La reazione del popolo all'evento fondamentale della salvezza nel racconto biblico è descritta con questa espressione: «Essi credettero al Signore e a Mosè, suo servo» (Es

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14,31). Segue però una seconda reazione, che si leva dalla prima con impeto elementare: «Allora Mosè cantò con gli Israeliti questo canto al Signore...» (15,1). Nella celebrazione della notte pasquale i cri­stiani di anno in anno intonano questo inno, lo canta­no di nuovo come loro inno, perché anch'essi si sanno «tratti dall'acqua» mediante la potenza di Dio, liberati da Dio per la vita vera. L'Apocalisse di Giovanni al­larga ancora di più questo arco. Dopo che gli ultimi nemici del popolo di Dio sono entrati sulla scena della storia - la trinità satanica, consistente nella bestia, nella sua statua e nel numero del suo nome - quando, cioè, tutto sembra ormai perduto per il santo Israele di Dio davanti a un tale strapotere, al veggente è donata la visione del vincitore: «...stavano ritti sul mare di cristallo. Accompagnando il canto con le arpe divine, cantavano il cantico di Mosè, servo di Dio, e il canti­co dell'Agnello...» (Ap 15,2s). Il paradosso di allora si fa ancora più possente: non vincono le gigantesche bestie feroci, con il loro potere mediatico e la loro ca­pacità tecnica; vince l'Agnello sacrificato. E così ri­suona ancora una volta, definitivamente, il canto del servo di Dio Mosè, che ora diventa il canto dell'A­gnello.

Il canto liturgico si colloca nel quadro di questa grande tensione storica. Per Israele l'evento di salvez­za accaduto presso il mare delle Canne restò sempre il motivo portante della lode di Dio, il tema fondamen­tale del suo canto davanti a Dio. Per i cristiani la re­surrezione di Cristo, che aveva superato il «Mar Ros­so» della morte, era disceso nel mondo delle tenebre e aveva sfondato le porte del carcere, era il vero esodo, che nel battesimo si faceva nuova presenza: il battesi­mo è un essere presi nella contemporaneità della di­scesa di Cristo agli inferi e della sua ascesa, in cui

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Egli ci accoglie nella comunione della nuova vita. Già il giorno successivo alla gioia dell'Esodo, gli Israeliti dovettero accorgersi di essere esposti al deserto e ai suoi pericoli e che la marcia verso la Terra Promessa non aveva posto fine alle minacce. Ma c'erano le ge­sta sempre nuove di Dio, che permettevano di conti­nuare a cantare il cantico di Mosè e mostravano che Dio non è un Dio del passato, ma del presente e del futuro. Certamente, in ogni nuovo canto c'era anche la consapevolezza della provvisorietà e l'esigenza di un canto nuovo e definitivo, l'esigenza di una salvez­za non più seguita da alcun istante di paura, ma solo dall'inno di lode. Chi credeva alla resurrezione di Cri­sto, conosceva davvero la salvezza definitiva e sapeva che i cristiani, che si trovavano ora nella «nuova al­leanza», cantavano ora il canto nuovo, che era defini­tivo e realmente «nuovo» per il totalmente altro che era accaduto con la resurrezione di Cristo. Quello che abbiamo detto nella prima parte sulla fase intermedia della realtà cristiana - non più ombra, ma neppure realtà piena, bensì «immagine» - continua a valere anche qui: il nuovo canto definitivo è intonato, ma bi­sogna che si compiano tutte le sofferenze della storia, che tutto il dolore sia raccolto e consegnato nel sacri­ficio della lode, per esservi trasformato nel canto di lode.

Ho accennato così al fondamento teologico del can­to liturgico. Ora è necessario considerare più da vici­no la sua realtà pratica. Accanto alle diverse testimo­nianze sul canto dei singoli e della comunità in Israe­le, così come sulla musica nel tempio, che si trovano lungo tutta la Sacra Scrittura, il libro dei Salmi è la vera fonte a cui noi possiamo poggiarci. Anche se, a causa dell'assenza di una notazione musicale, non è possibile alcuna ricostruzione della «musica sacra» di

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Israele, questo libro ci dà comunque un'idea tanto del­la ricchezza di strumenti quanto dei diversi modi di cantare che venivano praticati in Israele. Nella sua poesia orante esso ci mostra tutta la gamma di espe­rienze che, davanti a Dio, diventavano preghiera e canto. Lutto, lamento, persino accusa, paura, speran­za, fiducia, gratitudine, gioia - tutta la vita vi si riflet­te, nel momento in cui vi si dispiega nel dialogo con Dio. Colpisce il fatto che persino il lamento in una si­tuazione senza via d'uscita si conclude quasi sempre con una parola di fiducia, per così dire, con un'antici­pazione dell'azione salvifica di Dio. Per questo, in un certo senso, si potrebbero definire tutti questi «nuovi inni» come variazioni del cantico di Mosè. Da una parte il cantare davanti a Dio si leva da situazioni di bisogno da cui nessuna potenza terrestre può salvare, così che come rifugio resta solo Dio; allo stesso tem­po, però, esso proviene da quella fiducia che, anche nell'oscurità più estrema, resta consapevole che l'e­vento accaduto sul mare delle Canne è una promessa a cui appartiene l'ultima parola nella vita e nella storia. È importante, infine, rilevare che i salmi spesso pro­vengono da esperienze del tutto personali di sofferen­za e di esaudimento, ma sfociano comunque nella pre­ghiera comune di Israele, così come si nutrono del fondamento comune delle azioni trascorse di Dio.

Osservando la Chiesa che canta, possiamo quindi constatare lo stesso legame di continuità e di rinnova­mento che abbiamo già visto a proposito dell'architet­tura ecclesiastica e delle immagini sacre e, più in ge­nerale, dell'essenza stessa della liturgia: il salterio di­viene di per se stesso il libro di preghiera della Chiesa in cammino, che proprio in questo modo è divenuta una Chiesa che prega con il canto. Ciò vale anzitutto per il salterio, che ora viene pregato insieme con Cri-

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sto. Se Israele, nel suo canone, aveva per lo più attri­buito i salmi al re Davide, dandone una certa interpre­tazione storico-salvifica e teologica, per i cristiani è chiaro che Cristo è il vero Davide, che Davide nello Spirito Santo prega in e con Colui che doveva essere suo figlio e, insieme, Figlio Unigenito di Dio. Con questa chiave interpretativa i cristiani si inserirono nel­la preghiera di Israele, sapendo che proprio in questo modo essi la facevano diventare il canto nuovo. Notia­mo che così facendo veniva data un'interpretazione tri­nitaria dei salmi: lo Spirito Santo, che aveva ispirato Davide a cantare e a pregare, fa sì che egli parli di Cri­sto, ne diventi, anzi, la voce. Per questo nei salmi noi parliamo per mezzo di Cristo, al Padre, nello Spirito Santo. Questa interpretazione pneumatologica e cristo-logica dei salmi non riguarda solo il testo, ma include l'elemento musicale: è lo Spirito Santo che insegna a cantare a Davide e, attraverso di lui, a Israele e alla Chiesa. Il cantare, proprio perché supera il modo usua­le di parlare, è come tale un evento pneumatico. La musica ecclesiale sorge come «carisma», come dono dello Spirito: essa è la vera «glossolalia», la nuova «lingua» che proviene dallo Spirito. In essa soprattutto accade la «sobria ebbrezza» della fede, perché sono superate tutte le possibilità della pura razionalità. Ma questa ebbrezza resta sobria perché Cristo e lo Spirito sono una cosa sola, perché questa lingua «ebbra» resta comunque interamente nella disciplina del Logos, in una nuova razionalità che, al di là di tutte le parole, serve alla parola originaria, che è il fondamento di ogni ragione. Occorrerà tornare su questo punto.

Avevamo già trovato nell'Apocalisse l'ampliamen­to di orizzonte donato con la confessione di fede in Cristo, là, dove il canto dei vincitori viene chiamato il canto di Mosè, servo di Dio, e dell'Agnello. Con ciò

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veniva sottolineata un'altra dimensione del canto da­vanti a Dio. Nella Bibbia di Israele abbiamo constata­to finora due motivi fondamentali per cantare davanti a Dio: la situazione di bisogno e la gioia, la tribolazio­ne e la salvezza. Il rapporto con Dio era caratterizzato in maniera troppo forte dal timore della potenza eter­na del Creatore perché si osasse considerare i canti per il Signore come dei canti d'amore per Lui, sebbe­ne nella fiducia, che caratterizza interiormente tutti i testi, ultimamente si cela proprio l'amore - ma esso rimane timido, per l'appunto, nascosto. La strettissima connessione di amore e canto entra per la prima volta nell'Antico Testamento in una maniera che in un pri­mo momento può destare meraviglia, ovvero con l'in­gresso del Cantico dei Cantici che, di per sé, era una raccolta di poesie d'amore umane. Quando, però, esso venne accolto nel canone, si tenne già conto di una in­terpretazione piuttosto estensiva. Si poteva intendere questo bellissimo poema d'amore di Israele come pa­role ispirate della Sacra Scrittura perché si era persua­si che nell'amore umano che vi veniva cantato traspa­riva il mistero d'amore di Dio con Israele. Nella lin­gua dei profeti il culto degli dei stranieri veniva defi­nito come prostituzione (cosa che aveva un senso del tutto concreto, dal momento che i culti di fecondità facevano normalmente parte dei riti di fecondità, la pratica della prostituzione presso i templi). Al contra­rio l'elezione di Israele appare come la storia d'amore di Dio con il suo popolo. L'alleanza viene interpretata nell'immagine del fidanzamento e del matrimonio co­me legame dell'amore di Dio con l'uomo e dell'uomo con Dio. L'amore umano poteva così diventare imma­gine reale dell'agire di Dio con Israele. Gesù aveva fatta sua questa linea della tradizione di Israele, tanto che in una delle sue prime parabole parla di sé come dello Sposo. Alla domanda perché i suoi discepoli, al

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contrario dei discepoli di Giovanni e di quelli dei fari­sei, non digiunavano, egli aveva risposto: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non posso­no digiunare. Ma verranno giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno» (Me 2,19s). Questa è una profezia della passione, ma anche l'annuncio del­le nozze, che poi compare ancora nelle parabole di Gesù incentrate sul banchetto nuziale, divenendo il te­ma centrale nell'ultimo libro del Nuovo Testamento, quello dell'Apocalisse: attraverso la passione tutto si dirige alle nozze dell'Agnello. Dato che nelle visioni della liturgia celeste esse paiono sempre anticipate, i cristiani compresero che l'eucaristia è presenza dello sposo e, proprio per questo, anticipazione della festa nuziale di Dio. In essa accade quella comunione che ha il suo corrispondente nell'unione di uomo e donna nel matrimonio: come essi diventano «una sola car­ne», così noi tutti diventiamo nella comunione uno «spirito», un'unità con Lui. Il mistero nuziale dell'u­nione di Dio e uomo preannunciato nell'Antico Testa­mento accade nel sacramento del corpo e del sangue di Cristo, proprio attraverso la sua passione, in manie­ra del tutto reale (cfr. Ef 5,29-32; ICor 6,17; Gal 3,28). Il canto della Chiesa proviene ultimamente dal­l'amore: è esso che, in profondità, sta all'origine del cantare. «Cantare amantis est», dice Agostino: cantare è proprio dell'amore. Con ciò siamo di nuovo all'in­terpretazione trinitaria della musica ecclesiastica: lo Spirito Santo è l'amore, ed è Lui all'origine del canto. Egli è lo Spirito di Cristo, Egli ci attira nell'amore per Cristo e ci conduce così verso il Padre.

Ancora una volta dobbiamo passare da queste spin­te interne della musica liturgica a delle questioni più pratiche. L'espressione che i salmi utilizzano per il

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termine «cantare» appartiene, secondo la radice lessi­cale, al patrimonio comune delle lingue orientali e de­signa un canto sostenuto da strumenti (più precisa­mente da strumenti a corda), che ha comunque un chiaro riferimento testuale ed è contenutisticamente ordinato a determinate affermazioni. Si trattava di un canto vocale che, presumibilmente, solo all'inizio e alla fine consentiva delle variazioni melodiche. La Bibbia greca ha tradotto il termine ebraico zamir con psallein, termine che in greco significava «tirare» (so­prattutto in riferimento al suono degli strumenti a cor­da), ma che ora diventava espressione dello specifico modo musicale del culto giudaico, giungendo poi a definire anche il modo di cantare proprio dei cristiani. Più volte vi si accompagna un'aggiunta, il cui signifi­cato resta oscuro, ma che in una certa forma indica un canto artistico, ordinato. La fede biblica aveva così realizzato una propria forma culturale nel campo della musica, quell'espressione ad essa interiormente con­facente che dà la propria misura a tutte le successive inculturazioni.

La questione fino a che punto possa arrivare l'in-culturazione nel campo della musica, per la prima cri­stianità divenne molto presto assai concreta. Le comu­nità cristiane erano cresciute dalle sinagoghe e ne ave­vano assunto anche il modo di cantare il salterio, in­terpretato cristologicamente. Molto presto sorsero nuovi inni e canti cristiani; in un primo tempo sul fon­damento veterotestamentario si hanno il Benedictus e il Magnificat; poi dei testi impostati in maniera inte­gralmente cristologica, tra cui spiccavano il Prologo di Giovanni (1,1-18), l'inno cristologico della lettera ai Filippesi (2,6-11), l'inno a Cristo di 1 Tm (3,16). Un'informazione interessante sullo svolgimento della liturgia della Chiesa delle origini ci è data da Paolo

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nella prima lettera ai Corinzi: «Quando vi radunate, ognuno può avere un salmo [psalmón], un insegna­mento, una rivelazione, un discorso in lingue, il dono di interpretarle. Ma tutto si faccia per l'edificazione» (14,26). Dallo scrittore romano Plinio il Giovane, in una lettera scritta all'imperatore per informarlo sul culto dei cristiani, sappiamo che, all'inizio del secolo secondo, il canto a gloria di Cristo e della sua Divinità era elemento costitutivo della liturgia cristiana. Pos­siamo immaginare che questi nuovi testi cristiani ab­biano portato con sé un ampliamento delle precedenti forme di canto, che siano sorte nuove melodie. Pare che lo sviluppo della fede cristiana si sia compiuto an­che nell'innografia, le cui creazioni poetiche nasceva­no in questo periodo come «doni pneumatici» nella Chiesa. Ciò era motivo di speranza, ma anche di peri­colo. Con il progressivo distacco della Chiesa dalle sue radici semitiche e con il passaggio al mondo greco si arrivò, quasi spontaneamente, ad attingere profon­damente alla mistica greca del Logos, con la poesia e la musica; tutto questo comportava, però, il rischio che l'avvenimento cristiano fosse liquidato dall'inter­no in una sorta di mistica generale. Proprio il campo degli inni e della musica divenne la porta d'ingresso della gnosi, cioè di quella tentazione mortale che co­minciò a disgregare il cristianesimo dall'interno. Si può quindi comprendere che nello scontro per l'iden­tità della fede e il suo radicamento nella figura storica di Gesù Cristo le autorità ecclesiastiche siano giunte a una decisione radicale. Il canone 59 del concilio di Laodicea vieta nella celebrazione liturgica l'utilizzo di composizioni salmiche private e di scritti non canoni­ci; il canone 15 limita il canto dei salmi al coro dei salmisti, mentre «gli altri nella chiesa non devono cantare». È così che i componimenti innici postbiblici sono andati quasi completamente perduti; si ritornò ri-

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gorosamente alla forma di canto ereditata dalla sina­goga, a carattere puramente vocale. Si possono certo deplorare le perdite culturali che ne derivarono, ma la decisione era indispensabile per salvare ciò che più valeva. Il ritorno a un'apparente povertà culturale ha salvato l'identità della fede biblica e, proprio nel mo­mento in cui respingeva un falso modello di incultura-zione, apriva al futuro tutta l'ampiezza culturale del­l'avvenimento cristiano.

Nella storia della musica liturgica è dato osservare un ampio parallelismo con gli sviluppi della questione delle immagini. L'Oriente - almeno in ambito bizanti­no - è rimasto fedele alla musica puramente vocale, che, in area slava, anche per influsso dell'Occidente, si è comunque estesa alla polifonia. I suoi cori di voci maschili, con la loro dignità sacrale e con la loro con­tenuta energia, toccano il cuore e fanno dell'eucaristia la festa della fede. In Occidente il canto dei salmi dei cori gregoriani è stato sviluppato a un'altezza e a una purezza nuove, che costituiscono un criterio perma­nente per la musica sacra, vale a dire, per la musica che accompagna le celebrazioni liturgiche della Chie­sa. Nel tardo medioevo si sviluppa da qui la polifonia e gli strumenti entrano di nuovo a far parte della litur­gia - del tutto a ragione, dal momento che la Chiesa, come abbiamo visto, non continua solo la sinagoga, ma accoglie in sé anche la realtà rappresentata nel tempio a partire dalla Pasqua di Cristo. Due nuovi fat­tori operano ora nella musica della Chiesa: la libertà artistica rivendica sempre più spazio anche nel servi­zio liturgico; la musica ecclesiastica e quella profana si compenetrano a vicenda, come si vede con partico­lare chiarezza nelle cosiddette messe parodistiche, nelle quali il testo della messa viene sottomesso a un tema, a una melodia, che deriva dalla musica secolare,

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tanto che agli ascoltatori poteva forse capitare di orec­chiare delle ariette popolari. È chiaro che, aprendo al­la creatività artistica e ai motivi secolari, non si pote­va evitare un'insidia pericolosa: la musica non si svi­luppa più dalla preghiera, ma si stacca dalla liturgia proprio in forza della pretesa autonomia dell'elemento artistico, diventa fine a se stessa o spalanca le porte a forme di esperienza e di sensibilità completamente differenti; essa finisce per sottrarre alla liturgia la sua vera essenza. Su questo punto il concilio di Trento è intervenuto nel conflitto culturale allora in atto e ha ri­stabilito la norma secondo la quale nella musica litur­gica l'aderenza alla parola è prioritaria, limitando così in maniera sensibile l'uso degli strumenti e indicando anche una chiara differenza tra la musica profana e la musica sacra. Un secondo e analogo intervento vi è stato all'inizio del Novecento con il papa Pio X. Il ba­rocco (in maniera diversa nel mondo cattolico e in quello protestante) aveva riportato una sorprendente unità tra musica secolare e musica nella celebrazione liturgica e aveva cercato di porre al servizio della glo­ria di Dio tutto il potere illuminante della musica, quale si era prodotto in questo momento altissimo del­la storia della civiltà. In chiesa possiamo ascoltare Bach oppure Mozart, in ambedue i casi sperimentia­mo in maniera sorprendente che cosa significa gloria Dei, Gloria di Dio. Ci troviamo di fronte al mistero della bellezza infinita che ci fa sperimentare la pre­senza di Dio in maniera più vera e più viva di quel che potrebbe accadere attraverso molte prediche. Ma già si annunciano dei pericoli: la dimensione sogget­tiva e la sua passionalità sono ancora contenute dal­l'ordinamento del cosmo musicale, in cui si riflette l'ordine stesso della creazione divina. Ma già minac­cia di farsi strada il virtuosismo, la vanità della pro­pria abilità, che non si pone più al servizio del tutto,

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ma vuole spingere se stessa in primo piano. In molti casi, ciò ha portato nel secolo XIX - il secolo della soggettività che si emancipa - all'erosione del sacro da parte della musica operistica, rendendo nuova­mente presenti quei pericoli che, a suo tempo, aveva­no indotto il concilio di Trento a intervenire. In ma­niera analoga Pio X ha cercato allora di allontanare la musica operistica dalla liturgia, indicando il canto gregoriano e la grande polifonia dell'epoca del rinno­vamento cattolico (con Palestrina come figura simbo­lica di spicco) come criterio della musica liturgica, che deve essere chiaramente distinta dalla musica re­ligiosa in generale, analogamente a quel che accade per l'arte figurativa, che nella liturgia deve seguire criteri diversi da quelli dell'arte religiosa in generale. Nella liturgia l'arte ha una responsabilità del tutto particolare e proprio in questo modo viene a essere di continuo scaturigine di cultura, che, infatti, ultima­mente deve se stessa proprio al culto.

Oggi, dopo la rivoluzione culturale degli ultimi de­cenni, ci troviamo davanti a una sfida che non è certo inferiore a quella dei tre ultimi periodi di crisi, in cui ci siamo già imbattuti nel nostro schizzo storico: la tentazione gnostica, la crisi della fine del medioevo e dell'inizio della modernità, la crisi dell'inizio di que­sto secolo, che ha dato l'avvio alle grandi questioni che segnano in maniera ancor più radicale la contem­poraneità. Tre fenomeni di recente data hanno eviden­ziato i problemi con cui si deve confrontare la Chiesa nel campo della musica liturgica. Si tratta, in primo luogo, dell'universalismo culturale di cui la Chiesa deve dimostrarsi capace se vuole superare definitiva­mente i confini dello spirito europeo. Il problema è quello della fisionomia dell'inculturazione nel campo della musica sacra, così che, da un lato, possa essere

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preservata l'identità cristiana, dall'altro possa com­piutamente svilupparsi la sua universalità. Ci sono poi due fenomeni legati all'evoluzione della musica stes­sa, che inizialmente hanno avuto origine in Occidente, ma che con la globalizzazione della cultura coinvol­gono da lungo tempo tutta l'umanità. La cosiddetta «musica classica» - salvo poche eccezioni - si è or­mai relegata in una sorta di ghetto, a cui accedono so­lo degli specialisti e anche questi, talvolta, lo fanno forse con sentimenti e predisposizioni diversi. La mu­sica delle masse si è separata da questa e percorre or­mai una strada differente. Si incontra qui, da una par­te, la musica pop, che ormai non è più sostenuta dal popolo (Pop) nel vecchio senso, ma è ordinata a un fe­nomeno di massa, viene prodotta con metodi e su sca­la industriale e deve essere ultimamente definita come un culto della banalità. Rispetto a questa la musica «rock» è espressione di passioni elementari, che nei grandi raduni di musica rock hanno assunto caratteri cultuali, cioè, di un controculto che si oppone al culto cristiano. Esso vuole liberare l'uomo da se stesso nel­l'evento di massa e nello sconvolgimento mediante il ritmo, il rumore e gli effetti luminosi, facendo precipi­tare chi vi partecipa nel potere primitivo del Tutto, mediante l'estasi della lacerazione dei propri limiti. La musica della sobria ebbrezza dello Spirito Santo sembra avere poche possibilità qui dove l'io è divenu­to un carcere, dove lo spirito è divenuto una catena e la rottura violenta con ambedue pare essere la vera promessa di liberazione, di cui, almeno per qualche istante, si crede di aver assaggiato il sapore.

Che cosa fare? Ancor meno che nel caso delle arti figurative, qui l'aiuto non può venire dalle ricette teo­riche, ma solo dal rinnovamento interiore. Desidero tuttavia indicare alcuni criteri, a modo di conclusioni

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derivanti dalla nostra riflessione sui fondamenti inte­riori della musica sacra cristiana.

La musica liturgica cristiana si definisce in rapporto al Logos,'secondò tre significati specifici:

1. Essa si riferisce agli avvenimenti' con cui Dio è intervenuto nella storia, testimoniati dalla Bibbia e re­si presenti nel culto. Essi proseguono nella storia della Chiesa, ma hanno il loro centro immutabile nella Pa­squa di Gesù Cristo: la croce, la resurrezione e l'a­scensione. Questo intervento storico di Dio riassume in se anche gli eventi salvifici dell'Antico Testamento così come le esperienze di salvezza e le speranze della storia delle religioni, li interpreta e li conduce alla lo­ro pienezza. Nella musica liturgica, che si fonda sulla fede biblica, c'è quindi un chiaro dominio della paro­la; essa è una modalità più elevata di annuncio. Pro­viene ultimamente dall'amore, che risponde all'amore di Dio divenuto carne in Cristo, a quell'amore che per noi è giunto fino alla morte. Poiché anche dopo la re­surrezione la croce non è affatto un evento del passa­to, questo amore resta sempre caratterizzato dal dolo­re per il nascondimento di Dio, dal grido che sale dal profondo del bisogno - Kyrie eleison - mediante la speranza e la preghiera. Ma, poiché questo amore può comunque sperimentare in anticipo la resurrezione co­me verità, implica anche la gioia del sentirsi amati -quella letizia da cui Haydn diceva di sentirsi travolto quando metteva in musica dei testi liturgici. Riferi­mento al Logos significa anzitutto riferimento alla pa­rola. È da qui che deriva nella liturgia la preminenza del canto sulla musica strumentale (che, comunque, non deve essere esclusa). A partire da qui si compren­de che i testi biblici e liturgici sono le parole di riferi­mento, quelle che danno i criteri a cui deve orientarsi

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la musica liturgica, cosa che non si oppone affattto alla creazione di «nuovi inni», ma che li ispira e li rende certi del fondamento e della affidabilità del sapersi amati da Dio, vale a dire, della redenzione.

* 2. Paolo ci dice che noi, da soli, non sappiarxo che

cosa dobbiamo pregare, ma che lo Spirito intercede per noi «con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26). La pre­ghiera, in quanto tale, e, in modo particolare, al dono del canto e del suono che va oltre la parola, e dono dello Spirito, che è l'amore, che opera in noi Pandore e ci muove così al canto. Poiché però è lo Spirito di Cristo che «prende del Suo» (Gv 16,14), il do-no che viene da Lui e che va oltre le parole è però sempre ri­ferito alla parola, al senso che crea e sostiene la vita, Cristo. Le parole sono superate, ma non la Parola, il Logos; questa è la seconda e più profonda forrr»a di ri­ferimento al Logos della musica, liturgica. E anche questo ciò a cui si pensa, quando nella tradizione ec­clesiale si parla della sobria ebbrezza che lo Spirito Santo opera in noi. Resta comunque una sobrietà ulti­ma, una più profonda razionalità, che si contrappone all'annegamento nell'irrazionale e nell'assenza di mi­sura. Quel che in pratica sì intende, può essere eviden­ziato a partire dalla storia della musica. Quello che Platone e Aristotele hanno scritto sulla musica mostra che il mondo greco si era trovato, ai loro tempi, di fronte alla scelta tra due tipi diversi di cultura, due di­verse immagini di Dio e dell'uomo, molto concreta­mente di fronte alla scelta tra due tipi fondamental­mente diversi di musica. Da un lato la musica che Pla­tone riconduce mitologicamente ad Apollo, dio della luce e della ragione, una musica che riporta i sensi al­l'interno dello spirito e, in questo modo, conduce l'uomo alla totalità; una musica che non supera i sen­si, ma li colloca nell'unità della creatura umana. Essa

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innalza lo spirito proprio nel momento in cui lo con­giunge con i sensi e innalza i sensi proprio nel mo­mento in cui li fa essere una sola cosa con lo spirito; essa esprime così proprio la posizione particolare del­l'uomo nell'intero edificio dell'essere. Poi c'è la mu­sica che Platone ordina a Marsia e che noi, dal punto di vista della storia della cultura, potremmo anche de­finire «dionisiaca».'Essa trascina l'uomo nell'ebbrez­za dei sensi, calpesta la razionalità e sottomette lo spi­rito ai sensi. Il modo in cui Platone (e, con più misura, Aristotele) distribuisce gli strumenti e le tonalità da una parte e dall'altra è superato e sotto molti aspetti può forse apparirci sorprendente. Ma questa alternati­va, in quanto tale, percorre tutta la storia religiosa e ancor oggi ci sta davanti in maniera del tutto reale. Non ogni forma di musica può entrare a far parte della liturgia cristiana. Essa esige un criterio e questo^crite-rio è il Logos. Che si tratti dello Spirito Santo o di uno spirito malvagio lo si può discernere, dice Paolo, dal fatto che solo lo Spirito Santo ci porta a dire: «Gesù è il Signore» (ICor 12,3). Lo Spirito Santo conduce al Logos, conduce a una musica che sta nel segno del Sursum corda, dell'innalzamento del cuore. L'integra­zione dell'uomo verso l'alto e non la sua liquidazione in un'ebbrezza priva di forma o nella pura sensualità è il criterio di una musica conforme al Logos, di quella forma di logike latreia (di culto conforme alla ragio­nevolezza, al Logos) di cui abbiamo parlato nella pri­ma parte di questo libro.

3. La Parola'fattasi uomo in Cristo - il Logos -"non è solamente potenza che dà significato al singolo e neppure alla sola storia, ma è il senso creativo da cui proviene il Tutto, l'Universo, e di cui l'Universo - il Kosmos - è riflesso. Perciò questa parola ci conduce fuori dall'isolamento individuale verso i tempi e i luo-

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ghi sempre più grandi della comunione dei santi. È questo «lo spazio di libertà» (Sai 31,9) in cui Dio ci pone. Ma il raggio si allarga ancora di più. Come ab­biamo sentito, la liturgia cristiana è anche liturgia co­smica. Che cosa significa questo per la nostra doman­da? Il prefazio, la prima parte del canone della Messa, si conclude regolarmente con l'affermazione che noi cantiamo insieme con i Cherubini e i Serafini, con tut­ti i cori celesti: «Santo, Santo, Santo». In ciò la litur­gia fa riferimento alla visione di Dio di cui parla il ca­pitolo sesto di Isaia. Il profeta vede nel Santo dei San­ti del tèmpio il trono di Dio, che viene protetto dai Se­rafini che intonavano a turno: «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria» (Is 6,1-3). In questa liturgia, che ci precede sempre, noi ci inseriamo durante la celebrazione della Santa Messa. Il nostro canto è partecipazione al canto e alla preghiera della grande liturgia che abbraccia tut­ta la creazione.

Tra i Padri, è stato soprattutto Agostino quello che ha cercato di legare questa prospettiva originaria della liturgia cristiana con la visione del mondo propria del­l'antichità greco-romana. Nella sua opera giovanile sulla musica egli dipende ancora dalla teoria musicale dei pitagorici. Per Pitagora il cosmo era costruito ma­tematicamente, come una grande struttura numerica,. La moderna concezione delle scienze della natura, che ha avuto inizio con Keplero, Galilei e Newton, si è ri­collegata a questa visione e ha reso possibile l'utilizza­zione tecnica delle energie dell'universo proprio grazie alla sua interpretazione matematica. Per i pitagorici questo ordinamento matematico dell'universo (kosmos significa «ordine»!) era di per sé identico all'essenza stessa del bello: la bellezza scaturisce dall'interiore or­dine razionale e tale bellezza era per loro di natura non

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»

solo ottica, ma musicale. Goethe, quando parla della sfida cantata delle sfere fraterne, si riallaccia proprio a questa prospettiva, secondo cui l'ordine matematico dei pianeti e la loro rivoluzione porta con sé un suono nascosto, che è la forma originale della musica. Le ri­voluzioni astrali sono come le melodie, gli ordini nu­merici sono il ritmo e le relazioni tra le singole orbite sono l'armonia. La musica fatta dall'uomo deve esse­re ascolto della musica interiore dell'universo e delle sue leggi, inserita nel «canto fraterno» delle «sfere fraterne». La bellezza della musica si fonda sulla sua corrispondenza con le leggi ritmiche e armoniche del­l'universo. La musica umana è tanto più «bella», quanto più si inserisce nelle leggi musicali dell'uni­verso.

Agostino ha dapprima aderito a questa teoria, poi l'ha approfondita. Il suo innesto nella visione del mondo propria della fede doveva, nel corso della sto­ria, portare a una doppia forma di personalizzazione. Già i pitagorici non avevano concepito in maniera pu­ramente astratta la matematica dell'universo. Nel mo­do di pensare degli antichi le azioni intelligenti pre­supponevano un'intelligenza che ne fosse la causa. I movimenti intelligenti - matematici - dei corpi celesti non venivano quindi spiegati in maniera puramente matematica, ma erano comprensibili solo in base al presupposto che gli astri fossero animati, quindi «in­telligenti». Per i cristiani risultò del tutto naturale pas­sare dalle divinità astrali ai cori angelici, che stanno intorno a Dio e illuminano l'universo. La percezione della «musica cosmica» diventa così ascolto del canto degli angeli. Il riferimento a Isaia 6 diveniva così del tutto ovvio. Un passo ulteriore venne attraverso la fe­de trinitaria - la fede nel Padre, nel Logos e nello Spi­rito. La matematica dell'universo non è di per se stes-

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sa chiara e nemmeno - come vedremo ora - spiegabi­le mediante le divinità astrali. Essa ha un fondamento più profondo, lo Spirito Creatore; essa proviene dal Logos, in cui sono contenute le idee originarie dell'or­dine cosmico che Egli infonde nella materia grazie al­lo Spirito. A partire dalla sua funzione creativa il Lo­gos è stato definito Ars Dei - arte di Dio (Ars - Tech-ne\). Il Logos stesso è il grande artista in cui tutte le opere dell'arte - la bellezza dell'universo - sono ori­ginariamente presenti. Partecipare al canto dell'uni­verso significa quindi porsi sulle tracce del Logos e seguirLo. Ogni vera arte umana è avvicinamento a co­lui che è /'«artista», a Cristo, allo Spirito Creatore. L'idea della musica cosmica, della partecipazione al canto degli angeli, sfocia quindi nel riferimento del­l'arte al Logos, ma ampliata, appunto, e approfondita' rispetto alla sua componente cosmica che, a sua volta, dà all'arte nella liturgia sia il criterio che l'ampiezza: la «creatività» puramente soggettiva non può mai ave­re un'ampiezza paragonabile a quella del cosmo e del suo messaggio di bellezza. Disporsi secondo il suo criterio non significa quindi sminuire la libertà, ma al­largare il suo orizzonte.

Ne deriva un'ultima indicazione. Sia pure con delle variazioni, l'interpretazione cosmica della musica si è mantenuta viva fin dentro la modernità. Solo il secolo XIX se ne è distanziato, perché la «metafisica» pareva superata. Hegel ha cercato di interpretare la musica esclusivamente come espressione del soggetto e della soggettività. Ma, mentre in Hegel si trova pur sempre l'idea fondamentale della ragione come punto di par­tenza e scopo della totalità, in Schopenhauer avviene un vero rovesciamento, denso di conseguenze per gli sviluppi successivi. Il mondo, a partire dal suo fonda­mento, non è più ragione, ma «volontà e rappresenta-

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zione». La volontà precede la ragione. E la musica è l'espressione più originale dell'esistenza umana, l'e­spressione pura, che precede la ragione, della volontà che crea il mondo. Per questo la musica non deve sog­giacere alla- parola e solo in casi eccezionali deve le­garsi a essa. Poiché essa è solo volontà, è più origina­le della ragione, ci riporta prima di essa, nella vera causa prima del reale. Viene alla mente la riformula­zione goethiana del prologo di Giovanni: non più «In principio era la Parola», ma «In principio era l'azio­ne». Nel nostro secolo questo processo continua con il tentativo di sostituire alla «ortodossia» là «ortopras­si»: non c'è più alcuna fede comune (perché la verità è irraggiungibile,), ma resta solo una prassi comune. Per^a fede cristiana resta invece vero quello che Guardini ha saputo sottplineare con grande chiarezza nella sua opera prima Lo spirito della liturgia: il pri­mato del Logos sull'ethos. Quando questo primato viene rovesciato, il cristianesimo come tale ne risulta scardinato. Contro il duplice spostamento d'asse che la modernità opera nell'interpretazione della musica -la musica come pura soggettività e la musica come espressione della pura volontà - sta il carattere cosmi­co della musica liturgica: noi cantiamo con gli angeli. Questo carattere cosmico si fonda però sul riferimento al Logos di tutto il culto cristiano. Diamo quindi un ultimo, breve, sguardo al presente. La liquidazione del soggetto, che noi oggi sperimentiamo insieme con delle forme radicali di soggettivismo, ha portato al de­costruttivismo, alla teoria anarchica dell'arte. Tutto ciò pilo forse aiutare a superare la smodata esaltazione del soggetto e a riconoscere nuovamente che è proprio il rapporto con il Logos che sta al principio, ciò che salva anche il soggetto,, cioè la persona, è la riporta al suo vero rapporto con la comunità: quel rapporto che, ultimamente, si fonda sull'amore trinitario.

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L'attuale contesto epocale, come abbiamo visto in ambedue i capitoli di questa parte, implica senza dub- ' bio una difficile sfida per la Chiesa e la cultura della liturgia. Tuttavia non c'è alcun motivo per scoraggiar­si. Da una parte la grande tradizione culturale della fe­de possiede una forza straordinaria che vale proprio per il presente: ciò che nei musei può essere solo testi­monianza del passato, ammirata con nostalgia, nella liturgia continua a diventare presente vivo. Ma anche lo stesso presente non è condannato all'assenza di pa­role nella fede. Chi guarda con attenzione, si accorge­rà che proprio nel nostro tempo sono nati e nascono dall'ispirazione della fede importanti capolavori d'ar­te, tanto nel campo delle immagini quanto in quello della musica (e in quello della letteratura). Anche oggi la gioia in Dio e l'incontro con la sua presenza nella liturgia sono una forza inesauribile di ispirazione. Gli' artisti che si sottopongono a questo compito non de­vono davvero sentirsi come la retroguardia della cul­tura: la libertà vuota da cui escono diventerà per essi motivo di disgusto. L'umile sottomissione a ciò che li precede è origine della libertà reale e li conduce alla vera altezza della nostra vocazione di uomini.

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PARTE QUARTA

FORMA LITURGICA

Capitolo primo

IL RITO

Per molte persone la parola «rito» non ha oggi cre­dito. Il «rito» appare come qualcosa di rigido, come un legame a forme prefissate; vi si contrappongono la creatività e la dinamica dell'inculturazione: solo attra­verso queste si avrebbe la liturgia viva, in cui ciascuna comunità può esprimere se stessa. Prima di affrontare la questione che ne risulta, dobbiamo dapprima verifi­care che cosa è veramente il rito nella Chiesa, quali sono i riti e come essi si rapportano tra di loro. Il giu­rista romano (non cristiano) Pomponio Festo ha defi­nito il rito come «un'usahza comprovata nella cele­brazione dei sacrifici» (Mos comprobatus in admini-strandis sacrificiis). In tal modo egli ha espresso una realtà dell'intera storia delle religioni in una formula preziosa: l'uomo cerca sempre il modo giusto di ono.-rare Dio, un forma di preghiera e di culto comune che piaccia a Dio stesso e sia conforme alla sua natura. In questo contesto si può ricordare che la parola «orto­dossia» all'origine non significava, come oggi quasi sempre si intende, «retta dottrina». Da una parte, in­fatti, la parola «doxa» in greco significa «opinione», «apparenza»; d'altra parte, nel linguaggio cristiano, essa significa qualcosa come «vera apparenza», vale a dire: «gloria di Dio». Ortodossia significa quindi il modo giusto di onorare Dio e la retta forma di adora­zione. In questo senso l'ortodossia è per sua stessa de­finizione anche «ortoprassi»; il contrasto moderno tra

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i due termini, nella loro origine si risolve da se stesso. Il punto non sono delle teorie su Dio, ma la vera stra­da per incontrarLo. Grande dono della fede cristiana fu quello di apprendere ora qual è il vero culto, in che modo si onora davvero Dio - nella partecipazione orante e nella condivisione del cammino pasquale di Gesù Cristo, nel prendere pienamente parte alla sua «Euchafistia», in cui l'Incarnazione conduce alla Re­surrezione - sulla via della croce. Si potrebbe dire, parafrasando un'espressione di Kant: la liturgia riferi­sce tutto dall'Incarnazione alla resurrezione, ma sulla via della croce. Il «rito» è dunque per i cristiani la for­ma concreta, che supera i tempi e gli spazi, in cui si è comunitariamente configurato il modello fondamenta­le dell'adorazione che ci è stato donato dalla fede; a sua volta, questa adorazione - come si è visto nella, prima parte - coinvolge sempre l'intera prassi della vita. Il rito ha, dunque, il suo luogo primario nella li­turgia, ma non solo in essa. Esso si esprime anche in un modo determinato di fare teologia, nella forma del­la vita spirituale e negli ordinamenti giuridici della vi­ta ecclesiale.

A questo punto, come già accennato, dobbiamo da­re uno sguardo, sia pure sommario, ai riti essenziali che si sono affermati nella Chièsa. Quali riti ci sono? Da dove provengono? Si tratta di domande che, nella loro specificità, suscitano tutta una serie di problemi che qui non possono essere affrontati. Se vogliamo farci un'idea d'insieme su questo argomento, un pun­to di partenza utile può essere il sesto canone del con­cilio di Nicea, che parla delle tre sedi primaziali nella Chiesa: Roma, Alessandria, Antiochia. In questa sede non è necessario approfondire ulteriormente il fatto che tutte e tre queste sedi stiano in stretto rapporto con le tradizioni petrine. Si tratta comunque, in tutti e

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tre i casi, di punti di cristallizzazione della tradizione liturgica. Dobbiamo poi aggiungere il fatto che a par­tire dal quarto secolo (subito dopo Nicea) Bisanzio compare come un ulteriore punto di riferimento per la vita e gli ordinamenti della Chiesa (quindi anche per la liturgia), proprio per il fatto che Bisanzio, dopo il trasferimento dell'Impero sul Bosforo, viene intesa come la nuova Roma e fa quindi sue le prerogative di quest'ultima, mentre, d'altra parte, acquista peso an­che per la perdita di importanza di Antiochia, le cui funzioni passano, in buona parte, proprio a Bisanzio. Tenendo conto di ciò, potremmo quindi parlare di quattro grandi nuclei di tradizioni liturgiche, osser­vando come, da una parte, le relazioni tra Roma e Alessandria erano all'inizio relativamente strette, mentre, dall'altra, Bisanzio e Antiochia si trovavano, a loro volta, assai vicine.

Senza entrare in dettagli che supererebbero i limiti di questo libro, dobbiamo comunque cercare di essere un po' più concreti. Antiochia, come luogo di origine del cristianesimo pagano, dove era nato lo stesso nome di «cristiani» (At 11,26), e come capoluogo della Siria, cioè di quell'ambito culturale e linguistico in cui la ri­velazione aveva avuto luogo, doveva essere un luogo centrale della tradizione liturgica. Dal momento che la Siria era anche un ambiente dove erano in atto grandi dispute teologiche sulla retta professione di fede cri­stiana, non desta meraviglia che questo centro tanto di­namico dal punto di vista culturale, sia stato, anche per la liturgia, punto di partenza di tradizioni diverse. Tra queste tradizioni vi sono, da una parte, i riti siro-occi-dentali, tra i quali spicca quello malabarico, rimasto vi­vo inTndia, che si richiama all'apostolo Giacomo. An­che il rito maronita può essere ricondotto a delle forme di origine siro-occidentale. Dall'altra parte ci sono i co-

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siddetti riti caldaici (siro-orientali, «assiri»), il cui pun­to di partenza deve essere cercato nelle grandi scuole teologiche di Nisibi e di Edessa. A questi riti era legato uno straordinario dinamismo missionario; essi potero­no diffondersi fino all'India, all'Asia Centrale e alla Cina. Nel primo medioevo si contavano circa settanta milioni di credenti appartenenti a questo ambito rituale, che patì irrecuperabili perdite a opera dell'Islam e delle invasioni mongoliche. In India continuò comunque a sussistere la Chiesa malabarica. L'ambito rituale «cal­daico» si richiama all'apostolo Tommaso e ai suoi di­scepoli Addai e Mari. Esso ha indubbiamente conser­vato tradizioni molto antiche e la notizia, secondo cui l'apostolo Tommaso avrebbe svolto la sua attività mis­sionaria in India, dal punto di vista storico deve essere presa molto sul serio.

Dall'importante'area ecclesiale di Alessandria di­pendono i riti copto ed etiopico. La liturgia di Marco, sviluppatasi ad Alessandria, è fortemente impregnata di influssi bizantini, sui quali dovremo ancora tornare.. Importanza autonoma ha il rito armeno, che la tradi­zione fa risalire agli apostoli Bartolomeo e Taddep; suo vero padre deve però essere considerato Gregorio l'Illuminatore (260-323); nella sua forma esso segue ampiamente la liturgia bizantina.

Arriviamo così, finalmente, alle due grandi famiglie rituali: quella bizantina e quella romana. Come abbia­mo visto, Bisanzio riprende dapprima e anzitutto la tradizione antiochena. La liturgia di san Giovanni Cri­sostomo porta l'eredità antiochena a Bisanzio, ma vengono ripresi anche influssi provenienti dall'Asia Minore e da Gerusalemme, di modo che qui converge una ricca eredità di luoghi apostolici. Una grande par­te dell'ampio mondo slavo ha fatto propria la liturgia

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bizantina e, in questo modo, si è inserita nella comu­nione di preghiera con i Padri e con gli Apostoli. In Occidente si potevano inizialmente distinguere tre grandi nuclei riformistici: accanto alla liturgia roma­na, che era molto simile a quella africano-latina, c'era la liturgia dell'antica Gallia («gallicana»), a sua volta strettamente imparentata con quella celtica, e la litur­gia ispanica antica («mozarabica»). Tutti e tre questi nuclei erano inizialmente molto simili tra di loro, ma la Spagna e la Gallia, al contrario di Roma - conser­vatrice e liturgicamente arcaicizzante e sobria -, si so­no aperte a influssi provenienti da Oriente, rielaboran­doli in modi diversi. Rispetto alla severa brevità di Roma, la liturgia gallicana è caratterizzata dall'esalta­zione poetica. All'incirca a partire dalla fine del X se­colo Roma fa propri molti elementi di origine gallica­na e il rito gallicano scompare come grandezza auto­noma, pur continuando a vivere in alcuni suoi aspetti preziosi nel rito romano. Solo la riforma liturgica se­guita al concilio Vaticano II con il suo sforzo di re­staurare il rito romano nella sua purezza ha portato al­la quasi totale scomparsa dell'eredità gallicana. Solo questa riforma, peraltro, ha portato avanti l'unifica­zione radicale della liturgia, benché anche in prece­denza, già nel secolo XIX, i riti particolari di luoghi e ordini religiosi, ancora esistenti, erano andati sempre più scomparendo. Nel frattempo, però, quel processo iniziale di uniformazione si è mutato nel suo contra­rio: nella crescente e ampia dissoluzione del rito, che dovrebbe essere sostituito dalla «creatività» delle sin­gole comunità.

Prima di concentrarci ancora una volta sulla que­stione fondamentale del senso e della validità del rito dobbiamo tirare alcune conclusioni da questo schizzo, forse un po' faticoso, del panorama dei riti. In primo

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luogo è importante constatare come i singoli riti fac­ciano riferimento ai luoghi di origine apostolica del cristianesimo, cercando in tal modo un contatto diret­to nello spazio e nel tempo con l'evento della Rivela­zione. Anche qui vale dunque il principio per cui 1'«unica volta» e il «per sempre» si appartengono a vicenda, per cui la fede cristiana non può mai essere separata dal terreno dell'evento santo, dalla scelta di Dio che ha voluto parlare con noi, farsi uomo, morire e risorgere in un determinato spazio e in un determi­nato tempo. Solo dall'«unica volta» può venire il «per sempre». La Chiesa non prega in una temporalità ge­nerica e astratta: essa non può abbandonare le sue ra­dici; essa riconosce il vero parlare di Dio proprio nella concretezza della sua storia, nel luogo e nel tempo a cui Egli ci lega e che lega noi tutti tra di noi. Il rito implica l'elemento diacronico, la^preghiera con i Pa­dri e con gli Apostoli, che include, allo stesso tempo, un momento locale che si estende da Gerusalemme ad Antiochia, fino a Roma, Alessandria e Costantinopoli. I riti non sono quindi solo prodotti dell'inculturazio-, ne, benché abbiano fatto propri elementi di culture di­verse. Essi sono figure della tradizione apostolica e del suo sviluppo nei grandi ambiti tradizionali.

A ciò si aggiunge una seconda constatazione. I riti non sono rigorosamente separati l'uno dall'altro. Ci sono uno scambio e una fecondazione reciproci. Lo si vede nella maniera più chiara proprio nei due grandi baricentri della formazione dei riti: Bisanzio e Roma. Nella loro attuale forma la maggior parte dei riti orientali sono stati fortemente plasmati dagli influssi bizantini. A sua volta Roma è andata sempre più unifi­cando i diversi riti dell'Occidente nel comune rito ro­mano. Mentre Bisanzio ha dato la forma dell'adora­zione di Dio alla gran parte del mondo slavo, Roma

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ha segnato dal punto di vista liturgico i popoli germa­nici, quelli latini e una parte di quelli slavi. Nel primo millennio c'era ancora uno scambio tra Oriente e Oc­cidente; poi i riti si sono consolidati in forme definiti­ve, che lasciavano poco spazio a ulteriori, fecondi, scambi reciproci. L'importante è che le grandi forme rituali abbracciano molte culture; essi non implicano solo l'elemento diacronico, ma creano anche comu­nione tra le diverse culture e le diverse lingue. Esse sono sottratte all'intervento del singolo, della singola comunità o anche di una Chiesa particolare. La non arbitrarietà è un elemento costitutivo della loro smessa natura. Essi sono espressione del fatto che nella litur­gia mi viene incontro qualcosa che non sono io a far­mi da me stesso, che io entro in qualche cosa di più grande che, ultimamente, proviene dalla Rivelazione. Per questo la liturgia è chiamata in Oriente «divina li­turgia», un'espressione che ne sottolinea la non dispo­nibilità da parte degli uomini. Al contrario l'Occiden­te ha sottolineato sempre più fortemente l'elemento storico; Jungmann ha quindi cercato di riassumere la concezione occidentale con l'espressione «liturgia di­venuta», per accennare al fatto che questo divenire prosegue ancora: in crescita organica, non come un fare autonomo. La liturgia non è dunque paragonabile a un'apparecchiatura tecnica, a qualcosa che si fa, ma a una pianta, a qualcosa, cioè, di organico, che cresce e le cui leggi di crescita determinano le possibilità di un ulteriore sviluppo. In Occidente si è aggiunto il fat­to che il papa con l'autorità petrina ha sempre più chiaramente rivendicato anche la legislazione liturgica e che, in questo modo, si è posta un'istanza giuridica per la successiva formazione della liturgia. Quanto più fortemente si imponeva questo primato, tanto più emergeva la questione dell'estensione e dei limiti di tale autorità che, certamente, non è mai stata, in quan-

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to tale, oggetto di riflessione. Dopo il concilio Vatica­no II si è ingenerata l'impressione che il papa potesse fare qualunque cosa in materia liturgica, soprattutto se agiva su incarico di un concilio ecumenico. E accadu­to così che l'idea della liturgia come qualcosa che ci precede e che non può essere «fatta» a proprio arbitrio sia andata ampiamente perduta nella coscienza diffusa dell'Occidente. Difatti, però, il concilio Vaticano I non ha per nulla inteso definire il papa come un mo­narca assoluto, ma, al contrario, come il garante del­l'obbedienza rispetto alla parola tramandata: la sua potestà è legata alla tradizione della fede e questo vale anche nel campo della liturgia. Essa non è «fatta» da funzionari. Anche il papa può solo essere umile servi­tore del suo giusto sviluppo e della sua permanente in­tegrità e identità. Anche qui ci imbattiamo dunque, ancora una volta, nella questione delle immagini e in quella della musica sacra nel cammino particolare percorso dall'Occidente rispetto all'Oriente. E anche qui vale ancora una volta il fatto che la via battuta dal­l'Occidente, con la sua specificità e lo spazio lanciato alla libertà e alla storia, non può essere in nessun mo­do condannata in blocco. Ma se si abbandonano le in­tuizioni fondamentali dell'Oriente, che sono le intui­zioni fondamentali della Chiesa antica, si giungerebbe davvero alla dissoluzione dei fondamenti dell'identità cristiana. L'autorità del papa non è illimitata; .esàa sta aJL servizio della santa tradizione. Meno ancora si può conciliare una generica «libertà» di fare, che proprio come tale si muta in arbitrio, con l'essenza della fede e della liturgia. La grandezza della liturgia - dovremo ancora ripeterlo molto spesso - si fonda proprio sulla sua non arbitrarietà.

Se, dunque, ci chiediamo ora ancora una volta che cosa è il rito nella liturgia cristiana, la risposta è: il ri-

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to è espressione, divenuta forma, dell'ecclesialità e della comunitarietà, che supera la storia, della pre­ghiera e dell'azione liturgica. In esso si concretizza il legame della liturgia con il soggetto vitale «Chiesa» che, a sua volta, si caratterizza per il legame con la forma della fede cresciuta nella tradizione apostolica. Questo legame con l'unico soggetto Chiesa lascia spa­zio a forme diverse e include uno sviluppo vitale, escludendo però l'arbitrarietà. Ciò vale per il singolo membro della comunità, rispetto alla gerarchia e ai laici. La «liturgia divina» (come la chiama l'Oriente), conformemente alla storicità dell'agire di Dio e analo­gamente alla parola scritta, è profondamente segnata dall'uomo e dalla sua sensibilità. Tuttavia, nell'inter­pretazione a lei essenziale dell'eredità biblica che va al di là dei singoli riti, essa partecipa della normatività propria della forma fondamentale della fede cristiana. La sua valenza può essere paragonata a quella delle grandi professioni di fede della Chiesa antica. Come

< queste, anche la liturgia è maturata sotto la guida dello Spirito Santo (Gv 16,13). Fu fatale per Lutero il fatto che i suoi tentativi di riforma avvennero in un tempo in cui la vera natura della liturgia era ampiamente na­scosta e incomprensibile. Malgrado la radicalità del richiamo al principio della «sola Scrittura», Lutero non ha messo in dubbio la validità delle professioni di fede della Chiesa antica, lasciando così sussistere una tensione interiore che è poi divenuta la problematica fondamentale della storia della riforma protestante. La riforma sarebbe andata diversamente se egli avesse potuto vedere l'analoga normatività della grande tra­dizione liturgica, la sua consapevolezza della presenza del Sacrificio e la sua comprensione dell'azione vica­ria del Logos. Con la radicalizzazione del metodo sto­rico-critico è oggi evidente che il «sola Scrittura» non può fondare la Chiesa e la dimensione comunionale

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della fede. La Scrittura è di per se stessa Scrittura solo se vive in quel soggetto vivo che è la Chiesa. Tanto più assurda è quindi la pretesa di non pochi di voler costruire la liturgia dalla «sola Scrittura», identifican­do poi in simili ricostruzioni la Scrittura con i pareri esegetici dominanti e scambiando la fede con un'opi­nione. La liturgia «fatta» in questo modo, si poggia su delle parole e su delle opinioni di uomini; essa è co­struita sulla sabbia e resta vuota, per quanto la si vo­glia abbellire con delle arti umane. Solo il rispetto della priorità e della fondamentale non arbitrarietà della liturgia può donarci ciò che noi speriamo da lei: la festa, in cui ci viene incontro la grande realtà che noi non ci facciamo da soli, ma che, appunto, ricevia­mo come dono.

Ciò significa che la «creatività» non può essere una categoria autentica della realtà liturgica. Oltre tutto, questo termine è cresciuto nella visione del mondo propria del marxismo. Creatività significa che in un mondo, di per sé privo di senso, sviluppatosi per un'e­voluzione cieca, l'uomo realizza finalmente un mondo nuovo e migliore, a partire dalle proprie forze. Nelle moderne teorie artistiche si intende con questo termi­ne una forma nichilistica di creazione: l'arte non deve imitare nulla; la creatività artistica è il libero spaziare dell'uomo, che non si lega ad alcuna misura e ad alcu­no scopo e che non può sottomettersi a nessuna do­manda di significato. In simili visioni si può icerto co­gliere un grido di libertà, divenuto in un mondo ormai disposto tecnicamente, un grido di aiuto. L'arte, così intesa, arjpare come l'ultimo rifugio della libertà. L'arte ha a che fare con la libertà, è vero. Ma la libertà così intesa è vuota: essa non libera, ma lascia traspari­re la disperazione come l'ultima parola dell'esistenza umana. Questo modo di creare non è della liturgia. Essa non vive delle trovate di qualche singolo o di

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qualche commissione. Essa è, al contrario, il venire di Dio, il farsi trovare di Dio nel nostro mondo, ed opera davvero la liberazione. Solo Lui può aprire le porte verso la libertà. Quanto più sacerdoti e fedeli si affide­ranno umilmente a questo Suo farsi trovare, tanto «più nuova» diverrà la liturgia e tanto più essa sarà vera e personale. Sì, personale, vera e nuova la liturgia lo di­viene non mediante banali invenzioni di parole o gio-chini, ma con il coraggio di mettersi in cammino ver­so qualcosa di grande, che per mezzo del rito ci prece­de sempre e di cui noi non possiamo mai impossessar­ci del tutto.

Si deve ripetere ancora una volta che tutto questo non ha nulla a che fare con l'irrigidimento? Mentre per l'Islam il Corano è puro discorso di Dio senza me­diazione umana, il cristiano sa che Dio ha parlato per mezzo di uomini e che, quindi, il fattore umano-stori­co" è parte integrante dell'agire di Dio. Per questo an­che la parola biblica trova la sua pienezza solamente nella risposta della Chiesa, che noi chiamiamo tradi­zione. Per questo i racconti dell'Ultima Cena presenti nella Bibbia trovano la loro concretezza solo quando la Chiesa li far suoi nelle celebrazioni. Per questo può esserci sviluppo nella «liturgia divina» e questo avvie­ne senza precipitazione e senza violenza, come qual­cosa di spontaneo (cfr. Me 4,28). Dal momento che le singole famiglie rituali, come abbiamo visto, sono cresciute ciascuna presso i luoghi centrali della tradi­zione apostolica, a partire dalle «sedi apostoliche», e che questo legame con le origini apostoliche è parte della loro definizione, non si può accettare che si pos­sano formare dei riti completamente nuovi. Sono in­vece certamente possibili delle variazioni nelle fami­glie rituali; proprio l'Occidente si è caratterizzato fin nel pieno dell'epoca moderna per la presenza di tali

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forme variate nell'ambito di una forma rituale fonda­meli tale che abbracciava l'insieme di tutte le altre. Un esempio di tale possibile sviluppo mi pare il Messale che lo Zaire (Congo) ha ottenuto in prova: si tratta di ri­to romano «alla zairese». Resta la grande comunità del rito romano, con le sue radici apostoliche, ma essa è stata declinata in maniera «congolese», con la recezio­ne, inoltre, anche di elementi orientali, cosa che mi pa­re davvero molto sensata. Seguendo Matteo 5, 23-25, per esempio, l'augurio di pace non viene scambiato prima della comunione, ma prima dell'offertorio. Una prassi che, a mio avviso, è auspicabile per tutto il rito romano, se si vuole mantenere l'augurio della pace in quanto tale.

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Capitolo secondo

IL CORPO E LA LITURGIA

1. «Partecipazione attiva»

Il concilio Vaticano II ci ha proposto come pensiero guida della celebrazione liturgica l'espressione parti-cipatio actuosa, partecipazione attiva di tutti a\V Opus Dei, al culto divino. Ciò a buon diritto: il Catechismo della Chiesa Cattolica, difatti, sottolinea che l'espres­sione riguarda il servizio comune, si riferisce, cioè, a tutto il popolo santo di Dio (cfr. CCC 1069). In che cosa consiste, però, questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è sta­ta molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azio­ne il numero maggiore di persone possibile il più spesso possibile. La parola «partecipazione» rinvia, però, a un'azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa «actio» centrale, a cui devono avere parte tutti i mem­bri della comunità. Lo studio delle fonti liturgiche permette una risposta che, forse, in un primo tempo può sorprendere, ma che è del tutto ovvia se si pren­dono le mosse dai fondamenti biblici su cui abbiamo riflettuto nella prima parte. Con il termine «actio», ri­ferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eu­caristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgi-

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co, è la orario: la grande preghiera, che costituisce il nucleo della celebrazione liturgica e che proprio per questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai Padri con il termine orario. Questa definizione era corretta già a partire dalla stessa forma liturgica, poiché nella orario si svolge ciò che è essenziale alla liturgia cristiana, perché essa è il suo centro e la sua forma fondamenta­le. La definizione dell'Eucaristia come orario fu poi una risposta fondamentale tanto per i pagani che per gli intellettuali in ricerca. Con questa espressione si diceva infatti a quelli che erano in ricerca: i sacrifici di animali e tutto ciò che c'era e c'è presso di voi e che non può appagare nessuno, sono ora liquidati. Al loro posto subentra il sacrificio-parola. Noi siamo la religione spirituale, in cui ha luogo il culto divino reso per mezzo della parola; non vengono più sacrificati capri e vitelli, ma la parola viene rivolta a Dio come a Colui che sostiene la nostra esistenza e questa parola si unisce alla Parola per eccellenza, al Logos di Dio che ci innalza alla vera adorazione. Forse è utile os­servare anche che la parola orario all'inizio non signi­fica «preghiera» (per questo esisteva il termine prex), ma il discorso solenne tenuto in pubblico, che ora ri­ceve la sua più alta dignità per il fatto che si rivolge a Dio, nella consapevolezza che esso proviene da Dio stesso e da Lui è reso possibile.

Ma finora abbiamo solamente accennato a ciò che è centrale. Questa orario - la solenne preghiera eucari­stica, il «canone» - è davvero più che un discorso, è actio nel senso più alto del termine. In essa accade, infatti, che Vactio umana (così come è stata sinora esercitata dai sacerdoti nelle diverse religioni) passa in secondo piano e lascia spazio all' actio divina, all'a­gire di Dio. In questa orario il sacerdote parla con l'Io del Signore - «questo è il mio corpo», «questo è il

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mio sangue» - nella consapevolezza che ora non parla più da se stesso, ma in forza del sacramento che egli ricevuto, che diventa voce dell'altro che ora parla e agisce. Questo agire di Dio, che si compie attraverso un discorso umano, è la vera «azione», di cui tutta la creazione è in attesa: gli elementi della terra vengono trans-sustanziati, strappati, per così dire, dal loro an­coraggio creaturale, ricompresi nel fondamento più profondo del loro essere e trasformati nel corpo e nel sangue del Signore. Il nuovo cielo e la nuova terra vengono anticipati. La vera «azione» della liturgia, a cui noi tutti dobbiamo avere parte, è azione di Dio stesso. È questa la novità e la particolarità della litur­gia cristiana: è Dio stesso ad agire e a compiere l'es­senziale. Egli introduce la nuova creazione, si rende accessibile, così che noi possiamo comunicare con Lui in maniera del tutto personale, attraverso le cose della terra, attraverso i nostri doni. Ma come possia­mo noi avere parte a questa azione? Dio e l'uomo non sono del tutto incommensurabili? L'uomo, che è finito e peccatore, può cooperare con Dio, che è infinito e santo? Egli lo può per il fatto che Dio stesso si è fatto uomo, che è divenuto corpo e continua, ancora con il suo corpo, a venire incontro a noi che viviamo nel corpo. L'intero evento, fatto di Incarnazione, croce, resurrezione e ritorno sulla terra è presente come la forma con cui Dio prende l'uomo a cooperare con se stesso. Nella liturgia ciò si esprime, come abbiamo già visto, nel fatto che dell'orafo fa parte la preghiera di accettazione. Certamente, il sacrificio del Logos è sempre già accettato. Ma noi dobbiamo pregare per­ché diventi il nostro sacrificio, perché noi stessi, come abbiamo detto, veniamo trasformati nel Logos e dive­niamo così vero corpo di Cristo: è di questo che si tratta. E questo deve essere chiesto nella preghiera. Questa stessa preghiera è una via, un essere in cammi-

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no della nostra esistenza verso l'Incarnazione e la Re­surrezione. In questa «azione», in questo accostarsi orante alla partecipazione, non c'è alcuna differenza tra sacerdote e laico. Indubbiamente, rivolgere al Si­gnore Yòratio in nome della Chiesa e parlare al suo apice con l'Io di Gesù Cristo, è qualcosa che può ac­cadere solo in forza del sacramento. Ma la partecipa­zione a ciò che non è fatto da alcun uomo, bensì dal Signore stesso e da Lui solo, questo è uguale per tutti. Per- tutti il punto è, secondo quello che si legge in ICor 6,17, «unirsi al Signore e diventare così una sola esistenza pneumatica con Lui». Il punto è che, alla fi­ne, venga superata la differenza tra Vactio di Cristo e la nostra, che ci sia solamente una azione, che è allo stesso tempo la sua e la nostra - la nostra per il fatto che siamo divenuti «un corpo e uno spirito» con Lui. La singolarità della liturgia eucaristica consiste ap­punto nel fatto che è Dio stesso ad agire e che noi ve­niamo attratti dentro questo agire di Dio. Rispetto a questo fatto, tutto il resto è secondario.

È chiaro poi che si possono distribuire in maniera sensata le azioni esteriori: leggere, cantare, accompa­gnare le offerte. Tuttavia la partecipazione alla liturgia della parola (leggere, cantare) deve essere distinta dal­la celebrazione sacramentale vera e propria. Qui do­vrebbe essere chiaro a tutti chèie azioni esteriori sono del tutto secondarie. L'agire clovrebbe venire meno quando arriva ciò che conta*: Yoratio. E deve essere ben visibile che Yoratio è la cosa che più conta e che essa è importante proprio perché dà spazio aìYactio di Dio. Chi ha capito questo, comprende facilmente che ora non si tratta più di guardare il sacerdote o di stare a guardarlo, ma di guardare insieme il Signore e di an­dargli incontro. La comparsa quasi teatrale di attori diversi, cui oggi è dato assistere soprattutto nella pre-

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parazione, delle offerte, passa molto semplicemente a lato dell'essenziale. Se le singole azioni esteriori (che di per sé non sono molte e che vengono artificiosa­mente accresciute di numero) diventano l'essenziale della liturgia e questa stessa viene degradata in un ge­nerico agire, allora viene misconosciuto il vero teo­dramma della liturgia, che viene anzi ridotto a paro­dia. La vera educazione, liturgica non può consistere nell'apprendimento e nell'esercizio di attività esterio­ri, ma nell'introduzione nell'acro essenziale, che fa la liturgia, nell'introduzione, cioè, alla potenza trasfor­mante di Dio, che attraverso l'evento liturgico vuole trasformare noi stessi e il mondo. A questo riguardo l'educazione liturgica di sacerdoti e laici è oggi defici­taria in misura assai triste. Qui resta molto da fare.

Ora, forse, il lettore si chiederà: e il corpo? Con l'i­dea del sacrificio mediante la parola (oratio) non si è forse spostato tutto solamente sullo spirito? L'obie­zione potrebbe risultare calzante per l'idea precristia­na del «culto del logos», non però per la liturgia della Parola fatta carne, che si offre a noi nel Suo corpo e nel Suo sangue, quindi corporalmente, sia pure nella nuova corporeità del Risorto, che però resta vera cor­poreità e che; quindi, sì dona a noi nei segni materiali del pane e del vino. Ciò significa che noi veniamo di­rettamente interpellati dal Logos e per il Logos pro­prio nel nostro corpo, nella nostra esistenza corporea di tutti i giorni. Difatti, proprio perché la vera «azio­ne» liturgica è agire di Dio, la liturgia della fede va sempre oltre l'atto cultuale fino a investire la quoti­dianità, che deve a sua volta diventare «liturgica», servizio per il cambiamento del mondo. Dal corpo viene preteso molto più che il semplice portare in gi­ro delle suppellettili o cose simili. Viene preteso il suo pieno impegno nella quotidianità della vita. Si

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chiede a lui che diventi «capace della resurrezione», si orienti alla resurrezione, al regno di Dio, compito che è riassunto nella formula: sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra. Dove accade la volontà di Dio, lì c'è il cielo, lì la terra diventa cielo. Addentrar­ci nell'azione di Dio per cooperare con Lui: è questo ciò che comincia nella liturgia e che poi si sviluppa oltre di essa. Passando per la croce (la trasformazione della nostra volontà nella comunione di volontà con Dio) l'Incarnazione deve sempre condurre alla resur­rezione - alla signoria dell'amore, che è il regno di Dio. Il corpo deve, per così dire, essere «allenato» per la resurrezione. Ricordiamoci in proposito che il termine «ascesi», oggi uscito di moda, viene tradotto in inglese semplicemente con «training»: allenamen­to. Noi, oggi, ci alleniamo con lo zelo, con la perse­veranza e con grandi rinunce per fini svariati: perché, allora, non allenarsi per Dio e per il Suo regno? Dice Paolo: «esercito duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù» (ICor 9,27). Oltre tutto, proprio l'apo­stolo ha già indicato la disciplina degli sportivi come modello per l'allenamento della propria vita. Questo allenamento è parte essenziale della quotidianità, ma deve trovare il suo punto di appoggio nella liturgia, nel suo «orientamento» al Cristo risorto. Si tratta, di­ciamolo con termini diversi, di un esercizio per impa­rare ad accogliere l'altro nella sua alterità, di un alle­namento-all'amore: allenamento ad accogliere il to­talmente Altro, Dio, a-lasciarsi plasmare e usare da Lui. Il coinvolgimento del corpo, di òui si tratta nella liturgia della parola divenuta carne,'si esprime nella liturgia stessa in una certa disciplina del corpo, in ge­sti che sono maturati proprio dalla pretesa interna della liturgia e che, in qualche modo, ne manifestano visibilmente la natura. Questi gesti, considerati sin­golarmente, possono variare a seconda dei diversi

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luoghi e delle diverse culture, ma nella loro forma es­senziale fanno parte della cultura della fede, così co­me si è venuta formando proprio a partire dal culto; essi, in quanto linguaggio espressivo comune, supe­rano i singoli ambiti culturali. Cerchiamo, allora, di esaminarli più da vicino.

2. Il segno della croce

Il gesto fondamentale della preghiera del cristiano è e resta il segno della croce. È una professione, espressa mediante il corpo, di fede in Cristo Crocifis­so, secondo le parole programmatiche di san Paolo: «Noi annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio» (ICor l,23s). E an­cora: «Io non volli sapere tra di voi se non Cristo, e questi crocifisso» (2,2). Segnare se stessi con il segno della croce è un sì visibile e pubblico a Colui che ha sofferto per noi; a Colui che nel corpo ha reso visibile l'amore di Dio fino all'estremo; al Dio che non go­verna mediante la distruzione, ma attraverso l'umiltà della sofferenza e dell'amore, che è più forte di tutta la potenza del mondo e più saggia di tutta l'intelli­genza e di tutti i calcoli dell'uomo. Il segno della cro­ce è una professione di fede: io credo in Colui che ha sofferto per me e che è risorto; in Colui che ha tra­sformato il segno dello scandalo in un segno di spe­ranza e dell'amore presente di Dio per noi. La profes­sione di fede è una professione di speranza: credo in Colui che nella sua debolezza è l'Onnipotente; in Co­lui che, proprio nella apparente assenza ed estrema debolezza, può salvarmi e mi salverà. Nel momento in cui noi ci segniamo con la croce, ci poniamo sotto

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la protezione della croce, la teniamo davanti a noi co­me uno scudo che ci protegge nelle tribolazioni delle nostre giornate e ci dà il coraggio per andare avanti. La prendiamo come un segnale che ci indica la strada da seguire: «Chi vuol essere mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda la sua croce su di sé e mi segua» (Me 8,34). La croce ci mostra la strada della vita: la sequela di Cristo.

Noi leghiamo il segno della croce con la professio­ne di fede nel Dio Trinità - Padre, Figlio e Spirito Santo. Esso diventa così ricordo del battesimo, in ma­niera ancor più chiara quando lo accompagniamo con l'uso dell'acqua benedetta. La croce è un segno della passione, ma è allo stesso tempo anche segno della re­surrezione; essa è, per così dire, il bastone della sal­vezza che Dio ci porge, il ponte su cui superiamo l'a­bisso della morte e tutte le minacce del male e possia­mo giungere fino a Lui. Essa è resa presente nel batte­simo, nel quale diventiamo contemporanei alla croce e alla resurrezione di Cristo (Rm 6,1-14). Ogni volta che ci facciamo il segno della croce rinnoviamo il no­stro battesimo; Cristo dalla croce ci attira fino a se stesso (Gv 12,32) e fin dentro la comunione con il Dio vivente. Poiché il battesimo e il segno della croce, che lo rappresenta e rinnova, sono soprattutto un evento di Dio: lo Spirito Santo ci conduce a Cristo, e Cristo ci apre la porta verso il Padre. Dio non è più il Dio sco­nosciuto; ha un nome. Possiamo chiamarlo, e Lui chiama noi.

Possiamo quindi dire che nel segno della croce, nella sua invocazione trinitaria è" riassunta tutta l'es­senza dell'avvenimento cristiano, è presente il tratto distintivo del cristianesimo. Nello stesso tempo, però, esso ci apre la strada anche nell'ampiezza della storia

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delle religioni e nel messaggio di Dio presente nella creazione. Già nel 1873 vennero scoperte sul monte degli Ulivi delle iscrizioni sepolcrali greche ed ebrai­che risalenti ali'incirca al tempo di Gesù, che erano accompagnate dal segno della croce; gli archeologi ne dedussero che si trattava di cristiani delle primissi­me origini. Intorno al 1945 vennero fatte numerose scoperte di tombe giudaiche recanti il segno della croce, risalenti più o meno al primo secolo dopo Cri­sto. Tali scoperte non consentivano più di ritenere che si trattasse di cristiani della prima generazione; si dovette piuttosto riconoscere che i segni della croce erano presenti anche in ambito giudaico. Che senso aveva tutto questo? La chiave interpretativa era forni­ta da Ez 9,4ss. Nella visione ivi descritta Dio stesso dice al suo messaggero vestito di lino che porta al fianco larborsa da scriba: «Vai in mezzo alla città e scrivi un Tau sulla fronte di tutti gli uomini che sospi­rano e piangono per tutti gli abomini che vi si com­piono».- Nella catastrofe spaventosa che si preannun­cia coloro che non si riconoscono nel peccato del mondo, ma soffrono per esso a motivo di Dio - sof­frono senza potere fare nulla, ma sono appunto lonta­ni dal peccato - devono essere segnati con l'ultima lettera dell'alfabeto ebraico, la Tau, che veniva scritta a forma di croce (T oppure + oppure X). La Tau, che in effetti aveva la forma di una croce, diventa il sigil­lo della, proprietà di Dio. Risponde al desiderio e al dolore dell'uomo per Dio e lo mette così sotto la par­ticolare protezione di Dio. E. Dinkler ha potuto di­mostrare che la stigmatizzazione cultuale - sulle ma­ni o sulla fronte - è preannunciata in diversi modi nell'Antico Testamento e che questa usanza era nota anche inepoca neotestamentaria; Ap 7,1-8 riprende nel Nuovo Testamento l'idea fondamentale della vi­sione di Ezechiele. I reperti tombali, unitamente ai te-

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sti contemporanei, mostrano che in determinati circo­li del giudaismo la Tau era diffusa come segno santo, come segno della professione di fede nel Dio di Israele e, allo stesso tempo, come segno di speranza nella sua protezione. Dinkler riassume i suoi studi nell'affermazione che nel Tau a forma di croce è «ri­assunta un'intera professione di fede in un solo se­gno», che le «realtà credute, sperate, sono riprese in un'immagine visibile. Un'immagine, certamente, che è più di uno specchio, da cui piuttosto si spera una forza capace di salvezza ...» (24). Per quello che pos­siamo saperne finora, i cristiani non si sono dapprima richiamati a questo simbolo giudaico, ma hanno tro­vato il segno della croce a partire dal profondo della loro fede, potendovi così riconoscere la somma di tutta la loro fede. In seguito, però, la visione di Eze­chiele della Tau salvifica e tutta la tradizione che su di essa si basava non dovevano apparire loro come uno sguardo aperto sul futuro? Non veniva forse ora «svelato» (cfr. 2Cor 3,18) ciò che si era voluto inten­dere con questo segno misterioso? Non era ora final­mente chiaro a chi esso apparteneva e da chi riceveva la sua forza? Non dovevano, dunque, vedere in tutto questo una prefigurazione della croce di Cristo, che aveva realmente dato alla Tau la forza di salvare?

Ancor più direttamente coinvolti da un'altra sco­perta furono i Padri legati al contesto culturale greco. Essi trovarono in Platone una strana immagine della croce tracciata nel cosmo (Timeo 34 A/B e 36 B/C). Platone l'aveva ripresa da tradizioni pitagoriche che, a loro volta, stavano in rapporto con tradizioni del­l'antico Oriente. Si tratta anzitutto di un'affermazio­ne astronomica: i due grandi movimenti stellari cono­sciuti dall'astronomia antica - l'eclittica (il grande cerchio intorno alla sfera terrestre, su cui scorre il

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movimento apparente del sole) e l'orbita terrestre - si incontrano e formano insieme la lettera greca Chi, che, a sua volta, è rappresentata a forma di croce (co­me una X). Il segno della croce è quindi inscritto nel cosmo nella sua totalità. Platone - riprendendo altre, più antiche tradizioni - aveva messo in relazione questo dato con l'immagine della divinità: il demiur­go (colui che plasma il mondo) avrebbe, cioè, «di­spiegato» l'anima del mondo «attraverso tutto l'uni­verso». Giustino martire, il primo filosofo tra i Padri, originario-delia Palestina e morto intorno al 165, sco­prì questo testo di Platone e non esitò a metterlo in rapporto con la dottrina del Dio trinitario e con il suo intervento salvifico in Gesù Cristo. Nell'immagine del demiurgo e dell'anima del mondo egli vede dei presagi del mistero del Padre e del Figlio, presagi che certamente necessitavano di essere corretti, ma che erano anche capaci di correzioni. Quello che Platone dice sull'anima del mondo gli pare un richiamo alla venuta del Logos, del Figlio di Dio. E così egli può arrivare a dire che la figura della croce è il massimo simbolo della signoria del Logos, senza il quale l'in­tera creazione non potrebbe stare insieme (1 Apol. 55). La croce del Golgota è prefigurata nella struttura stessa del cosmo; lo strumento di martirio, su cui il Signore è morto, è inscritto nella struttura dell'uni­verso. Il cosmo ci parla della croce, e la croce ci di­svela il mistero del cosmo. Essa è la vera chiave in­terpretativa di tutta la realtà. La storia e il cosmo so­no l'una parte dell'altro. Se apriamo gli occhi, leggia­mo il messaggio di Cristo nel linguaggio dell'univer­so e, d'altra parte, Cristo ci dona di comprendere il messaggio della creazione.

A partire da Giustino questa «profezia della croce» e la connessione da essa derivante tra cosmo e storia è

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divenuta una delle idee fondamentali della teologia patristica. Per i Padri fu sconvolgente scoprire che il filosofo che riassumeva e interpretava le più antiche tradizioni aveva parlato della croce come sigillo del­l'universo. Ireneo di Lione (morto intorno al 200), il vero fondatore della teologia sistematica nella sua for­ma cattolica, nel suo scritto apologetico intitolato Esposizione della predicazione apostolica afferma: il Crocifisso «è Lui stesso la parola del Dio onnipotente che penetra della sua invisibile presenza il nostro uni­verso. E per questo abbraccia tutto il mondo, la sua ampiezza e la sua lunghezza, la sua altezza e la sua profondità; poiché mediante la Parola di Dio tutte le cose sono state guidate all'ordine. E il Figlio di Dio è crocifisso in esse, essendo Egli impresso in tutte le cose nella forma della croce» (1,3). Questo testo del grande padre della Chiesa nasconde una citazione bi­blica che è di grande importanza per la teologia bibli­ca della croce. La lettera agli Efesini ci ammonisce a essere radicati nell'amore e a fondarci su di esso, così da divenire capaci «di comprendere insieme con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza» (3,18s). Non c'è quasi dubbio che già questa lettera, appartenente alla scuola di san Pao­lo, accenni qui alla croce cosmica, recependo quindi delle tradizioni religiose che parlano dell'albero co­smico a forma di croce che sostiene l'universo - una concezione religiosa che, tra l'altro, era nota anche in India. Agostino ha dato una interpretazione straordi­nariamente esistenziale di questo importante passo paolino. Egli vi vede raffigurate le dimensioni della vita umana, in riferimento alla figura del Cristo croci­fisso, le cui braccia circondano il mondo, la cui via giunge fino agli abissi degli inferi e fino all'altezza di Dio stesso {De doctr. Christ. II 41,62-C.Ch. XXXII,

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75s). Hugo Rahner ha raccolto i più bei testi patristici che parlano del mistero cosmico della croce. Vorrei qui citarne solo due. In Lattanzio (t ca. 325) leggia­mo: «Nel suo dolore Dio allargò le braccia e abbrac­ciò così il mondo, per prefigurare già allora che fin dal sorgere del sole e sino al suo tramonto un popolo che doveva venire si sarebbe raccolto sotto le sue ali» (81). Un ignoto greco del secolo quarto contrappone la croce al culto del sole e dice: ora Helios (il sole) è stato sconfitto dalla croce «e l'uomo, che il sole crea­to nel cielo non potè istruire, ecco, ora viene rischiara­to dalla luce solare della croce e illuminato (nel batte­simo)». Poi l'anonimo riprende un'espressione di san­t'Ignazio di Antiochia (morto intorno al 110), che ave­va definito la croce come «l'argano» (mechane) del cosmo per la risalita nel cielo (Eph. 9,1) e dice: «O sa­pienza veramente divina! O croce, tu argano per il cie­lo. La croce è stata piantata - ed ecco, la schiavitù de­gli idoli è stata annientata. Non è un legno come gli altri, ma un legno di cui Diossi è servito per la vitto­ria» (87 s).

Nel suo discorso escatologico Gesù aveva annun­ciato che alla fine dei tempi «il segno del Figlio del­l'uomo comparirà nel cielo» (Mt 24,30). L'occhio del­la fede poteva allora già riconoscere questo suo segno come inscritto nel cosmo fin dal principio e vedere quindi confermata dal cosmo la fede nel Redentore crocifisso. Allo stesso tempo, i cristiani sapevano in questo modo che le vie delle religioni andavano verso Cristo, che la loro attesa, espressa in molte immagini, portava fino a Lui. Ciò significava, d'altra parte, che la filosofia e la religione donavano alla fede le imma­gini e i pensieri in cui questa stessa poteva compren­dersi pienamente.

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«Diventerai una benedizione», aveva detto Dio ad Abramo al principio della storia della salvezza (Gn 12,2). In Cristo, figlio di Abramo, questa parola è pienamente compiuta. Egli è una benedizione, ed è benedizione per l'intera creazione e per tutti gli uo­mini. La croce, che è il suo segno nel cielo e sulla terra, doveva dunque divenire il vero gesto di benedi­zione dei cristiani. Facciamo su noi stessi il segno della croce ed entriamo così nella potenza benedicen­te di Gesù Cristo; tracciamo questo segno sulle per­sone per cui desideriamo la benedizione; lo tracciamo anche sulle cose che ci accompagnano nella vita e che noi vogliamo ricevere nuove dalla mano di Gesù Cristo. Mediante la croce possiamo divenire gli uni per gli altri dei benedicenti. Personalmente, non di­menticherò mai con quale devozione e con quale in­teriore dedizione mio padre e mia madre segnavano noi bambini con l'acqua benedetta, facendoci il segno della croce sulla fronte, sulla bocca e sul petto quan­do dovevamo partire, tanto più se poi si trattava di un'assenza particolarmente lunga. Questa benedizio­ne era un gesto di accompagnamento, da cui noi ci sapevamo guidati: il farsi visibile della preghiera dei genitori che ci seguiva e la certezza che questa pre­ghiera era sostenuta dalla benedizione del Redentore. La benedizione era anche un richiamo a noi, a non uscire dallo spazio di questa benedizione. Benedire è un gesto sacerdotale: in quel segno della croce noi percepivamo il sacerdozio dei genitori, la sua partico­lare dignità e la sua forza. Penso che questo gesto del benedire, come piena e benevola espressione del sa­cerdozio universale di tutti i battezzati, debba tornare molto più fortemente a far parte della vita quotidiana e abbeverarla con l'energia dell'amore che proviene dal Signore.

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3. Atteggiamenti

Inginocchiarsi (Prostratio)

Vi sono ambienti, che esercitano notevole influen­za, che cercano di convincerci che non bisogna ingi­nocchiarsi. Dicono che questo gesto non si adatta alla nostra cultura (ma a quale, allora?); non è conveniente per l'uomo maturo, che va incontro a Dio stando dirit­to, o, quanto meno, non si addice all'uomo redento, che mediante Cristo è divenuto una persona libera e che, proprio per questo, non ha più bisogno di ingi­nocchiarsi. Se guardiamo alla storia possiamo osser­vare che Greci e Romani rifiutavano il gesto di ingi­nocchiarsi. Di fronte agli dei faziosi e divisi che veni­vano presentati dal mito, questo atteggiamento era senz'altro giustificato: era troppo chiaro che questi dei non erano Dio, anche se si dipendeva dalla loro luna­tica potenza e per quanto possibile ci si doveva co­munque procacciare il loro favore. Si diceva che ingi­nocchiarsi era cosa indegna di un uomo libero, non in linea con la cultura della Grecia; era una posizione che si confaceva piuttosto ai barbari. Plutarco e Teo-frasto definiscono l'atto di inginocchiarsi come un'e­spressione di superstizione; Aristotele ne parla come di un atteggiamento barbarico {Retorica, 1361 a 36). Agostino gli dà per un certo verso ragione: i falsi dei non sarebbero infatti altro che maschere di demoni, che sottomettono l'uomo all'adorazione del denaro e del proprio egoismo, che in questo modo li avrebbero resi «servili» e superstiziosi. L'umiltà di Cristo e il suo amore che è giunto sino alla croce, ci hanno libe­rato - continua Agostino - da queste potenze ed è da­vanti a questa umiltà che noi ci inginocchiamo. In ef­fetti, l'atto di inginocchiarsi proprio dei cristiani non si pone come una forma di inculturazione in costumi

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preesistenti, ma, al contrario, è espressione della cul­tura cristiana che trasforma la cultura esistente a parti­re da una nuova e più profonda conoscenza ed espe­rienza di Dio.

L'atto di inginocchiarsi non proviene da una cultura qualunque, ma dalla Bibbia e dalla sua esperienza di Dio. L'importanza centrale che l'inginocchiarsi ha nella Bibbia la si può desumere dal fatto che solo nel Nuovo Testamento la parola proskynein compare 59 volte, di cui 24 nell'Apocalisse, il libro della liturgia celeste, che viene presentato alla Chiesa come model­lo e criterio per la sua liturgia. Osservando più attenta­mente possiamo distinguere tre atteggiamenti stretta­mente imparentati tra di loro. Il primo di essi è la pro-strado: il distendersi fino a terra davanti alla predomi­nante potenza di Dio; soprattutto nel Nuovo Testa­mento c'è, poi, il cadere ai piedi e, infine, il mettersi in ginocchio. I tre atteggiamenti non sono sempre fa­cili da distinguere, anche sul piano linguistico. Essi possono legarsi tra di loro, sovrapporsi l'uno all'altro.

Per ragioni di brevità vorrei citare, a proposito della prostratio, due testi, uno tratto dall'Antico Testamen­to, l'altro dal Nuovo. Quello tratto dall'Antico Testa­mento è la teofania a Giosuè prima della conquista di Gerico, che dallo scrittore biblico è posta in stretto parallelo con la teofania a Mosè presso il roveto ar­dente. Giosuè vede «il capo dell'esercito del Signore» e, dopo aver riconosciuto la sua identità, si getta a ter­ra davanti a lui. In quel momento ode le parole che, in precedenza, erano già state rivolte a Mosè: «Togli i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è santo» (Gs 5,14s). Nella figura misteriosa del «capo dell'esercito del Signore» il Dio nascosto parla a Gio­suè e davanti a Lui questi si getta a terra. E bella l'in-

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terpretazione di questo testo data da Origene: «C'è un altro capo delle potenze del Signore oltre al nostro Si­gnore Gesù Cristo?». Giosuè adora dunque Colui che doveva venire, il Cristo veniente. Per quanto riguarda, invece, il Nuovo Testamento, a cominciare dai Padri è divenuta particolarmente importante la preghiera di Gesù al monte degli Ulivi. Secondo Matteo (26,39) e Marco (14,35) Gesù si prostra a terra, anzi, cade a ter­ra (Mt); Luca, invece, che in tutta la sua opera - Van­gelo e Atti degli Apostoli - è in maniera particolare il teologo del pregare in ginocchio, ci racconta che Gesù pregava in ginocchio. Questa preghiera, come pre­ghiera introduttiva alla Passione, è esemplare, sia per quanto riguarda il gesto che per i suoi contenuti. I ge­sti: Gesù fa sua la caduta dell'uomo, si lascia cadere nella sua caducità, prega il Padre dal più profondo abisso della solitudine e del bisogno umani. Ripone la sua volontà nella volontà del Padre: Non la mia vo­lontà sia fatta, ma la Tua. Ripone la volontà umana nella volontà divina. Fa sua ogni negazione della vo­lontà dell'uomo e la soffre con il suo dolore; proprio l'uniformare la volontà umana alla volontà divina è il cuore stesso della redenzione. Difatti la caduta del­l'uomo si poggia sulla contraddizione delle volontà, sulla contrapposizione della volontà umana alla vo­lontà divina, che il tentatore dell'uomo fa ingannevol­mente passare come condizione della sua libertà. Solo la volontà autonoma, che non si sottomette ad alcuna altra volontà, sarebbe, secondo lui, libertà. Non la mia volontà, ma la tua - è questa la parola della verità, poiché la volontà di Dio non è il contrario della nostra libertà, ma il suo fondamento e la sua condizione di possibilità. Solo rimanendo nella volontà di Dio la no­stra volontà diventa vera volontà ed è realmente libe­ra. La sofferenza e la lotta del monte degli Ulivi è la lotta per questa verità liberante, per l'unità di ciò che

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è diviso, per una unione che è la comunione di Dio. Comprendiamo così che in questo passo si trova an­che l'invocazione d'amore del Figlio Padre: Abbà (Me 14,36). Paolo vede in questo grido la preghiera che lo Spirito Santo pone sulle nostre labbra (Rm 8,15; Gal 4,6) e àncora così la nostra preghiera spiri­tuale alla preghiera del Signore sul monte degli Ulivi.

Nella liturgia della Chiesa la prostratìo appare oggi in due occasioni: il venerdì santo e nelle consacrazio­ni. Il venerdì santo, giorno della crocifissione, essa è espressione adeguata del nostro sconvolgimento per il fatto di essere, con i nostri peccati, corresponsabili della morte in croce di Cristo. Ci gettiamo a terra e prendiamo parte alla sua angoscia, alla sua discesa nell'abisso del bisogno. Ci gettiamo a terra e ricono­sciamo così dove siamo e chi siamo: caduti, che solo Lui può sollevare. Ci gettiamo a terra come Gesù da­vanti al mistero della presenza potente di Dio, sapen­do che la croce è il vero roveto ardente, il luogo della fiamma dell'amore di Dio, che brucia, ma non di­strugge. In occasione delle consacrazioni questo ge­sto esprime la consapevolezza della nostra assoluta"' incapacità di accogliere con le sole nostre forze il compito sacerdotale di Gesù Cristo, di parlare con il suo Io. Mentre i candidati all'ordinazione giacciono a terra, l'intera comunità radunata canta le litanie dei santi. Resta per me indimenticabile questo gesto compiuto in occasione della mia ordinazione sacerdo­tale ed episcopale. Quando venni consacrato vescovo la percezione bruciante della mia insufficienza, del­l'inadeguatezza davanti alla grandezza del compito fu forse ancora più grande che in occasione della mia ordinazione sacerdotale. Fu per me meravigliosamen­te consolante sentire la Chiesa orante invocare tutti i santi, sentire che la preghiera della Chiesa mi avvol-

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geva e mi abbracciava fisicamente. Nella propria in­capacità, che doveva esprimersi corporeamente in questo stare prostrati, questa preghiera, questa pre­senza di tutti i santi, dei vivi e dei morti, era una for­za meravigliosa, e solo essa poteva sollevarmi, solo lo stare in essa poteva rendere possibile la strada che mi stava davanti.

In secondo luogo bisogna ricordare il gesto del ca­dere ai piedi, che nei Vangeli è indicato quattro volte (Me 1,40; 10,17; Mt 17,14; 27,29) con il termine gonypetein. Partiamo da Me 1,40. Un lebbroso va da Gesù e gli chiede aiuto; si getta ai suoi piedi e gli di­ce: «Se tu vuoi, puoi guarirmi». Qui è difficile valuta­re la portata di questo gesto. Non si tratta sicuramente di un vero atto di adorazione, ma di una preghiera espressa con fervore, anche con il corpo, in cui le pa­role manifestano una fiducia nella potenza di Gesù che va al di là della dimensione puramente umana. È diverso il caso dell'espressione classica dell'adorazio­ne in ginocchio - proskynein. Scelgo ancora una volta due esempi per chiarire la questione che si pone al tra­duttore. Anzitutto la storia di Gesù che, dopo la molti­plicazione dei pani, sosta sulla montagna, in colloquio con il Padre, mentre i discepoli lottano invano sul ma­re con il vento e le onde. Gesù va verso di loro sulle acque; Pietro gli si affretta incontro, ma impaurito, sprofonda nelle acque e viene salvato dal Signore. Ge­sù, allora, sale sulla barca e il vento si placa. Il testo, poi, prosegue: ma i discepoli sulla barca «gli si pro­strarono davanti» e dissero: «veramente tu sei il Figlio di Dio!» (Mt 14,33). Precedenti traduzioni scriveva­no: i discepoli adorarono Gesù sulla barca e dissero... Ambedue le traduzioni sono giuste, ambedue mettono in rilievo un aspetto di ciò che accade: quelle recenti l'espressione corporale, quelle più antiche l'avveni-

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mento interiore. Difatti, dalla struttura del racconto si desume con estrema chiarezza che il gesto del ricono­scimento di Gesù come Figlio di Dio è adorazione. Anche nel Vangelo di Giovanni incontriamo una simi­le problematica, nel racconto della guarigione del cie­co nato. Questa storia, costruita teo-drammaticamen-te, si conclude in un dialogo tra Gesù e la persona sa­nata, che può essere considerato il prototipo del dialo­go di conversione; inoltre, l'intera storia deve essere intesa come una spiegazione interiore dell'importanza esistenziale e teologica del battesimo. In questo dialo­go Gesù aveva chiesto all'uomo se credeva nel figlio dell'Uomo. Alla domanda del cieco nato: «Chi è, Si­gnore?» e alla risposta di Gesù: «Colui che ti parla», segue la professione di fede: «Io credo, Signore! Ed egli si prostrò davanti a lui» (Gv 9,35-38). Traduzioni precedenti avevano scritto: «ed egli lo adorò». Di fat­to, tutta la scena mira all'atto di fede e di adorazione di Gesù, che ne segue: ora non sono aperti solo gli oc­chi dell'amore, ma anche quelli del cuore. L'uomo è diventato davvero vedente. Per l'interpretazione del testo è importante osservare che nel Vangelo di Gio­vanni la parola proskynein ricorre undici volte, di cui nove nel dialogo di Gesù con la Samaritana, presso il pozzo di Giacobbe (Gv 4,19-24). Questa conversazio­ne è tutta dedicata al tema dell'adorazione ed è fuori discussione che qui, come del resto in tutto il Vangelo di Giovanni, la parola ha sempre il significato di «adorare». Anche questo dialogo si conclude comun­que - come quello con il cieco sanato - con l'autori­velazione di Gesù: «Sono io, che ti parlo».

Mi sono trattenuto a lungo su questo testo perché in esso compare qualcosa di importante. Nei due passi qui approfonditi il significato spirituale e quello cor­poreo della parola proskynein non sono affatto separa-

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bili. Il gesto corporale è, come tale, portatore di un senso spirituale - quello, appunto, dell'adorazione, senza del quale esso resterebbe privo di significato -mentre, a sua volta, il gesto spirituale, per sua stessa natura, in forza dell'unità fisico-spirituale della perso­na umana, deve esprimersi necessariamente nel gesto corporale. Ambedue gli aspetti sono integrati in una sola parola perché si richiamano intimamente l'un l'altro. Quando l'inginocchiarsi diventa pura esteriori­tà, semplice atto corporeo, diventa privo di senso; ma anche quando si riduce l'adorazione alla sola dimen­sione spirituale senza incarnazione, l'atto dell'adora­zione svanisce, perché la pura spiritualità non esprime l'essenza dell'uomo. L'adorazione è uno di quegli atti fondamentali che riguardano l'uomo tutto intero. Per questo il piegare le ginocchia alla presenza del Dio vi­vo è irrinunciabile.

Con ciò siamo già arrivati al tipico atteggiamento dell'inginocchiarsi su uno o su ambedue i ginocchi. Nell'Antico Testamento ebraico alla parola berek (gi­nocchio) corrisponde il verbo barak, inginocchiarsi. Le ginocchia erano per gli ebrei un simbolo di forza; il piegarsi delle ginocchia è quindi il piegarsi della no­stra forza davanti al Dio vivente, riconoscimento che tutto ciò che noi siamo, lo abbiamo da Lui. Questo ge­sto appare in importanti passi dell'Antico Testamento come* espressione di adorazione. In occasione della consacrazione del tempio, Salomone «si inginocchiò davanti a tutta l'assemblea di Israele» (2Cr 6,3). Dopo l'esilio, nella situazione di bisogno in cui venne a tro­varsi Israele dopo il ritorno in patria, Esdra ripete lo stesso gesto all'ora del sacrificio della sera: «Poi cad­di in ginocchio e stesi le mani al mio Signore e pregai il Signore, mio Dio» (Esdra 9,5). Il grande salmo del­la Passione («Mio Dio, mio Dio perché mi hai abban-

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donato») si conclude con la promessa: «Davanti a Lui si piegheranno tutti i potenti della terra, davanti a Lui si prostreranno quanti dormono sotto terra» (Sai 22,30). Rifletteremo sul passo affine di Is 45,23 in contesto neotestamentario. Gli Atti degli Apostoli ci raccontano della preghiera in ginocchio di san Pietro (9,40), di san Paolo (20,36) e di tutta la comunità cri­stiana (21,5). Particolarmente importante per la nostra questione è il racconto del martirio di santo Stefano. Il primo martire cristiano viene presentato nella sua sof­ferenza come perfetta imitazione di Cristo, la cui pas­sione si ripete nel martirio del testimone fin nei parti­colari. Stefano, in ginocchio, fa così sua la preghiera del Cristo crocifisso: «Signore non imputare loro que­sto peccato» (At 7,60). Ricordiamo in proposito che Luca, a differenza di Matteo e di Marco, aveva parlato della preghiera in ginocchio del Signore sul monte de­gli Ulivi e osserviamo, quindi, che Luca vuole che l'inginocchiarsi del protomartire sia inteso come un entrare nella preghiera di Gesù. L'inginocchiarsi non è solo un gesto cristiano, è un gesto cristologico. Il pas­so più importante sulla teologia dell'inginocchiarsi è e resta per me il grande inno cristologico di Fil 2,6-11. In questo inno prepaolino ascoltiamo e vediamo la preghiera della Chiesa apostolica e riconosciamo la sua professione di fede; ma sentiamo anche la voce dell'Apostolo, che è entrato in questa preghiera e ce l'ha tramandata; torniamo ancora una volta a percepi­re la profonda unità interiore di Antico e Nuovo Testa­mento, così come l'ampiezza cosmica della fede cri­stiana. L'inno ci presenta Cristo in contrapposizione al primo Adamo: mentre questi cerca di arrivare alla di­vinità con le sole sue forze, Cristo non considera co­me un «tesoro geloso» la divinità, che pure gli è pro­pria, ma si abbassa fino alla morte di croce. Proprio questa umiltà, che viene dall'amore, è il propriamente

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divino e gli procura il «nome che è al di sopra di tutti i nomi», «perché tutti, in cielo e sulla terra e sotto terra, pieghino le loro ginocchia davanti al nome di Ge­sù...». L'inno della Chiesa apostolica riprende qui la parola profetica di Isaia 45,23: «Lo giuro su me stes­so, dalla mia bocca esce la verità, una parola irrevoca­bile: davanti a me si piegherà ogni ginocchio...». Nel­la compenetrazione di Antico e Nuovo Testamento è chiaro che Gesù, proprio in quanto è il Crocifisso, porta il «nome che è al di sopra di tutti i nomi» - il nome dell'Altissimo - ed è Egli stesso di natura divi­na. Per mezzo di Lui, il Crocifisso, si compie la profe­zia dell'Antico Testamento: tutti si pongono in ginoc­chio davanti a Gesù, Colui che è asceso, e si piegano così davanti all'unico vero Dio, al di sopra di tutti gli dei. La croce è divenuta il segno universale della pre­senza di Dio, e tutto ciò che noi abbiamo finora udito sulla croce storica e cosmica, deve trovare qui il suo vero senso. La liturgia cristiana è proprio per questo liturgia cosmica, per il fatto che essa piega le ginoc­chia davanti al Signore crocifisso e innalzato. È que­sto il centro della vera «cultura» - la cultura della ve­rità. Il gesto umile con cui noi cadiamo ai piedi del Si­gnore, ci colloca sulla vera via della vita, in armonia con tutto il cosmo.

Si potrebbe aggiungere ancora molto, come, per esempio, la commovente storia che ci racconta Euse­bio di Cesarea nella sua storia ecclesiastica, ripren­dendo una tradizione che risale a Egesippo (II secolo), secondo cui Giacomo, il «fratello del Signore», primo vescovo di Gerusalemme e «capo» della Chiesa giu­deo-cristiana, aveva sulle ginocchia una sorta di pelle di cammello per il fatto che stava sempre in ginoc­chio, adorava Dio e implorava perdono per il suo po­polo (II, 23, 6). Oppure il racconto tratto dalle senten-

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ze dei Padri del deserto, secondo cui il diavolo fu co­stretto da Dio a mostrarsi a un certo abate Apollo, e il suo aspetto era nero, orribile a vedersi, con delle membra spaventosamente magre e, soprattutto: non aveva le ginocchia. L'incapacità a inginocchiarsi ap­pare addirittura come l'essenza stessa del diabolico.

Ma non voglio andare troppo in là. Vorrei aggiun­gere solo un'osservazione: l'espressione con cui Luca descrive l'atto di inginocchiarsi dei cristiani (theis ta gonata) è sconosciuta al greco classico. Si tratta di una parola specificamente cristiana. Con questa osser­vazione il cerchio si chiude là dove avevamo comin­ciato le nostre riflessioni. Può forse essere vero che l'inginocchiarsi è estraneo alla cultura moderna - ap­punto nella misura in cui si tratta di una cultura che si è allontanata dalla fede e che non conosce più colui di fronte al quale inginocchiarsi è il gesto giusto, anzi quello interiormente necessario. Chi impara a credere, impara a inginocchiarsi; una fede o una liturgia che non conoscano più l'atto di inginocchiarsi, sono am­malate in un punto centrale. Dove questo gesto è an­dato perduto, dobbiamo nuovamente apprenderlo, così da rimanere con la nostra preghiera nella comunione degli apostoli e dei martiri, nella comunione di tutto il cosmo, nell'unità con Gesù Cristo stesso.

Stare in piedi e sedersi. Liturgia e cultura

Trattando di questi due atteggiamenti possiamo es­sere molto più brevi, perché oggi non sono messi in discussione e il loro significato è anche facile da capi­re. Nell'Antico Testamento lo stare in piedi è un clas­sico atteggiamento di preghiera. Accontentiamoci di un esempio, quello della preghiera di Anna, la donna sterile, che grazie alla sua preghiera diventa madre di

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Samuele; nel Nuovo Testamento Luca tratteggia Eli­sabetta, la madre di Giovanni Battista, con caratteristi­che che ricordano Anna. Dopo lo svezzamento del fanciullo Samuele la madre felice giunge al tempio per offrire al Signore il figlio della promessa. Essa ri­corda al sommo sacerdote Eli quello che era allora av­venuto, con le parole: «Io sono quella donna che era stata qui, presso di te, a pregare il Signore» (ISam 1,26). Tutta una serie di testi neotestamentari ci mo­stra che al tempo di Gesù lo stare in piedi era l'atteg­giamento di preghiera comune dei Giudei (Mt 6,5; Me 11,25; Le 18,llss). Presso i cristiani lo stare in piedi era soprattutto la forma pasquale della preghiera; il canone XX del concilio di Nicea prescriveva che i cri­stiani, durante il tempo di Pasqua, non dovessero ingi­nocchiarsi, ma stare in piedi. E il tempo della vittoria di Gesù Cristo, il tempo della gioia, in cui noi rappre­sentiamo la vittoria pasquale del Signore anche nel­l'atteggiamento della nostra preghiera. Ciò può anche ricordarci la passione di Stefano che, di fronte alla fu­ria dei suoi avversari, guarda verso il cielo e vede Ge­sù alla destra del Padre. Lo stare in piedi è il gesto del vincitore. Gesù sta alla presenza del Padre - sta per­ché ha sconfitto la morte e la potenza del male. Alla fine della battaglia egli è il diritto, colui che rimane in piedi. Questo suo stare è anche espressione di disponi­bilità: Cristo si è innalzato alla destra di Dio per ve­nirci incontro. Non si è ritirato - intercede per noi, e noi, proprio nell'ora della tribolazione, possiamo es­sere sicuri che egli verrà verso di noi, così come una volta è venuto dal Padre ed è andato incontro sulle ac­que ai suoi discepoli, la cui barca non era in grado di reggere il vento e le onde. Nello stare in piedi ci sap­piamo uniti alla vittoria di Cristo; e quando ascoltia­mo in piedi il Vangelo, lo facciamo per esprimere il ri­spetto: davanti a questa parola non possiamo rimanere

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seduti, essa ci innalza verso l'alto. Essa richiede allo stesso tempo rispetto e coraggio, la volontà di mettersi in cammino per adempiere la sua chiamata, per farla penetrare nella nostra vita e nel nostro mondo.

Qui può esserci di aiuto anche un altro ricordo. Dai dipinti delle catacombe conosciamo l'immagine del­l'Orante, quella figura femminile che prega stando in piedi con le braccia spalancate. Secondo gli studi più recenti l'Orante non rappresenta tanto la Chiesa in preghiera, ma l'anima che è giunta alla gloria celeste e che ora sta in adorazione davanti al volto di Dio. Due cose sono importanti: l'anima è quasi sempre presentata come una donna, perché lo specifico del­l'umanità davanti a Dio viene ad esprimersi nella fi­gura femminile: l'elemento sponsale in riferimento al­le nozze eterne; oltre a ciò, la pronta accoglienza della1

grazia che ci viene donata. L'altro dato: qui non viene rappresentata la liturgia terrena, la liturgia del pelle­grinaggio, ma la preghiera nella gloria*. Così, a partire dalla figura dell'Orante diventa ancora una volta chia­ro che il pregare stando in piedi è un gesto che antici­pa ciò che sarà, la gloria che verrà; è lì che questo ge­sto vuole orientarci. Proprio nella misura in cui la pre­ghiera liturgica è anticipazione della promessa, essa implica lo stare in piedi; ma proprio per il fatto che essa rimane nel «frattempo» in cui noi viviamo, l'in­ginocchiarsi resta nella liturgia espressione inelimina­bile del nostro «qui ed ora».

La liturgia conosce, infine, il gesto di stare seduti durante le letture, durante la predica e nella medita­zione della parola (canto dei salmi ecc.). In questa se­de si può tralasciare di discutere se questo gesto sia anche appropriato per la presentazione dei doni. Lo si è introdotto in tempi recentissimi in forza di una de­terminata comprensione di questa parte della santa li-

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turgia, a cui si voleva togliere ogni carattere sacrale, per vederla come una pura azione pragmatica. Non è questo il luogo per aprire una polemica su questo ar­gomento; sono necessarie nuove riflessioni, anche nel senso di una teologia che metta a confronto i diversi riti. Lo stare seduti deve servire al raccoglimento; il corpo deve rilassarsi così che l'ascolto e la compren­sione siano compiutamente facilitati.

Oggi (e in molti modi già in precedenza) si possono osservare strane forme di mescolanza dei diversi at­teggiamenti. Lo stare seduti viene qua e là avvicinato alla posizione del fiore di loto propria della religiosità indiana, vista come l'atteggiamento meditativo per ec­cellenza. Ora, io non intendo escludere a priori per un cristiano l'adozione di tale modo di sedere, utilizzato del resto presso di noi in maniere diverse, ma esso non fa comunque parte della liturgia. Proprio perché si cerca di comprendere il linguaggio interiore dei ge­sti, si può anche comprendere la sua origine e il suo orientamento spirituale. Nell'atto di inginocchiarsi l'uomo si piega, ma il suo sguardo va in avanti e ver­so l'alto, così come nello stare in piedi, va, cioè, verso ciò che sta di fronte. È diretto a colui che ci guarda e a cui noi cerchiamo di guardare, secondo la parola della lettera agli Ebrei: Fissiamo dunque lo sguardo su Ge­sù, autore e perfezionatore della fede (12,3; cfr. 3,1). Tenere lo sguardo fisso su Gesù: è divenuto poi uno dei motivi dominanti dell'insegnamento dei Padri sul­la preghiera che, in ciò, riprendono il motivo anticote-stamentario del «cercare il Tuo volto». L'orante guar­da, oltre se stesso, a Colui che è al di sopra di lui e che va verso di lui, a cui egli cerca a sua volta di giun­gere con la sua preghiera contemplativa, per arrivare così all'unità festosa con lui. Nella posizione medita­tiva orientale le cose stanno diversamente. L'uomo

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guarda dentro se stesso. Non va via da se stesso verso l'altro, ma vuole sprofondarsi nell'interiorità, nel Nul­la, che è allo stesso tempo il Tutto. Indubbiamente, anche la tradizione cristiana conosce il Dio che è più intimo a noi di noi stessi - il Dio che noi cerchiamo proprio cessando di vagare in ciò che è esteriore .e ad­dentrandoci in noi stessi, per ritrovare nel profóndo della nostra interiorità noi stessi e il nostro fondamen­to più interiore. In questo senso ci sono comunque dei ponti tra l'uno e l'altro atteggiamento. Proprio nel no­stro empirismo e pragmatismo, nella perdita dell'ani­ma, abbiamo nuovamente motivo di imparare dall'A­sia. Ma per quanto la fede cristiana sia e debba essere aperta alla saggezza dell'Asia, resta la differenza tra la concezione personale di Dio e quella impersonale. E a partire da qui si deve dire che l'inginocchiarsi e lo stare in piedi sono in maniera unica e insostituibile gli atteggiamenti di preghiera propriamente cristiani, at­traverso cui si esprime l'essere rivolti al volto di Dio, allo sguardo di Gesù Cristo, vedendo Lui noi possia­mo vedere il Padre (Gv 14,9).

La danza non è una forma di espressione della litur­gia cristiana. Nel terzo secolo circoli gnostico-doceti hanno cercato di introdurla nella liturgia cristiana. Per essi la crocifissione non era che apparenza: prima del­la Passione Cristo aveva lasciato il corpo da lui mai realmente fatto proprio; per questo in luogo della li­turgia della croce poteva subentrare la danza, dato che la croce era stata solo apparenza. Le danze cultuali delle diverse religioni hanno diverse finalità - scon­giuro, incantesimo analogico, estasi mistica; nessuna di queste forme corrisponde all'orientamento interiore della liturgia del «sacrificio conforme alla parola». È del tutto contraddittorio, nel tentativo di rendere la li­turgia più «attraente», introdurvi delle pantomime in

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forma di danza - dove è possibile tramite gruppi di danzatori professionisti -, che spesso finiscono poi negli applausi (cosa peraltro corretta se rapportata al loro talento artistico in senso stretto). Là, dove irrom­pe l'applauso per l'opera umana nella liturgia, si è di fronte a un segno sicuro che si è del tutto perduta l'es­senza della liturgia e la si è sostituita con una sorta di intrattenimento a sfondo religioso. Tale attrattiva non dura a lungo; sul mercato delle offerte per il tempo li­bero, che assume sempre più forme del religioso per stuzzicare la curiosità del pubblico, non si regge la concorrenza. Io stesso ho assistito a una celebrazione in cui l'atto penitenziale è stato sostituito con una rap­presentazione danzante che, come ovvio, si è conclusa con un grande applauso; ci si poteva, però, allontanare maggiormente da ciò che è davvero la penitenza? La liturgia può attirare le persone solo se non guarda a se stessa, ma a Dio; se Gli permette di essere presente e di agire. Allora accade ciò che è veramente straordina­rio, senza concorrenza, e- le persone sentono che qui accade qualcosa di più di una semplice organizzazio­ne del tempo libero. Nessun rito cristiano conosce la danza. Quel che nel rito etiopico o nella forma zairese della liturgia romana è così chiamato, è in realtà un procedere ritmicamente ordinato, che è conforme alla dignità di quanto viene intrapreso, che riprende e ordi­na strade diverse disciplinandole interiormente nella liturgia, conferendo loro bellezza e, soprattutto, digni­tà divina. È diversa la questione quando non si tratta della liturgia, ma della pietà popolare. Qui non di rado si trovano integrate nel mondo della fede antiche for­me di espressione religiosa che, in quanto tali, non si adattavano alla liturgia. Alla pietà popolare deve esse­re riconosciuta un'importanza particolare come ponte tra la fede e le diverse culture. Essa è di per se stessa direttamente debitrice di ciascuna cultura. La pietà

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popolare dilata il mondo della fede e gli conferisce la sua vitalità in ogni contesto di vita. Essa è meno uni- i versale della liturgia, che nell'unità della fede unisce tra di loro grandi spazi e abbraccia culture differenti; le singole forme della pietà popolare distano quindi tra di loro più di quanto non avvenga perle liturgie, ma incarnano comunque l'umanità concreta dell'uo--mo, che, al di là delle culture diverse, resta sempre si­mile sia pure nella diversità delle forme. In Europa <

uno degli esempi più noti è la processione primaverile di Echternach. Nel Cile settentrionale ho avuto una volta l'occasione di partecipare in un piccolo santua­rio nel mezzo del deserto a una celebrazione mariana, a cui seguiva una danza all'aperto in onore della Ma­donna, con costumi che mi sembravano piuttosto spa­ventosi. Sicuramente alla base di questa danza c'erano antichissime tradizioni precolombiane. Ciò che un tempo era stato impregnato della spaventevole serietà davanti alla potenza degli dei, era ora liberato, era di­venuto un omaggio all'umile donna che può essere chiamata Madre di Dio e che è il fondamento della nostra fiducia. Diverso ancora è poi il fatto che, dopo la liturgia, la gioia prima raccolta sfoci in una festa «mondana», che si esprime nel mangiare e nel danza­re insieme, ma che nel contempo non perde di vista iì fondamento della gioia, che, del resto, è quello che le conferisce anche la sua misura e la sua ragion d'ess'e-v

re. Questo legame tra liturgia e serena e gioiosa mon­danità («Chiesa e osteria») è sempre stato considerato tipicamente cattolico e lo è per davvero.

A questo punto è facile comprendere Ufia breve os­servazione sul tema liturgia e inculturazione, che in questa sede non può essere affrontato in tutta la sua ampiezza e profondità, ma che neppure può essere tra­lasciato del tutto. Oggi la liturgia appare dappertutto

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come il campo di prova degli esercizi di inculturazio-ne. Quando si parla di inculturazione, si pensa solo al­la liturgia, che deve perciò subire tristi deformazioni, sotto il cui peso si trovano spesso a gemere coloro che vi prendono parte e in nome dei quali tutto questo av­viene. L'inculturazione che si riduce, di fatto, solo a .un cambiamento di forme esteriori, non è affatto in­culturazione, ma il suo fraintendimento. Inoltre, essa finisce spesso per offendere le comunità culturali e re­ligiose dalle quali con modalità troppo superficiale ed esteriore vengono prese in prestito delle forme liturgi­che. La prima e fondamentale modalità dell'incultura­zione è lo sviluppo di una cultura cristiana nelle sue diverse dimensioni: una cultura della reciprocità, del­l'assistenza sociale, del rispetto dei deboli, del supera­mento delle differenze di classe, della cura per i soffe­renti e i moribondi; una cultura che sa porre nel giusto rapporto la formazione della ragione e del cuore; una cultura politica e una cultura giuridica; una cultura del dialogo, del rispetto della vita... Tale vera incultura­zione del cristianesimo origina poi anche la cultura nel senso stretto della parola, conduce, cioè, all'opera artistica, che interpreta nuovamente il mondo nella lu­ce di Dio. La cultura - in questo i Greci hanno avuto davvero ragione - è soprattutto educazione, intenden­do questa parola nel suo senso più profondo come apertura interiore dell'uomo alle sue possibilità, in cui egli può sviluppare anche le sue potenzialità esteriori conformemente alle sue doti. In ambito religioso la cultura si dimostra soprattutto nella crescita di un'au­tentica pietà popolare. Il fatto che in America Latina, malgrado tutti gli errori della missione cristiana e tut­to ciò che ancora resta da fare, la fede cristiana abbia piantato radici profonde nelle anime, lo si vede nella pietà popolare, in cui il mistero di Cristo è divenuto vicinissimo all'uomo, Cristo è divenuto veramente lo-

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ro. Pensiamo alla devozione alla passione di Cristo in cui questi popoli sofferenti, dopo le terrificanti divini-' tà del loro passato, hanno con riconoscenza compreso il Dio compassionevole come risposta alla loro più profonda attesa. Pensiamo alla pietà mariana, in cui viene profondamente sperimentato tutto il mistero dell'Incarnazione, la tenerezza di Dio e il coinvolgi­mento dell'uomo nell'essenza stessa di Dio, l'essenza dell'agire di Dio. La pietà popolare è Vhumus senza cui la liturgia non può prosperare. Essa è stata pur­troppo disprezzata o addirittura calpestata da parti del movimento liturgico e in occasione della riforma ve­nuta dopo il Concilio. Al contrario, bisogna amarla, se necessario, purificarla e guidarla, ma accoglierla sem­pre con grande rispetto, come la modalità con cui la fede è stata accolta nel cuore dei popoli, persino quan­do essa appare estranea o estraniante. Essa è il sicuro radicamento interiore della fede; dove essa si prosciu­ga, il razionalismo e il settarismo hanno facile gioco. Dalla pietà popolare possono anche essere tratti ele­menti provati per la configurazione della liturgia, sen­za agire frettolosamente, in un processo paziente di lenta maturazione. Del resto, la liturgia ha sempre avuto uno specifico carattere culturale, senza manipo­lazioni del rito, ma mediante la modalità stessa della celebrazione. Una liturgia celebrata in un villaggio dell'Alta Baviera appariva del tutto diversa da una funzione solenne in una cattedrale francese; questa, a sua volta, era diversa da una messa celebrata in una parrocchia dell'Italia meridionale, o, aneora, su lin villaggio di montagna delle Ande, e così via. Orna­mento e configurazione dell'altare, e di tutto lo spazio della Chiesa, il servizio liturgico, il modo di cantare e di pregare: tutto questo dava alla liturgia una sua par­ticolare fisionomia, così che in essa ci si sentiva dav­vero e fino in fondo a casa propria. E tuttavia la si po-

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teva sperimentare dovunque come l'unica e la medesi­ma, percependo così la grande comunione della fede. L'unità del rito dona l'esperienza reale della commu­nio; dove esso è interiormente rispettato e allo stesso tempo percepito nella sua vitalità, la molteplicità e l'unità non sono più in contrapposizione.

4. Gesti

Il gesto più antico della cristianità sono le mani al­largate verso l'alto, 1'«atteggiamento dell'orante», in cui ci siamo già imbattuti poco fa. Si tratta di uno dei gesti originari dell'uomo che invoca Dio ed è pratica­mente presente in tutte le religioni. Esso è anzitutto espressione dell'assenza di violenza, un gesto di pace: l'uomo apre le sue mani e si apre così all'altro. E an­che un gesto di ricerca e di speranza: l'uomo si allun­ga nell'invocazione del Dio nascosto, si distende in­contro a lui. Le mani così aperte sono state poste in relazione con l'immagine delle ali: l'uomo cerca l'al­tezza, vuole lasciarsi innalzare da Dio sulle ali della preghiera. Per i cristiani le braccia spalancate hanno però anche un significato cristologia): ci ricordano le braccia di Cristo distese sulla croce. Il Crocifisso ha dato una nuova profondità a questo gesto di preghiera così originariamente umano. Spalancando le braccia, preghiamo il Crocifisso, facciamo nostri i suoi «senti­menti» (Fil 2,5). Nelle braccia di Cristo spalancate sulla croce i cristiani hanno visto due significati: c'è anche in Lui, anzi proprio in Lui, la forma radicale di adorazione, quella dell'unità della volontà umana con la volontà del Padre, ma, allo stesso tempo, queste braccia sono aperte verso di noi, sono il grande ab­braccio con cui Cristo ci vuole attirare verso di sé (Gv 12,32). Adorazione di Dio e amore del prossimo - il

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contenuto del comandamento principale, in cui sono riassunti la legge e i profeti - si trovano compenetrati in questo gesto; l'apertura a Dio, la piena unione con Lui, è insieme inscindibile dedizione al prossimo. Questa compenetrazione di ambedue gli orientamenti che si trova nel gesto di Cristo sulla croce, rende cor­poralmente visibile la nuova profondità della preghie­ra cristiana ed esprime così la legge interiore della no­stra preghiera.

Il gesto delle mani giunte è nato invece in epoca successiva, nella società feudale; colui che veniva in­vestito di un feudo poneva le sue mani, giunte, nella mano del signore, con un gesto di straordinario valore simbolico: io metto le mie mani nelle tue, le lascio racchiudere dalle tue. Si tratta di un'espressione di fi­ducia e di fedeltà. Questo gesto si è mantenuto nel­l'ordinazione sacerdotale. Colui che è appena stato consacrato riceve l'incarico sacerdotale come una in­vestitura. Non è, infatti, sacerdote da se stesso, non per un suo potere e una sua capacità, ma in forza di un dono del Signore, che resta sempre dono e non diven­ta sua proprietà, un suo potere personale. Il novello sacerdote riceve il dono e l'incarico del sacerdozio come dono di un altro - di Cristo - e sa di poter e do<-ver essere solo un «amministratore dei misteri di Dio» (ICor 4,1), «un buon amministratore della multiforme grazia di Dio» (lPt 4,10). Per diventarlo deve impe­gnare tutta la sua esistenza. E ciò avviene solo nella comune «casa di Dio» (Eb 3,2-6), nella Chiesa, in cui il vescovo, in luogo di Cristo stesso, riceve la singola persona nel sacerdozio, in un rapporto di fedeltà a Cristo. Quando il candidato al sacerdozio pone le sue mani giunte nelle mani del vescovo e gli promette ri­spetto e obbedienza, egli offre il suo servizio alla Chiesa come corpo vivente di Cristo, pone le sue ma-

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ni nelle mani di Cristo, si affida a Lui e gli dà le pro­prie mani perché siano le sue. Ciò che nel feudalesi­mo può essere criticabile, in quanto forma di potere umano che può essere giustificata solo come rappre­sentanza e fedeltà al vero Signore, riceve il suo vero significato nel rapporto del credente con Cristo, il Si­gnore. Quando noi, pregando, allarghiamo le nostre mani verso l'alto, esprimiamo questo proposito: po­niamo le nostre mani nelle Sue, poniamo con le nostre rriani il nostro destino nella sua mano; affidandoci alla Sua fedeltà Gli promettiamo la nostra.

Dell'inginocchiarsi come gesto di preghiera abbia­mo già parlato in precedenza. A integrazione di quan­to detto vorrei, a questo punto, citare anche il gesto dell'inchinarsi. Una delle preghiere sulle offerte del canone romano (prima preghiera eucaristica) comin­cia con le parole «supplices»: letteralmente «profon­damente inchinati». Qui, ancora una volta, i gesti cor­porei e l'evento spirituale vanno inseparabilmente di pari passo. È il gesto del pubblicano, che sa di non po­tere sostenere lo sguardo del Signore e che, proprio per questo, si piega. E tuttavia questa preghiera im­plora che la nostra offerta giunga davanti al volto di Dio, al suo cospetto, e diventi per noi una benedizio­ne. Dal profondo della nostra insufficienza noi implo­riamo Dio perché ci rialzi, ci renda capaci di guardar­lo e ci renda tali che Egli ci guardi. Il «supplices» -piegati profondamente - è quindi l'espressione corpo­rea di ciò che la Bibbia chiama «umiltà» (Fil 2,8: Egli si è umiliato). Per i Greci l'umiltà era un atteggiamen­to servile, da rifiutare da un libero. L'inversione di va­lóri portata dal cristianesimo vi vede qualcosa di di­verso. L'umiltà, proprio come adeguazione all'essere delle cose, come corrispondenza alla verità dell'uo­mo, diventa ora un atteggiamento fondamentale del-

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l'esistenza cristiana. Agostino ha costruito tutta la sua cristologia - ma potrei dire: la sua apologia del cri-' stianesimo - sul concetto di humilitas (umiltà): poteva ricollegarsi al sapere degli antichi, più precisamente a quello del mondo greco-romano, alla loro percezione che Yhybris - la superbia che glorifica se stessa - è il peccato per eccellenza, come ci appare esemplarmen­te nella storia della caduta di Adamo. La superbia, che è falsità dell'essere, in cui l'uomo si fa Dio, è superata nell'umiltà di Dio, che rende se stesso servo, che si piega fino a noi. Chi vuole arrivare vicino a Dio, deve guardare in alto - è essenziale. Ma deve anche impa­rare a inchinarsi, poiché Dio stesso si è inchinato: è nel gesto dell'amore umile, nella lavanda dei piedi, in cui egli si china ai nostri piedi, che noi Lo troviamo. Ecco perché il «supplices» è un gesto di grande pro­fondità; esso ci ricorda fisicamente quell'atteggiamen­to spirituale che è essenziale alla fede. È sorprendente come molte traduzioni moderne abbiano semplice­mente tralasciato l'espressione «supplices». Forse ri­tenevano non importante l'espressione corporea che, così, è di fatto scomparsa; forse la consideravano an­che sconveniente per un uomo moderno. Piegarsi da­vanti agli uomini per ottenere il loro favore è realmen­te qualcosa di sconveniente. Ma piegarsi davanti a Dio non è mai «non moderno», perché è qualcosa che corrisponde alla verità del nostro essere. E se l'uomo moderno l'ha dimenticato, allora è tanto più compito nostro, come cristiani di oggi, apprenderlo nuovamen­te e insegnarlo anche ai nostri contemporanei.

La storia appena ricordata del fariseo e del pubbli­cano ha trasmesso alla cristianità un altro gesto: il bat­tersi il petto. Questo gesto doveva essere molto amato nell'Africa settentrionale di sant'Agostino e doveva essere praticato in maniera eccessiva e molto esterio-

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re, se il vescovo di Ippona arriva ad ammonire con sottile ironia i suoi fedeli perché moderino il loro «la­stricare i peccati». Ma questo gesto, con cui noi addi­tiamo noi stessi, e non gli altri, come peccatori, resta un significativo gesto di preghiera. Infatti appunto di questo continuiamo ad avere bisogno, di riconoscere noi stessi come colpevoli e di implorare quindi il per­dono. Con il Mea culpa («per mia colpa») ci ritiriamo in noi stessi, davanti alla nostra stessa porta, e possia­mo a buon diritto chiedere il perdono a Dio, ai santi e a coloro che si raccolgono intorno a noi, verso i quali ci siamo resi colpevoli. Con VAgnus Dei («Agnello di Dio») guardiamo a colui che è il pastore e che è dive­nuto per noi l'agnello, che come agnello ha portato le nostre colpe; è quindi giusto battersi il petto in questo momento e ricordarci, anche corporeamente, che le nostre colpe hanno pesato sulle sue spalle, che «attra­verso le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,5).

5. La voce umana

E chiaro che nella liturgia del Logos - della Parola eterna - la parola e quindi anche la voce dell'uomo hanno una parte essenziale. In questo piccolo libro, in cui non propongo un'introduzione alla prassi liturgica ma delle riflessioni sullo'spirito della liturgia, non c'è bisogno di trattare le singole forme con cui la voce dell'uomo interviene nella liturgia; in proposito abbia­mo già detto molto nei capitoli precedenti, soprattutto riguardo alla questione della musica sacra. Anzitutto c'è Voratio, la preghiera del sacerdote, in cui egli, a nome di tutta la comunità, si rivolge al Padre per mez­zo di Cristo nello Spirito Santo. Poi ci sono le diverse forme di annuncio: le letture («profeti e apostoli», si diceva nella Chiesa antica, intendendo quindi tutto

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l'Antico Testamento come profezia), il Vangelo (che nelle celebrazioni solenni viene cantato), il commento alla parola letta, che in senso stretto compete al vesco­vo, quindi anche al sacerdote e al diacono. Viene quindi la risposta, con cui la comunità radunata acco­glie e fa sua la parola. Questa struttura di parola e ri­sposta, che per la liturgia è essenziale, costituisce la struttura fondamentale dell'evento ri velati vo come ta­le, in cui parola e risposta, il discorso di Dio e l'ascol­to accogliente della sposa, della Chiesa, si implicano a vicenda. Nella liturgia la risposta ha forme diverse: l'acclamazione, che per l'antica concezione giuridica era di grande importanza. L'acclamazione conferma che la parola è stata accolta e completa così il percor­so della rivelazione, della donazione che Dio fa di se stesso nella parola. È questo il senso dell'Amen, dell'Alleluja, YEt cum spiritu tuo, ecc. Tra le acquisi­zioni importanti del rinnovamento liturgico vi è il fat­to che il popolo torna a rispondere direttamente nel­l'acclamazione, senza la mediazione di un rappresen­tante, e un accolito. Solo così è restaurata la vera struttura liturgica, che, a sua volta, come abbiamo vi­sto, concretizza la struttura fondamentale dell'azione di Dio nella celebrazione liturgica: Dio, Colui che si rivela, non ha voluto rimanere nel solus Deus, nel so-lus Christus, ma si è dato un corpo, ha trovato una sposa: Egli cerca una risposta. Proprio per questo la Parola è venuta. Accanto all'acclamazione ci sono le diverse forme di accoglienza meditativa della Parola, soprattutto nel canto del salmo (ma anche nell'inno), le cui diverse forme (quella responsoriale e quella an-tifonale) non possono qui essere affrontate. E poi c'è il «nuovo inno», il grande canto della Chiesa che va incontro alla musica del cielo nuovo e della terra nuo­va. Per questo insieme con il canto della comunità nella liturgia cristiana trovano posto, per sua stessa es-

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senza, il coro e gli strumenti musicali, un posto che nessun purismo del canto comune può contrastare. A livello locale le possibilità di applicazione saranno certamente molto diverse, ma che la Chiesa nel suo insieme debba aspirare al massimo per Dio, a una cul­tura che diventi un criterio guida anche per le culture mondane, deriva con intrinseca necessità dalla natura stessa della celebrazione liturgica.

Diventiamo sempre più chiaramente consapevoli che la liturgia implica anche il tacere. Al Dio che par­la noi rispondiamo cantando e pregando, ma il mistero più grande, che va al di là di tutte le parole, ci chiama anche a tacere. Deve indubbiamente essere un silenzio pieno, più che un'assenza di parole e di azione. Dalla liturgia noi ci aspettiamo proprio che essa ci dia il si­lenzio positivo in cui noi troviamo noi stessi - il silen­zio che non è semplice pausa, in cui mille pensieri e desideri ci investono, ma raccoglimento che ci dà in­teriormente la pace, ci permette di respirare, scopre ciò che davvero conta. Per questo non si può sempli­cemente «fare» il silenzio, ordinarlo come un'azione tra'le altre. Il fatto che oggi si cerchino dappertutto degli esercizi di immersione in se stessi, una spiritua­lità dello svuotamento, non è certo casuale: qui si ma­nifesta un bisogno interiore dell'uomo che nella forma attuale della nostra liturgia non viene chiaramente ri­spettato nei suoi diritti.

Perché il silenzio sia fecondo, come si è già detto, non-deve trattarsi semplicemente di una pausa nella li­turgia, ma deve essere davvero parte integrale del suo accadere. Come stanno le cose? Negli ultimi tempi si è cercato di introdurre nella liturgia due brevi momen­ti di silenzio che devono portare alla risposta: dappri­ma si propone una breve pausa di riflessione dopo la

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predica, poi, dopo la santa Comunione, vi è il tempo per un possibile raccoglimento interiore. La pausa di silenzio dopo la predica si è dimostrata poco soddisfa­cente; essa si rivela artificiosa, in fondo si aspetta solo che il celebrante riprenda la Messa. Spesso, poi, è la predica stessa a lasciare più domande o contraddizioni che spazio per l'incontro con il Signore. Essa dovreb­be generalmente chiudersi con un'esortazione alla preghiera che dia contenuto a quella breve pausa. Ma anche allora questa resta una pausa nella liturgia e non diventa essa stessa liturgia del silenzio. Più utile e in­teriormente giustificato è il silenzio dopo la Comunio- v

ne: è questo infatti il momento per un colloquio a due con il Signore che si è donato a noi - per il necessario «comunicare», per entrare in quel processo di comu­nicazione senza del quale la comunione esteriore di­venta un puro rito e resta quindi infeconda. Purtroppo anche qui ci si trova spesso di fronte a degli impedi­menti che possono compromettere questo istante, in sé così prezioso: la distribuzione della Comunione va avanti con la confusione dell'andare su e giù, il sacer­dote sente poi il bisogno di procedere celermente con la liturgia, perché non si abbia uno spazio vuoto di at­tesa e di irrequietezza, dal momento che alcuni si pre­parano già ad uscire. Lì dove è possibile, questo mo­mento di silenzio dopo la Comunione dovrebbe essere sfruttato e si dovrebbe offrire ai fedeli uno spunto per la preghiera interiore. Infine, anche la preparazione dei doni è a volte offerta come un momento di silen­zio. È una cosa molto sensata e feconda, se la prepara­zione non è concepita solo come un'azione esteriore necessaria, ma come un essenziale evento interiore, quando si vede che il vero dono del «sacrificio con­forme alla Parola» siamo proprio noi stessi o che, al­meno, dobbiamo esserlo con la nostra partecipazione all'atto con cui Gesù Cristo offre se stesso al Padre e

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di cui si è parlato nella prima parte. Allora questo si­lenzio non è una semplice attesa, finché non sia com­piuto un atto esteriore, ma al processo esteriore corri­sponde un processo interiore: la preparazione di noi stessi; ci mettiamo in cammino, ci presentiamo al Si­gnore; lo preghiamo che ci disponga al cambiamento. Il silenzio comune è allora preghiera comune, anzi, azione comune; è uno stare in cammino dal luogo del­la nostra quotidianità verso il Signore, verso la con­temporaneità con Lui. L'educazione liturgica dovreb­be prevedere il compito di aiutare questo processo in­teriore, perché nella comunione del silenzio esso di­venti davvero evento liturgico e quindi silenzio pieno.

La struttura stessa della liturgia prevede altri mo­menti di silenzio. Anzitutto c'è il silenzio subito dopo l'elevazione delle specie transustanziate. Esso ci invi­ta a rivolgere lo sguardo a Cristo, a guardarlo dal di dentro, in uno sguardo che allo stesso tempo è ringra­ziamento, adorazione e preghiera di trasformazione interiore. Ci sono delle obiezioni oggi di moda che vorrebbero distoglierci dal silenzio dopo l'elevazione. L'ostensione dei doni sarebbe un errore medioevale, mediante il quale si sarebbe arrecato danno alla strut­tura della preghiera eucaristica; sarebbe espressione di una falsa pietà, concepita troppo materialmente, e non sarebbe in armonia con l'orientamento interno del­l'Eucaristia: in essa non è Cristo che deve essere ado­rato, colui a cui ci si rivolge in tutto il canone è piutto­sto il Padre. Non è qui necessario affrontare nei parti­colari queste obiezioni. La risposta essenziale è già stata data nel secondo capitolo con quello che si è det­to sull'adorazione della Santissima Eucaristia e sulla correttezza interna dell'evoluzione medioevale, come sviluppo di quello che fin dall'inizio era presente nel­la fede della Chiesa. È vero che il canone è costruito

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trinitariamente e che quindi si muove nella direzione «per Cristo nello Spirito Santo verso il Padre». Ma la liturgia non conosce qui alcuna rigida cristallizzazio­ne. Il messale riformato del 1970 ci mette sulle labbra il saluto al Signore: «Annunciamo la tua morte, o Si­gnore, proclamiamo la tua resurrezione, nell'attesa della tua venuta». L'istante in cui il Signore scende e trasforma il pane e il vino, così che essi diventano il suo corpo e il suo sangue, deve commuovere interior­mente colui che, nella fede e nella preghiera, prende parte all'eucaristia. Non può quindi esserci altra rea­zione, davanti a questo avvenimento, che mettersi in ginocchio e salutarlo. La trasformazione è l'istante della grande actio di Dio nel mondo per noi. Essa in­nalza il nostro sguardo e il nostro cuore. Per un istante il mondo tace, tutto tace, e in questo silenzio c'è il contatto con l'Eterno - per un battito di cuore noi usciamo dal tempo per entrare nella presenza di Dio con noi.

Un altro momento di silenzio, indicato dalla liturgia stessa e che non interrompe l'azione liturgica, ma ne è parte integrante, sono le preghiere silenziose del sa­cerdote. Queste ultime, a partire da una visione socio­logica e attivistica del ministero sacerdotale nell'Eu­caristia, sono censurate e il più possibile tralasciate. Il sacerdote viene definito solo in termini sociologici e funzionali, come il «presidente» della celebrazione li­turgica, concepita come una sorta di riunione assem­bleare. Conseguentemente, egli deve essere sempre in azione per l'assemblea. Ma il compito sacerdotale nell'Eucaristia è più che presiedere gli interventi di un'assemblea. Il sacerdote è colui che pre-siede nel­l'incontro con il Dio vivo e anche come persona in cammino verso di Lui. Le preghiere sacerdotali silen­ziose lo invitano alla personalizzazione del suo com-

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pito, a consegnarsi al Signore anche con il suo stesso io. Esse sono, al contempo, un modo eccellente per andare incontro al Signore come tutti, in maniera del tutto personale ma anche insieme con tutti gli altri. Il numero di queste preghiere sacerdotali è stato molto ridotto in occasione della riforma liturgica, ma, grazie a Dio, esse ci sono e devono continuare a esserci. La prima che si incontra è una breve preghiera di prepa­razione prima dell'annuncio del Vangelo. Dovrebbe davvero essere recitata dal sacerdote in silenzio e de­votamente, nella consapevolezza della responsabilità di annunciare nel modo giusto il Vangelo; sapendo che abbiamo bisogno di purificare le labbra e il cuore. Quando il sacerdote fa questo, saprà introdurre anche la comunità alla dignità e alla grandezza del Vangelo e aiutarla a riconoscere il fatto straordinario che la paro­la di Dio viene a dimorare tra di noi; ne nascerà un clima di rispetto e di ascolto. Ancora una volta c'è bi­sogno dell'educazione liturgica, per riconoscere il senso di ciò che accade e, quindi, in quel momento tutti si alzino, non solo con il proprio corpo, ma inte­riormente, e aprano il loro cuore all'ascolto del Van­gelo. Del significato della preparazione dei doni, che nella nuova liturgia non è del tutto chiara, abbiamo già parlato. La comunione è preceduta da due preghie­re molto belle e profonde tra cui oggi, per evitare una lunga pausa silenziosa, è stata data facoltà di sceglier­ne una sola. Forse, più avanti, si troverà di nuovo il tempo di leggerle ambedue. Anche se ora ne viene re­citata una sola, il sacerdote dovrebbe davvero farlo in silenzioso raccoglimento, come una preparazione per­sonale per il Signore, che porta anche tutti gli altri al silenzio davanti alla santa Presenza, così che lo spo­stamento per la comunione non si riduca a una pura esteriorità. Ciò è tanto più necessario, dal momento che nell'orbo attuale lo scambio della pace spesso

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provoca una certa confusione nella comunità, in cui può suonare molto improvviso l'invito a guardare al­l'Agnello di Dio. Se in un momento di silenzio tutti gli occhi del cuore sono davvero indirizzati all'Agnel­lo, questo tempo può divenire un tempo di silenzio benedetto. Anche dopo la comunione sono previste due preghiere di ringraziamento che il sacerdote deve recitare in silenzio, mentre i credenti, ciascuno a suo modo, devono e possono in qualche modo condivider­le. Desidero in proposito ricordare che nei vecchi li­bretti di orazioni, accanto a molto kitsch, è possibile trovare anche un grande e prezioso patrimonio di pre­ghiera, che è maturato da esperienze profonde e che può ancor oggi diventare una scuola di preghiera. Quello che Paolo dice nella lettera ai Romani, che noi non sappiamo nemmeno che cosa dobbiamo chiedere nella preghiera (8,26), è valido ancor oggi, più che mai: davanti a Dio ci troviamo spesso senza parole. Sì, lo Spirito Santo ci insegna a pregare, ci dona le pa­role - come dice Paolo -, ma Egli si serve anche della mediazione umana. Le preghiere che sono salite dai cuori di persone credenti, sotto la guida dello Spirito Santo, sono per noi una scuola che lo Spirito stesso ci offre, che apre lentamente la nostra bocca muta e ci aiuta a imparare a pregare e a riempire il silenzio.

Con disgusto di molti liturgisti nel 1978 avevo so­stenuto che non è affatto detto che tutto il canone deve essere pronunciato a voce alta. Dopo averci riflettuto, vorrei ripeterlo ancora una volta con forza, nella spe­ranza che dopo vent'anni questa tesi possa trovare un po' più di comprensione. Nel frattempo i liturgisti te­deschi, nella preoccupazione di riformare il messale, hanno essi stessi dichiarato espressamente che proprio il punto più alto della celebrazione eucaristica, il ca­none, è divenuto il loro vero punto di crisi. A partire

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dalla riforma si è cercato di fargli fronte anzitutto con l'invenzione continua di nuove preghiere eucaristiche, precipitando così ulteriormente nel banale. La molti­plicazione delle parole non aiuta: nel frattempo lo si vede anche troppo chiaramente. I liturgisti propongo­no allora alcuni aiuti, che peraltro contengono anche motivi di preoccupazione. Tuttavia, a quanto mi è da­to vedere, essi continuano a negare la possibilità che anche e proprio il silenzio possa realizzare la comu­nione davanti a Dio. Non è però un caso che a Geru­salemme, ancora in tempi remoti, si siano recitate par­ti del canone in silenzio e che in Occidente il silenzio durante il canone - in parte accompagnato dal canto meditativo - sia divenuto la norma. Chi spiega tutto questo solo come conseguenza di equivoci, procede con troppa faciloneria. Non è affatto vero che la reci­tazione ad alta voce, ininterrotta, della preghiera euca­ristica sia la condizione per la partecipazione di tutti a questo atto centrale delia celebrazione eucaristica. La mia proposta di allora era: da una parte l'educazione liturgica deve far sì che i fedeli conoscano il significa­to essenziale e l'indirizzo fondamentale del canone; dall'altra, le prime parole delle singole preghiere do­vrebbero essere pronunciate a voce alta come un invi­to a tutta la comunità, così che, poi, la preghiera silen­ziosa di ciascuno faccia propria l'intonazione e possa portare la dimensione personale in quella comunitaria, quella comunitaria nella dimensione personale. Chi ha personalmente vissuto l'unità della Chiesa nel silenzio della preghiera eucaristica ha sperimentato che cosa è il silenzio davvero pieno, che rappresenta insieme un forte e penetrante grido rivolto a Dio, una preghiera colma di spirito. Qui noi preghiamo davvero tutti in­sieme il canone, sia pure nel legame con l'incarico particolare del servizio sacerdotale. Qui siamo tutti uniti, presi da Cristo, guidati dallo Spirito Santo nella

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preghiera comune davanti al Padre, che è il vero sacri­ficio: l'amore che riconcilia e unisce Dio e il mondo.

6. Abiti liturgici '

Gli abiti liturgici che il sacerdote indossa quando celebra la^santa eucaristia, devono anzitutto manife­stare che egli non è qui come una persona privata, co­me questo o quello, ma al posto di un altro - di Cristo. La sua dimensione privata, individuale, deve sparire lasciando spazio a Cristo. «Non più io vivo, ma Cristo vive in me»: questa parola, con cui san Paolo esprime la novità della persona battezzata a partire dalla sua personale esperienza di Cristo (Gal 2,20), ha una sua specifica validità per il sacerdote celebrante. Non lui è importante, ma Cristo. Non è se stesso che egli deve comunicare agli uomini, ma Lui. Egli diventa stru­mento per Cristo, non agisce da sé, ma come messag­gero, anzi, come presenza di altro - «in persona Chri-sti», come dice la tradizione liturgica. Gli abiti liturgi­ci ci ricordano direttamente i testi in cui Paolo parla del rivestirsi di Cristo: «voi che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo», dice nella lettera ai Galati (3,27). Nella lettera ai Romani questa immagi­ne è legata alla contrapposizione di due stili di vita. Di contro a coloro che sciupano la loro vita mangiando e bevendo smodatamente, nell'impurità e nelle licenze, Paolo mostra la via cristiana: non fate questo, «ma ri­vestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la car­ne nei suoi desideri» (13,14). Nella lettera agli Efesini e ai Colossesi lo stesso pensiero viene espresso in ma­niera più radicale, in riferimento all'antropologia del­l'uomo nuovo: «Rivestitevi dell'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,24). «Rivestitevi dell'uomo nuovo, che si rinnova,

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per una piena conoscenza, a immagine del suo Creato­re. Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti» (Col 3,10s). Qualcuno ha avan­zato l'ipotesi che l'immagine del rivestirsi di Cristo si sia forse formata per analogia con il rivestire le maschere cultuali di determinate divinità in occasione dei riti di iniziazione nei culti misterici. In Paolo, pe­rò, non sono in gioco solo le maschere o il rito, ma si tratta di un cambiamento interiore, che mira al rinno­vamento dell'uomo dall'interno, al divenire realmente simili a Dio e, quindi, anche all'unità dell'uomo, al superamento delle barriere che sono derivate e conti­nuano a svilupparsi dalla storia di peccato dell'uomo. L'immagine del rivestirsi di Cristo è quindi un'imma­gine "dinàmica, mirante al cambiamento dell'uomo e del mondo, alla nuova umanità. Di tutto cmesto, di questo divenire cristiforme e della nuova comunità che ne deve derivare, fanno memoria gli abiti liturgici. Essi richiamano il sacerdote ad entrare nella dinamica che lo porta fuori dal proprio io incapsulato e a dive­nire una realtà nuova a partire da Cristo e per Cristo. Essi ricordano a coloro che partecipano alla celebra­zione la nuova via, che ha avuto inizio con il battesi­mo e che prosegue nell'Eucaristia, verso il mondo che verrà, che deve cominciare a delincarsi già nella no­stra quotidianità partendo dal sacramento.

Nelle due lettere ai Corinti Paolo approfondisce ul­teriormente l'orientamento escatologico che è presen­te nell'immagine della veste. Nella prima lettera ai Corinti egli dice: «È necessario infatti che questo cor­po corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo cor­po mortale di immortalità» (15,53). Uno sguardo an­cora più profondo nella sua lotta e nella sua speranza l'Apostolo ce lo dona nel quinto capitolo della secon-

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da lettera ai Corinti. Paolo definisce il corpo di questo tempo sulla terra come la «tenda terrena» che sarà di­sfatta, e guarda in avanti, alla dimora eterna, non eret­ta da mani d'uomo, nel cielo. Egli ha paura della di­struzione della tenda, paura della «nudità», in cui ver­rà poi a trovarsi. La sua speranza è di non trovarsi svestito, ma «abbondantemente vestito», di ottenere la «casa celeste» - la vita definitiva - come nuova veste. L'Apostolo non vuole perdere il corpo, non vuole es-' sere privo di corpo. Non vuole la fuga dell'anima dal «carcere della vita», come sostiene la tradizione pita­gorica ripresa da Platone. Non vuole la fuga, ma la trasformazione. Spera nella resurrezione. La teologia della veste diventa così una teologia del corpo. Il cor­po è più che rivestintento esteriore della persona uma­na; appartiene all'essere stesso dell'uomo, al suo pa­trimonio essenziale. E tuttavia, questo corpo va in ro­vina, è solo una tenda. È provvisorio. Ma è, allo stés­so tempo, anticipazione del corpo definitivo, della for­ma definitiva dell'esistenza umana. Gli abiti liturgici portano con sé anche questo messaggio. Sono «so­vrabbondanza di vesti», non un «essere svestiti», e la liturgia ci conduce sulla via di questa «sovrabbondan­za di vesti», sulla via della salvezza del corpo nel cor­po risorto di Gesù Cristo, che è la nuova «casa che du­ra in eterno, nei cieli, non costruita da mano d'uomo» (2Cor 5,1). Il corpo di Cristo, che noi riceviamo nel­l'Eucaristia, a cui noi siamo uniti nell'eucaristia («un corpo solo con Lui», cfr. ICor 6,12-20), ci salva dalla «nudità» - da quello stare spogli davanti a Dio che noi non potremmo sostenere. Proprio in questa prospettiva paolina ho sempre amato l'antica formula di ammini­strazione dell'eucaristia: «Il corpo di Cristo custodisca la tua anima per la vita eterna». Questa frase trasforma in preghiera l'insegnamento di 2Cor 5,1-10. L'anima da sola sarebbe un triste frammento. Ma già prima

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della resurrezione comune di tutti, essa aderisce al corpo di Cristo, che diventa, nel contempo, anche il nostro corpo, così come noi dobbiamo diventare il suo corpo. Il corpo (di Cristo) salva l'anima per la vita eterna: per il pensiero greco un paradosso insensato; a partire dal Cristo risorto, invece, una speranza viva. Gli abiti liturgici vanno ben oltre il significato delle vesti esteriori: sono una prefigurazione della nuova veste, del corpo risorto di Gesù Cristo, del nuovo che ci attende dopo la distruzione della «tenda» e che ci dà una «dimora permanente» (cfr. Gv 14,2: «Nella ca­sa del Padre mio ci sono molti posti»; la parola «po­sti», che qui viene usata, significa in realtà «dimore permanenti», proprio per significare la definitività, la necessità di rimanere).

Nella loro riflessione sulla teologia delle vesti, i Pa­dri hanno ripensato due altri testi, che anche noi vo­gliamo quindi riprendere per arrivare a una migliore comprensione degli abiti liturgici. Anzitutto c'è la sto­ria del figlio perduto, in cui il Padre, dopo averlo ab­bracciato al ritorno, comanda: «Presto, andate a pren­dere il vestito migliore...» (Le 15,22). Nel testo greco si legge: il «primo» vestito, e così lo hanno letto e in­teso i Padri. Il primo vestito è per loro quello in cui Adamo era stato creato e che egli aveva perso nel suo tentativo di farsi uguale a Dio. Tutti i vestiti che l'uo­mo porta dopo di allora, sono solo poveri surrogati della luce di Dio che viene dal profondo e che era il suo vero «vestito». I Padri hanno quindi letto nella storia del figlio perduto e del suo ritorno a casa la sto­ria della caduta di Adamo, della caduta dell'uomo (cfr. Gn 2,7), interpretando così la parabola di Gesù come annuncio del ritorno a casa e della riconciliazio­ne dell'uomo: a colui che nella fede è ritornato a casa viene restituito il «primo» vestito; egli viene nuova-

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mente rivestito nella misericordia e nell'amore di Dio, che sono la sua vera bellezza. La veste bianca che vie­ne consegnata nel battesimo, dovrebbe ricordare que­sto grande evento storico e, nel contempo, prefigurare la veste bianca dell'eternità, di cui parla l'Apocalisse (19,8) - espressione della purezza e della bellezza del Risorto. Il grande arco che va dalla creazione e caduta di Adamo sino alla veste bianca dell'eternità è conte­nuto nel simbolismo degli abiti liturgici, il tutto soste­nuto dal centro cristologico: rivestitevi di Cristo, di­ventate già adesso una cosa sola con Lui, già adesso membra del suo corpo.

7. Materia

La liturgia cattolica è liturgia della parola divenuta carne - divenuta carne in seguito alla resurrezione. Ed è liturgia cosmica, come abbiamo visto. E chiarp quindi che in essa non solo il corpo dell'uomo e i se­gni del cosmo hanno una parte decisiva, ma anche la materia di questo mondo le appartiene. La materia en­tra in due modi nella liturgia: da una parte nella forma di simboli multiformi - il sacro fuoco della notte pa­squale, le candele e, ancora una volta, la fiamma che brucia su di esse, i diversi strumenti liturgici, la cam­pana, la tovaglia posta sull'altare e così via... Romano Guardini ha dischiuso la comprensione di questo mondo simbolico con il suo libretto sui «santi segni»; il vescovo di Klagenfurt, mons. Kapellari, ci ha recen­temente donato un nuovo libro con molte immagini, in cui egli porta avanti la prospettiva di Guardini, la approfondisce e la attualizza. Non è quindi necessario trattare questo argomento.

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La seconda forma, ancora più importante, in cui la materia di questo mondo entra nella liturgia, la trovia­mo nei sacramenti, che costituiscono la liturgia in senso stretto (proprio perché essi non sono inventati dagli uo­mini, ma nella loro struttura essenziale ci sono stati do­nati dal Signore stesso). Tre di questi sacramenti si rife­riscono direttamente all'uomo come persona in alcuni punti nodali della sua vita, collocati in situazioni fonda­mentali, e non hanno quindi bisogno di alcuna altra «materia», se non, appunto, l'uomo stesso nella situa­zione che il sacramento ha di mira. Qui c'è anzitutto la confessione, in cui noi, peccatori, imploriamo la parola di perdono e di rinnovamento; poi c'è l'ordinazione sa­cerdotale, in cui il Signore, attraverso l'imposizione delle mani da parte del vescovo, dona la missione e l'autorità nella sequela del ministero apostolico; quindi c'è il matrimonio, in cui due persone si donano recipro­camente in una convivenza per tutta la vita e, in questo modo, diventano immagine reale, vissuta e attuale del­l'alleanza tra Cristo e la Chiesa (cfr. Ef 4,27-32).

Ci sono, infine, i quattro sacramenti - battesimo, cresima, eucaristia e unzione degli infermi - in cui delle realtà materiali diventano tramite dell'azione di Dio per noi. Non rientra nei limiti di questo piccolo li­bro sviluppare una teologia dei sacramenti. Desidero solo richiamare brevemente gli elementi che compaio­no nella liturgia come mediazione dell'agire divino. Infatti questi elementi, che il Signore ha scelto, dico­no molte cose; devono essere meditati come tali pro­prio per poter comprendere meglio lo spirito della li­turgia. Sono l'acqua, l'olio (di oliva), il pane (di fru­mento) e il vino. Ricordiamoci, tra parentesi, dei quat­tro elementi del mondo antico - acqua, aria, fuoco, terra; i primi tre sono immagini dello Spirito Santo, mentre la terra rappresenta l'uomo, che viene dalla

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terra e che a essa fa ritorno. Il fuoco e l'alito di vento sono presenti in molti modi nel simbolismo della li­turgia, ma solo l'acqua, che a sua volta viene dall'alto e che, d'altra parte, appartiene essa stessa alla terra, come elemento primordiale della vita, è divenuta ma­teria sacramentale in senso stretto. La tradizione ec­clesiale distingue nell'acqua un duplice simbolismo: y acqua salata del mare è simbolo di morte, minaccia e pericolo; ricorda il mar Rosso, divenuto causa di mor­te per gli Egizi e da cui gli Israeliti sono stati salvati. Il battesimo è una sorta di passaggio attraverso il mar Rosso. Esso include un evento di morte. È più che un bagno o un lavacro, scorre fin verso il fondamento dell'esistenza, fino alla morte stessa. E comunione nella croce con Cristo: è proprio questo che vuol si­gnificare l'immagine del mar Rosso, che è un'imma­gine di morte e resurrezione (cfr. Rm 6,1-11). Al con­trario l'acqua che scorre dalla fonte è espressione del­la fonte di ogni vita, puro simbolo di vita. Per questo nella Chiesa antica era prescritto che il battesimo fos­se amministrato con «acqua viva», con acqua di fonte, così da diventare principio di vita nuova> I Padri erano soliti considerare la conclusione della storia della Pas­sione, così come ci viene raccontata da Giovanni, su questo sfondo: dal fianco aperto di Cristo scorrono sangue e acqua; battesimo ed eucaristia scaturiscono dal cuore trafitto di Gesù. Egli è divenuto fonte viva che rende anche noi vivi (Gv 19,34s; lGv 5,6). Du­rante la festa delle Capanne Gesù aveva profetizzato: «"Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; co­me dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno". Questo egli disse riferendosi allo Spiri­to che avrebbero ricevuto i credenti in Lui» (Gv 7,37-39). Il battezzato diventa lui stesso una fonte. Se pen­siamo ai grandi santi della storia, da cui davvero sono sgorgati fiumi di fede, di speranza e di amore, com-

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prendiamo questa parola e comprendiamo anche qual­cosa della dinamica del battesimo, della promessa e del compito che esso custodisce.

Se poi guardiamo gli altri tre elementi dei sacra­menti della Chiesa - olio di oliva, pane di frumento, vino -, balza all'occhio una differenza caratteristica riguardo al dono dell'acqua. Mentre l'acqua è un ele­mento vitale comune per tutta la terra ed è quindi adatta a essere in ogni luogo la porta d'ingresso nella comunione con Cristo, nel caso degli altri tre elementi si è di fronte a tipici doni dell'area mediterranea. In maniera esplicita incontriamo questa triade nel gran­dioso salmo della creazione (104), dove l'orante rin­grazia Dio per il fatto che dona all'uomo il cibo: «il vino che allieta il cuore dell'uomo, l'olio che fa brilla­re il suo volto e il pane che sostiene il suo vigore» (vv. 14s). Questi tre elementi della vita mediterranea sono espressione della bontà della creazione, in cui noi ri­ceviamo la bontà dello stesso Creatore. E ora essi di­ventano dono di una bontà ancora più grande: di una bontà che fa splendere in maniera nuova il nostro vol­to, nella somiglianza con «l'unto» di Dio, con il suo diletto Figlio Gesù Cristo; di una bontà che trasforma il pane e il vino della terra in corpo e sangue del Re­dentore, così che noi, mediante il Figlio fattosi uomo, comunichiamo con Dio stesso, Trino e Uno.

Su questo punto si obietta oggi che propriamente questi doni possiedono la loro forza simbolica solo in ambito mediterraneo; in altri contesti culturali essi do­vrebbero quindi essere rimpiazzati con degli elementi corrispondenti. È la stessa questione che abbiamo già incontrato quando abbiamo parlato del rovesciamento dei simboli cosmici nell'emisfero australe. Ancora una volta resta vero che, nel concorso di cultura e sto-

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ria, la precedenza spetta alla storia. In essa Dio ha agi­to direttamente e mediante essa Egli ha conferito ai doni della terra il loro significato. Gli elementi diven­tano sacramenti grazie al loro legame con la storia unica e irripetibile di Dio con gli uomini in Gesù Cri­sto. Ripetiamolo ancora una volta: incarnazione non significa arbitrio, ma, proprio al contrario, essa ci lega alla storia, esteriormente casuale, avvenuta allora. Questa è la forma di storia voluta da Dio e resta per noi la traccia affidabile che Egli ha voluto imprimere sulla terra; la garanzia che non^siamo noi a inventarci qualcosa, ma che davvero veniamo toccati da Lui e giungiamo a incontrarLo. Proprio per la particolarità di un evento unico, del qui e allora, usciamo dalla in­determinatezza del mitico «Sempre e Mai». Con que­sto volto particolare, con questa figura umana partico­lare, Cristo giunge fino a noi e, proprio in questo mo­do, ci rende suoi fratelli e sorelle al di là di tutti i con­fini. Proprio così noi riconosciamo: è il Signore (Gv 21,7).

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BIBLIOGRAFIA

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G. MARTIMORT (a cura di), L'Église en prière. Intro-duction à la Liturgie, Édition nouvelle, 4 voli., De-sclée, 1983-1984.

H. B. MEYER - H. AUF DER MAUR - B. FISCHER - A. A.

HÀUBLING - B. KLEINHEYER (a cura di), Gottesdienst der Kirche. Handbuch der Liturgiewissenschaft, Pustet Regensburg 1984ss. Sono fin qui apparse la Parte 3 (Gestalt des Gottesdienstes), la Parte 4 (Eu-charistie), la Parte 5 e 6,1 (Feiern im Rythmus der Zeit), la Parte 7,1 (Sakramentliche Feiern, I), la Parte 7,2 (Sakramentliche Feiern I, 2), la Parte 8 (Sakramentliche Feiern).

M. KUNZLER, Die Liturgie der Kirche (Amateca: Lehrbucher zur katholischen Theologie, voi. X, Bo-nifatius, Paderborn 1995 [edizione italiana, Jaca Book, Milano 1996].

ID., Porta orientalis. Fiinf Ost-West-Versuche uber Theologie und Àsthetik der Liturgie, Bonifatius, Pa­derborn 1993.

B. LANG, Heiliges Spièl. Fine Geschichte des chrisfli­chen Gottesdienstes, Beck, Monaco 1998.

A. ADAM - R. BERGER, Pastoralliturgisches Handlexi-kon, Herder 1980.

D. SARTORE - A. TRIACCA (a cura di), Nuovo diziona­rio di teologia, Edizioni San Paolo, Cinisello 1983.

221

J. CARBON, Liturgie de Source, Cerf, Parigi 1980. J. RATZINGER, Das Fest des Glaubens, Johannes Ver-

lag, Einsiedeln 1981 [ediz. ital., La festa della fede, Jaca Book, Milano 1983].

ID., Ein neues Liedfur den Herrn. Chrìstusglaube und Liturgie in der Gegenwart, Herder 1995 [ediz. ital., Cantate al Signore un canto nuovo. Saggi di cri­stologia e liturgia, Jaca Book, Milano 1996].

A. NlCHOLS O.P., Looking at the Liturgy. A criticai view of its contemporary forni, Ignatius Press, San Francisco 1996.

Fondamentale resta l'esposizione della teologia della liturgia nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), ainn. 1077-1112.

2. Bibliografìa particolare

PARTE PRIMA

Capitolo primo

Sul tema del gioco occorre soprattutto far riferimento a J. HUIZINGA, Homo ludens, Amsterdam 1939, così come al prezioso libro, tutto basato sui Padri, di H. RAHNER, Der spielende Mensch, Johannes Verlag, Einsiedeln 1952. x

R. GUARDINI; nel suo Lo spirito della liturgia, ha am­piamente sviluppato la particolare natura della litur­gia a partire dall'idea di gioco, aggiungendo però successivamente un capitolo «Sulla serietà della li­turgia», che limita considerevolmente l'idea del gioco [ediz. ital., Morcelliana, Brescia 19614. Nuo-

222

va edizione del 1987 insieme con l'altra significati­va opera di Guardini, / santi segni, Morcelliana, Brescia 1987].

Capitolo secondo

Sullo schema exitus-reditus posso far riferimento a: J. RATZINGER, Die Geschtstheologie des heiligen Bo­

naventura, edit. Monaco-Zurigo 1959 (St. Ottilien 19922) [ediz. ital., San Bonaventura. La teologia della storia, LEF, Firenze 1991].

M. SECKLER, Das Heil in der Geschichte. Geschichts-theologiches Denken bei Thomas von Aquin, Kosel, Monaco 1954.

J. R ToRREL, Initiation à St.Thomas d'Aquin, Fribourg 1993; [tr. it., Piemme, Casale Monferrato 1994].

Capitolo terzo

La visione qui presentata del passaggio dall'AT al NT e della natura della liturgia è maturata in me nel corso di lunghi anni di approfondimento della Scrittura e della liturgia. Spunti in questa direzione, con corri­spondenti indicazioni bibliografiche, si trovano già nelle due opere succitate, La festa della fede e Cantate al Signore un canto nuovo, così come nel contributo già pubblicato in diverse lingue, Eucharìstie und Mis-sion, in Forum kath. Theologie, 14 (1998), pp. 81-98.

PARTE SECONDA

Capitolo primo

Su Chiesa tra i Testamenti, rinvio a J. RATZINGER,

Volle und Haus Gottes in Augustins Lehre von der

223

Kirche, St. Ottilien 19922, pp. 304-308 [ediz. ital., Popolo e casa di Dio in sant'Agostino, Jaca Book, Milano 1978].

Semel quia semper: BERNARDO DI CHIARAVALLE,

Sermo V de diversis, 1, in: BERNHARD VON CLAIR-

VAUX, Sdmtliche Werke, lateinisch-deutsch (a cu­ra di G .WINKLER) , voi. IX, Innsbruck 1998, p. 218.

Capitolo secondo

Per questo capitolo mi è stato di grande aiuto L. BOU­

YER, Architecture et liturgie, Cerf, Parigi 1991. Il numero di pagina indicato tra parentesi si riferisce all'edizione italiana, Architettura e liturgia, Qiqa-jon, Magnano (VC) 1994.

All'interno della ricchissima bibliografia sull'argo­mento vorrei citare almeno:

E. NORMAN, The House ofGod, Londra 1990. L. M. WHITE, Building God's House in The Roman

World, Baltimora e Londra 1990.

Capitolo terzo

Rinvio qui ancora una volta al testo di Bouyer e alla mia Festa della fede, dove si trovano ulteriori indi­cazioni.

Capitolo quarto

Sulla fede nella presenza e sul suo sviluppo nella teo­logia rinvio a:

J. BETZ, Die Eucharistie in der Zeit der griechischen Vdter, voi. II/l, Herder 1961.

ID., Eucharistie in der Schrift und Patristik. Hand-buch der Dogmengeschichte (a cura di SCHMAUS -

224

GRILLMEIER - SCHEFFCZYK - SEYBOLD), voi. IV/4a, Herder 1979.

H. DE LUBAC, Corpus mysticum. L'Eucharistie et l'Église au MoyenAge, Aubier 19492.

A. GERKEN, Theologie der Eucharestie, Kòsel 1973. J. A. SAYES, La presencia real de Cristo en la Eucari­

stia, BAC, Madrid 1976.

Capitolo quinto

Come sempre bisogna confrontare i testi di liturgia già citati in precedenza; sulla domenica anche il mio Cantate al Signore un canto nuovo; inoltre ri­cordo:

G. VOB, Christen auf der Suche nach einem gemein-samen Osterdatum, I e II, soprattutto II, in: KNA, Òkumenische Information n. 24, 9 giugno 1998, pp. 5-10.

G. FEDALTO, Quando festeggiare il 2000? Problemi di cronologia cristiana, Edizioni San Paolo 1998.

E. WEIGL, Die Oration «Gratiam tuam quaesumus, Domine». Zur Geschichte des 25. Màrz in der Li­turgie (ho utilizzato questo importante contributo in un'edizione speciale priva di indicazioni sul luo­go della pubblicazione).

H. SCHADE, Lamm Gottes und Zeichen des Widders. Zur kosmologisch-psychologischen Hermeneutik der Ikonographie des «Lammes Gottes» (a cura di V. H. ELBERN), Herder 1998.

H. RAHNER, Griechische Mythen in christlicher Deu-tung, Darmstadt 1957 [ediz. ital., Miti greci nel­l'interpretazione cristiana, Bologna, Il Mulino 1971]. Le citazioni patristiche sono tratte da que­st'opera.

225

PARTE TERZA

Capitolo primo

P EVDOKIMOV, L'art de l'Icone. Théologie de la beau-té, Desclée 1970. Le indicazioni di pagina citate tra parentesi si riferiscono a questa edizione.

K. ONASCH, Kunst und Liturgie der Ostkirche in Stich-worten unter Beriicksichtigung der Alten Kirche, H. Bòhlhaus, Vienna 1981.

F. VAN DER MEER, Die Urspriinge chrislicher Kunst, Herder 1982.

Aa.vv., Arte e liturgia. L'arte sacra a trent'anni dal Concilio, Edizioni San Paolo 1983.

Capitolo secondo

K.G. FELLERER (a cura di), Geschichte der katholi-schen kirchenmusik, Bàrenreiter I, 1972 e II, 1976.

E. JASCHINSKI, Musica sacra oder Musik im Gottes-dienst?, Pustet 1990.

B. FORTE, Laporta della bellezza. Per un'estetica teo­logica, Morcelliana 1999, soprattutto pp. 85-108.

Mi permetto anche di rimandare ai capitoli corrispon­denti dei miei libri La festa della fede e Cantate al Signore un canto nuovo.

PARTE QUARTA

Capitolo primo

Una buona visione d'insieme sui riti orientali è offerta da:

N. Bux, // quinto sigillo, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1997.

226

PRASANNA VAZHEEPARAMPIL, The making and unma-king of Tradition, Roma 1998, soprattutto il dia­gramma dei riti, p. 57.

Per la conoscenza del vasto mondo delle Chiese orientali non bizantine è importante la grande opera di M. ZIBAWI, Orienti cristiani, Jaca Book, Milano 1995.

Vorrei inoltre richiamare anche l'articolo Liturgie, in LThK, VP, 972-987.

Capitolo secondo

P. J. CORDES, Actuosa participatio - tàtige Teilnahme, Bonifatius, Paderborn 1995 [ediz. ital., Partecipa­zione attiva all'Eucarestia, San Paolo, Cinisello 1996].

E. DINKLER, Signum crucis. Aufsàtze zum Neuen Te-stament und zur christlichen Archàologie, J.CB. Mohr, Tubinga 1967, soprattutto pp. 1-76.

H. RAHNER, Griechische Mythen in christlicher Deu-tung, Darmstadt 1957 [ediz. ital., Miti greci nell'in­terpretazione cristiana, Bologna, Il Mulino 1971],

Una ricca sintesi delle testimonianze patristiche è of­ferta da: V. PFNÙR, Das Kreuz. Lebensaum in der Mitte des Paradiesgarten, in: M.-B. VON STRITZKY -C H R . U H R I G (a cura di) , Garten des Lebens. Festschrift fiir W. Cramer, Altenburg 1999, pp. 203-222.

La sezione dedicata all'inginocchiarsi si poggia pre­valentemente su:

P. SINOIR, La prière à genoux dans l'Ecriture Sainte, Téqui, Paris o.J. 1997.

Molte indicazioni sui singoli paragrafi di questo capi-

227

tolo si trovano nel già citato volume su Arte e litur­gia, soprattutto allepp. 139-209.

E. KAPELLARI, Heilige Zeichen in Liturgie und Alltag, Styria 1997.

228

INDICE

Premessa pag. 5

Parte prima Sull'essenza della liturgia

Capitolo primo Liturgia e vita: il posto della liturgia nella realtà » 9

Capitolo secondo Liturgia, cosmo, storia » 20

Capitolo terzo Dall'Antico al Nuovo Testamento: la forma base della liturgia cristiana determinata dalla fede biblica » 32

Parte seconda Tempo e luogo nella liturgia

Capitolo primo Osservazioni preliminari sul rapporto della liturgia con lo spazio e il tempo » 51

Capitolo secondo Luoghi santi: il significato dell'edificio chiesa » 59

229

Capitolo terzo L'altare e l'orientamento della preghiera nella liturgia pag. 70

Capitolo quarto La custodia del Santìssimo Sacramento » 81

Capitolo quinto Tempo santo » 88

Parte terza Arte e liturgia

Capìtolo primo La questione delle immagini » 111

Capitolo secondo Musica e liturgia » 132

Parte quarta Forma liturgica

Capitolo primo Il rito » 155

Capitolo secondo Il corpo e la liturgia » 167

1. «Partecipazione attiva» » 167 2. Il segno della croce » 173 3. Atteggiamenti » 181

Inginocchiarsi (Prostratio) » 181 Stare in piedi e sedersi. Liturgia e cultura » 190

4. Gesti » 199 5. La voce umana » 203 6. Abiti liturgici » 212 7. Materia » 216

230

Bibliografia 1. Bibliografia generale pag. 221 2. Bibliografia particolare » 222

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Stampa 2001 Società San Paolo, Alba Printed in Italy