CELESTINO V Il Papa che ha ispirato Ratzinger di Ottorino Gurgo

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Perché un Papa rinuncia al potere

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Come accade da secoli, a intervalli regolari, Celestino V torna a porsi al centro della storia segnando il nostro tempo. Ora il suo nome torna nelle angosciose domande aperte dalla scelta di Joseph Ratzinger che dopo otto anni di ponti�cato ripercorre i sentieri impervi di Pietro del Morrone.Il Papa delle profezie continua così a far parlare di sé a distanza di settecento anni. Celestino ha scandalizzato Dante, commosso Silone, esaltato Dario Fo, ispirato il movimento mondiale della New Age. Le sue spoglie, trafugate ancora nel recente 1988 e restituite dopo pochi giorni, il suo cranio attraversato da un foro, scoperto nel 1888, che ancora fa discutere. Ecco la storia dell'inventore del Giubileo, costretto a fuggire, a piedi, a ottanta anni, lungo i tratturi �no a Vieste, alla ricerca di un impossibile imbarco per l'Oriente. Braccato, imprigionato e ucciso forse... e poi fatto santo... Solo grazie a lui è giunta �no a noi la voce di Angelo Clareno; un misterioso frate esiliato in Tessalia, che là tradusse e importò testi come la Scala del Paradiso di Giovani Climaco. Una Ecclesia Spiritualis quella di Clareno, simile ai Paradisi del Libero Spirito di Margherita Porete? Simile ai paradisi della Sibilla, abitati di fate secondo la gente? Mille i torrenti sotterranei che attraversano la storia della spiritualità cristiana, ma essi si incontrano e si incrociano in un punto: Celestino V. Egli non sembra avere pace e noi con lui. Chissà cosa voleva dirci e se lo abbiamo veramente capito.

Ottorino Gurgo, giornalista parlamentare, è stato responsabile della redazione romana de "Il Mattino", direttore del "Roma", editorialista de "Il Giornale", "Il Giorno" e "L'informazione". Autore di numerosi saggi, ha scritto la biogra�a di Celestino V, di Pilato e, con Francesco De Core, di Ignazio Silone.

€ 11,80iva inclusa

ISBN 978-88-87303-64-3

Celestino VIl papa che ha

ispirato Ratzinger

Ottorino Gurgo

2013

I EdizioneCelestino V

Ottorino Gurgo Copyright © 1982

II EdizioneCelestino V e gli Spirituali

Dalle profezie di Gioachino da Fiore alle dieci illuminazioniMamma editori Copyright © 1998

ISBN 978-88-87303-64-3III EdizioneCelestino V

Il Papa che ha ispirato RatzingerMamma editori Copyright © 2013

MAMMA EDITORI PARMA

Casa Bonaparte di Neviano Arduini (PR) Strada Lupazzano 57

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PREFAzIONE ALLA TERzA EDIzIONE

13 febbraio 2013

Il giorno 11 febbraio 2013 Joseph Ratzinger, 265° pontefice romano con il nome di Benedetto XVI, ha comunicato la rinuncia al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro a partire dal successivo 28 febbraio.

Come accade da secoli, a intervalli regolari, Celestino V torna a porsi al centro della storia, si impone alla cro-naca intrecciandosi agli eventi della quotidianità, segnan-do il nostro tempo. Ora ritorna nelle scelte di Joseph Ratz-inger che dopo otto anni di pontificato ripercorre i sentieri impervi di Pietro del Morrone rivendicando alla Chiesa la beatitudine di Celestino ma riabilitando nel contempo Bonifacio che ne rappresentò il contraltare.

Il gesto di questi giorni tuttavia dalla dimensione epoc-ale e pubblica che indubbiamente riveste, discende nella notte di ognuno di noi e la incupisce lasciandovi un segno che è forse rinuncia a comporre divisioni rimaste insana-bili.

M. Montanari

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P R E F A Z I O N E

Rividi subito gli asceti, e in qualche modo seppi che era- no membri di un ordine segreto di francescani, glispirituali, che erano stati scomunicati in seguito alla

deposizione di papa Celestino.Papa Celestino? Lanciai un’occhiata a Wil. «Hai sentito? Non

ho mai saputo che ci fosse un papa con questo nome!»«Celestino V visse alla fine del XIII secolo», mi confermò Wil. «

Le rovine in Perù, quelle dove hanno trovato le Nove Illumina-zioni, vennero chiamate così in suo onore quando vennero sco-perte nel 1600.»

«Chi erano gli Spirituali?»«Erano un gruppo di monaci convinti che si potesse raggiun-

gere una maggiore consapevolezza allontanandosi dalla civil-tà e tornando a una vita contemplativa a contatto con la natu-ra. Papa Celestino sostenne queste idee e per un certo periodo ditempo visse addirittura in una grotta. Venne deposto, natural-mente, e in seguito gli Spirituali vennero condannati in quantognostici, e scomunicati.»

Nella Decima illuminazione, James Redfield ricostruisce lastoria immaginaria della Profezia di Celestino, ne parla come diun testo di ispirazione gnostica, fondato sull’ideale dell’indiamento

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mediante emulazione del Cristo nello spirito della Pentecoste.Nel libro di Redfield, misteriose illuminazioni scritte dagli an-

tichi gnostici cristiani ricompaiono nel tredicesimo secolo, in Fran-cia, consegnate da due eremiti, monaci francescani della sèttadegli Spirituali, ad un frate benedettino protetto da certo cardina-le Nicholas. Il benedettino entusiasta cerca di dare pubblicità allaprofezia ma viene convocato a Napoli per essere ascoltato daisuperiori del cardinale. Il monaco ritarda il viaggio fingendo diessere ammalato ad una caviglia ma i persecutori verranno a pre-levarlo in monastero per rinchiuderlo nel castello di un nobilelocale. Sarà decapitato ma nove delle dieci illuminazioni verran-no nuovamente alla luce grazie alla sua reincarnazione nel prota-gonista che le riscopre dentro di sé, attraverso incontri solo appa-rentemente casuali, durante un viaggio iniziatico in Perù. Il viag-gio terminerà ai piedi delle Rovine di Celestino, nel racconto rovi-ne peruviane scoperte nel ‘600 e dedicate a Celestino V. Le illu-minazioni sono rimaste nascoste per secoli sotto questi ruderi edal loro ritrovamento si produce il miracolo preannunciato nellanona illuminazione, quello della ascensione. Un amico del prota-gonista - un già iniziato - passa ad un livello più alto di vibrazione.Nello stesso luogo nella notte dei tempi sarebbe asceso l’interopopolo dei Maya.

Con le rovine il cerchio della storia della profezia si chiude.Nella realtà storica era stato proprio Celestino V, ovvero PietroAngeleri molisano di umili origini, come eremita della Majellaconosciuto col nome di Pietro del Morrone, poi assurto al sogliopontificio per il disegno di Latino Malabranca, a dare protezioneagli Spirituali opponendo, a chi li perseguitava, la costituzione diuna nuova ed apposita congregazione, quella degli Eremiti di Ce-lestino. Sarebbero dunque costoro gli Spirituali cui Redfield fa

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riferimento come antichi custodi della profezia. Raccontano le cro-nache che il loro capo era Pietro da Fossombrone.

Furono ammessi alla presenza di Papa Celestino V e ricevette-ro la sua benedizione anche Corrado da Bazzano, Pietro da Mon-ticchio, Tommaso da Trivento, Corrado da Spoleto e Pietro daMacerata, detto Fra Liberato delle Marche. Jacopone da Todi erauno degli uomini cardine del gruppo, mentre sotto il profilo spe-culativo, erano determinanti, sebbene lontani fisicamente, il to-scano Ubertino da Casale ed il teologo linguadochiano Pietro diGiovanni Olivi.

Celestino impose a Pietro da Fossombrone il nome di AngeloClareno, perché dalla patria Chiarino aveva preso le mosse perannunciare il Cristo ma Clareno rifiutò ogni incarico ed il salva-condotto del Pontefice fu perciò consegnato a Fra Liberato, di lìin poi alla guida dei Poveri eremiti di Celestino V .

Jacopone da Todi metterà in guardia il Pontefice dagli intral-lazzi di Carlo II e di Benedetto Caetani: Che farai Pier da Morro-ne? Sei venuto al paragone.... Se non ti sai ben schernire, cante-rai mala canzone ma i versi di Jacopone giunsero invano a Cele-stino. Il Papa angelico lasciò, con il gran rifiuto, il posto a Boni-facio VIII e ne rimase prigioniero. Saranno gli spirituali, mesi dopoad aiutare Celestino nella fuga dall’eremo di S. Onofrio. Lo con-dussero attraverso boschi e montagne fino a Vieste in Puglia doveavrebbero dovuto salpare tutti insieme per la Grecia, per quel-l’Oriente da cui gli Spirituali attendevano il nuovo Messia. Bracca-to sulla spiaggia, Celestino finirà i suoi giorni di lì a poco nellaRocca di Fumone. Ma la sua storia non finisce qui. Verrà canoniz-zato santo dopo pochi decenni, già nel 1313 e nel 1888 una peri-zia sulla sua salma accerterà la presenza nel suo cranio di un foroquadrato corrispondente in tutto e per tutto a quello che sarebbe

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stato prodotto da un chiodo lungo dieci centimetri. La morte dun-que del Papa angelico non sarebbe avvenuta in modo naturale,ma con un vero e proprio supplizio. Ed ancora, la sua salma fumisteriosamente trafugata cento anni dopo, nel 1988, e ritrova-ta solo giorni dopo ad Amatrice.

Attorno a Celestino, si animò il dibattito negli anni ‘70. Fu alcentro dell’Avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone, ilNobel Dario Fo, dedicò alla sua figura un passaggio memorabiledi Mistero Buffo. Oggi Celestino ricompare a popolare le fantasieapocalittiche di fine millennio, in un libro - La profezia di Celesti-no - che a torto o a ragione ha fatto il giro del mondo, conquistatomilioni di lettori ed in America ha creato intorno a sé un vero eproprio movimento di cui non tarderemo a vedere un risvoltoanche politico.

Redfield dipinge, la possibilità di smaterializzarsi e ascendereai cieli per chi segua alla lettera il modello della vita di Cristo. Lavisione di fondo, cui egli attinge, è dichiaratamente gnostica. Cosìl’idea del doppio astrale, della vita vera nella dimensione celeste equella terrestre solo come missione di passaggio per dare impul-so al progresso dell’umanità verso un mondo edenico. Ideale benriassunto nel mito gnostico del “Il canto della perla” (I e II secolodopo Cristo, versione originaria in siriaco)..

Vi si narra di un magnifico regno d’Oriente, in esso viveva ungiovanissimo principe, il padre e la madre gli avevano tessuto unasplendida veste, recante l’immagine del Re dei Re. Dopo un’in-fanzia felice e beata, il padre e la madre strinsero un patto con lui.Avrebbe dovuto scendere in Egitto per recuperare una perla diineguagliabile bellezza, nascosta nelle profondità del mare e cu-stodita da un serpente. Prima di partire il giovane dovette abban-donare la veste meravigliosa e quando fu in Egitto, per confon-

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dersi, dovette indossare i panni laceri del luogo. In un momentodi distrazione il principe rivelò agli Egizi il suo segreto e la missio-ne ch’era venuto a compiere. Gli Egizi allora gli diedero il lorocibo, la pozione dell’oblio, per cui egli dimenticasse la sua origi-ne regale e la perla magica. Sebbene il patto fosse scritto nel suocuore, egli non avrebbe avuto alcun modo per risvegliarsi se nonper l’intervento dei genitori d’Oriente. Il Re e la Regina per ram-mentargli chi era, inviarono a lui un’aquila al cui grido una letteradi seta si materializzò davanti ai suoi occhi. Appena egli la vide lastrinse al cuore e subito rammentò il suo destino. Più nulla orapoteva sbarrargli il cammino, egli avrebbe riconquistato la perla esbaragliato il serpente. Abbandonò quindi il suo corpo sulla spiag-gia e riprese, con la perla, il viaggio di ritorno verso la patria lonta-na. Quando giunse trovò ad attenderlo la veste splendente e rico-nobbe in essa, il proprio doppio celeste. Indossandola in un ab-braccio egli si ricongiunse con la sua anima ed il Re suo padre gliannunciò finalmente il prossimo incontro con il Re dei Re.

La veste reca l’immagine e la somiglianza di Dio, l’anima scen-de nei panni laceri degli Egizi - il loro corpo di acqua e fango -dimentica del patto scritto nel cuore. E’ solo l’intervento di Dio asalvarla, e ritrovata la perla meravigliosa, compiuto il viaggio ini-ziatico sulla terra, l’anima può ascender nuovamente per ricon-giungersi con il doppio celeste e vivere per sempre nel regno deiprincipi: nel regno d’Oriente. Secondo questo canto antichissimol’uomo passa sulla terra per la conquista del Regno di Dio.

Il trait d’union tra lo gnosticismo dei padri cui Redfield si ri-chiama e gli spirituali da cui la vicenda prende le mosse è rappre-sentato da Gioacchino da Fiore. Sia Celestino che i fraticelli diAngelo Clareno erano profondamente legati al visionario calabre-se. Il pensiero di Gioacchino da Fiore è stato spesso interpretato

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in chiave gnostica, in riferimento alla “attesa della fine”, attesa diun nuovo eone e insieme sfiducia radicale verso il mondo cosìcom’è. Si veda Ernest Bloch, l’esponente più coerente della ridu-zione gnostica di Gioacchino da Fiore. Il tema gioacchinita del-l’avvento di un terzo regno, ha un precedente nello gnostico pseu-do Macario Della Perfezione nello Spirito (PG 34,842); (MajoryReeves The influences of prophecy in the later Middle ages. Astudy in Joachinism, Oxford 1969).

I vaticini di Gioacchino sono state rielaborati in molteplici pro-fezie successive. Ugo di Digne alla metà del ‘200, anticipa moltecaratteristiche degli spirituali di Provenza, larga e dimostrata l’in-fluenza gioacchinita nei suoi scritti. Di lui e delle sue facoltà pro-fetiche ci parla lo stesso Clareno nella Chronicon seu Historiaseptem tribolationum ordinis minorum (ed. A.Ghinato, Roma1959). Si considerino inoltre i testi pseudogioacchiniti: SuperHieremiam, Vaticinum Sybillae Erithreae, il De oneribus prophe-tarum, il Super Esaiam. Questi testi assegnano agli spirituali edalla loro capacità di incarnare il modello di vita di Cristo un ruolocentrale nell’avvento del Terzo Stato, il regno dello Spirito Santo,il regno della Felicità. Grande diffusione ebbero anche il Miroirdes simples ames di Margherita Porete -testo di riferimento deiFratelli del libero spirito-, la Scala Paradisi di Giovanni Climaco -tradotta durante il soggiorno greco da Angelo Clareno-, la Lectu-ra super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi.

Nella sua fuga in Tessaglia ed in Grecia, Clareno trovò rifugiopresso un monastero meteorico, qui tradusse, la Regola di SanBasilio, la Scala Paradisi, opere di Atanasio, Gregorio di Nissa eIsacco di Ninive. La versione di Clareno della Scala Paradisi èstata ritrovata nei Paesi Bassi e nel nord della Francia; essa hacontenuti esicastici: il grado 30 riecheggia Giovanni Evangelista,

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nell’amore non c’è timore (1 Gv 4,18 ); il grado 29 è sulla regalitàdel cuore di chi ascende al Signore e viene parafrasato anche dalMiroir.

Insomma lo spiritualismo orientale cui Clareno attinse a pie-ne mani durante il suo esilio (J.Gribomont Histoire du texte delAscetiques de S.Basile, Louvain 1953, 5, 57, 91-94), confluì attra-verso la sua traduzione della Scala e per altre vie attraverso il Mi-roir in tutta l’Europa del basso medio Evo e viene poi teorizzatada un nucleo di resistenza di spirituali benedettini del ‘500 nel-l’abbazia di Montecassino. Tra gli spirituali di Clareno ed i Fratellidel Libero Spirito di Margherita Porete vi furono scambi ed in-fluenze favoriti dall’azione di Bentivenga da Gubbio.

Sarebbe interessante infine scoprire se esiste una figura realea cui Redfield si è ispirato per il personaggio del monaco bene-dettino decapitato in Francia.

Alla definizione della figura di Angelo Clareno concorrono lelettere conservate alla Biblioteca Oliveriana di Pesaro cod.1942che avrebbero dovuto essere pubblicate dall’Istituto storico ita-liano per il Medioevo. (Lydia von Auw Angelo Clareno et les Spi-rituels italiens, Roma 1979)

Si comprende così che la storia di Redfield è solo simbolica eche ai personaggi storici che vengono evocati corrispondono idiversi apporti culturali che concorsero a formare il suo pensiero.Favola per adulti, la narrazione descrive metaforicamente i diversigradi che deve compiere il cristiano per fare un salto di qualitànella fede e nella propria vita. La scelta di questo espediente nar-rativo è coerente in se con lo gnosticismo dell’autore, gnostici-smo che ha ricevuto nuovo impulso nel dopoguerra per le sco-perte archeologiche di Nag Hammadi e Qumran. Non si può nonrilevare tuttavia che la Profezia di Redfield presenta quella devia-

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zione magista che fu dello gnosticismo medioevale e del neogno-sticismo alchemico, rosacruciano via via fino alle sètte attuali. Quila gnosi sembra tesa alla conquista del controllo della natura conil ricorso, a pratiche magiche. Incoraggia così un viaggio a spiralenelle profondità del mistero umano, un percorso orfico ove il de-lirio delle baccanti diviene il delirio di onnipotenza dell’uomoche vuol sottrarsi alle leggi fisiche, a quelle regole del gioco cui lostesso Creatore mostra di attenersi pur nell’attuazione dei mae-stosi disegni della provvidenza. Ecco che il ritorno al Cuore Sovra-no si ricongiunge al segreto delle tecniche Yoga, che il concettodi energia invece che servire a definire la nostra natura si trasfor-ma in una potenza da attivare a piacere. Lo stesso Sacro Cuore,non è più, in questo quadro, il cuore di Gesù di Nazaret, ma ilcuore del mondo, il motore immobile, il mozzo della ruota a 12raggi, come la cifra contabile base dell’eone platonico, la ruotadella sofferenza e della vita. E invece l’energia che ci costituiscesecondo la fisica stessa, dovrebbe servire a noi tutti per compren-dere di essere tralci di una stessa vite e ricongiungerci tutti nelCuore di Gesù di Nazaret, col suo amore per il prossimo superan-do l’individualismo e sanando quella ferita scissoria con cui l’uo-mo pagò il desiderio di conoscere del bene e del male.

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La mano divina benedice Celestino V, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana,

Ms.Rossiano, 374, fol. 4r

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P R O L O G O

Rerum experientia doctus. Bertrando de Goth, Clemente V, Vicarius Christi, Vicarius Dei, Vicarius Petri, primoPapa avignonese. Il male che gli divorava lo stomaco gli

dava dolori lancinanti; le mani erano scosse da un tremore legge-ro, ma inarrestabile; l’anello piscatorio scivolava continuamentedal dito scarno. Il capo chino, rimirava i paramenti disposti innan-zi a lui: la mitra turbinata lavorata a lanuggine di bianche piume dipavone, la croce pontificale, il camice di lino, la falda bianca, lepianete, il manipolo, la stola, il cingolo, il piviale di rosea seta sucui mano destra aveva disegnato le immagini dei Santi Padri rica-mate in oro, il bastone pastorale dritto, pedum restum.

Erano le insegne del suo potere. Dilì a poco se ne sarebbericoperto per celebrare, nella maestosità di Notre-Dame de Doms,la prima canonizzazione del suo pontificato, per elevare all’onoredegli altari Pietro del Morrone, Celestino V, anacoreta e Papa. Re-rum experientia doctus. Mai, come in quel momento, Clementepensò che la definizione che avevano dato di lui era profonda-mente ingiusta.

Astuto, malizioso, scaltro. Si sentiva, invece, debole, sprovve-duto, una canna percossa dal vento.

Tutto era nato in quella diruta abbazia, sperduta nella foresta

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di Saint-Jean d’Angély, sulla strada da Niort a Cognac, a oriente diRochefort. Era lì che, nove anni prima, mentre più accese si face-vano le dispute tra i cardinali, Philippe le Bel lo aveva legato a sénel patto simoniaco: la Tiara in cambio della piena condiscenden-za alla corte di Francia.

Aveva obbedito sempre o quasi: la revoca della scomunica aPhilippe e ai suoi; la riabilitazione dei Colonna; la preferenza dataai francesi nella scelta dei nuovi cardinali; la nomina dei candidatiregi nelle sedi vescovili più importanti di Francia contro i dirittielettorali dei capitoli cattedrali; la concessione al Re di ricevereper cinque anni le decime ecclesiastiche; il processo a BonifacioVIII; la soppressione dell’ordine dei templari.

Ora la canonizzazione dell’eremita del Morrone. Philippe loavrebbe voluto Santo martire, in supremo oltraggio a Bonifacio,ma lui non aveva acconsentito: Santo confessore si, Papa martireno. E, dopo tutto, s’era comportato in modo che il processo sisvolgesse con piena regolarità.

Era durato sette anni. Jacopo Capotio da Viterbo, Arcivescovodi Napoli, aiutato, finché era stato in vita, da Federico Raimundi,Vescovo di Valva e Sulmona, aveva “con ogni esatta diligenza” in-terrogato trecento e più testimoni.

Il resoconto di Jacopo era stato esaminato e ponderato da dot-tissimi prelati e cardinali: un lavoro minuzioso, attento. Non ave-va forse scritto il cardinale Stefaneschi “di averci sudato molto eche altri ci avevan sudato tutti e fino il Papa che non avevaposato per esaminarvi le singole cose”?

Nell’ottobre del 1311, il processo era stato sottoposto ai padripresenti al concilio di Vienna. Poi ancora ad Avignone in conciliosegreto, e il Sacro Senato aveva decretato che Fra Pietro del Mor-rone, “si celebre nel mondo”, dovesse venerarsi qual Santo con-

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fessore: sacrumque confessorem vocari decrevit.Il concistoro pubblico, ad Avignone, aveva apposto alla cano-

nizzazione il sigillo definitivo: a uno a uno i prelati avevano tessu-to con eleganti orazioni le lodi della vita e dei miracoli del Santo.Tutto era in regola, dunque. E allora perché tanto disagio e il ti-more di cedere ancora, quel cinque maggio del 1313, alla volontàdi Philippe?

Lo scosse dai suoi pensieri il suono delle campane. Poco dopoil sacrista bussò alla porta, seguito da una schiera di giovani pretiche dovevano rivestirlo degli abiti pontificali. Passivo strumentonelle mani dei cerimonieri, Clemente sopportò la loro solerziacon paziente sottomissione. Dalle finestre scorgeva i tetti di Avi-gnone, avvolta nel sole dopo interminabili giorni di pioggia.

“Avignon, la sonneuse de joie la ville accorte que le mistraltrousse et décoif e”. Come non amava quella città: le strade stret-te, fangose, sporche, gli odori fetidi, gli avventurieri, gli usurai, iladri, le prostitute. Ancora una volta lo assalì , struggente, il rim-pianto per il suo Comtat Venaissin: tanta quiete, i boschi, i conta-dini che gli restituivano la dimensione dell’infanzia, nel castello diVillandrau.

Attraversando le sale del palazzo si rese conto che il male chelo tormentava s’era davvero impadronito d’ogni sua fibra. Tuttolo infastidiva, anche quelle sale, quei tappeti nei quali rischiavacontinuamente d’inciampare, i mobili rivestiti di stoffe preziose,gli arazzi di Spagna e di Fiandra, sete e taffetas dipinte in verde ein rosso

Nell’uscire dal portone, il sole, già alto nel segno del Toro, loabbagliò d’un tratto; avverti un vago senso di confusione un lievegiramento del capo. Ma già il sacrista, sollecito, lo aveva rivestitodel piviale e il palafreniere si avvicinava per aiutarlo a montare sul

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bianco cavallo cornipede, bestia splendente sulla cui groppa sisentì perfettamente a suo agio.

Si guardò attorno: scorse i cardinali in ermellino, i prelati e glialtri curiali negli abiti di lana bianca, la folla anonima e informeche s’ammassava a rimirare la scena.

Lento il corteo s’avviò lungo il pendio e la gradinata, verso larocca di Doms, al tempio di Notre-Dame, Sacra domus venerandaDei genitricis. Da lontano Clemente scorse, attraverso la foschialeggera, il frontale della Chiesa parato a festa e i ceri senza nume-ro, che ardevano, faculae liquentes, sulle porte e fin sopra i tetti,a rappresentare lo splendore dei Santi. Nam faculea et intorticiarepresentant Christum dominum nostrum qui est verum lumen.

Entrando in Chiesa avvertì dietro di sé, fastidiosi, lo strascicardei piedi e il mormorio sommesso della moltitudine. A passo svel-to, alta la fronte, raggiunse l’altare e s’inginocchiò. Chiuse gli oc-chi, come per raccogliersi in preghiera, mentre il diacono lo cin-geva della corona frisia. Sostò ancora per un attimo, prima di le-varsi in piedi e ascendere al trono.

Dall’alto, baluginanti tra le luci dei ceri, scorgeva i cardinaliassisi a due a due nei banchi della navata centrale: i loro volti ru-gosi e avvizziti, gli sguardi aquilini che lo fissavano, pronti in ognimomento a giudicarlo. Più oltre, erano vescovi, monsignori e cu-riali. In mezzo, seduto a terra, strato sub pulvere, era il volgo:facce attonite, bocche aperte occhi dilatati, smarriti nello splen-dore che li circondava.

Con un cenno del capo il diacono gli indicò che l’ora di dareavvio alla cerimonia era giunta. Dette alla sua voce un tono. grave,quale la circostanza richiedeva. Citò le parole di Isaia: “Exulta etlauda habitatio Sion, quia magrus in medio tui Sanctus Israel”.

Poi ricordò le ragioni di quel rito. “Siamo qui per iscrivere al

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catalogo dei Santi confessori Frate Pietro del Morrone, Papa Cele-stino V. Non per antica nobiltà la sua stirpe si è resa splendente.Non la scienza, non la dottrina fecero grande quest’uomo, ma lalunga vita trascorsa nelle selve lo santificò. Gli mancarono gli illu-stri natali, le ricchezze, gli splendori del secolo. E tuttavia fu gran-de. Il suo amore per tutti, la sua umiltà, la semplicità sublime, lapovertà, il candore, il distacco dalle attrattive del mondo fino allameravigliosa sua rinuncia, ce lo rendono degno di ammirazione.Noi, conoscendo la santità della sua vita e i molti prodigi rivelatoridelle sue virtù, lo abbiamo giudicato degno d’essere santificato. Ecosì faremo, se Dio acconsentirà”. Clemente V tacque. Si levò inpiedi e, alzate le braccia al cielo, intonò con il coro dei cardinali edi tutti i prelati il Veni Creator spiritus, mentes tuorum visita.

Di nuovo silenzio. Secondo il cerimoniale, obbedendo all’or-dine del Pontefice, Guglielmo di Bajona, cardinale diacono, s’ap-pressò all’altare e dette lettura della vita e dei miracoli del Santo.

Toccò ancora a Clemente pronunciare la formula della cano-nizzazione: “A onore della Santa e Individua Trinità, a esalta-zione della fede cattolica ed aumento della cristiana religione,coll’autorità dello stesso Dio onnipotente, Padre, Figliuolo e Spi-rito Santo, dei Beati apostoli Pietro e Paolo e Nostra, col consi-glio ed assenso dei nostri fratelli, decretiamo e definiamo FraPietro del Morrone Santo da iscriversi al catalogo dei Santi con-fessori e in tal catalogo lo ascriviamo. Ordiniamo che dall’Uni-versa Chiesa, in ciascun anno, il 19 maggio, che fu il giornodella sua morte, la festa di lui e l’ufficio, siccome per un Confes-sore, devotamente e solennemente si celebri. Inoltre, con la me-desima autorità, a tutti i veramente pentiti e confessati che inciascun anno visitano il suo sepolcro nel giorno suddetto, rila-sciamo cinque anni e cinque quarantene d’indulgenza. A quel-

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li che in ciascun anno lo visitano, entro l’ottava di tal festa, unanno e quaranta giorni di penitenza ingiuntagli”.

Di nuovo Clemente s’alzò e depose la mitra. Cominciava adavvertire la stanchezza eppure doveva apparire esultante per ilcanto di ringraziamento: iubilans in cantica surgit. Te Deum lau-damus. La sua voce malsonante provocò nella folla un sorriso.

Tornò a sedersi per ascoltare il diacono di sinistra che, congarbo ben maggiore del suo, intonava: “Ora pro nobis beate Pe-tre Confessor Christi. Alleluia”.

Ancora in piedi, senza la mitra, per l’Oremus. Ancora seduto,con la mitra. Il diacono recitava il Confiteor con il nome del Santodopo quelli di Pietro e Paolo. In piedi per la benedizione praeci-bus et meritis.

Il sudore gli colava giù dalla fronte, per il volto, lungo la schie-na mentre celebrava, infine, la messa solenne, in paramenti bian-chi e tutte le torce venivano accese e i ceri ch’erano fuori veniva-no portati entro la Chiesa, luci che vincono le tenebre, noctemflammis fumalia vincunt, ad onore e gloria di Pietro del Morro-ne, Papa Celestino V, Santo confessore.

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I

Sulla fine del dodicesimo secolo aspre lotte opposero, intutta l’Italia meridionale, gli ultimi discendenti della stirpe reale normanna e gli imperatori tedeschi.

Teatro di combattimenti fra i più duri fu il contado del Molise.La ferocia dei tedeschi era grande e, nel 1196, Corrado Moscain-cervello, condottiero al servizio dei re germani che i francesi chia-mavano Diable au corps, prese il posto, quale conte del Molise,di Ruggiero, sconfitto in battaglia a Venafro e Monteroduni. Il suocontado ebbe breve durata. Lo sostituì, dal 1197 al 1202, l’alsazia-no Marcovaldo d’Anveiler, discendente della famiglia d’Andwyl,vassallo degli Hohenstaufen: astuto e audace, divorato dall’ambi-zione e dalla sete dell’oro.

Alla sua morte -superveniente dissenteria mirabiliter spira-vit- Ottone IV di Brunswick, novello signore tedesco, invase ilRegno e con lui si schierarono, suscitando l’ira di Federico II, moltinobili signori tra i quali Tommaso, conte di Celano e di Molise,della chiarissima famiglia dei Conti, figlio di Trasmondo e di Clari-na, fratello di Papa Innocenzo III.

Presto le sorti di Ottone di Brunswick volsero al peggio e Tom-maso, pro illius gratia optinenda, inviò alla corte dell’imperato-re il figlio Oddone.

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Federico II negò la grazia e il conte Tommaso, spedita in queldi Boiano la moglie, si rifugiò nella Rocca Magenulfi, fra le golenascoste dei monti del Matese.

Per anni continuò le sue lotte contro l’imperatore, sin quandoquesti, nel 1223, prese in ostaggio la contessa. Tommaso fu co-stretto alla resa e solo grazie all’intercessione della Curia romanaebbe salva la vita.

Con le sue cose e i seguaci più fedeli s’impegnò ad uscire persempre dal Regno, mentre il contado di Molise veniva riservatoalla contessa moglie ex pacto: Iíbi et filiis, tibi et suaccessoribus,tibi et descendentibus, sed non tibi et heredibus.

S’era chiusa, in tal modo, la grave contesa fra il conte Tomma-so e l’imperatore Federico. Ma le resistenze incontrate avevan fat-to si che il Sovrano mal sopportasse quel contado ribelle.

E’ qui, nel Contado del Molise, che Pietro del Morrone, futuroCelestino V, nacque.

In un antico manoscritto, conservato a Isernia, è dettto:”DariusAeserniensis civis, Episcopus ab anno 1208 ad antum 1222. EiusPraesulatss tempore, circa annum 1215 hic - Aeserniae ortumhabuit ab Angelerio de Angeleriis et Maria de Leone civitatisAeserxiae Petrus Celestine”.

Sulla data di nascita, 1215, non vi sono dubbi. Sul luogo, Iser-nia, molti sono andati accumulandosene negli anni poiché nonpochi indicano in Sant’Angelo di Limosano, piccolo centro nondistante da Campobasso, la sua patria d’origine. Certo è, comun-que, che Pietro, undicesimo di dodici fratelli, fu molisano.

Suo padre, Angelerio de Angeleriis, era un piccolo, ma intra-prendente agricoltore; sua madre, Maria de Leone, una pia e labo-riosa massaia. Di salute cagionevole e afflitta da un non lieve difet-to fsico -il lato destro era quasi del tutto paralizzato- Maria aveva

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sposato Angelerio nonostante questi fosse assai più in avanti di leinegli anni: un matrimonio combinato, probabilmente, in cui l’in-fermità dell’una faceva da contraltare all’età avanzata dell’altro.Ma Maria fu moglie esemplare, tutta casa e chiesa.

Bravissima nella guida della famiglia, con dodici figli da alleva-re, e disponendo di mezzi tutt’altro che cospicui, riuscì a fare del-la sua casa una sorta di asilo per i poveri della zona che vi trovaro-no sempre un piatto di minestra, un giaciglio e qualche soldo:“elemosinas et ospitium libentissime pauperibus tribuebat” scris-se Pietro nella contestatissima autobiografia.

Che tra i dodici figli che aveva messo al mondo, Maria predili-gesse Pietro è fuori di dubbio. La predilezione si spiega. Pietro,infatti, era venuto alla luce “con una veste sul corpo”. Era nullapiù che la membrana che forma il sacco dell’amnios. Ma, secondouna credenza popolare -tuttora diffusa in molte contrade del Sud-, chi nasceva avvolto in questa specie di abito monacale era daconsiderarsi un prediletto dal Signore, destinato alla vita religio-sa. È facile intendere quanta importanza Maria attribuisse a que-sto segno del cielo.

Per la verità sulla via del convento era già stato avviato il secon-do dei fratelli di Pietro. Ma, libertino e rissoso, aveva dato pessimaprova della propria vocazione religiosa. Quando morì, Maria nonebbe più dubbi.

Erano morti, nel frattempo, anche suo marito Angelerio e, l’unodopo l’altro, altri quattro figli. Ormai capofamiglia, Maria deciseche Pietro avrebbe dovuto prendere il saio e che, nell’attesa, anzi-ché spendere il suo tempo nel lavoro dei campi, avrebbe dovutodedicarsi agli studi.

In famiglia successe il finimondo. I fratelli non avevano simpa-tia per quel ragazzino esile, dagli occhi celesti, servizievole ma

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solitario.Morto Angelerio, in casa non si navigava certo nell’oro e spen-

der soldi per far studiare Pietro veniva considerata un’assurda stra-vaganza di Maria.

Corsero parole grosse e la povera donna fu messa sotto accu-sa. Ma tenne duro. E resistette, tirandosi dietro altre critiche ealtre invettive, anche all’offerta di un facoltoso vicino che avevaproposto di prendersi in casa il ragazzo per farne il proprio servi-torello.

Per convincere i figli della “santità” di Pietro e della sua prede-stinazione alla tonaca, Maria ricorse a tutto. Raccontò, persino, diun vero e proprio miracolo di cui il bambino si sarebbe reso pro-tagonista.

Il frumento scarseggiava ed eran per tutti, in paese, tempi dimagra. Niente grano, niente farina, niente pane. Eppure Pietro,portata con sé la falce, era andato nel campo. A far che -gli aveva-no chiesto- se il frumento era ancora erba? Ma Pietro, senza esita-zioni, aveva preso a falciare ed era riuscito a riportare a casa tantograno maturo quanto ne sarebbe servito a sfamare la famiglia perdiversi giorni.

A convincere Maria della bontà della scelta compiuta contribu-irono in maniera determinante due sogni. Il primo di una madri-na di Pietro alla quale era apparso il defunto Angelerio, esortan-dola a riferire a Maria di mantenere ben fermo il suo punto e di farstudiare il ragazzo perché era destinato a grandi cose.

A fare il secondo sogno, giunto all’età di dodici anni, era statolo stesso Pietro. Aveva visto un chierichetto che, lentamente, sitramutava in pastore e pascolava un immenso gregge di pecore,bianche come la neve.

Al mattino, quando Pietro le aveva raccontato la sua visione