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LO SPAZIO UMANO

TRA MALATO E MEDICO

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A cura di ATTIVEcomeprima

PRESENTAZIONE DI ANNA LA ROSA

PREFAZIONE DI STEFANO GASTALDI

INTRODUZIONE DI UMBERTO VERONESI

LO SPAZIO UMANOTRA MALATO E MEDICO

PARLANO MEDICI, PAZIENTI, PSICOLOGI

Il Pensiero Scientifico Editore

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Prima edizione: dicembre 2005© 2005 Il Pensiero Scientifico EditoreVia Bradano 3/c, 00199 RomaTel. (+39) 06 862821Fax (+39) 06 86282250E-mail: [email protected]: www.pensiero.it - www.vapensiero.infohttp://salute.yahoo.itTutti i diritti sono riservati per tutti i PaesiNessuna parte del presente volumepuò essere riprodotta, tradotta o adattatacon alcun mezzo (compresi i microfilm,le copie fotostatiche e le memorizzazioni elettroniche)senza il consenso scritto dell’EditoreLa violazione di tali diritti è perseguibile a norma di leggeStampato in Italia dalle Arti Grafiche TrisVia A. Dulceri 126-128, 00176 RomaImmagine in copertina: Henri Matisse, Michaela su fondo ocra, 1943-44Coordinamento redazionale: Silvana Guida

Un progetto educazionaleofferto da Ortho Biotechuna Divisione Janssen-Cilag S.p.A.

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Bruno AzzoliniManaging DirectorOrtho Biotech (Divisione di Johnson&Johnson)

Paola BertolottiPsicologa, PsicoterapeutaVicepresidente Comitato Scientifico ATTIVEcomeprima

Ada Burrone Fondatrice e PresidenteATTIVEcomeprima

Salvo CataniaChirurgo OncologoResponsabile Unità Operativa di Senologia Policlinico Multimedica e Istituto Clinico S. Ambrogio, Milano

Giorgio FiorentiniCattedra di Economia e Gestione delle Aziende Non ProfitUniversità “Luigi Bocconi”, Milano

Stefano GastaldiPsicologo, PsicoterapeutaPresidente Comitato scientifico ATTIVEcomeprima

Anna La RosaGiornalistaDirettore “Tribune e Servizi Parlamentari”, RAI

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AUTORI

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Paolo LiguoriSociologoConsulente di Direzione

Marco MargnelliNeurofisiologoDirettore Centro Studi Ricerche sulla psicofisiologia degli stati di coscienza, Roma

Francesca MerzagoraPresidente Forum Italiano Europa Donna

Sergio PecorelliCattedra di Ginecologia oncologicaUniversità di Brescia, Brescia

Kathy RedmondEx Presidente European Oncology Nursing Society

Alberto RicciutiUrologoMembro Comitato Scientifico ATTIVEcomeprima

Agnese RonchiTraduttrice

Patricia ValentePsicologaMembro Comitato Scientifico ATTIVEcomeprima

Umberto Veronesi Chirurgo OncologoDirettore Scientifico Istituto Europeo di Oncologia, Milano

Claudio VerusioOncologo Medico, Responsabile Unità Operativa Oncologia Medica, Ospedale di Saronno, Varese

LO SPAZIO UMANO TRA MALATO E MEDICO

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Presentazione, Anna La Rosa IX

Prefazione, Stefano Gastaldi XIII

Introduzione, Umberto Veronesi XVII

Parte primaAscoltare i bisogni del malatoper rispondere alle necessità della persona

1. Il malato e il medico: due persone a confronto,Ada Burrone 1

2. Il lavoro di ATTIVEcomeprima, Paola Bertolotti 7

3. “Dottore si spogli”, Salvo Catania 13

TestimonianzeLottare insieme per vivere. L’esperienza di una paziente,Agnese Ronchi 21Il vissuto di un familiare, Francesca Merzagora 23

Parte secondaLa fatigue come sofferenza globale:cos’è, come affrontarla

4. Una vita migliore per il malato di cancro,Sergio Pecorelli 27

5. I numeri e il peso della fatigue in Italia,Claudio Verusio 39

6. Il ruolo dell’infermiere nel rapporto tra medicoe paziente affetto da fatigue, Kathy Redmond 49

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INDICE

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7. Il rapporto medico-paziente in relazione alla fatigue,Patricia Valente 53

8. Il supporto medico generale al malato oncologico,Alberto Ricciuti 57

TestimonianzeLa gestione della fatigue in oncologia nel rapporto medico-paziente,Paolo Liguori 65

9. Riflessioni conclusive, Marco Margnelli 69

Parte terzaAziende di profitto e non profit:una visione etica comune

10. La responsabilità sociale dell’azienda farmaceutica,Bruno Azzolini 75

11. ATTIVEcomeprima: onlus e azienda di solidarietà,Giorgio Fiorentini 81

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La mia storia professionale mi vede nascere come giornali-sta parlamentare, ma i miei studi di filosofia mi hanno avvici-nato più alle persone che alle “cose” o ai “fenomeni”. E questoanche quando mi occupo di politica: i miei programmi, il modoin cui ho sempre trattato questo argomento – che nella perce-zione sociale non ha molto di “umano” - dimostrano come abbiasempre cercato di umanizzare, per quanto possibile, la politica.E il mio ruolo, appena ne ho avuto l’occasione, l’ho messo adisposizione anche dei temi della salute: si risale addirittura adieci anni fa, quando per la prima volta mi sono occupata dellamalattia cancro.

Mi sono avvicinata a questa malattia forse perché ne avevopaura, perché alcune persone vicine, conoscenti, parenti, eranostate vittime di questo male. Ma ad un certo momento ho capi-to che di cancro si può guarire. L’importante è riuscire perquanto possibile ad accettare la malattia: io stessa ho avutoun’esperienza di questo tipo, sono stata 40 giorni in prognosiriservata, e ho capito – perché secondo me ognuno di noi è ilrisultato dell’esperienza che ha fatto – che non è un luogo comu-ne; ed è proprio questo il concetto che cerco di comunicare attra-verso la televisione.

Se c’è qualcuno che ci aiuta, se noi continuiamo a coltivarein ogni momento la speranza di vivere, guarire può diventaremeno problematico; per me lo stimolo era sapere che c’era qual-cuno che aspettava la mia guarigione come una festa: nel miocaso, era la mia bambina, che allora era piccola, e lo sforzo chefacevo ogni giorno era di farmi trovare sempre ottimista, sorri-dente, come se stessi bene.

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PRESENTAZIONE

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Anche se avevo un problema che non si sapeva se e quandosi sarebbe risolto, cercavo sempre di accogliere la mia bimba congioia. Poi mi sono resa conto che questo faceva bene anche a me,al mio umore, che mi aiutava a superare i momenti critici: dove-vo essere forte da un lato per una persona importante e indife-sa, dall’altro perché che questa piccola bambina aveva ancorabisogno di me e aspettava che tornassi a casa con lei.

Questa esperienza mi ha aiutato molto anche dopo nella vita,perché mi ha permesso di migliorarmi e di tornare più attiva diprima. E infatti, dopo trent’anni, direi che più che “attive comeprima”, lo slogan giusto potrebbe essere, “attive più di prima”,perché quando si attraversa e si supera un ostacolo come lamalattia, è certo che si apprezza di più la gioia di vivere.

Nella mia esperienza professionale, mi sono occupata moltodei tumori, in particolare del tumore al seno: lo sa il professorVeronesi, che da dieci anni mi onora della sua collaborazione, eanche il Ministro della Salute. Anche di recente, in occasionedella Giornata Nazionale della Lotta al Tumore, ho dedicatoall’argomento un’intera puntata: ho cercato di dare un tagliodiverso, di rendere il malato protagonista.

La diagnosi precoce, la prevenzione, la cura sono, ovviamen-te, aspetti fondamentali, ma è altrettanto importante non tra-scurare l’aspetto psicologico, umano insomma, della malattia.Vorrei portare, a questo proposito la testimonianza di una gio-vane donna, Maria, colpita dal tumore e che ora è guarita. Èstato grazie a Maria che mi si è squarciato il velo e ho capitol’importanza della “persona”, della psiche, nella cura dellamalattia… Lei mi diceva: “Quando ho scoperto di avere il tumo-re al seno mi sono detta: perché proprio io?” È quello che ci chie-diamo sempre quando noi o una persona cara sia ammala ditumore o di un’altra grave malattia: “Perché proprio a me?”Ecco dove emerge la centralità del paziente.

Ed ecco dove torniamo a parlare di quanto ATTIVEcomepri-ma ha fatto e sta facendo per affermare questa necessità. Hoconosciuto Ada Burrone attraverso un’intervista. Devo dire, enon è un luogo comune, che mi ha davvero aperto il cuore illavoro meraviglioso di tante donne, che collaborano con ATTI-VEcomeprima. Sono davvero onorata di essere stata chiamataa presentare questo volume, che raccoglie le esperienze di pro-

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fessionisti della medicina oncologica, ma lascia doverosamentespazio anche alla voce dei pazienti. Come “protagonisti”, appun-to, della loro malattia.

Anna La RosaGiornalista

Direttore “Tribune e servizi parlamentari”RAI

PRESENTAZIONE

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Come tutte le malattie gravi non ancora sconfitte dai progres-si della medicina, il cancro evoca emozioni intense e paure diffu-se nelle nostre menti, radicate nel pensiero e nell’immaginariosociale. La paura della morte, innanzitutto, ma anche della sof-ferenza e dell’incertezza. D’altro canto, la diffusione di questagrande malattia rende possibile a ognuno di essere in contattocon qualcuno che si è ammalato di cancro o che è vicino a unammalato di cancro. Il cancro è dunque un compagno di viaggiodell’umanità, perlomeno della “nostra” umanità occidentale, piùagiata e lungovivente che altrove nel nostro mondo.

La medicina, abitata da una cultura tecnologica e fortementeorientata alla lotta alle malattie, ha impiegato contro il cancro risor-se immani, enormi nei mezzi, negli investimenti di pensiero e di tec-nologia. Ma ha impiegato anche “vite”, vissute nell’incessante con-tatto con la speranza, la paura, il successo e i fallimenti. Vite paral-lele e intersecate: quelle dei medici, del personale sanitario, dellepersone ammalate e dei loro cari. Queste vite sono state anche permolto tempo separate da “ruoli” che sembravano per alcuni versiinconciliabili.

Curare una malattia con poco successo può infatti rendere imedici, assorti nella loro scienza e nei loro dilemmi, separati dal-l’umanità dolente e ansiosa di chi teme (spesso a ragione) di potermorire della propria malattia, concentrati sulla ricerca di stan-dard terapeutici sempre più elevati ed efficaci, disperati ogniqualvolta i numeri statistici rendono la persona ammalata chesta davanti a loro un futuro, probabile, “morto”. Dall’altra parte,vivere una malattia che si sa potenzialmente letale può, per lapersona, aumentare il bisogno di sperare nei medici, anche al di

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PREFAZIONE

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là di quel che essi possono effettivamente dare, con tutta la buonavolontà e con la migliore capacità professionale possibile.

In questa situazione si crea una sorta di paradosso: il fattoreche rende necessario l’incontro tra il medico e la persona amma-lata, il cancro, è anche il fattore che divide i due, a causa di biso-gni e pensieri talvolta del tutto inconciliabili. Il dolore che sigenera è allora quello della forzata limitazione, separatezza oesclusione dell’umanità dei protagonisti dal rapporto di cura.

Pensare che il medico e l’ammalato sono entrambi “persone”può forse sembrare un fatto ovvio, al limite della banalità, ma èinvece un fatto quasi “eversivo” e innovativo, che suggerisce pro-spettive feconde anche per l’idea stessa della cura e dei suoipotenziali.

Da sempre, i medici illuminati sono clinici capaci, in possessodella professionalità e del carisma personale necessari per poterassumere una posizione rispettosa delle conoscenze acquisite madeterminati a valutarne l’applicazione a un singolo e originaleessere umano, col suo bagaglio di esperienze, bisogni, vincoli, aspi-razioni, relazioni, idiosincrasie, storia, umana e biologica. In essitraspare sempre un’intenzione a comunicare, che viene percepitadall’ammalato come vicinanza, disponibilità a curare al meglio,orientamento ad accompagnare comunque l’esperienza dellamalattia.

Altrettanto potremmo dire dei “grandi” ammalati, capaci diparlare ai loro medici con una umanità comprensiva e talvoltaaddirittura spiazzante; capaci anche di valutare le possibili pro-spettive negative della loro malattia e di chiedere un aiuto pos-sibile e non onnipotente; capaci perciò di lenire il dolore o lapaura di chi li cura, talvolta con poca speranza statistica, e di tra-smettere gratitudine non per la guarigione ma per l’aiuto ricevu-to dal medico.

I grandi medici e i grandi ammalati non sono altro che gli esem-pi estremi di un’attitudine naturale a incontrarsi, che una culturasinora molto arruolata nel fondamentale obiettivo della lotta allamalattia ha reso difficile, talvolta addirittura impossibile.

Questo libro parla di come sia invece possibile e utile include-re l’idea dell’umanità di tutti i protagonisti nelle vicende dellamalattia e della cura. Esso riporta in gran parte, riveduti e adat-tati, gli interventi presentati nel corso di una memorabile gior-nata di studio e di incontro che ATTIVEcomeprima ha realizzato

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a Milano sul tema dello spazio umano tra malato e medico. ATTI-VEcomeprima ha sviluppato una cultura e una metodologia chesi fonda sui cardini dell’esperienza umana di chi vive la malattiae di chi la cura. Ma ATTIVEcomeprima ha fatto ancora di più: haideato un metodo per “restituire la vita alla vita”, utilizzando unadelle più potenti capacità evolutive degli esseri umani: quella di“normalizzare la paura” e di non consentirle di paralizzare e stra-volgere il flusso vitale.

La capacità di provare paura è importante: la specie nonpotrebbe sopravvivere senza percepire i pericoli, ma quando essaè eccessiva, cronica e pervasiva blocca la persona e le impediscedi continuare a crescere, amare, sperare.

Il lavoro di ATTIVEcomeprima risveglia dal sonno della paura,consente di accettarla e la rende meno pervasiva e disturbante; inquesto modo si liberano spazi per accogliere i bisogni, i desideri, icambiamenti che sempre si generano nell’incontro con l’esperien-za del cancro. Questo mondo di emozioni, spesso tenuto segretodalla persona ammalata o sommerso dall’oceano della paura, è unelemento essenziale della capacità di reagire in modo vitale allamalattia. L’apertura a questo spazio umano rende la relazione dicura ricca, emozionante e intensa, di per sé già un aiuto e, comun-que, un’esperienza umana importante, talvolta indimenticabile.

Stefano GastaldiPresidente

Comitato ScientificoATTIVEcomeprima

PREFAZIONE

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Questo è un momento storico abbastanza importante per lamedicina, dove il rapporto tra paziente e medico è oggetto di for-tissime discussioni. Noi tutti pensiamo, sappiamo, riteniamo cheil rapporto debba essere sempre più stretto e che questo spaziodebba essere sempre più ridotto. Il medico dev’essere accanto alpaziente: questo è il nostro pensiero e credo che molti lo condivi-dano, ma non tutti la pensano così. Infatti, che cosa è avvenuto inquest’ultimo periodo?

Nell’ultimo decennio l’evoluzione tecnologico-diagnostica estrumentale è stata talmente avanzata, così rapida e così perfe-zionata, per cui teoricamente possiamo formulare diagnosi di unamalattia e programmare un terapia, anche a lungo termine,senza aver bisogno di visitare il paziente. E possiamo seguirlodurante la terapia con esami frazionati, sempre senza aver biso-gno di vederlo. Questo in teoria.

Naturalmente noi non pensiamo che questa sia la via giusta,ma qualcuno pensa di sì. Qualcuno ritiene che, se vogliamo entra-re in una medicina veramente obiettiva (e l’obiettività è il fonda-mento della scienza), non dobbiamo ascoltare il paziente, nondobbiamo aver rapporti col paziente, perché questo ci puòinfluenzare. Un eccessivo rapporto col paziente ci porta in quel-la condizione per cui noi diciamo spesso: “Io non riesco a curareun mio parente, perché sono troppo influenzato”; perché c’è unaspetto emotivo che in qualche maniera ci può portare a deviaredalle condizioni ideali della diagnosi e del trattamento. Questacorrente, che è oggetto di dibattiti o che stimola interventi inmolte riviste scientifiche e no nel mondo, è diffusa soprattutto inambiente anglosassone, ma è abbastanza recepita anche da grup-

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INTRODUZIONE

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pi italiani, di origine o di formazione anglosassone, secondo iquali quanto meno si interagisce col paziente tanto migliore saràla terapia, tanto più sarà distaccata, obiettiva, perfetta.

Questo tipo di atteggiamento è anche figlio di una nostra ini-ziativa di molti anni fa, che ha portato alla creazione dei famosi“protocolli diagnostico-terapeutici”. Negli anni ’60, io e pochi altrifummo all’origine di questo movimento che cercava di creare perogni tipo di malattia e, nella fattispecie, per ogni tipo di tumore,una sorta di vademecum, delle guidelines, linee-guida che abbia-mo ribattezzato protocolli, con lo scopo di superare le difformitàdi trattamento allora comuni in Italia. Le decisioni terapeutiche,infatti, erano spesso lasciate all’iniziativa individuale dei prima-ri ospedalieri, magari non allineati con le conoscenze del momen-to. La logica del protocollo doveva essere allora un’indicazione dicomportamento medico di massima, ma non necessariamente daseguire alla lettera, come viceversa è successo. Tanto che oggi ilprotocollo è una specie di riferimento obbligato, per cui moltimedici, soprattutto in oncologia medica, vedono pazienti, pongo-no diagnosi e poi consultano il famoso protocollo: “Questo è quel-lo che va fatto, caro signore o cara signora, e quindi lei lo devefare”. È una posizione che non può più essere condivisa, per cuiora stiamo avviando il movimento opposto, per ritornare a unaterapia e a un rapporto sempre più individualizzato.

Come accennavo in precedenza, il dibattito in corso vuole por-tare la medicina alla massima condizione di oggettività possibileperché, se la scienza è oggettività, si vuole portare la medicina ilpiù possibile all’interno della scienza e ridurre le componenti medi-che troppo soggettive. È risaputo che Jean Bernard definiva l’attomedico “un insieme di scienza, di arte e di magia”. Ecco che l’ulti-ma parte, quella che lui chiama magia e che in realtà è quel rap-porto di influenza personale del medico, quella specie di suggestio-ne che il medico può dare al paziente andrebbe, secondo questanuova corrente, totalmente eliminato. Dobbiamo essere oggettivi,freddi e distaccati: questa sarebbe la miglior medicina.

Io non la penso così e fortunatamente non sono il solo. AdaBurrone, senz’altro non la pensa così. Perché? Perché noi pensia-mo che la malattia, per definizione, sia presente in quanto vienepercepita dalla mente del paziente. E una malattia, la stessamalattia, può essere leggera, grave o gravissima in rapporto acome il paziente la percepisce. Ed è difficile classificare una

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malattia, se non conosciamo come viene vissuta. Non c’è dubbioche nel mondo della sofferenza, della malattia in generale, o dellasalute, se volete, sono la nostra esperienza psichica, il nostro vis-suto, il nostro passato, il nostro futuro, le nostre aspettative, ilnostro stato di ottimismo e di pessimismo, a regolare la gravitào non gravità della malattia. Noi non possiamo ignorarlo, nonpossiamo usare la stessa terapia per tutti, senza tener conto dicome questa persona vive la sua malattia.

Ricordo, per esempio, il caso di un paziente condannato all’er-gastolo che viveva drammaticamente e tragicamente la sua condi-zione. Gli venne diagnosticato un tumore, per cui lo ricoverammo;per lui aver avuto un tumore era stata una benedizione, perché l’a-veva liberato. Ciò che per un altro sarebbe stata una tragedia, perlui è stato una liberazione. Il fatto poi che fosse stato operato e chefosse guarito, diventa secondario. Ebbe la grazia tra l’altro, ed evitòl’ergastolo; fu per lui davvero una fortuna. Ciò che mi interessadimostrare con questo caso, è il relativismo insito nella percezionedella malattia. Noi non possiamo perciò curare una persona se nonconosciamo la sua sofferenza, la sua angoscia, lo stato di ansia, lostato di depressione. Inoltre sappiamo come sia diverso curare unpaziente che è convinto di non riuscire a superare la malattia,rispetto a un malato determinato a guarire, con un’ottimisticavisione del futuro.

Ecco perché, in medicina, dobbiamo insistere per una visioneglobale della persona; va benissimo conoscere nei dettagli, tecno-logicamente, la condizione dei suoi organi, il suo stato di malat-tia. Ma è altrettanto fondamentale conoscere la sua condizionepsicologica. E questo atteggiamento fa chiaramente imboccare lastrada dell’avvicinamento tra medico e paziente.

Qui tocca al medico fare dei passi: è importante che noi medi-ci ci riavviciniamo al paziente e riconsideriamo questo rapportoche già altre volte abbiamo definito con il termine di “empatia”.Empatia spiega molto bene come dovrebbe essere il rapporto. L’o-rigine del termine viene dalla filosofia tedesca dell’inizio del seco-lo che sosteneva che, imitando una persona, si risvegliano den-tro di noi gli stessi suoi stimoli psicologici ed emotivi. È questala premessa per quella che noi chiamiamo “immedesimazione” inuna persona che ci sta vicino.

Empatia vuol dire immedesimarsi, immedesimarsi nel pazien-te, fare propri i suoi bisogni, i suoi problemi, la sua sofferenza.

INTRODUZIONE

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Naturalmente vuol dire anche soffrire col paziente, gioire colpaziente, in rapporto alle varie evoluzioni della malattia. Non èfacile. È più facile rimanere oggettivamente distaccati, perchéquesto tipo di rapporto non è esente da sofferenza propria, esigeuno sforzo aggiuntivo, rispetto alla medicina che viene insegna-ta. È il grande passaggio tra ciò che definiamo “curare un pazien-te” e “prendersi cura del paziente”. Prendersi cura vuol dire occu-parsi di lui, di lui come persona, nella sua globalità, nella sua sof-ferenza.

Bisogna resistere alla tentazione di eccessiva oggettività. Biso-gna tornare, insieme a tutti quelli che hanno passato la vita vici-no ai malati gravi, a una condizione di maggior dialogo con ipazienti, soprattutto oncologici, dove è sempre più necessarioassumere un atteggiamento di profonda umanità e, ancora unavolta, di empatia.

Umberto VeronesiChirurgo Oncologo

Direttore ScientificoIstituto Europeo di Oncologia, Milano

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PARTE PRIMA

ASCOLTARE I BISOGNI DEL MALATOPER RISPONDERE ALLE NECESSITÀ

DELLA PERSONA

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Calandomi nel ruolo di paziente non posso evitare di portare,oltre alla mia esperienza di più di 30 anni fa, anche i contenutidelle esperienze di migliaia di donne e di uomini colpiti dal can-cro che ho incontrato nel lavoro quotidiano, perché le emozioni ei bisogni urgenti e profondi miei di allora sono gli stessi che horiscontrato e che riscontro oggi.

Torno a quel venerdì 17 aprile in cui la mia vita è cambiata.Un cancro al seno aveva segnato il mio corpo e una ferita invisi-bile ma profonda – causata dalla paura – mi impediva di incana-lare le energie nella vita. In compagnia del pensiero della malat-tia e della morte capivo che stavo già cominciando a morire. Chimi amava cercava di rassicurarmi, mentre i medici mi invitava-no a essere serena per contribuire alla guarigione. Ma come pote-vo io acquisire la serenità e trovare la speranza a comando? Misentivo smarrita e, conoscendo la prognosi infausta, mi rendevoconto che stavo toccando il fondo.

Non ricordo come e perché un giorno scattò in me come unascintilla, il bisogno di risalire verso me stessa e ritrovare la miaidentità perduta.

Andai in cerca di speranza; bussai alla porta di alcuni spe-cialisti tra i più noti, determinata a trovare un aiuto per starenella vita, al di là del tempo che mi sarebbe rimasto. Ne consul-tai tre e, pur essendo io la stessa persona, con in mano gli stes-si documenti, ottenni da ognuno una risposta differente. Ilprimo mi disse perentoriamente: “Inutile la sua preoccupazio-ne ora, signora: ciò che aveva le è stato tolto, prima o poi lepotrà ritornare”. Uscendo da quello studio non vedevo più futu-ro davanti a me.

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1IL MALATO E IL MEDICO:DUE PERSONE A CONFRONTO

Ada Burrone

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Il secondo mi confortò dicendo: “Potrebbe accadere a lei per laseconda volta come a me per la prima”. Sentii la sua condivisio-ne e trovai un po’ di forza.

Il terzo medico che consultai fu l’ultimo perché non ebbi piùbisogno di altri. Mi accolse con affettuosità, mi strinse la manoe, abbracciandomi con lo sguardo, si avvicinò a me come se voles-se proteggermi. Mi ascoltò e io mi sentii profondamente compre-sa. Mi trasmise la sua speranza, sentii la sua alleanza e credet-ti alle sue parole, che esprimevano fiducia per poter guardareavanti insieme: uscita dal suo studio alzai gli occhi al cielo e nevidi finalmente l’azzurro.

Da quel momento ho dirottato il pensiero della paura di mori-re al coraggio di vivere in armonia col mio sentire. Non provavopiù il senso di solitudine perché qualcun altro ora sperava con mee, al bisogno, mi avrebbe potuto aiutare. Ho inoltre compreso chequando ci si ammala di cancro c’è più che mai bisogno di sentireche la nostra umanità si incontra con l’umanità altrui. Questoperché, non potendo sempre avere garanzie su cosa succederà neltempo, è necessario per paziente e medico sia tollerare un’incer-tezza, sia mantenere aperta una speranza. Il malato non ha biso-gno di chi drammatizza o minimizza, né di chi nega la realtà conle sue difficoltà e durezze; ha bisogno di sentire il medico vicinonella buona e nella cattiva sorte.

Ho visto che i pazienti cosiddetti “eccezionali” sono quasi sem-pre persone che hanno instaurato un rapporto di fiducia con ilproprio medico, che la disponibilità del medico ad ascoltare nondipende soltanto dal tempo, ma dalla capacità personale di acco-gliere e condividere, mentre a volte la persona che sta dietro alcamice, pur essendo un validissimo specialista, può essere unuomo che ha difficoltà ad aprirsi alle emozioni.

Per chi è fisicamente malato, invece, la condivisione delle emo-zioni assume un valore inestimabile. Perché sentirsi compresisignifica sentirsi affettuosamente protetti.

Personalmente non ho mai dimenticato quel medico che 33anni fa mi ha aiutata a riscoprire il colore del cielo e a riconside-rare la vita. Sono felice oggi di essere ancora qui, al suo fianco,al fianco di Umberto Veronesi.

Umberto Veronesi ha anche seguito, passo per passo, dall’ini-zio fino ad ora, la costruzione e la crescita di ATTIVEcomeprima.Con rigore e passione abbiamo lavorato tutti insieme: pazienti,

ASCOLTARE I BISOGNI DEL MALATO PER RISPONDERE ALLE NECESSITÀ DELLA PERSONA

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medici, psicologi, per testimoniare la vita dopo il cancro, perabbattere i pregiudizi (favorendo così anche la diagnosi precoce),per rispondere ai bisogni comuni espressi dai malati, per raffor-zare la loro partecipazione attiva alle cure e, infine, ma soprat-tutto, per aiutarli a vivere in modo pieno e autentico nella buonae nella cattiva sorte.

Il modello di lavoro che ne è derivato è del tutto unico e origi-nale, in grado di integrarsi con le altre realtà del mondo sanita-rio e di porsi a fianco di queste e del singolo medico. Perché il rap-porto tra chi è malato e chi cura sia un flusso costante di ascoltoreciproco, comprensione e fiducia.

IL MALATO E IL MEDICO: DUE PERSONE A CONFRONTO

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Integrare al rigore scientifico della medicina la necessità di com-prendere i bisogni umani e profondi della persona che si trova avivere forse una delle esperienze più destabilizzanti della vita, ilcancro, è un’esigenza sempre più sentita. Patch Adams ha detto:“Curando la malattia si può vincere o perdere, ma curando la per-sona vi garantisco la vittoria a prescindere dai risultati”. È unafrase che racchiude in sé il senso del lavoro di ATTIVEcomeprima.

Per chi non ci conoscesse, ATTIVEcomeprima è nata nel 1973con lo scopo di migliorare la qualità della vita della donna colpi-ta dal cancro. Da allora ha sempre lavorato con l’obiettivo di offri-re un sostegno globale indispensabile per affrontare una malat-tia così complessa.

Il nostro lavoro è nato ascoltando i bisogni espressi dalle moltemigliaia di donne di ogni età, di ogni cultura, in ogni condizionefisica, incontrate in trent’anni. Abbiamo costruito strumenti emetodologie assolutamente originali, costantemente verificatinella loro efficacia, attraverso studi e ricerche.

L’équipe di ATTIVEcomeprima è formata da medici, da psico-logi, da operatori delle attività psicofisiche e da donne, donne chehanno vissuto l’esperienza del cancro e che, dopo aver completa-to il loro percorso nei gruppi di sostegno, si sono preparate peraffiancare i medici e gli psicologi nel loro lavoro.

Chi si confronta con l’esperienza del cancro sa che questa èuna realtà che coinvolge la persona a livello globale, cioè fisico,umano e psicologico. E la persona non esprime soltanto il biso-gno di essere curata al meglio nel fisico, ma anche quello di esse-re sostenuta umanamente e di essere aiutata ad affrontare ilcambiamento esistenziale che necessariamente si trova davanti.

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2IL LAVORO DI ATTIVECOMEPRIMA

Paola Bertolotti

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Perché il senso della vita cambia. Cambia, perché quest’esperienza fa emergere la paura della

sofferenza e della morte, ma soprattutto fa emergere il sensodella provvisorietà. Il cancro è una delle malattie che più portacon sé l’incognita del domani, e il rischio è che l’incognita deldomani diventi la paura del domani, e che la paura del domanidiventi la paura di vivere l’oggi. Fortunatamente oggi di cancrosi vive e si vive sempre più a lungo. E il rischio diventa davveroquello di vivere male, perché intrappolati dalla paura e dallaimpossibilità di esprimerla.

La persona si trova davanti a due possibilità (figura 2.1):

• può decidere se lasciarsi andare, quindi coltivare l’idea dellamalattia, rimpiangere il passato, autocommiserarsi, reprime-re i sentimenti negativi e le paure;

• oppure può decidere di reagire. In che modo? L’unico possibi-le: accettando la realtà e il confronto con la propria finitezza,per poter dare un senso più ampio alla propria vita, ristabi-lendone le priorità.

ATTIVEcomeprima lavora per favorire la seconda reazione,aiutando la persona a trasformare un’esperienza drammatica inun’opportunità di crescita; aiutandola a impegnare tutte le ener-gie necessarie perché la malattia non rimanga il centro della vita,ma ne diventi un punto di partenza, per attivare nuove risorse eper dare corpo alla “speranza”. Speranza, certo, di una vita lunga

ASCOLTARE I BISOGNI DEL MALATO PER RISPONDERE ALLE NECESSITÀ DELLA PERSONA

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Come davanti a un bivio si può scegliere

Se coltivare l’idea della malattia,rimpiangere il passato

e sentirsi vittima degli eventi

Se accettare la realtàe il rischio di poter morire

e dare un senso nuovo alla vita

Figura 2.1 - Quali scelte si pongono alla persona malata di cancro.

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e senza malattia, ma anche di una vita più piena. E ciò al di làdi quello che è accaduto o forse, proprio, per quello che è accadu-to.

Perché questo possa verificarsi è necessario sostenere la per-sona nella sua globalità: umanamente, psicologicamente e fisica-mente.

Il sostegno umano è rappresentato da tutto quello che possia-mo fare nell’immediato per la persona e per la famiglia, con con-sulenze, anche telefoniche, per i problemi pratici ed emotivi piùurgenti. Il primo appuntamento, cioè il momento in cui la perso-na viene a conoscere l’Associazione, serve a capire che cosa l’As-sociazione può fare per lei, e cosa lei può fare per se stessa.

Il sostegno psicologico è il nucleo del lavoro di ATTIVE e siarticola in tre gruppi, consequenziali tra di loro:

1. il primo gruppo viene simbolicamente chiamato “Riprogettia-mo l’esistenza”;

2. il secondo gruppo “Decido di vivere”;3. il terzo “La terapia degli affetti”.

I primi due hanno una durata di due mesi ognuno, e il terzouna durata di circa nove mesi. Ogni gruppo ha cadenza settima-nale. Nei gruppi si lavora sulla necessità di esprimere vissuti per-sonali ed emozionali spesso repressi e che, proprio per la funzio-ne protettiva e di contenimento del gruppo, assumono un aspettomeno minaccioso. Si riesce così ad attivare rapidamente tutti queiprocessi di adattamento necessari per comprendere che le coseche più fanno male, le cose che più fanno emergere le nostreombre, possono diventare le più ricche di potenzialità nuove.

Il sostegno medico si suddivide tra quello che chiamiamo“Supporto di medicina generale durante e dopo le terapie oncolo-giche” e “Dottore si spogli”, un momento di gruppo in cui il chi-rurgo plastico, il chirurgo oncologo, l’esperto di alimentazione el’endocrinologo rispondono alle domande delle donne.

Il supporto psicofisico e creativo comprende attività chetendono ad armonizzare corpo e mente, come la danza, il tai-chi-chuan, lo yoga, il training autogeno, il dipinto su ceramica e illaboratorio di creatività costruttiva. Ognuna di queste attivitàha, in modo diverso, la funzione di integrare e completare il lavo-ro che è stato fatto nei gruppi di sostegno psicologico.

IL LAVORO DI ATTIVECOMEPRIMA

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ATTIVEcomeprima è per le donne un tragitto: si stabilisce untempo di lavoro definito, perché il nostro scopo non è crearedipendenze, ma stimolare la donna alla propria autonomia. Èchiaro che, in caso di necessità, l’Associazione resta semprecomunque un punto di riferimento negli anni.

I risultati e i benefici di tutto questo lavoro (riassunti nellatabella 2.1) sono molteplici:

• L’uscita dalla condizione di solitudine interiore, con lapossibilità di trovare uno spazio nel quale poter condividere lapropria esperienza e in cui si parla lo stesso linguaggio.

• L’opportunità di esprimere tutte le emozioni e le paure.Spesso infatti la persona, per mille motivi, non può o non rie-sce a comunicare quello che davvero prova, in particolare allaconclusione delle terapie, quando tutto all’esterno preme per-ché la donna si consideri guarita.

• Una maggiore capacità di affrontare il cambiamentoche inevitabilmente la donna si trova davanti. La pos-sibilità di trasformare un’esperienza drammatica in un’op-portunità per dare un nuovo e più autentico significato allavita e a se stessa.

ASCOLTARE I BISOGNI DEL MALATO PER RISPONDERE ALLE NECESSITÀ DELLA PERSONA

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• Sicurezza di trovare nell’Associazione un punto di riferimento umano e specia-listico

• Uscita dalla condizione di solitudine interiore• Opportunità di esprimere liberamente emozioni e paure• Maggiore capacità di affrontare il cambiamento• Possibilità di trasformare un’esperienza drammatica in un’occasione per dare

un nuovo significato alla vita• Rafforzamento dell’autostima e dell’autonomia• Consapevolezza di contribuire al proprio processo di cura, di guarigione e di

valorizzazione di sé• Rafforzamento delle energie fisiche e maggior tolleranza delle terapie oncolo-

giche• Più coraggio per affrontare anche condizioni fisiche difficili• Migliore utilizzo delle strutture sanitarie e sociali con conseguente vantaggio

per la persona, la famiglia e la collettività

Tabella 2.1 - Risultati e benefici del lavoro di ATTIVEcomeprima.

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• Il rafforzamento dell’autostima e dell’autonomia. Que-sto è un altro punto fondamentale: senza autostima nella vitanon si affrontano le situazioni complesse; l’autostima è ilmotore indispensabile per fronteggiare le esperienze dellavita. A maggior ragione lo diventa quando queste esperienzesono negative, dolorose e difficili.

• La consapevolezza di contribuire al proprio processo dicura, di guarigione, di valorizzazione di sé e quindi diessere un elemento fondamentale in questo processo.

• Il rafforzamento delle energie fisiche e quindi una mag-gior tolleranza delle terapie oncologiche ed anche più coraggioper affrontare condizioni fisiche difficili. In realtà più la per-sona accetta la propria condizione, più accetta l’incognita deldomani, più riesce ad attivare energie per affrontare momen-ti che non sono sempre facili.

• Un migliore utilizzo delle strutture sociali e sanitarie,perché più una persona è in sintonia con se stessa, più haaccettato e attivato risposte più adeguate, meno avrà bisognodi pesare sugli altri.

Concludo dicendo che ATTIVEcomeprima promuove da tempola cultura della vita, perché nella donna si sviluppi una sempremaggiore partecipazione alla diagnosi e alla cura e quindi diven-ti un elemento fondamentale e indispensabile in questo proces-so. Questo è possibile anche grazie all’evidenza di chi vive dopola malattia e in ogni caso di chi è riuscita a valorizzare il sensodella vita, indipendentemente dal tempo e dalle condizioni fisi-che del momento.

IL LAVORO DI ATTIVECOMEPRIMA

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Nelle professioni sanitarie sempre più spesso ci si confrontacon malati che soffrono di patologie che alterano in modo drasti-co, e talvolta definitivo, la prospettiva futura della persona chene è affetta.

Il tumore del seno è l’esempio più emblematico di malattiache, per le sue implicazioni psicologiche emotive e simboliche, èin grado di destabilizzare il più solido degli equilibri di chi siammala.

Ma, nonostante le modificazioni epidemiologiche e culturalidegli ultimi decenni, in relazione al desiderio sempre più mar-cato da parte dei pazienti di voler sapere per condividere le deci-sioni terapeutiche, manca ancora una riflessione, o meglio unadefinizione sistematica, specifica e operativa relativa a questetematiche.

Tutto ciò mentre la medicina diventa sempre più scienza tec-nologica, con il progressivo inevitabile distacco tra medico epaziente.

Paradossalmente, la conoscenza e l’approfondimento dellanatura di molte malattie hanno portato a una sorta di dualismo,tale per cui molti medici considerano la malattia il lato oscurodella vita, fonte di ansie e pregiudizi, un nemico da combattere evincere a ogni costo, in quanto disfunzione della macchina corpo-rea, indipendente dalla persona in cui si manifesta.

Al contrario l’aspettativa del malato, o potenziale malato, èavere accanto una persona che sappia non solo interpretare segnie sintomi, ma anche ascoltare, per mettersi in sintonia. Una per-sona che sappia insomma “comunicare” e non soltanto “informa-re” (tabella 3.1).

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3“DOTTORE SI SPOGLI”Salvo Catania

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La radicalizzazione di questa visione meccanicistica dellamedicina ha invece portato in molti casi a una vera incomuni-cabilità, caratterizzata da un lato da medici insofferenti neiconfronti dei pazienti che vogliono sapere sempre di più e, dal-l’altro da un rifiuto del ruolo paternalistico recitato da questimedici.

Recentemente, questa frattura del rapporto fiduciario ha cer-cato una soluzione legislativa nel cosiddetto consenso informato:ogni atto medico diagnostico e terapeutico deve essere comunica-to al paziente, controfirmato da entrambi e figurare sempre nellecartelle cliniche. Ma si tratta di una soluzione apparente.

In realtà questo strumento ha accentuato la conflittualità,piuttosto che stemperarla, perché non è stato interpretato comegaranzia di attenzione e chiarezza nei confronti del malato, macome uno strumento per mettersi al riparo da possibili contesta-zioni, che non a caso sono diventate sempre più frequenti.

Non è certo compito mio risolvere una questione così impegna-tiva, ma posso cercare di stimolare la riflessione e il dibattito suun tema troppo a lungo rimosso dalla letteratura scientifica edalla classe medica, la quale, d’altra parte, ha l’attenuante di nonavere ricevuto sufficienti nozioni scolastiche per delineare strate-gie finalizzate a migliorare capacità comunicative e di ascolto. Inmolti percorsi di studio, infatti, sono state intenzionalmentemesse al bando le emozioni.

ASCOLTARE I BISOGNI DEL MALATO PER RISPONDERE ALLE NECESSITÀ DELLA PERSONA

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Informazione Comunicazione

Messaggio unidirezionale Messaggio bidirezionaleEmittente-ricevente Verbale-non verbaleAssenza di partecipazione Partecipazione emotiva.Assenza di relazione • Empatica-distaccataCompleta-parziale • Accogliente-rifiutanteVera-falsa • Rassicurante-preoccupanteComprensibile-incomprensibile • Congruente-paradossale

• Intensa-debole

Tabella 3.1 - Differenze tra informare e comunicare.

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Soffocare le emozioni trova due giustificazioni: la capacità dimantenere la calma per prendere decisioni e la professionalitàdel comportamento.

Questa scelta ha generato una classe di operatori sanitarispesso impreparata ad affrontare un colloquio che preveda lacomunicazione di una cattiva notizia, mentre si pretende inveceche il medico debba sapere cosa dire in ogni occasione e si è atorto convinti che il suo prestigio sia proporzionale alla quantitàdi risposte che è in grado di fornire.

Molte sono le cause del disagio che provano i professionisti dellasalute quando sono chiamati a dare a un paziente una cattiva noti-zia. Tutti intanto siamo d’accordo che non è facile dare cattive noti-zie. Alcuni sentimenti di inadeguatezza e di imbarazzo sono addi-rittura precedenti al colloquio con il paziente e sono legati al modocon cui la società considera la malattia. Non possiamo infatti nega-re che anche il medico appartiene a una società in cui grandissimovalore è attribuito alla giovinezza, al benessere e alla salute. Ed èchiaro che il prezzo di questa cultura è pagato da coloro che non pos-siedono questi valori: i poveri, gli anziani e soprattutto i malati.

Più importanti sono i fattori relativi al paziente, generati dalsuo sconforto e dalla conseguente risposta empatica del medico.Tutti e più volte abbiamo sperimentato quanto sia difficile com-prendere in pochissimo tempo le dinamiche profonde della vitadi ogni singolo paziente e valutare l’impatto destabilizzante cheesse hanno con la malattia (tabella 3.2).

Altri importanti fattori sono legati alle paure personali e altraining professionale del medico.

Per esempio, durante la nostra formazione, impariamo a leni-re il dolore o ad annullarlo del tutto con anestetici, mentre nonsiamo preparati all’idea di generare dolore somministrando cat-tive notizie o, peggio, sentenze di morte (tabella 3.3).

“DOTTORE SI SPOGLI”

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• Fattori sociali • Inferiore considerazione della personain quanto malato

• Fattori relativi al paziente • Non è mai possibile poter prevederecon certezza la reazione di un paziente

Tabella 3.2 - Fattori sociali e fattori relativi alla reazione del paziente checondizionano la comunicazione.

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Ma la ragione principale del nostro imbarazzo e del senso di ina-deguatezza deriva dal fatto che i medici sono stati rigorosamenteeducati a riferirsi a linee-guida; nel caso non ve ne siano, come perla comunicazione di cattive notizie, sono comprensibili il disagio ela tendenza, interpretata a torto come insensibilità, a evadere, senon proprio a evitare completamente, il compito in questione.

Sempre in relazione alle paure del medico , un aspetto di nonsecondaria importanza va attribuito al fatto che i medici, come imessaggeri di cattive notizie, siano esposti ai sentimenti di rab-bia dei pazienti. Non si tratta di un atteggiamento voluto e con-sapevole, ma di un effetto collaterale e secondario al fatto che lamoderna medicina ha alimentato l’illusione di “onnipotenza”, cioèche ci sia una terapia efficace per ogni malattia e che, di conse-guenza, ogni fallimento terapeutico sia attribuibile a errori delsistema sanitario o dello staff medico.

Mentre oggi non ci sono più dubbi che le capacità comunicati-ve e di ascolto possono essere apprese ed applicate, negli anni ’70,quando è nata l’associazione ATTIVEcomeprima, le uniche capa-cità richieste al medico erano quelle diagnostiche al letto delmalato. Poiché, come abbiamo visto, questo tema era stato rimos-so dalla letteratura medica, pochi dati in merito esistevano inquel decennio. Da quelli esistenti si deduce però che, in Italia,circa l’80-90 per cento dei medici riteneva di non dover riferire laverità ai propri pazienti affetti da tumore (tabella 3.4); venivanoaddirittura pubblicati testi che riportavano strategie apposite perevadere o deviare il discorso nei casi, sporadici, di pazienti chechiedevano di saperne di più.

ASCOLTARE I BISOGNI DEL MALATO PER RISPONDERE ALLE NECESSITÀ DELLA PERSONA

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• Paura di generare dolore• Paura di sentirsi accusati (aspetti medico-legali, fallimento terapeutico)• Paura di ciò che non è stato insegnato• Paura di dire “Non so”• Paura di esprimere emozioni• Paura della gerarchia medica• Personali paure della malattia/morte• Solidarietà nella sofferenza

Tabella 3.3 - Fattori relativi all’atteggiamento del medico che condizionano lacomunicazione.

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Questo atteggiamento, interpretato oggi come disumano, erafondato in realtà sulla convinzione che la verità avrebbe potutodanneggiare il paziente e che la conoscenza della reale situazioneavrebbe annullato speranze e residue motivazioni. Ma era anchel’epoca in cui il cancro era una malattia di cui ci si doveva vergo-gnare; infatti le pazienti sollecitavano rassicurazioni prima di tor-nare a casa dall’ospedale sulla contagiosità della malattia. Un pre-giudizio talmente forte, da essere pervenuto sino ai nostri giorni.

In questo clima, non certo esaltante, si registravano in campooncologico due eventi che mi permetto di definire rivoluzionari,in Italia e nel mondo: per la prima volta in Italia una giovanedonna, Ada Burrone riconosce, fatto clamoroso, la sua condizio-ne di donna mastectomizzata anzi ipermastectomizzata (perchési trattava di una mastectomia allargata) e chiama a raccoltaaltre donne di pari condizioni.

Tutto ciò mentre il tumore del seno subiva un radicale rinno-vamento diagnostico e terapeutico, dopo essere stato consideratosino a metà del secolo scorso come incurabile: le poche guarigio-ni erano, infatti, ottenute al prezzo di dolorose mutilazioni e diterapie radiologiche aggressive e invalidanti. Per la verità c’era-no stati vari tentativi in Europa, tutti falliti, di sostituire l’inter-vento ablativo del seno con metodi conservativi.

Proprio nel 1973, anno di fondazione di ATTIVEcomeprima, l’I-stituto dei Tumori di Milano presenta il Trial Milano I, che si con-cluderà nel 1980. Il trial confrontava un campione di pazienti trat-tate con mastectomia con un campione di pazienti trattate conquadrantectomia e radioterapia. Questo studio, che può essereconsiderato la pietra miliare della moderna chirurgia della mam-mella, fu fortemente voluto contro tutto e tutti. Basti pensare alfatto che, inizialmente, l’Organizzazione Mondiale della Sanità

“DOTTORE SI SPOGLI”

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<40% >80%

Africa SveziaItalia NorvegiaIran Finlandia

Giappone Stati UnitiFrancia Nuova Zelanda

Tabella 3.4 - Decennio 1970-1980: oncologi che informavano il malato.

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aveva respinto il progetto presentato da Umberto Veronesi perchénon etico e che, contemporaneamente, fu manifesta l’ostilità dellamaggioranza di chirurghi e radioterapisti di tutto il mondo, ter-rorizzati all’idea che si potessero infrangere i classici dogmi hal-stediani, su cui avevano fondato la propria cultura oncologica.

Pertanto non fu un caso se, in questo clima, ho avuto la fortunadi incontrare Umberto Veronesi e la sua scuola, il professor BrunoSalvadori e, subito dopo, Ada e l’associazione, che allora aveva sedeall’Istituto dei Tumori di Milano. Non fu un caso, ma un’esigenzaincontenibile che mi spingeva, giovane e inesperto chirurgo, a com-pletare un training professionale. In quel momento ero consapevo-le che, al mio desiderio naturale di aiutare gli altri, la facoltà diMedicina aveva contrapposto l’insegnamento a mantenere ladistanza dal paziente, piuttosto che darmi indicazioni sul modomigliore per comunicare con una persona malata. Pertanto, quan-do nel 1976, per la prima volta varcai la soglia di ATTIVEcomepri-ma, sapevo già che cosa cercare, anche se non sapevo ancora checosa mi sarebbe accaduto poco tempo dopo, quando Ada mi avreb-be mandato allo sbaraglio a confrontarmi con le donne operate.

In questa fase ho conosciuto Rita, una delle prime fiduciariedell’Associazione: giovane e carina, sorrideva sempre… ma regi-strava tutti gli incontri con le donne e, dopo pochi giorni, mi face-va puntualmente pervenire una montagna di cartelle dattiloscrit-te con le infuocate osservazioni sulle cose che avevo detto e chel’avevano spaventata.

Solo alcuni anni dopo, quando ormai avevo deciso di occupar-mi d’altro, ritenendomi non idoneo in e per quel ruolo, constatan-do che il fiume delle cartelle di Rita si era ridotto a un rivolo, hoavuto per la prima volta la consapevolezza di avere imparatomolto sulla vera natura e sul ruolo della professione medica. Daallora ho continuato a seguire i cosiddetti gruppi del venerdì, igruppi che sono stati battezzati “Dottore si spogli”. A questiincontri di gruppo partecipano donne che, generalmente, si rivol-gono all’associazione dopo l’intervento chirurgico, o che vi giun-gono nel corso delle terapie complementari. Inizialmente chiedo-no solo informazioni su alcuni aspetti della malattia. In realtà èun pretesto per esprimersi; infatti, già in questa fase cercano unafigura particolare di medico che in associazione non visita e chequindi “si spoglia” del camice, della sua tecnologia e soprattuttodel suo incomprensibile linguaggio “medichese”. Le donne cerca-

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no quindi non il tecnico, non lo scienziato, ma un alleato disponi-bile a fare da punto di riferimento durante i vari momenti dell’i-ter diagnostico e terapeutico, di solito vissuti come privi di nessofra loro, motivo questo generatore di ansie.

Ho detto prima che il medico viene “mandato allo sbaraglio”perché pazienti dello stesso gruppo presentano differenti stadi esono trattate in modo diverso; sono presenti pazienti con malattietrattate in fase precoce e altre trattate in fase tardiva. L’informa-zione non può essere di tipo tradizionale, che tranquillizzerebbealcune, ma è chiaro che spaventerebbe le altre. Diventa, pertanto,inevitabile per il medico doversi radicalmente rieducare e sposta-re automaticamente il baricentro dall’informazione sulla malattia,che nel frattempo viene trattata non importa con quale terapia, aun tipo di comunicazione che privilegia alcuni aspetti che, se nonrigorosamente scientifici, si accompagnano a vantaggi e attestatidi gradimento collaudati da quasi 30 anni di esperienza. Per esem-pio si discute di stato dell’arte delle terapie, ma queste non vengo-no considerate l’unica risorsa disponibile. In altre parole, si cemen-ta la speranza che grazie alle proprie difese, soprattutto grazie allostile di vita, ci sia la possibilità di difendersi dal cancro, a prescin-dere dalle terapie: in questo modo l’aggressione non viene subitapassivamente (tabella 3.5). Dando inoltre la possibilità di espri-mersi, si rende concreto il cancro che, seppur temibile, perde i con-notati di fantasma che tormenta e rincorre. Si dà poi una finalitàalle terapie che seguiranno, in particolare alla chemioterapia, cheè la più temuta, e si motivano i suoi effetti collaterali.

“DOTTORE SI SPOGLI”

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Fattori legati al tumore Fattori legati al paziente e al medico

Non modificabili dall’intervento medico Modificabili dall’intervento medicoInfluenzano la scelta del trattamento Non interferiscono con le terapie

• Dimensioni del tumore • Incoraggiare a verbalizzare• Stato dei linfonodii sentimenti legati alla malattia• Invasione vascolare • Agevolare la soluzione dei problemi• Grading istologico pratici connessi con il trattamento• Stato dei recettori ormonali • Restituire al paziente e alla famiglia• Altri il senso del futuro

Tabella 3.5 - Che cosa influisce sulla comunicazione nei gruppi “Dottore si spogli”.

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D’altro canto anche il medico in questi incontri arricchisce lasua professionalità perché, potenziando la capacità di ascolto, fini-sce per modificare il proprio modo di concepire il cancro, fatto solodi numeri e di statistiche, fino a muoversi su un piano soggettivo,fatto di emozioni e di storie di persone. Ma ciò che in questi incon-tri ha radicalmente cambiato il mio modo di essere medico è stato“l’incontro-scontro” con i pazienti cosiddetti eccezionali.

Chi sono i pazienti eccezionali?Sono individui da sempre normali, nei quali il desiderio di vita

si esprime nel modo più forte. Essi, alla scoperta o nel corso diuna malattia grave, si assumono la responsabilità della loro vita,anche se prima non ne erano stati capaci e si impegnano a riac-quistare la salute e la serenità perduta (tabella 3.6). Sanno chesu questa terra il tasso di mortalità è del 100 per cento: sannocioè che la vita non dà garanzie. Ne accettano quindi i rischi e lesfide. Si sentono soprattutto padroni del loro destino e, per taleragione, non lasciano tutta l’iniziativa al medico, poiché preferi-scono costituire insieme a lui una sorta di società, o di alleanza,con il patto reciproco di dare il meglio di sé: e, in comune a tuttii pazienti, pretendono solo, si fa per dire, la tecnica e la compe-tenza, l’apertura mentale e naturalmente l’impegno (tabella 3.7).

ASCOLTARE I BISOGNI DEL MALATO PER RISPONDERE ALLE NECESSITÀ DELLA PERSONA

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• Sono individui normali• Si assumono la responsabilità della loro vita• Sono consapevoli che la vita non dà garanzie• Si sentono padroni del loro destino• Costituiscono con il medico un’alleanza

Tabella 3.6 - Chi sono i “pazienti eccezionali”?

• Apertura mentale• Competenza• Impegno

Tabella 3.7 - Aspettative dei “pazienti eccezionali” nei confronti del medico.

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TESTIMONIANZE

1.Lottare insieme per vivere?L’esperienza di una paziente

AGNESE RONCHI

Sono malata di cancro da 7 anni e da 4 anni sono in trattamento continuo. Finoalla diagnosi di cancro, nel 1996, le mie esperienze più significative di relazionecon il mondo sanitario si erano realizzate formalmente: prima, nel lavoro per unasocietà attiva sul mercato della sanità, che aveva i medici e gli altri operatori delsettore come clienti; successivamente, nell’assistenza a mio padre durante lasua malattia oncologica terminata con la morte. Tutt’e due questi eventi significativi mi avevano portato a prendere complessiva-mente le distanze dalle istituzioni sanitarie in generale e a frequentarle con unapproccio esclusivamente utilitaristico, quando non potevo farne a meno. Ciò ècomunque capitato raramente, dato che ho sempre goduto di una salute buonafino alla comparsa del cancro.La nuova circostanza determinatasi nella mia esistenza, che include la necessitàdi frequentare a lungo e spesso un gran numero di specialisti sanitari in unaforma completamente differente dalle precedenti, mi ha dato modo di sperimen-tare una relazione diversa con loro e, soprattutto, di riconoscere e cambiare lemie precedenti opinioni e reazioni. La necessità di questo mio cambiamento è stata originata in particolare dagli effet-ti sia sull’esito delle cure che mi venivano prestate, sia sul mio stato complessivodi salute (che ho imparato a osservare); effetti che erano fortemente correlati allaqualità del rapporto con gli operatori sanitari con cui dovevo essere in contatto.Sette anni nel ruolo di malata rendono impossibile evitare gli incontri indesidera-ti; quando sono capitati – perché mi sono capitati – ne ho ricavato sofferenza fisi-ca e psichica, delusione, senso d’impotenza, rabbia, rancore, desiderio di rival-sa. Sono reazioni che si sperimentano anche in altri ambiti dell’esistenza, anchein altri tipi di relazioni, ma quando succede in concomitanza con una malattiasevera come il cancro, le conseguenze sono più difficili da riconoscere, affronta-re e superare. Il corpo, impegnato a sopportare le sofferenze procurate dalla malattia, la mentea dirimere ondate incessanti di emozioni, la persona a confrontarsi con la trasfor-

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ASCOLTARE I BISOGNI DEL MALATO PER RISPONDERE ALLE NECESSITÀ DELLA PERSONA

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mazione della routine quotidiana in ardua impresa: tutto questo richiede unaquantità in più di energia vitale, che non deve essere sciupata, se possibile.Quando mi capita di ricordare quegli “incontri indesiderati” con operatori sanita-ri, vengo assalita da una sofferenza incontrollabile, che credo sia il ricordo dellasofferenza per avere avuto la sensazione di non essere aiutata nel momento delbisogno dalle persone che ritenevo fossero incaricate di farlo. Nel corso di questi sette anni, infatti, ho abbandonato l’ospedale dove sono statacurata durante i primi tre anni della malattia e ho cessato il rapporto con il medi-co di base che avevo da vent’anni.Oggi collaboro a tenere sotto controllo la mia malattia con medici che mi curano eanche mi sorridono, mi salutano con una stretta di mano - qualche volta ci siamoperfino abbracciati - mi domandano “Come sta?” con il tono cordiale che si usa traconoscenti… e poi mi chiedono con delicatezza di accettare di aumentare un po’ ildosaggio del chemioterapico perché i marcatori sono saliti, oppure mi invitano a nonavere paura di saltare un ciclo di terapia perché i globuli bianchi sono così bassiche più bassi non si può, e magari anche a prendere un antidolorifico dal nome spa-ventoso per arrivare a sera più facilmente; e questo senza farmi sentire più o menomalata, anzi, facendomi sentire sana come alla visita di controllo precedente. In questa dimensione di rapporti, io sono una paziente più attiva e mi sento impe-gnata con i medici in un lavoro dal fine comune.Penso che ci siano due effetti collaterali importanti del cancro, due frutti dello stes-so albero, poco considerati nonostante siano ben noti e che convivono nel mala-to: la paura di morire e la speranza di vivere. Ho sperimentato che imparare asuperare la paura e a coltivare la speranza aiuta concretamente a sopportaremeglio i danni fisici della malattia e gli effetti collaterali dei trattamenti. Grazie aqueste acquisizioni sono riuscita a diventare una malata più educata e consape-vole, che contribuisce a curare se stessa e grava meno sulle spalle dei medici (eforse anche sul bilancio del servizio sanitario nazionale).Ma la scoperta di queste mie risorse e della capacità di reazione che non sapevodi possedere e l’abilità di impiegarle per continuare a vivere, dando un significatopositivo alla lotta contro il cancro, non è emersa da sola. È stato il percorso di intro-spezione personale promosso da ATTIVEcomeprima che mi ha aiutato: condottosempre nel rispetto dei miei tempi di elaborazione, mi ha consentito di riprendereun mio cammino di vita, indipendente e personale, nel mondo che mi è proprio.Un apprendimento che ritengo per me fondamentale è stato mettere in pratica lapreziosa indicazione contenuta nelle riflessioni di un medico, che mi ha insegna-to a lottare per vivere, piuttosto che combattere contro la morte.

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“DOTTORE SI SPOGLI”

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Mi domando se questo insegnamento non possa essere di qualche utilità ancheper gli operatori sanitari; così come ha aiutato me, potrebbe aiutare anche loro avivere meglio la dura fatica quotidiana di combattere una malattia difficile, di esse-re esposti alle sofferenze fisiche e psichiche dei propri simili e dovervi porre in qual-che modo rimedio, di dover sopportare l’idea di perdere i propri pazienti. Forse,lottare insieme per vivere, piuttosto che combattere separati contro la morte,potrebbe aiutare noi malati e i nostri medici a migliorare le nostre vite. Credo chese riuscissimo a fare questo, a farlo anche solo un poco, il primo a pagarne le con-seguenze sarebbe proprio il nostro comune avversario: il cancro.

2.Il vissuto di un familiare

FRANCESCA MERZAGORA

Vulnerabili. Nella malattia si è molto vulnerabili e bisognosi di comprensione: ilproblema è che non tutte le persone che circondano un malato hanno la sensi-bilità per capirlo. Essa è un dono, un tesoro che le persone hanno o non hanno,è difficile fingere. Penso quindi che i medici e gli infermieri, tutte le persone cheoperano attorno ai malati di tumore non possano fingere, pertanto: o sono cosìdal profondo, oppure è solo il percorso di sofferenza accanto a una persona mala-ta che ti può cambiare.Sicuramente la sofferenza fa cambiare. Nel mio caso mi ha molto cambiato. Avervissuto 5 mesi, sono stati solo 5 mesi, accanto alla mia mamma che a 44 anni,io ne avevo 22, si è ammalata di tumore al seno, è stata operata da UmbertoVeronesi, e poi è mancata il 10 di agosto, mi ha totalmente cambiato, ma neltempo, non al momento.Non ricordo bene come sia cominciata questa esperienza allucinante, che hamodificato tutti i miei equilibri di ragazza, forse un po’ viziata dalla vita, con unavita spensierata, che frequentava l’Università Bocconi di Milano e che andavaincontro al futuro magari con un po’ di superficialità.Ho solo ricordi vaghi dell’inizio di questa avventura: la visita nello studio di Vero-nesi in via Salvini, durata tre quarti d’ora invece di un quarto d’ora, che mi ha resoconsapevole, figlia unica di genitori separati, che c’era qualcosa di grave; poi laradiografia, la mammografia, dal professor Coopmans de Yoldi. E il verdetto:mastectomia, poi il ricovero all’Istituto Tumori all’ottavo piano, camera numero 8.

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Ricordo vagamente e cerco un po’ di rimuovere, forse anche per proteggermi daquesta sofferenza, la reazione di mia madre: è stata molto particolare. In realtàforse non particolare, ma comune alle persone di carattere: una grande aggres-sività. Voleva sapere tutto, aveva rubato anche la cartella clinica, era suonato l’al-larme all’ottavo piano. Forse sapere le dava la forza per poter lottare meglio.Io ero una delle sue ragioni di vita, si era separata, non aveva più neanche uncompagno che aveva lasciato dopo tanti anni: ma ogni volta che io varcavo lasoglia dell’Istituto era un’angoscia perché sapevo qual era la sua reazione, quasidi violenza, quasi di aggressività, sono stati mesi veramente molto faticosi, in cuiio mi ripetevo: “Sopporta, tieni duro perché forse questo l’aiuta a guarire”. Poi ungiorno è entrata in stanza Ada, e le cose sono cambiate. Lei ha visto e capito tuttoe, parlo di 22 anni fa, mi ha un po’ preso sotto la sua ala. Credo che anche lamamma, consapevole del suo destino, mi avesse affidato un po’ spiritualmentea lei. Ne è nato poi un rapporto d’affetto profondissimo, magari non fatto di telefo-nate quotidiane o cose superficiali, ma sicuramente di sostanza.Poi mia madre ha subito la chemio, è passata attraverso tutte le varie esperienzedelle donne operate di tumore. Ma io, anziché buttarmi su di lei, circondarla di atten-zione come sicuramente si sarebbe aspettata, non mi sentivo in grado di affronta-re questa cosa. Mi rifugiavo nei miei studi, mi sono laureata prestissimo, mi sonoallontanata da lei. Addirittura durante l’estate, anziché stare con lei al mare insie-me ai miei nonni, sono partita con i miei compagni di Università a festeggiare la mialaurea, ciò che mi ha procurato poi notevoli rimorsi. Durante il funerale ricordo chemi autocommiseravo: “Che sfortuna a 22 anni mi ritrovo da sola”. E non capivo inve-ce che il dramma era il suo, non riuscivo a capire che la sfortunata era stata lei, leiche non c’era più a 44 anni, nel pieno della vita, una donna bellissima e piena dientusiasmo, intelligente, importante, che per lei tutto era veramente finito.Solo adesso, a distanza di così tanti anni, solo adesso che ho una mia famiglia,tre figli, tre ragazzi meravigliosi, mi rendo conto di come da giovani si sia natu-ralmente proiettati in avanti e capisco cosa deve aver vissuto lei.Sicuramente è stata un’esperienza molto forte che mi ha cambiato totalmente.Vivevo in un limbo dorato e di colpo ho affrontato la vita; non avevo problemi disopravvivenza, certo, ma il problema veramente grave era stato perdere un affet-to profondo. È stata però un’esperienza che mi ha temprato, a volte mi sento unaroccia, mi sembra di aver talmente tanto sofferto che qualunque cosa, tranneforse la malattia di un figlio, non mi spaventa più. La perdita di mia madre mi hadato una grossissima carica nell’affrontare la vita, anche se mi ha lasciato vulne-rabile, priva di una presenza insostituibile.

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“DOTTORE SI SPOGLI”

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Quando è mancata la mamma, il nonno ha fatto stampare una tiratura limitata diun libriccino, tra l’altro dedicato ad Ada, intitolato “Non puoi fermare il fiume”:poesie e appunti scritti da lei durante la malattia, che non rileggo molto volentie-ri, perché carico di troppe emotività. Vorrei focalizzare tra le tante osservazioniuna in particolare, a proposito del rapporto medico-paziente: ecco quanto leiaveva scritto sul chirurgo che l’aveva operata: “Veronesi soltanto mi calma, le suoparole entrano nel mio cuore, sono come la lava che esce dal vulcano, cancel-lano tutto, distruggono i dubbi, i timori, le ansie, le disperazioni. La sua voce èstupenda, i suoi occhi hanno un magnetismo antico; sembra un uomo di un altropianeta, non tocca questa terra, la sorvola di passaggio”. Grazie.

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PARTE SECONDA

LA FATIGUECOME SOFFERENZA GLOBALE:

COS’È, COME AFFRONTARLA

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Se ne parla da una decina d’anni e, oggi, è finalmente ricono-sciuta come un’entità nosologica, una condizione patologica a sestante (ICD-10). Fatigue è il termine con cui gli anglosassonidescrivono quell’insieme di disturbi che affligge i malati di can-cro e le cui dimensioni non interessano soltanto la condizionefisica, ma coinvolgono anche la sfera intellettuale, affettiva epsicologica: estrema stanchezza, spossatezza, debolezza, man-canza di energia, bisogno di riposare più frequentemente o,comunque, in maniera non proporzionale alle attività sostenu-te. È un fenomeno multidimensionale che si sviluppa nel tempo,riduce i livelli di energia, le capacità mentali e lo stato psicolo-gico dei pazienti oncologici. Le conseguenze della fatigue scon-volgono la vita già difficile dei malati di cancro, in tutti i suoiaspetti (tabella 4.1).1

29

4UNA VITA MIGLIOREPER IL MALATO DI CANCRO

Sergio Pecorelli

Durata Impatto sulla vita quotidiana

Fatigue 54% 60%Nausea 27% 22%Depressione 12% 10%Dolore 6% 6%

Tabella 4.1 - Impatto della fatigue sulla vita quotidiana: è il sintomo di più lungadurata e più invalidante se confrontato con nausea, depressione e dolore(modificata da Curt 2000).1

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La fatigue è presente nella quasi totalità della popolazioneoncologica, per il 50 per cento addirittura prima del trattamen-to. Nei malati oncologici la fatigue può presentarsi:

• come parte integrante della sintomatologia di base;• come effetto collaterale delle terapie, oncologiche e non onco-

logiche;• come espressione di una patologia concomitante, di solito di

natura psichiatrica, quale la depressione.

Soffre di fatigue il 76-78 per cento dei pazienti sottoposti atrattamenti anti-tumorali e il 61 per cento di loro lo ritiene l’ef-fetto più invalidante, anche in rapporto al dolore (figura 4.1).2

I sintomi della fatigue correlata al cancro includono non sol-tanto il “sentirsi stanchi” (deboli, esausti, esauriti, “distrutti”),ma anche dolori alle gambe, difficoltà a salire le scale, o a cam-minare per brevi tratti, respiro corto dopo un’attività anchelieve, disturbi del sonno (insonnia o ipersonnìa), difficoltà acompiere le normali attività (cucinare, pulire, fare una doccia,rifare il letto) (figura 4.2).1 I pazienti che soffrono di fatigue

LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

30

Fatigue 61

37

19

61

5

2

Risposta %

Pazienti

Dolore

Entrambi

Oncologi

0 10 20 30 40 50 60 70 80

Figura 4.1 - Fatigue: quale sintomo altera maggiormente la vita quotidiana?Le risposte di pazienti e oncologi a confronto (modificata da Vogelzang 1997).2

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possono inoltre avere difficoltà di attenzione e di concentrazio-ne, per esempio a leggere o a guardare la televisione, a prende-re decisioni semplici e così via.

Detto ciò, non è un caso che la fatigue correlata al cancro gene-ri nei pazienti sentimenti di bassa autostima e di frustrazione,che possono sfociare in perdita della capacità di provare speran-za e in sentimenti di disperazione. Ecco perché ne risulta unimpatto negativo su tutte le dimensioni della vita quotidiana,nella sfera fisica, emotiva, sociale (soprattutto in famiglia, tra ipropri amici, nell’ambiente di lavoro) (figura 4.3).1

La fatigue fa sentire il suo peso anche sulla sfera socio-econo-mica. Secondo un’indagine recente condotta negli Stati Uniti, il75 per cento dei pazienti colpiti da fatigue ha dovuto cambiarelavoro e il 35 per cento ha dovuto accettare minori responsabilità.Mediamente, inoltre, si è visto che un paziente colpito da fatigueperde 4,2 giorni lavorativi al mese. Ma la fatigue del paziente

UNA VITA MIGLIORE PER IL MALATO DI CANCRO

31

Pazienti %

50

51

52

56

57

59

69

69

60

0 20 40 60 80

Preparare il cibo

Concentrarsi

Prendersi curadella famiglia

Salire le scale

Fare la spesa

Attività sociali

Sollevaregli oggetti

Pulire la casa

Camminare

Figura 4.2 - La fatigue nelle attività quotidiane. (Modificata da Curt 2000).1

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coinvolge anche i familiari: chi segue più da vicino il malato,infatti, perde in media 4,5 giorni lavorativi ogni mese, mentre il16 per cento deve accettare minori responsabilità (figura 4.4).1

Quali sono dunque le cause di una condizione così sconvolgen-te come la fatigue? Le principali vanno ricercate tra i fenomenifisiologici, psicologici e contingenti correlabili alla malattia prin-cipale, il cancro. Tra questi in primo piano c’è l’anemia (livello diemoglobina inferiore a 11-12 g/dl), ma anche disordini metaboli-ci ed endocrinologici, nausea, vomito e ostruzione gastrica, assen-za di sonno o eccessiva inattività, dolori di varia natura.

E poi ci sono altri fattori correlati allo stato dell’umore, al mododi pensare personale, alla capacità di reazione individuale: tutti con-tribuiscono allo sviluppo e al mantenimento della fatigue. Senza tra-scurare ansia e depressione, che si manifestano con maggior facilitànei soggetti colpiti da fatigue.

LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

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Pazienti %

0 20 40 60 80 100

Difficoltà di concentrazioneo di mantenimento dell’attenzione

Sensazione che gli altrinon comprendano la propria fatigue

Sensazione dinon poter più tornare come prima

Tristezza, frustazione e irritabilitàa causa della fatigue

Scarsa motivazione verso le attività abituali

35

36

38

41

45

51

53

62

77

51

Difficoltà nel ricordare le cose

Depressione e sensazionedi non avere speranza

Esaurimento mentale

Disinteresse verso le attività abituali

Sforzarsi di fare le cose

Figura 4.3 - Fatigue: effetti mentali ed emotivi (modificata da Curt 2000).1

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Di fronte a una condizione così complessa, multifattorialeappunto, va detto che sono due gli elementi di base che ostaco-lano la sua risoluzione: la non idonea educazione del paziente eun non ancora ben allertato intervento del medico. Infatti il 74per cento dei pazienti è convinto che la fatigue sia un effetto col-laterale della malattia e delle terapie, inevitabile e da soppor-tare (in quanto non sa che può essere curato): per questo non loriferisce al medico (tabella 4.2).

D’altro canto, anche quando il problema viene segnalato almedico, soltanto nel 27 per cento dei casi il paziente riceve con-sigli di trattamento che, però, consistono per lo più nel riposo,nella modifica della dieta e, a volte, nella prescrizione di farma-ci. Ma bisogna invece ricordare che proprio un maggior riposo

UNA VITA MIGLIORE PER IL MALATO DI CANCRO

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Pazienti %

10

23

28

31

34

35

0 10 20 30 40

Chiedere l'invalidità

Lasciare il lavoro

Prendere dei giorni di permesso

Ridurre l'orario di lavoro

Accettare minori responsabilità

Figura 4.4 - Fatigue: effetto sull’occupazione del paziente (modificata da Curt2000).1

Il paziente deve ricevere informazioni sulla natura della fatigue.• La fatigue non è un fenomeno ineluttabile• La fatigue non dipende dalla mancanza di volontà del soggetto• La fatigue è un problema comune• La fatigue può essere curata

Tabella 4.2 - L’educazione del paziente.

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può portare ad un peggioramento dei sintomi, causato dalla ridu-zione di attività fisica.

Come prima tappa nella lotta alla fatigue è quindi importan-te che il paziente scopra che la fatigue esiste come malattia a sée che ne parli al medico. La seconda tappa, è ovvio, vorrebbe cheil medico intervenisse in modo appropriato sulle cause per cor-reggerle. Un aiuto in questo senso può venire da un questionariooggi disponibile per la valutazione della fatigue. Si chiama“FACT-AN”, viene compilato dal paziente, ma la sua interpreta-zione e la gestione sono affidate al medico (oncologo o medico difamiglia preparati nello specifico), oppure a un infermiere specia-lizzato. Se il quadro di fatigue viene così delineato con precisio-ne, il medico potrà suggerire l’intervento più adatto, in funzionedelle cause evidenziate.

Poiché la fatigue è una condizione patologica multifattoria-le, alla quale concorrono sia fattori fisiopatologici, sia psicolo-gici, un regime nutrizionale appropriato, supplementi vitami-nici e minerali, medicamenti antidepressivi e ansiolitici, modi-ficazioni dello stile di vita, counselling psicologico, sono tuttiinterventi che possono alleviare questo stato. Nello specifico, ilfattore fisiopatologico preponderante è senz’altro l’anemia: siail tumore, sia le terapie antitumorali (chemioterapia, radiote-rapia) possono indurre lo stato anemico (figura 4.5).3 Il 60 percento circa dei pazienti soffre di anemia. La sua incidenza eseverità variano secondo il tipo di tumore e il trattamento che-mioterapico, arrivando fino all’80 per cento dei casi. La corre-zione dell’anemia era un tempo affidata quasi unicamente alletrasfusioni di sangue, i cui rischi oggi sono ben conosciuti,inclusa la possibilità di peggiorare le difese immunitarie con-tro il tumore stesso (tabella 4.3).

Ma attualmente è possibile trattare l’anemia ricorrendo auna sostanza che viene prodotta normalmente da un organismosano, ma che scarseggia in caso di malattia tumorale: l’eritro-poietina (tabella 4.4). Con l’eritropoietina ricombinante umana(epoetina alfa) utilizzata in terapia si ha spesso una chiaradiminuzione, fino alla scomparsa, dei sintomi della fatigue.Inoltre, sono spesso segnalati ulteriori benefici, come unamigliore risposta alla chemio/radioterapia e un prolungamen-to della sopravvivenza. Gli studi clinici hanno anche dimostra-to che la correzione dell’anemia (anche di lieve entità) entro

LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

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UNA VITA MIGLIORE PER IL MALATO DI CANCRO

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10

Sistema nervoso centrale• Fatigue • Vertigini • Depressione • Compromissione delle capacità cognitive

Apparato gastrointestinale• Anoressia • Nausea

Apparato genitale• Problemi mestruali• Perdita della libido

Apparato circolatorio• Bassa temperatura • Pallore della pelle, delle mucose e della congiuntiva

Sistema immunitario• Compromissione dell’efficienza delle cellule T e dei macrofagi

Apparato respiratorio e cardiaco• Dispnea da sforzo • Tachicardia, palpitazioni • Ipertrofia cardiaca• Aumento delle pulsazioni • Aumento del rischiodi scompenso cardiaco

Figura 4.5 - Anemia correlata al cancro: segni e sintomi (modificata da Ludwiget al. 2001).3

• Prima degli anni ’80 • 1990– Trasfusione di GR – Rischio associato a tx

con Hb ^ 10 g/dl – Approvazione di epoetina alfa– Test per studiare il rapporto tra

QoL, anemia e Fatigue

• 1980 • 2000– Rischio di infezioni – Rapporto con QoL definita– Linee-guida per la trasfusione – Dati di prevalenza

Hb <8 g/dL – Impatto sull’outcome terapeutico

Tabella 4.3 - Gestione dell’anemia. I sintomi compaiono quando la capacità ditrasportare ossigeno del sange non è sufficiente per coprire il fabbisogno diossigeno dei tessuti.

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valori normali (figura 4.6),4 migliora in modo significativo laqualità della vita (figure 4.7 e 4.8).4 5

Il 70 per cento circa dei pazienti affetti da fatigue e anemiadopo chemioterapia risponde in modo completo a epoetina alfa; ilmiglioramento nella qualità della vita, misurato con test apposi-tamente studiati, raggiunge il 30 per cento rispetto all’inizio deltrattamento e l’aumento è proporzionale all’incremento dei valo-ri di emoglobina.

LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

36

• L’epoetina alfa ricombinante è uguale a quella naturale in composizione esequenza aminoacidica

• Farmacocinetica e attività biologica sono identiche• La composizione carboidratica è simile

Tabella 4.4 - Eritropoietina ricombinante: epoetina alfa.

0 4 8 12 16 20 24 28

8

9

10

11

12

13

14

15 Epoetina alfa

Hb

med

ia(g

/dl)

±2

SE

M

Placebo

Settimane

Figura 4.6 - Correzione anemia nel paziente oncologico in chemioterapia(epoetina alfa 10.000 UI x 3 settimane) (modificata da Littlewood 2001).4

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UNA VITA MIGLIORE PER IL MALATO DI CANCRO

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Risposta completa e parziale alla CHT

Malattia stabile Progressionedi malattia

6,0

13,2

18,3

2,2

5,0

10,4

-2,1

4,2

6,9

Variazione Hb (g/dl)

Varia

zion

ipun

tegg

ioC

LAS

(mm

)

<0 0-2 >2

-5

0

5

10

15

20

Figura 4.7 - Incremento di QoL vs Hb e risposta a CHT(modificata da Ricci 2001).5

FACT-Gp=0040

Fatigue subscalep=0040

Anemia subscalep=0007

n = 1942,5

-3,6n = 90

-2,2n = 90 -2,6

n = 90

n = 2003,0

n = 2004,0

QoL

Mea

nC

hang

eS

core

s:un

ivar

iate

anal

isys

Placebo Epoetina alfa

-4

-2

0

2

4

Figura 4.8 - Efficacia di epoetina alfa sulla QoL (modificata da Littlewood 2001).4

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Da queste osservazioni emerge chiaramente come soltanto unamigliore strategia nella gestione della fatigue, con una maggior sen-sibilizzazione di medico e paziente a comunicare la condizione e agestirla, potrà portare sollievo al paziente oncologico, almeno perquanto riguarda la qualità della vita.

Bibliografia

1. Curt GA, Breitbart W, Cella D, et al. Impact of cancer-related fatigueon the lives of patients: new findings from the Fatigue Coalition. TheOncologist 2000; 5: 353-60.

2. Vogelzang NJ, Breitbart W, Cella D, et al. Patient, caregiver, andoncologist perceptions of cancer-related fatigue: results of a tripartassessment survey. The Fatigue Coalition. Semin Hematol 1997; 34(3 Suppl 2): 4-12.

3. Ludwig H, Fritz E. Anemia in cancer patients. Semin Oncol 1998; 25(3 Suppl 7): 2-6.

4. Littlewood TJ, Bajetta E, Nortier JW, Vercammen E, Rapoport B;Epoetin Alfa Study Group. Effects of epoetin alfa on hematologicparameters and quality of life in cancer patients receiving nonplati-num chemotherapy: results of a randomized, double-blind, placebo-controlled trial. J Clin Oncol 2001; 19 (11): 2865-74.

MANCANO i riferimenti bibliografici 5. RICCIriportati in calce nelle diapositive 23 e 30.

LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

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I progressi scientifici di questi ultimi cinquanta anni hannopermesso di trasformare il cancro da malattia a prognosi invaria-bilmente infausta in malattia a volte guaribile o, più spesso, inmalattia cronica.

Attualmente, nel mondo occidentale, il 60 per cento circa deipazienti a cui è stata posta diagnosi di tumore sopravviveràalmeno 5 anni. Nonostante ciò il cancro resta una delle malattiepiù temute, non soltanto per la sua associazione con la morte, maanche per la paura dell’impatto negativo che produce sulla qua-lità della vita. Infatti il cancro e il suo trattamento sono quasisempre associati a sintomi quali dolore, nausea e vomito, anores-sia, fatigue e depressione. Alcuni possono perdurare anche permolto tempo dopo la fine del trattamento.

Il controllo del dolore, della nausea e del vomito è stato unodegli obiettivi principali degli oncologi negli ultimi venti anni e inotevoli progressi registrati hanno consentito un miglioramentodella qualità della vita dei pazienti neoplastici. Non altrettantosoddisfacenti sono stati i progressi nella diagnosi e nella terapiadella fatigue. Eppure, oggi, diversi studi epidemiologici hannodimostrato che è il sintomo più frequentemente associato altumore e al suo trattamento (con una prevalenza stimata tra il60 e il 90 per cento). La fatigue è spesso uno dei sintomi inizialipercepiti dal paziente e tende ad aumentare con il procedere dellamalattia. Inoltre, la sua influenza negativa sulle condizioni siafisiche sia psichiche, con conseguenti aspetti negativi anche diordine sociale ed economico, incide in modo molto significativosulla qualità della vita del paziente oncologico. È perciò di estre-ma necessità cercare di caratterizzare il fenomeno e tentare dioffrire linee-guida per il suo trattamento.

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5I NUMERI E IL PESO DELLA FATIGUEIN ITALIA

Claudio Verusio

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Ma quali sono i motivi di questo ritardo diagnostico-terapeu-tico? La fatigue correlata al cancro (cancer related fatigue - CRF)può essere definita come una sensazione soggettiva di debolez-za e stanchezza ed è caratterizzata dalla mancata associazionead una causa evidente e dalla persistenza nonostante adeguatoriposo e sonno (tabella 5.1). È un fenomeno intrinsecamente sog-gettivo e multidimensionale che si sviluppa nel tempo, riduce ilivelli di energia, le capacità mentali e deprime lo stato psicolo-gico dei pazienti oncologici (mancanza di energia, debolezza, son-nolenza, difficoltà di concentrazione).

Tale sintomatologia molto spesso è ricondotta dal paziente allasua situazione clinica generale. Egli non sa darsi spiegazione diquesta stanchezza infinita, confonde spesso i suoi sintomi conquelli di una sindrome depressiva, la accetta in maniera silenzio-sa senza riferirla al medico, ostacolandone inconsapevolmente lasoluzione.

Proprio la percezione della qualità della vita nel pazienteoncologico in trattamento chemioterapico è stata oggetto di unostudio condotto dal CERGAS dell’Università Bocconi di Milano,che presenta una buona fotografia sulle problematiche che coin-volgono il sintomo fatigue. Gli obiettivi di questo studio epidemio-logico erano:

• identificare i sintomi più frequentemente responsabili del peg-gioramento della qualità della vita del paziente oncologico;

• valutare se e quanto il paziente segnala i sintomi al suo medi-co e se, da parte del medico curante e dell’oncologo in partico-lare, vi è attenzione alla qualità di vita del proprio paziente.

LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

40

• La fatigue è definita come malattia nella decima revisione della InternationalClassification of Disease (ICD-10) del 1998, la classificazione internazionaledelle malattie dell’OMS.

• È un fenomeno multidimensionale che si sviluppa nel tempo, riduce i livelli dienergia, le capacità mentali e lo stato psicologico dei pazienti oncologici.

• Il paziente prova un’estrema stanchezza, spossatezza, debolezza, mancanza dienergia, e ha bisogno di riposare più frequentemente o comunque in manieranon proporzionale alle attività sostenute.

Tabella 5.1 - La fatigue: definizione (modificata da Portnoy 1999).

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Lo studio si componeva di due questionari: uno diretto aimedici oncologi e uno ai pazienti in trattamento chemioterapi-co. I questionari erano stati creati da un’équipe formata da unprimario oncologo (il sottoscritto), due psicologi dell’associazio-ne ATTIVEcomeprima, un infermiere caposala, un ex pazienteoncologico, un paziente oncologico e due ricercatori della Bocco-ni, la dottoressa Jennifer Landau e il professor Elio Borgonovi.Inizialmente erano state identificate 5 aree rappresentativedella qualità della vita (tabella 5.2):

• dolore• fatigue• nausea• depressione• contesto sociale.

I NUMERI E IL PESO DELLA FATIGUE IN ITALIA

41

Area dolore

• Ho dolori così forti che mi tolgono la voglia di fare• Una sensazione di dolore fa parte della mia giornata

Area fatigue

• Mi sento troppo stanco/a fisicamente per alzarmi dal letto• Non ho la forza fisica per fare le attività che prima facevano parte dei miei interessi (ad esempio, tennis, lavoro, cinema)• Mi sento tanto stanco/a fisicamente che ho difficoltà ad iniziare

e finire anche le piccole cose (ad esempio, piano di scale a piedi,spesa al supermercato)

Area depressione

• Non ho nessun desiderio di incominciare la giornata• Ho difficoltà ad iniziare e finire anche le piccole cose perchè non ho voglia di fare niente (scrivere una lettera, telefonare ad un amico,

leggere il giornale)

Area nausea

• Ho un senso di disgusto riferibile non solo al cibo• Sento sapori fastidiosi in cibi conosciuti• Vomito

Area sociale

• Ho difficoltà a trovare persone che mi capiscano e mi supportino nel modo giusto

Tabella 5.2 - Le aree. Sono state individuate cinque aree rappresentative dellaqualità della vita: ogni area con item che rappresentano il sintomo.

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Quest’ultima area era stata poi esclusa dalle valutazioni, perchéscarsamente significativa, probabilmente perché il 90 per cento deipazienti viveva in famiglia, quindi in un ambiente sufficientemen-te protetto.

Su 180 centri contattati, 104 hanno risposto al nostro questio-nario; su 1014 pazienti segnalati, 694 (74,7 per cento) hanno rispo-sto.

Il disturbo più frequentemente segnalato dai pazienti è risulta-ta la fatigue (figura 5.1A) e questo sia se si teneva conto di queipazienti che riferivano di avere sempre il sintomo in oggetto, sia sea questi si aggiungevano quelli che riferivano di avere il disturbosolo qualche volta (figura 5.2B).

Nella figura successiva (figura 5.2) invece, vengono messi a con-fronto la percezione del disagio da parte del paziente e la comuni-cazione che ne fanno con l’oncologo. Il gap è del 51,5 per cento perla fatigue, del 53,7 per la depressione, del 43,1 per la nausea e del36,7 per il dolore. È interessante notare come di nausea e dolore ipazienti parlano sempre, anche se il disturbo è sporadico, mentrenel caso della fatigue e della depressione non sempre viene riferitoil disturbo, anche quando si presenta sempre.

Il nostro studio ha anche messo in chiara evidenza che la dispo-nibilità dei pazienti a parlare del proprio malessere si rivolge primadi tutto all’oncologo (figura 5.3). Ma, risultato inatteso, a parte l’on-cologo i pazienti preferiscono come interlocutori i familiari anzichégli operatori sanitari e ciò è particolarmente vero per fatigue edepressione.

Dal canto loro, gli oncologi sembrano molto attenti alla dimen-sione della qualità della vita come si vede dalle risposte al quesito“ mi informo” e “mi viene riferito” (figura 5.4), in cui gli oncologi siinformano sui vari disturbi nella quasi totalità dei casi e, con lestesse percentuali, dicono di ricevere informazioni dai pazienti. Ciòperò è in contrasto con quello che rispondono i pazienti al quesito“ne parlo”. Sembra di poter dire da questi dati che i medici oncolo-gi non percepiscono le difficoltà del paziente nel percorso comuni-cativo: non vi è cioè l’identificazione del paziente che, pur in presen-za del sintomo, non ne parla con il proprio medico curante.

Le difficoltà di comunicazione del paziente sono particolarmen-te palesi nei confronti della terapia della fatigue. Al sintomo nau-sea, infatti, viene data una risposta farmacologica anche in assen-za di una comunicazione di disagio da parte del paziente (figura

LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

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I NUMERI E IL PESO DELLA FATIGUE IN ITALIA

43

Fatigue

45,1

28,824,1

17,7

6,2

Area

%

Nausea

Sempre

Depressione Dolore Sociale0

10

20

30

40

50

Figura 5.1A - La frequenza dei disturbi. Il disturbo più frequente è la fatigue. Ipazienti oncologici sottoposti a chemioterapia indicano la fatigue come qualcosache “mi succede sempre” con una frequenza significativamente maggiore rispet-to agli altri disturbi esaminati, dolore, nausea, depressione e contesto sociale.

Sempre

Qualche volta

0

20

40

60

80

100

%

Fatigue

Area

Nausea Depressione Dolore Sociale

45,1 28,8 24,1 17,7 6,2

45,257,1

48,8 55,6

26,1

Figura 5.1B - La frequenza dei disturbi. Il disturbo più frequente rimane la fati-gue sia analizzando il dato “Mi succede sempre” (45,1), sia considerando lasomma di “Mi succede sempre” e “ Mi succede qualche volta” (90,3).

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LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

44

Sempre Qualche volta

0

20

40

60

80

100

%

FatigueDelta = 51,5%

A = Mi succedeB = Ne parlo

NauseaDelta = 43,1%

DoloreDelta = 36,7%

45,1

45,257,1

55,6

38,8 28,8 42,8 17,7 36,6

DepressioneDelta = 53,7%

48,8

24,1 19,2

A B A B A B A B

Figura 5.2 - La comunicazione del disturbo.

5.5): vale a dire che l’attenzione da parte dell’oncologo al sintomonausea, in un paziente sottoposto a chemioterapia, è tale da colma-re parte del gap comunicativo. Non è così nel caso della fatigue.

La rassegnazione del paziente (rappresentata dal gap tra “misuccede” e “ne parlo”) e, dall’altro lato, il gap di comunicazione (rap-presentato dalla differenza tra “ne parlo” e “ricevo risposte farma-cologiche”) pone perciò la fatigue al primo posto tra i disagi delpaziente a cui non viene data risposta.

I medici danno sempre risposte ai disturbi che percepiscono, manon percepiscono le difficoltà del paziente a comunicare tali distur-bi. Di fronte a fatigue e depressione i medici non ricorrono semprealla terapia farmacologica, anche quando il paziente comunica ildisturbo (figura 5.6), come fanno invece nel caso di nausea e dolore.

Il dato più importante che emerge dunque dal nostro studio è chei pazienti hanno difficoltà a riferire al medico, e soprattutto allospecialista oncologo, di soffrire di fatigue. Diventa quindi priorita-rio diffondere la cultura della qualità della vita del paziente onco-

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I NUMERI E IL PESO DELLA FATIGUE IN ITALIA

45

Sempre Qualche volta

%

Fatigue Nausea Dolore

A = Mi succedeB = Ne parlo

Depressione

0

20

40

60

80

10045

,145

,2

38,8

31,1

36

24,8

71,5

28,8

57,1

42,8

27,1

38,3

33,6

63,3

17,1

55,6

36,6

27,1

36,6

24,6

54,6

24,1

48,8

19,2

27,7

22,6

11,1

71,8

A B C D E A B C D E A B C D E A B C D E

C = Ne parlo con MMGD = Ne parlo con infermiere

E = Ne parlo con la famiglia

Figura 5.3 - I destinatari della comunicazione.

logico, in modo da incoraggiare il paziente a parlare con il mediconon solo del tumore, del dolore, della nausea, ma anche di quei sin-tomi sfumati che lui non capisce e che pure condizionano molto lasua vita e a cui, forse, si può porre rimedio.

Dallo studio emerge anche che non sempre i medici sono in gradodi cogliere il fenomeno e questo probabilmente per una difficoltà direlazione tra il paziente e l’oncologo. Non a caso la fatigue è stataanche definita la malattia della comunicazione.

Il ruolo dell’oncologo nel migliorare la qualità della vita delpaziente oncologico è dunque essenziale. È necessaria una sua capa-cità di accoglienza, di ascolto e di comprensione, in modo da potercogliere, anche da sfumati sintomi, il reale malessere del paziente

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LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

46

Sempre

PA = Paziente: “Mi succede”PB = Paziente: “Ne parlo”

Qualche volta

%

FatigueDelta = 23,4%

NauseaDelta = 24,3%

DoloreDelta = 26,6%

DepressioneDelta = 46,3%

0

20

40

60

80

100

PA PB M1 M2 PA PB M1 M2 PA PB M1 M2 PA PB M1 M2

M1 = Medico: “Mi informo”M2 = Medico: “Mi viene riferito”

Figura 5.4 - Il delta della percezione medico/paziente.

Sempre Qualche volta

R = Ricevo risposteRF = Ricevo risposte farmacologiche

A = Mi succedeB = Ne parlo

%

FatigueDelta = 52,7%

NauseaDelta = 9,7%

DoloreDelta = 35,2%

DepressioneDelta = 48,8%

0

20

40

60

80

100

A B R RF A B R RF A B R RF A B R RF

Figura 5.5 - Rassegnazione e gap comunicativo.

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e sapere, per esempio, distinguere tra uno stato depressivo (la cuicura non è forse di sua competenza) e la presenza di fatigue, che èinvece una sindrome basata su precisi meccanismi fisiopatologici ebiochimici, la cui cura è di competenza dell’oncologo.

Eppure non sembra che le cose stiano proprio così.Vorrei a questo proposito ricordare quanto di recente ha scritto,

sul Journal of Clinical Oncology, una brava psico-oncologa inglese,la dottoressa L. Fallowfield, che afferma:

“Noi abbiamo grandi aspettative dagli oncologi:1) essi devono essere scientificamente esperti;2) “informati su” e “capaci di” implementare i progressi sia in

campo diagnostico sia terapeutico;3) validi nella pratica clinica;4) efficienti dirigenti d’azienda;5) aggiornati e motivati nell’insegnare ai giovani collaboratori;6) comunicatori efficaci ed empatici, capaci quindi di dialogare con

persone di diversa estrazione sociale e culturale, con differentepersonalità e soprattutto con le più svariate richieste di informa-zione, spiegazione e supporto.”

I NUMERI E IL PESO DELLA FATIGUE IN ITALIA

47

Sempre

M1 = Mi informoM2 = Mi viene riferito

Qualche volta

%

Fatigue Nausea Dolore Depressione

0

20

40

60

80

100

69,2

22,1

41,4

51,9

77,9

18,3

20,2

75

92,3

1,9

66,3

27,9 98

,91,

1

81,7

14,4

76,9

16,4

43,3

50

84,6

11,5

85,6

10,6

27,9

55,8

14,4

78,8

57,7

35,6

6,7

81,7

M3 = Fornisco risposteM4 = Ho prescritto

M1 M2 M3 M4 M1 M2 M3 M4 M1 M2 M3 M4 M1 M2 M3 M4

Figura 5.6 - La risposta dei medici oncologi.

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Sorge a questo punto spontanea una domanda:Le nostre università, le nostre scuole di specializzazione, i nostri

ospedali si stanno impegnando a formare medici oncologi con le suc-citate caratteristiche?

Quanta cura è posta nell’ambito della preparazione tecnica, acostruire anche una cultura ed una sensibilità umanistica?

E ancora: i nostri ospedali e il nostro sistema sanitario sonocostruiti e organizzati per favorire il miglior rapporto umano tramedico e paziente?

LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

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La lotta contro il tumore al seno è comune a tutte noi donned’Europa e, come infermiera, mi sento coinvolta in prima perso-na nella comprensione del problema della fatigue. La fatigue dacancro colpisce quasi tutti i malati di tumore. È il problema piùcomune per i pazienti sottoposti a chemio e radioterapia e, permolti, diventa motivo di costante ricordo del proprio stato dimalattia. Nonostante la dimensione del fenomeno e le sue conse-guenze, è ancora oggi uno degli aspetti meno compresi dellamalattia tumorale. La fatigue, in quanto multifattoriale, è moltocomplessa da capire (tabelle 6.1 e 6.2).

Uno dei traguardi dovrebbe essere un sistema di valutazionericonosciuto da tutti, che permetta di gestire la fatigue nel miglio-re dei modi, a partire dal momento in cui compaiono i primi sin-tomi. Essendo un fenomeno soggettivo, il malato è la figura ingrado di descriverlo meglio e valutarlo in modo più preciso, maspesso gli operatori sanitari non si informano della fatigue nel

49

6IL RUOLO DELL’INFERMIERENEL RAPPORTO TRA MEDICOE PAZIENTE AFFETTO DA FATIGUE

Kathy Redmond

• La fatigue è il sintomo più comune che affligge i pazienti oncologici sottoposti achemioterapia – Rappresenta per il paziente un continuo ricordo della malattia– Non si risolve con il riposo– Impatta in modo preponderante sulla qualità di vita e sulla capacità di svolge-

re le normali attività quotidiane• Spesso sottostimata e sottotrattata farmacologicamente

Tabella 6.1 - La fatigue e il suo management.

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paziente e non la valutano. È vero che non tutti gli operatori sani-tari sanno comunicare bene con i malati e che questo rende anco-ra più difficile la giusta valutazione del problema, ma anche ilpaziente ha difficoltà a descrivere in modo efficace la propria fati-gue (figura 6.1); così i medici pongono attenzione ad altri aspettied ecco che la combinazione tra scarsa capacità di comunicazionee pregiudizi presenti negli operatori sanitari spesso impedisconoche siano prese corrette decisioni sulla gravità della fatigue.

LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

50

• Mancanza di giudizi universalmente riconosciuti sulla natura della fatigue • Difficoltà a comprendere i sintomi come vengono espressi dal paziente

– Inadeguate competenze a livello comunicazionale – Speranza che sia il paziente spontaneamente a riferire la propria fatigue – Poco tempo per potere dialogare con il paziente– Mancanza di tempo– Strumenti di valutazione ancora poco sfruttati ed utilizzati

• Segni non verbali spesso mal interpretati

Tabella 6.2 - Fatigue, un fenomeno sottostimato: fattori clinici.

Cultura, genere,religione

Desideriodi essere percepiti

come buoni pazienti

Difficoltà del paziente

a riferire la propria fatigue

Fatigue non percepita comefenomeno grave

Fatigue sentitacome fenomeno

ineluttabile

Figura 6.1 - Difficoltà del paziente a riferire la propria fatigue.

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Vorrei portare alcuni esempi. Fattori psicologici e sociali agi-scono sulle intenzioni del paziente di parlare della fatigue al pro-prio medico curante. Per esempio, un paziente può vivere in unasituazione culturale dove è considerato un valore la reazione stoi-ca alla sofferenza e dove le espressioni pubbliche di sofferenzasono disapprovate. Alcuni pazienti decidono di affrontare il pro-blema, mettono in primo piano l’aspetto morale e decidono diallungare la loro sofferenza, così da garantirsi la salvezza dopola morte. Altri decidono di non dire niente per paura di distrar-re il medico dalla cura principale della malattia. Questo tipo difatalismo fa sì che il paziente consideri la fatigue un male che nonsi può evitare né curare. I pazienti possono non essere in gradodi parlare in modo efficace della loro fatigue anche per problemimentali, per debolezza eccessiva o incapacità di spiegarsi in modochiaro. Altri possono non conoscere bene la lingua del curante. Inaltre situazioni, anche se non ci sono problemi di lingua, il mala-to non trova le parole giuste. Infine, i pazienti affetti da fatiguespesso presentano anche una minore capacità di attenzione,hanno problemi di memoria a breve termine. In questa situazio-ne, per il paziente diventa un problema anche ricordarsi sempli-ci istruzioni.

Ci sono anche altri fattori che diventano barriere per la gestio-ne della fatigue. Primo tra tutti la scarsa conoscenza del proble-ma. Essendo un fenomeno complesso, che richiede l’intervento difigure cliniche diverse, una scarsa collaborazione della squadrafa perdere la partita. Oggi, non c’è consenso sul modo migliore digestire la fatigue, tranne che sulla necessità di trattare l’anemia,quando presente. Ma ci sono pazienti con fatigue che, in realtà,non hanno anemia. Anche i tagli alla spesa sanitaria hanno unimpatto sulla corretta gestione della fatigue. Infatti, questi trat-tamenti sono molto costosi.

Insomma, c’è poca sensibilità nei confronti della fatigue, e ingenere il medico le assegna una bassa priorità. Tutti questi aspet-ti fanno sì che alcuni decidano di non prescrivere farmaci perqualche cosa che non ritengono importante.

In conclusione, è chiaro che ci sono molte barriere che rallen-tano il processo di una ottimale gestione di questo problema.Alcune sembrano attualmente insuperabili. Invece, si può faremolto per migliorare la situazione, educando il malato e miglio-rando la comunicazione tra paziente e personale sanitario. Il

IL RUOLO DELL’INFERMIERE NEL RAPPORTO TRA MEDICO E PAZIENTE AFFETTO DA FATIGUE

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medico e l’infermiere devono perciò assumere un ruolo attivo nelcapire se il paziente soffre di fatigue. Si devono informare sullacondizione del malato e su come è la sua vita di tutti i giorni. Infi-ne, bisogna fare uno sforzo speciale per sensibilizzare l’opinionepubblica, i malati e le loro famiglie sull’importanza di questo pro-blema, perché è tempo di trovare una soluzione valida.

LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

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All’oncologo si chiede spesso di essere quasi perfetto, in gradodi fare tutto, quasi onnipotente e onnipresente. Forse, però,potremmo chiedergli semplicemente di essere un buon medico.Potremmo permettergli di essere anche umano e, come tutte lepersone comuni, di sentire, di avere paura, di gioire, di soffrire.Sempre si parla, giustamente, delle paure e delle sofferenze deimalati; ma sovente non si considera che anche gli oncologi, imedici, gli operatori sanitari in genere possono provare gli stes-si sentimenti. Quando il paziente cerca di comunicare con il medi-co, di solito il medico cerca di comunicare con il paziente. Ma nonsi deve negare che, a volte, possono nascere problemi che riguar-dano proprio questo canale di scambio tra i due.

Forse l’esempio più calzante è proprio quello della fatigue, defi-nita sia “malattia della comunicazione”, sia “malattia della rasse-gnazione”. Durante il suo iter, a volte, il paziente si “rassegna” aquello che gli sta succedendo, lo considera come “facente parte dellamalattia stessa” e, di conseguenza, non lo comunica al medico. Sten-tando a chiedere un intervento terapeutico, a parlare dei sintomi e,quindi, smettendo di comunicare, è come se il paziente si rasse-gnasse a una qualità di vita insufficiente e insoddisfacente.

Qual è allora il problema della comunicazione? Che cosa, avolte, non funziona?

Da parte del malato, possono esistere la paura di “non essereascoltato”, la paura di fare certe domande e di ricevere determi-nate risposte, la paura di non poter guarire; da parte del medicopossono esserci la paura di “non essere capace di ascoltare”, lapaura di rispondere alle domande, ma di non poter soddisfarecomunque le aspettative del paziente (tabella 7.1).

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7IL RAPPORTO MEDICO-PAZIENTEIN RELAZIONE ALLA FATIGUE

Patricia Valente

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Quando una persona riferisce, oltre ai sintomi fisici, anche isuoi stati d’animo, può creare disagio nel medico. Confrontarsi conla malattia e la possibilità di morire può risvegliare nel terapeutauna serie di sentimenti e di sensazioni che, in genere, tende arimuovere. Questo è un meccanismo di difesa inconscio, che simette in moto perché il medico possa continuare a fare bene il suolavoro. È anche possibile che la paura del paziente risvegli la pauradel terapeuta, nel quale allora si mette in atto un altro meccani-smo, quello della “proiezione”, che, se non rimosso, potrebbeinfluenzare negativamente i risultati terapeutici. In questa fase,dal punto di vista psicologico, ci troviamo davanti a meccanismi didifesa attivati sia dal paziente, sia dal medico, che portano a unaescissione nella comunicazione. Che cosa significa? Sostanzialmen-te che, da una parte, ci si difende dalla paura “di non poter usciredalla malattia” e, dall’altra, di “non essere in grado di aiutare aduscirne”.

Tutte queste interferenze interrompono la comunicazione, allaquale viene a mancare il filo conduttore e viaggia, pertanto subinari paralleli che, in quanto tali, non hanno un punto di incon-tro. Qui emerge l’importanza di ripristinare un certo modo dicomunicare, non solo tra medico e paziente, ma anche nel quoti-diano di tutti noi.

Se la comunicazione non c’è, i messaggi non trovano i canaligiusti, ma nessuno ha colpa: un paziente non può chiedere se nontrova il modo di comunicare, o la persona con la quale poterlofare; il medico, dal canto suo, non può rispondere a domande nonformulate.

Solo ripristinando la comunicazione, il paziente chiede e ilmedico risponde, evitando che entrambi le parti diano per scon-tato che quanto succede “faccia parte della malattia”.

LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

54

Da parte del paziente Da parte del medico

Di non “essere ascoltato” Di “non essere capaci di ascoltare”Di fare domande Di rispondereDi ricevere risposte Di dare risposteDi non poter guarire Di non poter soddisfare le aspettative del paziente

Tabella 7.1 - Paure di medico e paziente..

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Desidero soffermarmi su questo punto riportando alcunedichiarazioni di pazienti, emerse dalla ricerca sulla fatigue.

Per concludere, dobbiamo sempre più ricordare che oltre lamalattia c’è un malato, che oltre la cura per gli effetti collate-rali della chemioterapia (vomito, nausea, ecc.) c’è anche la fati-gue, malattia della rassegnazione e della comunicazione…

È per questo che bisogna sforzarsi di creare canali di comu-nicazione che migliorino la qualità della vita dei pazientioncologici anziché puntare soltanto alla quantità di vita (tabel-la 7.2). Lo si può fare cercando di vincere le barriere che inter-rompono i canali della comunicazione, accettando e confrontan-doci con le paure dei nostri pazienti, paure che, come tutti sap-piamo, sono anche le nostre.

• “…Ho provato a parlare ma non c’era risposta. Si limitavano a scrivere i mieidisturbi sulla scheda-paziente e tutto finiva lì…Ora parlo solo se ho disturbiimportanti…Tanto non serve a niente… .”

• “…In genere non ne parlo perché mi è già stato detto che ‘fa parte della malat-tia’... Si racconta del dolore fisico sperando in un farmaco, ma non si parladella depressione, per pudore e perché sarebbe inutile. Il medico gestisce inproprio la malattia del paziente, così si parla poco, avendo paura anche dellerisposte. Qualche medico chiede, incoraggia, tranquillizza e questo aiutamolto… .”

• “…Sarei stupida a fare domande per le quali ho già avuto la risposta: ‘Fa partedella malattia’. Cerco di essere forte, di non preoccupare i miei, ma, a volte,sento la necessità non di parlare, piuttosto di gridare la mia paura, la miadisperazione. Ho paura, ma se il dottore mi rincuorasse lo vivrei come unabugia. A volte c’è il medico che si informa e questo fa molto piacere… .”

IL RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE IN RELAZIONE ALLA FATIGUE

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• Pensare alla qualità di vita dei pazienti oncologici anziché alla quantità• Cercare di vincere le barriere che interrompono la comunicazione• Accettare e confrontarci con le paure dei nostri pazienti, che sono anche le nostre

Tabella 7.2 - Come creare canali di comunicazione.

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Che cosa sono le TNC? TNC sta per “terapie non convenziona-li”. Ora ci si può chiedere: perché TNC in oncologia? La rispostasta in quel 75 per cento di pazienti oncologici che non ricevono larisposta farmacologica alla loro sofferenza, alla fatigue. Nessunodi loro è rassegnato, tutti cercano di fare qualcos’altro per aiutar-si. I pazienti che soffrono di fatigue trovano le risposte all’inter-no di quelle che oggi vengono chiamate medicine non convenzio-nali. Ma le TNC che vengono applicate da ATTIVEcomeprimasono terapie non convenzionale solo per l’uso di alcuni presiditerapeutici, che possono rientrare in quest’area soltanto perchénon sono ancora diventati convenzionali. Ma noi speriamo che lodiventino presto. Nella letteratura internazionale vediamo chetra il 7 e il 64 per cento dei pazienti oncologici si rivolgono a tera-pie non convenzionali per dare risposta alla loro sofferenza.1 2 InItalia questi dati sono pressoché sovrapponibili: un numero cheva dal 10 al 60 per cento dei pazienti oncologici si rivolge a tera-pie di supporto.3

Da chi sono consigliati? Nella letteratura, troviamo un 41 percento consigliato dagli stessi medici;4 5 in Italia è ancora di più,il 53 per cento.2 Quindi, vuol dire che non c’è opposizione tra imedici verso le TNC, piuttosto ci sono poche conoscenze delle pos-sibilità e molta disorganizzazione. Il 47 per cento delle TNC èconsigliato invece da non medici: qui molto giocano le conoscen-ze personali. Si tratta per lo più di familiari, o amici, o personeche hanno avuto gli stessi problemi.2 D’altra parte il 50 per centodei pazienti che segue una determinata TNC4 5 (in Italia il 63 percento2) non informa l’oncologo, o comunque il medico curante.Queste terapie rimangono sommerse, nonostante il fatto che

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8IL SUPPORTO MEDICO GENERALEAL MALATO ONCOLOGICO

Alberto Ricciuti

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molti dei presidi, per lo più naturali, che vengono utilizzati con-tengono sostanze farmacologicamente attive, che possono intera-gire con i farmaci impiegati nelle terapie tradizionali, con l’assi-milazione intestinale, con la biodisponibilità di molti nutrienti efarmaci.

Quel che più interessa è capire perché i pazienti cercano que-ste TNC. Dalla letteratura si rileva, tra le ragioni principali, ilbisogno di sostegno globale dell’organismo. È una necessità chenasce e si sviluppa all’interno della cultura oggi emergente, cherimette al centro l’individualità, l’unicità della persona, da con-siderare globalmente (a questo si riferiscono i termini “medicinaglobale, olistica” e così via). Ma la confusione è ancora molta, die-tro alla percezione generale e generica di un bisogno di essereascoltati come persone, come umanità (tabella 8.1).6 7 8 Perchéquesto aiuta a mobilitare la speranza. La speranza è l’ultimodono rimasto in fondo al vaso di Pandora nella mitologia greca.E allora dobbiamo cercare in qualche modo di darle una forma,di darle corpo. Non può rimanere un atto di fede, oppure un datostatistico. Si può fare di più.

Quando una persona sente di poter prendere in mano attiva-mente la propria situazione, di poter fare qualcosa con le suemani per stare meglio, la speranza viene sicuramente incentiva-ta perché si ha la percezione di poter in qualche modo controlla-re un processo complesso. In questa terapia avviata da ATTIVE-comeprima entra spesso il termine complessità. Queste TNCmirano a contrastare la tossicità delle terapie, a sostenere le dife-se immunitarie: come dire che la speranza aumenta ed è soste-nuta quando ci si occupa anche della sofferenza fisica. Ma occor-re fare chiarezza. Con queste TNC non si intende sostituire unfarmaco ad un altro, le TNC in luogo delle terapie cosiddette con-venzionali. Né tantomeno si vuole curare il cancro in modo alter-

LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

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• Rispondono al bisogno di sostegno globale dell’organismo• Aiutano a mobilitare la speranza• Contrastano la tossicità delle terapie• Sostengono le difese immunitarie• Riducono alcuni sintomi correlati alla stessa malattia

Tabella 8.1 - Percezione da parte dei pazienti dei benefici delle terapie di supporto.

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nativo. Noi vogliamo invece sostenere l’organismo, cercare un’al-leanza con le terapie oncologiche su un terreno comune: quelloche utilizza il linguaggio della scienza e dell’efficacia dimostratae ripetibile.

Quali devono essere i presupposti per una terapia che vuoleagire in alleanza, e non in alternativa, con le terapie oncologiche?L’obiettivo del lavoro è aiutare la persona a seguire meglio, piùattivamente e con più convinzione le terapie oncologiche, in modoche sappia coniugare la dimensione biologica con la dimensionebiografica. La nostra medicina ha fatto progressi meravigliosi,quantitativi e qualitativi. Il problema è fare sì che interagiscanoe farli “abitare” nella storia di una persona. Perché la malattia èqualcosa di più di ciò che la medicina riesce a cogliere con i suoistrumenti e la persona vuole essere ascoltata proprio perché c’èqualcosa in lei che lega tutti questi dati, che collega i sintomi chemolto spesso sembrano appartenere ad aree diverse. Sì, appar-tengono ad aree diverse, ma noi dobbiamo riuscire a far intera-gire queste conoscenze in modo tale da avere uno sguardo globa-le sul problema. Anche a questo servono i linguaggi condivisi giàdalla comunità scientifica. Questo è il lavoro che abbiamo cerca-to di fare ad ATTIVEcomeprima: non riferirci a teorie diverse, mautilizzare i dati che già abbiamo e che sono condivisi dalla comu-nità scientifica e che possano essere comunque compresi anchedai pazienti.

IL SUPPORTO MEDICO GENERALE AL MALATO ONCOLOGICO

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Entità composta da più elementi in relazione fra loronella quale il comportamento di un elemento

inßuenza quello degli altri

Emergenza di nuove proprietà e comportamenti non deducibili da quelli dei singoli componenti,

ma in grado di modiÞcarli

Figura 8.1 - Il concetto di sistema.9-12

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Il nostro lavoro fa riferimento al concetto di sistema (figura8.1)9-12, cioè all’organismo visto come una totalità organizzata.Nel secolo appena trascorso, almeno dai primi decenni, il pensie-ro sistemico è quello che anima gli studi in tutti i settori. Provia-mo a usarlo in medicina, perché contiene quel concetto di globa-lità che il paziente va cercando. E lo contiene non in modo gene-rico, ma riferito ad una visione formalizzata da qualche decennio.L’organismo, quindi, visto come entità composta da più elementiin relazione fra loro, nella quale il comportamento di un elemen-to influenza quello di tutti gli altri. Queste relazioni tra compo-nenti determinano l’emergere di proprietà nuove, non deducibilida quelle dei singoli elementi. D’altro canto, queste proprietàemergenti, nuove, si riflettono sui singoli componenti che lehanno prodotte e li modificano. Il nostro organismo, l’organismovivente, è allora un sistema molto diverso da quello di una qual-siasi macchina. Una macchina ha, come prodotto della sua atti-vità, qualcosa che non le appartiene, mentre il prodotto dell’atti-vità del nostro organismo deriva da ciò che i suoi stessi compo-nenti producono.

Quindi l’organismo si definisce sistema autopoietico, cioè chesi autoproduce (tabella 8.2).13 È un concetto fondamentaleperché conduce all’ipotesi eziopatogenetica della sindro-me definita come fatigue, del complesso di disagi che affliggeil paziente. Le terapie oncologiche, e la chemioterapia su tutte,determinano alterazioni più profonde di quelle che siamo solitipensare. La chemioterapia, nell’ottica del sistema autopoietico,altera la rete dei processi regolativi dell’organismo (figura 8.2).14

Processi che, guardati uno per uno, appartengono alle diversespecialità mediche. Bisogna imparare a farle interagire, in modotale da riuscire a cogliere quella dinamica, probabilmente respon-sabile (termine che utilizzo per prudenza, anche se i risultatiterapeutici sembrano andare proprio in questa direzione) di quel-la sindrome e della sua complessità.

LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

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• Sistema organizzato nella forma di una rete di processi di produzione dei com-ponenti (macromolecole, cellule, organi, tessuti, ecc.) che costituiscono la suastessa struttura.

Tabella 8.2 - L’organismo come “sistema autopoietico” (cioè che si auto-produce).

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I processi che vengono influenzati da una TNC di questo gene-re sono tutti quelli che, in relazione tra loro, determinano le capa-cità autoregolative di produzione di energia del nostro organi-smo. Vale la pena di sottolineare in questa sede il sovraccaricofunzionale dei sistemi di drenaggio antitossico, la quantità ecces-siva di tossine. Il farmaco direttamente, ma anche il suo effetto,hanno elementi di tossicità. I medici sono però ancora disarmatiper cogliere il sovraccarico funzionale. Consideriamo per esempioil fegato: le transaminasi sono in effetti indici di necrosi epatica,cioè di una cellula così sofferente da morire e liberare in circoloil suo contenuto. Ma c’è tutto un precedente di affanno, di insuf-

IL SUPPORTO MEDICO GENERALE AL MALATO ONCOLOGICO

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Sovraccarico funzionale dei grandi sistemi

di drenaggio anti-tossico(epatico, renale, polmonare,

intestinale, linfatico)

Danno parenchimale

Riduzione processi autodifensivi

(ridotta vigilanza immunitaria anti-infettiva e anti-neoplastica)

Riduzione processi autoriparativi

(a livello cellulare e tessutale)

Disbiosi(con alterazione

del sistema immuno-linfatico

intestinale)

Riduzione dellarespirazione

cellulare(ciclo di Krebs,

catena repiratoriae fosforilazione

ossidativa)

Acidosi tessutale(in particolare

a livellomesenchimale)

Figura 8.2 - Le alterazioni indotte dalla chemioterapia nella rete dei processiautopoietici.14

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ficienza funzionale, che non riusciamo a cogliere con gli esami cli-nici, ma che si potrebbe cogliere parlando con la persona, ritor-nando a occuparci del paziente. Perché questi processi sono moltobene indagabili da questo punto di vista, poi ovviamente oggetti-vabili con gli strumenti diagnostici. Certo, abbiamo bisognoanche di strumenti che consentano di misurare i fenomeni, ma lacomplessità di dinamiche di questo genere ha anche un aspettodi vissuto che non va trascurato, perché ci porta ad arricchire lacomunicazione col paziente, a trarne più informazioni.

Quali sono le manifestazioni di questa disregolazione dei siste-mi di drenaggio? La disbiosi, l’alterazione del sistema immuno-linfatico intestinale, la riduzione della respirazione cellulare, cioèdell’energia, l’acidosi dei tessuti, l’accumulo di tossine acide pro-vocate dai farmaci, ma anche da un’alimentazione non adegua-ta. Se è vero che alcuni di questi aspetti possono essere curati colcomportamento alimentare, a volte non è sufficiente e occorreintrodurre qualcosa di più. Che cosa introduciamo? Strumentitestati, titolati, di qualità ineccepibile, che non escludono mai ilricorso ai farmaci della medicina convenzionale (cortisonici, peresempio, o antimicotici, anche se con queste TNC, la necessità diquesto genere di farmaci di solito si riduce). Non c’è nulla di alter-nativo in una terapia del genere (tabella 8.3). Si cerca di antici-

LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

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Probiotici• Trattare la disbiosi• Modulare la vigilanza immunitaria dell’intero organismo• Correggere l’alterazione dei processi assimilativi a livello gastroenterico

Biocatalizzatori e intermedi del ciclo di Krebs e della catena respiratoria• Regolare il metabolismo cellulare• Aumentare e sostenere la produzione di energia

Substrati nutrizionali e alimentazione• Correggere l’eccessiva acidificazione dell’organismo• Garantire un adeguato apporto nutrizionale e favorire le funzioni emuntorie del-

l’organismo• Consentire un corretto drenaggio antitossico dell’intero organismo

Tabella 8.3 - Terapia sistemica di supporto. Presidi terapeutici e loro finalità.

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pare i sintomi piuttosto che andarne all’inseguimento. In questomodo, effettivamente, il trattamento con i farmaci “sintomatici”diminuisce molto.

La valenza innovativa di una TNC impostata con questi cri-teri sta nel far finalmente riferimento a concetti e strumenticondivisi dalla comunità scientifica, per cui la comunicazionetra l’oncologo e il paziente, tra il paziente e il suo medicomigliora. E poi nello spostare (come ha ben sottolineato ancheSalvo Catania nella prima parte di questo volume) il baricen-tro sulla persona. I benefici che noi vediamo sono: il migliora-mento della qualità della vita, dell’autonomia personale, dellavita familiare. Si riduce il ricorso ai farmaci, si dà una rispo-sta al bisogno globale di supporto (tabella 8.4). E poi aumentala fiducia e la partecipazione alle terapie oncologiche. C’è untasso ancora alto di abbandono della terapia oncologica, oppu-re di persone che la subiscono più che sceglierla, perché stan-no tanto male. E questo probabilmente introduce elementinegativi, forse persino a danno dell’efficacia delle stesse cureoncologiche. Un supporto di questo tipo, che è di competenzadella medicina generale, consente al malato un uso più corret-to delle strutture pubbliche.

Questo lavoro ha l’obiettivo di promuovere lo sviluppo e l’ap-plicazione sistematica di una terapia di supporto medico genera-le come parte integrante, finalmente, delle terapie oncologiche.Un obiettivo che è perfettamente in linea con la Carta di Parigi,firmata nel 2000, che all’articolo 8 pone al centro il mantenimen-to o il ripristino di una soddisfacente qualità della vita del mala-to oncologico.

IL SUPPORTO MEDICO GENERALE AL MALATO ONCOLOGICO

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• Migliora la qualità della vita e l’autonomia personale• Riduce il ricorso a farmaci sintomatici• Dà una risposta concreta al bisogno di supporto globale che il malato di cancro

cerca e incentiva la speranza• Aumenta la fiducia e la partecipazione attiva alle stesse terapie oncologiche• Consente al malato un uso più corretto delle strutture pubbliche

Tabella 8.4 - Benefici di una terapia di supporto di orientamento sistemico.

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IL SUPPORTO MEDICO GENERALE AL MALATO ONCOLOGICO

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TESTIMONIANZE

1.La gestione della fatigue in oncologia nel rapporto medico-paziente.Testimonianza di un paziente

PAOLO LIGUORI

Nel marzo del ’99, rientrato da un viaggio di lavoro all’estero, ero molto contento,molto soddisfatto, perché tutto era andato bene. Avevo però un dolore alla spallache attribuivo all’aver sollevato bagagli molto pesanti all’aeroporto, rientrando acasa. Dopo qualche giorno sono andato dal medico, ma gli analgesici non hannofatto passare il dolore. Sono quindi ritornato dal medico per una seconda visita edè nato il sospetto che non fosse soltanto uno stiramento, come pensavo all’inizio.La radiografia ha dato segnali molto negativi, che la successiva TAC ha confer-mato: purtroppo un tumore al polmone da operare al più presto. È stato un trauma, come se mi avessero ribaltato una libreria addosso. Mi trema-vano le gambe, non sapevo più cosa pensare. Pensavo di dover risolvere al piùpresto tutti i problemi: lo studio, l’attività professionale, la banca, le imposte. Tuttoinsomma, in previsione di lasciare tutto a posto. Contemporaneamente pensavoche il presente era rappresentato da una serie di problemi e il futuro, quale futu-ro, non riuscivo a immaginarlo, non c’era futuro e poi…in ogni caso…in quali con-dizioni. Ho subito l’intervento chirurgico: è stato abbastanza impegnativo, ma siè svolto tutto molto bene. Successivamente la chemioterapia e poi la radioterapia. La chemioterapia mispaventava fin dall’inizio, perché avevo sentito descrizioni molto, molto crudesulle conseguenze. In effetti è un’esperienza molto brutta da un punto di vista siafisico, sia psicologico. La debolezza si unisce alla sfiducia, a un senso di apatia,di mancanza di obiettivi. In sostanza la forte debolezza impedisce di fare una vita“normale” e quando si desidera fare qualche cosa, automaticamente ci si doman-da perché. Questo stato di apatia emerge anche per le cose più semplici. Ancheandare a scegliere un libro in libreria diventa una fatica enorme, per cui si rima-ne lì, apatici, a pensare. Ritengo che il paziente oncologico rifletta ed esamini la realtà che lo circonda inuna forma molto alterata. Sviluppa un’ipersensibilità che lo porta a intravederequalcosa che sembrava non aver capito nel comportamento delle persone. Ci

segue

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sono tante situazioni che, viste a freddo ed esaminate con la mente distesa sci-volano via, mentre in questa situazione di apatia ci si considera praticamente unproblema per se stessi, perché è un problema affrontare lo stato fisico, la depres-sione…Non so se è depressione. Non so se si può chiamare depressione que-sta forma di apatia che impedisce, impedisce tutto. Praticamente annulla ogni ini-ziativa di vita. La cosa che mi ha lasciato esterrefatto è stato, successivamente,scoprire che tutte queste manifestazioni portate dalla chemioterapia non si veri-ficano solo in alcuni soggetti e non in altri, ma sono segnali di una patologia notae inquadrata, chiamata “fatigue”. Ciò che mi ha sorpreso, ma anche un po’ indi-gnato, è che non solo è una patologia ben inquadrata, ma che esistono anchefarmaci che possono rendere meno gravosa questa sofferenza, per esempio l’e-ritropoietina. In una successiva chemioterapia alla quale sono stato sottopostomi è stata somministrata e, devo dire, con esito molto positivo. L’esperienza della chemioterapia, come dicevo, porta il paziente a vedere ilmondo che lo circonda in una forma particolare. Ipersensibile a tutto ciò che acca-de intorno, lo porta a raccogliere ogni segnale, ogni descrizione. Tutto ciò che siriferisce al tumore e alle terapie specifiche lo interessa. Tra le situazioni alle qualidifficilmente si pensa, se non ci si è passati in prima persona ci sono, per esem-pio, le sale d’aspetto per la chemioterapia e la radioterapia. Vi sono i pazienti e iparenti dei pazienti che attendono e che, ovviamente, parlano. Sarebbe meglioche non lo facessero. Raccontano le sofferenze e i disturbi di cui hanno sofferto,o che hanno avuto i loro conoscenti e i conoscenti di conoscenti, tanto che allafine, dopo un po’ di sedute, si è immagazzinata nella mente una tale quantità didati e di disturbi, per cui si considera tutto ciò che capita (mal di denti, dolori distomaco, dolori articolari) come una conseguenza della chemioterapia. In realtànon è solo l’influenza della sala d’attesa. Perché, in pratica, quando si parla diqualche disturbo anche con persone competenti, si viene sempre esortati a farsicoraggio e a pensare che è un momento difficile: “Coraggio, tenga duro perchéterminata la cura questi disturbi passeranno”. Come dicevo la mente del paziente oncologico in chemioterapia lo porta a diven-tare ipersensibile sul comportamento delle persone con le quali viene a contat-to. Ricordo, per esempio, il caso di un mio carissimo amico incontrato per stra-da. Aveva saputo da altri del guaio che mi era capitato e mi ha chiesto notiziesulla mia salute; ci siamo intrattenuti una decina di minuti, poi ci siamo salutati.L’ho incontrato nuovamente, credo un paio di settimane dopo, e ho notato che adistanza mi aveva certamente visto, ma che poi, avvicinandosi, aveva aperto ilgiornale passando oltre immerso nella lettura. In condizioni normali avrei pensa-

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to che avesse fretta, che dovesse andare a casa. Invece mi sono venute in mentediverse considerazioni, tra le quali che fosse imbarazzato nell’incontrarmi dinuovo e che non sapesse cosa dirmi, come affrontare ancora l’argomento. In effetti, il malato oncologico si rende conto anche di essere un soggetto diffici-le, un problema per sé, ma anche per gli altri. Perché la paura di non sapere checosa dire o di sbagliare, alle volte può far assumere comportamenti strani alle per-sone. Tuttavia bisognerebbe sempre ricordare che il paziente oncologico in che-mioterapia è ipersensibile, è solo e cerca rassicurazione, e nello stesso tempo èparticolarmente attento a ogni comportamento, al mondo esterno. Per cui se glialtri entrano in questo ordine di idee e capiscono di avere a che fare con una per-sona che rielabora il loro comportamento, le loro frasi, riflettendo su questo,potrebbero essere migliori, avere un rapporto migliore, più armonico e, sostan-zialmente, senza grandi sforzi.

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La testimonianza di Paolo Liguori focalizza in pieno il temadel rapporto medico-paziente in relazione alla fatigue. Tutti gliautori dei capitoli precedenti e lo stesso Liguori sottolineano chela fatigue è un’entità nosologica (cioè una malattia) identificatae studiata solo da pochi anni, tant’è che anche una buona partedei medici non è al corrente della sua esistenza e, se la conosce,non sa come affrontarla. C’è di mezzo certamente un problema diinformazione, di aggiornamento clinico, al quale occorrerà prov-vedere rapidamente, ma, per il momento, come abbiamo visto,molti pazienti non hanno un sostegno adeguato.

La fatigue è una sindrome multifattoriale con sintomi fisici (ilprimo, come dice il nome, è l’astenia, una profonda stanchezza) esintomi psichici (di tipo depressivo). Le cause fisiche non sonomeno fondamentali di quelle psicologiche, se non altro perché piùconcrete e perciò forse più facilmente trattabili. Gli oncologi sonomolto attenti a curare sintomi come il vomito e il dolore, cioè acurare il corpo. Per loro è quindi naturale provvedere prima ditutto alla causa fisica principale della fatigue, l’anemia. Rimedia-re a essa significa restituire ai malati parte delle energie fisicheperdute e, certamente, questo recupero ha effetti molto positivianche sugli aspetti psicologici della sindrome.

Tuttavia, come ha messo bene in luce il professor Sergio Peco-relli in questo volume, oltre agli effetti negativi prodotti sul fisi-co dall’anemia neoplatstica (stanchezza, dolori alle gambe, diffi-coltà a salire le scale o a camminare per brevi tratti, respiro cortodopo un’attività anche lieve, disturbi del sonno, difficoltà a com-piere le normali attività come cucinare, pulire, fare una doccia,rifare il letto) altrettanto pesanti sono le componenti psico-com-

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9RIFLESSIONI CONCLUSIVE

Marco Margnelli

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portamentali, quali il disinteresse per le attività abituali, l’irri-tabilità, l’apatia, la scomparsa di motivazioni nell’intraprenderequalunque iniziativa, anche ricreativa, il rifiuto delle responsa-bilità, la caduta verticale della qualità della vita dei sofferenti difatigue.

Mi preme attirare l’attenzione su alcuni aspetti della condizio-ne psicologica dei sofferenti di fatigue perché possono indicare lastrada da seguire per affrontarla e perché aiutano a capire comel’angoscia del cancro venga aumentata in modo perversamentecircolare dalla perdita di energia che caratterizza la fatigue: alladepressione, che fatalmente origina dal sapersi malati di unamalattia estremamente minacciosa, si aggiunge pian piano il tor-mento di sentir calare l’energia fisica, il che accresce lo stato didepressione e fa perdere l’interesse per la vita.

Tutto ciò rappresenta una realtà finora misconosciuta, cheemerge come il corpo di un iceberg, celato sotto la superficie diuna scarsa comunicazione tra medico e paziente. Purtroppo, men-tre gli specialisti oncologi sanno affrontare con adeguata profes-sionalità l’aspetto fisico, sono ancora non sufficientemente abilinell’affrontare adeguatamente le condizioni psicologiche deipazienti che soffrono di questa “malattia nella malattia”.

La relazione di Liguori ha chiaramente testimoniato quantoacutamente possa mancare un valido rapporto con il propriomedico curante.

Anche dalla ricerca illustrata dal dottor Claudio Verusio emer-ge, in maniera impressionante, il dato, evidenziato dai questio-nari, secondo cui, purtroppo, nel gruppo di oncologi intervistati itentativi e le difficoltà dei pazienti di comunicare il sintomo fati-gue non vengono colti abbastanza prontamente o addirittura ven-gono minimizzati. Un atteggiamento che porta i pazienti versouna condizione ancora più temibile della solitudine, tale da fardefinire la fatigue anche “malattia della rassegnazione”.

Troppo spesso colui che dovrebbe innescare la speranza sug-gerisce invece una sopportazione silenziosa, un’accettazione man-sueta dell’ineluttabile. A quali risorse psicologiche deve aggrap-parsi allora il malato sfiancato e demoralizzato dalla solitudineche lo circonda? A chi rivolgersi se i familiari, gli ultimi interlo-cutori che restano, come ha scritto Verusio, sono, ancor meno deimedici, in grado di gestire la situazione? Il malato non può faraltro che guardarsi dentro. È bersagliato da numerosi luoghi

LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

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comuni: “La malattia è un segnale che devi cambiare qualcosadentro di te!”. Oppure: “Il cancro è una malattia psicosomaticaperciò chiediti in che modo te lo sei fatto venire!”. E ancora: “Haiun rancore profondo verso qualcuno ma, se riuscirai a perdona-re, farai un grosso passo verso la guarigione!”.

Per non parlare della dieta, del fumo, dello stress, dell’alcol,tutte abitudini deleterie che insinuano che la “colpa” della malat-tia sia dentro il paziente stesso, subdola e velenosa e che la vitacondotta fino alla scoperta del male era tanto sbagliata quantouna tossicodipendenza. Raramente si mettono sotto processo iritmi bestiali del lavoro, l’inquinamento ambientale (la benzinaaddizionata col piombo, ad esempio), l’inquinamento alimentare(i coloranti anilinici, solo per citare una delle sostanze che lo pro-vocano), la repressione emotiva; altre volte, invece, si parla dellapossibile genesi infettiva (virale) di parecchie forme di tumoreche, quanto meno, allevierebbero il malato da una responsabilitàperaltro tutta da dimostrare.

Torno alla testimonianza di Paolo Liguori perché esprimechiaramente il senso di grande solitudine vissuto nel corso dellapropria malattia, solitudine probabilmente dovuta a difficoltà didialogo: ci suggerisce che il paziente oncologico è come un indivi-duo che debba salire una faticosissima scalinata. All’inizio è cir-condato da tante persone, parenti stretti, amici, conoscenti, col-leghi di lavoro e così via, che lo aiutano, lo incoraggiano e losostengono. Poi, mano a mano che passano i mesi, queste perso-ne restano indietro finché il malato si trova solo. Dopo un po’,neanche i familiari osano più parlare del cancro, che è una pre-senza costante e corrosiva, ma che non può interferire più ditanto con la vita di tutti i giorni. E il malato stesso non osa “esse-re di peso alla famiglia”, scegliendo una solitudine molto corag-giosa, ma anche pericolosamente distruttiva.

Intanto il cancro corrode il corpo e la radioterapia, o la chemio-terapia, consuma l’energia, così che la salita diventa sempre piùfaticosa e sempre più solitaria. La rassegnazione è l’ultimo passoverso la resa senza condizioni. E, di nuovo, tornano le domandedalle quali la fatigue emerge come “malattia della comunicazio-ne”: chi e come deve rimediare alla rassegnazione? L’oncologo? Ilmedico di famiglia? Uno psicoterapeuta? I familiari? Un sacerdo-te? L’amante? Un amico o un’amica? Chi è in grado di rigenera-re la speranza, la voglia di vivere e, con questa, la combattività?

RIFLESSIONI CONCLUSIVE

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A un certo punto le forze per salire, non solo quelle fisiche, maanche quelle psicologiche, si esauriscono e il malato si trova bloc-cato sulla scalinata, senza sapere se è meglio tornare indietro osforzarsi di continuare. È necessario prendere nota di questa soli-tudine e cominciare a chiedersi come attenuarla, chi e comepotrebbe porvi rimedio, con quali mezzi e con quali costi. Non èpensabile che tutti i pazienti oncologici debbano mettersi in psi-coterapia, come non è pensabile che negli ospedali oncologicidebba esserci un servizio di psico-oncologia (anche se alcuni cel’hanno).

Non è necessario, ovviamente, che gli oncologi diventino anchepsicoterapeuti. Però, certamente, tra la freddezza professionalecon la quale si smistano velocemente gli appuntamenti di unamattinata, senza quasi guardare in faccia il paziente, e un caldosorriso accompagnato da un lungo discorso che “faccia vedere chec’è un futuro”, c’è sicuramente una via di mezzo. Attualmente,dunque, la fatigue è una condizione morbosa subdola e sottilmen-te perversa sia perché i pazienti non sanno di esserne preda, siaperché, come si è detto, è misconosciuta a una buona parte deimedici stessi.

Non è un caso che Pecorelli e lo stesso Verusio chiedano chesiano organizzati al più presto dei corsi di aggiornamento profes-sionale per gli oncologi e per i medici di famiglia, che creino unacultura della fatigue. Una cultura che (come suggerisce KathyRedmond) dovrebbe essere favorita anche tra il personale infer-mieristico degli ambulatori e dei reparti di oncologia, perché gliinfermieri e le infermiere hanno con i malati un tipo di contattoumano generalmente più intimo e confidenziale di quello deimedici e potrebbero addirittura fungere da ponte di collegamen-to tra pazienti muti e medici sordi.

Se il mancato riconoscimento della fatigue in un paziente è,dunque, principalmente dovuto a un difetto di comunicazione, èovvio che anche ATTIVEcomeprima si sia trovata fin dall’inizio difronte a questo problema fondamentale. Ma, con la stessa intuiti-vità con cui ha saputo rimediarvi, facendo in modo che le pazientistesse comunicassero tra loro, impegna i gruppi d’incontro in unmodulo che è stato significativamente chiamato “Decido di vivere”.

ATTIVEcomeprima ha messo a punto un ottimo supporto psi-cologico, molto più facile e meno costoso di qualunque rimedioistituzionale, con risultati decisamente esemplari, così che, forse,

LA FATIGUE COME SOFFERENZA GLOBALE: COS’È, COME AFFRONTARLA

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la fatigue fa un po’ meno paura. Questo modello di aiuto non èconcorrenziale rispetto a ciò che possono fare i medici: semmai sioffre come un potente supporto cui gli stessi medici possono ricor-rere. Uno degli aspetti più importanti di questo modello consistenella possibilità che le malate che afferiscono ad ATTIVEcome-prima possano comunicare il loro disagio, apertamente, profon-damente e continuativamente, possano, cioè, rimediare a quellamancanza di comunicazione tra medico e paziente lamentatanegli scritti presentati in questo volume e che ha fatto chiamarela fatigue anche “malattia della comunicazione”.

RIFLESSIONI CONCLUSIVE

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PARTE TERZA

AZIENDE DI PROFITTO E NON PROFIT:UNA VISIONE ETICA COMUNE

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La responsabilità sociale di un’azienda farmaceutica va al dilà della semplice business conduct di un’impresa. Chi lavora inJ&J è tenuto al rispetto dei valori di un documento che codificagli elementi sostanziali per un approccio “socialmente responsa-bile” alla condizione del business e a un comportamento finaliz-zato alla responsabilità sociale: il “Credo”. Il Credo è frutto di unavisione futuristica dell’organizzazione.

Dico “futuristica” in quanto nasce negli anni ‘30 per mano diRobert Wood Johnson, vale a dire molti anni prima che si svilup-passero in tutto il mondo i documenti di “Missione, Visione eValori” che oggi, quasi fossero una moda, guidano l’operato ditante aziende.

È comunque un modo di essere dell’azienda a tutti i livelli enon solo un modo di comportarsi, o essere percepiti dall’esterno.Quindi è: “Responsabilità nei confronti della comunità in cuiviviamo e lavoriamo”.

È uno dei principi ispiratori di Johnson & Johnson in tutto ilmondo.

Che cosa significa il rispetto del Credo per J&J? Contraria-mente a quanto si possa pensare, non è semplicemente la guidaa un atteggiamento filantropico. Robert Wood Johnson credevafermamente che soltanto rispettando i tre punti fondamentali dicui il Credo si compone, si potesse far crescere l’azienda, quindi,conseguire la equa remunerazione: degli azionisti, rispettandol’impegno e la responsabilità nei confronti delle persone cheusano prodotti e servizi; dei nostri dipendenti; della società tuttae dell’ambiente. Le scelte dell’azienda seguono questi principi daoltre sessant’anni.

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10LA RESPONSABILITÀ SOCIALEDELL’AZIENDA FARMACEUTICA

Bruno Azzolini

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Non è facile a volte, per chi guida un’azienda, per chi ha esente fortemente la responsabilità per i propri collaboratori, perchi gestisce persone, prendere delle decisioni. Il Credo, insiemeal permeato senso di responsabilità sociale del gruppo di cui fac-cio parte, può venire in aiuto, può guidare le scelte dei managerindipendentemente dall’area del mondo in cui operano.

J&J è una delle principali aziende farmaceutiche su baseinternazionale. Nonostante la struttura fortemente decentraliz-zata, il Credo assicura che ogni singola parte dell’azienda, purrestando focalizzata sul mercato di ogni Paese in cui essa opera,non dimentichi di essere parte di un gruppo internazionale cheha un ruolo importante all’interno della società umana tutta.

Portare farmaci innovativi agli operatori sanitari in tutto ilmondo, in modo che raggiungano nel modo più utile i pazienti: èquesta la richiesta a ogni nostro collaboratore. L’innovazione è lanostra ragione di esistere.

Ho brevemente accennato alla responsabilità sociale, concet-to spesso richiamato nelle più moderne strategie aziendali, mache assume per il nostro gruppo un senso profondo, globale. Laresponsabilità sociale, come il Credo, non ha confini geografici,non ha barriere linguistiche. Responsabilità sociale è, per J&J,l’incontro tra entità delle più diverse, mosse però da obiettivicomuni.

L’azienda è fortemente motivata a stringere alleanze e proget-ti di partnership con altre aziende, istituzioni, associazioni, lacui innovazione, eticità e responsabilità sociale possano fungereda acceleratore per il progresso nel campo della medicina. Que-sta motivazione, questo impegno si sostanziano in progetti dipartnership a lungo termine, in grado di dare più evidenza aipunti di forza delle singole parti, con l’obiettivo finale di portare,in tutto il mondo, progressi alla società in genere, attraversoun’azione di miglioramento della vita dei pazienti e del lavoro deimedici.

Questi concetti sembrano, così esplicitati, lontani dal busi-ness, dall’obiettivo di remunerare, con il giusto profitto, gli azio-nisti. Nella pratica non è così. Operando nel mercato della salu-te e della cura della persona, la responsabilità sociale, attraver-so il comportamento etico dell’azienda, permette di costruire unclima di fiducia, un’immagine positiva dell’azienda che le consen-te di venire riconosciuta come “diversa”.

AZIENDE DI PROFITTO E NON PROFIT: UNA VISIONE ETICA COMUNE

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Un progetto di partnership con un’associazione di pazienticome ATTIVEcomeprima, per esempio, permette di cogliere i frut-ti nel corso degli anni, a vantaggio dei pazienti, della società edell’azienda stessa. Se pensiamo che il fine della responsabilitàsia sempre e comunque il benessere dell’umanità, da conseguireanche attraverso le scoperte scientifiche e la promozione dellacultura della salute in ogni ambito, il connubio profittabilità eresponsabilità sociale è più che chiaro.

Personalmente ritengo che solo grazie a un costante lavoro “apiù mani” si possa migliorare la sanità e contemporaneamenteraggiungere obiettivi comuni alle varie “entità” della società, avolte apparentemente e superficialmente discordanti.

LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELL’AZIENDA FARMACEUTICA

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Mezzi della Corporate Social Responsability• Finanziamento di progetti di solidarietà. J&J crede fortemente nell’importanza

di un dialogo aperto con tutti coloro con cui entra in contatto, siano questi con-sumatori, clienti, dipendenti, organizzazioni pubbliche e private, pazienti e loroassociazioni.

• Mettere a disposizione fondi economici e competenze professionali, favoren-do lo sviluppo delle risorse locali, nel rispetto delle esigenze della comunità.

Obiettivi• Sensibilizzare l’opinione pubblica su tematiche inerenti il miglioramento della

salute e del benessere dell’uomo. In poche parole, coinvolgere lo sviluppodella sanità con il progresso sociale e la crescita economica.

• Migliorare la qualità di vita della comunità in cui opera: questa è la finalità dellaFondazione J&J che, per il raggiungimento di questo obiettivo, collabora conle istituzioni, le organizzazioni non profit e le associazioni di volontariato.

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Nella società strutturata in organizzazioni (aziende profit,aziende pubbliche e aziende non profit) che presidiano le diversefunzioni di utilità pubblica del sistema, il ruolo delle aziende nonprofit integra finalità sociali, valore economico e valore meta-eco-nomico. Questa combinazione virtuosa e di successo imprendito-riale si struttura in una realtà operativa che accresce la ricchez-za sociale ed economica di un Paese.

ATTIVEcomeprima è un’organizzazione non a scopo di lucro,che incrementa il “capitale sociale” dei territori ove agisce, per-ché aumenta non solo la qualità della vita, ma anche la redditi-vità sociale intesa come capacità, per le persone, di continuare agiocare il proprio ruolo sociale nella società. La novità non è solodi tipo terminologico, ma anche funzionale, perché dall’integra-zione delle caratteristiche aziendali con quelle sociali scaturisceun’organizzazione:

• coordinata in sé e nelle relazioni con altre organizzazioni;• qualificata da attività che valorizzano i principi economico-

sociali con quelli economico-aziendali tramite l’efficacia opera-tiva di risultato;

• dinamica e proattiva in funzione degli stimoli della doman-da interna ed esterna riguardo alla soddisfazione dei biso-gni della società che, per il suo tramite, si sviluppa in modopiù armonico e con costanza rispetto ad altre scelte strut-turali economico-sociali le quali, spesso, alternando momen-ti di sviluppo significativo con momenti di depressionestrutturale, ridimensionano le positività degli sviluppi pre-cedenti.

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11ATTIVECOMEPRIMA:ONLUS E AZIENDA DI SOLIDARIETÀ

Giorgio Fiorentini

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Da una prima osservazione, possiamo notare quanto questarealtà di sistema sia estremamente diversificata al proprio inter-no. La molteplicità delle forme adottate e la capacità di adattar-si nel tempo ai mutamenti sociali la rendono una realtà fluida evaria. Da qui la difficoltà di trovare una definizione appropriata,se non recuperando l’unitarietà del concetto economico-azienda-le dell’azienda non profit, che accomuna tutte le strutture cheagiscono nel contesto dell’economia civile, del privato sociale, del“terzo settore” e così via. Essere un’azienda non profit vuol direraggiungere e mantenere l’equilibrio economico-finanziario checonsiste nella capacità di remunerare le risorse poste in essere eintegrate tra loro (spazio, tempo, danaro, relazioni, personale,sentimenti, reciprocità, scambi) per conseguire un risultato eco-nomico-finanziario inteso come utile d’azienda, base indispensa-bile di continuità operativa e di alte probabilità di raggiungere irisultati istituzionali.

ATTIVEcomeprima è una Onlus (organizzazione non lucrati-va di utilità sociale) e, in questa accezione, è un’azienda; ciò, d’al-tra parte, non toglie valore al suo agire, anzi fornisce garanzie dicontinuazione dell’attività.

Le Onlus sono una particolare categoria di aziende non profite rappresentano una figura che ha esclusivo rilievo fiscale, nonindividuando, quindi, alcun soggetto giuridico nuovo. In partico-lare, l’art. 10 del D.lgs. 460/1997 individua la natura giuridica deisoggetti che:

• sono automaticamente Onlus (comma 8);• possono essere Onlus (comma 1);• non possono, in ogni caso, essere Onlus (comma 10).

Qui di seguito riportiamo un breve schema che ricorda carat-teristiche e struttura delle Onlus in generale (figura 11.1).

Per quanto riguarda i soggetti che non sono automaticamen-te Onlus (associazioni, fondazioni, comitati, società cooperativeed altri enti di carattere privato) la loro qualifica di Onlus èsubordinata all’indicazione esplicita, nell’atto costitutivo e/o nellostatuto, di alcuni requisiti previsti dall’art. 10, comma 1, delD.Lgs. n. 460/97.

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Tali requisiti riguardano:

• I settori di attività. Le organizzazioni in parola devono svol-gere attività in uno o più dei seguenti settori:– assistenza sociale e socio-sanitaria;– assistenza sanitaria;– beneficenza;– istruzione;– formazione;– sport dilettantistico;– tutela, promozione e valorizzazione delle cose d’interesse

artistico e storico di cui alla Legge 1089/39, ivi comprese lebiblioteche ed i beni culturali di cui al D.P.R. 1409/63;

– tutela e valorizzazione della natura e dell’ambiente;– promozione della cultura e dell’arte;– tutela dei diritti civili;– ricerca scientifica svolta direttamente da fondazioni o da esse

affidata ad università, enti di ricerca ed altre fondazioni.

ATTIVECOMEPRIMA: ONLUS E AZIENDA DI SOLIDARIETÀ

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Organizzazioni di volontariatoOrganizzazioni non governative (ONG)Cooperative sociali (e loro consorzi al 100%)

Sono di dirittoONLUS

Possono essereONLUS

Non possono essereONLUS

AssociazioniComitatiSocietà cooperativeFondazioniAltri enti di carattere privato

Enti pubbliciSocietà commerciali diverse dalle cooperativeFondazioni bancariePartiti e movimenti politiciOrganizzazioni sindacaliAssociazioni di datori di lavoroAssociazioni di categoriaEnti non residenti

Figura 11.1 - Caratteristiche e struttura delle Onlus.

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• L’esclusivo perseguimento di finalità di solidarietàsociale. Tale requisito si realizza in maniera diversa a secon-da del tipo di attività svolta.

• Il divieto di svolgere attività diverse da quelle istituzio-nali, con esclusione delle attività direttamente connesse oaccessorie rispetto a quelle istituzionali.

• Il divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili edavanzi di gestione.

• L’obbligo di reinvestire gli utili all’interno dell’organiz-zazione.

• L’obbligo di devolvere il patrimonio, in caso di sciogli-mento, ad altre Onlus, sentita l’agenzia per le Onlus.

• L’obbligo di redigere il bilancio o il rendiconto annuale.• La previsione di una effettiva democraticità del rappor-

to associativo.• L’utilizzo della locuzione “organizzazione non lucrati-

va di utilità sociale” o dell’acronimo “Onlus” nella denomi-nazione ed in tutte le comunicazioni rivolte al pubblico.

Le Onlus godono di diverse agevolazioni fiscali:

• Le attività istituzionali svolte dalle Onlus sono fuori dalcampo di applicazione dell’IRPEG. Inoltre anche i proventiderivanti dallo svolgimento delle attività direttamente con-nesse a quelle istituzionali non concorrono alla formazione delreddito imponibile.

• Le operazioni di divulgazione pubblicitaria svolte a titolo gra-tuito a favore delle Onlus non si considerano prestazioni diservizio e, quindi, sono esenti da IVA.

• Alcune attività (trasporto malati o feriti, prestazioni educati-ve dell’infanzia, attività didattiche di ogni genere, prestazionisocio-sanitarie di assistenza domiciliare o ambulatoriale versoalcuni soggetti svantaggiati) sono esenti da IVA.

• Esenzione dall’imposta di bollo.• Esenzione dalle tasse sulle concessioni governative (brevetti

industriali, registrazione marchi, bollatura e numerazionelibri e registri, ecc.).

• Esenzione dall’imposta sull’incremento del valore degli immo-bili (INVIM).

• Esenzioni ed agevolazioni in materia di tributi locali (decisadirettamente dagli enti locali).

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• Esenzione dall’imposta sugli intrattenimenti.• Agevolazioni per lotterie, tombole, pesche di beneficenza.

Questi criteri sono strumentali, quindi subordinati rispetto aifini istituzionali. Pertanto, ATTIVEcomeprima è un’azienda nonprofit che, statutariamente, deve raggiungere obiettivi di altovalore socio-sanitario. Ma, per fare ciò, deve:

• strutturarsi in modo organizzato, per attrarre risorse dainvestire nelle attività di servizio nei confronti delle asso-ciate;

• far partecipare le associate alle proprie iniziative, non tantoe non solo per un dovere istituzionale definibile come “par-tecipazione sociale”, ma per un’esigenza di funzionalità effi-cace che, per il tramite della partecipazione, raggiunge risul-tati di cura e di recupero di benessere;

• adeguare la propria organizzazione alle esigenze delladomanda interna delle associate ed esterna delle istituzioni,intese come stakeholders;

• avere una rappresentatività dei diritti e dei doveri delleassociate, espresso dal loro “status” di persone che voglionoessere, appunto, “attive come prima”.

Il mandato statutario di ATTIVEcomeprima è rappresentatodall’essere istituto economico, inteso come “complesso di elemen-ti e di fattori, di energie e di risorse personali e materiali. Esso èduraturo. Il suo permanere è della specie dinamica. Come com-plesso è ordinato secondo proprie leggi anche di varia specie (fisi-che, sociologiche, economiche, religiose e così via) e in multifor-me combinazione.”.1

Con il termine “azienda” s’intende, dunque, l’ordine stretta-mente economico di un istituto.1

“L’azienda è l’ordine economico (ossia il sistema degli accadi-menti economici) di tutti gli istituti nei quali si svolge l’attivitàeconomica ed è l’oggetto dell’economia aziendale)”.2

Ne consegue che le aziende non profit agiscono come attivitàeconomica organizzata privata e hanno in sé gli strumenti ope-rativi per raggiungere i fini sociali, ideali, del bene comune e col-lettivo, in assenza di fini di lucro. Inoltre, pongono in essere e con-cretizzano, come aziende di produzione, di consumo, di erogazio-ne o miste, le scelte strategiche e tattiche effettuate a monte, in

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logica di “mission aziendale”, o contingenti in logica di risultatidi gestione operativa.

Le aziende non profit come ATTIVEcomeprima, in modo coor-dinato, integrato e finalizzato, danno continuità all’attività con ilpresidio delle funzioni tipiche e caratteristiche d’azienda, che lafanno “perdurare nel tempo” (funzioni quali amministrazione econtrollo, marketing e raccolta fondi, gestione economico-finan-ziaria, controllo di gestione, gestione delle risorse umane con rap-porto di dipendenza retribuita o volontaria, approvvigionamentie così via). Esse orientano, inoltre, l’agire aziendale massimizzan-do il risultato di equilibrio economico, che consiste in una giustaed equilibrata remunerazione dei fattori produttivi posti in esse-re nella produzione di beni, o nell’erogazione di servizi con unorientamento/non vincolo, (ma necessità di lungo periodo), a con-seguire risultati positivi di bilancio tali da permettere un lororeinvestimento per dinamizzare e dare un orizzonte temporale “alungo” alle aziende stesse.

Pertanto, reinvestono i propri utili nell’azienda stessa senzadistribuire ai soci, agli appartenenti a vario titolo all’azienda nonprofit, quote di capitale (o gli eventuali “dividendi”), in unadimensione di remunerazione “virtuale” degli investimenti cheessi hanno effettuato in termini di tempo, finanziamenti, dona-zioni patrimoniali e quant’altro. Tutto ciò è indispensabile e utileper mantenere la continuità operativa dell’“azienda non profit”.

Le aziende di solidarietà integrano il profitto gestionale conquello statutario e dichiarato “non di profitto”, istituzionale efinalistico. Sviluppano le condizioni di gestione cercando di man-tenere un equilibrio dinamico fra costi e ricavi, ma finalizzandol’azienda agli obiettivi non economici e non di profitto che ne con-traddistinguono la “mission”.

In sintesi, la responsabilità sociale pone l’esigenza di conside-rare, all’interno degli obblighi assunti dall’impresa, anche quellinon palesi e fatti valere da gruppi sociali più o meno organizza-ti”.3

In fondo il problema non è far nascere istituzioni non profit,quanto farle perdurare nel tempo mantenendo una gestione incontinuità operativa.

Una delle condizioni di garanzia perché l’investimento solida-le ed etico aggiunga una redditività all’interno dell’azienda soli-

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dale è l’esistenza e la formazione di un “management dedicato”per le aziende non profit, che presenta alcune caratteristiche dibase comuni al management tradizionale, ma anche specificitàinerenti la gestione delle aziende non profit.

Per il management delle aziende non profit si potrebbe crea-re un decalogo:

1. Dirigere l’azienda non profit con l’obiettivo del profitto del nonprofitto, nella logica dell’equilibrio economico-finanziario e nondella massimizzazione del profitto; farsi coinvolgere emotiva-mente, ma scegliere con la freddezza della razionalità.

2. Gestire il personale, dipendente e volontario, strutturandosentieri di carriera “funzionale” per ciascuno.

3. Offrire al presidente e al consiglio di amministrazione/ comi-tato di direzione varie soluzioni operative e motivazioni idea-li per condividere le scelte strumentali in chiave aziendale;il tutto in un contesto di valori sociali e di solidarietà.

4. Garantire trasparenza economico-finanziaria e comunicazio-ne efficace dei risultati di progetto che la non profit ha rag-giunto; uscire da una prassi “catacombale” e un po’ pauperi-stica per “ostentare” i risultati dell’azienda non profit, con iconseguenti riflessi sulla motivazione dei propri aderenti eassociati.

5. Mantenere democraticità, intesa come coinvolgimento inter-no ed esterno in una dimensione di autorevolezza gestionalee di trasparenza operativa.

6. Avere una forte attenzione alla razionalizzazione dei costi,senza abbandonare la cultura degli investimenti, che dannodinamismo alla propria azienda non profit.

7. Pensare che l’azienda non profit non offre occupazione nellapropria organizzazione, ma struttura occupazione per rag-giungere i fini ideali e statutari e quindi risponde ai bisognisolidali del “sistema Paese”.

8. Crescere un gruppo dirigente che perduri nel tempo e inve-stire nella professionalità; quindi anche il volontariato qua-lifica il suo tempo donato in logica incrementale di professio-nalità.

9. Pensare e dimostrare che la propria azienda non profit nonè residuale al “sistema Paese”, ma è parte integrante del con-testo sociale ed economico (“ostentare” il proprio ruolo).

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10. Fare delle strategie possibili rispetto alle risorse a disposizio-ne o a quelle che realisticamente si potrebbero acquisire, inspirito di rischio tipico dell’imprenditorialità solidale; creareuna cultura economico-aziendale “non profit” in un’organiz-zazione che spesso crede che lo strumento aziendale inquinii valori di orientamento e l’idealità dei fini.

Gli elementi qualificanti di ATTIVEcomeprima come aziendanon profit e come organizzazione non lucrativa di utilità sociale(Onlus) sono infatti:

1. Intensità della personalizzazione, che si manifesta inmodo più che proporzionale all’intensità della cultura diorientamento alla personalizzazione di servizio diffusa al suointerno (circuito virtuoso). Il valore della personalizzazionenon è un’imposizione organizzativa, ma è ontologico nel sensodi solidarietà proprio delle persone attive all’interno dell’a-zienda non profit. È ovvio che al crescere delle dimensionidell’azienda non profit è necessario attivare strumenti ope-rativi per manutenere e sviluppare la personalizzazione.Essa non è legata al cittadino visto nella sua dimensione utisingulus, ma piuttosto alla sua dimensione di membro dicomunità e quindi al suo “status di cittadinanza”. Questoimplica servizi che sono più estesi e fortemente personaliz-zati rispetto a quelli che potrebbero essere prodotti da unaazienda profit che si limiterebbe al servizio come prestazio-ni e non al servizio come prodotto che soddisfa il bisognonella sua globalità.

2. Empatia, con cui intende lo sviluppo delle relazioni organiz-zative interne ed esterne in modo da stabilire un contattoefficace e continuo fra i vari attori (interni ed esterni) dell’a-zienda non profit. In sintesi, il livello di empatia esterno èproporzionale al livello di empatia interno e ciò costituisce unlivello di qualità di servizio che connota in modo prevalentele aziende non profit. Poiché l’empatia è un comportamentoed i comportamenti difficilmente possono essere oggetto disole tecniche di addestramento, le aziende non profit, chehanno spesso e prevalentemente selezionato il proprio perso-nale sulla base di principi e valori, hanno maggiore qualifi-cazione rispetto alle aziende profit.

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3. Funzione anticipatrice e contestualizzazione, ove l’a-zienda non profit ha in sé una capacità di lettura dei bisognidel contesto così parcellizzata tale da avere una cultura dif-fusa di anticipazione e di progettazione di servizi e una con-testualizzazione che può avvenire solo quando esiste unaforte vicinanza fra l’offerta e la domanda. Quindi, una capa-cità di “zoommare” la realtà comprendendo le situazioni pro-blematiche particolari senza perdere di vista il contesto glo-bale. Se questa capacità nasce dal livello di prossimità e vici-nanza che la non profit ha nei confronti dei propri utenti, lastruttura organizzativa della nostra azienda deve essere pre-valentemente “corta” e tale da saper cogliere velocemente icambiamenti del contesto. Anche in ambiente New Economy,e tramite gli strumenti di questo approccio, è possibile avereun ulteriore canale di corrispondenza in tempo reale fra ladomanda di servizi e l’offerta dell’azienda non profit. Questaimpostazione è sviluppata anche tramite la capacità maieu-tica dell’azienda non profit che privilegia il rapporto direttoe personalizzato rispetto a rapporti di tipo “massificato” edanonimo. L’azienda non profit rispetto all’azienda pubblicaha normalmente una maggiore permeabilità nei confrontidella domanda, perché il rapporto con essa è deburocratizza-to e quindi i canali di relazione con essa sono più veloci e conminori intralci di tipo procedurale. Quindi, ha una maggiorecapacità di government, fermo restando il livello di governan-ce che viene espresso dalla Amministrazione pubblica.

4. Simmetria informativa, ove si struttura un livello di tra-sparenza dell’azienda non profit tale da far percepire allapersona associata il giusto valore dei prodotti-servizi che ven-gono offerti. Questa simmetria permette all’azienda non pro-fit di consolidare un suo ruolo ormai imprescindibile nelsistema socio-economico di contesto e tale ormai da configu-rarsi come protagonista di settori di servizi (ad esempio,socio-assistenziali, culturali, educativi, ecc.).

5. Sussidiarietà, si intende la capacità di un’azienda non pro-fit di svolgere il suo ruolo di produzione di servizi rispetto allecompetenze concorrenti (quei servizi a domanda divisibile eorientata alle singole persone o a segmenti specifici) in modopiù efficace rispetto all’azienda profit, considerando la mag-giore simmetria esistente tra azienda pubblica e azienda non

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profit. È parte integrante dell’azienda non profit produrre ederogare servizi di utilità pubblica per il bene comune e benecollettivo, e quindi come tale la comunanza di obiettivi fra ilpubblico e il privato non profit crea le migliori condizioni per-ché si possano avere risultati di maggiore utilità.

6. Integrazione fra privato profit e privato non profit,ove è possibile aumentare il valore dello scambio fra profit-non profit al fine di incrementare non soltanto i risultati ditipo economico, ma anche quelli di comportamento positivorispetto ad alcune funzioni di contesto (salute, ambiente, cul-tura, sport, ecc.).

7. Creatività: c’è una propensione naturale per il tipo di “cul-tura-atmosfera aziendale” tale da sviluppare le funzioni crea-tive non solo in riferimento ai comportamenti, ma rispettoall’attività che si svolge ed alla produzione di beni e serviziche si attua. Infatti, la forte volatilità della domanda di benie servizi induce l’azienda non profit, tramite le persone chein essa operano, a sviluppare una sensibilità creativa finaliz-zata alla risoluzione degli eventuali problemi che scaturisco-no dall’interazione fra offerta non profit e domanda. Ciò nondeve essere confuso con improvvisazione, ma può essere clas-sificata come una caratteristica della professionalità deglioperatori della non profit. Con il consolidarsi dell’attività l’a-zienda non profit accumula esperienza e quindi la creativitàgià prodotta diventa “know how” acquisito per l’organizzazio-ne stessa e quindi, in modo incrementale, è possibile svilup-pare ulteriori capacità di creatività in un processo dinamico.

8. Micronizzazione, che consiste nella capacità dell’aziendanon profit di individuare segmenti sempre più specifici dipersone e nel contempo attrezzare una offerta coerente alladomanda stessa. La micronizzazione della domanda ha in sénon solo una maggiore identificabilità della parte tecnico-specialistica che si vuole ottenere, ma anche una parte dispecificità (elementi accessori) che sono elementi non più elu-dibili. Sempre più spesso esiste un “continuum indistinto”tra parte tecnico-spcialistica ed elementi accessori e quindi,se nel passato si rispondeva ad una domanda a forte varia-bilità (degli elementi accessori) con una offerta strutturata,oggi l’azienda non profit è in grado di rispondere a “doman-da destrutturata” con “offerta destrutturata”.

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9. Autonomia, che è una caratteristica dell’azienda non profit,perché la sua capacità di azione autonoma nei confronti deilivelli istituzionali è particolarmente sviluppata. Infatti, ilrapporto con gli stakeholders si basa su una contrattualitàche per alcuni classi di aziende non profit spesso vede lanostra azienda avere una capacità negoziale superiore aipartner istituzionali (per esempio, associazioni nei confrontidi enti pubblici, fondazioni nei confronti di partner pubblicie così via). L’autonomia di tipo istituzionale consiste nellacapacità di progettare e implementare servizi a forte specifi-cità, correlata a risultati che sono stati l’unico oggetto diaccordo con il partner istituzionale. Quindi, l’autonomia siconcretizza in modelli di gestione autonomi rispetto al com-mittente, prefigurando in alcuni casi un rapporto in cui il for-nitore di servizi (azienda non profit) viene misurato sullabase degli outcome e non sulla base delle sole modalità di ero-gazione. Nello specifico della committenza pubblica (maanche dell’eventuale committenza privata) si dovrebbe avereuna pre-condizione dell’accordo che è rappresentata dall’ac-creditamento dell’azienda non profit. Nella relazione si rav-visa anche l’autonomia di progettazione e definizione del ser-vizio che avviene a fronte della capacità di lettura dell’am-biente esterno, nonché delle risorse interne che partecipanoall’attivazione del servizio stesso. L’autonomia infatti, èanche correlata all’autonomia della gestione delle risorseumane che nella non profit si può sviluppare con minori vin-coli rispetto ad altre tipologie di aziende, ed è anche correla-ta a sistemi di autonomia di gestione e acquisizione dellerisorse finanziarie. Inoltre, l’autonomia è in rapporto con isistemi di controllo esterno. Fatte queste premesse, l’autono-mia dell’azienda non profit è normalmente più praticabileall’interno dell’azienda stessa (gestione delle risorse umanee gestione finanziaria), e non altrettanto all’esterno, (istitu-zionale e controllo esterno) qualora non acquisisca una capa-cità contrattuale sempre più elevata nei confronti degli atto-ri esterni.*

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*Sul concetto di autonomia, si veda Zangrandi 1994.4

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10. Dimensione flessibile, che parte dal dato empirico dellanotevole frammentazione dimensionale delle aziende nonprofit** nel cui processo è possibile distinguere una partecomune fissa (gestione amministrativa) e una parte variabi-le (collegamento alla parte finale dell’erogazione del servi-zio). La parte fissa può essere gestita attraverso la creazionedi un reticolo fra le svariate aziende non profit; la partevariabile è invece gestita da ogni singola azienda non profitperché collegata alla peculiarità del rapporto domanda-spe-cifica e offerta-adeguata. La scelta del reticolo è importanteperché garantisce all’azienda non profit un assetto di costifissi inferiori rispetto ad una gestione separata ed un puntodi pareggio correlato a minori volumi produttivi; situazionerilevante nel non profit, perché polverizzato dal punto divista dimensionale.

11. Localismo di servizio, ove l’azienda non profit è spessocontinuità di servizio dell’azienda pubblica nell’ambito dideterminate funzioni da gestire sul territorio. Tutto ciò dàuna qualificazione ulteriore al complesso dei servizi, compre-si quelli pubblici, e quindi aumenta l’efficacia della terziariz-zazione.

12. Bilancio sociale, come strumento di verifica dell’impattosocio-economico dell’attività svolta dalle aziende non profit equindi una traduzione della terziarizzazione in dati quanti-tativi che comunque scontano un approccio di analisi costi-benefici, costi-utilità, costi-efficacia; questa impostazionedovrebbe essere sempre più praticata perché l’integrazione,per esempio, tra pubblico e privato non profit ha bisogno diuna credibilità che si evidenzia tramite la traduzione diobiettivi meta-economici in risultati di tipo economico. L’azienda non profit trasmette ai cittadini che devono esseresoddisfatti nella loro dimensione di cittadinanza, il sensodella comunità aziendale. Questo si struttura tramite la con-

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**Nella frammentazione dell’offerta solidale, si nota una prevalenzadella formula dell’associazionismo. Tra associazioni e fondazioni si con-tano oltre 52.000 organizzazioni non lucrative.5 Una recente indagine,condotta su un campione di 240 aziende non profit, rivela che oltre lametà di esse è costituita da associazioni. Messina (1999), p. 4.

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divisione di principi di cultura aziendale comune correlataalla propensione unificante della condivisione dei valori. Essoè un portato che va dalle persone all’organizzazione e nonviceversa. Quindi, esalta in via derivata i potenziali principiorganizzativi.

In conclusione, ATTIVEcomeprima è un’azienda non profit chesi avvale anche del suo status fiscale di Onlus per svolgere unafunzione di pubblica utilità e di ruolo sociale in una dimensionedi solidarietà organizzata e coordinata. Tutto questo avviene e simantiene nella continuità del tempo, in relazione ad auspicabilistrutturazioni aziendali intese come assetto portante indispensa-bile per raggiungere i risultati sociali e di benessere in unasocietà ove, con sempre maggiore frequenza, lo Stato assume unvalore regolatore ed il privato non profit sociale (si veda anche ilruolo di Onlus) svolge un ruolo attivo nella sussidiarietà comesistema portante della welfare society.

Bibliografia

1. Masini C. Lavoro e risparmio. Torino: Utet, 1979; 8.2: Airoldi G, Brunetti G, Coda V. Economia aziendale. Strumenti. Bolo-

gna; Il Mulino, 1994.3. Matacena A. Impresa e ambiente: il bilancio sociale. Bologna: Clueb,

1984.4. Zangrandi A. Autonomia ed economicità nelle aziende pubbliche.

Milano: Giuffrè Editore, 1994.5. Barbetta GP. Senza scopo di lucro. Bologna: Il Mulino, 1996; 232.

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