L’INCONSAPEVOLE SOCIOLOGIA ECONOMICA DI RIEDRICH … · Hayek, Pareto, Weber 3 Ma nessuno può...

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Leonardo Parri L’INCONSAPEVOLE SOCIOLOGIA ECONOMICA DI FRIEDRICH A. HAYEK ALLA PROVA DI PARETO E WEBER 1. La metodologia delle scienze sociali teoriche …………… pag. 4 2. L’azione: dall’homo oeconomicus all’homo sociologicus ……………………………………………. " 7 3. Il mercato e la concorrenza come istituzioni sociali ……. " 12 4. La sociologia economica di capitalismo, interventismo e socialismo ………………………………. " 18 5. Conclusioni: dall’economia alla sociologia ……………… " 26

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Leonardo Parri

L’INCONSAPEVOLE SOCIOLOGIA ECONOMICADI FRIEDRICH A. HAYEK

ALLA PROVA DI PARETO E WEBER

1. La metodologia delle scienze sociali teoriche …………… pag. 4

2. L’azione: dall’homo oeconomicus all’homo

sociologicus ……………………………………………. " 7

3. Il mercato e la concorrenza come istituzioni sociali ……. " 12

4. La sociologia economica di capitalismo,

interventismo e socialismo ………………………………. " 18

5. Conclusioni: dall’economia alla sociologia ……………… " 26

Hayek, Pareto, Weber 3

Ma nessuno può essere un grandeeconomista, se è solo un economista, e sonopersino tentato di aggiungere chel’economista che sia solo un economista èprobabile che diventi un fastidio se nonaddirittura un pericolo.F.A. Hayek, Il dilemma dellaspecializzazione, 1956, p. 232.

Le vie d’origine della sociologia economica sono raramente rettilinee: uneconomista come Pareto ed uno storico ed economista come Weber sono passatinel campo sociologico in modo esplicito e cosciente; un altro economista comeHayek ha fornito importanti contributi alla nostra disciplina in modo diremmoinconsapevole. Egli riteneva parte della sociologia1 compromessaideologicamente (1973b, 11) e affetta da quello che oggi chiamiamosociologismo (1952a, 154-5; 1970, 13). Ciononostante, al pari di Pareto e Weber,Hayek amava definirsi pensatore interdisciplinare, convinto com’era che laspecializzazione, diversamente che nelle scienze naturali, in quelle sociali fosseun «peccato mortale» foriero di fallacie (1956, 232). In questa sede, cercherò dimostrare come una fetta consistente dell’opera del pensatore austriaco possarientrare tra i contributi classici alla sociologia economica. Ben oltre il comuneindividualismo metodologico, molte tesi ed argomentazioni hayekiane vannoinvero di pari passo con quelle paretiane e weberiane a sostegno di un approcciosociologico alla realtà economica; altre vanno addirittura oltre, configurandosicome contributi originali dell’austriaco alla disciplina. Un quadro teorico disociologia economica fondato sui classici può, innestatovi il contributo di Hayek,risultare maggiormente adeguato alla comprensione della realtà contemporanea.Obiettivo dell’articolo non è un’esegesi dei testi hayekiani, né una loroapprofondita valutazione critica, su cui la letteratura è ormai sterminata. Si trattapiuttosto, per la prima volta, di individuare ed illustrare quegli aspetti del suopensiero che, distinguendolo dall’economia ortodossa, maggiormente loavvicinano alla sociologia.

1 A proposito del contesto storico ed intellettuale concernente i rapporti tra Scuola austriaca esociologia, risulta che Hayek (n. 1899, m. 1992) conoscesse solo la parte economica dell’opera diPareto (n. 1848, m. 1923), il quale, a sua volta, di Menger (n. 1840, m. 1921) conosceva solo iGrundsätze. Di Weber sociologo (n. 1864, m. 1920) Hayek, assieme all’amico Alfred Schütz,discusse a lungo durante i seminari di Mises a Vienna negli anni venti-trenta. Mises (n. 1881, m.1973) conosceva sia l’opera che personalmente Weber, grazie ad un soggiorno viennese diquest’ultimo nel 1918 e alla comune appartenenza al Verein für Sozialpolitik. Oltre a ciò, Hayek citapiù di una volta sia Economia e società che i Gesammelte Aufsätze für Wissenschaftslehre (tradottoparzialmente come Il metodo delle scienze storico-sociali) e definisce Weber «il grande sociologotedesco» (Hayek 1935a, 351). Dal canto suo Weber, proprio nell’opera appena menzionata, ammettein modo prudente ma esplicito il proprio debito intellettuale nei confronti di Menger, di cuiconosceva sia i Grundsätze del 1871 che le più sociologicamente importanti Untersuchungen del1883, scintilla del celebre Methodenstreit tra questi e lo storicista Schmöller.

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1. La metodologia delle scienze sociali teoriche

La posizione di Weber sui temi metodologici è ben nota ai sociologi: neripercorreremo qui solo alcuni punti. Come hanno ben evidenziato Tenbruck(1959) e Schön (1987), l’impostazione metodologica di Weber si precisa anchefacendo leva su alcuni concetti chiave delle Untersuchungen di Menger (1883), lacui posizione nel Methodenstreit contro la scuola storica di Schmöller è in buonaparte avallata. Weber supera anzitutto la posizione di Rickert, il quale,riduttivamente, indica il metodo legale-generalizzante proprio dello studio dellanatura e quello storico-individualizzante proprio dello studio della società. Nelfar questo, il sociologo tedesco si rifà a Menger (1883, libro I), per il quale larealtà sociale può essere studiata sia con un approccio volto agli aspettiindividuali e specifici nel tempo e nello spazio («scienze storiche», miranti alconcreto), che con un approccio che identifichi «tipi» generali di fenomeni e«relazioni tipiche» tra di essi («scienze sociali teoriche»). Alla luce di ciò, Weberimputa al «fondatore della teoria» economica, Menger, la «prima ed esclusivadistinzione» tra «conoscenza legale» e «conoscenza storica» dei fenomeni sociali.Non solo, riconosce a Menger la legittimità, negata da1l’induttivista Schmöller,di utilizzare «un sistema di proposizioni astratte […] in analogia a quello dellescienze della natura» per comprendere i «fenomeni fondamentali della vitaeconomica» (1904, 104-5). Vi è di più: il padre della Scuola austriaca divide lescienze sociali teoriche in un indirizzo «realistico-empirico», che dà luogo a «tipireali» e «leggi empiriche», ed uno «esatto», che dà luogo a «tipi rigorosi» e «leggiesatte». In questa distinzione mengeriana vi è una delle matrici di quellaweberiana tra tipi ideali di differente livello di astrattezza: ad es., città medievalee categorie dell’agire. La posizione di Menger sulla Scuola storica è ricalcata ingran parte da Hayek nella polemica contro l’empirismo «scientistico» (1952a,par. 7, v. sotto). Ancor più dura è la posizione di Pareto sulla Scuola storica, lacui pretesa inesistenza delle leggi economiche è prima irrisa, con l’aneddoto delristorante gratuito (1896/7, §629a), e poi contestata. Quelle che Schmöller credeeccezioni nazionali alle leggi economiche, altro non sono che «fenomeni chenascono dall’intervento di cause estranee a quelle che, per astrazione, considerala scienza», com’è in fisica per una piuma che non cade ma svolazza (Pareto1923, §1792, §§ 2017-9; 1906, I§7).

Un contributo originale di Hayek alla metodologia delle scienze sociali è ilconcetto di «scientismo». Per «pregiudizio scientistico», Hayek (1952a, 100)intende l’«imitazione servile» di metodo e linguaggio delle scienze naturali nellescienze sociali2. Questo porta a non considerare il senso soggettivo che gli attoriconferiscono alle loro azioni, valutate solo in base a quanto esternamente

2 L’origine della polemica antiscientistica di Hayek risale già agli anni venti, alla sua opposizione alneopositivismo del circolo di Vienna e al fisicalismo di Neurath (Hayek, 1952a, 201; 1994, 77).Prosegue contro l’induttivismo della Scuola storica e si sviluppa poi verso l’utilizzo meccanicisticodella teoria neoclassica da parte dei socialisti di mercato (1935b, 1940). Culmina infine nellepolemiche dell’austriaco contro il comportamentismo skinneriano (1937, 248; 1952a, 78-85),l’econometria (1966, 314-5; 1975; 1976b, 434-5; 1994, 196) e il gli Essays in Positive Economicsdi Friedman, definito «un lavoro […] pericoloso» (Hayek 1994, 197).

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percepibile in termini di oggetti e relazioni tra questi (1937, 248; 1952a, 157):non afferro che due attori si scambiano merci sul mercato, ma vedo due corpi chemanipolano dischetti di metallo e cose (p. 120). Da ciò, l’erronea credenza che ilmondo sociale si manifesti ostensivamente all’osservatore come nelle scienzenaturali3 (p. 150). In realtà, quando parliamo di categorie sociali comecapitalismo, classe, industria, mercato, ecc. (p. 148), ci riferiamo a «costruzionidella nostra mente» (p. 150), operate selezionando alcuni aspetti del reale. Questascelta si basa sulle «categorie mentali che abbiamo in comune» con gli attorisociali (p. 145), sulla nostra familiarità (pp. 128 e 152) con i tipi fondamentali disenso che i singoli conferiscono alle proprie azioni (p. 120; 1962, 130). Hayeksposa così «una concezione verstehende delle scienze sociali» (1937, 248) diascendenza mengeriana e weberiana (1973a, 301). Si deve partire quindi dalleazioni individuali e, attraverso il metodo che Menger aveva definito«compositivo» (Hayek 1952a, 130), giungere ai concetti sovraindividualicaratteristici delle scienze sociali (pp. 169-72). A questo procedereindividualistico basato sulla «nostra conoscenza dell’’interno’ di questi complessisociali», lo scientismo oppone un approccio naturalistico che «cerca […] diguardarli dall’’esterno’» (p. 148), sino a concepirli come oggetti reali e a caderenella «fallacia della concretezza fuori luogo» whiteheadiana (p. 150). In questomodo, secondo Hayek, «teorie provvisorie, modelli costruiti dalla pubblicaopinione per spiegare le connessioni esistenti fra […] fenomeni singoli cheosserviamo» (p. 149-50) assumono forza esplicativa, tanto da portarci ad un«collettivismo metodologico» (p. 148) in cui la società, il capitale, una classe, lostato vengono antropomorfizzati (p. 154).

Pur non usando il termine collettivismo metodologico, anche Weber mette inguardia contro i «concetti collettivi indifferenziati con cui lavora il linguaggioquotidiano» (1904, 133) dei quali bisogna evitare una «concezione‘sostanzialistica’» (1922, 1-I, §3.2), ostacolo ad «una corretta impostazioneproblematica» (1904, 134). Lo stesso vale per Pareto, che parla di «derivazioni»(1923, §2542) con «inclinazioni a personificare le astrazioni […][,] a dare ad esseuna realtà oggettiva», per cui, ad es., gli «speculatori» o la «classe governante» sisuppone abbiano «un’unica volontà e […], mercé logici provvedimenti, rechi[no]ad effetto i concepiti disegni» (§2254). In realtà, si tratta di aggregati di individuicon «interessi e sentimenti vari» (§2542), esposti persino agli effetti indesideratidelle loro singole azioni (§2254, §2328.1).

La riflessione metodologica di Hayek sullo «scientismo» si raffina: scienzecome fisica o chimica si trovano di fronte ad un numero di variabili e ad un gradodi complessità inferiori rispetto a quello in cui si incappa nello studio della mente(psicologia cognitiva), della vita (biologia evolutiva) o della società (scienzesociali) (1964; 1994, 195). La replica scientistica dei metodi delle scienzenaturali come l’esperimento o l’accertamento ingegneristico di tutte le

3 Per Hayek, da buon neokantiano (1969, 59; 1994, 192), anche nelle scienze naturali il puroinduttivismo e i nudi fatti non esistono (1955, 43; 1969, 46-7): lo scientismo risulta perciò ancorapiù ingenuo (1967b, 35). La differenza tra scienze sociali e naturali è dunque di grado: le primeoperano uno sforzo molto maggiore di costruzione della realtà (1952a, capp. 6-7)

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circostanze rilevanti è impraticabile (1952a, 198-200). In che modo, allora,procedere con questi «fenomeni complessi» (1964)? L’individualismometodologico torna qui prezioso. Non potendo avere informazioni complete sustato e circostanze in cui si trovano i singoli elementi sociali, mentali o biologici,si ipotizza che essi si muovano a livello micro in base a certi principi: razionalitàorientata allo scopo o al valore (1968a, 96 e 109); significatività delleconnessioni tra neuroni (1952b), ricerca della sopravvivenza dell’animale (1964),ecc. Ipotizzando alcuni «meccanism[i] causal[i]» interattivi tra gli elementisingoli (1955, 59), si immagina una «spiegazione di principio» (p. 66) checonduce a predire l’emergere a livello macro di certi tipi di «fenomenicomplessi» nella loro forma astratta di «modelli (patterns)» (p. 62): un mercatocompetitivo, un sistema socio-produttivo, una mappa cognitiva innovativa, nuovespecie biologiche, ecc. Nel passaggio dal micro al macro non vi è nulla dinecessario: il «modello» può abortire, emergere, o decadere a seconda dellecircostanze (1955, 54; 1967a, 158; 1973b, 23-4). I «modelli predittivi (patternpredictions)» (1964) sono popperianamente falsificabili (1973a, 302, 1975, 223),aperti alla correzione delle ipotesi micro, dei meccanismi di collegamento, dellastrutturazione del «modello» stesso. Mentre le scienze naturali pure e lemisurazioni ingegneristiche sono in grado di prevedere nel dettaglio gli eventi(1955, 67), le scienze dei fenomeni complessi -incluse metereologia, geologia,ecc.- possono azzardare solo una «orientamento» (p. 65). Le scienze socialiappaiono dunque vincolate a un «obbiettivo modesto» (1973a, 303) o ad una«soluzione di ripiego (second best)» circa la predizione (1975, 33), non privi peròdi un certo «valore pratico» (1955, 63). Ci possono indicare incompatibilità traobbiettivi (1952a, 135; 1955, 63) o le politiche capaci sussidiariamente di«coltivare, piuttosto che di controllare, le forze del processo sociale» (p. 66;1975, 224). Si eviterebbe così la «presunzione del sapere» (p. 211) tipica, ad es.,di un’econometria che, limitando scientisticamente i fattori esplicativi solo aquelli misurabili (p. 212), ha portato agli insuccessi dell’interventismomacroeconomico keynesiano (Hayek 1966; 1980).

Come Hayek, Pareto osserva che le scienze sociali si trovano di fronte a«fenomeni molto complessi» (1906, I§32; 1923, §2408), che comportanol’«intrecciarsi degli effetti delle varie leggi» (1923, §99): la base comune ai due èJ.S. Mill4. Anche per Pareto, «l’economia politica e la sociologia si accostanoalla geologia e si allontanano dalla chimica» (1923, §1792), tanto che in esseoperano «relazioni [di] interdipendenza», piuttosto che di semplice «causa edeffetto» (1923, §§1731-2, §2092, §2203 e sgg.). Dei loro fenomeni, solo alcuni«si possono misurare [ma] ne rimangono esclusi moltissimi, tra i quali quasi tuttiquelli della sociologia» (§1732). Appena però il fenomeno economico «è un pococomplesso» si deve rinunciare a misurarlo e limitarsi a raffigurarlo, ad es., conequazioni algebriche come quelle dell’equilibrio economico (§1732, equazioni

4 Mill (1843) è il primo ad avanzare l’analogia tra metereologia e «scienza della natura umana» (p.1124) e a notare la complessità dei «fenomeni sociali […] gran caso di commistione di leggi». Ciòcostringe la «sociologia» a rinunciare alle «predizioni positive» e a limitarsi ad essere «scienza ditendenze» (pp. 1190-1).

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citate proprio da Hayek come esempio di «modello» -1964; 1952a, 135-6; 1975,217). In altre parole, queste equazioni non possono avere «menomemente perscopo di procedere ad un calcolo numerico dei prezzi» (Pareto 1906, III§217). Perl’italiano, le previsioni sono oltre la portata dell’economia pura, possonomigliorare di poco con l’aiuto dell’economia applicata ed ancora qualcosa conquello della sociologia (1923, §1732.3). Quest’ultima, che Pareto concepiscecome una sorta di scienza sociale sintetica (§1), non può comunque «svelarci ilparticolare degli avvenimenti futuri», ma tuttalpiù le «uniformità che hanno laprobabilità di esistere in futuro», nonché i «caratteri generali e le relazioni di tuttequeste uniformità» (§1732.3); pensare «modelli predittivi», direbbe Hayek.Nell’uso dei «movimenti virtuali» come mezzo sociologico di previsione (§§130-7, §2022, §2022.1), Pareto invita poi ad «andare ben guardinghi, perchéspessissimo ignoriamo quali sarebbero gli effetti della soppressione di qualchecondizione» (§137) e ciò a causa della «mutua dipendenza dei fenomeni sociali»(§2022, §2096-7).

2. L’azione: dall’homo oeconomicus all’homo sociologicus

L’esistenza di un’«economia pura», basata sull’astrazione dell’«homooeconomicus» che, mosso da «interessi», compie «azioni logiche» chemassimizzano l’«ofelimità», è ritenuta scientificamente legittima da Pareto. Egli,però, dopo le sconfitte politiche e gli errori di previsione dei liberoscambistieuropei, fa autocritica (1906, proemio, cap. IX; 1913a; 1923, §2022.5) econsidera di applicazione più limitata il modello dell’homo oeconomicus5

(1891b; 1923, §1732.5). Pareto si accorge dell’infruttuosità dell’«economia pura»per la comprensione di «fenomeni in apparenza strettamente economici» (1913b,168; 1906, I§27; 1918, 775; 1923, §2219), ma esposti ad un inestricabile«intrecciamento» con fattori sociali (1923, §99, §101, §2022). Per comprenderegli effetti di protezionismo, fiscalità e politica monetaria, l’azione dirisparmiatori, imprenditori, ecc., Pareto invoca prima un’«economia applicata» epoi una «sociologia» (1899, 170; 1913b, 168; 1923, §§2014-6). Egli giudicaperaltro inutili i tentativi di superare i limiti previsivi ed esplicativi dell’economiapura affinandone i concetti e consiglia di ricorrere «non già accessoriamente, […]ad altre scienze» (1923, §2022). Di conseguenza, chi si basi sulla sola economiapura «non è già troppo teorico, anzi lo è troppo poco» (1906, I§28). La «sintesi»tra tutte le teorie utilizzate sarà poi compito della «sociologia» (1897, 133-4;1923, §2022), che darà spiegazioni o avanzerà caute previsioni sullo sviluppo delfenomeno economico concreto. Stando così le cose, agli aspetti «logici»dell’azione economica, mossi dagli «interessi» (§§2009-10, §2146), Pareto

5 Pareto sottolinea pure: l’importanza delle abitudini, dell’intuito e dei limiti di calcolo nell’azioneeconomica concreta (1891a; 1906, II§3, IX§9; 1922, 1108); il carattere soggettivo delle valutazionieconomiche (1896/7, §§7-9, §643; 1906, II§9; 1923, §§149-50); il procedere «per tentativi»dell’attività produttiva ed innovativa (1896/7, §718, §837).

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affianca aspetti «non-logici»6, orientati dai «sentimenti» per il tramite di«residui» e «derivazioni». L’azione economica concreta risulta dall’intreccio ditutti questi aspetti (1900, 431; 1906, II§3; 1918, 775; 1923, §2232). Ad es.,l’azione degli «imprenditori» non si spiega senza considerare gli aspetti non-logici mossi dai residui della classe I (istinto delle combinazioni), mentre quelladei risparmiatori senza far ricorso ai residui della classe II (persistenza degliaggregati) (1923, §2232). Uno «speculatore alla borsa» compie sì azioni logiche,ma anche «in parte non-logiche», dipendenti cioè dal suo «carattere», incline «alrialzo» o «al ribasso» (1906, II§3). Ancora un esempio: la moneta «pare proprioun fenomeno essenzialmente economico» (1920, 867): l’economia pura ci indicail suo «ufficio» e quella applicata ci mostra i «sistemi monetari esistenti» (1923, §2014). Esse però non spiegano né prevedono fenomeni come l’inflazione o lescelte di politica monetaria e di bilancio dei governi (§2014; 1918, 776-84). Percomprenderle è necessario considerare anche i moventi «non-logici» legati airesidui e alle derivazioni che animano l’azione economica di classi governanti,governate e del governo, che non è mai il «buon despota» razionale della teoriamonetaria (1899, 174). «Se si ammette ciò», conclude Pareto, «come si può fareuna teoria della moneta trascurandone le relazioni sociologiche?» (1918, 780). Indefinitiva, gli «economisti» non possono, «per amore della teoria, chiudere gliocchi all’evidenza dei fatti» (1923, §2232-1).

Weber aveva una conoscenza approfondita dei vari campi dell’economia,materia che insegnò tra il 1894 e il 1898 (Weber, 1898, dove troviamo moltiriferimenti a Menger e altri teorici). Come Pareto, Weber riteneva legittime le«robinsonate» dell’«elaborazione tipico ideale» dell’homo oeconomicus (1904,115), fondate autonomamente sulla «sublimazione» della nostra esperienzaeconomica quotidiana (1908, 393). La teoria economica immagina un’azioneperfettamente razionale rispetto allo scopo nel caso di assenza di «tradizioni, […]affetti, […] errori» (1922, 1-I, §1-i.12). Ma questa «macchina per pensarerazionale» (1917, 365) postula un caso «estrane[o] alla realtà» (1922, 1-I, §1-i.12)e serve essenzialmente come pietra di paragone tra di essa e l’agire economicoconcreto. Ad es., l’azione di un agente di borsa di Berlino, pur influenzato da unacerta «Börsenpsychologie», si avvicina di più ai postulati della teoria dei prezzicontenuta nei Grundsätze di Menger (Weber 1908, 395-6), che non l’agire di un«sindacalista convinto», il quale, ispirato anche da una razionalità rispetto alvalore, mobilita gli iscritti anche nel caso in cui ciò può peggiorare la lorosituazione economica (1917, 339-41). Il tedesco affina perciò la sua analisi(1922, 1-II, §1): un «agire orientato economicamente» è un’azione volta asoddisfare in qualsiasi modo un bisogno (§12.4); un «agire economico» losoddisfa esclusivamente in modo pacifico. L’agire economico può essere

6 Anticipando il tema moderno della «razionalità limitata», Pareto (1906, II§3) osserva che «non-logico non vuol dire già illogico; cioè un’azione non-logica può essere quanto di meglio sarebbedato di trovare, coll’azione dei fatti e colla logica, per adattare i mezzi al fine; ma quell’adattamentoè stato ottenuto per altra via che quella di un ragionamento logico». Questa via può essere quelladelle derivazioni che, mosse dall’istinto delle combinazioni (sottoclasse I-ε), danno vita a «sviluppi[…] pseudo-logici» o «ragionamenti pseudo-sperimentali» (1923, §§1397-1404). Le derivazioninon solo dissimulano ma anche spiegano (§1397).

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«razionale», ed operare in modo razionale rispetto allo scopo (§§3-4) oppure«tradizionale» ed orientarsi così su base tradizionale o convenzionale (§3, §4.6).Facciamo due esempi: un operatore all’interno di una «relazione sociale» di«mercato» si trova in una situazione istituzionale che lo vincola ad un «eserciziopacifico» della sua azione (rispetto del «potere di disposizione» altrui) e glipermette di operare un «calcolo» con cui valutare economicamente ciò che fa(esistenza di un’«economia monetaria» che consente «scambi su base razionale»)(§9.2). Il suo «agire economico razionale» è, così, un «agire sociale» che operacon «razionalità formale», orientandosi razionalmente in base allo scopo7 (§9).D’altro canto, un artigiano all’interno della «relazione sociale» dell’economiacorporativa cittadina (§18.3) si trova in un’istituzione la quale, oltre che ad un«esercizio pacifico» della sua azione, lo vincola sia al rispetto di «esigenze etiche[e] politiche» che all’osservanza di tecniche e quote produttive concrete(presenza di «scambi su base tradizionale»). Il suo «agire economico» è così un«agire sociale» che opera con «razionalità materiale» (§9), orientandosi secondola tradizione e razionalmente in base al valore (§3, §4.6). Nella realtà concreta,l’«agire economico» in quanto «agire sociale» può essere più o meno«formalmente» o «materialmente razionale» e, di conseguenza, orientato secondouna miscela di volta in volta diversa di razionalità di scopo, di valore, tradizionale(1922, 1-I, §2.5).

Hayek definisce «logica pura della scelta» la capacità dell’homo oeconomicusdi massimizzare. Mentre Pareto e Weber l’accettano, tipizzandola e mescolandolacon altre logiche d’azione, Hayek (1937, 1949a) -ben prima di Alchian e Simon-sceglie la via della critica interna, che già distanziava Menger dall’ortodossianeoclassica (Streissler 1972; Jaffé 1976). Quest’ultima, osserva Hayek (1937,1949b), considera già appresa, completa ed immutabile nel tempo la«conoscenza» a disposizione del singolo, trasformando in dato oggettivo costantequello che invece è soggettivo, mutevole e da acquisire. Di conseguenza, in unsimile «approccio teorico [,] che […] lascia fuori sistematicamente quello chedobbiamo spiegare [,] […] c’è qualcosa di sostanzialmente sbagliato» (1945,291). Con quei presupposti, la «logica pura della scelta» porta per definizioneall’equilibrio (1937, 241), trasformando l’economia in un «sistema di tautologie»sterile per la ricerca empirica (pp. 227-30). Per Hayek, invece, bisogna indagare«il processo» (p. 241) attraverso il quale la conoscenza soggettiva dell’attoreeconomico si avvicina alla realtà del mondo esterno (p. 242; 1945, 291). Sirinunci ad «un individuo quasi onniscente» (1937, 241), socialmente «isolat[o]»(1949a, 45) e che opera logicamente; lo si sostituisca, alla maniera dei sociologi(1937, 243, il riferimento implicito è a Weber), con «idealtipi […] rilevanti [per]le condizioni del mondo reale» (p. 243), capaci di mostrarci «uomini la cui natura

7 Nel mercato, esso coesiste (1922, 1-I, §3.7) con un orientamento di fondo in base al valore e/o allatradizione su cui si fondano: a) il rispetto delle regole dello stato di diritto come «gruppo diordinamento» (1-II, §5.5); b) una reciproca «fiducia personale nella lealtà materiale delcomportamento» degli altri attori del «traffico economico» (2-VII, §8). È così più chiaro come maiWeber affermi che «[N]el concetto sociologico di ‘agire economico’ non può mancare lacaratteristica del potere di disposizione», che può poi avere una base giuridica, convenzionale otradizionale (1-II, §1.6, §4.1; 1-I, §6).

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e carattere vengono complessivamente determinati dalla loro esistenza in società»(1949a, 45).

Come costruire il nuovo tipo ideale di attore economico? Prendendo di pettogli assunti neoclassici, Hayek parte dalle «perenni limitazioni della nostraconoscenza fattuale» (1973b, 18), legate al nostro muoversi in un «mared’ignoranza» (1968a, 98) sulle intenzioni altrui (1937, 233) e sullo stato delmondo (1945). Ciò genera «incertezza» (1976a, 334) circa i «risultati calcolabili»delle nostre azioni (1968a, 98). L’aumento del nostro sapere circa le «connessionicausali» nell’ambiente rilevante è certo uno dei modi possibili per aumentarel’efficacia del nostro «agire razionale» (Hayek 1970, 14). In questo modo, siincrementa il proprio patrimonio di conoscenza esplicita ed articolata, definita daRyle (1949, cap. 2) «knowing that» e assimilata da Hayek al «wissen» tedesco(1962, 107). In una «Grande società» (1976a) con un’alta «divisione dellaconoscenza» (1937, 246), l’efficacia di questa via è però limitata e l’incertezzaresta costitutiva di gran parte dell’azione economica. Altri ausilii sono comunquepossibili. Hayek (1952b, 1962, 1969) osserva che la mente umana opera in base aquadri di regole cognitive che ci permettono sia una certo repertorio di azioni chela comprensione del significato dei repertori di azioni altrui. Molte di questeregole sono kantianamente «sovra-consce» (1962, 133; 1969, 54): astratte,inconsapevoli e dunque inarticolate. Non di meno, esse garantiscono un certosuccesso alle nostre azioni senza passare attraverso il calcolo razionale dellerelazioni mezzi-fini. La loro efficacia è, per Hayek, garantita dal processoadattivo di evoluzione culturale della nostra mente. Imparentate con queste regolecognitive sono quelle forme di conoscenza inconsapevole e inarticolata che Rylequalifica «knowing how» e che Hayek assimila al «können» tedesco (1962, 107;1968a, 92-4). Queste regole, che la sociologia oggi chiama «costitutive» (Parri1996, 128-30), fondano la base tacita di particolari abilità tecniche, professionali,imprenditoriali o quant’altro. Per Hayek, queste conoscenze non sono state«scelte deliberatamente per un fine», ma risultano da un processo di «evoluzioneculturale», basato su un adattamento ambientale individuale per tentativi ed errori(1971, 318; 1973b, 25; 1976a, 189-90). Esse, al pari delle concrete «conoscenzedelle circostanze particolari di tempo e di luogo» (1945, 280), sono legatesoggettivamente ai singoli ed hanno grande importanza nella vita economica.

Cruciale per il successo dell’azione economica è per Hayek anchel’abbattimento dell’incertezza strategica legata alla varietà dei comportamentialtrui (1937, 233; 1976a, 332). L’attore economico viene a trovarsi in questo casovincolato al rispetto di «norme di condotta (rules of conduct)» (1967a, 1973b,1976a) che sono assimilabili alle «regole regolative» della sociologia (Parri 1996,128-30). Loro compito è la proscrizione o la prescrizione di certe modalitàastratte d’azione, in modo da garantire un certo livello di ordine economico,senza il quale l’ignoranza dell’attore sulle condizioni del mondo renderebbe ognipianificazione individuale impossibile (Hayek 1968b, 315). Il complesso delle«norme di condotta» hayekiane costituisce quello che oggi si chiamerebbe ilquadro istituzionale dell’economia, la cui influenza sulle prestazioni economicheè ormai provata. Per Hayek, le «norme di condotta» possono essere formali oinformali, pubbliche o private, statali o sociali, osservate spontaneamente o grazie

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ad una minaccia coercitiva esterna. La loro origine è individuata in un processo di«evoluzione culturale» (1979, 531; 1988c, cap. 1) dove l’unità di selezione è ilgruppo, che può essere un’economia locale o nazionale (1973b, 62). Le societàche, grazie ad un processo per tentativi ed errori, adottano quadri di regole dicondotta che permettono loro prosperità, man mano prevalgono su quelle cheadottano regole che consentono prestazioni economiche inferiori (pp. 25-6, 104).

Il concetto di selezione di gruppo, che Hayek riprende da opere di biologicome Carr-Saunders e Wynne-Edwards, appare poco fondato per la biologiaevolutiva contemporanea, la quale inclina al primato del singolo gene come unitàselettiva (Lloyd 1992; Wilson, 1992). Hayek si difende, affermando laplausibilità della selezione di gruppo in un contesto di evoluzione culturale(1979, 539-40), che è lamarckiana e non darwiniana (1988c, 58-64). In questosembrerebbe sostenerlo persino Elster (1983, 83), per il quale, grazie allepossibilità di scelte umane guidate da aspettative circa il comportamento altrui,«[i]n the social sciences […], there is more scope than in biology for explanationof behaviour in terms of collective benefits». Il crollo del socialismo ed ildibattito sull’efficienza comparata dei modelli di capitalismo sembrano avallarela tesi di un processo selettivo di gruppo, dove le economie con regole efficienticostringono le altre all’imitazione o all’ibridazione, pena il declino. Per quantociò faccia riflettere, la formulazione hayekiana di evoluzione culturale di gruppodelle «norme di condotta» pecca, per il sociologo, di funzionalismo. Il problema,sollevato dalla teoria dei giochi (Parri 1996, 146-49; 1997b), della possibileconvenienza individuale alla violazione di regole efficaci a livello di gruppo èsolo sfiorato da Hayek (1973b, 60; 1979, 550), né sono chiaramente specificati imeccanismi selettivi che presiedono all’evoluzione culturale (Nelson 1994). Perragioni di spazio, chiudiamo questo excursus, ma l’impressione è che, malgradoHayek ritenga assai limitata l’analogia tra organismo naturale e fenomenicomplessi come l’ordine sociale (1952a, 182-3; 1973b, 68-70), egli sia caduto quiin quella trappola «collettivista metodologica» che lui stesso, Pareto e Weberpaventavano: trattare il gruppo come un attore unitario, trascurandone ledinamiche interne.

In conclusione, secondo Hayek, l’azione economica è guidata in parte da unarazionalità di scopo non dissimile da quella weberiana (1968a, 96 e 109), in parteda regole (1973b, 18). Queste regole sono regolative, e -come lo stesso Hayekammette (1967a, 165; 1968a, 96 e 109; 1988c, 45)- inducono ad un’azione che siavvicina a quella tradizionale o orientata al valore di Weber (vedi nota 7); sonoperò anche costitutive ed hanno a che fare con una dimensione toccata solomarginalmente da Pareto e Weber, quella cognitiva. L’austriaco si avvicina qui aciò che Boudon ha appunto definito razionalità «cognitiva» (1992, 37), che è«situata», nel senso sia della «posizione» sociale che della «disposizione»culturale dell’attore (1987, 197-200). Vi è dunque, in Hayek, una «ragione» senza«la R maiuscola, […] molto limitata ed imperfetta» (1949a, 49), ma crucialenell’economia reale. L’importanza degli aspetti cognitivi nell’azione economica èconfermata dall’interesse crescente che le presta un altro premio Nobel criticocon l’ortodossia neoclassica: D.C. North (1996, 346-8). Come oggi North, Hayekradica socialmente il proprio attore economico in un tessuto di regole regolative e

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costitutive, frutto di un processo storico di evoluzione culturale (1988c, cap. I)

3. Il mercato e la concorrenza come istituzioni sociali

Per Weber l’«agire economico (razionale)» di un Robinson non è ancora«agire sociale» (1922, 1-II, §1.1). Lo diventa solo «in quanto prende inconsiderazione l’atteggiamento di terze persone», ad es. rispettando in modo«formal[e]» i diritti di proprietà altrui e considerando in modo «materiale» ibisogni altrui al momento di produrre (1-I, §1-ii.2), come accade ad es. in unmercato. Il «mercato» è dunque una «relazione sociale» (§3, §9.4),prevalentemente «aperta» (§10.1), poggiante «su un legame di interessi motivatorazionalmente (rispetto al valore o […] allo scopo)» (§9); in altre parole, è una«Vergesellschaftung» («associazione») fondata su «scambi razionali», ossiaeconomicamente vantaggiosi per i contraenti (1-II, §4, §4.6; §14). Gli scambigiungono ad essere tali non tanto grazie ad una razionalità di scopo a priori,posseduta limitatamente dagli attori reali (1-I, §1-i.11), ma principalmente sullabase di condizioni istituzionali che la stimolano e che Weber attribuiscetipicamente al capitalismo occidentale (1-II, §13, §30). Venendo alla«concorrenza (regolata)» (1-I, §8), Weber la definisce in questo modo: nelcontesto di un’economia monetaria, e in base al «presupposto materiale della piùampia libertà di mercato» (1-II, §13), deve potersi dispiegare una «lotta pacifica»,vale a dire un «agire […] orientato in base al proposito di affermare il propriovolere contro la resistenza di un altro» senza far uso di violenza (1-I, §8). Inquesti casi, col tempo, si opera una «selezione sociale» degli «imprenditor[i]ricc[hi] di successo» (§8.2). Nel contesto di questa «lotta di concorrenza», sidispiegano una «lotta di prezzo» (1-II, §4, §8) ed un «mercanteggiare»8 (2-VI).Allo «scambio razionale» teorizzato dagli economisti, si arriva infine dopo che siè raggiunto un «compromesso» tra gli «interessi in gioco» (1-II, §4), che sono«contrapposti ma complementari» (1-I, §9.1). Il quadro istituzionale in cui operail tipo ideale del mercato è definito da Weber «gruppo di ordinamento» (1-II, §5),ovvero una situazione di «puro stato di diritto» che garantisce il rispetto«formale» dei diritti di proprietà e si astiene da ogni regolazione «materiale»dell’agire economico (§5.4-6; §8), lasciando dunque regnare «l’assoluto laissezfaire» (1-I, §14.1). Alla Vergesellschaftung di mercato basata sull’«ordinamentoregolativo» minimale (§14.1) del «gruppo di ordinamento» (1-II, §5), nella realtàconcreta si affiancano di solito ulteriori forme di razionalità orientata al valore o,addirittura, forme di Vergemeinschaftung («comunità»), orientatetradizionalmente o affettivamente (1-I, §9.2). Abbiamo allora la già ricordata«fiducia personale nella lealtà materiale del comportamento altrui […] neltraffico economico» (2-VII, §8), ma anche l’«etica del mercato», ovverol’attendersi nello scambio «l’intangibilità di quanto è stato promesso». Weber

8 I concetti di «lotta di prezzo» (Preiskampf) e «mercanteggiare» (Feilschen) erano già stati usati daMenger (1871, VII§1) e sono coerenti con il soggettivismo e la colorazione sociologica dei fattieconomici dei suoi Grundsätze.

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osserva altresì, in anticipo sulla teoria dei giochi, che la «buona fede» è tanto piùmantenuta quanto più c`è «interesse a continuare anche per il futuro le relazionidi scambio» (2-VI). Inoltre, la «massima» (1-I, §3.6) smithiana «honesty is thebest policy» prevale dove vi è «clientela stabile», situazione nella quale può pureverificarsi «una limitazione relativa […] dello sfruttamento delle costellazioni diinteressi del momento» (2-VI).

Pareto non ci lascia una teoria sociologica del mercato9, ma una sociologiadella sua distorsione da parte di stato ed interessi organizzati. Quant’egli dice sulruolo imprenditoriale in un mercato competitivo ha però indubbio valoresociologico. Pareto osserva anzitutto che «la libera concorrenza non si esplicasenza attriti», ma ha «costi e spese che costituiscono una distruzione di ricchezza[…] considerevole» (1896/7, §837). Ben lungi dall’essere homines oeconomicionniscenti, i singoli imprenditori devono «ingegnarsi costantemente» (§718) con«tentativi ripetuti», spesso infruttosi, di «scoprire i valori dei coefficienti difabbricazione che assicurano il massimo di ofelimità» (§725). Essi operano «unasoluzione per tentativi delle equazioni della produzione» che, garantendo adalcuni profitti e ad altri perdite, si espone alla critica lassalliana degli sprechidella produzione «anarchica» (§718a). Perché, allora, non introdurreun’«organizzazione unificata» della produzione (§837), con «funzionari» (§725)che determinino ex ante, basandosi sulle conoscenze disponibili, il valore deicoefficienti di fabbricazione? Pareto, da buon ingegnere, risponde con argomentidi sociologia dell’innovazione tecnologica comuni poi ad Hayek (1945, 1968b) e,oggi, a Nelson (1990) e Rosenberg (1992). Arrivare ad innovazioni o giudicare apriori chi ne propone attraverso «deduzioni» operate da «istituti scientifici» divertice è un metodo che nella pratica è inefficace (Pareto 1896/7, §837). Alleinnovazioni si arriva unicamente «con prove ripetute», operate in gran numero sulcampo. Ciò è possibile solo con un’«organizzazione differenziata», basata su ungran numero di persone che «lavora[no] per proprio conto» (§837): non«funzionari», ma «imprenditori» (§725). «Non si può dunque evitare la spesa diprove sfortunate se non si rinuncia […] ai vantaggi che procurano le provefortunate, cioè il progresso» (§837, §718). L’argomentazione paretiana sostituiscequindi, all’idea neoclassica di una conoscenza oggettiva e già data all’attoreeconomico, quella di una conoscenza soggettiva e da acquisire nel corso delprocesso concorrenziale di mercato.

La teoria del mercato di Hayek porta avanti la sua critica dell’ortodossianeoclassica su una linea di sociologia10 della conoscenza economica. Egli notache il concetto di concorrenza utilizzato dagli attori economici concreti per darsenso all’agire differisce fortemente dall’idea ortodossa di concorrenza perfetta

9 Pareto nota comunque la contradditorietà interna del modello neoclassico del mercato inconcorrenza perfetta. Esso spinge gli imprenditori a ridurre «il prezzo di costo» col risultato, nonvoluto, di ridurre anche «il prezzo di vendita» (1896/7, §719), trasformando così in «non-logiche»azioni «logiche» (1923, §159).10 Significativamente, Hayek (1968b, 310) osserva che, dopo la stesura dei suoi saggi sullaconcorrenza come processo di scoperta (1949b; 1968b), gli fu segnalata un’opera del sociologotedesco von Wiese che andava nello stesso senso. Per von Wiese (1929, 27): «Das experimentellePrinzip ist also nichts anderes als unser Konkurrenzprinzip».

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(Hayek 1949b, 293-4). Quest’ultima presuppone una situazione in cui gli attorieconomici hanno «una conoscenza completa dei fattori rilevanti» (p. 296).Costoro percepiscono invece di esser parte di un «processo» (p. 295) checomincia dall’ignoranza e durante il quale la conoscenza su tecnologie e gusti deiconsumatori è faticosamente acquisita, costantemente aggiornata e mai perfetta.Mentre Stigler sentenzia che non vi è concorrenza perfetta dove «vi sonorelazioni personali di qualsiasi genere fra le unità economiche» (p. 298), chicompete sa quanto l’apprendimento derivi dai contatti con fornitori e clienti equanto la reputazione personale sia importante. Dove gli ortodossi postulano beniomogenei, l’imprenditore sa che la differenziazione del prodotto e l’innovazionesono strategie vincenti. Stando così le cose, inferisce Hayek, «la ‘concorrenzaperfetta’ implica […] l’assenza di tutte le attività concorrenziali» (p. 298). Invero,poi, se gli attori conoscessero in anticipo tutti i fatti economicamente rilevanti,potrebbero farne uso diretto e «la concorrenza sarebbe […] un metodo moltoinefficiente per assicurare l’aggiustamento rispetto a questi fatti». In effetti, «sipuò giustificare razionalmente il ricorso alla concorrenza» e al mercato solo sullabase dell’ignoranza di partenza degli attori economici (Hayek 1968b, p. 309). Viè qui una chiara somiglianza con la summenzionata critica paretiana delle tesilassalliane di anarchia della produzione. Non a caso, Hayek afferma che proprioil concetto neoclassico di concorrenza ha stimolato le visioni dei socialisti suoicontemporanei, secondo i quali si può «fare del tutto a meno del mercato» oppureutilizzarne gli esiti, dati e certi, per poi «manipolare, correggere o redistribuirecome vogliamo» (p. 309). Ma la concorrenza non è uno «stato di cose», poiplasmabile a piacere. Essa è un’«attività» (p. 313) che comporta «un viaggioesplorativo nell’ignoto», onde risolvere innovativamente i problemi economicilegati alla necessità di adattamento a continui «cambiamenti imprevisti» (1949b,303). Si tratta, insomma, di un «processo di scoperta […] tramite cui la genteacquisisce e trasmette conoscenza» (1979, 442) e nel quale «l’elemento deltempo» (1949b, 304), trascurato dall’ortodossia, è cruciale.

Tutte le conoscenze di cui si fa uso economico in un mercato «non esistonomai come un tutto integrato» in una «mente superiore», né mai potranno esistervi(1952a, 147; 1945). Infatti, gran parte di questa conoscenza non è codificabile etrasferibile ad un centro, ma è legata ai soggetti decentrati, essendo incorporata inregole costitutive di «knowing how» e in «conoscenze delle circostanzeparticolari di tempo e di luogo» (1935b, 364-5; 1945; 1952a, 204). La ricerca diuna «visione sinottica» (1944, 97), confrontata con questa ineluttabile divisionesociale della conoscenza, si trasforma per Hayek in una pericolosa «illusionesinottica» (1973b, 21). L’istituzione policentrica del mercato è, allora, l’unica ingrado di poter utilizzare tutta la conoscenza economica esistente in mododisperso nella società. È pure la sola che offre una struttura di incentivi (1979,444) e pone una «costrizione impersonale» (1968b, 321) tali da invogliare allacontinua scoperta di nuove conoscenze. Affinché il mercato possa funzionare inmodo economicamente razionale, è necessario che il singolo basi le sue decisioni,non solo sulle conoscenze possedute soggettivamente, ma anche su informazioniconcernenti la situazione economica di tutti gli altri soggetti rilevanti. Questevengono fornite «dal sistema dei prezzi», tipico di un’economia monetaria. Esso,

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con i suoi valori ed oscillazioni, «telecomunica» attraverso i mercati i continuimutamenti dei dati (1945, 284-6; 1980, parte II) che si realizzano «in ogni angoloe fessura del mondo economico» (1976a, 258). I prezzi sono -come già perMenger (1883, 3-II, §2 e §4)- un’istituzione essenziale dell’economia, «uno diquei simboli nei quali viene registrato in maniera automatica (anche se non certoperfetta) l’intero complesso delle conoscenze e dei bisogni umani […] in unaforma ridotta e condensata» (Hayek 1952a, 203 e 206). Mobilitazione delleconoscenze decentrate e ruolo di trasmissione dei prezzi rendono dunque ilmercato un’«istituzion[e] dedicat[a] alla raccolta delle informazioni» (1988c, 45).In quest’ottica, il mercato appare un «mod[o] di cooperazione umana cheoltrepassa[…] i limiti della […] conoscenza e percezione» individuali (p. 44) epuò così diventare la spina dorsale della «Grande società» (1976a, 320).

Secondo Hayek, i cambiamenti dei prezzi relativi agiscono come guida per ilcoordinamento delle azioni economiche individuali (1968b, 319). Egli nota peròcome i prezzi correnti, a causa delle aspettative, servano da «indicatori di ciò chedovrebbe essere fatto in determinate circostanze», piuttosto che essere«funzionalmente connessi con ciò che è stato fatto» in passato (1976a, 325, 333).In questo modo, gli errori di previsione individuali causati da scarsa abilità o da«mutamenti inaspettati di circostanze rilevanti» vengono penalizzati con profittinegativi. La «concorrenza» è così in grado di «dimostrare quali piani siano falsi»e quali invece siano compatibili con quelli altrui (p. 325). Per Hayek, ci si trovaqui in presenza di un meccanismo istituzionale di coordinamento basato su un«feedback negativo» (1968b, 316, 1976a, 333). Infatti, accanto ad unamaggioranza di aspettative realizzate, «alcuni tipi di aspettative sonosistematicamente frustrate» (1976a, 314). In quest’ottica, egli paragona il mercatoad un gioco con vincenti e perdenti, dotato di proprie regole regolative e «affidatoin parte all’abilità e in parte alla fortuna» (1968b, 317; 1976a, 325). Si tratta di ungioco a somma maggiore di zero, «generatore di ricchezza» (p. 324), nel sensoche i suoi incentivi e le sue costrizioni spingono gli attori ad aumentare «la postada dividere [, pur] lasciando in gran parte al caso le quote individuali» (1968b,318). Nel quadro dinamico della concorrenza hayekiana, appaiono insensateaffermazioni come quelle della teoria ortodossa, secondo cui in un certo settoreindustriale si può essere in situazione di concorrenza perfetta, con prezzi uguali aicosti di lungo periodo (1949b, 304). Le curve dei costi non sono «una grandezzavalutabile oggettivamente», non sono «dati», ma sono «proprio ciò che si vuol farscoprire alla concorrenza», la quale può portare a costi ben inferiori ai previsti(1979, 444). Ad es., dunque, eventuali sostegni governativi ad un cartelloindustriale, onde farlo operare in un quadro di «concorrenza ordinata» cheeguaglia costi e prezzi, non sono che «pratiche antisociali» basate su una teoriaeconomica vacua (1949b, 304). In realtà, quello che gli ortodossi, «con untermine poco felice», chiamano «stato di equilibrio economico […] non esistemai realmente» in nessun mercato (1968b, 315). Meglio parlare di un «ordine»economico, inteso come situazione nella quale, all’interno di uno schemaistituzionale di mercato, gli attori economici cercano continuamente diavvicinarsi al successo e, indirettamente, alla congruenza di tutti i loro pianiindividuali. Il rispetto delle regole regolative del mercato fa sì che siano

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compatibili con il suo «ordine» anche tentativi che comportano il mutamentoinnovativo dei dati economici o la frustrazione dei piani individuali (p. 315;1976a, 332-7). Ciò fa capire che, per Hayek, come già per Smith e Menger, ilmercato non sorge scontatamente in virtù «di una qualche armonia naturale diinteressi» (1970, 17). Esso necessita invece di regole regolative che, purlasciando libertà di sperimentare, vincolino le azioni individuali entro certiconfini (1976a, 333-5), che Hayek chiama «astratti» e Weber chiama «formali».Un Robinson può infatti agire da puro homo oeconomicus senza aver bisogno dinessuna istituzione sociale. Al contrario, una pluralità di singoli non è in grado dioperare con «logica pura della scelta» senza regole istituzionali che, allo stessotempo, garantiscano e vincolino ciascun individuo. L’esito sarebbero forteincertezza e mancanza di coordinazione tra gli attori economici. Senza un ausilioistituzionale, costoro non avrebbero mai abbastanza conoscenza per coordinaretra di loro i propri piani. Per Hayek, dunque, è insensata l’astrazione neoclassicasecondo cui vi possono essere scambi economici tra individui in un contesto divuoto istituzionale. D’altra parte, con il loro carattere formale e minimale, leregole regolative del mercato, pur riducendola, «non possono […] eliminare tuttal’incertezza» presente in una economia basata su concorrenza e divisione dellaconoscenza (1976a, 332). Per la guida dell’attore economico, Hayek riconosceallora anche l’importanza delle regole costitutive basate su «knowing how» ecognizione, nonché quella di altre regole regolative, spesso informali, legate allatradizione e alla morale (1988c, 45). L’attore economico hayekiano, ed il mercatoin cui agisce, risultano così immersi in un variegato tessuto di istituzionisociali11. Ciò li distingue chiaramente dall’atomismo dei neoclassici e dalmercato estraneo alla società immaginato da Karl Polanyi.

Hayek non trascura di osservare come la sua nozione di concorrenza abbia«particolari caratteristiche metodologiche», tali per cui «la validità della teorianon può mai essere verificata empiricamente» (1968b, 310). A rigore, invero, senon si conoscono anticipatamente «i fatti che speriamo di scoprire per mezzo

11 Il concetto sociologico di istituzione come insieme di regole costitutive e/o regolative èampiamente discusso in Parri (1996).

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della concorrenza, non sappiamo mai quanto questa sia stata efficace nelloscoprire i fatti che potevano essere scoperti» (p. 311). Immaginiamo chel’obbiettivo della concorrenza, al pari di ciò che sarebbe in grado di fare un«dittatore onniscente», sia migliorare l’uso delle risorse (1979, 441), sino a poteroffrire certi beni o tecnologie ipoteticamente producibili (p. 442). Di fronte aquesto criterio, spesso usato dai teorici ortodossi del fallimento del mercato,«molti dei mercati esistenti sono certamente molto ‘imperfetti’». «Tuttavia, per iproblemi pratici questo standard è completamente irrilevante» (p. 441). Si trattadi puro wishful thinking, basato su un vuoto paragone con condizioni che nellarealtà nessuno sa ancora come raggiungere (p. 441). Giudicare il mercato in baseall’ipotesi che esso debba, ad es., arrivare a realizzare un nuovo prodotto, senzache nessuno sappia ancora come costruirlo, non ha alcun senso. Come in tuttal’ortodossia, si esclude qui arbitrariamente la dimensione temporale dei processiproduttivi. Ciò non significa però che non esistano criteri per valutare l’efficienzaeconomica dell’istituzione del mercato rispetto ad altri assetti. Ad es., mentre èsempre difficile fare previsioni su una particolare innovazione tecnologica, alivello di «modello predittivo» Hayek (1968b, 312) ipotizza che, in termini diefficienza economica, il mercato sia superiore alla pianificazione centralizzata.Come nell’odierna discussione sulle prestazioni comparate delle istituzionieconomiche, una possibile risposta, per Hayek, può ottenersi valutandostoricamente le prestazioni generali di un assetto rispetto ad un altro (pp. 310-12).Hayek pensa che l’istituzione del mercato, pur non potendo massimizzarealcunché (1979, 443-4), sia arrivata ad una sorta di massimo relativo (1968b,318): poter meglio raggiungere, rispetto ad altri assetti, l’obbiettivo astratto di«migliorare le possibilità di riuscita di persone sconosciute» (p. 315) come, ades., un «individuo scelto a caso» (1976a, 341). Per Hayek, è questo il criteriosecondo cui si è operata la selezione di gruppo delle regole istituzionali chehanno progressivamente ed inintenzionalmente dato vita al mercato (1979, 544;1988c, cap. 1). Certo, la moderna letteratura sui processi di selezione istituzionalenon si accontenta di una indicazione così generale dei meccanismi evolutivi(Vanberg 1986; Nelson 1994), ma lo spunto hayekiano resta euristico esuggestivo.

In conclusione, si può notare come la visione hayekiana del ruolo del mercatoe della concorrenza sia molto simile a quella più recente di uno storico dellatecnologia: N. Rosenberg (1992). Egli afferma infatti che il capitalismo haprevalso sul socialismo poiché ha consentito più libertà di compiere «economicexperiments». Ciò, sia nel senso di lasciar sviluppare una maggiore varietà diistituzioni economiche -ad es., imprese di varie dimensioni, sia in quello di offrirepiù libertà ai soggetti in esse operanti. In un campo dominato dall’incertezza edall’ignoranza di partenza come quello tecnologico, la possibilità istituzionale didisporre di gran numero e varietà di unità di sperimentazione si è rivelataeconomicamente decisiva rispetto alla centralizzazione, al vincolismo e allascarsa varietà organizzativa del socialismo (Rosenberg 1992). Non dissimile daquesta è pure l’argomentazione avanzata da Nelson circa la «openess of the[capitalist] engine to experimental tinkering» (1990, 212).

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4. La sociologia economica di capitalismo, interventismo e socialismo

La cangiante combinazione di «razionalità formale» e «materiale» nell’«agireeconomico» individuale concreto, porta Weber a concepire molteplici «formesociali di divisione delle prestazioni» (1-II, §18). Queste rientrano tutteall’interno della «relazione sociale» che egli definisce «gruppo sociale orientatoeconomicamente» (§5). Ognuno di questi «gruppi» dispone di un «apparatoamministrativo», un «ordinamento» dotato di «regole» ed un «capo» dotato di«poteri di governo» (1-I, §§12-14). Alla base della sua tipologia (1-II, §5) Weberpone il «gruppo economico», tra cui annovera le unità fondamentali della vitaproduttiva: imprese, cooperative, ecc. (§5.2). Ogni «gruppo economico» puòmuoversi in due differenti contesti istituzionali di base: il «gruppo diordinamento» (§§5.4-5.6), ove sono presenti «ordinamenti» soltanto «formali» eche abbiamo già identificato col libero mercato (v. par. 3); il «gruppo regolativodell’economia» (§5.3, §§5.5-5.6), ove gli «ordinamenti» vincolano anche«materialmente» le unità coinvolte. «Gruppi regolativi dell’economia» sono perWeber le corporazioni, i sindacati, le associazioni imprenditoriali, nonché le cittàmedievali e gli stati contemporanei per tutto ciò che concerne l’interventonell’economia. Tutti questi soggetti sono portatori di «una propria ‘politicaeconomica’ mirante a regolare materialmente il contenuto e la direzionedell’agire economico» (§5.3). A seconda che ci si trovi in un «gruppo diordinamento» piuttosto che in uno «regolativo» vi è dunque «autonomia più omeno grande dei soggetti economici» (§5.5). La distinzione, afferma Weber, èperò «fluida» (§5.6). Si pensi al tipo ideale del libero mercato: Weber osserva che«numerose disposizioni di legge moderne», pur presentandosi come «pure normedi ordinamento», in certe circostanze ormai «influisc[ono] profondamente» inmodo materiale sull’agire (§5.6). In altri casi, vi è una vera e propria«regolamentazione del mercato» (§8), che affianca una «razionalità materiale» aquella «formale», basata sul «calcolo monetario» e «del capitale» (§14). Questa«regolamentazione» ha basi diverse (§8): «tradizionale», «convenzionale»,«giuridica», ma anche «razional[e] rispetto ad uno scopo materiale» concreto.Può esservi pure «regolamentazione» volontaria, basata su accordi cartellari omonopoli, quando ad es. soggetti con «elevato potere di disposizione sui mezziproduttivi» sospendono la concorrenza (§8.2). La regolamentazione «giuridica» èspesso orientata razionalmente rispetto al valore, con criteri valutativi suggeritida visioni ideologiche varie (§9.3). Di qualsiasi tipo od origine essa sia, larazionalità materiale percepirà sempre una «fondamentale, e in ultima analisiineliminabile, irrazionalità dell’economia» formale (§14). Tra i tentativi disuperare questa opposizione, Weber discute quelli di «economia pianificata»fioriti in campo socialista subito dopo le esperienze dirigiste dell’economia diguerra (1918; 1922, 1-II, §§12-14). Per il sociologo tedesco, «l’economiapianificata» costituisce un «gruppo economico» costituito da un insieme diimprese «eteronome ed eterocefale» (§12; 1-I, §12), guidate da un «apparatoamministrativo» che eroga loro «prescrizioni di comando» (1-II, §14). La

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pianificazione socialista integrale incontra secondo Weber due problemifondamentali. Il primo è legato all’azione dei singoli: lo stimolo all’esecuzioneaziendale dei comandi centrali si baserebbe su «premi e punizioni» materiali e«stimoli ideali di ‘carattere altruistico’» (§14). Siccome però, «la massa degliuomini non [opera con] un agire economico orientato in modo puramenteideologico, in vista di interessi estranei», nel socialismo avremmo «processi diappropriazione di ogni specie e lotte di interessi» tali da stravolgere l’ordinecentralizzato (§41). In secondo luogo, essendo escluso nella pianificazione ognicalcolo monetario o di capitale orientato al profitto, le direttive centralirisponderebbero ad una razionalità economica materiale basata su un «calcolonaturale» privo di prezzi e moneta (§12, è questa la visione del socialista vienneseO. Neurath). Ma un calcolo naturale non sarebbe per Weber in grado di allestirecome propria base un’unità di misura del valore e, pur nel rispetto della tecnica,rimarrebbe al di qua dell’economia, senza poter ponderare obiettivi alternativi(§12). Di conseguenza, la scelta di perseguire un’economia pianificata, pur noncontestabile dal punto di vista dei valori, lo sarebbe da quello della razionalitàeconomica, per materiale che fosse (§12.1, §§13-14.3). Per motivi socio-istituzionali, non sarebbe nemmeno possibile decentrare la funzione divalutazione e calcolo alle singole unità aziendali. Esse, non trovandosi in unasituazione di reale «necessità» economica, non avrebbero «incentiv[i]» ad operareuna valutazione economica rigorosa e la sostituirebbero «artificiosamente[…][con] mezzi di dubbia efficacia». Fenomeni simili si verificano già in unasituazione di mercato quando, ad es., i cartelli affievoliscono la disciplina dellaconcorrenza (§12.3). In modo indipendente, Weber giunge quindi a conclusionisull’impossibilità del calcolo economico in un’economia socialista simili a quelledi Mises (1920), che sono alla base della posizione austriaca nel celebre dibattitocoi socialisti12.

I rapporti tra economia e istituzioni sociali che Weber tratteggia nelle sueopere sono valutati anche nella loro dinamica interna. Weber si opponedecisamente alla vulgata marxista in base alla quale le varie forme istituzionali di«gruppi economici»13 hanno tutte una dipendenza «causale» o «funzionale» neiconfronti dei fattori economici (1904, 81-3; 1922, 2-II, §1). La «sociologiadell’economia» (Soziologie der Wirtschaft) deve piuttosto «determinare ilcondizionamento dei processi e delle forme di economia da parte dei fenomenisociali» (1917, 369). Non esiste infatti un’«univocità della determinazionedell’agire di comunità [Gemeinschaftshandeln] da parte dei momenti economici»(1922, 2-II, §1), quanto una situazione in cui «anche la struttura dell’economia è[…] influenzata dalla struttura autonormativa [eigengesetzlich] dell’agire di

12 Non meraviglia allora che, in una lettera a Neurath, Weber giudichi i disegni pianificatori dicostui «di una leggerezza dilettantesca […] che può gettare discredito sul socialismo per cento anni»(1919). Inoltre, in Economia e società, Weber cita il saggio dell’amico Mises (1920), affermandoche gli era giunto «durante la stampa» (1922, 1-II, 12.4).13 Nella parte seconda di Economia e società, i diversi «gruppi orientati economicamente»(witschaftlich orientierte Verbände) della prima cambiano nome e diventano diverse «comunitàeconomiche» (Wirtschaftsgemeischaft, wirtschaftsregulierende Gemeinschaft, ecc.), ma ilsignificato sembra invariato.

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comunità nel cui ambito essa si svolge». In quest’ottica di mutua influenza trafattori economici e sociali, sembra più sensato indagare «sulla loro tendenza afavorirsi reciprocamente nella loro esistenza oppure ad ostacolarsi o adescludersi», ovvero sulle loro «relazioni di adeguazione» (§1), come oggi fa lamigliore letteratura sui modelli istituzionali di capitalismo.

Discorrendo dei rapporti tra fattori sociali ed economici, Pareto loda il«materialismo storico» per aver stabilito un nesso che l’«utopia liberale» (1902,483) degli «economisti ottimisti» (1986/7, §624) non scorgeva (1923, §829,§2147.9, §2207.1). Ai marxisti contesta però la facilità sociologica con cuidimostrano la dipendenza «in ultima istanza» della dinamica socialedall’economia (1903, 248; 1923, §830), affermando, poi, che «si tratta di saperese questa ‘struttura economica’ non sia essa stessa […] effetto anziché causa»(1898, 161). Come già Weber, Pareto propende allora per una «mutuadipendenza» tra «condizioni economiche e […] altri fenomeni sociali» (1902,738; 1898, 250; 1923, §§ 2022-3, §2207.1). È nel mea culpa sul proprioliberoscambismo ingenuo e nel rifiuto della vulgata marxista che Pareto fonda lasua visione di un «sistema sociale» (§2066, §2079 e sgg.) dove vige «mutuadeterminazione» tra tutti «gli elementi» (§§2060-1). Questi sono gli «interessi»materiali e le «azioni logiche», indagati dall’economia (§2146), ma anche i«residui», le «derivazioni», le «azioni non-logiche» e gli «interessi» di prestigiostudiati dalla sociologia (§2079). Ne consegue «che gli stati del sistemaeconomico si possono considerare casi particolari degli stati generali del sistemasociologico» (§2073). «[N]on per analisi ma nel concreto, […] occorreconsiderare non già il solo fenomeno economico ma l’intero fenomeno sociale»(§2023), cosa che Pareto farà nelle sue indagini di socialismo e protezionismo.

Per Pareto, «l’economia pura non ci dà criteri decisivi per scegliere tra […]concorrenza privata e un ordinamento socialista» (1906, IV§61). Infatti,«teoricamente non è in contraddizione con la logica […] supporre esistano […]esseri infinitamente sapienti, onesti e saggi» che conoscano tutti i dati del sistemaeconomico e siano in grado di usare, evitando «gli attriti […] della liberaconcorrenza» (1896/7, §446), i prezzi come mere «entità contabili». In questomodo, un ipotetico «ministero della produzione […] non andrebbe brancolandocome cieco» (1906, VI§54) e saprebbe se, non già tecnicamente maeconomicamente, sia più conveniente ottenere grano investendo in coltivazionipiuttosto che in navi da carico per importarlo (1896/7, §721). L’ipoteticoonniscente «ministero della produzione» raggiungerebbe in tal modo coefficientidi produzione identici a quelli di un ipotetico puro sistema di mercato (§906).Dopo aver così massimizzato la produzione, distribuirebbe la ricchezza secondo icriteri etici del socialismo, paragonando politicamente le ofelimità individuali(1896/7, §720, §1022; 1906, VI§53). Se si tiene però conto di «altri caratteri deifenomeni» (VI§61), si osserva come «il socialismo, volendo regolare ognifenomeno economico, urta contro difficoltà pratiche immense» ed«insormontabili» (1896/7, §446, § 1013). Pareto afferma infatti che pensare di«conoscere […] le ofelimità di tutte le merci per ciascun individuo […] [e] tuttele circostanze della produzione delle merci [è] […] ipotesi già assurda». Ma seanche così fosse, e si conoscessero tutti i dati dell’equilibrio economico,

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avremmo «un numero favoloso di equazioni», che «praticamente supera lapotenza dell’analisi algebrica». In questo caso, «sarebbe l’economia politica cheverrebbe in aiuto alla matematica»: «accessibile alle forze umane» sarebbe solo«la soluzione pratica data dal mercato» (1906, III§217). Alle considerazionicognitive Pareto ne aggiunge di sociologiche. Ipotizza che le perdite legateall’anarchia della produzione possano essere inferiori alle spese per gli impiegatidello stato che gestiscono la pianificazione (§VI§257, 1896/7, §837).Ammettendo realisticamente l’incompletezza dei dati economici, si domandacome «funzionari che agiscano in base a regole imposte dall’autorità pubblica»(1896/7, §1022) siano stimolati al miglioramento dei coefficienti di produzione(§837, §900) o a quella «contrattazione» e «speculazione» che tanta importanzahanno per risolvere nella realtà le equazioni dell’equilibrio (§§892-902).Profeticamente, conclude che «la forza stessa delle cose» spingerebbe i socialistia «tornare alla soluzione per tentativi [,] assegna[ndo] premi ai ‘funzionari’ chepiù si distinguano in quest’opera» (§900).

L’economia afferma che l’allontanamento dall’equilibrio di massimo porta,tramite l’alterazione dei coefficienti di fabbricazione da parte di coalizionisociopolitiche, benefici per le «collettività parziali» che l’hanno promosso,danneggiando il resto dei soggetti economici (Pareto 1906, VI§§62-62; 1896/7,§733; 1923, §2014). A questo proposito, Pareto menziona: il vincolismo impostodai sindacati operai alla produzione (1896/7, §728; 1906, IX§§71-2); i sindacaticommerciali o industriali volti ad intese cartellari (1906, IX); le tariffe protettivein determinati settori, i monopoli, ecc. (1896/7, §§852-91; 1906, IX). Senza laconnivenza o l’esplicito sostegno dello stato e di «politicanti» amici (1906,IX§63; 1923, XII), questi fenomeni di «distruzione di ricchezza» (1896/7, §§730-4) e di «spogliazione» reciproca (1887; 1896/7, §§1041-65) non resisterebberocomunque a lungo alla pressione della concorrenza. Il primo Pareto, economistapuro, ritiene allora che una propaganda liberista à la Cobden sia sufficiente perpersuadere dell’irrazionalità di questi assetti che, nel tempo, impoverisconoanche i loro beneficiari iniziali (1923, §2016). Il Pareto sociologo, invece, tacciadi impotente «derivazione» la propaganda liberoscambista (1906, VII§117,IX§62, §66; 1923, §2208.1) e considera il fenomeno del protezionismo, benché«in apparenza strettamente economico», nella sua interdipendenza con «altrifenomeni sociali» (§2219). Vi è anzitutto da spiegare come mai le «derivazioni»liberoscambiste non riescano a mobilitare «gli spogliati» contro le coalizioniprotezioniste di industriali, sindacati operai e «politicanti». Pareto ricorre ad unmeccanismo che oggi chiameremmo olsoniano. In un paese di trenta milioni dianime, l’aumento dei prezzi dovuto alla protezione toglie ad ogni consumatore unsolo franco, ma garantisce ai trenta industriali protetti trenta milioni di franchi,ovvero uno a testa. Mentre il consumatore non riterrà conveniente investire in unmovimento antiprotezionista per risparmiare una cifra così bassa, gli industrialicoinvolti «non avranno riposo», cercheranno ovunque sostegni e, allettati dalguadagno, finanzieranno giornalisti e politici per la diffusione delle «derivazioniprotezioniste» (1896/7, §§1046-50; 1906, IX§§62-6). In secondo luogo, se ilprotezionismo distrugge ricchezza, sembra che l’economia pura abbia sbagliato lesue previsioni (1922, 1122). Essa non sa infatti spiegare come mai l’Inghilterra

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liberoscambista non abbia prosperato più di tutti e fatto da esempio, né perché adarricchirsi maggiormente siano stati proprio paesi protezionisti come Stati Uniti eGermania. Per non sbagliar previsione, osserva Pareto, «alle [teorie] economichesi sarebbero dovute aggiungere le sociologiche» (1922, 1122; 1923, §2208). Ineffetti l’industria inglese, invece di riinvestire l’utile dovuto al libero scambio, loha «in gran parte consumato per contentare le Trade Unions [...] con alti salari,scarso lavoro e rinuncia a […] perfezionamenti tecnici» (1922, 1122-3, 1906,IX§25, §71). Tutto ciò, con il consenso di un governo ormai votatoall’interventismo tipico delle «plutocrazie demagogiche» (IX§§70-72; 1921). Piùcomplesso è il caso di Germania e Stati Uniti, di cui Pareto dà conto ricorrendoallo schema dei «cicli di interdipendenza» (1923, §2203-7). La protezioneindustriale sposta arbitrariamente le risorse da una parte all’altra dellapopolazione comportando distruzione di ricchezza. Questa può però essere piùche compensata dal fatto che i penalizzati sono di solito economicamente menodinamici (redditieri, consumatori), mentre maggiori opportunità di profittoattireranno nell’industria uomini dotati di istinto delle «combinazionieconomiche». Questi «interessi» possono portare ad un aumento del numero degliindustriali, della produzione manifatturiera e delle «derivazioni» protezioniste.Tutti fenomeni che conducono a maggiore «circolazione sociale». Essaindebolisce nella classe governante uomini con «residui della persistenza degliaggregati», favorendo quelli con «istinto delle combinazioni», capaci di condurrela nazione sulla via dell’«industrialismo» (§§2208-19). Il ciclo sociologico è cosìchiuso.

La prima arena in cui Hayek discute di istituzioni dell’economia è il dibattitosul calcolo socialista -avviato nel 1919-20 da Neurath, da una parte, e Weber conMises, dall’altra (Hayek 1935a; 1976c, 328)- e concluso solo con i recenticontributi di Kornai. Come abbiamo già visto con Pareto e Weber, inizialmente isocialisti intendevano con «pianificazione […] [la] direzione dell’attivitàproduttiva sulla base di istruzioni emanate dall’autorità, riguardanti le quantità daprodurre, i metodi di produzione da utilizzare [...] o i prezzi da fissare», in ciòbasandosi sul «calcolo in natura» o sulle equazioni dell’equilibrio walrasiano(Hayek, 1935a, 341). Cosa più consueta per il sociologo economico che non perl’economista teorico, Hayek si propone di valutare mercato capitalista epianificazione socialista non come potrebbero essere in «condizioni ideali», manelle «condizioni generali riguardanti la natura umana e le circostanze esterne»(p. 355). Egli osserva dapprima come un’allocazione di vertice delle risorse siacostretta a considerare certe categorie di beni e mezzi di produzione comeomogenee al loro interno, trascurando tutte quelle circostanze particolari le qualifanno sì che, ad es., una macchina utensile della stessa età in un’officina siaancora efficiente ed in un’altra vada sostituita (1935b, 363-4). Pure trascuratisono tutti quei piccoli aggiustamenti locali, spesso legati al knowing how delpersonale, che fanno sì che due aziende con lo stesso macchinario abbiano unaproduttività generale differente (1945, 280-3). Considerazioni simili valgono pergli altri «dati economici» in base ai quali i pianificatori dovrebbero elaborare leequazioni di equilibrio del sistema. La gran parte dei «dati» non sono conoscibilidal vertice, in quanto legati a regole costitutive soggettive quali, ad es., la

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«tecnica di pensiero che permette al singolo ingegnere di trovare […] nuovesoluzioni non appena si trova di fronte a nuove costellazioni di circostanze»(1935b, 365). Inoltre, come segnalare al vertice i dati economici sui gusti delconsumatore, assai eterogenei e mutevoli? L’abolizione della sovranità delconsumatore a favore di una valutazione «politica» da parte dei pianificatorisembra essere l’unica soluzione, come peraltro ammette il socialista Dobb(Hayek 1935b, 368-70). Dalla sua prospettiva basata sulla divisione dellaconoscenza, per Hayek la risposta ai pianificatori è chiara: come già osservato daPareto (1906), Mises (1920) e Weber (1922), «senza un mercato le persone nonsaprebbero che cosa produrre, quanto produrre, e in che modo produrre» (Hayek1994, 199). Di fronte a ciò, all’inizio degli anni trenta i socialisti non avevanoancora indicato alcun meccanismo istituzionale, alternativo ai prezzi di mercato,che fosse anche solo teoricamente plausibile. Messi alle corde, i sostenitori dellapianificazione ammettono la lacuna e controbattono. Con quello che Hayek(1976c, 330) definisce un «grande capovolgimento intellettuale» rispetto aidiscorsi socialisti sul «caos della concorrenza», Lange (1936/7) rilancia l’ideadella pianificazione in un quadro istituzionale definito «socialismo di mercato».Mantenendo un mercato libero dei beni di consumo e del lavoro, Langesuggerisce di istituire un centro pianificatorio e aziende pubbliche locali guidateda manager socialisti. Il centro, come un banditore walrasiano, proporrà una seriedi prezzi per mezzi di produzione e materie prime, le aziende pubblicherisponderanno in base alle aspettative maturate osservando il mercato del lavoro edei beni di consumo. Attraverso tentativi ed errori si raggiungeranno prezzi diequilibrio ed i manager socialisti produrranno in modo da eguagliare prezzi ecosti marginali. Pur essendo operanti meccanismi di mercato, la presenza di unaguida centrale permetterebbe quegli aggiustamenti che impedirebbero crisi,disoccupazione e distorsioni tipiche del capitalismo. Per Lange, il «socialismo dimercato» sarebbe il quadro istituzionale meglio compatibile con la realizzazionedella massima efficienza allocativa come definita dalla scienza economica. Dabuon economista puro, come direbbe Pareto, Lange si stupisce che Mises (1920)sostenga che un’allocazione delle risorse efficiente sia avvicinabile solo inpresenza delle istituzioni del mercato e dello stimolo della proprietà privata.Affermando così, egli osserva, Mises sostiene una netta «institutionalist view»che lo avvicina ad avversari della Scuola austriaca come Marx e gli storicistitedeschi (Lange 1936/7, 62). Invero, l’obiezione di Lange potrebbe essere estesada Mises allo stesso Hayek, e con lui anche a Weber, Pareto e persino Barone(1908, §§56-63), tutti sostenitori del legame sociologico concreto tra mercato,proprietà privata e calcolabilità dell’efficienza economica. Che una simile ipotesi«socioistituzionale» sia accettata da Hayek, è confermato anzitutto dal fatto che,nella sua replica (1940, 401), osserva come «un’eccessiva concentrazione suicostrutti della teoria economica pura abbia fuorviato seriamente» sia Lange(1936/7) che Dickinson (1939). Per Hayek, infatti, l’intera impalcatura del«socialismo di mercato» cerca di mimare la tipica situazione di equilibrio statico,ove la concorrenza come scoperta è bandita e la funzione imprenditoriale èsterilizzata a favore della figura del manager socialista (Hayek 1935b, 383-7).L’austriaco si domanda anzitutto: come fa il centro a stabilire se il manager ha

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prodotto realmente a costi minimi? Le curve di costo possono variare fortementea seconda delle condizioni produttive e delle opportunità innovative locali (1940,406 e 409). Inoltre, se i prezzi sono determinati centralmente per un periodo dato,un manager socialista non ha interesse a comprimere innovativamente le curvedei costi per aumentare le vendite tramite la concorrenza di prezzo (pp. 409-10).Parimenti, egli sarà scoraggiato all’innovazione di prodotto: anche se, comesuggerisce Dickinson (1939, 218-9), incentivato da un sistema di bonus che premigli innovatori, il manager socialista avrà timore di essere giudicato negativamentedal centro nel caso in cui gli investimenti operati non siano andati a buon fine(Hayek 1940, 412-3). Il fatto poi che il centro, giudicando dall’esterno, moltodifficilmente abbia le conoscenze per valutare se il manager fosse in unasituazione favorevole ad innovare, incentiva costui ad un’ulteriore prudenza estaticità (pp. 412-5). Più in generale, il bisogno del centro di valutare se imanager decentrati seguano le regole economiche e le direttive amministrativestabilite avvolgerebbe il sistema in un apparato burocratico dissipatore di risorsee inibitore dell’innovazione (pp. 412 e 417). La comunità degli economisti, apartire da Schumpeter (1954, 1209-15), riterrà prive di valore le obiezionihayekiane al «socialismo di mercato». Ciò si spiega col fatto che esseaffondavano nella sociologia economica e non nell’economia pura. Negli anniottanta, infatti, il fallimento delle riforme di «socialismo di mercato» nei paesicomunisti porterà gli economisti che le promossero a mea culpa per avertrascurato gli aspetti sociologici del problema. Essi si autodefiniranno persino«naive reformers», riconosceranno esplicitamente la piena validità scientifica del«modello predittivo» hayekiano, nonché l’erroneità del modello di Lange (Brus eLaski 1989, cap. V; Kornai 1993).

Pur strenuo difensore del liberismo, la posizione di Hayek sui meccanismi diregolazione della «Grande società» non è assimilabile ad un mero laissez faire.Sin dagli anni trenta, egli ha sempre distinto, sulla scia di Mises (1929), tra unassetto istituzionale che permettesse imprevedibili interventi discrezionali delgoverno per modificare i risultati dell’ordine del mercato, da un lato (Hayek,1973b, 66, 75-6; 1976a, 337-8), e, dall’altro, un arricchimento più o menodeliberato del quadro di regole regolative dell’economia per adattarlo aimutamenti delle dinamiche produttive, anche andando oltre il minimalismoistituzionale del laissez faire (1935a, 340-3; 1944, 83-7; 1949c; 1976c, 332-3).Questa distinzione hayekiana tra «interventismo» e «ordered competition», dauna parte, e «competitive order» con precise basi istituzionali, dall’altra (1949c,111), richiama senz’altro quella weberiana tra regolazione «materiale» e«formale» del mercato. Nel primo caso, Hayek vede un’alleanza tra politici edinteressi -non importa se operai o industriali- volta a garantire posizioni diprivilegio e di immunità dai continui cambiamenti economici ai gruppi megliocapaci di organizzarsi. Per Hayek, la «ordered competition» sfrutta il fatto, giàosservato da Bastiat e Pareto, che gli interventi che essa compie garantisconobenefici concentrati e consistenti ad interessi particolari, a scapito di dannidecentrati e di scarsa entità individuale ad ognuno dei membri del resto dellasocietà. Governi che invece si affidino al «competitive order» del mercato, anchese adeguatamente regolato in modo formale, non beneficiano di questa sorta di

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scambio politico: orientato com’è alla continua scoperta concorrenziale, ilmercato non può garantire ex ante che della sua dinamica benefici questo gruppopiuttosto che quest’altro; per di più, la sua tendenza è a diffondere e non aconcentrare i benefici (1976a, 330-1; 1979, 463-71). La «ordered competition»interventista, inoltre, avrà la tendenza a coinvolgere un numero crescente digruppi organizzati (1949c, 107-8), con il risultato non di una anelata maggiore«giustizia sociale», ma di una distruzione di ricchezza legata al blocco degliadattamenti e delle innovazioni economiche diffusi. Mentre l’egoismo dei gruppiingessa la «Grande società», quello degli individui ne garantisce il continuosviluppo (1979, 463). Caso principe, per Hayek (1980), era quellodell’Inghilterra, dove il meccanismo adattivo dei prezzi era reso inoperante daivincoli imposti alle aziende dalle trade unions, col sostegno istituzionale dellostato. È noto come questa visione di Hayek abbia influenzato esplicitamente lepolitiche dei governi Thatcher (Cockett 1995). L’atteggiamento dell’austriacoverso il keynesismo è daltronde sempre stato negativo anche sul piano scientifico.Hayek lo accusa di «scientismo», in quanto ritiene causali grandezzemacroeconomiche la cui esistenza è solo statistica, a scapito delle forze reali,legate al mutamento dei prezzi relativi e alle dinamiche micro (1966; 1975). Inquesto senso va anche la spiegazione hayekiana della stagflazione keynesiana(Hayek 1975; 1980), che ha costituito una specie di rivincita dell’austriaco dopole sconfitte subite da parte di Keynes a Londra negli anni trenta. Con interesse ilsociologo economico contemporaneo guarda anche all’analisi comparata dicapitalismo tedesco e inglese svolta da Hayek negli anni quaranta. Purriconoscendo che il capitalismo inglese si allontana vieppiù dal liberismo, Hayeknota come la Germania, a partire dalle leggi protezioniste del secolo scorso e poiancor più durante la guerra ed il periodo di Weimar, si inoltri sulla via delcapitalismo organizzato sombartiano. Il 53% del reddito nazionale assorbito daigoverni locali e imperiale già nel 1928, la potenza amministrativa delBeamtenstaat, cartelli industriali sostenuti dalla mano pubblica, presenza deivertici sindacali in molte stanze del potere pubblico e privato, regolazionepervasiva delle attività produttive da parte di stato e organizzazioni degliinteressi, ecc. Tutti segni, per Hayek (1944, capp. 5, 9, 12, 13), indicativi di unmodello alternativo di capitalismo, basato non più su norme formali che regolanola spontaneità economica, ma su un’ingegneria sociale «scientistica» cheindirizza la nazione verso fini sostanziali comuni.

5. Conclusioni: dall’economia alla sociologia

Insoddisfatti del valore euristico di concetti economici come azione razionaleo mercato in equilibrio, Pareto, Weber e Hayek operano un arricchimento diqueste nozioni rendendole maggiormente adatte a cogliere le realtà dell’economiaconcreta. Accanto al calcolo puro, l’automa astratto dell’homo oeconomicusviene a conoscere gli stimoli di residui e derivazioni, moventi tradizionali emateriali, ausilii basati su regole regolative e costitutive. Lontanodall’oggettivismo comportamentista dell’ortodossia, l’attore economico ètratteggiato dai nostri tre autori in modo radicalmente soggettivista, dunque

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aperto all’errore, all’approssimazione, all’ignoranza e agli influssi della societàcircostante. La meccanica impersonale e rarefatta del mercato neoclassico scoprela concretezza dei continui tentativi ed errori, della lotta di prezzo e diconcorrenza a colpi di scoperte, dell’imprevedibilità degli esiti, dei possibilifallimenti. Nella comune critica all’ingenuo economicismo calcolatorio deipianificatori socialisti, centralisti o di mercato che siano, Pareto, Weber ed Hayekenfatizzano il nesso sociologico tra diritti di proprietà, prospettiva del profitto espinta imprenditoriale al miglioramento incessante. La stessa esattezza delcalcolo economico si svincola così da eteree capacità mentali e risultainscindibile dalla spinta alla sopravvivenza della propria impresa. Adun’economia ortodossa che dispiega i suoi meccanismi in un mondo vincolato daparametri esogeni fissi, l’italiano, il tedesco e l’austriaco contrappongono lacapacità degli attori economici di modificare il quadro istituzionale attraverso lamobilitazione sociale e l’alleanza politica: sorgono così le coalizioniprotezioniste e spogliatorie, i gruppi regolativi dell’economia che agiscono conrazionalità materiale ed escludente, l’interventismo guidato dall’egoismo digruppo che immunizza dalle dinamiche di adattamento e scoperta. Nessuno deitre, peraltro, cade nella tentazione «imperialista» di dar conto dei fenomenisociali che circondano la produzione e lo scambio ricorrendo a più raffinatecategorie economiche: al rifiuto del determinismo marxista e dell’economicismoin Pareto e Weber, fa da contraltare la condanna hayekiana della miopeiperspecializzazione e dello «scientismo» di molta economia contemporanea. Allaluce di tutto ciò, l’apporto di Hayek alla comprensione sociologica dell’economianon sembra inferiore a quello di Pareto e Weber.

Nel contributo del viennese alla sociologia economica, accanto allecomunanze con Pareto e Weber, vi sono anche tratti specificamente hayekiani. Iconcetti di mercato come «ordine economico» e «concorrenza come procedura discoperta» sono tra questi. Vi si cerca di conciliare gli aspetti dinamici escompaginanti dell’azione economica con quelli armonici e di equilibrio. Si trattadi nozioni ricomprese nel più vasto e conosciuto concetto hayekiano di «ordinespontaneo», inintenzionale e guidato da regole, opposto all’«ordine deliberato»delle organizzazioni, guidato da comandi. Sono idee sociologiche euristiche,tanto che altrove abbiamo svolto un’applicazione del concetto di «ordinespontaneo» al caso dei distretti industriali (Parri 1997a). Peculiare di Hayek èanche l’insistenza sulle regole regolative e costitutive dell’azione e sulle diverseforme di conoscenza posseduta dagli attori economici. In ciò, l’austriaco apparein linea con l’importanza che la sociologia economica contemporanea dà alleistituzioni (Parri 1996; 1997b). Legata a quella sulle regole è l’enfasi suignoranza, incertezza e limiti della ragione, tema caro alle scienze sociali deinostri giorni e coltivato da Hayek sin dagli anni trenta. In conclusione, la «provadi Pareto e Weber» cui abbiamo sottoposto Hayek ci sembra superata: suomalgrado, egli è diventato anche sociologo!

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