Lfì PLEBE O LO STRfìNIERO INTERIORE - POCHI AMICI · parlano neppure "una lingua che non...

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Lfì PLEBE O LO STRfìNIERO INTERIORE Fulvio, Carnevale fig.14 "Non è una raccolta di ritratti quella che si leggerà: sono delle trappole, delle armi, delle grida, dei gestì, degli atteggiamenti e delle astuzie, degli intrighi di cui le parole sono state lo strumento2". È così che Foucault descrive l'antologia delle Lettres de cachet, estratte dagli Archivi della Bastiglia da Ariette Farge e da mi- manipolo di assidui ricercatori e ricercatrici, pubblicate con il titolo Le désordre desfamilles. Nella celebre prefazione di Foucault, La vita degli uomini infamìj&L- lano "questi ciabattini, questi soldati disertori, questi ambulanti, questi scribac- chini, questi monaci vagabondi, tutti arrabbiati, scandalosi, o miserabili 3 "; costo- ro ci appaiono fugacemente illuminati da una luce che viene d'altrove. Le loro vociferazioni, la loro rivolta, non le riceviamo se non trasmesse dalla grande reto- rica degli scrittori pubblici, creata per abbigliare dei fatti da poco. 1 Questo testo ricalca La plèbe ou l'étranger intérieur, intervento del 16 dicembre 2004 durante il "Colloque Autour de Michel Foucault" organizzato dalTUniversité de Paris Vili Saint Denis - Vincennes. 2 M. Foucault, La vita degli uomini infami, in Archivio Foucault 2.1971-1977, Feltrinelli, Milano 1997, p. 248. 'Ibidem. 135

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Lfì PLEBE O LO STRfìNIERO INTERIORE

Fulvio, Carnevale

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"Non è una raccolta di ritratti quella che si leggerà: sono delle trappole, dellearmi, delle grida, dei gestì, degli atteggiamenti e delle astuzie, degli intrighi di cuile parole sono state lo strumento2". È così che Foucault descrive l'antologia delleLettres de cachet, estratte dagli Archivi della Bastiglia da Ariette Farge e da mi-manipolo di assidui ricercatori e ricercatrici, pubblicate con il titolo Le désordredesfamilles. Nella celebre prefazione di Foucault, La vita degli uomini infamìj&L-lano "questi ciabattini, questi soldati disertori, questi ambulanti, questi scribac-chini, questi monaci vagabondi, tutti arrabbiati, scandalosi, o miserabili3"; costo-ro ci appaiono fugacemente illuminati da una luce che viene d'altrove. Le lorovociferazioni, la loro rivolta, non le riceviamo se non trasmesse dalla grande reto-rica degli scrittori pubblici, creata per abbigliare dei fatti da poco.

1 Questo testo ricalca La plèbe ou l'étranger intérieur, intervento del 16 dicembre 2004 durante il"Colloque Autour de Michel Foucault" organizzato dalTUniversité de Paris Vili Saint Denis -Vincennes.2 M. Foucault, La vita degli uomini infami, in Archivio Foucault 2.1971-1977, Feltrinelli, Milano1997, p. 248.'Ibidem.

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4! j Un ventrilòquio politico mette la sua voce di giudice nei corpi senza storia e la

presenza fisica di questi corpi polarizza la nostra attenzione, quel che resta dadire poi non è altro che l'accanimento ordinario del potere a far parlar i muti.

In un'intervista dello stesso anno, Foucault constatava che "i vinti [...] sonocoloro ai quali per definizione è stata tolta la parola!". E se nonostante ciò par-lano, parlano una lingua straniera che è stata imposta loro. Non sono muti. Nonparlano neppure "una lingua che non avrebbero mai sentito e che ora si sentireb-bero obbligati ad ascoltare. In quanto dominati, gli sono stati imposti una linguae dei concetti" che sono alla fine diventati cicatrici della loro oppressione. "Dellecicatrici, delle tracce che hanno impregnato il loro pensiero [...] e che impregna-no fino agli atteggiamenti del loro corpo. La lingua dei vinti è mai esistita?4".

Alla stessa domanda Spivak rispondeva negativamente nel suo testo Con thèSubalterri Speak?. I subalterni, vittime dunque d'una discriminazione molteplice,legata alla loro posizione ;in seno alla distribuzione geopolitica globale del lavo-ro cosicome alla loro particolare situazione sociale, non possono parlare.L'archeologia del loro silenzio è il nostro compito e gli sfregi che la storia colo-niale ha inferto loro non fanno che confermare e aggravare la diagnosi fòucaul-tiana. Spivak cita, a questo proposito, l'esempio estremo di quelle vedove india-ne che usavano immolarsi sulle pire funerarie dei loro mariti, aggiungendo allaloro scomparsa verbale, culturale e politica, la propria scomparsa fisica.

Che fare allora di questa assenza? Accontentarsi di esumarne le tracce,oppure impegnarsi a rappresentare questo luogo senza luogo, questo spazioaltro, che è il continente degli esclusi da ogni scacchiera politica?

La questione della rappresentanza ritorna con forza nel seguito del testo in cuiSpivak accusa la leggerezza di cui Deleuze e Foucault danno prova nella lorointervista del 1972, pubblicata sotto il titolo Gli intellettuali e il potere. A detta, diSpivak i continui riferimenti alle lotte dei lavoratori hanno l'aria d'esser riveren-ze di circostanza piuttosto che il frutto d'interrogazioni sulla distribuzione geo-politica del lavoro. E come se non bastasse sono accompagnati da una teoriadella rappresentazione secondo la quale Tintellettuale teorico — come scriveDeleuze - ha smesso d'essere un soggetto, una coscienza rappresentante e rap-presentativa. Quelli che agiscono e lottano hanno smesso d'essere rappresentati,foss'anche da un partito o un sindacato che si arrogassero a loro volta il diritto diessere la loro coscienza [...]. Siamo tutti dei gruppuscoli. Non c'è più rappresen-tazione, non c'è che l'azione, l'azione della teoria e quella della pratica in rappor-ti di collegamento o di scambio5". Travolti da un ottimismo un po' affrettato,Deleuze e Foucault finiscono per trascurare il posto che occupano nelTingra-

4 M. Foucault, La torture e est la raison, in Dits et ecrits, tome m, Gallimard, Paris 1994, p. 391.5 M. Foucault, Gli intellettuali e il f etere. Conversazione tra Michel Foucault e Gilles Deleuze,in II discorso, la storia, la -verità, Einaudi, Torino 2001, p. 121.

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Anaggio che vorrebbero denunciare. La rinuncia alla funzione rappresentativadell'intellettuale, anche se animata dalle migliori intenzioni e dalla fiducia

i assoluta nel processo di emancipazione in corso all'epoca (penso tra l'altro ali loro impegno nel Gruppo Informazione sulle Prigioni), aveva per conseguen-

za la violenza epistemica che comporta l'oblio di quelli e quelle che, subalter-ni, colonizzati, esclusi quindi da ogni dialettica con il potere, non avevano

L nemmeno accesso alla lotta.: Ne II diciotto brumaio di Luigi Bonaparte troviamo una precisazione cara a\k sulle due accezioni che il termine "rappresentare" ha in tedesco:; Vertretung significa parlare al posto di qualcun altro mentre Darstellung è un[ termine impiegato per la descrizione, la presentazione, in generale per un uso

artistico. Dovremmo quindi, secondo Spivak, imparare a rappresentare noiI stessi, nel senso di Vertreten, di fronte ai contadini che vivono di sussistenza,

ai lavoratori della terra inorganici, alle tribù e alle comunità degli "zero wor-;; kers" nelle strade delle città e delle campagne e a rappresentarli solamente nel

senso di Darstellen, portandone solo la voce.I Ma il problema rimane irrisolto: appena si cerca di rappresentarli, non si fa\o che descrivere le componenti molteplici e disparate di questa folla\. Anche quando è in gioco soltanto un procedimento antropologicoi o letterario, non si sfugge mai ai rischi della rappresentazione, e la stessaI Spivak si ritrova spesso a stilare la lista dei soggetti subalterni. NeEo stesso! Marx, capo mastro dei più suggestivi pittori di affreschi di vita popolare eI cospiratrice, si può leggere, sempre nel celeberrimo Diciatto brumaio, laI descrizione degH affiliati alla Società del 10 dicembre: "Accanto a roués in dis-| sesto, dalle risorse e dalle origini equivoche; accanto ad avventurieri corrotti,| feccia della borghesia, vi si trovavano vagabondi, soldati in congedo, forzati\i dal bagno, galeotti,evasi, birbe, furfanti, lazzaroni, tagliaborse, ciurma-| tori, bari, ruffiani, tenitori di postriboli, facchini, letterati, sonatori ambulan-I ti, straccivendoli, arrotini, stagnini, accattoni, in una parola, tutta la massa| confusa, decomposta, fluttuante, che i francesi chiamano la bohème6".

"Bohème" è infatti un altro nome che si da a questa folla pittoresca.Benjamin, nello scritto del 1938 che porta appunto il titolo La Bohème, nonce ne svela la genealogia: "Qui - si legge in una nota d'accompagnamento almanoscritto - manca un passaggio di circa sei pagine che abbozza una brevestoria della bohème neEe generazioni. Definisce la bohème dorata di Gautiere di Nerval, la bohème della generazione di Baudelaire, Asselineau, Delvau,infine tutta l'ultima bohème, la bohème proletarizzata di cui Vallès fu il por-tavoce". Questa racconto, non c'è dubbio, sarebbe d'ordine filologico e anco-ra una volta descrittivo, poiché registrerebbe gli slittamenti del significato del

K. Marx, II didotto brumaio di Luigi Eonaparte, Editori Riuniti, Roma 1997, p. 129.

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termine e descriverebbe ogni sorta di umanità del margine che la società sem-pre secerne. E il margine qui descritto non occupa, se non raramente, ildavanti della scena, crea certo uno spazio teatrale, vocifera, grida, gesticola,ma la sua posizione è fantomatica: non accede mai alla Storia e resta confina-to nello spazio effimero dell'aneddoto. Non sono altro che corpi, i corpi ano-nimi, infami del popolo, quelli che contiene per esempio la Parigi notturna diFarge e di Foucault: "La canaglia - si legge nella prefazione firmata daentrambi all'edizione del 1982 di Le désordre desfamilles — che fa paura e affa-scina nello stesso tempo: quella che sembra sempre aggiungere la depravazio-ne alle proprie cattive azioni, quella che non si può veramente .chiamare cri-minale^ che conosce i mille e un rifugio deEa capitale dove nascondere com-plicità, bottini e progetti di avventure, quella che i borghesi credono si iden-tifichi totalmente con il popolo7". Da sempre schermo delle proiezioni e delleinquietudini borghesi, questo mareggio di malandrini e sfortunati, quest'on-da immensa che avanza e si dirama, che si gonfia e svanisce o si blocca perpoi riapparire ancora, è il popolo minuto nella sua massa brulicante, nella suasolidarietà di quartiere, nel suo miscuglio inestricabile di classi industriose epericolose che sarebbe necessario poter dividere una volta e per tutte, affin-chè la borghesia possa dormire sonni tranquilli8.

In un testo del 1995 intitolato Che cos'è un popolo? Giorgio Agambens'interrogava sull'ambiguità intrinseca del termine "popolo", che si ritrovainvariabilmente in tutte le lingue moderne europee. "Popolo" designa sem-pre gli esclusi, i poveri, i diseredati, ma è nello stesso tempo il nome delsoggetto costitutivo della politica. E contemporaneamente l'insieme deicittadini come corpo politico unitario e la molteplicità frammentaria dicorpi bisognosi, "là un'inclusione che si pretende senza residui, quaun'esclusione .che si sa senza speranze; a un estremo, lo Stato totale dei cit-tadini integrati e sovrani, all'altro la riserva — corte dei miracoli o campo —dei miserabili, degli oppressi, dei vinti9".

Agamben intravede nel concetto bipolare di "popolo" l'ombra d'una lineache struttura la frattura biopolitica, la traccia di una spartizione che assegnauna vita alla sfera del bios, dell'esistenza che ha accesso al linguaggio, al sensoe dunque alla politica, e un'altra a quella della zoé, oggetto di dominio, pro-duttrice di un discorso inteso solo come rumore. Il seguito di queste riflessio-ni costituisce la trilogia di cui Homo sacer t il primo volume; questo lavoro sipresenta né più né meno che come il proseguimento di un impensato diFoucault, di un percorso rimasto in sospeso perché bruscamente interrotto

7 A. Farge, M. Foucault, Le désordre desfamilles, Gallimard, Paris 1982, pp. 13-14.3 Cfr. Ibidem.' G. Agamben, Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 31.

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dalla sua morte. Ci sarebbe stato, secondo Agamben, un collegamento possi-bile e mancato tra le analisi di Hannah Arendt ne La condizione umana, chedenunciava l'arrivo às&homo laborans sulla scena della modernità comel'evento che metteva in primo piano la vita biologica in quanto tale, e i can-tieri foucaultiani della biopolitica. Perché la questione principale, che si fasempre più pressante oggigiorno, è quella che interroga il rapporto tra la nudavita e la politica, o, se si vuole, il punto d'indistinzione tra il paradigma giu-ridico istituzionale del potere e il suo modello biopolitico.

Aristotele distingue nella Politica la phoné, la voce che può esprimere ildolore e il piacere e che condividiamo con gli altri viventi, dal logos, appan-naggio umano che struttura la polis poiché esprime il giusto, l'ingiusto, ciò cheè presentabile e il suo contrario.

Nella domanda "in che modo il vivente ha il linguaggio?" si nasconde quel-la che vuole sapere "in che modo la nuda vita abita lo spazio della polis, delpolitico, lei che ha una voce ma non la parola?".

"Vi è politica - scrive Agamben — perché l'uomo è il vivente che, nel lin-guaggio, separa e oppone a sé la propria nuda vita e, insieme, si mantienein rapporto con essa in un'esclusione inclusiva10".

In queste righe si ritrova la problematica che Foucault e Rancière trac-ciano nell'intervista di "Les Révoltes Logiques" che data dello stesso inver-no del 1977, anno in cui La vita degli uomini infami e l'appello sugli unto-relli italiani avevano visto la luce. In questo testo, apparso con il titolo diPoteri e strategie, Foucault parla della plebe come del bersaglio costante ecostantemente muto dei dispositivi di potere. La plebe non è, non è maiuna designazione sociologica. E qualcosa che ha una natura distributiva:c'è della plebe in tutte le classi come un solvente da attivare per reazionechimica, una potenza ,che sonnecchia di un sonno agitato. Non va conce-pita come l'origine né come il soggetto d'ogni rivolta. Lungi dall'essere ilrisultato di una ipostasi è al contrario una definizione negativa che sfuggeo che tenta continuamente di sfuggire al potere; movimento centrifugo,energia inversa, fuga nei corpi, nelle anime, limite, contraccolpo d'ogniavanzata puntuale del potere.

La plebe entra nella cassetta degli attrezzi come l'esatto contrario di unsoggetto da descrivere, essa struttura una "macchina di visione". Ciò checonta non sono i suoi diritti primari cantati dal neoliberismo né la suasostanzializzazione promossa dai neopopulismo, ma è il punto di vista dellaplebe, perché questo punto di vista svela i dispositivi e permette la costru-zione di strategie di resistenza.

La rivista "Les Révoltes Logiques" nasce all'epoca delle grandi monografìe

G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 11.

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dei tenitori paesani, delle biografìe dei fieri uomini del popolo, delle evoca-zioni dei carnevali popolari o delle barbarie plebee. "Al posto del severo pro-letario della scienza marxista — scrive Rancière — si delineava un popolo rumo-roso e colorato [...] ma anche un popolo ben conforme alla sua essenza, benradicato nel suo tempo e nel suo spazio, pronto a passare dalla leggenda delpopolo dal basso alla positività delle maggioranze silenziose11". La reazione almito del popolo rivoluzionario marxista, associato direttamente al crimine dimassa del gulag, faceva sorgere quindi l'immagine di una plebe immacolata espontaneamente insorta, in cui si coniugavano rimmediata positività delcorpo popolare e la pura negatività della resistenza al potere.

Nella triade problematica che riunisce lungo tutti gli anni Settanta '& pro-letariato, il popolo e la plebe, se quest'ultima ricopriva neEa diagnosi diRancière la proiezione del nuovo soggetto rivoluzionario, nel pensiero diFoucault essa diventa l'esatto contrario di un soggetto, e designa un possi-bile spazio di desoggettivazione.

Nel contesto dell'interrogazione foucaultiana sulla critica come risposta allagovernamentalizzazione, la plebe è l'artista anonimo dell'arte di non esseretroppo governati, l'autore del reaày-made transtorico che è l'insieme dellestrategie di resistenza al potere. La plebe sfugge alle statistiche e ai tracciati,presentandosi come il contrario della popolazione. Le sue modalità d'inclu-sione nello spazio politico sono sempre aporetiche, poiché la plebe si ritrova,grazie alla sua natura distributiva, al confine tra logos e phoné, tra linguaggio erumore, la sua esistenza è ciò che contesta in atto, con l'opposizione del suoproprio corpo al potere nell'insurrezione, con la resistenza quotidiana allagovernamentalità, lo spazio del politico come spazio di linguaggio.

Il punto di vista della plebe è quello che ci mostra che i rapporti di poterepassano attraverso i corpi, che lo spazio politico è oggi lo spazio muto dellabiopolitica, dove l'eccezione si distingue appena dalla regola.

La maniera in cui il potere cerca d'orientare la frattura biopolitica che laplebe incarna, tramite il sistema carcerario e il dispositivo giuridico, erastata abbordata da Foucault nel dialogo sulla giustizia popolare del 1972,con Benny Lévy e Andre Glucksmann. Il tribunale con la sua specificaarchitettura, con il tavolo che divide i giudici dai giudicati, che è la rappre-sentazione spaziale della neutralità, anche nella sua forma popolare e rivo-luzionaria non si presta e non si presterà mai a risolvere le contraddizionitra proletari e borghesi, perché la sua funzione principale è conservatrice eantisediziosa. Questo tavolo con le sedie su entrambi i lati ha stòricamenteprodotto la linea di separazione che spezza le insurrezioni, che divide la plebedai proletari. Questo dispositivo ha sempre estratto dalla massa confusa del

11J. Rancière , Les Scènes dupeuple: Les Révoltes Logiqttes 1975-1985, Horlieu, Paris 2003, p. 8.

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popolo la teppaglia emarginata, pericolosa, minacciosa, inviandola in prigio-ne, all'ospedale, nelle galere, nelle colonie. E non è affatto sorprendente checi si accanisca a dipingere il ritratto immorale della plebe, dato che, nelladistinzione aristotelica, la phoné delle sue vociferazioni, tale e quale al borbot-tio minaccioso di ogni spazio di reclusione, può esprimere la gioia o la pena .ma non attinge al giusto e all'ingiusto.

Il 1977, l'anno in cui Foucault lavorava più intensamente a questi proble-mi, fu in Italia l'anno della plebe. Ci sono ragioni per credere che sia stato unospettatore attento di questi avvenimenti, che non sia stato affatto soddisfattodella loro versione ufficiale, quella degli anni di piombo, del terrorismo diStato, di una lotta puramente reattiva per ripristinare una democrazia minac-ciata dal passato fascista - non a caso lo si ritrova tra i firmatari dell'appellolanciato da Guattari contro la criminalizzazione del movimento.

Il '77 in Italia fu l'anno che non si commemora perché è stato il momentoin cui le separazioni che strutturano.la nostra vita presente sono state piùduramente messe in discussione : quella tra tempo libero e tempo di lavoro,tra produzione e consumo, tra pace e guerra, tra pazzi e sani di mente, trauomini e donne. Si racconta di un'onda di politicizzazione di massa che avevaintaccato persino le radici della società civile, questi pilastri della formazionedei giovani che erano la scuola eia famiglia. Il bisogno di comunismo, l'affer-mazione orgogliosa della propria estraneità, l'autonomia operaia concepitacome rifiuto del lavoro alienato dentro e fuori dalla fabbrica hanno provoca-to la messa in crisi delle strutture militanti classiche e l'autodissoluzione dellamaggioranza dei gruppi. Già nel '73 il Gruppo Granisci scriveva nellaProposta per un modo differente di fare-politica: "Non è più possibile rivolgersida avanguardie a avanguardie con un linguaggio parrocchiale da esperti dellapolitica [...] e non riuscire a parlare concretamente di noi e delle nostre espe-rienze. Perché la coscienza e le spiegazioni devono diventare evidenti attra-verso una esperienza delle proprie condizioni, problemi e bisogni e non soloattraverso teorie che descrivono meccanismi12". Il logos proposto dalla politicatradizionale appariva del tutto inadatto, i componenti dei gruppi si sentivanoparlati, attraversati da una parola che non li trasformava e per questo conta-vano di disfarsene mettendo in disuso la loro soggettività militante, mesco-landosi all'insurrezione generale. Un protagonista dei fatti racconta con degliaccenti incontestabilmente foucaultiani la sua posizione di piccolo capo nelladinamica gruppuscolare e il suo malessere rispetto all'uso deEa lingua in que- \p contesto. "Il leaderino — dice - è quello che si convince di essere sempre

stato un comunista, un vero rivoluzionario, e non si chiede che cosa sia la tra-sformazione concreta di se stesso e degli altri [...]. Il leaderino è quello che

12 N. Balestrini, P. Moroni, L'orda (foro, Feltrinelli, Milano 1997, p. 508.

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durante le assemblee che vanno male o perché si crea il silenzio o perché ven-gono espresse posizioni politiche diverse da quelle del proprio gruppo, sisente in dovere di intervenire per riempire il vuoto del silenzio o per afferma-re la giustezza della propria linea su quella degli altri13".

Si attribuisce al movimento femminista degli anni Settanta un ruolo moltoimportante nella propagazione del desiderio di desoggettivazione e di ricercadi una parola differente così come di una presenza più anonima, meno gerar-chicamente definita nelle relazioni. Il ramo più avanzato del movimento fem-minista - che aveva sicuramente una coscienza acuta della natura biopoliticadel potere - esaltava per questo la delegificazione. Queste donne, nel belmezzo delle lotte per la legalizzazione dell'aborto, la penalizzazione dello stu-pro, l'applicazione della politica delle quote, domandavano il silenzio dellalegge sui loro destini e sui loro corpi, che da sempre erano stati assegnati aldominio della phoné, della lingua immorale delle emozioni. Una delle loroparole d'ordine era "non credere di avere dei diritti", che vuoi dire: non cre-dere di essere inclusa nel dispositivo che fino a ieri ti ha rigettato senza che lafrattura biopolitica ti attraversi da parte a parte. Un opuscolo femminista ita-liano del 1976 pubblicava una lettera firmata Lia: "II ritorno del rimossominaccia tutti i miei progetti di lavoro, di ricerca, di politica. Li minaccia o èla cosa realmente politica in me, a cui si dovrebbe dare sollievo, spazio? [...].Il mutismo — continua — metteva in scacco, negava quella parte di me chevoleva fare politica, ma affermava qualcosa di nuovo. C'è stato un cambia-mento, ho preso la parola, ma in questi giorni ho capito che la parte afferma-tiva di me stava occupando di nuovo tutto lo spazio. Mi sono convinta che ladonna muta è l'obiezione più feconda alla nostra politica. Il non-politico scavadei cunicoli che non dobbiamo riempire di terra". Quando si cerca di fareastrazione del corpo positivo delle donne fatto di apparenza, che sembra fattoper essere descritto, così come quello della bohème, del popolo della strada,per dare loro un corpo politico, il silenzio dei vinti lo mette in scacco o la lin-gua straniera che si impone loro riempie i tunnel delle vere contraddizioni.

Nel 1976 una partecipante alla riunione di Pinarella riferisce un'espe-rienza meno frustrante: "Dopo la prima giornata e mezza mi è capitata unacosa strana: al di sotto delle teste che parlavano, ascoltavano, ridevano,c'era il mio corpo che trovava uno strano modo di farsi parola". Questamaniera di farsi parola del corpo è detta strana perché scombina le geome-trie rassicuranti della soggettività, e non rappresenta nient'altro che l'equi-librio fragile dell'esclusività inclusiva della nuda vita, la parola momenta-neamente ritrovata della plebe.

È bene ricordare che questo laboratorio straordinario di forme di vita fu

13 Ivi, pp. 505-506.

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chiuso di forza da un'incarcerazione di massa che vide quarantamila personedenunciate, quindicimila arrestati, quattromila condannati a migliaia di annidi prigione, centinaia di morti e di feriti da ogni parte. Alcuni intellettuali

S della sinistra istituzionale fornirono la teoria a questa operazione poliziesca.Alberto Asor Rosa, ex operaista, scrive nel 1977 Le due società, la cui tesi prin-cipale può essere riassunta in questo modo: la crisi determina la disoccupazio-ne, i più coinvolti sono i giovani, la disoccupazione significa marginalitàrispetto al sistema del lavoro produttivo che è quello effettuato in fabbrica, lamarginalità produce poi l'isolamento e la disperazione che si traducono in

. esplosioni di violenza irrazionali. Questi soggetti marginali - che dovrebberoessere operai ma non lo sono — sono la seconda società che è cresciuta a fian-co della prima, forse a sue spese ma senza mai guadagnarci qualcosa e poter-si radicare nell'ambiente operaio. La criminalizzazione generalizzata di unamolteplicità enorme di esperienze, tutte soffocate nell'unico sacco della lottaarmata, si prolunga ancora oggi nel commercio ignobile dei ministeri degliinterni francese e italiano per rimpatriare gli esiliati protagonisti dei fatti diormai trent'anni fa, accusati con procedure sommarie, mantenuti costante-mente in stato d'eccezione in prigione come in esilio.

Appena diventa impossibile parlare di moltitudini pittoresche e colorateche animano il grigiore dello spazio pubblico, la plebe prolunga la sua ombrasilenziosa sui corpi, la separazione s'impone. I criteri che strutturano questadivisione sono molto vicini ai riflessi che animano ogni razzismo: l'incom-prensione, la generalizzazione, il fatto di non capire la lingua di questa poli-tica, di non capire una domanda che non si rivolge più all'apparecchio giuri-

': dico che raccoglie le rivendicazioni e le dimentica, ma al volto biopolitico delpotere che capisce solo l'idioma deEa presenza dei corpi.

Nel 2001 a Genova un contro vertice aveva riunito qualche migliaio dipersone venute da tutta Europa. Ciò che conta nella storia di questa pic-cola insurrezione è che la traccia che ne resta è un ricordo di violenza muta.Alcuni tra i partecipanti agli scontri, che sono stati chiamati black blocperché portavano degli abiti scuri, avevano attraversato i quartieri accessi-bili di una città completamente blindata e distrutto qualche oggetto sulloro passaggio. Una divisione è stata stabilita in questa occasione tra mani-festanti violenti e non violenti, ed è difficile credere che ci si sia sofferma-ti sulla violenza di questo piccolo scasso mentre nello stesso momento lapolizia e i carabinieri, in numero esorbitante, sparavano a più riprese nellacittà pallottole ad altezza d'uomo, uccidevano un manifestante, picchiava-no migliaia di persone nelle strade e ne torturavano altrettante protetti dalsegreto delle caserme. È strano anche sentire, nelle versioni fornite damolti partecipanti o dai media, che questi manifestanti violenti non eranodegli italiani (essi provenivano, come ogni altro flagello, dalle frontiere cheavrebbero dovuto essere più sorvegliate) oppure che erano dei poliziotti

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infiltrati, il che spiegherebbe il loro volto coperto. Ai giorni nostri, chesono quelli della deleuziana "società del controllo", può darsi che la cre-scente angoscia verso l'anonimato spinga a voler ridurre, tradurre, sma-scherare la plebe addirittura associandola - nella confusione della paura -al volto senza volto dei guardiani dell'ordine pubblico.

Nel terzo tomo di Homo sacer Agamben mostra che una delle caratteri-stiche dello stato d'eccezione è l'applicazione di misure di polizia all'inter-no del territorio d'uno Stato, che si utilizzano normalmente soltanto inpaso d'invasione straniera.

Ma questo oggetto della nostra paura, cui vorremmo tanto poter dare ilvolto .dell'altro, del barbaro, dello sconosciuto, non viene a noi da nessunafrontiera, da nessuna classe pericolosa.

In ciascuno di noi la plebe sutura giorno dopo giorno la frattura biopo-litica per trasformarla in cicatrice finalmente dicibile.

Perché la plebe è il nostro straniero intcriore.

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