LETTURE WEB 2ECO 109 140 - hoepli.it · Per la Francia il discorso di Sarkozy è una rivincita...

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Indice 2 economia VOLUME Copyright © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2009 Indice ECONOMIA VOLUME 2 UD 10 eco. L1 Francia contro il dollaro da De Gaulle a Sarkozy 109 UD 10 eco. L2 La battaglia del denaro di plastica 111 UD 11 eco. L1 Inflazione al 3,8%, record dal ‘96. Volano i prezzi alla produzione 113 UD 11 eco. L2 Euro: ok alla Slovacchia dal 1° gennaio 2009 114 UD 12 eco. L1 Il Governatore della Banca d’Italia alla Bocconi. Draghi: «Crisi drammatica. Per fortuna c’è l’euro» 115 UD 13 eco. L1 Le poste italiane e il modello Deutsche Bank 117 UD 13 eco. L2 Fidi a breve, rischio tagli 118 UD 14 eco. L1 Fmi: «È la crisi peggiore dal 1930». Eurostat: Pil della zona euro cede lo 0,2% 120 UD 14 eco. L2 Gli errori, la bufera e il capitalismo «sostenibile» 122 UD 15 eco. L1 Cina, fine dei prezzi stracciati. Ora Pechino esporta inflazione 124 UD 15 eco. L2 Alla Giornata mondiale dell’alimentazione il monito di Diouf: “Solo un decimo dei 22 miliardi promessi sono davvero stati dati” 126 UD 16 eco. L1 Il liberismo e la speranza 128 UD 16 eco. L2 E ora la grande crisi del cibo può frenare la globalizzazione 131 UD 17 eco. L1 L’umanità è «lacerata» da «spinte di divisione e sopraffazione» 134 UD 17 eco. L2 «La globalizzazione? Può essere dolce» 135 UD 17 eco. L3 Contro il mercato della fame e della sete 138

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ECONOMIA VOLUME 2UD 10 eco. L1

Francia contro il dollaro da De Gaulle a Sarkozy 109UD 10 eco. L2

La battaglia del denaro di plastica 111UD 11 eco. L1

Inflazione al 3,8%, record dal ‘96. Volano i prezzi alla produzione 113UD 11 eco. L2

Euro: ok alla Slovacchia dal 1° gennaio 2009 114UD 12 eco. L1

Il Governatore della Banca d’Italia alla Bocconi. Draghi: «Crisi drammatica. Per fortuna c’è l’euro» 115

UD 13 eco. L1Le poste italiane e il modello Deutsche Bank 117

UD 13 eco. L2Fidi a breve, rischio tagli 118

UD 14 eco. L1Fmi: «È la crisi peggiore dal 1930». Eurostat: Pil della zona euro cede lo 0,2% 120

UD 14 eco. L2Gli errori, la bufera e il capitalismo «sostenibile» 122

UD 15 eco. L1Cina, fine dei prezzi stracciati. Ora Pechino esporta inflazione 124

UD 15 eco. L2Alla Giornata mondiale dell’alimentazione il monito di Diouf: “Solo un decimo dei 22 miliardi promessi sono davvero stati dati” 126

UD 16 eco. L1Il liberismo e la speranza 128

UD 16 eco. L2E ora la grande crisi del cibo può frenare la globalizzazione 131

UD 17 eco. L1L’umanità è «lacerata» da «spinte di divisione e sopraffazione» 134

UD 17 eco. L2«La globalizzazione? Può essere dolce» 135

UD 17 eco. L3Contro il mercato della fame e della sete 138

Francia contro il dollaro da De Gaulle a Sarkozy Proponiamo di seguito una lettera di Giorgio Vergili a Sergio Romano e la relativarisposta apparse sul “Corriere della sera” del 28 settembre 2008, in cui viene svolta un’attenta analisi dei nodi dell’attuale crisi mondiale e sono illustrati i motivi per cui urge una nuova Bretton Woods.

La gravità della crisi rende urgente una nuova Bretton Woods per stabilire che: 1) laFederal Reserve, la maggiore responsabile del disastro, sia dotata di uno statuto simile aquello della Banca Centrale Europea che la protegga dalle pressioni politiche; 2) anchegli Usa debbono rispettare i parametri di Maastricht, perché la preoccupante crescita deldebito rischia di provocare la fuga degli investitori dai titoli pubblici con conseguente ulte-riore deprezzamento del dollaro.Con l’occasione, si dovrebbe cercare di convincere finalmente la Cina a rivalutare lo yuan(o remimbi) in modo da porre un freno all’esportazione di merci cinesi e rendere piùcompetitivi i prodotti occidentali.

Giorgio Vergili

Caro Vergili, ricordo ai lettori che gli accordi di Bretton Woods furono stipulati nel lugliodel 1944 in una cittadina del New Hampshire. La guerra non era ancora finita, ma i rap-presentanti di 44 Paesi alleati affrontarono i mali che avevano afflitto l’economia e lafinanza mondiali dopo la Grande guerra e la recessione del 1929. Occorreva ristabilire laconvertibilità delle monete e creare istituzioni che fornissero liquidità agli Stati in crisi e aiPaesi in via di sviluppo. Mentre un famoso economista britannico, John Maynard Keynes,avrebbe preferito creare una nuova unità monetaria, il bancor, gli Stati Uniti insistetteroperché la moneta di riferimento fosse il dollaro. Nacque così un ordine monetario in cuiogni Paese avrebbe fissato il cambio della propria moneta in dollari, e il dollaro, a suavolta, sarebbe stato convertibile in oro: un sistema solare in cui tutte le monete avrebbe-ro ruotato intorno a quella degli Stati Uniti.Il sistema si ruppe nel 1971 quando la guerra del Vietnam costrinse il presidente Nixon asospendere la convertibilità del dollaro in oro. Ma il dollaro non smise di essere la mone-ta di riferimento del sistema monetario. La finanza mondiale fu da allora, per molti aspet-ti, ancora più americana di quanto fosse stata precedentemente. Gli Stati Uniti non eranopiù soggetti all’obbligo della convertibilità, ma continuarono a scrivere le regole del capi-talismo e della finanza mondiali. Le leggi si facevano a Washington, le regole si fissavanoa Wall Street, e gli altri Paesi avrebbero dovuto adeguarsi al Galateo del capitalismo finan-ziario degli Stati Uniti. Ce ne accorgemmo tra l’altro quando il grande scandalo dellaEnron, nel 2001, provocò una legge del Congresso (il Sarbanes-Oxley Act del 2002) checomplicava considerevolmente la quotazione a Wall Street delle società europee perazioni. Quando ha criticato pubblicamente gli errori del capitalismo finanziario america-

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no e proposto di fronte all’Assemblea generale dell’Onu la convocazione di uno specia-le G8, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha chiesto, di fatto, una nuova BrettonWoods: un’idea che Giulio Tremonti aveva cominciato a far circolare in Italia sin dallascorsa primavera. Per la Francia il discorso di Sarkozy è una rivincita storica. La prima battaglia contro il dol-laro fu quella del generale De Gaulle verso la metà degli anni Sessanta. Con l’aiuto di uninfluente monetarista francese, Jacques Rueff, il presidente della V Repubblica denunciòpiù volte la pericolosa egemonia del dollaro. La decisione di Nixon nel 1971 gli avrebbefornito munizioni per una nuova e più decisiva offensiva. Ma il generale era morto e laFrancia, dopo le ripercussioni finanziarie della «rivoluzione studentesca» del 1968, nonera più in condizione di dare battaglia. Sarkozy sembra deciso a raccogliere, con qualchepossibilità di successo, l’eredità incompiuta di De Gaulle.

Sergio Romano

Fonte: “Corriere della sera”, 28 settembre 2008

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La battaglia del denaro di plastica Che uso fanno gli italiani delle carte? Come si collocano in Europa in tale settore? Perché gli italiani sono ancora diffidenti di fronte a questi mezzi di pagamento? L’articolo che segue risponde alle domande appena poste.

Scena uno, la cassa si apre. «Sconto contante?». La cassa si chiude. La negoziante mila-nese di via Moscova paga alle banche il 2% su ogni incasso con il PagoBancomat, il 3%per CartaSì, il 3,5% per American Express. Al cliente che salda cash può abbassare iprezzi, affare fatto. Scena due, la cassa si apre. «Non accettiamo carte, prelevate al Ban-comat». La cassa si chiude. Lo chef Davide Oldani del D’O di Cornaredo chiede solo ban-conote: «Con quello che risparmio tengo bassi costi e prezzi».L’ha detto il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi il 14 giugno, l’aveva ricordatoil viceministro dell’Economia Vincenzo Visco in dicembre. L’Italia è sotto allarme: troppocontante. Siamo il fanalino di coda d’Europa per utilizzo del denaro elettronico. Novepagamenti su dieci sono cash: il 91,1% contro il 60,6% dei francesi, il 69% degli inglesi,l’82% dei tedeschi. Usiamo le carte di credito e di debito soltanto nel 3% delle transazio-ni, a Parigi e Londra è il quintuplo (16% e 17%). Per il sistema è un costo: 10 miliardi dieuro stima l’Abi, senza contare la pubblica amministrazione; 12-15 miliardi tutto compre-so, giudica CartaSì. Sono i soldi spesi per trasportare le banconote, assicurarle, contarle,impacchettarle. È un quinto dei costi di gestione del contante di tutta Europa: 50 miliar-di. Ed è un terzo di tutte le transazioni di denaro passate su suolo italiano l’anno scorso:34,9 miliardi di euro. Qualcosa si muove. La «war on cash», guerra al contante, sta ini-ziando anche da noi. Mercoledì partirà la campagna delle Poste «Zero contanti, più con-tenti». Ed entro l’anno «è prevista una campagna di sistema», annuncia Roberto Tittarel-li, direttore generale di Mastercard Italia, che riunirà l’Abi, Mastercard, Visa e AmericanExpress, «per accelerare l’utilizzo delle carte». Sarà d’aiuto anche la migrazione alla Sepa,l’area europea dei pagamenti che dal 2008 renderà omogenee commissioni e carte intutta Europa, per la quale le banche italiane spenderanno 1,5 miliardi.Ma perché in Italia circola ancora tanto contante? Eppure l’offerta c’è: «Oltre 50 milioni dicarte, quasi un milione di Pos per leggere i PagoBancomat, 8 milioni di clienti con contionline», elenca Domenico Santececca dell’Abi. Perché soltanto la metà dei 31,3 milioni dicarte di credito sono attive? Perché i Pos sono 925 mila e gli operatori del commercio 1,6milioni, quasi il doppio? Chi sono i «nemici» della moneta elettronica, i cavalieri del cash?Con sintesi estrema ne abbiamo individuati quattro: 1) l’evasore, il titolare di partita Iva chefa pagare in nero; 2) l’hacker, il pirata informatico che ruba i codici delle carte; 3) il picco-lo esercente, che non ha potere contrattuale per ribassare le commissioni delle carte; 4)infine, per paradosso ed estensione, il banchiere, per il doppio ruolo. Da un lato spingeinfatti alla diffusione delle carte per abbattere i costi di struttura, dall’altro deve tenere altele commissioni, essendo le banche socie dei circuiti delle carte di credito: Visa è un’asso-

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ciazione di banche, Mastercard una spa partecipata da banche, lo stesso CartaSì, primoazionista Intesa-Sanpaolo al 36,7%. Questi quattro profili corrispondono ai quattro frenialla diffusione della moneta elettronica nel nostro Paese (oltre alla resistenza sociocultura-le). Vediamoli. Il primo freno è l’evasione: la carta di credito o il bonifico lasciano tracce.Nel rapporto Istat 2006 (dati al 2004) si dice che l’economia sommersa in Italia copre il16,6-17,7% del Pil: sono 230-240 miliardi di valore aggiunto non dichiarato, di cui l’80%nei servizi. «L’uso del contante nasconde la criminalità economica », dicono al ministerodell’Economia e sottolineano i tre provvedimenti presi. Uno è la Finanziaria 2007, che halimitato a mille euro il pagamento in contanti ai fornitori di servizi (obiettivo 100 euro nel2009). L’altro è il disegno di legge Bersani che chiede l’obbligo, per la pubblica ammini-strazione, di accettare i pagamenti elettronici: «Ora sia applicato dal governo», esortal’Abi. Il terzo è il decreto anti-riciclaggio in arrivo, che vieta il trasferimento di contantiquando il valore dell’operazione supera i 5 mila euro. «Bisogna fare emergere le falle del-l’economia sommersa», dice Giorgio Avanzi, direttore generale di CartaSì. Che ha unprogetto: convenzionare commercialisti, notai, dentisti, farmacie, agenzie assicurative.«Investiremo alcuni milioni per installare i terminali», dice. Sono in fase pilota: «Abbiamoalcune migliaia di adesioni».Il secondo freno è la sicurezza. L’Abi calcola che il numero delle frodi con carta di credi-to sia in calo, da 56.507 nel 2004 a 40.600 nel 2006, –28%. E Davide Steffanini, diret-tore generale di Visa Europe, reputa «in un euro ogni mille il livello fisiologico delle frodi:lo stesso del contante». Ma molti consumatori sono ancora restii all’uso della carta, soprat-tutto online. «Il cliente venga assicurato contro l’hackeraggio», propone Gustavo Ghidini,presidente onorario del Movimento consumatori. Il terzo freno è la frammentazione delcommercio italiano. Tre piccoli esercenti su 10 non accettano le carte. Le commissioni chepagano sono un mistero: nessun dato ufficiale. Sembra siano in calo, quelle medie diCartasì sarebbero scese dall’1,81% del 2005 all’1,69% di oggi. Ma si sa che la grandedistribuzione paga molto meno, anche lo 0,2%. Mentre il piccolo esercente arriva al 4%per la carta di credito e al 2% per il PagoBancomat. «È meno del costo di gestione delcontante», dice l’Abi. E Isabella Artioli, responsabile monetica in quella Unicredit che hainvestito 120 milioni in tre anni per potenziare i servizi «cashless», parla di «contrattazio-ne». Il nodo però sono le commissioni interbancarie (lo 0,8%, dice CartaSì) che la bancadi chi paga gira a quella di chi riceve. Dure da abbattere. «Per il PagoBancomat versiamouna quota fissa e una percentuale – dice Ernesto Ghidinelli, responsabile credito in Con-fcommercio –. Capiamo che è perché ci sono commissioni a livello interbancario. Il pro-blema è l’entità. In Francia le commissioni ai commercianti sono più basse». «Stiamo cer-cando un trattamento agevolato per le piccole transazioni», annuncia Steffanini di Visa. Eil quarto freno? L’ambivalenza delle banche, che con una mano danno e con l’altra tolgo-no. Loro sostengono che «prevale l’interesse alla diffusione della monetica». Sarebbe unbene per tutti. Unicredit ha calcolato che dimezzando le operazioni allo sportello sipotrebbe abbassare di 40 euro l’anno il costo del conto corrente.

Fonte: Alessandra Puato, “Corriere della sera”, 2 luglio 2007

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Inflazione al 3,8%, record dal ‘96. Volano i prezzi alla produzioneL’articolo seguente fa il punto sull’attuale impennata dell’inflazione e prende in considerazione i beni che più ne hanno risentito.

ROMA – Inflazione record; prezzi alla produzione alle stelle. I dati Istat e le stime di Euro-stat, l’ufficio statistico delle comunità europee, delineano una crisi economica grave. Agiugno l’inflazione è salita al 3,8%. Pasta e benzina schizzano verso l’alto: gli spaghetticostano il 22% in più rispetto ad un anno fa; la benzina in un mese è aumentata quasidel 5%. Nel 2007 costava il 12,6% in meno. Un grido d’allarme che si ripete in tutta l’eu-rozona. Seguono lo stesso trend anche i prezzi alla produzione dell’industria italiana: amaggio sono aumentati del 7,5%, la variazione tendenziale massima da gennaio 2003.Come pure il dato su base mensile, che è aumentato dell’1,5%.

L’INFLAZIONE SEGUE L’INFIAMMATA – A giugno l’inflazione è salita al 3,8%, dal 3,6%di maggio portandosi ai massimi dal luglio 1996. Su base mensile i prezzi sono aumenta-ti dello 0,4%. Un grido d’allarme che si ripete in tutta l’eurozona. A giugno, l’inflazionenella zona euro ha raggiunto quota 4%: è la prima volta dalla nascita di eurolandia, nel1999. A maggio nell’eurozona l’inflazione era 3,7%; ad aprile 3,3% e a marzo 3,6%.

BENZINA E ALIMENTARI ACCELERANO L’INFLAZIONE – Sono ancora alimentari ecarburanti le voci che fanno accelerare l’inflazione a giugno in Italia. In base ai dati forni-ti dall’Istat nella stima preliminare, i prodotti alimentari sono cresciuti del 6,1%, con unforte incremento soprattutto per la pasta i cui prezzi salgono in un anno del 22,4% (dal20,7% di maggio). In forte tensione anche il comparto energetico (oggi nuovo massimostorico del petrolio, per la prima volta venduto a 143 dollari al barile), dove si registra unaumento dei prezzi del 14,8% annuale e del 2,8% su base mensile. L’aumento congiun-turale è dovuto soprattutto ai carburanti, in particolare al gasolio, i cui prezzi in un mesesono cresciuti del 5,5%, portando l’aumento tendenziale a sfondare il 31,2% (dal 26,3%);la benzina in un mese è aumentata del 4,7% e in un anno del 12,6%.

RECORD PREZZI ALLA PRODUZIONE – Come per l’inflazione, è ancora l’energia chepesa maggiormente sulla variazione record dei prezzi alla produzione. Su base annua, ilraggruppamento energia ha registrato un aumento del 21,5%. Rispetto al maggio di unanno fa, schizzano verso l’alto i prezzi della produzione dei prodotti petroliferi raffinatiche aumentano del 32,1%. Elettricità, gas e acqua salgono del 12,9%, mentre alimentari,bevande e tabacco costano alla produzione il 10,1% in più rispetto al 2007. Simile lacurva degli aumenti dei prezzi della produzione su base congiunturale, la benzina segnaun più 10,3%, mentre l’energia elettrica, il gas e l’acqua salgono in un mese del 2%.

Fonte: “la Repubblica”, 30 giugno 2008

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Euro: ok alla Slovacchia dal 1° gennaio 2009L’articolo che proponiamo di seguito fornisce un quadro sulla zona euro e ne annuncial’ulteriore ampliamento.

STRASBURGO – La Slovacchia dal 1° gennaio 2009 sarà la sedicesima nazione ad adot-tare l’euro. Il Parlamento europeo con 579 voti a favore, 17 contrari e 86 astenuti hadetto sì a Bratislava nell’eurozona, ma ha detto anche che l’attenzione deve rimanere altasul tasso d’inflazione, che rischia di superare in futuro i parametri di Maastricht. Sonostate respinte le posizioni più estreme espresse il 30 maggio da due europarlamentaritedeschi del Ppe, che chiedevano di rinviare al 2010 l’allargamento della zona euro allaSlovacchia. L’Europarlamento di Strasburgo ha accolto in parte le loro critiche, sottoline-ando che «il rapporto sulla convergenza 2008 della Bce individua alcuni rischi relativi allasostenibilità del tasso di inflazione» raggiunto dalla Slovacchia.

INFLAZIONE – Uno dei cinque parametri fissati dal Trattato di Maastricht prevede cheun Paese candidato all’eurozona debba avere un tasso d’inflazione che non superi – inmaniera «sostenibile» – dell’1,5% l’inflazione media su dodici mesi dei tre Paesi più vir-tuosi dell’Ue. Secondo l’ultima rilevazione Eurostat, l’inflazione media in Slovacchia amaggio ha raggiunto il 2,6%, un punto percentuale sotto il tetto di Maastricht. Ma la ten-denza è al rialzo dei prezzi, come dimostra il dato anno-su-anno di maggio: 3,7%.

INGRESSO – L’ingresso della Slovacchia nell’eurozona è già stato approvato dalla Com-missione europea e dai ministri dell’Economia e delle finanze (Ecofin), che nella loro pros-sima riunione dell’8 luglio dovrebbero fissare il tasso di cambio definitivo tra corona slo-vacca ed euro.

LE SEDICI NAZIONI – Con l’entrata della Slovacchia le nazioni dell’euro diventano sedi-ci. Le altre quindici sono: dal 1° gennaio 2002 Italia, Portogallo, Spagna, Francia, Irlanda,Lussemburgo, Olanda, Belgio, Germania, Finlandia, Austria, Grecia; dal 1° gennaio 2007Slovenia; dal 1° gennaio 2008 Malta e Cipro. Oltre a queste emettono monete in euroanche Città del Vaticano, San Marino e Principato di Monaco. L’euro è anche la monetalegale di Andorra, Bosnia, Montenegro e Kosovo, che però non emettono monete o ban-conote proprie.

Fonte: “Corriere della sera”, 17 giugno 2008

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Il Governatore della Banca d’Italia alla Bocconi.Draghi: «Crisi drammatica. Per fortuna c’è l’euro»Nell’articolo che proponiamo di seguito, il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi,in un suo intervento all’Università Bocconi di Milano, esprime il suo parere sull’attuale crisie sottolinea i vantaggi della moneta unica come garanzia di stabilità.

MILANO – Secondo Mario Draghi «stiamo affrontando la più drammatica crisi degli ulti-mi decenni». Ma, rispetto a quella degli anni ‘30, ci sono «alcuni vantaggi tangibili» chederivano dalla moneta unica. Il governatore della Banca d’Italia lo ha detto nel suo inter-vento “Financial stability and growth: the role of the euro” alla Bocconi, in occasione deldecennale dell’euro. La moneta unica, ha spiegato Draghi, «è stata un essenziale elemen-to di stabilità. I vantaggi tuttavia non si limitano al suo ruolo: l’euro è stato anche un cata-lizzatore di cambiamenti fondamentali e positivi nell’economia reale, alcuni dei qualisono già molto visibili».

I BENEFICI DELLA MONETA UNICA – «Rimane molto da fare – sottolinea Draghi –per cogliere i benefici della moneta unica e dal mio punto di vista ciò che rimane dafare va nella direzione di una maggiore, piuttosto che minore, integrazione delle nostreeconomie». Vi sono misure che, spiega il governatore, «possono essere prese per rag-giungere questo obiettivo in molte aree e, per prima cosa, nel settore della regolamen-tazione».

RISCHIO DI SPIRALE VIZIOSA – In questo momento il «rischio maggiore» per l’econo-mia globale è rappresentato dalla possibilità che «l’irrigidimento delle condizioni del cre-dito e la fase congiunturale negativa si rafforzino a vicenda in una spirale viziosa». È l’al-larme del Governatore della Banca d’Italia, in occasione del decennale dell’euro. «A que-sto proposito – aggiunge Draghi – ripristinare il normale funzionamento dei mercatiinterbancari a livello globale e nell’area dell’euro è la precondizione per assicurare unflusso di credito stabile a famiglie e imprese, minimizzando l’impatto reale della crisifinanziaria».

NON ESCLUSE NUOVE MISURE – Da governi e banche centrali potrebbero arrivarepresto nuove misure più decise per contrastare la crisi dei mercati finanziari ha ancheaggiunto Draghi. «Non possiamo escludere – ha spiegato – che nel futuro prossimosiano necessari passi ulteriori, e perfino più audaci, per restaurare rapidamente la fiducia,comprese azioni per rafforzare i mercati interbancari».

NUOVE REGOLE – Secondo Draghi «una parte essenziale della cura per uscire dal-

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l’emergenza» finanziaria che stiamo attraversando è rappresentata da progressi «decisivie tangibili» nella «riscrittura delle regole che governano il sistema finanziario globale, inuna prospettiva più strutturale e di medio termine». In particolare, secondo il governato-re, bisogna «concentrare i nostri sforzi per superare velocemente le differenze attualmen-te esistenti nelle procedure di vigilanza a livello nazionale, lavorare per un set di regolepiù armonizzato, fare ulteriori progressi nella cooperazione e nello scambio di informa-zioni tra le Autorità».

Fonte: “Corriere della sera”, 17 ottobre 2008

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Le poste italiane e il modello Deutsche BankPoste italiane S.p.A. costituisce oggi la più importante azienda postale italiana. Le Poste italiane sono nate come ente pubblico con il compito di gestire in monopolio i servizi postali e telegrafici per conto dello Stato. Attualmente sono organizzate in società per azioni, il cui capitale è detenuto dallo Stato italiano per il 65% e Cassa Depositi e Prestiti per il 35%. Il breve articolo che proponiamo di seguito si interroga sul possibile destino di Poste italiane S.p.A. nell’immediato futuro.

Mossa e contromossa. Dopo l’operazione Dresdner-Commerzbank, la regina della ban-che tedesche, la Deutsche Bank ha, per così dire, dato una risposta di sistema. Con l’ac-quisizione degli 850 sportelli della Postbank, il braccio finanziario delle Poste tedesche.Una privatizzazione lampo dopo molti negoziati andati a vuoto. Nulla, però, potremmo dire se paragonati ai numeri italiani. Il motivo? La somma dei due gruppi è molto lontana dalla rete di gruppi come Intesa SanPaolo e Unicredito. Naturalmente perché nel giro di valzer non sono ancora entrate le casse di risparmio, ilvero tessuto bancario del sistema renano. Ma la privatizzazione della Postbank fa venire in mente un dossier che in Italia gira damolto tempo sui tavoli delle decisioni, quello delle Poste Italiane. Una rete che conta oltre14 mila sportelli e che rappresenta ancora un ibrido tra le funzioni postali e quelle pro-priamente finanziarie. Di privatizzazione si parla a intermittenza, ma in molti Dpef è presente la possibilità dicederne una quota (attualmente fa capo al Tesoro e alla Cassa Depositi e Prestiti). Forse è arrivato il momento di decidere se portarla in Borsa o, perché no, se ragionare suuna qualche forma di integrazione con il sistema bancario. Come dire: il modello tedesco potrebbe funzionare.

Fonte: Nicola Saldutti, “Corriere Economia”, 15 settembre 2008

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Fidi a breve, rischio tagliL’articolo che proponiamo di seguito suggerisce le strategie più corrette per le banche nei rapporti con le imprese per superare l’attuale crisi.

Secondo l’ultima indagine sul credito bancario effettuata dalla Banca d’Italia, nel secondotrimestre di quest’anno le banche hanno leggermente irrigidito i criteri adottati per laconcessione dei prestiti alle imprese.E questo per la quarta rilevazione consecutiva.Tra i settori che hanno iniziato ad avvertire la crisi ci sono le costruzioni. Paolo Buzzetti,presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance), commenta: «Prevediamoche il 2008 si chiuderà con un calo dell’1,1% degli investimenti, in un contesto in cui c’ècertamente una stretta creditizia da parte delle banche».La via d’uscita per Buzzetti passa attraverso l’azione “ordinaria” delle banche: «Ben ven-gano strumenti come Confidi o fondi di garanzia, ma nell’immediato sarà fondamentaleil ruolo delle banche nel fornire liquidità a breve termine, così come le misure adottatedal Governo per il piano casa e il rilancio delle infrastrutture».Concorda Rosario Messina, presidente di Federlegno-Assarredo: «Che ci sia maggioredifficoltà di accesso al credito ormai non è una sorpresa, ma le situazioni sono diverse: cisono aziende poco competitive o troppo piccole per reggere i mercati internazionali, equeste sono le prime cui le banche hanno chiesto di rientrare. E poi ci sono aziende insalute, nei confronti delle quali le banche sono diventate molto più prudenti».Le due situazioni, secondo Messina, vanno affrontate diversamente.Per le aziende in difficoltà bisognerebbe aumentare le possibilità d’intervento dei Confi-di: «Potrebbero finanziare le imprese non solo “in conto capitale” ma “in conto emergen-za” per far fronte alle spese correnti». Per le aziende in salute, invece, l’importante è tene-re aperto un canale con le banche, così da evitare l’avvitamento tra diminuzione del cre-dito e discesa delle attività economiche. E proprio per ricreare un clima di fiducia vener-dì scorso Confindustria e Abi hanno deciso di attivare a livello territoriale tavoli di con-fronto diretto tra le associazioni industriali e il mondo bancario locale.Insiste sul dialogo anche Alfredo Mariotti, direttore generale di Ucimu, che riunisce icostruttori italiani di macchine utensili: «Il nostro comparto è ancora leader a livello mon-diale, ma, dato il modello di business, si tratta di gestire i picchi della domanda di liquidi-tà».Dall’ordine alla consegna di una macchina passano da tre a sei mesi ed è difficile ottene-re dall’acquirente più del 10% d’anticipo.Di conseguenza, spesso c’è bisogno di finanziamenti a breve termine: « È importante chele banche conoscano bene il portafoglio ordini e le prospettive di crescita dei propri clien-ti, per non penalizzare operatori in crescita».Alle prese con esigenze cicliche di liquidità è anche il settore tessile. Afferma Luciano

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Donatelli, presidente della Fondazione Biella The Art of Excellence: «I problemi maggioririguardano le Pmi, realtà che spesso effettuano investimenti tecnologici rilevanti senzaavere al proprio interno una direzione finanziaria strutturata». Nei loro confronti, osservaDonatelli, le banche dovrebbero adottare un atteggiamento innovativo, «legando la con-cessione dei prestiti non alle ipoteche, ma alle potenzialità di sviluppo delle aziende. Evalutando la forza delle filiere naturali tipiche dei distretti: in queste situazioni, in cui sei osette imprese coprono fasi diverse di un unico ciclo produttivo, si potrebbe pensare aforme di finanziamento che coinvolgano di fatto tutta la filiera».Esperimento che per Donatelli potrebbe avvenire anche nel distretto dell’oro di Valenzao in quello delle rubinetterie del Verbano-Cusio-Ossola.Sempre nel campo manifatturiero, Vito Artioli, a capo dell’Associazione nazionale calza-turifici italiani (Anci), rileva una sostanziale tenuta degli ordini – confermata anche dallafiera Micam ShoEvent di settembre – e guarda al sistema dei Confidi, «che consente alleaziende di spuntare condizioni di affidamento bancarie migliori rispetto a quelle ottenu-te individualmente, condizioni che potrebbero ulteriormente migliorare se i diversi Con-fidi si consociassero in federazione».

Fonte: Cristiano Dell’Oste, “Il Sole 24 Ore”, 20 ottobre 2008

Le banche e il sistema bancario UNITÀ 13

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Fmi: «È la crisi peggiore dal 1930».Eurostat: Pil della zona euro cede lo 0,2%L’articolo che segue propone un’analisi della fase di recessione che attualmente stiamoattraversando e confronta la situazione dell’Italia con quella della Germania.

BRUXELLES – L’economia globale sta «decelerando rapidamente», quella che stiamovivendo è la «peggiore crisi finanziaria dal 1930». L’allarme lo lancia il Fondo monetarionel suo ultimo «Rapporto sull’economia mondiale», in cui descrive un’economia globaleche rallenta dal +5% del 2007 al +3,9% del 2008, per frenare ancora a +3% nel 2009,un ritmo che molti esperti considerano l’orlo della recessione. Secondo il Fondo moneta-rio internazionale, l’economia mondiale sta «entrando in una crescente depressione eco-nomica a causa del più pericoloso shock finanziario per le economie avanzate dagli anniTrenta». Nel luglio scorso il Fmi stimava l’economia mondiale in crescita del 4,1% nel2008 e del 3,9% nel 2009. Ora però molte cose sono cambiate.

RECESSIONE – Male anche la situazione europea, con l’Italia che piomba in recessione(e ci resterà anche per il 2009) accomunata, in questa marcia all’indietro, a Spagna(–0,2), Gran Bretagna e Irlanda. Il World Economic Outlook dipinge un quadro fosco perl’economia mondiale. Le previsioni per l’Italia degli economisti di Washington sono moltopiù pessimiste di quelle elaborate dal Governo nell’ultimo aggiornamento del Documen-to di programmazione economico-finanziaria che prevedeva per quest’anno una cresci-ta dello 0,1% e per il prossimo addirittura un’accelerazione a quota 0,5%, mentre sonopiù vicini con gli scenari previsionali recessivi elaborati recentemente da Confindustria. Ildato, oltretutto, mantiene il Belpaese nella scomoda posizione di fanalino di coda nellacrescita tra i Paesi del G7, i cui ministri finanziari s’incontreranno venerdì a Washingtonproprio a margine degli incontri annuali del Fmi. Con la recessione in Italia è previsto uncrollo dell’inflazione, che dal 3,4% stimato per il 2008 calerà nel 2009 all’1,9%.

«PROBLEMI STRUTTURALI» – Secondo il Fmi, l’Italia «sarà colpita dalle strette condizio-ni di credito ma ha anche problemi strutturali e la necessità di cambiamenti strutturali cheabbiamo sollecitato da tempo, come la liberalizzazione del mercato del lavoro». Lo hadetto il capo economista dell’ente, Olivier Blanchard, sottolineando che l’Italia non haconsolidato il proprio bilancio nei momenti di congiuntura positiva e «a questo punto leopzioni di politica fiscale sono limitate e non vediamo spazio per un piano di incentivifiscali».

EUROSTAT – Le stime negative sulla situazione europea sono confermate anche dall’Eu-rostat: i dati dell’Ufficio Statistico delle Comunità Europee indicano che nel secondo tri-mestre del 2008 il Pil della zona euro ha ceduto lo 0,2% e quello dei Ventisette è rima-

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sto invariato (invece di calare dello 0,1% come indicato nelle stime precedenti) rispetto altrimestre precedente.

PRIMO TRIMESTRE – Nel primo trimestre, i tassi di crescita erano stati dello 0,7% nellazona euro e dello 0,6% nei Ventisette. Rispetto al secondo trimestre del 2007 il Pil, alnetto dei fattori stagionali, è cresciuto dell’1,4% nella zona euro e dell’1,7% nei Ventiset-te (contro l’1,6% simato in precedenza). In Italia il Pil è sceso dello 0,3% rispetto al trime-stre precedente ed ha avuto una crescita piatta rispetto allo stesso periodo del 2007. InFrancia il Pil è sceso dello 0,3% rispetto al trimestre passato, ma è aumentato dell’1,1% suanno. Nel secondo trimestre del 2008, i consumi delle famiglie sono scesi dello 0,2%nella zona euro e dello 0,1% nei Ventisette. Gli investimenti sono scesi dell’1% sia nellazona euro che nei Ventisette.

ESPORTAZIONI – Le esportazioni sono scese dello 0,2% in Eurolandia e dello 0,3% neiVentisette e le importazioni hanno ceduto lo 0,5% in entrambe le zone. Negli Stati Uniti,il Pil è aumentato dello 0,7% durante il secondo trimestre del 2008, dopo un +0,2% nelprimo trimestre. In Giappone il prodotto interno lordo è sceso dello 0,7% nel secondo tri-mestre, dopo un +0,7% nel primo. Su base annua, il Pil americano è salito del 2,1%, con-tro il 2,5% del trimestre precedente, e dello 0,8% in Giappone, contro l’1,2% del trime-stre precedente.

DATI POSITIVI – Ma tra tanti dati negativi, compaiono anche indicazioni positive. A sor-presa la produzione industriale tedesca ha registrato ad agosto un balzo su base mensi-le del 3,4% contro –1,6% del mese precedente e una previsione di –0,3%. Si tratta delrialzo maggiore dall’agosto 1993. A Ginevra il Forum economico mondiale (Wef) ha resonoto che l’economia americana è pronta a ripartire appena sarà passata la crisi finanzia-ria. «L’economia Usa ha caratteristiche strutturali con una base produttiva solida», dice ilrapporto.

Fonte: “Corriere della sera”, 8 ottobre 2008

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Gli errori, la bufera e il capitalismo «sostenibile»L’articolo di seguito riportato propone un ripensamento del modello capitalistico e del ruolo del mercato alla luce dello sviluppo sostenibile e dei diritti della persona.

La crisi finanziaria in corso, che non è di breve durata né meramente congiunturale,come ogni crisi comporta non solo rischi (il rischio di estendersi all’economia reale, diminare la fiducia dei risparmiatori, di far pagare costi elevati ai soggetti più deboli e menoprotetti), ma anche opportunità, prima fra tutte l’opportunità di ripensare al modello disviluppo capitalistico. Non segna la fine del capitalismo («che ha i secoli contati» comescrive Giorgio Ruffolo), ma incide in modo e grado diversi nei vari tipi di capitalismo reale(il modello anglosassone «trainato dal mercato», l’economia sociale di mercato della tra-dizione continentale europea, il capitalismo gestito da un regime autoritario come nelcaso cinese) e rafforza l’esigenza di un modello diverso di capitalismo possibile (il model-lo dello sviluppo sostenibile). L’attività economica avviene sempre in un dato contesto isti-tuzionale, caratterizzato da complesse interazioni tra mercati, imprese, governi, reti asso-ciative, singoli individui. Ogni varietà di capitalismo presenta implicazioni differenti per lasocietà civile e per il sistema politico. L’economia aperta del mercato non implica neces-sariamente una società aperta o un regime politico democratico. Il mercato non è unordine spontaneo, non è un fine ma un mezzo; è il meccanismo istituzionale [...] perorganizzare la produzione, lo scambio e il consumo, ma non garantisce di per sé né lacoesione sociale né la democrazia politica, e neppure una distribuzione equa del redditoe della ricchezza (che rimane un problema eminentemente politico). Esistono prove sto-riche a favore della correlazione tra economia aperta, società aperta e democrazia e altreprove che falsificano tale ipotesi. La crisi finanziaria dei derivati non è accaduta per caso.Alcuni acuti osservatori della realtà economica (economisti non appartenenti al main stre-am della Scienza economica americano-centrica, sociologi economici, political econo-mists) avevano formulato critiche argomentate da cui si poteva dedurre questo tipo diesito, concernenti la finanziarizzazione del controllo di impresa, la difficoltà di applicareregole efficaci a attori del mercato globale come le banche d’affari, la logica perversa dicerti prodotti finanziari che spostano continuamente il rischio su altri soggetti in una sortadi catena di Sant’Antonio, la diffusione delle stock options e dei superbenefici per topmanagers, i clamorosi conflitti di interesse tra società di auditing e di consulenza. Se pre-vale un tipo di capitalismo come quello in cui si è verificata la crisi attuale, che arricchiscei pochi insiders e crea difficoltà ai molti outsiders, che è ossessionato dal brevissimo ter-mine e dal quotidiano oscillare dei titoli di Borsa, che non favorisce investimenti in capi-tale umano e in tutela ambientale, che non crea opportunità di inclusione per i moltiesclusi, il mercato corre il serio rischio di essere erroneamente considerato causa prima-ria di disuguaglianza e di ingiustizia e di provocare reazioni politiche e culturali che neminano la legittimità e la possibilità di funzionamento. Il ritorno allo Stato imprenditore,

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a politiche protezioniste, o addirittura a chiusure autarchiche, sono risposte sbagliate, manon possono essere esorcizzate sottovalutando la gravità della crisi e le responsabilitàdella eccessiva finanziarizzazione del sistema. Vanno confutate formulando proposte rea-listiche di trasformazione del modello di sviluppo dell’economia aperta, che attraversoincentivi e sanzioni modifichi aspettative e comportamenti dei soggetti economici esoprattutto dia risposte al vero problema centrale del capitalismo: come salvaguardare lasua carica innovativa e forza propulsiva, senza «annullare la sostanza umana e naturaledella società» (come direbbe Karl Polanyi), ovvero senza negare i diritti civili e politici e lelegittime pretese di migliore qualità della vita e senza infliggere ferite profonde all’ecosi-stema. La crisi in corso non è irreversibile, verrà superata, ma il rischio è che poi si ripren-da il cammino che ha portato alla crisi, il business as usual, limitandosi a qualche corret-tivo parziale e a qualche provvedimento di emergenza, anziché introdurre innovazioniautentiche nel rapporto tra mercato e società e tra mercato e democrazia.

Fonte: Alberto Martinelli, “Corriere della sera”, 9 ottobre 2008

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Cina, fine dei prezzi stracciati. Ora Pechinoesporta inflazioneL’articolo di seguito riportato illustra la situazione economica attuale della Cina e in particolare gli effetti inflattivi prodotti da un fenomeno inatteso: la protesta dei lavoratori che hanno chiesto e ottenuto aumenti salariali.

Dietro il carovita che impoverisce i consumatori in Italia come in tutta l’Europa e gli StatiUniti, c’è un cambiamento profondo nell’economia globale. È la fine dello “sconto cine-se”. Per la prima volta da quando è diventata un peso massimo del commercio interna-zionale, la Repubblica popolare non esporta più soltanto scarpe e vestiti, computer e tele-visori, ma anche inflazione. Una delle ragioni di questo cambiamento è una novità salu-tare: gli operai cinesi alzano la testa. Nelle zone dove c’è la piena occupazione il loropotere contrattuale migliora, i salari aumentano. È esattamente quel che sta accadendolungo il delta del fiume delle Perle, nel Guangdong che è la regione più industrializzatadella Cina, la vera fabbrica del pianeta. Lì a gennaio le buste paga degli operai cinesi sonoaumentate del 13% in media, rispetto a un anno fa. È una rincorsa salariale senza prece-denti nella storia recente della Cina comunista, anche se non basta a compensare altri rin-cari del costo della vita locale (la fettina di maiale è aumentata del 48% in un anno).Se la classe operaia cinese si sveglia il mondo trema, per parafrasare la celebre frase diNapoleone. Dopo avere auspicato un progresso nelle condizioni sociali e nei dirittiumani, ora ci accorgiamo che anche un modesto miglioramento retributivo in Cina nonè indolore per i consumatori occidentali. Alan Greenspan, quando era presidente dellaFederal Reserve americana, aveva capito che la Cina era il suo migliore alleato per tene-re a bada l’inflazione. Secondo Greenspan, dalla seconda metà degli anni 90 fino aun’epoca molto recente, l’economia americana è stata miracolata da un “nuovo paradig-ma”: gli incrementi di produttività diffusi dalla New Economy (con l’adozione universaledelle nuove tecnologie), più il ribasso dei prezzi al consumo regalato dall’invasione delmade in China, hanno consentito agli Stati Uniti dei ritmi di crescita sostenuti, senzagenerare tensioni sui prezzi. La politica dei bassi tassi d’interesse seguita dalla FederalReserve era dovuta anche a questa convinzione: a contrastare l’inflazione ci pensavanole importazioni di prodotti cinesi. Quella fase magica si sta chiudendo sotto i nostri occhi.Gli americani – i consumatori più “sino-dipendenti” del pianeta – sono stati i primi adaccorgersene. Nel solo mese di gennaio i prezzi del made in China sono saliti dello 0,8%,l’aumento più elevato da quando lo Us Labor Department ha cominciato a misurare que-sto dato. In alcuni settori la fine dello sconto cinese si è già trasformata nel suo rovescio.Nel tessile-abbigliamento i prezzi al dettaglio negli Stati Uniti erano in discesa costantedal 1998, via via che il made in China rimpiazzava sugli scaffali i prodotti italiani o mes-sicani. Da ottobre improvvisamente i vestiti sono rincarati del 4,6% (con punte del 7,3%nell’abbigliamento femminile). Negli Stati Uniti e in Europa resuscita di colpo lo spettro

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della stagflazione – crescita zero più inflazione – che aveva colpito l’Occidente negli anni70. Una parte di questo choc è nata nel cuore dell’America, tra il crollo del mercatoimmobiliare e la crisi dei mutui. L’altro ingrediente sta in Cina. Questo colosso era statoun potente calmiere dei prezzi soprattutto dopo il suo ingresso nell’Organizzazionemondiale del commercio (2001). Ora l’indice dei prezzi al consumo cinesi è in crescitadel 7,1%, il più forte rincaro del costo della vita negli ultimi 12 anni. L’inflazione nellaRepubblica popolare si ripercuote inevitabilmente sui prezzi esteri del made in China. Alrincaro delle esportazioni contribuisce anche la graduale rivalutazione della moneta cine-se, lo yuan o renminbi. Dal luglio 2005, quando smise di essere rigidamente agganciatoal dollaro, lo yuan si è rafforzato del 16% sulla moneta americana (ma non sull’euro).Ai rincari sui prodotti made in China, si aggiunge la corsa alle materie prime che Pechi-no contende agli occidentali. Con una economia che l’anno scorso è cresciuta dell’11,4%la Cina è diventata “l’elefante nella cristalleria” sui mercati dell’energia, dei minerali, dellederrate agricole. Poveri di risorse naturali in casa propria, i due giganti asiatici Cina e Indiahanno travolto tutti gli equilibri tra domanda e offerta. Dal petrolio a 100 dollari fino alminerale di ferro rincarato del 65% in pochi mesi, dall’oro ai cereali, tutte le commoditiessegnano record storici per la pressione dei bisogni asiatici: centinaia di milioni di nuoviabitanti di centri urbani; cantieri edili a non finire; fabbriche energivore; il boom dellamotorizzazione individuale. La dieta alimentare del ceto medio cinese si globalizza e“scopre” i dolci per la prima volta nella storia, facendo impazzire le quotazioni mondialidi cacao, zucchero, caffè. Il benessere che fa crescere il consumo di proteine, insieme conla ricerca di fonti alternative di energia nei biocarburanti, mandano alle stelle i prezzi disoya, grano, riso. La Cina non è autosufficiente per i suoi bisogni alimentari, quest’annoimporterà 8,4 miliardi di dollari di prodotti agricoli dagli Stati Uniti, un aumento del300% rispetto a dieci anni fa. Anche questo spiega i rincari della pasta e del pane neisupermercati italiani.Con un apparente paradosso, la fine dello sconto cinese non riduce la nostra dipenden-za dal “made in China”. Anzi, le esportazioni cinesi verso il resto del mondo hanno se-gnato un nuovo massimo storico a gennaio aumentando del 27%: 110 miliardi di dolla-ri di vendite in un solo mese. La più grande catena di ipermercati americani, Wal-Mart(che ha un fatturato superiore al Pil della Svizzera) ha confermato che continuerà ad ap-provvigionarsi in Cina esattamente come prima, malgrado i rincari e nonostante gli scan-dali sui prodotti tossici. La spiegazione: la Cina è diventata un quasi-monopolio in moltisettori. In Occidente sono state smantellate e delocalizzate gran parte delle fabbriche cheproducevano non solo jeans e scarpe ma anche pc, laptop, telefonini, videocamere. Il“made in China” può rincarare, le fabbriche non torneranno indietro.

Fonte: Federico Rampini, “la Repubblica”, 26 febbraio 2008

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Alla Giornata mondiale dell’alimentazione il monito di Diouf:“Solo un decimo dei 22 miliardi promessi sono davvero stati dati”L’articolo che proponiamo di seguito mostra una triste realtà: la lentezza e, più spesso, il mancato rispetto degli impegni presi dai Paesi più ricchi nei confronti dei Paesi poveri nella lotta alla fame nel mondo.

ROMA – Solo il 10 per cento delle risorse promesse per la lotta contro la fame nelmondo sono arrivate a destinazione. Troppo poco per combattere un flagello che colpi-sce, secondo le stime della Banca Mondiale, 923 milioni di persone. Oggi, in occasionedella Giornata mondiale dell’alimentazione 2008, un forte appello a tutti i Paesi a rispet-tare gli impegni presi, arriva da Jacques Diouf, direttore generale della Fao.

Dopo la conferenza internazionale organizzata dalla Food and Agriculture Organizationa giugno, solo un decimo dei 22 miliardi promessi sono stati effettivamente messi adisposizione, ha detto Diouf, sottolineando la necessità di portare a termine l’impegnopreso nonostante la crisi finanziaria globale.

“La crisi alimentare – ha proseguito Diouf – esiste ancora e se nel 2007 il numero degliaffamati è salito in un solo anno di 75 milioni di persone, arrivando a quota 923 milioni,nel 2008 questo numero rischia di salire ancora”.

Alla cerimonia della Fao è arrivato anche l’appello del Papa. Basta con questa “specula-zione sfrenata” che tocca i meccanismi dei prezzi e dei consumi e basta anche agli egoi-smi degli Stati, ha scritto Benedetto XVI in un messaggio inviato alla Fao per l’occasione.“I mezzi e le risorse di cui il mondo dispone al giorno d’oggi – ha aggiunto BenedettoXVI – sono in grado di fornire cibo sufficiente per soddisfare le crescenti necessità ditutti”.

“Manterremo tra le priorità dell’agenda internazionale la lotta alla fame e la soluzionedella crisi alimentare mondiale per non farla dimenticare sotto il peso della crisi economi-ca”, ha assicurato il sottosegretario agli Affari Esteri, Vincenzo Scotti, ribadendo l’impegnodel governo italiano sul tema.

Della crisi economica ha parlato anche la first lady egiziana, Suzanne Mubarak, che haricevuto dalla Fao la nomina a “Raeia”, “guida illustre” dell’Onu per l’agricoltura e l’ali-mentazione. La signora Mubarak ha levato un appello perché si trovino per la crisi ali-

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mentare le stesse risorse finanziarie e con la stessa rapidità con cui sono stati reperiti imezzi per la crisi dei mutui. Appello condiviso dall’associazione Actionaid secondo cui lacrisi alimentare deve essere affrontata con la stessa risolutezza di quella finanziaria.

Anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini, in un messaggio ha sottolineato comequella della fame sia la “sfida su cui si gioca il futuro del pianeta”. Che cosa fare è ormainoto, ha concluso Diouf, “quello di cui abbiamo bisogno è che vengano rispettati gliimpegni politici per fare gli investimenti necessari a promuovere uno sviluppo agricolosostenibile”.

Con le risorse economiche messe a disposizione per il momento, la Fao ha avviato pro-getti in 76 Paesi. E molti altri programmi a livello nazionale e regionale sono partiti. A ciòsi aggiunge la messa a punto del piano d’azione della task force delle Nazioni Unite,annunciato a giugno dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon.

Fonte: “la Repubblica”, 16 ottobre 2008

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Il liberismo e la speranzaL’articolo che proponiamo di seguito è un ripensamento sulle politiche liberiste alla luce degli effetti sociali prodotti dalla globalizzazione.

Da una quindicina d’anni su questo giornale mi batto per il mercato, per le liberalizzazio-ni, per uno Stato meno invasivo. Sostengo i benefici della concorrenza e dell’apertura agliscambi, non per scelta ideologica ma perché penso che mercati aperti e concorrenzasiano lo strumento per sbloccare un Paese nel quale la mobilità sociale si è arrestata e ilfuturo dei giovani è sempre più determinato dal loro censo, non dal loro impegno o dalleloro capacità. Nel frattempo nel mondo sono successe alcune cose. La globalizzazionedei mercati ha consentito a mezzo miliardo di persone di uscire dalla povertà: nel 1990le famiglie in condizioni di povertà estrema erano, nel mondo, una su tre; oggi pocomeno di una su cinque. Ma con la globalizzazione si sono accentuate le diseguaglianze, soprattutto nei Paesi ric-chi e poco importa che il motivo non siano le importazioni cinesi, ma piuttosto le nuovetecnologie che premiano chi ha studiato e penalizzano il lavoro non specializzato. (NegliStati Uniti il salario orario di un lavoratore che ha smesso di studiare a 16 anni nel 1972era, ai prezzi di oggi, 15 dollari; 11 nel 2006. Quello di un laureato è invece aumentatoda 24 a 30 dollari l’ora). Come osservavano già tre anni fa Massimo Gaggi e EdoardoNarduzzi («La fine della classe media») in occidente è sparita la classe media tradiziona-le, quella che per mezzo secolo è stata il collante del sistema politico: al suo posto è natauna società nella quale chi ha scarsa istruzione è angosciato e cerca qualcuno che lo pro-tegga. E non sempre il mercato dà buona prova di sé. Negli Stati Uniti è inciampato inun paio di infortuni. Nel 2002 le frodi degli amministratori di Enron, Tyco e WorldCom. Oggi la crisi innesca-ta dai mutui «subprime»: se non fossero tempestivamente intervenute le banche centra-li, cioè lo Stato, i mercati rischiavano di precipitare. Talora un mercato neppure esiste,come nel caso dell’energia: prezzi e forniture di gas – l’80% dell’energia utilizzata in Ita-lia – sono determinati da un cartello dominato dalla Russia. Pensare di aprire quel mer-cato alla concorrenza è un’illusione un po’ infantile, almeno fino a quando non avremocostruito una decina di rigassificatori e ci vorranno, se tutto va bene, un paio di decenni.La Cina non consente che il valore della sua moneta sia determinato dal mercato. Permantenere un tasso di cambio sottovalutato accumula una quantità straordinaria di euroe di dollari. La crescita cinese continua a dipendere dall’industria e dalle esportazioni. Aparole il partito comunista si dice preoccupato della crescente diseguaglianza, ma poinon fa quasi nulla per correggere il tiro e spingere la domanda interna, soprattutto i ser-vizi, in primis la sanità. Sempre più i mercati aperti spaventano gli elettori. Nella campa-gna elettorale americana sia Obama che Hillary Clinton parlano con accenti critici dellaglobalizzazione e si guardano bene dall’attaccare i sussidi pubblici che rendono ricchi

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gli agricoltori Usa a spese del resto del mondo, ad esempio dei coltivatori di cotone egi-ziani. In Francia Sarkozy a parole (e non sempre) predica il mercato, ma provate ad aprire unalinea aerea e a chiedere uno slot per un volo Linate-Charles De Gaulle: lo otterrete, maalle 6 del mattino. La maggioranza degli italiani ha votato per un candidato, Silvio Berlu-sconi, che si è impegnato a salvare – con denaro pubblico – un’azienda che perde unmilione di euro al giorno: non ho visto nessuno sfilare perché le nostre tasse vengonousate per tenere in piedi un’azienda da anni decotta. (Ho invece visto i tassisti romanifesteggiare il nuovo sindaco della città che due anni fa aveva manifestato solidarietà perla violenta protesta dei tassisti contro le liberalizzazioni di Bersani). Insomma, il mondosembra andare in una direzione diversa da quella auspicata da chi, come me, vorrebbemeno Stato e più mercato. I cittadini non sembrano preoccuparsene: anzi, premiano chipromette «protezione» dal vento della concorrenza. Che cosa non abbiamo capito, doveabbiamo sbagliato? Alcuni ritengono che il problema nasca dall’errato accostamento di«concorrenza » e «mercato».Concorrenza significa regole: in assenza di regole non è detto che il mercato producauna società migliore di quella in cui vivremmo se venissimo affidati ad uno Stato bene-volente. Affinché il mercato, la globalizzazione diventino popolari è necessario «gover-narli». È certamente vero, ma anche un po’ illuminista. Vedo anti-globalizzatori che occu-pano le piazze, ma non vedo cittadini che manifestano perché il Doha Round non fa unpasso. La decisione dei capi di Stato dell’Ue di cancellare la concorrenza dai principi irri-nunciabili stabiliti dal nuovo Trattato europeo è passata inosservata. Insomma, non mipare che i cittadini reclamino più regole: la protezione che chiedono – e che alcuni poli-tici promettono – è quella dei dazi e dei vincoli all’immigrazione, non l’antitrust. A mepare che i liberisti debbano porsi un compito più modesto: spiegare ai cittadini che l’al-ternativa al mercato, al merito, alla concorrenza è una società in cui i privilegi si traman-dano di generazione in generazione, i fortunati e i prepotenti vivono tranquilli, ma chinasce povero è destinato a rimanerlo, indipendentemente dal suo impegno e dalle suecapacità. Convincerli che il modo per difendere il proprio tenore di vita è chiedere buonescuole, non dazi. Il «miracolo economico» italiano degli anni ’50 e ’60 fu il frutto del mercato unico euro-peo (e della lungimiranza di alcuni leader della Democrazia Cristiana che alla fine dellaguerra capirono l’importanza di entrare subito nella Cee). La caduta delle barriere doga-nali e l’ampliamento della domanda consentirono alle nostre imprese di allargare le fab-briche e raggiungere una dimensione che ne determinò il successo. La crescita tumultuo-sa di quegli anni creò opportunità per tutti. Non ho dati, ma penso che se qualcuno allo-ra avesse chiesto agli italiani che cosa pensavano dell’apertura degli scambi, la maggiorparte avrebbe risposto favorevolmente. L’Europa di allora è il Brasile, l’India, la Cina deigiorni nostri, ma i più oggi le considerano minacce, non opportunità. Mi pare che l’Italiasi trovi in un «cul de sac». Da un decennio abbiamo smesso di crescere: dieci anni fa ilnostro reddito pro-capite era simile a Francia e Germania, 27% più elevato che in Spa-gna, 3% più che in Gran Bretagna.

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In questi anni abbiamo perso dieci punti rispetto a Francia e Germania, siamo stati rag-giunti dalla Spagna e di nuovo superati dalla Gran Bretagna. Quando un Paese non cre-sce le opportunità scompaiono e ciascuno si tiene stretto quello che ha: mentre mercato,merito, concorrenza – i fattori la cui assenza è all’origine della mancata crescita – spaven-tano. I cittadini preoccupati chiedono protezione, qualcuno la promette e il Paese si avvi-ta. (Il paragone, lo so, indispettisce, ma la storia del declino dell’Argentina – un Paese cheai primi del ’900 era ricco quanto la Francia – inizia, con Peron, proprio così). Il tentativodi convincere la sinistra che mercato, merito e concorrenza sono gli strumenti per sbloc-care l’Italia – devo ammetterlo – è fallito. Con Prodi la sinistra ha perso un’occasione sto-rica: anziché sbloccare la società ha essa pure offerto protezione. Ma chi ha protetto?Non chi temeva la globalizzazione – che infatti si è fatto proteggere dalla Lega – ma ilsindacato, anzi i suoi leader. Temo ci vorrà qualche legislatura per riparare questo errore. I nuovi interlocutori dei «liberisti» (come sostiene da qualche tempo Franco Debenedetti)oggi sono i «protezionisti»: sbagliano la diagnosi, ma hanno saputo cogliere e interpreta-re meglio della sinistra le angosce di tanti cittadini. E tuttavia la risposta alla «mobilità pla-netaria» non può essere il congelamento della mobilità domestica. Una società congela-ta non solo è ingiusta: si illude di proteggersi, in realtà spreca le sue risorse migliori edeperisce. È un lusso che forse possono permettersi gli Stati Uniti: per l’Italia sarebbe un suicidio.

Fonte: Francesco Giavazzi, professore alla Bocconi, “Corriere della sera”, 30 aprile 2008

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E ora la grande crisi del cibo può frenare la globalizzazioneL’articolo che proponiamo di seguito illustra l’attuale dibattito aperto nel Wto, in particolare la conclusione negativa del Doha Round in corso da sette anni, sulla riduzione del protezionismo agricolo da parte dei Paesi ricchi per agevolare lo sviluppo del Sud del mondo.

La marcia trionfale della globalizzazione si era già fermata. Almeno da due anni, l’ideache l’economia mondiale fosse inevitabilmente destinata ad integrarsi sempre più, conbenefici a cascata per tutti, aveva perso vigore e capacità di convinzione. Ma, adesso, loscenario che rischia di aprirsi è quello della ritirata. Il fallimento, ieri, a Ginevra, del dispe-rato tentativo di rianimare la trattativa commerciale globale, avviata a Doha nel 2001 erimasta bloccata in sette anni di impasse ha un impatto, prima ancora che economico,psicologico: si esaurisce l’attitudine a vedere, nell’apertura dei mercati, prima i vantaggiche gli svantaggi e la globalizzazione non appare più irreversibile. D’altra parte, è già suc-cesso: un secolo fa, quando si spense la prima ondata di mondializzazione dell’economia.

Il punto specifico su cui, dopo 24 ore di negoziato quasi ininterrotto, è naufragato que-sto ultimo capitolo del Doha Round, è la protezione dei piccoli contadini indiani (e cine-si). Nuova Delhi, con il sostegno di Pechino, reclamava la possibilità di aumentare i pro-pri dazi agricoli, nel caso di un aumento anomalo delle importazioni, che togliesse trop-po spazio alle centinaia di milioni (in Cina i piccoli contadini sono 800 milioni) di produt-tori nazionali. La bozza di accordo stabiliva la soglia di anomalia ad un aumento del 40%delle importazioni. L’India controproponeva il 10%, una soglia troppo bassa, secondo gliamericani, in grado di innescare troppo facilmente una chiusura protezionistica. Nessu-no pensava che l’ambizioso tentativo di aprire ulteriormente l’intero mercato agricolo eindustriale mondiale potesse arenarsi su questo scoglio. La crisi del cibo che ha squassa-to negli ultimi mesi soprattutto i paesi emergenti ha sicuramente acuito la sensibilità deigoverni ai problemi della produzione agricola, ma un compromesso sembrava a portatadi mano: nell’ultimo tentativo di accordo non c’era nessuna cifra a segnare il grilletto chepoteva far scattare l’aumento dei dazi, lasciato ad una decisione caso per caso.

In realtà, il negoziato è fallito, come era già avvenuto nei tentativi precedenti, per l’accu-mularsi dei veti incrociati. Cina e India non digerivano che gli Usa, dove oggi i sussidi aiproduttori agricoli, soprattutto di cotone e zucchero, valgono 7 miliardi di dollari, si riser-vassero la possibilità di arrivare fino a raddoppiarli. Gli agricoltori europei reclamavanouna protezione più decisa dei propri marchi geografici, per proteggere la propria produ-zione di qualità dalle incursioni dello champagne americano o del prosciutto di Parma

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cinese. Soprattutto, in termini generali, non ha funzionato l’abituale scambio agricoltura-industria.

Quando il Doha Round è partito, sette anni fa, l’idea generale era di concedere l’apertu-ra dei mercati occidentali alle importazioni agricole dei paesi emergenti, in cambio del-l’apertura dei loro mercati ai prodotti industriali (e, in prospettiva, a banche e assicurazio-ni) dell’Occidente. Ma, in sette anni, il panorama mondiale è stato rivoluzionato. La Cinaè diventata il maggior esportatore mondiale e il cuore dell’industria manifatturiera globa-le si è spostato nei paesi emergenti: in Cina, in India, in Brasile.

Nell’ottica del Doha Round, tuttavia, questi paesi mantenevano le protezioni da paese invia di sviluppo. Nel caso dell’auto, per esempio, l’Europa avrebbe dimezzato dal 10 al4,5% il proprio dazio sull’import di auto da paesi, come Cina e India, che, in questi mesistanno conducendo una politica commerciale assai aggressiva sui mercati occidentali.

Contemporaneamente, la Cina avrebbe abbassato i suoi dazi solo dal 25 al 18% e il Bra-sile dal 35 al 22%. Mantenendo la possibilità di esentare interi settori industriali dal tagliodelle tariffe. Troppo poco, perché, come era avvenuto nei precedenti round commercia-li, le lobby industriali occidentali premessero sui governi perché accettassero concessioniin materia di agricoltura.

In termini puramente economici, in realtà, il fallimento di Ginevra ha un impatto relativa-mente modesto. Anche se alcuni paesi potevano ricavarne benefici sostanziali (l’Italiaaveva calcolato un aumento delle proprie esportazioni per 500 milioni di euro l’anno), alivello generale il Doha Round spostava poco. Lo stesso Wto, l’Organizzazione mondialedel commercio, aveva calcolato che un accordo avrebbe comportato un risparmio di 125miliardi di dollari l’anno in dazi non pagati. L’effetto avrebbe fatto aumentare il prodottomondiale di 50-70 miliardi di dollari, non più dello 0,1% del Pil globale. Come mai cosìpoco? Perché, in realtà, negli anni scorsi paesi ricchi e paesi emergenti hanno già drasti-camente tagliato i propri dazi: oggi alla dogana si paga, in media, nel mondo, il 7%. Cioè,già meno di quanto si doveva concordare a Ginevra.

Per questo, il fallimento del negoziato ha un valore più psicologico che economico. Latrattativa del Doha Round riguardava, infatti, nella maggior parte dei casi, la tariffa mas-sima applicabile, non sempre (vedi l’auto), ma spesso superiore a quella oggi applicata.Un accordo, dunque, serviva ad impedire che, in futuro, questi dazi venissero di colpomoltiplicati, rispetto ai livelli attuali.

Il collasso di questo tentativo è un segno dei tempi. La globalizzazione ha già subito, inquesti mesi, una serie di duri colpi. La crisi dei subprime ha rivelato la fragilità di merca-ti, in mano ad una finanza internazionale senza regole. La crisi del cibo ha mostratoquanto, a livello nazionale, possa essere pericoloso affidarsi alle forniture dall’estero per il

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proprio fabbisogno alimentare. L’impatto della corsa del petrolio sul prezzo dei trasportista mettendo in dubbio la razionalità delle scelte di delocalizzazione industriale. Ora, labattuta d’arresto riguarda la liberalizzazione del commercio che, della globalizzazione, èstata in questi anni la struttura portante e il maggior successo. Almeno in teoria, il falli-mento di Ginevra non esclude, in realtà, che le trattative possano riprendere, anche neiprossimi mesi. Tuttavia, diplomatici e osservatori – con l’occhio soprattutto al prossimocambio della guardia a Washington – sono per lo più convinti che la pausa sarà lunga eche il negoziato dovrà, forse, ripartire da zero. Gli economisti, comunque, non ritengonoche questo stop possa colpire il livello del commercio mondiale. Troppo radicato, ormai,il decentramento globale delle catene di fornitori (la cosiddetta “fabbrica mondiale”) etroppo radicate, anche, le abitudini e le attese di produttori e consumatori per pensare aduna svolta. Senza l’ombrello del Doha Round, tuttavia, il commercio mondiale puntereb-be più sulla creazione di blocchi regionali, come la Unione europea, il Nafta americano eun eventuale aggregazione asiatica, frammentando il processo di globalizzazione: que-sto non garantirebbe regole uguali per tutti e, alla lunga, potrebbe pesare sullo sviluppomondiale.

Nell’immediato, il fallimento di Ginevra ha, piuttosto, conseguenze anche politiche. Intac-ca la credibilità di una organizzazione internazionale. Ridimensiona l’entrata in scena diuna grande potenza. Colpisce il tentativo ambizioso di dare una voce unica ad un grup-po di paesi, divisi da interessi contrastanti. L’organizzazione è il Wto, sempre meno ingrado di presentarsi come una trasparente stanza di compensazione delle strategie eco-nomiche mondiali. La grande potenza è la Cina, che partecipava, per la prima volta direttamente, al nego-ziato commerciale globale e che ne esce con un nulla di fatto. Il gruppo di paesi è l’Unio-ne europea: il Wto è l’unica sede in cui il rappresentante della Commissione di Bruxellesparla e tratta a nome di tutti i paesi membri. Un successo avrebbe rafforzato la spinta aduna gestione sovranazionale della politica europea.

Fonte: Maurizio Ricci, “la Repubblica”, 30 luglio 2008

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L’umanità è «lacerata» da «spinte di divisione e sopraffazione»L’articolo che proponiamo di seguito vuole fornire il punto di vista del Ponteficenell’attuale dibattito italiano (e non solo) sulla globalizzazione.

CITTÀ DEL VATICANO – L’umanità è «lacerata» da «spinte di divisione e sopraffazione» e«conflitto di egoismi». E «non si può dire che la globalizzazione è sinonimo di ordine mon-diale, tutt’altro». Lo rimarca il Papa, aggiungendo che «i conflitti per la supremazia econo-mica e l’accaparramento delle risorse energetiche, idriche e delle materie prime rendonodifficile il lavoro di quanti, ad ogni livello, si sforzano di costruire un mondo giusto e soli-dale». Benedetto XVI lo ha detto nella messa dell’Epifania, celebrata nella basilica di SanPietro davanti a cardinali, vescovi, membri del corpo diplomatico e semplici fedeli.

INGIUSTA DIVISIONE – Nel mondo globalizzato si è accentuata l’ingiusta divisione deibeni, sostiene Benedetto XVI. «Anche oggi – dice il Papa – resta vero quanto diceva ilprofeta: nebbia fitta avvolge le nazioni. Non si può dire infatti che la globalizzazione siasinonimo di ordine mondiale, tutt’altro». Nell’omelia della messa dell’Epifania celebratacon grande solennità in San Pietro, Papa Ratzinger rileva che «i conflitti per la suprema-zia economica e l’accaparramento delle risorse energetiche, idriche e delle materie primerendono difficile il lavoro di quanti, ad ogni livello, si sforzano di costruire un mondo giu-sto e solidale. C’è bisogno – afferma – di una speranza più grande, che permetta di pre-ferire il bene comune di tutti al lusso di pochi e alla miseria di molti».

LA MODERAZIONE – Per il Papa, nel mondo di oggi «la moderazione non è solo unaregola ascetica, ma anche una via di salvezza per l’umanità». Infatti, «è ormai evidenteche soltanto adottando uno stile di vita sobrio, accompagnato dal serio impegno perun’equa distribuzione delle ricchezze, sarà possibile instaurare un ordine di sviluppo giu-sto e sostenibile». Ma per cambiare così radicalmente l’ordine economico occorre esseresostenuti da una «grande speranza», che, ricorda Benedetto citando la sua recente enci-clica, «può essere solo Dio, e non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un voltoumano, il Dio che si è manifestato nel Bambino di Betlemme e nel Crocifisso-Risorto».Infatti, insiste anche oggi il teologo Ratzinger, «se c’è una grande speranza, si può perse-verare nella sobrietà. Se manca la vera speranza, si cerca la felicità nell’ebbrezza, nelsuperfluo, negli eccessi, e si rovina se stessi e il mondo. Per questo – spiega – c’è biso-gno di uomini che nutrano una grande speranza e possiedano perciò molto coraggio». Ènecessario cioè lo stesso coraggio dei Magi, che «intrapresero un lungo viaggio seguen-do una stella, e che seppero inginocchiarsi davanti ad un Bambino e offrirgli i loro donipreziosi. Abbiamo tutti bisogno – conclude il Pontefice – di questo coraggio, ancorato auna salda speranza. Ce lo ottenga Maria, accompagnandoci nel nostro pellegrinaggioterreno con la sua materna protezione».

Fonte: “Corriere della sera”, 6 gennaio 2008

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«La globalizzazione? Può essere dolce» L’articolo che segue vuole fornire il punto di vista di un imprenditore di successonell’attuale dibattito italiano (e non solo) sulla globalizzazione.

Luciano Benetton: «Dalle crisi non si esce con i dazi»

MILANO — «La parola “globalizzazione” nemmeno esisteva. Erano gli anni 60 e per noiil mondo era l’Europa. Il massimo dell’avventura imprenditoriale era aprire un negozio aParigi. Ci riuscii alla fine di quel decennio, eravamo il primo marchio italiano diventato dimoda, e già allora in molti sostenevano che il tessile fosse un settore da abbandonare.Infatti per poter mettere un piede in una capitale europea e non chiudere bottega il gior-no dopo dovevamo innovare. Dovevamo inventarci soluzioni che gli altri non avevanonemmeno provato». Se per discutere di globalizzazione cercate una persona informata deifatti bussate a casa di Luciano Benetton, l’imprenditore globetrotter che ha portato il mar-chio trevigiano nei cinque continenti e ancora oggi è un gran curioso del mondo e dellesue contraddizioni. «Un veneto, senza passaporto» si definì una volta in un’intervista edopo di allora ne ha vissute tante. È stato senatore del Pri negli anni 90 ma anche simbo-lo dell’anticonformismo pubblicitario e imprenditoriale. E proprio a lui, che odia tutti gliembarghi e si è opposto alla guerra in Iraq, è capitato di diventare obiettivo privilegiato deiblog no global per una storia di indigeni Mapuches e terre acquistate in Patagonia.

Per anni lei ha sostenuto le virtù del free trade e ha anche scommesso che fosseuna forma di politica estera inclusiva. È ancora di quell’opinione oggi che la glo-balizzazione mette paura ai cittadini dei Paesi ricchi? «Il libero commercio delle merci è un contributo alla diffusione della democrazia, servead esportarla, cambia il modo di pensare dei governi e dei popoli dei Paesi in via di svi-luppo. Ma anche con il commercio non bisogna comportarsi da invasori, il modello cheabbiamo adottato è quello di una globalizzazione dolce. Nei Paesi dove siamo andati ilnostro prodotto era considerato di moda e questo ci ha portato a incontrare le élite dimezzo mondo. Per loro il logo Benetton voleva dire “io sono globale” o comunque“penso globale”. Una bella soddisfazione».

Forse si poteva essere dolci nel mondo di venti anni fa, oggi un po’ meno. «Abbiamo sempre voluto costruire un dialogo alla pari. Cercavamo partner locali perinsegnare ma anche per imparare. Anche venti anni fa, quando aprii un negozio a Cubanel ‘92 e incontrai Fidel Castro, dovetti subire le reazioni degli anticastristi che se la pre-sero con i nostri negozi di Miami ma non per questo ho cambiato idea. Non ho maiamato la politica dell’embargo».

E infatti oggi lavora con l’Iran... «Lavoro bene in Iran. Con i Paesi che ci vendono petrolio dovremmo mettere in piedi un

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sistema di compensazioni commerciali. E vendere loro le cose di cui hanno bisogno:camion, autobus e quant’altro. Capisco che il mondo è cambiato dopo l’11 settembre manon vedo alternative. Prima di usare le armi bisogna esperire tutti i tentativi. Far viveremeglio la gente di quei Paesi, diffondere uno stile di vita democratico, ci permette di fareun passo avanti. So che i giovani coinvolti negli attentati di Londra dello scorso anno eranoperfettamente inseriti nel nostro sistema sociale ed economico ma le sacche di estremismoesisteranno sempre. Bonificare dall’interno è la strada che mi convince di più».

Si definirebbe un filoamericano? «Sicuramente. L’America ci ha insegnato troppe cose, tanti principi che applichiamo nellavita di tutti i giorni sono nati lì. Ma penso che quando si va in un Paese non bisogna giu-dicarlo subito. Se incontri un sudamericano e gli parli di patate è un modo per far senti-re importante la loro tradizione di coltivazione di 400 diversi tipi di patate. Del resto nonsiamo noi italiani pronti a sorridere a chi ci parla con rispetto degli spaghetti?».

La verità è che oggi in Italia imprenditori e operai hanno paura che l’India e laCina ci tolgano posti di lavoro. «Sono stato il primo italiano ad andare in India per vendere sul mercato locale. È un granPaese, bella cultura, storici rapporti con l’Europa, un Paese democratico. E infatti ho deci-so di andare più in profondità e produrre direttamente lì. Di recente il Times of India hascritto che il marchio Benetton è considerato dai consumatori il numero uno dell’abbiglia-mento in India».

Se lei pensa che sia giusto produrre in India vuol dire che in Italia non si può piùprodurre a costi competitivi. «Dobbiamo creare posti di lavoro più pregiati ed è giusto che perdiamo i posti di lavoromeno qualificati. Qualcuno soffre di questi cambiamenti ma se fossimo capaci di averepiù ricerca per prodotti più originali, da vendere a prezzi migliori, penso che questomade in Italy sarebbe apprezzato dai mercati ancora di più. Non ci si può opporre ai pro-dotti che costano meno anche se distruggono posti di lavoro fragili».

Se va a fare questi discorsi darwiniani a cena in un El Toulà del suo Veneto lamandano a ramengo... «(ride) Siì, può essere. Ma la mia non è una proposta snob, ma pratica. La globalizzazio-ne è irreversibile, scomoda per tutti, tanto vale attrezzarsi per tempo. Una banca entra incrisi in America e i titoli industriali di tutto il mondo perdono valore. Non si capisce ilnesso eppure succede».

Ha letto il libro di Tremonti sulla paura e la speranza dei cittadini globali? «Sì, l’analisi è perfetta. Ma non penso che questi problemi possano essere affrontati conun approccio ideologico, uno strappo alla regola si può fare ogni tanto. Anche gli ameri-cani hanno messo i dazi per difendere le loro produzioni. Per un periodo limitato si può

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fare, non c’è scandalo. Però nel frattempo l’industria nazionale deve mettersi al passo,prepararsi all’apertura. Alla lunga i dazi non reggono. E comunque guardi che non è soloun problema di India e Cina, Indonesia e Vietnam diventeranno ancora più competitivi».

La globalizzazione non è solo flusso di merci ma anche di persone. Quantoconta la paura degli extracomunitari? «Penso che un orientamento anti-globalizzazione trovi terreno fertile nella percezione diinsicurezza. Incide molto nell’umore e nella qualità della vita di zone dove si lavora tenace-mente. Devono migliorare le politiche di accoglienza ma vanno organizzati i flussi migrato-ri in proporzione. E poi nel Paese la giustizia deve funzionare. Qualche delinquente è statomesso in libertà troppo presto e questo ha avuto il suo peso nell’opinione pubblica».

In passato lei è stato etichettato come un buonista. Ha cambiato idea? «A me piace il dialogo ma se qualcuno sbaglia ti abbassa la qualità della vita e questo nonva bene. Nella cronaca di provincia si legge di negozi che vengono derubati anche trevolte in un anno. Quelle famiglie sono gettate nella rovina, devono incominciare un’altrastoria. I responsabili vanno trovati».

Ma chi pensa che la globalizzazione aiuti lo sviluppo da dove deve ripartire perevitare che si butti bambino e acqua sporca? «Dalla giustizia sociale sicuramente ma credo sia giunta l’ora di un capitalismo più crea-tivo, sensibile alle esigenze dei meno fortunati al mondo. Aprire nuove opportunità dibusiness, cito ad esempio Al Gore che sta portando avanti progetti straordinari di ricercanell’ambito della salvaguardia dell’ambiente, con concrete ricadute che aprono nuoveprospettive industriali».

Intanto i no global continuano a prendersela con lei per le terre dei Mapuchesche ha comprato in Patagonia. «Noi abbiamo comprato da una società argentina che esisteva da oltre 110 anni. Abbia-mo cercato un dialogo coi Mapuches e offerto 7.500 ettari di terra come simbolo concre-to. Ma nella discussione, a cui dovevano partecipare governo centrale, locale e forzesociali argentine, ci hanno lasciati soli. Il movimento no global, che ha aggregato idee efermenti molto interessanti, oggi credo abbia perso almeno parte della sua forza propul-siva forse perché passato il momento della critica del No, è mancata la fase propositivadel Sì, della costruzione, della volontà di risolvere assieme i problemi».

Una volta però Naomi Klein con il suo No logo l’aveva incuriosito? «Sì, mi sembrava una maniera per essere moderni ma poi ho visto che sono state ancheprodotte felpe No logo. Resto convinto comunque che mettere il proprio nome sui pro-dotti sia una garanzia di responsabilità e serietà».

Fonte: Dario Di Vico, “Corriere della sera”, 12 maggio 2008

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Contro il mercato della fame e della seteL’articolo proposto fornisce il punto di vista del Ministro dell’Economia Giulio Tremontinell’attuale dibattito italiano (e non solo) sulla globalizzazione.

Caro direttore,

1) Eravamo nel mondo circa 1 miliardo di persone, all’inizio del ‘900. Eravamo circa 2,5miliardi, a metà del ‘900. Siamo circa 6,5 miliardi, all’inizio di questo secolo. Saremo inprevisione più di 9 miliardi, prima della fine di questo secolo. Contrariamente a un’im-pressione che si sta ormai diffondendo, le previsioni economiche sono ancora affidabili,ma solo se basate sui grandi numeri e proiettate sulla dimensione temporale della lungadurata [...]. Dati questi dati: cosa dire sull’oggi? Cosa prevedere per domani? Cosa fare? Quindici, ancora dieci anni fa, poco più di 1 miliardo di persone aveva più dell’80% dellaricchezza prodotta nel mondo. Oggi, tra quel poco più di 1 miliardo ed i restanti più di5 miliardi, la ricchezza che si produce nel mondo è divisa a metà: 50%; 50%. Non è soloun differenziale demografico, economico, quantitativo. È un differenziale politico. Un dif-ferenziale ad alta intensità politica. Quindici, ancora dieci anni fa, la parte ricca del mondoera unificata da un proprio e dominante codice di potere: un unico codice economico emonetario, linguistico e politico, fatto dall’ideologia del mercato e del dollaro, dalla linguainglese e dal G7. Questo ordine si è rotto, nel corso dell’ultimo decennio. Il vecchio codi-ce di dominio è entrato in crisi, tanto al suo interno quanto al suo esterno, a fronte delnuovo mondo che è emerso un po’ dappertutto fuori dal vecchio perimetro del G7. Unmondo caotico e anarchico nella sua espressione d’insieme, fatta da sistemi e sottosiste-mi sociali ed economici, ideologici e politici, tra di loro fortemente differenziati: democra-zie emergenti, che replicano alternativamente gli elementi migliori o peggiori dell’Occi-dente; Stati che ibridano insieme comunismo e mercato; Stati che esprimono e proietta-no insieme neo-imperialismo e paleo-mercantilismo; Stati che sono ancora più feudaliche sovrani. L’effetto di insieme, l’effetto complessivo è quello di una forte instabilità.Instabilità già in atto; e soprattutto instabilità in potenza. L’arte di «prevedere il futuro»,l’arte di fare la «storia del futuro» è un’arte ricorrente. L’offerta di catastrofismo è unacostante storica, ma nella sua intensità conosce cicli alterni di alto, medio, basso. Un’arteche in specie si intensifica nelle fasi di crisi, fino agli scenari catastrofici dell’iperconflitto,del nomadismo, del cannibalismo. Qui cerchiamo di essere più costruttivi. L’accaduto nonpuò essere evitato. È l’inevitabile che può essere evitato. In questa prospettiva, cibo eacqua sono elementi essenziali e strategici. Rappresentiamoli in negativo, per capire piùa fondo quanto contano: non cibo, uguale fame; non acqua, uguale sete.

2) Non cibo, alias fame. Entro il 2030 la domanda alimentare crescerà del 50%. In partico-lare, negli ultimi tre anni, i prezzi alimentari sono globalmente cresciuti dell’83%. Solo nel

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2007 il prezzo del pane è aumentato del 77%, quello del riso del 16%. Nel 2008 la ten-denza non si è invertita. È solo un po’ rallentata. Alla base di questi movimenti e dei loroscarti improvvisi ci sono solo i fondamentali della domanda e dell’offerta o c’è anche la spe-culazione, la peste del XXI secolo? Per me (non solo per me) c’è anche e forte la specula-zione. Ma comunque, anche ragionando solo in termini convenzionali di domanda e diofferta, c’è qualcosa di più. È questione di equilibri e di velocità sostenibile. La globalizza-zione, fatta di colpo e a debito, è stata come aprire un vaso di Pandora, liberando forze cheora non sono facili da controllare. In ogni caso, sul cibo si è creata un’enorme asimmetria,tra l’Occidente e il resto del mondo. Un’asimmetria che è insieme culturale ed esistenziale. A) In Occidente, sul cibo si ragiona in termini lievi, postmoderni. [...] In Occidente la que-stione del cibo viene in specie vissuta e presentata come un misto tra buone pratiche diigiene sanitaria (è così un po’ il verificarsi della profezia di G.B. Shaw: l’igiene diventerà lareligione del mondo contemporaneo), pose radical-chic, idee pseudoscientifiche, furbiziecommerciali, prospettive di risparmi pubblici nella spesa per il welfare. Ancora ieri siauspicava in Europa un aumento dei prezzi per incentivare gli agricoltori a produrreminori quantità, ma di migliore qualità, etc... E via via con scemenze simili. Soprattutto c’èil dilemma, l’enigma tragico dei biocarburanti: sono un target europeo positivo e pro-gressivo o sono un crimine contro l’umanità? B) Nel resto del mondo non è esattamente così. La fame ha fenomenologia e geografianuove, diverse da quelle tradizionali. La fame non riguarda più solo le aree da semprepovere, o le aree colpite periodicamente da siccità o da eventi bellici. La fame è insiemepiù estesa e più discontinua di prima. Ed essa stessa può essere, si avvia a essere, nonsolo l’effetto ma anche la causa di guerre. È anche questo un lato oscuro della globaliz-zazione. Per fare un bilancio consolidato della globalizzazione è ancora troppo presto.Nella parte del mondo non «beneficata» dalla globalizzazione non tutti vivono comun-que meglio, molti vivono ancora peggio di prima; perché, con i nuovi prezzi, non bastapiù neanche quel mezzo dollaro che prima «bastava».

3) Non acqua, alias sete. La domanda globale di acqua è triplicata negli ultimi 50 anni esi prevede che crescerà di un ulteriore 25% nel 2030. Almeno 500 milioni di personevivono in aree che strutturalmente e permanentemente mancano di acqua. Per il 2050 èprevisto che salgano a 4 miliardi. Da sempre acqua significa vita e salute. Lo sapevanobene gli antichi romani, con il loro motto Salus per acquas, con i loro acquedotti e le loroterme. Prima dei romani, vi era la Bibbia. L’acqua nella Bibbia non è solo una presenzafisica, sospirata e preziosa, ma è soprattutto e non per caso un simbolo spirituale. Sonoalmeno 1.500 i passi biblici «bagnati» dalle acque. Passi nei quali ci si imbatte in sorgen-ti, fiumi, mari, laghi, ma anche in piogge, nevi, rugiade, pozzi, cisterne, acquedotti, pisci-ne, bagni, torrenti, imbarcazioni, pesci, pescatori. L’acqua racchiude valori simbolici fon-damentali al punto da trasformarsi in un segno stesso di Dio e della sua parola. L’acquarivela anche un profilo terribile, di giudizio e di distruzione: pensiamo solo al diluvio o,più semplicemente, al mare che nella Bibbia è visto come un simbolo del nulla, del caos,della morte. [...]

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Da sempre la civiltà dipende dalla disponibilità di acqua. È stato detto, correttamente, chel’acqua è più importante del petrolio. In un prossimo futuro sarà possibile sostituire ilpetrolio con altre fonti di energia, come quella nucleare o quella solare. Ma non sarà maipossibile sostituire l’acqua. La disponibilità di acqua, va da sé, è essenziale per aumenta-re la produzione agricola in modo da corrispondere all’incremento della popolazionemondiale. A differenza del cibo, l’acqua sta diventando una risorsa scarsa, anche neiPaesi sviluppati. Vi sono innumerevoli segnali. Ad esempio, quest’anno per la prima volta18 milioni di californiani hanno dovuto subire un forte razionamento delle forniture idri-che. Stiamo parlando della parte del mondo più ricca e più innovativa dal punto di vistatecnologico. Ma tutto ciò evidentemente non è bastato. Il progresso tecnologico potràindubbiamente aiutare nel trovare nuove risorse idriche e, soprattutto, nell’usare più effi-cientemente quelle esistenti. Ma il problema non è soltanto tecnologico o risolvibile solocon la scienza. È un problema anche politico, ed anche morale.

4) Cibo e acqua non sono una merce qualsiasi, una commodity qualsiasi da lasciare almercato secondo la logica del profitto. La logica del profitto può senz’altro favorire un’al-locazione efficiente delle risorse. Ma l’efficienza economica ha poco o nulla a che fare conil soddisfacimento dei bisogni primari di chi – regione geografica o classi di cittadini –non dispone delle risorse economiche necessarie per pagare prezzi di mercato. La logica del mercato va correttamente applicata per rendere cibo e acqua più disponi-bili per tutti, in modo efficiente e senza sprechi. Ma non deve essere applicata per ren-dere il cibo e l’acqua un nuovo e formidabile strumento per conseguire profitti privati dimonopolio o rendite di posizione. Come per il cibo, anche per l’acqua sta finendo l’illu-sione pluridecennale di una crescente disponibilità a prezzi sempre più bassi. I governihanno il dovere di adottare le misure necessarie affinché l’acqua non diventi una ragio-ne di separazione sociale tra ricchi e poveri, che si tratti collettivamente di interi Paesi oindividualmente di cittadini, all’interno dei vari Paesi. Serve per questo il principio di unanuova governance del mondo. È per questo che, nel suo grande respiro, si condivide pie-namente il discorso fatto il 23 settembre 2008 per l’Europa, all’Assemblea generale delleNazioni Unite, dal presidente della Repubblica francese: «La comunità internazionale hauna responsabilità politica e morale che noi dobbiamo assumere... non possiamo gover-nare il mondo di oggi, quello del XXI secolo, con le istituzioni del XX secolo... Abbiamoun secolo di ritardo... Non possiamo più aspettare... a trasformare il G8 in G14, per farvientrare la Cina, per farvi entrare l’India, per farvi entrare l’Africa del Sud, il Messico, il Bra-sile. L’Italia propone un grande passo in questa direzione fin dal prossimo vertice cheospiterà. L’Italia ha ragione!». Nel 2008 il suo anno di Presidenza del G8, l’Italia intendeproprio andare avanti invitando tutti gli altri Paesi a compiere insieme un passo avantiverso il futuro. Un futuro che può e deve essere migliore del presente.

Fonte: Giulio Tremonti, Ministro dell’Economia, “Corriere della sera”, 28 settembre 2008

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